La scrittura che ripara di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 20 febbraio 2021 Riflessioni da un’innovativa esperienza di “messa alla prova” iniziata sei anni fa e ancora in itinere. La “giustizia riparativa” è il grande riferimento, l’obiettivo, lo scenario nuovo della giustizia penale ai nostri giorni. Poco conosciuta dalla cittadinanza che dovrebbe esserne coinvolta e partecipe, è tuttavia da ormai qualche anno, oggetto di dibattiti e seminari in cui giuristi, addetti ai lavori e operatori si confrontano, sovente senza trovare una definizione che li trovi tutti d’accordo. La “messa alla prova” per alcuni è “giustizia riparativa”, per altri no. Troppo spesso, infatti, il “lavoro di pubblica utilità” che ne costituisce il nerbo portante risente di un’idea palesemente retributiva: sei imputato di questo reato e, per estinguerlo, devi fare questo quantitativo di ore di “lavoro di pubblica utilità” presso la tal istituzione, la tale cooperativa, parrocchia o associazione. E devi essere anche in grado di dimostrare di averle fatte attraverso un foglio-firme gestito da un responsabile dell’organizzazione accogliente. Il tutto sotto il controllo e con il supporto degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna. La grande “rivoluzione” concettuale impatta, dunque, contro un dovere, una prescrizione. Non è una pena perché la persona è soltanto imputata - quindi potenzialmente innocente - ma il giudice di riferimento è, comunque, il giudice ordinario e l’obbligo è palese: se vieni meno al tuo impegno devi avere valide giustificazioni e porre rimedio recuperando le ore perse; in alternativa rischi di affrontare un processo che, molto facilmente, ti porterà a una condanna perché, tra l’altro, quasi tutte le persone “messe alla prova” sono state fermate in flagranza di reato. All’interno di queste tante ambiguità presenti nella legge 28.04.2014 n° 67 che allarga la “messa alla prova” agli imputati adulti, c’è un riferimento ad “attività riparative, volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, attività di risarcimento del danno dallo stesso cagionato e, ove possibile, attività di mediazione con la vittima del reato”. A questa istanza di riparazione abbiamo voluto indirizzare l’impegno della nostra associazione “Verso Itaca APS” proponendo un percorso di riflessione e consapevolezza che ha due colonne portanti: la scrittura autobiografica e il confronto nel Gruppo. Alla scrittura chiediamo innanzitutto di individuare e, in seguito, riparare le ferite che ciascuno di noi porta dentro di sé e che, direttamente o indirettamente, hanno portato alla commissione del reato. Non sempre ma spesso. La scrittura cerca il filo nascosto che può aiutarci a osservare i nostri errori - ma anche le nostre risorse - e a fare chiarezza dentro di noi. La condivisione con il Gruppo è un atto - al tempo stesso - di generosità e di responsabilità: accetto di mettere a disposizione degli altri la mia esperienza perché possano trarne utilità e ricchezza per la loro vita. Tutte queste storie così diverse e così ricche costituiscono un tesoro di cui alcuni - ma non tutti per la verità - sanno riconoscere a pieno il potenziale formativo. “… Sono partito in questa “avventura” con molti dubbi e perplessità su cosa fosse realmente e sono rimasto piacevolmente stupito di settimana in settimana. Voglio ringraziare te, le ragazze e il Prof. che fate sentire tutti noi veramente un’enorme famiglia anche se fondamentalmente all’inizio di tutto siamo dei perfetti sconosciuti. Credo che il riassunto in modo oggettivo di questa avventura sia “famiglia di sconosciuti” proprio, che a leggerlo così parrebbe un ossimoro ma trovo sia bellissimo. È stato un anno in cui; le prime volte, finita la “riunione” tornavo a casa con sempre più domande, poi a un certo punto, credo forse anche la moltitudine di esse, mi ha fatto scattare la molla di DOVER riuscire a trovare le risposte a tutte queste domande. Ovviamente non sono riuscito a trovarle tutte, altrimenti credo potrei scriverci un libro, ma ho più consapevolezza in quello che dico/penso/faccio e la cosa mi ha davvero stupito in quanto non avrei mai immaginato una cosa simile. Invece il riassunto soggettivo assomiglia più ad un “ho imparato qualcosa” e credo che nella vita sia la base di tutto. Questo percorso mi ha aiutato a riavvicinarmi alla scrittura; oltre agli sms e alle mail c’è un mondo che personalmente ho sempre avuto chiuso o nascosto. Tutto questo mi ha anche aiutato a valutare chi mi sta intorno; mi sono reso conto che, soprattutto in questo periodo, ho dovuto valutare certe persone, alcuni da nuovo, altri invece che sono pilastri (o presumevo che lo fossero) della mia vita e credo che anche questa esperienza mi abbia aiutato ad aprire gli occhi ed essere più selettivo, avere anche più stima di quello che frulla nella mia testa e anche essere un pochino più ‘responsabile’ dai…” Questo è il lungo e incoraggiante messaggio che ci è arrivato via WhatsApp come regalo inatteso da parte di un giovane che, all’inizio, non faceva proprio mistero delle sue perplessità. Non è il nostro un impegno semplice e non è stato nemmeno semplice decidere di riprendere l’attività ancora in pieno lockdown su una piattaforma, lavorando da remoto con i ragazzi più giovani del tutto instabili nello schermo dei loro telefonini. Ma ora, a distanza di circa nove mesi, possiamo dire, senza timore di smentite, che l’esperienza da remoto si è fatta ricca di una nuova forma di intimità: entriamo nelle “stanze della scrittura”, conosciamo bambini, intravediamo mogli o mamme, sentiamo i rumori delle case e riusciamo comunque a preservare il silenzio e la concentrazione che il nostro lavoro richiede. Questa esperienza - di cui tanto ancora ci sarebbe da dire, se non altro per poter anche accogliere dubbi o critiche - può contare su un prezioso confronto generazionale: dall’esperienza ricca di Alberto Gromi alla competente generosità di Cristina, Giada e Valentina tre giovani educatrici professionali - all’inizio solo studentesse universitarie - che dal l’autunno del 2014 sono cresciute con noi, fino all’ingresso, circa un anno fa, di Martina reduce da un’eccellente laurea magistrale in Servizio Sociale conseguita solo pochi giorni fa. Diverse esperienze, sguardi differenti che si offrono al Gruppo per promuovere una crescita comune. Così riteniamo che la “messa alla prova” - tanto arida nelle parole della giurisprudenza - possa essere ricca non solo di indiscutibili contributi professionali ma anche di quei “grandi pensieri che vengono dal cuore” come dice Eugenio Borgna nel suo recentissimo testo che titola proprio così Vietata la lettura del libro di Cartabia perché il detenuto può montarsi la testa di Valter Vecellio Italia Oggi, 20 febbraio 2021 Un paradosso niente male, come spesso se ne incontrano a frequentare il paludato mondo del diritto e delle leggi. Questo, almeno, strappa un sorriso, anche se venato da amarezza. La storia comincia con un libro. Nel carcere di Viterbo c’è un detenuto sottoposto al regime del 41bis. Chiede di poter acquistare il libro, “Un’altra storia inizia qui”. È una riflessione a quattro mani sul carcere e la giustizia. Fatta la regolare domanda, l’autorizzazione all’acquisto viene respinto. È un libro ritenuto pericoloso, una lettura da evitare. L’occhiuto e attento “censore” motiva così il suo no: “Il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti, aumenterebbe il carisma criminale”. I due autori si confrontano a partire dal magistero del defunto arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini. Perbacco! Ora si sorride: chi sono i due autori del libro con questo potere carismatorio che assicura privilegio all’interno di un circuito criminale? Nientemeno che l’ex Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia; e con lei il professor Adolfo Ceretti, docente di criminologia. È la stessa Cartabia che oggi è ministro della Giustizia. La titolare del ministero di via Arenula è persona di cultura giuridica unanimemente riconosciute; coniuga questa sapienza a non comuni doti di umanità; un buon senso che è anche il suo contrario: senso buono. Per inciso è grazie al suo fattivo impegno, quando era vice-presidente a palazzo della Consulta, se per la prima volta dalla sua nascita la Corte Costituzionale ha effettuato una serie di “visite” nelle carceri italiane. Un incontro tra due mondi agli antipodi: la legalità costituzionale da una parte; l’illegalità, la criminalità, la marginalità sociale, dall’altra. I giudici hanno incontrano i detenuti di alcuni istituti penitenziari: Rebibbia a Roma; San Vittore a Milano; Nisida a Napoli; Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova; Terni; Lecce sezione femminile. Stimolante e prezioso incontro da cui è nato un eccellente docu-film, “Viaggio in Italia. La Corte Costituzionale nelle carceri”, del regista Fabio Cavalli. Avrà senz’altro un’agenda fitta di impegni gravosi e delicati, la signora Cartabia. Però, sia consentito un sogno. Sarebbe divertente se un giorno si presentasse al carcere di Viterbo. Un qualcosa tipo: “Buongiorno. Sono il privilegio che fa aumentare il carisma criminale… Mi fate entrare?”. Quel libro vietato è un brutto segnale per il ruolo del sistema penitenziario di Enrico Sbriglia Il Dubbio, 20 febbraio 2021 Il testo scritto da Marta Cartabia con Adolfo Ceretti sul magistero dell’arcivescovo Carlo Maria Martini. Ho letto più volte l’articolo di Damiano Aliprandi apparso su Il Dubbio il 29 gennaio scorso, in cui descriveva una storia “impossibile”. In verità ho sperato, nei giorni successivi, di leggere una smentita delle autorità, le quali precisassero che il cronista, in veste di indagatore dell’incubo penitenziario, avesse semmai erroneamente travisato i fatti e che, con lui, fosse pure in errore lo stesso onorevole Roberto Giachetti, il quale, al riguardo, aveva presentato una interrogazione parlamentare, in quanto la vicenda era troppo seria, troppo grave, perfino paradossale per essere vera, rischiando di accelerare quella percezione, che si sta diffondendo tra i cultori del diritto, del concreto rischio di proiezione del nostro Paese tra gli Stati-canaglia. Damiano Aliprandi, infatti, informava che “L’autorità giudiziaria ha vietato a un recluso al 41bis di Viterbo l’acquisto del libro scritto dall’ex presidente della Consulta Marta Cartabia”, cioè di chi oggi è diventata ministro della Giustizia. La motivazione del rifiuto verso il testo infame risiederebbe sul fatto che “Il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti”, aumentandone il carisma criminale. No, non posso crederci, non è possibile, perché se così fosse, ci si troverebbe innanzi all’impiccamento del diritto penitenziario per mano dell’amministrazione che invece dovrebbe puntualmente attuarlo. Sarebbe, altrimenti, l’ennesima prova del fallimento completo del sistema penitenziario italiano, il quale, oramai, si auto-divorerebbe, non riconoscendo alcuna dignità perfino alle proprie norme fondamentali ed alla sua speciale finalità; norme, tra l’altro, che sono state ispirate nel tempo da illustri giuristi e che trovano coagulo proprio nell’art. 27, comma 3° della Costituzione Italiana. Negare un libro a un detenuto, infatti, sarebbe la perfetta esibizione di una Comunità di operatori penitenziari non solo uccisa moralmente, nel proprio Dna deontologico, ma anche vilipesa. In tempi normali, in tempi in cui il vento giustizialista avrebbe potuto solo fischiare sinistramente tra le fenditure della persiana del buon diritto, la circostanza che un detenuto condannato per gravissimi reati chiedesse di acquistare una pubblicazione del genere, avrebbe riempito d’orgoglio ogni operatore penitenziario: non ci sarebbe stato direttore, educatore, comandante della polizia penitenziaria, agente, cappellano e volontario, psicologo e assistente sociale, che non ne avesse gioito. Ma una richiesta simile avrebbe pure dovuto confortare l’amore di ogni magistrato verso il valore intrinseco della Giustizia, rassicurando, per converso, i cittadini che il denaro speso per il sistema penitenziario fosse davvero ben impiegato, in specie quello corrisposto per gli emolumenti al personale tutto, ivi compresi quelli non certo insignificanti attribuiti ai più alti gradi dell’amministrazione penitenziaria, di fatto provenienti dal mondo giudiziario. La richiesta di un libro della natura di quello di cui stiamo parlando, ottenuto dal detenuto seppure a proprie spese, ma per il tramite dell’amministrazione, avrebbe spiegato il perché si realizzino (oppure non si intende farli più?) corsi scolastici, corsi universitari, corsi di formazione professionale, dibattiti culturali, presentazione di libri, incontri con rappresentanti della cultura; avrebbe fatto comprendere le ragioni per le quali si allestiscano biblioteche, si mettano in scena rappresentazioni teatrali, si promuovano attività sportive, si favorisca il dialogo interreligioso: in poche parole, il perché si promuovano attività trattamentali. Il gesto di un criminale che intendesse acquistare un libro, addirittura scritto da una figura tra le più eminenti dello Stato, dall’ex Presidente della Corte Costituzionale, tra l’altro per la prima volta, ed anche forse troppo tardi, una donna, Marta Cartabia, insieme con il professore Adolfo Ceretti, docente di Criminologia, attraverso il quale entrambi trattano il tema del magistero del compianto arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, sempre vicino al mondo dei detenuti e degli operatori penitenziari, sarebbe stato interpretato, in tempi di non Covid-19 e di sano civismo, come una vittoria del diritto, del buon diritto. È vero, spesso i libri spaventano più delle armi, possono svegliare insopportabili curiosità ed interrogativi, arrivando perfino ad aizzare le folle ed ispirare rivoluzioni, ma mai avrei pensato che potessero trasmettere panico all’interno di quel mondo governato, quantomeno negli intenti pubblici, soltanto dallo Stato il quale, forse, solo grazie alla lettura e ai buoni libri potrebbe scorgere quel cambiamento delle persone detenute che né le sentenze, né tantomeno il carcere duro, potranno mai realmente conseguire. Da una parte un libro e di fronte lo Stato, con tutte le sue polizie, i suoi apparati securitari e le istituzioni deputate alla giustizia. Ora però dovranno spiegarlo chiaramente, anzitutto al Ministro Cartabia, e anche noi, cittadini, abbiamo il diritto ed il dovere di saperlo. *Ex dirigente dell’Amministrazione penitenziaria L’Onu: isolamento? al massimo 15 giorni di Sergio D’Elia Il Riformista, 20 febbraio 2021 41bis, la regola illegale e feroce. Lo dicono le “regole di Mandela” adottate nel 2015 in onore dell’ex presidente del Sudafrica. L’isolamento di Cutolo si è protratto ininterrottamente per più di un quarto di secolo. Un sepolto vivo. Morto Raffaele Cutolo, l’uomo che ha “vissuto” tre vite. La prima l’ha bruciata nell’unica scuola che ha potuto frequentare, quella del crimine, un po’ per strada e un po’ in prigione. La seconda l’ha consumata tra delitti e castighi in un carcere “normale”. La terza vita è stata per lui solo castigo, una pena senza fine espiata al carcere “duro”, fino alla morte. È morto lì dove era stato sepolto vivo nel 1995, nella tomba dei “ma - dosi per sempre”, gli irredimibili, marchiati a vita dalla pena di infamia che si commina a chi perde la dignità di persona, la speranza, il diritto a una vita civile e sociale. Con Maurizio Turco ho incontrato Raffaele Cutolo a Belluno nel 2003, alla fine di un giro tra i dannati del 41bis da cui è poi nato il libro Tortura Democratica. Il regime di carcerazione dura era coperto da un segreto di stato ferreo e la nostra ispezione era considerata una minaccia grave allo Stato e alla sicurezza pubblica. Non potevamo sapere chi erano i detenuti speciali, quanti erano e dove erano detenuti. Da una audizione in parlamento dell’allora capo del Dap sapevamo solo che il 41bis non albergava “al di sotto di Secondigliano”. Avevamo un punto di partenza e con il già visto e sentito dire dei detenuti potevamo creare la nostra catena di Sant’Antonio che, anello dopo anello, ci avrebbe portato a scoprire la mappa delle Guantánamo italiane. Cutolo era stato isolato in un’area del carcere riservata tutta a lui. Avevano creato un deserto dove il tempo sembrava essersi fermato, in un luogo non luogo dove regnavano il silenzio, la monotonia e la monocromia tipiche del braccio della morte. In questo deserto chiamato civiltà, quintessenza della privazione della libertà, nel nome della lotta alla mafia, Cutolo era sottoposto a un dominio pieno e incontrollato, un regime di isolamento che lo Stato ha riservato ai nemici dello Stato. Le “regole di Mandela”, adottate dall’Onu nel 2015 in onore dell’ex Presidente del Sudafrica, Nelson Mandela, definiscono isolamento il confinamento per 22 ore o più senza significativi contatti umani e proibiscono perché inumano l’isolamento prolungato, quello superiore e 15 giorni. L’abbandono di Raffaele Cutolo sul binario morto del sistema penitenziario italiano si è protratto senza interruzioni per oltre 25 anni. La privazione di significativi rapporti umani è durata un quarto di secolo. In questo stato, sono stati compromessi sensi umani fondamentali come la vista e l’udito, sono state interdette facoltà sociali minime come il dialogo e la conoscenza. Gli è stato proibito dire al detenuto nella cella di fronte “buonanotte” prima di dormire o “buon appetito” prima di mangiare perché tali convenevoli avrebbero potuto veicolare un messaggio mafioso. Proibito vedere, proibito sentire, proibito parlare, proibito pensare, proibito amare. È questo il “codice penitenziario del nemico” che vige ormai da trent’anni nel nostro Paese. Neanche l’età avanzata fino alla soglia naturale del trapasso, una malattia che lo ha scarnificato fino a ridurlo a un mucchietto di ossa, una mente quasi del tutto offuscata, hanno salvato Raffaele Cutolo da un castigo eterno da scontare in un buco, in catene, in isolamento. È morto come un cane, solo e abbandonato nella sua cuccia, senza il conforto di una carezza, una parola, un addio da parte di ima persona da lui amata, in un luogo a lui caro. Un giudice gli ha negato perfino il differimento provvisorio della pena perché il boss, pur moribondo, rappresentava ancora un pericolo, non aveva perso tutto il suo carisma, rimaneva ancora un simbolo del male nell’immaginario collettivo. Cosa si pensa di fare, ora che è morto. del suo corpo per cancellare il valore simbolico della sua persona? Dopo aver vietato il funerale, gli negheranno anche una degna sepoltura? Lo seppelliranno in un’altra “area riservata”? Una tomba del 41bis anche al cimitero? Oppure faranno come con Bin Laden, bruceranno il suo corpo e spargeranno le ceneri nell’Oceano? Con Cutolo è morto anche lo stato di diritto, lo stato di grazia e giustizia, il senso cristiano di pietà. Il diritto non è un lusso, è un bene essenziale. È il limite insuperabile, la soglia sacra dell’inviolabile che noi Stato, noi comunità fissiamo e imponiamo a noi stessi, nel momento in cui dobbiamo affrontare il male assoluto, il pericolo pubblico, la minaccia terribile alla nostra pace e alla nostra sicurezza. Senza il rispetto del diritto lo stato diventa delittuoso, senza il dono della grazia la giustizia diventa disgraziata. Per questo diciamo “no” alla tortura, “no” alla pena di morte, “no” alla pena fino alla morte, “no” alla morte per pena. Con Cutolo, lo Stato ha superato il limite invalicabile, ha violato la soglia sacra, e ha mostrato la sua faccia feroce. Lo ha tenuto in galera per cinquantasette anni, lo ha condannato alla pena di morte mascherata dell’ergastolo, per un quarto di secolo lo ha sottoposto a un regime di tortura, lo ha sotterrato nella fossa comune dei sepolti vivi. Uno Stato che si comporta così non è uno stato forte, è uno Stato feroce e violento tanto quanto il delitto dell’uomo che ha condannato e punito fino alla morte. Povero Stato! Fai letteralmente pena. Povera Italia! Un tempo (ormai lontano) culla, oggi tomba del diritto. Non è un mondo migliore, non è una società più civile ciò che resta dopo la morte di Raffaele Cutolo. Se questo è lo Stato che emerge, se questa è la giustizia che è stata fatta. Non sono i boss vittime del 41bis ma la Costituzione di Viviana Lanza Il Dubbio, 20 febbraio 2021 “Esiste una norma costituzionale, l’articolo 27, che stabilisce che la detenzione debba avere una finalità punitiva ma anche rieducativa: il regime carcerario del 41bis incarna la negazione ontologica di questo principio. Impossibile individuare la finalità precipua voluta dai Padri Costituenti nell’isolamento del detenuto da chiunque, dagli stessi affetti primari, negare il diritto a ricevere e leggere libri o ricevere determinati cibi. E questo per sempre quando la durata della detenzione coincide col fine vita. Questa disumanizzazione non può in alcun modo essere identificata con la finalità rieducativa imposta dalla Costituzione ma si giustifica con l’unica esigenza di mostrare capacità repressiva coincidente con la presunta capacità dello Stato di contenere i fenomeni criminali. Ciò che appare sempre più evidente è l’esigenza di mostrare contrapposizione impositiva cieca e apodittica”. Lo afferma l’avvocato Mara Esposito Gonella, componente del consiglio direttivo del Carcere Possibile, partecipando alla riflessione sulla necessità di un carcere più umano che la storia di Raffaele Cutolo ha riportato di attualità. “L’umanizzazione, il riconoscimento dei diritti dei detenuti anche del cosiddetto carcere duro - spiega - non costituirebbe un segno di debolezza dello Stato ma, al contrario, un segno di civiltà che avanza”. “Un pregevole esercizio politico sarebbe avere la capacità di sensibilizzare l’opinione pubblica a comprendere che il carcere ha questa funzione senza cavalcare la segregazione come unica vittoria sulla criminalità”. L’esperienza di molti altri Stati europei dimostra che un carcere più umano e più rieducativo che punitivo è possibile, basterebbe deporre la sciabola del giustizialismo. La morte di Cutolo in carcere, in regime di carcere duro, senza alcuna clemenza o considerazione per l’età avanzata e lo stato di salute sempre più precario, “ha siglato la sconfitta dei principi costituzionali, della finalità della pena e della funzione normo regolatrice dello Stato - osserva l’avvocato Annamaria Ziccardi, presidente del Carcere Possibile, la Onlus della Camera penale di Napoli impegnata per la tutela dei diritti dei detenuti - Le analisi, sia pur retrospettive, devono rappresentare un percorso, una luce, un monito”. Di qui l’appello del Carcere Possibile rivolto al nuovo ministro della Giustizia Marta Cartabia “che già tanta sensibilità ha mostrato verso la inquietante deriva del tema penitenziario”. I detenuti scrivono alla Guardasigilli: “Ci ridia la dignità e il rispetto che ogni persona merita” di Liana Milella La Repubblica, 20 febbraio 2021 Drammatico appello, scritto a mano e con tutte le firme in calce, dei reclusi nel carcere romano che lamentano, per via del Covid, una detenzione dura, in sei in una cella, senza poter vedere da mesi le famiglie e i figli, e senza poter usufruire dei trattamenti. Scritto a mano, e sottoscritto dai detenuti di Rebibbia. Un drammatico appello per la Guardasigilli Marta Cartabia che, proprio oggi su Repubblica, mette il carcere tra le priorità del suo programma di governo da ministro della Giustizia. E basta leggere la lettera per comprendere come abbia ragione Cartabia quando dice che nelle prigioni vanno garantititi i diritti umani e la funzione rieducativa della pena scritta nella Costituzione. Ma proprio leggendo “l’accorato appello” dei detenuti di Rebibbia si ha la conferma che il mondo delle patrie galere, purtroppo, non va affatto in questa direzione. Come del resto aveva testimoniato il “Viaggio nelle carceri” condotto dalla Corte costituzionale, che aveva visto sette giudici, tra cui la stessa Cartabia, entrare in altrettanti penitenziari. E il viaggio, con l’ex presidente Giorgio Lattanzi, era partito proprio da Rebibbia in una giornata di grandi emozioni nel momento del primo incontro dei detenuti da una parte, dei giudici costituzionali dall’altra. La lettera - “Gentile professoressa - scrivono adesso i detenuti - le chiediamo di adoperarsi affinché possa esserci restituita quella condizione di rispetto che ogni persona meriterebbe e che invece, da ormai troppo tempo, ci è sottratta, la dignità”. Essere colpevoli e scontare una pena non può comportare anche la rinuncia ai propri diritti. Scrivono ancora i detenuti di Rebibbia: “A causa dei nostri errori portiamo giustamente la nostra croce quotidiana, tuttavia non riteniamo corretto che a questo peso se ne aggiungano altri a causa dell’inefficienza del sistema penitenziario”. E qui segue l’accorata denuncia di una situazione ormai abituale per le carceri italiane dove però l’esplosione della pandemia ha aggravato le carenze e le inefficienze del sistema. Con il blocco dei colloqui, lo stop ai pacchi dall’esterno, le docce negate per via della promiscuità da Covid, le ore d’aria cancellate. “L’avvento della pandemia - scrivono i detenuti di Rebibbia - ha peggiorato le condizioni di vita di chi è costretto a vivere 24 ore su 24 in celle di 20 metri quadri con sei persone”. È l’antico male del sovraffollamento che, nonostante i numeri dei detenuti siano calati - da oltre 60 a 51mila - continua a ripresentarsi. Il primo e terribile effetto, sin dal marzo 2020, è stata la riduzione dei colloqui e dei contatti con i familiari, ritenuti possibili agenti patogeni che potevano introdurre il virus nelle celle. È divenuto impossibile “incontrare i propri cari”, con la conseguenza che alcuni rapporti sono stati definitivamente recisi. I detenuti di Rebibbia segnalano il drammatico rapporto con i loro figli. “Tantissimi bambini, anche in tenera età, non vedono il proprio genitore da troppo tempo”. E secondo chi ha scritto alla neo Guardasigilli “nessun rimedio concreto è stato adottato dalle autorità competenti” per risolvere il problema. Perché certamente “non possono bastare pochi minuti di videochiamata per tenere in piedi i legami affettivi”. Il Covid “ha anche bloccato da mesi ogni attività di studio e di lavoro” condannando di fatto i detenuti alla più completa inattività. Senza contatti con le famiglie, ma solo pochi minuti di videochiamata, senza un sostegno terapeutico interno, senza ora d’aria, senza il lavoro dentro il carcere. Una situazione “disperata” che, denunciano i detenuti di Rebibbia, “stiamo vivendo da troppo tempo”. I detenuti, nella lettera, citano Voltaire quando scrive “il grado di civiltà di una nazione si misura osservando le condizioni delle sue carceri”. E poi fanno appello a Cartabia perché, “discostandosi dall’inerzia del precedente esecutivo si allinei agli altri Paesi che sono intervenuti con misure urgenti e straordinarie”. Giustizia, Cartabia chiede unità: basta scontri su carceri e processi di Liana Milella La Repubblica, 20 febbraio 2021 Come avvenuto sulla prescrizione, la Guardasigilli punta al dialogo tra i partiti sui dossier più urgenti. A partire dall’utilizzo dei fondi Ue. Marta Cartabia parte dal “metodo”. Quello di una Guardasigilli che non farà “giustizia” a colpi di decreti. Né tantomeno di forzature. Bensì di “dialogo” con le forze politiche per ottenere un risultato “condiviso”. Dopo decenni in cui s’è vista la giustizia come luogo principe dello scontro tra giustizialisti e garantisti, decolla un “metodo” nuovo, quello del confronto che punta ad ottenere un risultato migliore e condiviso. Buoni propositi? Libro dei sogni? No, realtà. Come s’è visto giovedì sera quando, sulla questione più drammaticamente divisiva della giustizia - la prescrizione - Cartabia ha fatto un piccolo miracolo. Questione di “metodo”, appunto. E, va detto, anche del suo prestigio di ex presidente della Consulta e di studiosa del diritto di fama internazionale. Ma nella sala del governo di Montecitorio non si è gridato. M5S non si è accapigliata con Forza Italia, né la Lega con il Pd, Italia viva era soddisfatta, Costa di Azione poteva vantare di aver aperto la via al ritiro degli emendamenti nel Milleproroghe. Ma è stata la Guardasigilli Cartabia - che certo non ha esperienza parlamentare - a spiazzare tutti quando ha messo sul tavolo, tirandolo fuori dalla sua borsa, l’ordine del giorno già scritto che poi tutti hanno condiviso. Ma cosa significa “metodo Cartabia”? Vuol dire partire da quello che c’è sul tavolo, capire le ragioni dei problemi, ascoltare tutti e proporre una sintesi “alla luce dei principi costituzionali ed europei”, come Cartabia ha ripetuto anche giovedì. Con il suo “metodo” la ministra tenterà di risolvere gli inevitabili punti di dissenso tra le parti - attenuando gli scontri, in un clima di confronto - per risolvere le grane della giustizia. Partendo da dossier più urgenti che in questa settimana si sono già accumulati sul suo tavolo. Dove, in bella vista, c’è quello del Recovery fund, 2,7 miliardi di euro destinati al personale e alla digitalizzazione, cioè gli architravi tecnici su cui far camminare rapidamente i processi civili e penali. Ecco, subito dopo, il dossier sul Covid, l’emergenza che incombe anche sulla giustizia e sul carcere. Un pianeta, quest’ultimo, fatto non solo di detenuti, ma anche di agenti penitenziari, di operatori, che, come dice Cartabia, “non sono solo dei numeri”, ma rappresentano altrettante vite. A chi sta in cella “va garantito il rispetto dei diritti umani”, come Cartabia ha detto visitando le carceri da giudice costituzionale, ma anche “la certezza che la pena sia scontata nel senso indicato dalla Costituzione”. In bella vista, sul tavolo di Cartabia, ci sono le riforme del processo civile e penale. Che già vedono in Parlamento i disegni di legge del suo predecessore Alfonso Bonafede. Con il noto carico di polemiche. Ma Cartabia intende guardare avanti. E qui varrà il suo “metodo”: si parte da lì, si ascoltano i partner della maggioranza, si cerca insieme una sintesi, non si fanno riforme a colpi di decreto, bensì leggi delega, sui quali governo e Parlamento devono trovare un perfetto equilibrio. Ma, per Cartabia, non saranno sufficienti solo le riforme sui processi, perché per accelerare i tempi della giustizia non basta puntare sulle formule numeriche che garantiscono un tot di tempi ai tre gradi di giudizio, ma servono tribunali efficienti, serve personale adeguato e qualificato. Per questo Cartabia vuole accelerare i concorsi, sia quelli per i magistrati, che quello per gli avvocati, dove 26mila iscritti attendono ancora di fare le prove scritte e, Covid permettendo, se ne riparlerà in primavera. È aperto il dossier delle toghe onorarie, 5mila anime inquiete, protagoniste di scioperi della fame e flash mob, che attendono solo l’occasione di essere considerate come protagoniste di un dialogo con il Guardasigilli. Insomma, la formula della “giustizia celere” non è fatta solo di una legge che fissa i tempi dei processi, ma è fatta di uomini sulle cui gambe la giustizia stessa cammina. Per esempio quelle del futuro capo dell’ispettorato di via Arenula, poltrona adesso vacante, che non avrà solo il compito di scoprire le toghe inette per punirle esercitando la giustizia disciplinare, ma anche quello di esercitare una sorta di vigilanza collaborativa. Perché, secondo Cartabia, per puntare alla giustizia in chiave europea di cui ha parlato il premier Draghi, è indispensabile spingere verso la riorganizzazione dei tribunali per diffondere le “good practices” che pure già esistono, ma sono ancora delle isole. Giustizia, la prima mossa politica è della “tecnica” Cartabia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 febbraio 2021 Prescrizione. La neo ministra giovedì sera, appena Draghi ha terminato la sua replica in aula, ha riunito alla Camera i capigruppo di maggioranza nelle Commissioni giustizia. Favorendo un accordo sul testo di un ordine del giorno che sarà presentato lunedì. E ieri ha inaugurato il suo mandato andando a far visita al Garante dei detenuti Palma. Camera dei deputati, giovedì sera. Mario Draghi ha appena finito la sua breve replica alla discussione generale sulla fiducia. Un po’ a sorpresa ha parlato anche di giustizia penale e delle carceri sovraffollate. Ha promesso impegno per “un processo giusto e di durata ragionevole, che rispetti tutte le garanzie costituzionali”. Cominciano le dichiarazioni di voto, ma non le ascoltano i deputati e senatori capigruppo nelle commissioni giustizia che si radunano nella sala del governo a Montecitorio per la prima riunione politica della nuova maggioranza. A volerla è la ministra “tecnica” per eccellenza, l’ex presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, che si muove con grande accortezza politica. Il suo primo obiettivo è sminare lo scontro sulla prescrizione. Cartabia, nei quattro giorni che sono passati dal giuramento, ha già fatto il primo lavoro. Ai rappresentanti della maggioranza radunati dal ministro D’Incà si presenta con un testo, un ordine del giorno. Propone di farlo approvare alla prima occasione, che è proprio quella del passaggio in aula, lunedì, del decreto Milleproroghe dove sarebbe potuta esplodere la mina prescrizione. In realtà anche i partiti decisi a smontare la riforma dell’ex ministro Bonafede - il centrodestra più Iv e +Europa Cambiamo - hanno già annunciato che non insisteranno con gli emendamenti che avrebbero messo in crisi la maggioranza al suo debutto. Gli emendamenti residui, dopo una serie di rinvii ieri, si voteranno oggi nelle commissioni riunite affari costituzionali e bilancio. Ma la neo ministra non vuol lasciar cadere l’occasione di fissare un punto, in linea con quanto detto da Draghi in aula. Non c’è solo la giustizia civile negli impegni del nuovo governo, anche la giustizia penale avrà attenzione. Offre così ai nuovi arrivati nella maggioranza l’impegno a sterilizzare gli effetti negativi della riforma Bonafede sulla durata dei processi. Ma senza troppa fretta, spiega, perché gli effetti della legge grillina - la cosiddetta “Spazza-corrotti” - che cancella l’istituto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, si vedranno tra anni (quando, appunto, la prescrizione avrebbe cominciato a fare effetto, spingendo per la definizione dei processi). Un po’ è vero. Un po’ non lo è, perché tenere aperto a lungo un regime che si intende cambiare non fa che complicare ulteriormente i calendari delle udienze. Nell’ordine del giorno proposto dalla ministra c’è l’impegno del governo ad assicurare tempi ragionevoli del processo (richiamato l’articolo 111 della Costituzione) “assicurando al procedimento penale una durata media in linea con quella europea” nel pieno rispetto “dei principi del giusto processo, dei diritti fondamentali della persona e della funzione rieducativa della pena”. E tutto questo si impegnano a firmarlo anche i leghisti. “È stato un incontro molto positivo - dice il capogruppo Pd in commissione giustizia alla camera Alfredo Bazoli - i nodi delicati come la prescrizione vanno affrontati dentro il campo più largo del processo penale per trovare soluzioni condivise”. “È un’inversione a U rispetto all’approccio giustizialista di Bonafede”, approva il forzista Pierantonio Zanettin. E Federico Conte di Leu, autore dell’ultima mediazione tra Pd, Iv e M5S sulla prescrizione, spiega che se i due governi precedenti della legislatura si sono affrontati sul tema a colpi di tesi e antitesi, “quello in carica può trovare la sintesi”. Resta un problema, perché Lega e Fi non vorrebbero che il testo di legge dove introdurre questa sintesi sia la legge delega di riforma del processo penale già avviata (prevista anche dal vecchio Recovery plan). Gli ex giallo-rossi insistono. La ministra ha chiesto tempo: “Fatemi entrare dentro i dossier”. Ma chiudendo la riunione ha detto che il lavoro già fatto non va sprecato. E ieri mattina la sua prima visita Cartabia l’ha fatta al garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma. Quello che per i leghisti era “il garante dei delinquenti”. Sulla prescrizione ora decide Cartabia di Errico Novi Il Dubbio, 20 febbraio 2021 Incontra i partiti e li vincola a un ordine del giorno: la riforma penale assicuri processi giusti e non eterni. Poi vede il Garante dei detenuti. La lite sulla prescrizione va avanti da più di tre anni. Alla guardasigilli Marta Cartabia sono bastati tre quarti d’ora per sistemare la questione. Giovedì sera, in un incontro a Montecitorio con i responsabili Giustizia della maggioranza, ha messo a punto un ordine del giorno sulla giustizia penale. Condiviso da tutti e chiarissimo: le “modifiche normative” in arrivo dovranno intervenire sulla riforma del processo “nel pieno rispetto della Costituzione”. Con Marta Cartabia converrà ricorrere a uno specifico aggiornamento formativo. Semplice, in fondo. Testo di riferimento: le sentenze della Corte costituzionale. Nella loro parte conclusiva in genere sono scritte con un periodo molto lungo, densissimo, che ha nella sua ampiezza il pregio di contenere tutto, ma proprio tutto, pur senza entrare nei dettagli. Sono affermazioni di principio astratte in grado di contemplare tutti i possibili casi concreti. Bene. La tecnica del “lodo Cartabia” sulla prescrizione, proposto dalla ministra giovedì sera e fulmineamente condiviso da tutta la maggioranza, è come una sentenza della Consulta. Basta leggerlo. Forma scelta: ordine del giorno, che sarà messo ai voti nelle prossime ore alla Camera, collegato al decreto Milleproroghe. Il testo impegna il governo “ad adottare le necessarie iniziative di modifica normativa e le opportune misure organizzative volte a migliorare l’efficienza della giustizia penale, in modo da accertare fatti e responsabilità in tempi ragionevoli (articolo 111 della Costituzione), assicurando al procedimento penale una durata media in linea con quella europea, nel pieno rispetto della Costituzione, dei principi del giusto processo, dei diritti fondamentali della persona e della funzione rieducativa della pena”. C’erano capigruppo e responsabili Giustizia di tutti i partiti che sostengono il governo Draghi. Come nelle sentenze della Corte, la norma sulla prescrizione non è esplicitamente evocata, ma è il punto di caduta sostanziale. L’assunto induce al ritiro degli emendamenti “anti Bonafede” anche Forza Italia, la Lega e Italia viva, in linea con quanto già comunicato martedì da Enrico Costa (Azione) e Riccardo Magi (+ Europa). Ma è evidente la norma Bonafede cambierà, e che sarà corretta ben oltre il lifting del “lodo Conte bis”. Cartabia si muoverà sì in modo da assicurare “effettività nell’accertamento dei reati e delle responsabilità personali”. Ma anche secondo i principi costituzionali del “giusto processo” e della “funzione rieducativa della pena”. Cosa vuol dire? Primo: il giusto processo, secondo l’evocato (dalla guardasigilli) articolo 111, è quello che si celebra a una distanza non smisurata dal presunto illecito, altrimenti è impossibile per l’imputato difendersi, trovare chi si ricordi cosa avvenne davvero e possa testimoniare in suo favore. Secondo: se la durata deve essere “ragionevole” in modo da essere anche compatibile con la “funzione rieducativa della pena”, vuol dire che non ha senso condannare qualcuno trent’anni dopo il fatto, quando cioè è un’altra persona (non ha senso se non per i reati più gravi, che non si prescrivevano mai già prima di Bonafede). Ergo, la ministra reintrodurrà eccome una prescrizione, un limite massimo oltre il quale il processo non va avanti, altrimenti il processo diventa ingiusto e la pena non è rieducativa, ma vendicativa. I tempi? Il Movimento 5 Stelle tira un sospiro di sollievo: la norma Bonafede non sarà congelata da emendamenti al Milleproroghe. Ma non si tratta di un rinvio alle calende greche. Lo sanno bene anche i due pentastellati presente alla riunione: il ministro ai Rapporti col Parlamento Federico d’Incà e, soprattutto, Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera, dov’è in discussione il ddl penale. Cartabia ha sì ricordato che la norma Bonafede, seppur già in vigore da Capodanno 2020, “dispiegherà i propri effetti non immediatamente”, e che la fretta compulsiva non serve. Ma la logica va benissimo anche agli altri protagonisti del vertice: i capigruppo in commissione Giustizia del Pd, Alfredo Bazoli, della Lega, Roberto Turri, e di Leu, Federico Conte. E poi Enrico Costa di Azione e il responsabile Giustizia di FI Francesco Paolo Sisto. E per capire il senso del loro sollievo, torna utile quanto detto poche ore dopo l’incontro, cioè ieri mattina, da Bazoli: “Ho manifestato, per conto del Pd, apprezzamento per l’approccio e il metodo, volti alla più larga condivisione dei percorsi su cui fare incamminare le riforme. E ho condiviso la proposta, che ricalca quanto abbiamo più volte suggerito per la nuova fase politica: affrontare nodi delicati e difficili come quelli della prescrizione dentro il campo più largo della riforma penale, per trovare soluzioni condivise che tengano insieme i principi di rango costituzionale della ragionevole durata, delle garanzie dell’imputato, dei diritti della persona offesa”. Poi il passaggio decisivo: “Abbiamo suggerito alla ministra di non sprecare il lavoro fatto in commissione sul ddl di penale già incardinato da mesi, e anzi di partire da lì per individuare le soluzioni tecniche su cui lavorare”. Proposta ben accolta da Cartabia. Il che però dice tutto sui tempi: non si tratterà di un lavoro di là da venire, in capo a lunghe mediazioni. Non può essere così perché i tempi del Recovery non lo consentono: le riforme del processo servono anche a rassicurare chi elargirà quei fondi, cioè l’Unione europea. E ancora, come Bazoli sa, il termine per proporre emendamenti alla riforma penale non arriverà chissà quando: è fissato di qui a un paio di settimane, cioè l’ 8 marzo. Cartabia potrà convenire su una proroga, magari di un mese. Ma se per scrivere un ordine del giorno su un dilemma che ha provocato la caduta del precedente governo le è bastata mezz’ora di riunione a Montecitorio, per superare il “lodo Conte bis” e ripristinare un limite massimo di durata ai processi, e cioè reintrodurre la prescrizione nei casi più gravi, non avrà certo bisogno di un’intera legislatura. Al massimo un mese, appunto. Prescrizione congelata. Ecco il piano di Cartabia per processi più veloci di Francesco Grignetti La Stampa, 20 febbraio 2021 Tregua nella maggioranza, ma Bonafede vuole la Commissione giustizia. Il gesto distensivo della ministra che va alla Camera dai capigruppo. Marta Cartabia fa la prima mossa da ministra sulla scacchiera della politica e vince. A sorpresa l’altra sera si è presentata alla Camera e ha chiesto un incontro con i capigruppo della maggioranza. Non capita quasi mai che il ministro Guardasigilli vada dai parlamentari; in genere li convoca. Mosse significative, come quella di ieri, quando ha scelto di visitare gli uffici del Garante per i diritti dei detenuti, Mauro Palma, un modo plateale per sottolineare la sua attenzione, finora dottrinale, domani concreta, al mondo delle carceri. Giovedì la ministra aveva l’urgenza di parlare della prescrizione, ovvero gli emendamenti al decreto Milleproroghe contro la riforma che porta la firma del grillino Alfonso Bonafede, e che potevano portare a un’immediata esplosione delle tensioni. In tasca, Cartabia aveva un ordine del giorno che hanno poi firmato tutti. È uscita insomma dalla riunione, tenutasi nella sala del governo, con un’inattesa tregua e un generale apprezzamento. Sulla prescrizione, seguendo l’invito della ministra (“evitiamo strappi, c’è il tempo per ragionare”) è stata stipulata una “pax” che durerà qualche tempo. Nel frattempo lei studierà i testi ereditati da Bonafede e tra questi la riforma del processo penale: se funzionasse, e i tempi si velocizzassero, allora la questione della prescrizione perderebbe di forza. Sia a mantenerne lo stop, sia a ripristinarla. La soluzione Cartabia sarà un prossimo disegno di legge delega, entro il quale sarà affrontato, come recita l’ordine del giorno, “il nodo della prescrizione all’interno delle riforme del processo penale, nell’ambito cioè di un disegno più organico che consenta il bilanciamento dei principi costituzionali”. Ha spiegato infatti la ministra, con il piglio di ex presidente della Corte costituzionale, che occorre contemperare l’efficacia della giustizia con i diritti degli imputati, la ragionevole durata del processo con la necessità di un processo giusto. E ha poi spiegato che il tempo per operare c’è, dato che i primi effetti pratici del blocco della prescrizione si vedranno a partire dal 2024 per le contravvenzioni e dal 2025 per i reati minori. Nelle stesse ore, Draghi, che procede in stretto coordinamento con la ministra, rimarcava in Aula uguali concetti, invocando un processo che “rispetti tutte le garanzie e i principi costituzionali, che richiedono ad un tempo un processo giusto, e un processo di una durata ragionevole”. La traiettoria politica è segnata, insomma. Si sospendono le ostilità e si prova a ragionare su una riforma del processo penale che funzioni sul serio. Dice perciò Alfredo Bazoli, Pd: “Ho condiviso la proposta. Ricalca quanto abbiamo più volte suggerito per la nuova fase politica: affrontare nodi delicati come quelli della prescrizione dentro il campo più largo della riforma del processo penale”. Gli fa eco Enrico Costa, Azione: “Bene il metodo, di rispetto per il Parlamento. Ora però viene il difficile: calibrare una riforma che sia efficace sul serio”. Si respira molta speranza anche nel centrodestra, specie dopo avere sentito un Draghi così chiaro sulle garanzie e i tempi del Giusto Processo. Sulla voglia di lavorare assieme, si staglia però un’ombra: l’ex ministro Bonafede vuole tornare alla commissione Giustizia, forse con il ruolo di capogruppo M5S. È evidente che se intende battagliare per una difesa a oltranza delle sue proposte, così indigeste a tutti gli altri, si rischia un clima da scontro continuo. Con buona pace della tregua. Dice intanto una voce molto addentro alla materia: “I grillini non hanno più quel peso determinante che avevano. Dovranno rendersi conto che non possono più imporre diktat”. La trincea sulla giustizia per non far sbriciolare il Movimento 5 Stelle di Rocco Vazzana Il Dubbio, 20 febbraio 2021 Le parole della Guardasigilli sulla prescrizione mettono in allarme la dirigenza pentastellata. Cosa avrà in mente la neo ministra della Giustizia Marta Cartabia quando parla di impegno ad affrontare il nodo della prescrizione all’interno della riforma complessiva del processo penale? È questa la domanda che alcuni grillini cominciano a porsi mentre il partito perde pezzi, smatellato a colpi di scomuniche ed espulsioni. Non è il momento di mettere altra carne al fuoco, dopo l’allontanamento dei ribelli, indisponibili ad abbracciare con entusiasmo la svolta “draghiana” voluta fortemente da Beppe Grillo. La giustizia è il core business del Movimento 5 Stelle e la riforma della prescrizione è l’applicazione pratica di una visione secca sintetizzabile in due slogan: “Al primo dubbio, nessun dubbio”, come amava ripetere Gianroberto Casaleggio, e “sei innocente non finisci in carcere”, per citare l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ed è su questa nettezza senza sfumature, sul sospetto metro di purezza, che i grillini hanno conquistato il cuore, e la pancia, di milioni di elettori. E chiedere ai grillini un’abiura pure sulla prescrizione sarebbe troppo. Soprattutto perché i fuoriusciti hanno già iniziato bombardare il quartier generale pentastellato con accuse di “tradimento” ai valori fondanti. Il vocabolario retorico di un’intera vita politica scagliato addosso ai vertici 5S, ormai diventati responsabili. Un esempio? Le parole utilizzate da Andrea Vallascas, deputato espulso per l’insubordinazione a Draghi, che nel commentare la sua lettera di “licenziamento” dal Movimento risponde così a Vito Crimi: “La mia coscienza, il mio Paese, verranno sempre prima di un diktat politico partorito per ragioni di puro calcolo da persone con la sensibilità istituzionale del nostro Capo Politico, che non si scompone di sedersi gomito a gomito con gli eredi politici di Dell’Utri ma poi si mette in cattedra e darci lezioni di etica e coerenza”. Quelle di Vallascas non sono semplicemente parole dettate dalla rabbia e dalla delusione, contengono l’intero immaginario politico del grillismo, formato da due squadre contrapposte: onesti e disonesti. E basta solo citare la nuova alleanza di governo con Forza Italia - o un suo storico esponente - per ascrivere Crimi e compagni all’altra squadra, quella dei conniventi, nella logica dei dissidenti (“al primo dubbio, nessun dubbio”). La prescrizione diventa di conseguenza l’ultima trincea da cui non schiodare per il M5S, per evitare che l’intera struttura crolli. I grillini si aggrappano così alla parte rassicurante del discorso di Cartabia, a quella non urgenza di metter mano alla riforma Bonafede per dedicarsi alla riforma più ampia del processo penale. Guadagnare tempo prezioso prima di possibili ritocchi alla prescrizione e procedere spediti all’epurazione del dissenso senza tentennamenti. È questa l’esigenza immediata. Sono già 36 - 15 senatori e 21 deputati - i parlamentari messi alla porta. E pazienza se, con questi numeri, i dissidenti potranno creare un Gruppo in entrambe le Camere, Grillo non vuole avere più niente a che fare col passato. Passato da cui proviene anche il simbolo che probabilmente verrà messo a disposizione degli epurati per aver diritto a una rappresentanza organizzata Parlamento: l’Italia dei valori, l’antenato del Movimento 5 Stelle. Buona parte dell’armamentario sull’onestà, infatti, proviene proprio dal partito fondato dall’ex pm di Mani pulite, che adesso potrebbe essere rianimato. Per questo gli espulsi rivendicano la loro fedeltà allo spirito originario contro la deriva governista. Un’argomentazione che non lascia indifferenti alcuni esponenti di peso del M5S, come Paola Taverna, critica con l’operazione Draghi ma non al punto di uscire dai ranghi, che spera ancora in un “reintegro” dei ribelli. “Ricordo che tanti colleghi che hanno votato in dissenso sono parte fondamentale del Movimento, oltre che amici fraterni e compagni di tante battaglie. Serve unità adesso, perché proprio in questo momento comincia la nostra più grande partita”, scrive su Facebook la vice presidente romana del Senato. Persino il collegio dei probiviri, l’organismo che dovrebbe certificare il cartellino rosso per la “fronda”, si spacca, con una componente su tre, Raffaella Andreola, che chiede la sospensione dei provvedimenti. Perché tra le “pedine” sacrificate figurano anche personaggi chiave della storia pentastellata: l’ex ministra per il Sud Barbara Lezzi e, soprattutto il presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra. Molti eletti temono che buttare fuori esponenti di quel calibro significa esporre il partito al fuoco martellante di Alessandro Di Battista, che oggi ha convocato militanti e simpatizzati per una diretta su Instagram alle sei del pomeriggio. Anche per questo, tenere il punto sulla prescrizione non sarà solo questione politica, ma di sopravvivenza. Rossomando (Pd): “Civile e penale devono essere riformati insieme” di Simona Musco Il Dubbio, 20 febbraio 2021 L’argomento eterno è quello della ragionevole durata del processo, ma l’esperienza obbligata della pandemia ha aggiunto anche altri temi, che vanno perfezionati. E non bisogna lasciare indietro il penale e il carcere, perché una pena in grado di rieducare per davvero restituisce molto alla società anche in termini economici. A dirlo è la dem Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, che non rinuncia alla strategia del suo partito: affrontare parallelamente le due riforme e arrivare ad una loro approvazione in tempi ragionevoli. Il Pd non vuole mollare la presa sul penale. Però la Commissione europea ha insistito, in maniera particolare, sulla riforma del processo civile... Questo per via del fortissimo legame che ha con lo sviluppo, con il sistema creditizio e quello imprenditoriale e con i diritti dei singoli e delle imprese. La novità è che con il Recovery abbiamo a disposizione un investimento senza precedenti. Si parla di 2- 3 miliardi, con capitoli di spesa che riguardano anche le cittadelle giudiziarie. Risorse che ci danno la possibilità di intervenire sul personale amministrativo e giudiziario e anche sulla loro specializzazione. Poi c’è la questione della digitalizzazione, un percorso iniziato da tempo e che va portato a termine, facendo tesoro anche delle esperienze fatte durante la pandemia, alcune delle quali, almeno nel civile, meritano di essere mantenute. Ma ciò implica anche una migliore e diversa organizzazione, perché non si tratta di una mera sommatoria di dati informatici. Poi c’è un altro aspetto che, come avvocato, mi sta particolarmente a cuore: la salvaguardia del diritto di difesa e della qualità dei giudizi. La Corte dei Conti ha infatti evidenziato la necessità di non lasciare indietro la riforma del processo penale, che sull’economia incide, basti pensare alle misure cautelari reali. C’è spazio per accelerare anche questo iter? Penso non solo che si possa, ma che lo si debba fare. In ogni caso non partiamo da zero e di questo troviamo le tracce anche nella legge di Bilancio approvata a Natale, con un investimento forte proprio in termini di assunzioni nel comparto giustizia. Aggiungo inoltre che c’era stata un’autorizzazione di spesa di 25 milioni di euro per l’ampliamento e l’ammodernamento degli spazi che riguardano il lavoro dei detenuti e quindi sulla pena, sulla funzione rieducativa e il reinserimento. Cosa manca affinché l’Europa sia contenta di queste riforme? Coniugarle con un ulteriore ampliamento delle risorse umane e materiali e un arricchimento professionale. Aspetti importanti, quando si parla di qualità dei giudizi, sono anche la specializzazione e la preparazione, come sottolineato anche dal presidente Draghi. E poi interventi molto mirati sulla procedura. Ovviamente con la semplificazione dei riti, però in modo molto puntuale. E bisogna anche investire su esperti che si occupino di fare un piano di riorganizzazione che tenga conto della sfida digitale. C’è un altro aspetto: questo piano di ripresa e resilienza inaugura una indispensabile nuova stagione di investimenti industriali e la transizione ecologica, che a maggior ragione necessita di un “sistema civile” dei rapporti economici, commerciali e giuridici tra imprese che funzioni. Quindi non è solo un problema di allineamento con l’Europa: questo grande input di sviluppo ha bisogno di un nuovo servizio giustizia su cui poggiare. Pensiamo a quanti contratti partiranno, anche con aspetti innovativi: dobbiamo prevedere un’agilità contrattuale. Il Cnf ha proposto di esternalizzare alcuni aspetti della giustizia civile, può essere una strada? Ci sono due problemi distinti: il primo riguarda l’arretrato, male endemico, soprattutto nel civile, e nessuna riforma può partire se non lo si elimina. Nella scorsa legislatura si era provveduto con un decreto che aveva consentito di eliminarne una grossa parte e questo ci aveva anche fatto meritare degli apprezzamenti in Europa. La conditio sine qua non, dunque, è un investimento di risorse straordinarie in questa direzione. Con riferimento al ruolo dell’avvocatura, per quanto riguarda l’esternalizzazione, credo che si possa lavorare su quegli aspetti di volontaria giurisdizione laddove non c’è contenzioso, sul potenziamento della negoziazione assistita e dell’arbitrato. Tutto ciò a patto che si lavori contemporaneamente su un alleggerimento del peso fiscale e sulla sua onerosità, in quanto, per cultura politica, il Pd è contrario a una giustizia selettiva, basata sul censo: selezionare e ridurre i costi per lo Stato aumentando i costi per i cittadini non va bene. D’altra parte, proprio nella scorsa legislatura si era aperta una grande strada sulla negoziazione assistita, non solo per alleggerire il carico, ma anche per dare maggiore ruolo e responsabilità all’avvocatura, che deve essere considerata una parte del sistema giurisdizionale con delle competenze e una funzione pubblica. C’è anche da rivedere, sempre in tema di Recovery Plan, l’investimento sull’infrastruttura carceraria. Cosa bisogna fare? Puntare sulle misure alternative. Abbiamo lavorato molto nella scorsa legislatura e anche se all’inizio di questa era rimasto un po’ nell’angolo, continuo a ritenerlo un tema molto importante. Sia le misure alternative sia i modi differenti e differenziati con i quali scontare una pena nelle strutture detentive hanno molto a che vedere con i costi in termini sociali, che si traducono anche in costi economici per la società. Questo è un punto di discussione sul quale magari non la pensano tutti allo stesso modo, ma sicuramente il mio partito non ha mai mollato la presa su una rivisitazione dell’esecuzione della pena in questo senso. E mi piace ricordare, considerato che la ministra della Giustizia è la presidente Cartabia, che la Corte Costituzionale con la presidenza di Giorgio Lattanzi, ha fatto una cosa rivoluzionaria portando la Consulta nelle carceri; ritenendo che i detenuti sono cittadini titolari di diritti e di doveri e che imparando questo possono, a maggior ragione, adempiere ai loro doveri. Sappiamo ancora quanto ci sia da fare per le nostre carceri, perché per le attività rieducative e lavorare servono strutture attrezzate e spazi. Tutte cose molto restitutive nei confronti della società, non solo nei confronti di queste persone. Tra l’altro, la pandemia ha accentuato tutta una serie di problemi, come il sovraffollamento. La ministra Cartabia ha annunciato un ordine del giorno sul tema della prescrizione. Cosa ne pensa? Lo vedo molto favorevolmente. Sulla politica giudiziaria non la pensiamo tutti allo stesso modo, ma se si sta al merito è più facile trovare delle soluzioni. La prescrizione non è lo strumento per accelerare i processi e va rivista nel quadro generale della riforma del processo penale e quindi affrontando la questione della ragionevole durata del processo. Non vorrei sembrare affezionata al passato, ma avrei aspettato di vedere gli effetti della riforma Orlando, che aveva inserito un breve periodo di sospensione, argine a un perimento anticipato del processo, insieme a una serie di misure deflattive. In realtà non c’è stato il tempo di poterne osservare i risultati, ma si potrebbe ripartire da quella impostazione. In ogni caso, la cultura giuridica dell’attuale ministra della Giustizia è una garanzia per tutti. Anche la prescrizione ad allungare i processi di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2021 Il lettore Salvatore Griffo domanda: “Per quale ragione la riforma della prescrizione del ministro Bonafede determinerebbe processi ‘infiniti’ come sostenuto dai politici che vorrebbero abolirla per tornare al sistema precedente? Ma, prima della sciagurata riforma del governo Berlusconi, la durata dei processi era così lunga?”. È necessario chiarire bene che cos’è la prescrizione penale in Italia. L’art.157 del codice penale (come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, detta “ex Cirielli” perché l’on. Cirielli, che l’aveva proposta, chiese di non chiamarla più con il suo nome) stabilisce: “La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si trattali contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria”. La prescrizione decorre dalla consumazione del reato e non da quando la notizia di questo reato perviene all’autorità giudiziaria. Per esempio, in materia di reati fiscali, poiché di frequente gli accertamenti vengono fatti dagli uffici finanziari dopo cinque anni dalla commissione, le notizie di reato pervengono quando gran parte del termine è decorso, anche se i termini sono prolungati di un terzo. Il compimento di determinati atti (sentenza di condanna, ordinanza cautelare personale, interrogatorio e altri) interrompe il decorso della prescrizione, che poi ricomincia a decorrere, ma il termine complessivo non può superare quello iniziale aumentato di un quarto. Questa, insieme ai criteri di priorità, spiega perché molte prescrizioni maturano in fase di indagini preliminari. In quasi tutti gli Stati la prescrizione è un istituto di natura processuale e non sostanziale e smette di decorrere con l’inizio del processo. Anche in Italia, nel processo civile la prescrizione cessa di decorrere con l’inizio del processo. La Corte di giustizia dell’Ue ha ritenuto che il precedente sistema di prescrizione penale italiano contrasti col diritto comunitario e consentito solo per il tempo anteriore alla direttiva 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, perché impedisce l’adozione di sanzioni efficaci, dissuasive e proporzionate su gravi frodi dell’Iva. I fautori del ritorno alla prescrizione che decorre durante le impugnazioni sostengono che il suo blocco farebbe durare all’infinito i processi. È vero il contrario. Anzitutto esistono reati imprescrittibili: quelli puniti con la pena dell’ergastolo anche per effetto di circostanze aggravanti. Se fosse fondata la tesi che la prescrizione accelera i processi quelli per reati imprescrittibili non si farebbero mai. Quali sono le ragioni della durata dei processi? La causa principale deriva dal loro numero. Semplificando: se un giudice ha un processo da fare e questo richiede quattro udienze durerà quattro giorni. Se sono necessari adempimenti fra un’udienza e l’altra (disporre perizia, acquisire documenti, citare testi) che richiedono, ad esempio, un mese, il processo durerà quattro mesi. Ma se il giudice ha duemila processi sul ruolo e la prima udienza libera è dopo un anno, un processo di quattro udienze durerà quattro anni. L’idea che i giudici italiani non facciano nulla e che solo la prescrizione imminente li induca a trattare i processi è falsa. La loro produttività è una delle più alte d’Europa. La vera anomalia italiana è la dimensione del contenzioso: le sopravvenienze civili annue contenziose di primo grado per ogni giudice in Italia sono 438,06; in Francia 224,15; in Germania 54,86. Le sopravvenienze penali annue di reati gravi per ogni giudice, in Italia sono 190,71; in Francia 80,92; in Germania 42,11 (dati Cepej 2008; per il 2010 non sono disponibili i dati della Germania). La diminuzione del numero dei procedimenti si può ottenere in sede penale riducendo drasticamente le fattispecie di reato con un’ampia depenalizzazione, riduzione della perseguibilità d’ufficio e introducendo apprezzabili margini di rischio per chi propone impugnazioni infondate e dilatorie. Neppure è vero che il numero dei giudici di professione in Italia sia insufficiente. Tale numero, come indicano i rapporti della Commissione europea per l’efficienza della giustizia, è in linea con quello di uno Stato per certi versi simile come la Francia. La strada percorribile per fronteggiare i tempi inaccettabili della durata dei procedimenti non sembra quindi quella di aumentare il numero di giudici (e quindi in generale dei magistrati, dovendo coerentemente in tale ipotesi incrementare il numero degli addetti al pubblico ministero), anche perché gli esiti degli ultimi concorsi non consentono illusioni in proposito, salvo che si ritenga di abbassare la soglia qualitativa oggi richiesta per superare la giustamente rigorosa selezione (un recente concorso a 500 posti di magistrato ordinario in tirocinio ha prodotto 253 idonei su decine di migliaia di domande). In Italia vengono proposte impugnazioni in un numero che non ha eguali in altri Paesi: la Cassazione italiana tratta quasi 90.000 processi ogni anno (di cui quasi 60.000 penali), quella francese 1.000. La Corte suprema degli Stati Uniti d’America ne tratta 80! Le ragioni delle impugnazioni così numerose stanno nell’assenza di deterrenze a proporre appelli e ricorsi solo dilatori (confidando nell’arrivo della prescrizione e comunque per differire l’esecuzione della pena). Nel caso di ricorso inammissibile viene inflitta una sanzione amministrativa di circa 2.000 euro, ma di queste sanzioni viene incassato solo il 4%. Il resto sono chiacchiere. Cassazione: almeno tre metri quadri “veri” in cella Avvenire, 20 febbraio 2021 Occorre più rispetto per i diritti dei detenuti e vanno migliorate le condizioni in cui vivono. In particolare nelle celle va assicurato un adeguato spazio di movimento di almeno tre metri quadri liberi dai mobili fissi, come i letti a castello. Altrimenti è necessario che ci siano adeguate attività esterne. Il richiamo rivolto al Ministero della Giustizia, viene dalle sezioni unite della Corte di Cassazione che hanno confermato il diritto di un ex detenuto a un indennizzo, anche se di nemmeno un euro al giorno, per i 4.571 giorni trascorsi nei più affollati e fatiscenti penitenziari (Pianosa, Palmi, Reggio Calabria, Carinola, Napoli-Poggioreale e Larino). Secondo il Ministero, invece, nel computo dello “spazio vitale” dovevano finire i metri occupati dai letti e persino il bagno. Ma la Cassazione, sulla scorta delle ultime indicazioni della Corte europea per i diritti umani, ha deciso diversamente. La cella piccola non basta per avere il risarcimento di Debora Alberici Italia Oggi, 20 febbraio 2021 Il recluso non ha diritto a essere risarcito per la detenzione inumana quando, pur essendo molto piccola la cella, ha comunque libertà di movimento all’esterno. Lo hanno sancito le Sezioni unite penali della Corte di cassazione che, con la sentenza n. 6551 del 19 febbraio 2021, hanno respinto il ricorso del Ministero della giustizia, condannato a risarcire oltre 4 mila euro a un detenuto, che aveva usato diversi criteri di calcolo dello spazio vitale. Il Massimo consesso di Piazza Cavour ha risolto un radicato contrasto di giurisprudenza. Alle fine delle ventisette pagine di motivazioni ha infatti affermato espressamente che “i fattori compensativi costituiti dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività, se ricorrono congiuntamente, possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 Cedu derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre metri quadrati; nel caso di disponibilità di uno spazio individuale fra i tre e i quattro metri quadrati, i predetti fattori compensativi, unitamente ad altri di carattere negativo, concorrono alla valutazione unitaria delle condizioni di detenzione richiesta in relazione all’istanza presentata ai sensi dell’art. 35-ter ord. pen. Prima ancora di arrivare a questa conclusione le Sezioni unite hanno fornito un altro importante elemento per individuare la detenzione inumana, e cioè che “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”. Tutto ciò risponde alle indicazioni della Corte dei diritti umani secondo cui l’attribuzione di uno spazio individuale inferiore al minimo di tre metri quadrati non comporta inevitabilmente e di per sé la violazione dell’art. 3 Cedu, ma fa sorgere soltanto una forte presunzione, non assoluta, di violazione. Ha, inoltre, stabilito che tale presunzione può essere vinta dagli effetti cumulativi degli altri aspetti delle condizioni di detenzione. Chi è al 41bis non può acquistare il cibo come fanno i detenuti comuni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 febbraio 2021 La Cassazione ha accolto il ricorso dell’amministrazione penitenziaria che si era opposta alla decisione del Tribunale di sorveglianza de L’Aquila. Per la Cassazione, il detenuto al 41bis non può acquistare il cibo che è invece consentito ai detenuti comuni. Il Magistrato di sorveglianza de L’Aquila ha accolto il reclamo presentato da Carlo Greco, sottoposto nella Casa circondariale de L’Aquila al regime del 41bis, avente ad oggetto il mancato inserimento nel “modello 72” di una serie di prodotti alimentari che sono invece consentiti ai detenuti non sottoposti al regime differenziato e la previsione di determinate fasce orarie in cui ai detenuti sottoposti al predetto regime penitenziario era consentito cucinare. Per questo ha disposto che la Direzione di quell’Istituto consentisse al reclamante di acquistare al “modello 72” gli stessi cibi acquistabili presso le altre sezioni del carcere e di cucinare cibi senza la previsione di fasce orarie. Con successiva ordinanza il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila ha rigettato il reclamo proposto dall’Amministrazione, rilevando, preliminarmente, come la Corte costituzionale, con sentenza n. 186 del 2018, avesse ritenuto che il divieto di cuocere cibi al 41bis, costituisse una limitazione, non contemplata per i detenuti comuni, contraria al senso di umanità della pena e costituente una deroga ingiustificata all’ordinario regime carcerario in quanto estranea alle finalità proprie del regime differenziato e, dunque, dalla valenza meramente e ulteriormente afflittiva. Per tale ragione, doveva garantirsi che i detenuti in regime duro fossero assimilati, sotto l’aspetto relativo all’alimentazione, ai detenuti delle sezioni comuni e di Alta Sicurezza: per questo, secondo il tribunale di sorveglianza, in assenza di ragioni di sicurezza per un trattamento diverso, non c’è alcuna giustificazione una restrizione dell’orario in cui i detenuti potevano dedicarsi alla cottura dei cibi; così come la mancata omologazione dei generi alimentari presenti nel “modello 72” dei detenuti appartenenti ai vari circuiti configura una ingiustificata disparità di trattamento, con la sottoposizione dei soggetti al 41bis un trattamento ulteriormente afflittivo privo di qualunque giustificazione, trattandosi di beni non di lusso. L’amministrazione penitenziaria a quel punto ha fatto ricorso in Cassazione che è stato accolto, con la sentenza numero 4031, con la premessa che l’acquisto di cibi pregiati diventa una possibile dimostrazione di potere, annullando l’ordinanza, ma con rinvio al tribunale per un nuovo giudizio. Perché? La Cassazione ritiene necessario sollecitare, da parte dei giudici di merito, un ulteriore sforzo motivazionale, volto a chiarire di quali beni si sia chiesta l’inclusione nel “modello 72”, in modo da poter verificare la ragionevolezza o meno della scelta in rapporto alle finalità proprie del regime differenziato. Milano. Dramma a Bollate, detenuto suicida nella sua cella di Roberta Rampini Il Giorno, 20 febbraio 2021 Si è tolto la vita impiccandosi nella cella del carcere di Bollate dove stava scontando una pena per reati a sfondo sessuale. Il detenuto, un italiano di 50 anni, avrebbe approfittato di un momento in cui il compagno di cella si è allontanato per una visita medica nell’ambulatorio della casa di reclusione per togliersi la vita con un laccio al collo. Quando gli agenti della polizia penitenziaria si sono accorti dell’accaduto non hanno potuto fare nulla. Secondo quanto ricostruito, il detenuto non aveva dato segnali di disagio, di giorno lavorava nell’area industriale del carcere. Come tutti gli altri detenuti, in questi mesi di pandemia aveva dovuto modificare qualche abitudine, ma nulla lasciava presagire quel tragico gesto. Il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, chiede alla nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia “un cambio di passo sulle politiche penitenziarie”. In particolare, il segretario Sappe della Lombardia, Alfonso Greco, denuncia che “le condizioni lavorative del personale di polizia penitenziaria sono sempre più gravose e, probabilmente, se avessimo maggiori risorse umane insieme ad altre figure deputate alla cura del disagio psicologico, si riuscirebbe ad aiutare maggiormente i soggetti a rischio suicidio. L’ennesimo evento critico dimostra come i problemi sociali e umani permangono nei penitenziari”. Trapani. Sull’isola di Favignana la pulizia delle spiagge è affidata ai detenuti di Manuela Modica Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2021 Protocollo d’intesa firmato tra il Dipartimento amministrazione penitenziaria, il direttore del carcere e il sindaco: “Così realizziamo il reinserimento sociale”. Un progetto nazionale che coinvolge un’isola il cui rapporto con il carcere è stato sempre molto forte. In certi casi leggendario. Pulizia del mare e delle coste, cura del verde pubblico: tutto affidato a 15 detenuti del carcere di Favignana per favorirne il reinserimento sociale. Con questo scopo è stato firmato ieri sull’isola siciliana un protocollo d’intesa: a sottoscriverlo Dino Petralia, direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il direttore del carcere, Nunziante Rosania, e il sindaco Francesco Forgione, ex parlamentare di Rifondazione comunista e presidente della commissione parlamentare Antimafia. “Si tratta di un progetto che viene consacrato in questo protocollo che si aggiunge ad una serie di protocolli e progettualità che riguarda il percorso trattamentale e di reinserimento sociale per i detenuti”, spiega Petralia che è andato personalmente a Favignana per siglare l’accordo. Un progetto nazionale che coinvolge un’isola il cui rapporto con il carcere è stato sempre molto forte. In certi casi leggendario. Addirittura a Favignana si attribuisce l’origine stessa delle mafie, almeno nell’immaginario mitologico delle stesse cosche. La favola che ha nutrito l’identità di generazioni di mafiosi, ricordata dallo stesso Forgione in un libro firmato assieme ad Enzo Ciconte e Vincenzo Macrì, è ambientata proprio il carcere di Favignana, dove leggenda vuole che tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, appartenenti ad una società segreta di Toledo, fossero rinchiusi nel ‘400. Una prigionia lunga 29 anni, durante i quali approntarono le regole sociali delle più grandi organizzazioni mafiose: Osso in Sicilia, Mastrosso in Campania e Carcagnosso in Calabria. A riprova del forte impatto che il carcere dell’isola delle Egadi ha avuto nel tempo: “Al di là di queste suggestioni - chiosa Petralia - l’area penitenziaria per Favignana è stata da sempre “datore di lavoro”, dando impiego nel settore penitenziario. Un grande impatto ha sicuramente avuto il forte San Giacomo, carcere di massima sicurezza, dismesso nel 2010. Questo progetto darà spazio all’integrazione in un’isola molto bella: i detenuti daranno il loro contributo e si sentiranno ancora più isolani”. “Aprire l’isola al carcere e di conseguenza il carcere all’isola è un fatto straordinariamente importante”, sottolinea Forgione. Che annuncia: “Riattiviamo anche il laboratorio di sartoria, l’idea è quella di produrre non solo le mascherine ma prodotti legati all’economia dell’isola. Allo stesso tempo ieri abbiamo avviato un percorso per la restituzione alla comunità del vecchio carcere che è una fortezza straordinaria, bellissima”. Il reinserimento sociale dei detenuti da un lato e l’ex carcere come struttura museale dall’altro: “Attraverso la fortezza vorremo così raccontare una parte di storia d’Italia: è in questo carcere che sono passati i più noti camorristi, ma anche i brigatisti, da Adriana Faranda a Pierluigi Concutelli. Investiremo la ministra Cartabia della proposta, ma un percorso lo avevamo già avviato con il sottosegretario Andrea Giorgis”. Intanto ad agevolare i progetti di inserimento sociale al carcere di Favignana c’è la lunga esperienza in questo campo maturata dal direttore del carcere, Nunziante Rosania, neuropsichiatra e già direttore dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona, dopo la riforma riconvertito in carcere, dove erano stati tanti i progetti di reinserimento degli internati nonostante il sovraffollamento. Per lungo tempo quello di Barcellona fu l’unico Opg d’Italia, perché la Sicilia non aveva recepito la legge nazionale che ne predisponeva la conversione. “Abbiamo 60 detenuti, definitivamente condannati. Questo ci permette di lavorare a più progetti di recupero di carattere riabilitativo”, spiega Rosania. E continua: “Abbiamo attivato una collaborazione valida col sindaco che si è presentato particolarmente dinamico e produttivo, così che finalmente abbiamo potuto dare concretezza ad una serie di cose che erano già in fase di elaborazione”. Il Verde pubblico, la pulizia dei litorali, ma anche progetti ambientalisti: “Dopo un’attenta formazione dei detenuti verranno inseriti in progetti di recupero ambientale e di salvaguardia del territorio, addirittura potranno essere formati come vere e proprie guide sul territorio e potremmo occuparci anche delle altre isole delle Egadi”. Mentre in commercio entrerà il brand del reinserimento dei detenuti: “Abbiamo riattivato la sartoria, dopo un lungo percorso: ripristinare le macchine non è stato facile. Adesso ci proporremo sul mercato esterno con brand specifico”. E i progetti futuri sono tanti: “Attiveremo anche corsi per le coltivazioni speciali relative ai prodotti tipici di questa zona”. Così annuncia Rosania che è però prossimo alla pensione: “Prima di andare via spero di potere vedere tutti progetti avviati”. “Giustizia in crisi (salvo intese)”, di Giovanni Maria Flick recensione di Annalisa Chirico lachirico.it, 20 febbraio 2021 Il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick nel suo ultimo saggio, “Giustizia in crisi (salvo intese)” (Baldini Castoldi), analizza quattro punte dell’iceberg che attraversano la nostra società: la legge, il giudice, il processo e la pena sembrano prigioniere di un paradigma votato al fallimento. E sul primo fronte, quello della legge, Flick scorge nella gestione della pandemia l’acme di una degenerazione partita da lontano: “La legge non esiste più, fino a pochi giorni fa è esistito soltanto il provvedimento del presidente del Consiglio. Ma il virus non è l’alibi per la sospensione della Costituzione, e i divieti anti-Covid sono legittimi non con i Dpcm ma per decreto legge che non può essere generico o convertito in legge in modo approssimativo. Inoltre, negli scorsi mesi il precedente esecutivo ha cercato di escludere il Parlamento dal dialogo tra singole regioni e stato nella querelle sui provvedimenti per affrontare l’emergenza”. Nel libro si sofferma anche sulla riduzione del numero dei parlamentari, che definisce “la picconata più forte e letale: non un modo per migliorare l’istituzione ma un pretesto per prolungare o meno la vita del Governo. Perché l’alternativa, dicevano le forze politiche, sarebbe stata soltanto una: il voto anticipato. Ma siamo fuori strada: il procedimento costituzionale della riduzione del numero degli eletti nulla ha a che vedere con la durata di un governo politico. E le due decisioni dovevano essere tenute separate”. Un altro tema che affronta Flick è la lentezza della giustizia italiana. I report di Consiglio d’Europa e Banca d’Italia evidenziano che il nostro paese è il secondo in Europa, dopo la Grecia, per “disposition time”, vale a dire il tempo necessario per la risoluzione di una causa civile e commerciale. “Il buon senso, ancor prima dei moniti provenienti dalle istituzioni europee, richiederebbe un rapido intervento affinché l’esito del giudizio arrivi il prima possibile e con una ragionevole prevedibilità. È necessario infatti individuare un equilibrio tra l’autonomia valutativa del singolo magistrato e il comando del legislatore, spesso invece assistiamo a una giurisprudenza incoerente o persino contraddittoria, fattore che disincentiva gli investimenti”. Si sofferma anche sulla prescrizione e sulla riforma voluta dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Il tema è stato trattato come la ricerca di un capro espiatorio e ha distolto l’attenzione dalla vera emergenza: come garantire la ragionevole durata del processo, richiesta dalla Costituzione allo stato che deve apprestare strumenti e garanzie a tal fine, non all’imputato e al suo difensore. La riforma approvata con il governo Conte desta sconcerto sia per il metodo che per i contenuti - spiega Flick - È stata introdotta con un emendamento in un provvedimento rivolto a tutt’altro fine (la famigerata legge “spazza-corrotti”), ignorando per giunta le indicazioni della dottrina e delle commissioni di studio succedutesi nel tempo. Il blocco con la sentenza di primo grado finisce per incidere su meno della metà delle situazioni di prescrizioni mentre la maggior parte di esse matura e si verifica già nella fase delle indagini preliminari e nella stasi prodromica alla fissazione della prima udienza dibattimentale. Alla cui gestione l’imputato e il suo difensore sono per definizione estranei. Inoltre, a differenza di altri ordinamenti, non si prevede alcun rimedio compensativo per evitare all’imputato di subire un processo a vita”. Un altro tema che desta preoccupazione è quello del contagio nelle carceri: “Viviamo in uno strano sistema che, mentre tenta di sanzionare ogni tipo di incontro tra le persone sostituendolo con la connessione digitale, riserva una forma di convivenza forzata a una schiera ristretta di persone, i detenuti in attesa di giudizio o quanti scontano una pena definitiva. Dopo sessant’anni trascorsi nel mondo giudiziario, mi sono convinto che in carcere si dovrebbe entrare il meno possibile e per il più breve lasso di tempo. Dietro le sbarre dovrebbe essere rinchiuso soltanto il soggetto pericoloso per sé o per gli altri, per il resto andrebbe sempre privilegiato il ricorso a misure alternative e pene accessorie. La pena consistente nella privazione della libertà personale dovrebbe essere una extrema ratio giacché essa si trasforma inevitabilmente in uno strumento di negazione della dignità personale ma la Costituzione, com’è noto, vieta trattamenti inumani e degradanti. Il sovraffollamento è incompatibile con la Costituzione”. Nel libro, Flick sostiene che manca spesso la trasparenza o forse ve n’è troppa che “sconfina nella mancanza di pudore”. “La totale assenza di coerenza nel sostenere oggi degli orientamenti e domani gli opposti è una mancanza di pudore. All’apparenza sembra che si ricorra a perifrasi tipiche della politica, nella sostanza si coglie invece una durezza del confronto che non ha alcun limite”, afferma il presidente emerito della Consulta. Rap dietro le sbarre, per aiutare “gli ultimi tra gli ultimi” di Marta Blumi Tripodi rollingstone.it, 20 febbraio 2021 Nel libro “Barre” Kento racconta 10 anni di laboratori rap nelle carceri minorili. Si entra per piccoli crimini e non si esce quasi mai redenti. “Questi ragazzi hanno storie terribili, non mettiamoli dietro le sbarre”. In tutta Italia le carceri minorili sono parecchie e ben note, dal Beccaria di Milano a quello di Casal del Marmo a Roma. La cosa che forse potrebbe stupire, però, è che a fronte di così tante strutture il numero dei detenuti è estremamente esiguo: i ragazzi dai 14 ai 18 anni attualmente dietro le sbarre sono circa 500 su tutto il territorio nazionale. La maggior parte per reati contro il patrimonio, piccoli furti o spaccio. Questo perché in base al nostro ordinamento (per fortuna) è molto difficile andare in carcere da minorenne, ci sono parecchie misure alternative alla detenzione. Quelli che finiscono dentro sono “gli ultimi tra gli ultimi”, racconta Francesco Carlo, in arte Kento, rapper da sempre impegnato in molte battaglie civili e sociali - ad esempio con il suo storico gruppo Kalafro Sound Power, tra i primi a schierarsi apertamente contro la ‘ndrangheta - e oggi intervistato in veste di autore del libro Barre, edito da Minimum Fax. È legato anche a un omonimo mixtape, ad opera di Kento stesso e verrà presto diffuso anche in un cofanetto che conterrà il libro, il mixtape in vinile e una t-shirt in edizione limitata realizzata da una cooperativa che si occupa del reinserimento lavorativo dei carcerati. Barre racconta la sua esperienza decennale con i laboratori di rap all’interno delle carceri minorili di tutta Italia. “È una realtà clamorosamente sconosciuta, nonostante sia così vicina a noi” aggiunge. “Ho imparato molto presto che il carcere non solo impedisce ai ragazzi di uscire, ma impedisce anche a noi cittadini comuni di entrare”. In passato Kento ha scritto altri libri sul rap, ma è stato molto indeciso se scrivere Barre, perché a causa degli accordi di confidenzialità e delle tematiche sensibili c’erano talmente tanti problemi di ordine morale e giuridico che sembrava un’impresa impossibile. “È come se avessi iniziato a lavorarci dieci anni fa, quando ho cominciato a fare laboratori di rap nelle carceri, ma è solo nel 2019 che mi sono deciso a metterlo davvero nero su bianco: c’erano troppe cose da dire”, spiega. La sua primissima esperienza sul campo nel 2009 non è stata affatto facile. “Parallelamente al laboratorio veniva girato anche un documentario, in cui tutti noi operatori rilasciavamo interviste. A una domanda specifica, dichiarai in video quello che ho detto prima, ovvero che per me i ragazzi detenuti sono gli ultimi tra i colpevoli: chi non ha famiglia, non riesce a pagarsi un buon avvocato, non è in grado di capire la gravità delle accuse che gli vengono mosse”. Il dirigente di quel carcere gli aveva chiesto di ritrattare, e lui si era rifiutato, a costo di essere tirato fuori dal progetto. “Anche gli altri operatori coinvolti mi spalleggiarono, e ci fu un’escalation tale che ci mandarono una lettera di diffida su carta intestata del Ministero, bloccando il laboratorio da un giorno all’altro”, ricorda. “La mia coerenza, però, andò a discapito dei ragazzi, che persero la possibilità di fare quell’attività con noi. Da lì ho imparato ad abbozzare, ad accettare i compromessi, a sorridere quando mi verrebbe voglia di mandare a quel paese tutto”. Oggi è più semplice, perché è nata una vera propria rete, Rap Dentro, che coinvolge tutte le associazioni e i soggetti che propongono questo tipo di laboratori. “Ci confrontiamo sulle tematiche e i problemi, condividiamo le risorse e spesso anche gli ospiti: l’unione fa la forza”. Oggi il rap è socialmente accettato, quasi imprescindibile: secondo Kento, non si possono raccontare i nostri anni senza parlare di questo genere musicale. “Il che vuol dire che ora finalmente posso andare da un’istituzione carceraria e proporre i miei laboratori senza che qualcuno storca il naso”, dice sorridendo. “Fino a qualche anno fa non era così, non potevamo confrontarci ad armi pari con altre forme di espressione culturale. Questa è una grande vittoria di tutto il movimento hip hop”. In carcere, senza smartphone e Internet, la fruizione della musica è completamente diversa, spiega: “I ragazzi hanno dei lettori mp3 da primi anni ‘00, che contengono pochissime canzoni che ascoltano e riascoltano ossessivamente. Se vogliono caricare un nuovo brano, o un beat nuovo su cui provare, devono cancellarne un altro. Sociologicamente è stranissimo, visti i tempi che corrono”. C’è chi inizia a frequentare il laboratorio perché ha bisogno di impiegare il proprio tempo in qualche modo, e c’è chi vuole fare il rapper di mestiere. “Bisogna però fargli capire che è necessario comportarsi da professionisti, che la musica ha delle regole che prima di essere disattese vanno imparate, che ci vuole serietà, costanza e dedizione”, osserva. E con ragazzi di strada sicuramente molto avanti da tanti punti di vista, ma molto indietro in altri campi, non è facile. “Sono estremamente timidi quando si parla di sentimenti: fanno battute sessuali vergognosamente sconce senza arrossire, ma non riescono a esprimere ciò che provano quando si innamorano di una ragazza. Oppure sono stati detenuti per così tanto che non sanno come fare le cose in cui i loro coetanei sguazzano quotidianamente, come le storie di Instagram. Ma in molti versi non è così diverso da fare un laboratorio rap in un qualsiasi istituto tecnico di periferia, a parte le sbarre”. Alcuni dei detenuti delle carceri minorili italiane non hanno mai avuto la possibilità di inserirsi nella società, racconta Kento. “Ho conosciuto un ragazzo che è arrivato in Italia da solo a 13 anni, finendo in un giro tremendo, e che ha dormito per la prima volta con un tetto sulla sua testa solo una volta in carcere. O un altro che non sapeva addirittura come lavarsi: hanno dovuto insegnargli a farsi la doccia. Sono storie orribili: perfino i più giustizialisti non riuscirebbero a dare delle colpe a persone del genere. È nostra responsabilità non considerarli già perduti, e aiutarli a costruirsi una vita anziché buttare via la chiave”, sottolinea. Purtroppo non sempre succede, anche perché non è tutto rose e fiori, come si può immaginare. “Alcuni degli episodi che racconto nel libro sono molto duri, di forte denuncia. Violenza, affermazioni razziste… Mi sono chiesto a lungo se includere o no questi dettagli, perché sono consapevole che se Barre farà troppo rumore probabilmente non mi lasceranno entrare mai più in un carcere minorile, ma non volevo fare un libro Cuore”. I problemi restano parecchi, come quelli che riguardano le ragazze detenute. “Molte di loro vengono da contesti socio-familiari in cui l’uomo è un aguzzino, e quindi si tende a non far condurre laboratori a operatori maschi. Questo ovviamente fa sì che abbiano un’offerta ridotta, in termini di tipologie di attività che possono fare. Sono doppiamente ultime, anche perché il nostro è un sistema legislativo scritto da uomini per uomini”. Per fortuna, dice Kento, nell’amministrazione penitenziaria ci sono anche delle persone eccezionali e generose, che buttano il cuore oltre l’ostacolo e lavorano oltre le loro competenze e il loro dovere. “Le guardie spesso sono ragazzi di quartiere, e mi è capitato che mi dicessero “Sai, anche io da piccolo ho fatto le stesse cose dei detenuti che sono qui, la differenza è che non mi hanno beccato”, racconta. “Il problema è che hanno una responsabilità molto forte, non sempre sono preparati ed è un lavoro davvero stressante: c’è un enorme numero di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria”. E poi ci sono i cosiddetti unicorni, “che si chiamano così perché tutti ne parlano e nessuno li ha mai visti”, ride. “Nell’ambiente in questione sono i ragazzi che entrano criminali ed escono redenti. Come un ragazzo che frequentava i miei laboratori e che è appena uscito col suo singolo: spacca, è fortissimo e sta avendo delle belle soddisfazioni. O un altro che, una volta fuori, si è laureato in giurisprudenza e ora sta facendo la pratica come avvocato”. La speranza di Kento è che il carcere minorile venga abolito, perché a suo parere è un’istituzione che non ha nessun motivo di esistere. “Certo, dobbiamo occuparci dei ragazzi che commettono reati, ma non mettendoli dietro le sbarre. Tra cinquant’anni vedremo tutto questo come una barbarie e ci chiederemo com’è possibile che un tempo rinchiudessimo ragazzini di 14 anni in cella”. Migranti, l’argine di Draghi alla prova dei fatti di Filippo Miraglia Il Manifesto, 20 febbraio 2021 Le dichiarazioni di Draghi, a proposito dei diritti delle persone di origine straniera, poche righe e molto generiche, sembrano indicare una continuità con il precedente governo, in coerenza con la conferma di Lamorgese al Viminale. Le parole pronunciate dal neo Presidente del Consiglio, più di altre dichiarazioni programmatiche di governi del passato, andranno pertanto vagliate alla prova dei fatti, soprattutto in un Parlamento nel quale l’idea stessa di maggioranza e opposizione è quasi svanita. Citando da un lato i rimpatri e dall’altro il pieno rispetto dei diritti, il capo del nuovo governo ha voluto sottolineare una certa distanza dalle parole della destra xenofoba, che è parte della sua maggioranza. Il riferimento al Patto Europeo e alla trattativa che si farà dentro quel quadro, è rituale e alimenta ancora l’idea che la “solidarietà effettiva”, richiamata nel discorso dell’ex presidente della Bce, tuteli l’interesse dei Paesi del sud, a partire dal nostro. Purtroppo i numeri smentiscono questa rappresentazione, laddove, sia sul medio che sul lungo periodo, l’Italia, se si guarda alle domande d’asilo, e quindi alle persone accolte a carico dello Stato (ovviamente in proporzione alla popolazione), continua ad essere uno dei Paesi dell’Ue con un carico inferiore agli altri (siamo sempre intorno al quindicesimo posto, lontani dal primato di Malta, Germania, Francia, Svezia). In ogni caso, è bene ricordarlo, parliamo di numeri così piccoli da essere imbarazzanti per l’intera Ue, se si considera il numero complessivo delle persone di competenza dell’Unhcr (siamo oramai a 80 milioni nel mondo nel 2020) e il rapporto tra profughi, rifugiati e richiedenti asilo presenti e popolazione Ue (nel 2020 sono 461 mila, -31% rispetto al 2019). Le aree geaografiche che accolgono la stragrande maggioranza delle persone obbligate a lasciare le loro case continuano a essere le aree più povere del pianeta. Su un argomento divisivo e complesso Draghi evidentemente ha scelto un profilo basso per non dare spazio a polemiche. La battaglia adesso si gioca tutta dentro una maggioranza che ha inglobato anche l’opposizione, con parti che potranno invertirsi a seconda degli argomenti e della capacità di produrre conflitto ed egemonia. Le scelte dipenderanno dall’equilibrio che di volta in volta, sui singoli argomenti, si determinerà nel governo, nella maggioranza e nel Paese reale. Una condizione che carica di responsabilità lo schieramento democratico e di sinistra e anche le organizzazioni di tutela e promozione dei diritti degli stranieri. Sarebbe auspicabile che nelle prossime settimane le coalizioni dell’associazionismo che portano avanti da anni un lavoro di pressione politica nei confronti delle istituzioni, a partire dal Tavolo Asilo nazionale, incontrassero quei parlamentari che vogliono promuovere una battaglia comune per modifiche legislative che anche in questa fase vanno sostenute, a partire dalla riforma della legge sulla cittadinanza (secondo la proposta della campagna L’Italia sono anch’io e del movimento Italiani Senza Cittadinanza e di quella della campagna Ero Straniero), e per consentire ingressi legali per lavoro e ricerca di lavoro. Una relazione tra associazionismo e parlamentari che nei prossimi mesi può essere determinante nell’orientare il dibattito pubblico e le scelte del governo, ma anche per monitorare la concreta applicazione delle disposizioni dei mesi scorsi, a partire dalle modifiche ai decreti sicurezza. Il Viminale, a riguardo, gioca un ruolo delicato e la coalizione PD, 5Stelle e LeU deve fare il possibile per impedire ai leghisti di occupare uno spazio per loro vitale ma che per il Paese potrebbe rivelarsi letale se lasciato in mano alla propaganda razzista. Garantire che non si torni indietro sui risultati importanti ottenuti durante il Conte2 e presidiare alcuni dossier delicati, come quello del salvataggio in mare e del rispetto dei diritti umani alle frontiere, è un obiettivo che va perseguito con forza, senza lasciare alcuno spazio alle destre e all’ideologia sovranista. Caro Draghi, non dimenticare i disperati che sognano solo di raggiungere l’Europa di Luigi Manconi La Stampa, 20 febbraio 2021 Signor Presidente del Consiglio, professor Mario Draghi, in queste tre settimane, trascorse da quando le è stato conferito l’incarico dal Capo dello Stato, come era prevedibile, tutti si sono rivolti a lei. Direttamente o indirettamente, attraverso i rappresentanti parlamentari e gli organi di stampa, con petizioni e richieste di aiuto, tramite i gruppi di interesse e le organizzazioni di categoria, i sindacati e la Confindustria. Ci sono persone, tuttavia, che non hanno proprie forme di rappresentanza e nemmeno strumenti di comunicazione: ma la cui stessa sopravvivenza dipende dalle decisioni del governo, dalla sua politica estera e dai suoi programmi sociali. Mi riferisco a quei migranti e a quei profughi che non sono ancora Italia e non sono ancora Europa, ma che, pure, verso l’Italia e l’Europa si muovono, percorrendo a piedi la rotta balcanica o salendo su un barcone per attraversare il Mediterraneo e sbarcare sulle nostre coste. Molti di loro, in questi stessi giorni, hanno conosciuto i drammi e le insidie, le fatiche e le perdite che comportano i tentativi di fuggire da un destino di sofferenza e di morte in Africa e in Medio Oriente: e di cercare un’opportunità di salvezza e di vita nei paesi democratici. Qualche giorno fa davanti all’isola di Lampedusa, un barcone si è spezzato e rovesciato e di alcune decine di migranti si è persa ogni traccia. Nelle stesse ore la nave dell’ONG Open Arms ha salvato 146 persone, tra le quali due donne al quarto mese di gravidanza, 58 minori (la gran parte non accompagnati) e un neonato di appena tre mesi. Intanto, sulla rotta balcanica si consuma un’altra tragedia, migliaia di ragazzi e ragazze non accompagnati e migliaia e migliaia di adulti, camminano nel gelo, per sottrarsi ai respingimenti effettuati dalle polizie di alcuni paesi europei - compreso il nostro - per ricacciarli in Bosnia. Credo di non sbagliarmi, signor Presidente del Consiglio, se dico che di tutto ciò non si è parlato affatto nelle consultazioni per la formazione del suo governo; e se ne è parlato solo fugacemente - e Dio solo sa quanto maldestramente - in alcuni interventi nel corso del dibattito sulla fiducia. Eppure, si tratta di temi cruciali proprio per il futuro di quell’Europa che, grazie anche alle speranze riposte nel suo esecutivo, rappresenta un orizzonte imprescindibile per la politica italiana dei prossimi anni. Nella sua replica al Senato, lei ha collocato la politica per l’immigrazione del nostro paese “nell’ambito del cosiddetto ‘Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo’”. Si tratta di nuove proposte che fanno seguito al fallimento dei negoziati “per la riforma del sistema comune europeo di asilo ma che non sciolgono lo stallo politico che continua a bloccare l’azione dell’Unione Europea specie sulla declinazione del principio di solidarietà”. È questo il nodo fondamentale che il suo governo deve affrontare e che richiede l’azione politica più coesa e incisiva per sconfiggere le resistenze di molti paesi dell’Unione e le diffuse tendenze alla chiusura e all’esclusione, che affiorano nel senso comune di un’Europa attraversata da paure e angosce. È questione determinante affinché davvero la politica per l’immigrazione diventi programma condiviso a livello continentale. E nel frattempo? Nel frattempo c’è moltissimo da fare qui, in Italia. Per questo mi rivolgo a lei, perché il suo profilo di democratico e di europeista intransigente può rappresentare una garanzia: per quegli uomini, quelle donne e quei bambini in pericolo, di cui prima ho detto. E per le Ong Open Arms, Sea-Watch, Mediterranea, SOS Mediterranee, Medici Senza Frontiere, Emergency, ResQ, la cui presenza nel Mediterraneo costituisce oggi la sola possibilità di salvezza per migliaia e migliaia di naufraghi. E una garanzia, ancora, per il Comitato per il Diritto al Soccorso, formato da giuristi, docenti di diritto internazionale e intellettuali, che si sono uniti per svolgere una funzione di tutela morale delle ragioni del soccorso in mare e un ruolo di difesa legale per le ONG. Infatti, ormai da anni, i successivi governi - certo, non tutti nello stesso modo - hanno messo in atto politiche di deterrenza e di sicurezza dei confini che hanno finito per trasformare il Mediterraneo centrale nella rotta migratoria più letale al mondo; hanno contraddetto consolidate norme internazionali, che impongono il dovere di soccorso e vietano i respingimenti collettivi. In questi anni, le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa hanno criticato severamente, a più riprese, l’inadempienza dell’Italia rispetto ai propri obblighi internazionali (di soccorso in mare, accesso alla protezione, tutela dei diritti umani). In questo stesso periodo, l’Italia, dopo la conclusione dell’operazione Mare Nostrum, ha progressivamente abbandonato le attività di coordinamento del soccorso e, attraverso il rafforzamento di politiche di esternalizzazione, ha delegato a terzi il controllo delle frontiere. Ne è conseguito il nefasto memorandum Italia-Libia e la collaborazione con la guardia costiera di quel paese nella repressione dei flussi provenienti dal Nord Africa, con effetti tragici in termini di vite umane e di violazione dei diritti fondamentali (costantemente documentate dalle Nazioni Unite e da altri organismi indipendenti). È stata in primo luogo l’abdicazione dell’Italia e degli Stati costieri dal compito di soccorrere i naufraghi, come previsto dal diritto internazionale, a rendere indispensabile l’azione delle organizzazioni umanitarie, e così prezioso il loro ruolo, in particolare nel Mediterraneo centrale. Eppure, le stesse organizzazioni ormai da tempo sono oggetto di una virulenta campagna di delegittimazione che, colpendo esse, finisce con l’aggredire lo stesso irrinunciabile principio del diritto-dovere al soccorso. Tuttavia, fino a oggi, le indagini giudiziarie nei confronti delle ONG si sono risolte tutte in un nulla di fatto e non c’è stato un solo rinvio a giudizio per i membri degli equipaggi e per i volontari delle organizzazioni. Nonostante questa inoppugnabile conferma della loro buona fede e della loro onestà, le imbarcazioni delle ONG hanno subito numerosi fermi amministrativi, così che la loro attività è stata bloccata per mesi, lasciando il Mediterraneo completamente sguarnito di ogni presidio e senza tutela quanti lo attraversavano per raggiungere l’Europa. In ogni caso, le ONG del mare hanno continuato a svolgere la propria missione, che è quella antica e sacrosanta di salvare chi si trova in pericolo. Ora, in presenza della novità politica rappresentata dal suo governo, signor Presidente del Consiglio, le ONG del mare e chi le sostiene, come il Comitato per il Diritto al Soccorso, vorrebbero intensificare l’interlocuzione con le istituzioni del nostro paese. Già qualcosa in passato è stato fatto - il ministro Luciana Lamorgese ne è testimone - ma ciò che oggi si chiede è che il rapporto diventi stabile, fatto di un confronto costante e di assidui scambi di informazioni. Gli obiettivi prioritari da perseguire sono: un sistema istituzionale efficiente ed attrezzato per il soccorso in mare; un meccanismo predefinito per lo sbarco tempestivo delle persone soccorse nel porto sicuro più appropriato. Per questo contiamo sulla sua disponibilità e su quella del ministro dell’interno Luciana Lamorgese e del ministro delle infrastrutture e dei trasporti Enrico Giovannini. Nel suo discorso in Parlamento uno dei passaggi che più hanno colpito l’opinione pubblica e gli osservatori è stato questo: “la speranza” che i giovani “non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo”. In nome dei principi della Convenzione europea dei diritti umani, ci auguriamo che, tra quei giovani, possano annoverarsi anche coloro che cercano di raggiungere l’Italia dall’Est e dal Sud: a piedi nel gelo o su barconi precari; e che “il nostro egoismo” non costituisca un muro eretto a difesa dei nostri confini.