L’appello di Liliana Segre: “Vaccinate i detenuti. So cosa significa stare in cella” di Gabriella Mazzeo fanpage.it, 1 febbraio 2021 La senatrice Liliana Segre è tornata a ribadire la necessità del vaccino anti-Covid all’interno delle carceri. “I detenuti vanno inseriti nelle categorie prioritarie per il vaccino. Lo Stato ha dei doveri nei confronti delle persone affidate alla sua custodia per tutta la durata della permanenza in carcere. “Torno spesso a San Vittore perché sono stata in queste celle per 40 giorni quando ero una ragazzina e so cosa significa, anche se sicuramente le carceri erano molto diverse da oggi. Sempre per questo motivo mi sto battendo tanto affinché i detenuti vengano vaccinati subito”. Queste sono state le parole della senatrice a vita Liliana Segre durante l’evento per la Giornata della Memoria organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. “Quei detenuti furono gli unici a farci sentire persone e oggi quel gesto mi obbliga a battermi per coloro che vivono in carcere”. L’interrogazione parlamentare - La senatrice aveva già proposto un piano vaccinale che considerasse il contagio tra i detenuti un’emergenza tra le prioritarie. Aveva firmato un’interrogazione al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro della Giustizia per chiedere la priorità dei carcerati nelle categorie da vaccinare subito contro il Covid. Nell’interrogazione, Segre sottolineava assieme ai senatori Loredana De Petris e Gianni Marilotti, che nel mese di dicembre 2020 risultavano 1.023 persone contagiate all’interno delle carceri, perlopiù asintomatiche, mentre 31 erano state ospedalizzata. Questo è un numero che riguarda prevalentemente i detenuti, perché gli agenti di polizia penitenziaria colpiti dal Covid in carcere e il personale amministrativo sono rispettivamente 810 e 72. “Appare evidente come il carcere, nonostante le misure predisposte per il contenimento, sia uno dei luoghi con maggiore possibilità di contagio e diffusione anche all’esterno del virus” avevano sottolineato in quell’occasione i senatori. La richiesta è quella di inserire i detenuti tra i soggetti da vaccinare oltre al personale di polizia penitenziaria, in quanto personale di forze dell’ordine. “Viviamo in uno Stato che ha un preciso obbligo di garanzia nei confronti delle persone affidate alla giustizia e alla custodia dello Stato durante tutto il periodo della detenzione negli istituti di pena”. 41bis: i detenuti al “carcere duro” sono 759, tra i quali 304 sono ergastolani truenumbers.it, 1 febbraio 2021 Gli affiliati alla Camorra sono i più numerosi: 266. In Italia oggi sono 759 i detenuti sottoposti al 41bis. Sono sparsi in carceri con sezioni apposite in tutta Italia, ma con una concentrazione massima all’Aquila, dove sono 152, e ad Opera, dove se ne contano 100. A Sassari sono 91, a Spoleto 81. Emerge dall’ultima relazione sullo stato della giustizia italiana presentata dal ministero della Giustizia Alfonso Bonafede. Sono 304 quelli hanno ricevuto la sentenza di ergastolo. E tra questi solo per 204 si tratta di una sentenza definitiva. L’obiettivo del 41bis non è tanto punitivo ma preventivo, la ratio è impedire che il detenuto possa comunicare con altri soggetti, sia all’interno che all’esterno del carcere, per proseguire le attività criminose. Un caso classico sono i boss di mafia come Riina a cui si deve togliere la possibilità di dare disposizioni e “governare” la propria cosca ordinando omicidi. E del resto sono proprio gli appartenenti alle principali organizzazioni mafiose a comporre la grande maggioranza dei sottoposti al 41bis: 266 su 759, ovvero circa il 35%, appartengono alla camorra, che quanto a delitti negli ultimi anni ha sorpassato le Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. Che seguono con 203 e 210 affiliati. Che cos’è il 41bis? - Si tratta di una disposizione varata nel 1986 che stabilisce condizioni particolarmente dure di carcerazione, da applicare originariamente solo in caso di emergenza, come nel caso di rivolte carcerarie, che non erano mancate negli anni 80. Solo nel 1992, non a caso subito dopo la strage di Capaci, il Parlamento allargò la sua applicazione oltre l’immediata emergenza. In particolare a quei detenuti per mafia che per motivi di sicurezza non avrebbero dovuto avere contatti con l’esterno o con altri carcerati. Negli anni successivi la norma, di natura provvisoria, è stata prorogata fino a divenire permanente nel 2002, e a essere ulteriormente riformata nel 2009 con la previsione che il 41bis può essere applicato fino a 4 anni con proroghe di due anni. Non sono solo mafiosi - Vi sono però anche 80 detenuti al carcere duro che non appartengono a questa triade. Si tratta dei 19 che fanno parte della Sacra Corona Unita, di 26 affiliati ad altre mafie siciliane, oltre a due esponenti della Stidda, sempre siciliana, di 24 di altre cosche pugliesi. Solo 3 provengono da mafie lucane. La Basilicata nel panorama del Sud è sempre stato piuttosto ai margini delle attività della criminalità organizzata. Sono molto pochi ma sono presenti i detenuti al 41bis per motivi di terrorismo, in particolare islamico. Sono 3, e il regime di detenzione applicato è dovuto al fatto che il 41bis è stato nel tempo allargato oltre i reati di mafia. Si può destinare anche a condannati o sotto processo per terrorismo, sequestro di persona, violenza sessuale, prostituzione minorile o pedopornografia. La condanna al 41bis comporta infatti l’isolamento dagli altri detenuti, anche nell’ora d’aria, la limitazione dei colloqui con i familiari, solo uno al mese della durata di un’ora, e dietro un vetro. Le autorità carcerare controllano la posta in uscita ed entrata, la riduzione del numero e del tipo di oggetti che si possono detenere in cella, che è ovviamente singola. Vi sono stati diversi ricorsi contro il 41bis nel corso degli anni, di organizzazioni per i diritti umani. Una delle principali obiezioni, a parte quelle sulla durezza delle condizioni, è che venga usato per “fare parlare” e che possa condurre alla creazione di falsi pentiti. Certamente rimane uno degli strumenti che ha portato alla maggiore disarticolazione della criminalità organizzata, in particolare della mafia siciliana negli ultimi 30 anni. Continua la tortura in carcere. Nuove indagini sulle rivolte di Luigi Mastrodonato Il Domani, 1 febbraio 2021 I casi di indagini per il reato di tortura si stanno affastellando con una velocità sempre più alta: dopo i casi di San Gimignano, Sollicciano e Ferrara, ora l’attenzione è puntata sulle rivolte di marzo e aprile a Santa Maria Capua Vetere e Modena, dove si sono registrati nove decessi motivati con l’overdose di metadone. Il 2021 si è aperto con il rinvio a giudizio di due agenti e con la condanna di un loro collega a tre anni per le torture avvenute nel 2017 nel carcere di Ferrara. In parallelo, sono stati arrestati tre agenti di polizia penitenziaria e altri sette sono stati messi sotto indagine, tutti accusati di tortura per due episodi nel 2018 e nel 2020 presso il carcere fiorentino di Sollicciano. Ci sono anche i casi di Santa Maria Capua Vetere, con circa 400 agenti in tenuta antisommossa che avrebbero messo in atto un’azione ritorsiva contro i detenuti nell’aprile scorso dopo le rivolte di una sezione. Questo fatto si è aggiunto a un altro problema, che ha origini più lontane: la progressiva riduzione delle figure trattamentali, come direttori ed educatori, che negli istituti svolgevano un ruolo importante anche in termini di trasparenza e controllo. C’è un’altra pandemia nelle carceri italiane, che si aggiunge a quella già drammatica dei contagi di Covid-19. Riguarda le torture a cui, da un capo all’altro del paese, sarebbero stati sottoposti sempre più detenuti per mano degli agenti di polizia penitenziaria, quanto meno a vedere l’esplosione di indagini giudiziarie, condanne e misure cautelari degli ultimi tempi. Il caso zero è stato quello del carcere Rezza di San Gimignano, con le presunte violenze ai danni di un carcerato tunisino con problemi psichici che a novembre hanno portato la magistratura a rinviare a giudizio cinque guardie per lesioni aggravate, falso ideologico, minacce aggravate, abuso di potere e tortura. Nei giorni scorsi l’inchiesta si è allargata e il pm ha chiesto condanne per concorso in tortura per altri dieci agenti. Si è parlato del primo processo in Italia a vedere imputati membri delle forze dell’ordine per il reato di tortura da quando quest’ultimo è entrato nell’ordinamento italiano del 2017, ma subito sono seguiti altri casi. Il 2021 si è aperto con il rinvio a giudizio di due agenti e con la condanna di un loro collega a tre anni per le torture avvenute nel 2017 nel carcere di Ferrara. In parallelo, sono stati arrestati tre agenti di polizia penitenziaria e altri sette sono stati messi sotto indagine, tutti accusati di tortura per due episodi nel 2018 e nel 2020 presso il carcere fiorentino di Sollicciano. I tre arresti domiciliari sono ora stati tramutati in interdizione dall’incarico per 12 mesi, accogliendo le richieste della difesa. Violenza per una telefonata - La storia di Sollicciano ha a che fare con un detenuto che nell’aprile scorso avrebbe avuto un alterco con le guardie per una richiesta negata di effettuare una telefonata. Una volta portato nell’ufficio dell’ispettrice, sarebbero iniziate le violenze. Come scrive il giudice, che ricostruisce l’accaduto in un’ordinanza di 80 pagine composta da testimonianze definite “credibili e attendibili”, intercettazioni, video di sorveglianza e referti, gli agenti indagati “lo colpivano con vari pugni al collo, al corpo, al costato destro e sulla parte destra della testa”. Ancora, “una volta caduto a terra, continuavano a colpirlo con pugni, schiaffi e calci nelle costole, sotto il braccio, allo stomaco e alla pancia nonché alla schiena, così impedendogli di respirare”. In seguito, “due persone montavano sulla sua schiena mentre gli altri continuavano a tirargli calci, uno gli metteva un piede sul collo e infine gli tiravano fuori il braccio che era sotto il suo corpo, ammanettandogli i polsi dietro alla schiena, lo tiravano su in piedi tirandolo per entrambi i polsi e gli sferravano altri due o tre pugni facendolo sanguinare dal naso e dalle labbra”. Durante questi abusi il detenuto si sarebbe urinato addosso, senza che gli sia poi stata data la possibilità di cambiarsi, neanche prima di portarlo in infermeria. Qui gli vengono rilevate diverse lesioni ma il detenuto viene riportato in cella, finché il persistere dei dolori per diversi giorni fa sì che venga portato in ospedale per ulteriori esami. Referto: due costole rotte. Un caso molto simile a quanto sarebbe avvenuto due anni prima, sempre nel carcere di Sollicciano. Pugni per l’ora d’aria - In quell’occasione tutto sarebbe nato da una discussione tra un detenuto e le guardie sulla fruizione completa dell’ora nel cortile, discussione poi degenerata in violenza. Come scrive il giudice, dopo un cenno dell’ispettrice il detenuto sarebbe stato colpito ripetutamente, un agente in particolare “gli sferrava un pugno colpendolo con forza tra la tempia e la mascella sinistra”, un colpo che sarebbe stato poi ripetuto altre due volte. Una volta caduto a terra, secondo il racconto un agente saliva con il ginocchio sopra la schiena del detenuto impedendogli di muoversi e continuando a colpirlo con pugni e schiaffi al volto e alla testa”. Una violenza che sarebbe andata avanti per diversi minuti e che, a quanto si legge dal referto medico, ha avuto come esito la perforazione del timpano del detenuto, oltre ad altre lesioni. “Sollicciano è un contesto difficile, dovrebbe avere una capienza massima di 491 detenuti ma al momento ne ha circa 700. Oltretutto, con la necessità di destinare alcuni locali alla quarantena per i detenuti eventualmente positivi c’è stata un’ulteriore compressione degli spazi”, spiega Giuseppe Fanfani, garante della Toscana per i detenuti, che descrive una struttura fatiscente e che avrebbe bisogno di essere completamente ristrutturata. Una situazione non facile, a cui ora si aggiunge il tema dei presunti abusi. “Il comportamento di queste guardie, per quanto se ne sa oggi, è pesante e da condannare. Atteggiamenti di questo tipo sono lontani da ogni etica civile, ora però bisognerà vedere quanto di questo sarà provato”, continua Fanfani. “Va crescendo l’attenzione verso questo tipo di fenomeni, anche perché è stata introdotta la figura criminosa corrispettiva che ha permesso di fare un salto culturale. Di recente abbiamo avuto la vicenda di San Gimignano e il relativo processo che si terrà a Siena: è stato il primo caso in Italia e non sarà certamente l’ultimo”. Casi ripetuti - Le vicende di Sollicciano e di San Gimignano non appaiono in effetti isolate. Nel caso di Ferrara, quella del 14 gennaio a tre anni è stata la prima condanna italiana a un pubblico ufficiale per il reato di tortura, a cui è seguito il rinvio a giudizio di altri suoi due colleghi. Il caso riguarda le violenze subite nel 2017 da un detenuto che sarebbe stato spogliato, ammanettato e picchiato selvaggiamente nella sua cella, anche con l’ausilio di un oggetto contundente di metallo, puntato al collo perché la smettesse di gridare. Il detenuto sarebbe poi stato lasciato lì legato, fino a che più tardi sarebbe stato notato da un medico nel suo consueto giro della sezione. Ma oltre a questo, ci sono i casi di Santa Maria Capua Vetere, con circa 400 agenti in tenuta antisommossa che avrebbero messo in atto un’azione ritorsiva contro i detenuti nell’aprile scorso dopo le rivolte di una sezione del carcere, una vicenda che ha portato all’indagine per 144 poliziotti con la contestazione, tra gli altri, del reato di tortura. O quelli del carcere di Modena, con nove decessi avvenuti durante le rivolte di marzo e attribuiti a overdose di metadone, su cui si sta cercando di far luce con nuove indagini, in particolare dopo l’esposto di cinque detenuti che hanno raccontato le violenze che avrebbero subito durante e dopo i disordini, nelle fasi di trasferimento. E poi l’istituto Lo Russo e Cutugno di Torino, dove 21 agenti della polizia penitenziaria sono stati iscritti l’estate scorsa nel registro degli indagati per il reato di tortura, a causa delle presunte sistematiche violenze comminate ai detenuti tra il 2017 e il 2019. “Io un punto così basso per le carceri italiane non l’avevo mai registrato, c’è una situazione generale di sconforto”, dice Rita Bernardini, membro del Consiglio generale del Partito radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino. “I detenuti da quasi un anno non fanno più colloqui regolari, sono state sospese le attività scolastiche e lavorative, tutto si limita al lavoro interno. La detenzione è stata ridotta a una situazione di cattività che non ha nemmeno lontanamente il sapore del senso di umanità, della rieducazione”. Questo fatto si è aggiunto a un altro problema, che ha origini più lontane: la progressiva riduzione delle figure trattamentali, come direttori ed educatori, che negli istituti svolgevano un ruolo importante anche in termini di trasparenza e controllo. L’isolamento ulteriore a cui oggi sono sottoposti gli istituti penitenziari a causa delle misure di contenimento della pandemia potrebbe aver avuto un ruolo nella creazione di un terreno più fertile alle violenze. - “Il fenomeno degli abusi riguarda una minoranza degli agenti di polizia penitenziaria ma se ci fosse più controllo da questo punto di vista si riuscirebbe a isolare chi usa un metodo violento. È chiaro che più il carcere è un luogo oscuro e più gli si impedisce un contatto con l’esterno, più questi episodi vengono coperti”, continua Bernardini, che invece si immagina il carcere come un luogo di trasparenza, dove il detenuto possa sempre trovare il coraggio di denunciare. “In questi mesi di clausura si è potuto fare di tutto e di più, come mostrano i fatti recenti. A subire il carcere come luogo di trattamenti inumani e degradanti sono peraltro gli stessi agenti, un contesto di questo tipo facilita certi atteggiamenti di violenza. È necessario riportare il carcere nella legalità costituzionale: è evidente che negli anni passati, ma ancor di più oggi, la Costituzione italiana è rimasta fuori dal sistema penitenziario”. Le malattie della giustizia di Daniela Scano La Nuova Sardegna, 1 febbraio 2021 La giustizia è malata, non solo di Covid. Il virus ha aggravato i sintomi di patologie croniche che a parole tutti vogliono curare, ma ciascuno dei diversi “dottori” vorrebbe farlo con la sua ricetta. Tutti propongono la propria ricetta, inadeguata o parzialmente efficace. Da anni negli uffici dei giudici di pace, nei tribunali e nelle corti di appello il personale (soprattutto quello amministrativo, perché non di soli magistrati sono popolati i palazzi di giustizia) va in pensione senza essere sostituito e lascia i propri fascicoli in eredità ai pochi che restano. Le stanze si svuotano dalle persone e si riempiono di faldoni. All’apertura di ogni anno giudiziario, magistrati, personale amministrativo e avvocati fanno le loro diagnosi con la stessa desolazione di medici che vedono la malattia ma non sono messi nelle condizioni di prescrivere una cura. Quel compito spetta ad altri. Le terapie scarseggiano, eppure sono semplici da trovare e basterebbe solo somministrarle al paziente in dosi massicce. Per guarire la giustizia ci vogliono assunzioni, in tutti gli ambiti, di uomini e donne che siano messi nelle condizioni di farlo con tutto ciò di cui necessitano. Soprattutto in tempi di pandemia. In Sardegna i problemi sono quelli di sempre, da un anno a questa parte aggravati dal Covid: dopo una buona partenza per lo smaltimento dell’arretrato, la prescrizione dei reati è in aumento ovunque. La situazione non potrà che peggiorare, con le udienze che a causa della pandemia vengono rinviate agli anni che verranno. Chi aspetta giustizia comincia a rassegnarsi al fatto che il suo verdetto arriverà il giorno del poi dell’anno del mai. Se prima era un timore, per qualcuno sta diventando una certezza. Gli avvocati, anche loro vittime collaterali del Covid, chiedono interventi strutturali che mettano il comparto giudiziario in sicurezza nel rispetto dei diritti dei cittadini ad avere giustizia. In questa situazione gli ultimi, i più vulnerabili, pagano un prezzo altissimo. Se è vero che la giustizia è lo specchio sociale degli aspetti peggiori e dei comportamenti devianti, al tempo del Covid in questo specchio si sono riflessi in modo particolare i diritti violati dei soggetti più fragili. Anche in questo caso il Covid non è stato la causa, ma l’effetto, di una emergenza che esiste da sempre e che troppo spesso rimane rinchiusa tra le mura domestiche. Solo che da quelle case della paura ogni tanto qualche vittima riusciva ad evadere e a trovare un rifugio sicuro, ma non nel terribile 2020. Dietro quelle pareti e quelle porte chiuse, nei mesi del lockdown e più di recente nelle notti domestiche gialle arancioni e rosse, è successo di tutto. Le vittime non hanno potuto fare molto per sottrarsi alle violenze, alle prepotenze, alle umiliazioni, agli abusi. Donne e bambini sono rimasti esposti ai loro carnefici come vittime sacrificali. Perché è davvero difficile denunciare chi ti sta perseguitando mentre ti trovi sotto il suo spaventoso controllo. Quando il fenomeno delle violenze domestiche si inabissa nel segreto della famiglia, i numeri delle denunce che calano sono un segnale preoccupante. Quando sono stati attivati, i codici rossi sono scattati con difficoltà anche causate dai rallentamenti provocati dalla pandemia. Il mancato o ritardato rispetto dei protocolli per mettere in sicurezza le vittime è stato un effetto collaterale della pandemia Perfino trovare un nuovo alloggio, non per fare un favore a chi maltratta ma per proteggere le vittime, sta diventando un problema. Mentre i sintomi segnalano una situazione di gravissima astenia da carenza di organici e mezzi, le terapie politiche si concentrano sulle riforme dei codici nelle parti più o meno gradite agli inquilini di turno dei palazzi del potere. Nel frattempo il paziente, l’apparato giudiziario, continua a patire. Gli ultimi sono i primi a soffrire. E non è solo colpa del Covid. Cercasi maggioranza contro il circo mediatico-giudiziario di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 febbraio 2021 Non è la prima volta che un governo entra in crisi sui temi della Giustizia. Questa volta però chi soffia da sempre sul fuoco del giustizialismo ha bisogno dell’aiuto di chi ha sputtanato per anni. Nel grande romanzo della scazzottata tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi, c’è una storia nella storia che merita di essere raccontata e che riguarda un tassello non irrilevante del mosaico della crisi di governo. In Italia ormai ci siamo abituati e quasi non ci facciamo più caso ma la verità è che ancora una volta il nostro paese si ritrova a fare i conti con una classe politica sballottata in modo violento da un mostro chiamato circo mediatico-giudiziario. La Giustizia è entrata in queste consultazioni attraverso l’avviso di garanzia ricevuto dal segretario di uno dei partiti corteggiati da Giuseppe Conte per allargare la sua maggioranza (il pm che ha indagato Lorenzo Cesa, Nicola Gratteri, ha respinto l’accusa di aver avviato un’inchiesta a orologeria affermando che “fino all’altra sera gli ho sentito dire in tv che lui e l’Udc non sarebbero entrati nella maggioranza, quindi questo problema non si è posto. Se ora qualcuno vuole sostenere il contrario lo faccia, ma io l’ho sentito con le mie orecchie”, dimostrando che lo sconfinamento della magistratura nell’ambito della politica è diventato ormai così naturale al punto che un pm considera normale giustificare le tempistiche della propria iniziativa giudiziaria facendo riferimento alla situazione politica del paese). Separazione delle carriere in magistratura? Meglio cambiare il metodo di selezione di Giulio Stolfi Il Domani, 1 febbraio 2021 Il nostro sistema è indelebilmente segnato dalla statualità di conio continentale, la sovranità, costruzione teorica che legittima la massima espansione del potere pubblico. Ma se questo è vero, allora, non è proprio un male che il pubblico accusatore sia ancora innanzitutto un magistrato. Se davvero la dinamica di riduzione del pm a un semplice strumento di una pretesa punitiva fosse compiuta, alcuni dei vizi che oggi avvertiamo addirittura si accentuerebbero. Invece di dividere le carriere, servirebbe illuminare il legame fortissimo che c’è fra il meccanismo di selezione della classe giudiziaria, la cultura dei magistrati e la qualità del modo in cui esercitano i loro poteri. A quanto pare c’è ancora da lavorare sul Recovery Plan. Le têtes de chapitre, però, sono segnate. Ed è certo, ad esempio, che continueremo a discutere, anche per questa via, di riforma della giustizia. Riforma della giustizia vuol dire molte cose: fra queste, dibattito sulle, vere e presunte, disfunzionalità nell’articolazione dell’ordinamento giudiziario, ritenute causa di uno strapotere delle procure e di una lesione su vasta scala dei principi del giusto processo e della parità delle parti. Risentiremo ancora la richiesta, che sempre rinverdisce come l’arancio di San Domenico nel chiostro di Santa Sabina all’Aventino, di una separazione radicale fra la funzione requirente e quella giudicante. Il sistema accusatorio - La coerenza interna del sistema accusatorio, si dice, porta in questa direzione. E non è un caso che negli ordinamenti anglosassoni, dove origina questo modello processuale, chi esercita l’accusa in giudizio non sia affatto un magistrato. Addirittura, in Inghilterra, fino all’Ottocento inoltrato non era nemmeno un funzionario pubblico, essendo la private prosecution una regola e non un’eccezione. Solo un’illusione positivistica, però, può pensare che basti la norma scritta a creare - o importare - un modello. Per capire i punti di equilibrio del sistema istituzionale, ed eventualmente modificarli in meglio, è necessario confrontarsi, invece, con una dimensione diversa e ulteriore della giuridicità, che alligna negli strati profondi della coscienza sociale, e si nutre di sentire condiviso, sedimenti storici e retaggi culturali. Per capire di cosa parliamo davvero quando parliamo di separare la pubblica accusa dalla giurisdizione, bisogna addentrarsi in questa dimensione. La giurisdizione, l’atto di dire il diritto, è non solo atto tipico del giudice, ma, per tutto il lungo medioevo giuridico europeo, è stata la categoria che esauriva ogni manifestazione del potere pubblico. Ed è per questo che, anche dopo il primo apparire dello Stato moderno e il cambiamento radicale della grammatica giuridica e politica, ogni potere rimase, per lungo tempo, affidato a dei magistrati. Il ceto dei giuristi - la Robe - custodiva il segreto dell’intero macchinario, grandioso e tremendo, della sovranità. La cultura di questo ceto - cultura della giurisdizione - sopravvisse alla Rivoluzione in una forma dimidiata, ma non irriconoscibile: i magistrati degli ordinamenti continentali (come il nostro) sono sempre rimasti dei giudici professionali, che si legittimano agli occhi del corpo sociale in virtù di una selezione (pensata come) rigorosa, obiettiva, affidabile, che li costituisce e li fonda in una identità collettiva, e che in ciò non differisce, in fondo, dalla cooptazione d’Antico regime. Il giudice istruttore - Ma che cosa vuol dire cultura della giurisdizione? Soprattutto, un perpetuo (e mai compiuto) esercizio di comprensione dell’intima natura del potere pubblico, di cui si esercita una frazione. Il potere ha una essenza abissale, terribile, oscura, come insegnano (a citarne solo, idiosincraticamente, alcuni) Agamben, Foucault, Schmitt; chi lo maneggia brandisce una lama senza elsa, che può ferire chi la impugna nello stesso momento in cui affonda il colpo nelle carni della vittima. È in questo solco profondo e lungo che si comprende davvero perché il vecchio codice di procedura penale del 1930 onerasse di un fardello così apparentemente squilibrato la figura del giudice istruttore, oggi scomparsa. Quello, per intenderci, che secondo l’art. 299 doveva far di tutto per cercare di giungere alla verità - la verità, senz’altra specificazione. Bella pretesa, si direbbe, e disposizione, beninteso, criticatissima da quanti hanno ritenuto che, in democrazia, l’unica verità che possa attingere il processo è debole: un prodotto, semmai, della logica argomentativa. Non si trattava, forse, tanto di un portato dell’autoritarismo fascista, quanto di un’ascendenza molto più remota. Prima della comparsa di “regole del gioco” che cercassero in radice di circoscrivere, delimitare, ingabbiare il potere pubblico (quelle della democrazia costituzionale), lo Stato moderno europeo trovava una sua forma di garanzia dei diritti nel processo proprio nello stesso peso che gettava sulle spalle del magistrato: lo costringeva a confrontarsi con l’abissalità del potere, eliminato ogni diaframma fra di lui e le conseguenze dell’esercizio di quel potere; lo poneva di fronte a limiti non scritti, ma non per questo meno cogenti, leggi fondamentali che erano custodite dalla comunità dei giuristi nelle proprie rappresentazioni collettive. Il senso del limite - Una traccia di questo “senso del limite”, che il magistrato era chiamato a presidiare, si avvertiva anche al tramonto del “vecchio” processo. Per sentirne il sapore, basta tornare alle pagine di quel capolavoro che è Procedura di Toti Mannuzzu, figura esemplare fra i tanti giuristi-umanisti che il nostro sistema ha saputo produrre. Il protagonista di quella storia è un giudice istruttore: un antieroe pieno di debolezze, anche professionali, un perplesso, un riluttante, in alcuni momenti perfino un inconcludente, che però sa far filtrare nel proprio ruolo - ma anche dal proprio ruolo, costretto com’è a compiere suo malgrado atti di indagine - una accorata comprensione dell’umano, che lo porta a far vera giustizia. Il nostro sistema è indelebilmente segnato dalla statualità di conio continentale, col suo portato, la sovranità, costruzione teorica che legittima la massima espansione del potere pubblico. Ma se questo è vero, allora, non è proprio un male che il pubblico accusatore sia ancora innanzitutto un magistrato, per come lo si è descritto finora: forse, se davvero la dinamica di riduzione del pubblico ministero a un semplice strumento di una pretesa punitiva fosse compiuta, alcuni dei vizi che oggi avvertiamo addirittura si accentuerebbero: spuntare alcune armi non sempre vuol dire rendere più innocuo un soggetto, perché lo può spingere ad usarne altre, per giunta in un contesto di crescente deresponsabilizzazione (“tanto poi se la vede il giudice”). Forse, il problema - o uno dei problemi - è che un po’ di quella cultura della giurisdizione che faceva ritrarre, dubitare, ma infine anche agire per il meglio il protagonista del libro di Toti Mannuzzu, oggi si è persa; e ce ne vorrebbe di più. Il meccanismo di selezione - Certamente non si vuol dire, nemmeno di lontano, che sia il caso di tornare indietro ad una previgente architettura del processo e dell’ordine giudiziario, e non è una nostalgia del tutto avulsa dalla realtà a parlare in queste righe. Il processo inquisitorio è un ricordo del passato. Ma una sana avvedutezza della “linea” storica potrebbe risultare utile a una politica riformatrice coronata di qualche successo. Ad esempio, servirebbe a illuminare il legame fortissimo che c’è fra il meccanismo di selezione della classe giudiziaria, la cultura dei magistrati e la qualità del modo in cui esercitano i loro poteri. In questa chiave, più che tentare rivoluzioni copernicane, sarebbe forse opportuno, ad esempio, rinnovare e rivedere una selezione divenuta ormai ingestibile, nella quale domina una visione miracolistica della vittoria concorsuale e fa premio un imparaticcio nozionistico del tutto privo di spessore di visione e cultura. Potrebbe contribuire a ricreare una adeguata consapevolezza del vestire la toga; il che, a sua volta, aiuterebbe ad interrompere alcuni meccanismi che troppo spesso vediamo in azione, evitando però di scardinare, in questo stesso tentativo, e peraltro forse inutilmente, gli assi fondanti della nostra tradizione ordinamentale. Vi racconto i miei trent’anni nella magistratura onoraria di Lucia Chidichimo Il Domani, 1 febbraio 2021 Quello di magistrato onorario è un incarico che dovrebbe durare al massimo tre o quattro anni e non certamente 30. Lo si svolge con tutti gli obblighi di un magistrato di ruolo, ma sempre privi di qualsiasi tutela di base. Le indennità lorde previste per i giudici di pace sono di € 258,30 al mese, 36 euro per ogni udienza e 56 euro per ogni sentenza. Per i viceprocuratori onorari il compenso a udienza è di 98 euro. Mi continuo a chiedere, senza poter trovare una risposta, come possa il nostro Paese essere completamente indifferente alle legittime istanze fondate sul rispetto della Carta costituzionale. Mi sono spesso chiesta se i cittadini italiani conoscano il funzionamento e l’apporto della magistratura onoraria nel meccanismo della giustizia italiana. La sentenza UX1 della Corte di giustizia del 16 luglio 2020 sullo stato giuridico della magistratura onoraria italiana, dopo anni di battaglie, ha aperto un nuovo ciclo della giurisprudenza comunitaria sulla tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei. Ho amato moltissimo questa professione ed ho sempre cercato di condurla con impegno e dedizione in entrambi i ruoli che ho rivestito, ricavandone anche molte soddisfazioni a livello morale, ma anche molta delusione rispetto al trattamento che tutti i governi succedutisi ci hanno riservato. Queste considerazioni non vogliono essere il solito excursus giuridico sulle norme che ci riguardano, ma solo la mia esperienza personale di avvocato che ha offerto trent’anni di lavoro, privo di ogni garanzia, allo Stato Italiano. Sono stata pubblico ministero onorario per 12 anni a Roma e ho seguito e discusso processi estremamente delicati, quali colpe professionali mediche, omicidi colposi da sinistri stradali e infortuni sul lavoro, maltrattamenti in famiglia, usura ecc., e comunque tutti i reati un tempo di competenza del pretore e successivamente del giudice monocratico. Dopo essermi dimessa dall’incarico di pm onorario, ho ricoperto per 18 anni il ruolo di Giudice di pace penale, 15 anni dei quali in un’altra città, dove sono stata per circa otto anni anche il coordinatore e dirigente amministrativo, nonché datore di lavoro e responsabile della sicurezza, nello stesso Ufficio in cui svolgevo contestualmente le funzioni di giudice. Negli ultimi tre anni sono rientrata a Roma, terminando l’incarico nel gennaio 2019 come previsto dal relativo Decreto legislativo avendo raggiunto il limite di età di soli 68 anni. Giudice di pace - Riguardo al ruolo del giudice di pace probabilmente non tutti sono a conoscenza del fatto che questa figura fa parte dell’ordinamento giudiziario e che esercita la giurisdizione in materia civile e penale, il che significa, soprattutto nell’ambito penale, trovarsi a dirimere controversie spesso molto delicate relative a reati come la diffamazione, le lesioni colpose e dolose, le minacce. In questi lunghi anni mi sono trovata di frequente a dovermi occupare di reati di diffamazione tra politici, tra primari di ospedali, nonché tra professionisti ed insegnanti, lesioni e minacce in ambito familiare, lesioni colpose da sinistro stradale con prognosi entro 20 giorni ma che sino al 2016 riguardavano anche lesioni gravissime: ricordo tra i tanti, un procedimento estremamente impegnativo che riguardava una giovane donna vittima di un incidente stradale per la quale è stato necessario che nominassi un curatore speciale in quanto “in stato di coma vegetativo”. Nonostante la delicatezza delle questioni trattate e la trentennale attività giudiziaria svolta per lo Stato Italiano questa è stata qualificata onoraria, quando un incarico onorario dovrebbe durare al massimo tre o quattro anni e non certamente 30. Tutti gli obblighi di un magistrato di ruolo, ma sempre privi di qualsiasi tutela di base che la nostra Costituzione garantisce ad ogni lavoratore. In tutti questi anni ho sentito spesso ripetere la stessa domanda: “Ma chi ve lo ha fatto fare? perché avete chiesto i rinnovi? Potevate fare il concorso”. Ognuno ha il suo motivo, il mio è stato sempre lo stesso, sia quando avevo il ruolo di pubblico ministero che quando sono stata giudice e contestualmente coordinatore dell’ufficio: la volontà di dare un contributo alla giustizia non solo come difensore ma anche come magistrato, se pure onorario; devo altresì aggiungere che i dirigenti degli uffici hanno sempre specificamente richiesto per iscritto la disponibilità ad accettare proroghe dell’incarico, sia per motivi di opportunità data la professionalità acquisita, sia, non posso negarlo, per la valutazione positiva del lavoro svolto. I nostri compensi - Negli ultimi tempi anche la magistratura di carriera sembra voler ammettere il notevole contributo fornito dagli “onorari” non solo perché l’Europa ha criticato lo Stato Italiano, aprendo una procedura d’infrazione, ma soprattutto perché i Procuratori non riescono ad andare in udienza almeno tre volte a settimana come sarebbe necessario e per i Giudici di ruolo l’assegnazione al Giudice di pace di molti reati, in passato affidati al Giudice monocratico, ha sensibilmente alleggerito i loro ruoli. Si è mai chiesto il cittadino che si rivolge a noi, chiedendo una rapida giustizia, quali siano i nostri compensi? Queste le indennità lorde previste per il Giudici di pace: indennità mensile € 258,30 pari ad € 8,61 giornalieri; eventuale indennità di coordinamento € 206,58 pari ad € 6,89 giornalieri; per ogni udienza € 36,15 e per ogni sentenza € 56, 81; per le archiviazioni ed i Decreti ingiuntivi € 10,33, e molti provvedimenti non vengono neppure remunerati. I compensi per udienza dei Vice Procuratori Onorari nel 1989 erano di L. 60.000, aumentata poi a L. 81.780, mentre ora è diventata di € 98,00. Ci sono stati innumerevoli casi giudiziari che mi hanno rinforzato nella volontà di far capire quanto sia importante che i cittadini credano nella giustizia, ma soprattutto che comprendano anche come il trovare un accordo senza giungere ad una condanna o ad una assoluzione sia spesso preferibile. Questo è anche il nostro compito di giudici di pace, perché la legge ce lo impone. La nostra è la giustizia di prossimità e perciò è così importante: tocca la vita di tutti i giorni: ho avuto le mie più grandi soddisfazioni proprio quando imputato e parte offesa si sono stretti la mano e mi hanno ringraziato per essere riuscita a metterli d’accordo. La sezione stranieri - Con il trasferimento a Roma sono stata immediatamente precettata dal Presidente del Tribunale e assegnata d’imperio anche alla Sezione stranieri, con ciò verificandosi un ulteriore contraddizione, in quanto pur onoraria, senza alcuna copertura previdenziale e prossima alla cessazione dall’incarico, sono stata soggetta, come del resto tutti gli altri colleghi onorari, ai medesimi obblighi che il Csm ha stabilito per i magistrati di carriera. Rivestendo il ruolo di onoraria non posso sottacere l’indennità a noi devoluta per ogni convalida di espulsione di stranieri, che ammonta solo ad € 10,00 lorde, pur implicando una notevole responsabilità: infatti è noto a tutti il caso della collega che per una attività di questo tipo è stata poi condannata alla pena di due anni e sei mesi ed interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, per falso ideologico. Risulta evidente, dunque, come questa breve sintesi della mia trentennale attività giurisdizionale, sia pure nella diversità delle esperienze individuali, fotografi le condizioni in cui versano da anni tutti i magistrati onorari. Nella convinzione più profonda che ogni società civile debba riconoscere e rispettare i diritti di ognuno attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto mi continuo a chiedere, senza poter trovare una risposta, come possa il nostro Paese così pieno di civiltà e di cultura essere completamente indifferente alle legittime istanze fondate sul rispetto della Carta costituzionale e dei suoi principi ispiratori. Quella della magistratura onoraria non è solo una questione economica, è una questione morale di Davide Varì Il Dubbio, 1 febbraio 2021 La nota dei magistrati onorari di Milano, che in concomitanza con la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario hanno organizzato un flash mob davanti al Palazzo di Giustizia. Di seguito la nota dei magistrati onorari di Milano, che in concomitanza con la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario hanno organizzato un flash mob davanti al Palazzo di Giustizia, al quale hanno preso parte Got, Vpo e Giudici di Pace di Milano e di altri uffici lombardi, uniti nella comune protesta. In toga, stringendo la rosa rossa, sono rimasti immobili e distanziati sullo scalone dell’ingresso principale. Ecco il testo dell’intervento che, se avesse potuto prendere parte alla cerimonia, l’associazione AssoGot avrebbe voluto pronunciare. Due anni fa, in pieno inverno, moriva Sonia, giudice onorario presso il Tribunale di Bologna. Lavorava alla sezione sfratti: abitava ad Arcore e ogni lunedì prendeva un treno locale, cambiava a Milano, e, puntuale, iniziava alle nove la sua affollatissima udienza nel capoluogo emiliano. Le procedure di sfratto non sono controversie prestigiose e le convalide si accompagnano a situazioni difficili e drammatiche: il giudice è esposto alla carne viva di una umanità povera e dolente che spesso, priva di galateo giudiziario, non esita a portare con sé la prole, che espone in grembo, a mò di ricatto morale, tra sé ed il Giudice. Sonia assisteva a scene come questa ogni settimana, ma era un giudice pietoso e aveva sempre a cuore il sollievo di chi le era davanti. Due giorni prima di morire, a causa di un tumore cerebrale fulminante, aveva tenuto regolarmente udienza, facendo il proprio dovere di magistrato: quel giorno, però, pare che non sia riuscita a portare a termine l’udienza perché stava troppo male. Dopo essere riuscita a prendere il treno per tornare a casa, mancò la sua fermata e finì alla stazione di Milano centrale, dove il marito corse a prenderla. Non si riprese più, e l’indomani moriva all’ospedale di Monza. Solo una sparuta pattuglia di suoi colleghi onorari attraversò la pianura padana per recarsi ad Arcore a renderle l’ultimo saluto. Volevano tutti fortemente che da Bologna, luogo distante dalla sua zona, ma dove lei aveva fatto così tante cose buone ed importanti, venisse qualcuno a dire ai suoi cari: Sonia era un giudice bravo ed onesto, ha compiuto il suo dovere fino alla fine e a noi dispiace che sia morta. Nessuna figura apicale del Tribunale in cui aveva lavorato per tanti anni ha ritenuto di inviare una corona di fiori, un telegramma, o una mail di cordoglio. Prima e dopo Sonia, e ancor di più in quest’anno di pandemia, sono tanti i colleghi che si sono ammalati o sono morti, abbandonati a se stessi o spariti come fantasmi, figure invisibili per lo Stato, per il ministero, e persino per l’Ufficio in cui hanno prestato servizio quotidianamente, talvolta per decenni. Colleghi morti senza diritti, così come senza diritti avevano vissuto. Dopo anni di promesse e riforme mai attuate, qualche mese fa è giunto l’ennesimo schiaffo del ministro della Giustizia, il quale, in un atto parlamentare, ha spiegato che il deteriore trattamento dei magistrati onorari è giustificato “dalla finalità di contenere il numero dei togati, pena la perdita di prestigio e la riduzione delle retribuzioni della magistratura professionale”. Davanti ad un tale affronto, i magistrati onorari hanno capito che è finito il tempo di confidare nelle istituzioni, ed è giunto il momento di reagire. Indossando le loro toghe, si sono dati appuntamento davanti ai Tribunali italiani stringendo in pugno una rosa rossa, rievocando così la protesta portata avanti nel 1912 dagli operai tessili di Lawrence e passata alla storia come “lo sciopero del Pane e delle Rose”, dai versi di una poesia del tempo: “Le nostre vite non devono essere sudate dalla nascita fino alla morte, i cuori muoiono di fame come i corpi, dateci il pane, ma dateci anche le rose. Mentre noi marciamo, innumerevoli donne morte gridano nel nostro canto la loro antica richiesta di pane. I loro spiriti laboriosi conoscevano poco dell’arte, dell’amore e della bellezza. Si, è il pane ciò per cui lottiamo, ma lottiamo anche per le rose”. Oggi il pane quotidiano dei giudici onorari è rappresentato da un gettone d’udienza; le rose delle ferie, della maternità, degli infortuni, della malattia, del trasferimento, del congedo familiare, e perfino dei buoni pasto o della gratifica natalizia sono diritti ancora sconosciuti e negati. Solo l’anno scorso, grazie ad una significativa pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la percezione del ruolo dei magistrati onorari è cambiata anche nella giurisdizione italiana, con alcune sentenze dei Tribunali di Vicenza, Napoli e Roma che hanno riconosciuto l’identità delle funzioni svolte dai magistrati onorari e dai magistrati di carriera e il diritto ad un trattamento economico e giuslavoristico equivalente. Lo Stato continua a essere sordo alle richieste di dignità e giustizia e i suoi funzionari e rappresentanti sembrano non comprendere che quella della magistratura onoraria non è solo una questione economica, ma è anzitutto una questione morale. Per protestare contro il Ministro e il Legislatore, alcuni colleghi non si sono limitati a manifestare con le rose in pugno davanti al loro tribunale: Enza, Sabrina e Giulia di Palermo, Livio di Parma, Patrizia e Maria Antonietta di Cosenza, hanno deciso di portare avanti uno sciopero della fame! Iniziativa estrema, di cui forse la società, ma soprattutto la politica, sembrano non aver compreso la portata, e neppure si direbbe abbiano colto quanta rabbia, disperazione e dignità ci sia dietro una scelta così radicale. Nell’Irlanda celtica e precristiana questa forma di protesta non violenta veniva chiamata con il termine “Cealachan” ed era disciplinata da regole ben precise: se una persona riteneva di aver subito un grave torto, poteva andare a digiunare sulla soglia di casa della persona che l’aveva offeso ingiustamente: ma quella società teneva in grande considerazione i valori dell’accoglienza e dell’ospitalità ed avere una persona che moriva di inedia davanti a casa propria era considerato come un gravissimo disonore. Allo stesso modo Enza, Sabrina, Giulia, Livio, Patrizia e Maria Antonietta hanno atteso fuori dai tribunali dove prestano servizio che il loro datore di lavoro onorasse il suo debito. Purtroppo, ancora senza esito. Dopo quindici giorni di digiuno, durante il quale, per non incorrere nelle sanzioni minacciate dalla Commissione di Garanzia, ha continuato a tenere udienza, Enza ha perso i sensi ed è svenuta: l’udienza è stata interrotta, la giudice è stata soccorsa e portata via in ambulanza. Fin dove deve spingersi un operatore della giustizia, per avere anche lui giustizia? La strage di Bologna, il documento ritrovato e le minacce di Gelli di Stefania Limiti Il Domani, 1 febbraio 2021 Dalle inchieste sulla strage del 2 agosto 1980 emerge un documento. Dalla Svizzera arriva in Italia, ma viene ignorato per oltre tre decenni. Vi siete mai chiesti perché solo oggi sentiamo parlare di un importantissimo documento sequestrato al suo proprietario, Licio Gelli, all’inizio degli anni Ottanta? Parliamo del documento Bologna sul quale si fonda l’attuale processo ai mandanti della strage alla stazione del 2 agosto 1980 istruito dalla procura generale del capoluogo emiliano. Un documento che proverebbe il finanziamento da parte del sistema della P2. La storia - È il 13 settembre 1982. A Ginevra Licio Gelli, ormai noto capo di una organizzazione massonica occulta chiamata P2, scappato dall’Italia, sta per entrare nell’agenzia della banca Ubs ma viene bloccato e arrestato dalla polizia locale. Porta con sé varie carte, tra le quali una che reca l’intestazione Bologna 525779 - x.s. È quindi da quasi quarant’anni, da quando è stato sequestrato al suo proprietario, che quel documento, non più protetto tra i segreti della P2, è a disposizione delle autorità giudiziarie. Ma per quasi quarant’anni è rimasto invisibile. Passa di mano in mano, esce dalla borsa di Gelli durante l’arresto svizzero e resta per un po’ nei cassetti delle autorità di quel paese. Quattro anni dopo la procura di Milano (16 luglio 1986) invia di persona il capitano Francesco Falbo a prenderlo, finisce nel faldone 123 del fascicolo del processo sulla bancarotta dell’ex Banco ambrosiano e lì resta a lungo. Nel frattempo quel foglietto, pieno di conteggi, nomi, e l’intestazione Bologna, viene esaminato dagli esperti della Guardia di finanza che nel 1987, in un rapporto per i giudici istruttori che indagano sul fallimento dell’istituto bancario, ammettono: “Non si riesce allo stato attuale a dare un significato ben preciso al riferimento alla città di Bologna riportato nell’intestazione del documento”. Il documento finisce in un cassetto nonostante Gelli e i suoi compari proprio in quegli stessi mesi siano sotto processo per depistaggio delle inchieste sulla strage di Bologna (il primo grado inizia nel marzo del 1987 e finisce nel novembre dell’anno successivo). Nessuno pensa a un nesso. E poi c’è quel numero: 525779-x.s. Si scopre che corrisponde a un conto corrente acceso alla Ubs di Ginevra da Licio Gelli, che rivela due flussi di somme distratte dal Banco ambrosiano, una da 10 miliardi di dollari l’altra da 9. Le movimentazioni passano attraverso i conti degli stretti collaboratori di Licio Gelli, tra i quali Marco Ceruti e Umberto Ortolani. Incrociati quei movimenti di denaro con altri documenti si capisce che un sacco di soldi sono stati spostati in prossimità della data della strage. Ma nessuno dà troppo peso alla cosa. L’avvocato - Un recente rapporto della Guardia di finanza (trasmesso alla procura generale di Bologna il 25 novembre del 2019) e che Domani ha potuto visionare ci aiuta a saperne di più. Infatti svela che la sera del 14 maggio 1987, intorno alle otto della sera, Fabio Dean, avvocato di Licio Gelli, si presenta nell’ufficio del direttore centrale della polizia di prevenzione, Umberto Pierantoni. Ha chiesto di essere ricevuto con una certa solerzia, anche se, entrando, dice “grazie dell’invito”, tanto che l’altro gli fa notare “veramente abbiamo ricevuto una richiesta di incontro”. L’avvocato comincia a girare intorno a varie cose ma poi finalmente va al punto: “Tra i documenti sequestrati al Gelli nel 1982 (durante il suo arresto) vi sono appunti con notizie riservate che spetterà poi a Gelli avallare o meno, sulla base del come gli verranno poste le domande stesse”. E aggiunge: “Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli allora lo farà”. Insomma, Dean sa che prima o poi il suo cliente verrà interrogato e decide di giocare d’anticipo, anche con una minaccia non troppo velata. L’inedita conversazione è riportata in un documento classificato riservatissimo redatto la sera dopo l’incontro, su cui è scritto “Appunto per l’onorevole ministro” (si presume l’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro), firmato da Vincenzo Parisi, allora capo della polizia. C’era proprio da scomodare le alte cariche dello stato? Secondo gli analisti della Guardia di finanza l’emissario del venerabile Gran maestro ha bussato alla porta di Parisi proprio perché tra quelle carte c’era qualcosa di imbarazzante e pericoloso per Gelli e i suoi amici, il documento Bologna 525779 -x.s. La stessa relazione spiega che una volta sola Gelli è stato interrogato al riguardo: il 2 febbraio del 1988 dai giudici istruttori Renato Bricchetti, Antonio Pizzi e dal pm Pierluigi Dell’Osso. Questi, che hanno nei cassetti l’originale del documento Bologna, sono loro che hanno inviato Falbo a prenderlo in Svizzera, mostrano inavvertitamente all’indagato Gelli una fotocopia del documento che, fatalmente, nasconde sul retro l’intestazione Bologna. Gelli lo guarda, ci pensa su, dice che non si ricorda niente e promette di fare mente locale. Punto. Laconicamente il rapporto dei finanzieri dello scorso novembre allude a un legame tra quelle velate minacce e il modo “in cui venivano poste le domande a Gelli sugli appunti con notizie riservate tra cui il documento Bologna”. Abbiamo chiesto qualche particolare in più al dottor Renato Bricchetti, oggi presidente della VI sezione penale della Cassazione, che ha voluto rispondere solo via mail dicendo di avere “ricordi sfocati. Ho il ricordo, oltre che della persona dell’interrogato e dei suoi difensori, di un interrogatorio inutile ai fini della acquisizione di elementi confermativi dei fatti di bancarotta contestati e per i quali è intervenuta condanna. Conservo a Milano carte di quell’istruttoria. Dovrei verificare. Buona serata”. L’appropriazione indebita aggravata da recidiva “qualificata” è procedibile d’ufficio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2021 Per le sezioni Unite integra aggravante a effetto speciale che non impedisce la perseguibilità per la remissione della querela. La recidiva qualificata rientra nella categoria delle circostanze aggravanti a effetto speciale. Cioè non determina solo una qualificazione soggettiva del reo, ma aggrava il reato con tutte le conseguenze previste dal codice penale, anche in termini di procedibilità. Quindi, per chi è imputato di appropriazione indebita, “aggravata” da tale tipo di circostanza, non basta a evitare il processo la remissione della querela. Infatti, anche dopo la previsione, ad opera del Dlgs 36/2018, della perseguibilità di reati contro il patrimonio in base a querela della persona offesa, scatta ancora la procedibilità d’ufficio, se ricorre una circostanza aggravante a effetto speciale, determinante l’aumento di un terzo della pena, e ciò che rileva è che può essere integrata anche dalla recidiva. Così la sentenza n. 3585/2021 delle Sezioni Unite penali. L’orientamento risalente era basato sulla normativa del 2005, che aveva acuito gli aspetti personali della recidiva, e affermava che anche quando qualificata non integrasse aggravante del reato, e neanche a effetto speciale. La remissione alle Sezioni Unite è stata determinata dal conflitto di giurisprudenza emerso e dall’opinione del rimettente che riteneva superato tale orientamento dalla previsione del nuovo articolo 649 bis del Codice penale che regola i casi di procedibilità d’ufficio dei reati contro il patrimonio, compresa l’appropriazione indebita. La riforma, in effetti, aveva ampliato le fattispecie perseguibili solo in base all’interesse privato della persona offesa (querela) anche in ipotesi di appropriazione aggravata, come in quella de caso concreto dell’abuso di relazioni di prestazione d’opera. Ma ha contemporaneamente fatto salva la procedibilità d’ufficio quando ricorra una circostanza aggravante ad effetto speciale, cioè quella che determina l’aumento della pena oltre un terzo. Come il caso della recidiva qualificata che comporta l’aumento di pena superiore aun terzo in base alle previsioni dei commi 2 e 3 dell’articolo 99 del Codice penale. Quindi dalla rimessione della querela della vittima del reato, non si evita il processo per l’appropriazione indebita aggravata da circostanza a effetto speciale, tra cui rientra la recidiva qualificata, aggravata, pluriaggravata e reiterata. Superato quindi l’orientamento che escludeva in toto la rilevanza della recidia sulla gravità del reato in quanto essa qualificherebbe aspetti soggettivi del reo in termini di pericolosità e non aspetti quantitativi del fatto-reato. È stato successivamente acclarato il “peso” della recidiva qualificata rispetto al reato, affermando che essa non riguarda solo la tendenza a delinquere, ma determina un’attitudine tale da determinare la commissione di un fatto più offensivo. La recidiva che integra una circostanza aggravante opera se il giudice ne qualifica i profili e la dichiara. In conclusione - in base al diritto cosiddetto vivente - la recidiva è circostanza aggravante del reato e nella sua versione “qualificata” integra l’aggravante ad effetto speciale che determina la procedibilità d’ufficio del reato. Roma. “Covid, a Rebibbia situazione difficile. Bisogna ridurre le presenze in carcere” di Vanessa Seffer affaritaliani.it, 1 febbraio 2021 Stefano Anastasìa, il Garante dei detenuti del Lazio: “Provvedimenti governativi timidi lo scorso marzo per liberare le carceri, sarebbe necessaria una riduzione radicale e immediata”. Tante le criticità dei 14 Istituti di pena del Lazio. Ma a cercare risposte immediate è il carcere di Rebibbia che ospita 1440 detenuti a fronte dei 700 che dovrebbe trattenerne, anche per quegli spazi di emergenza che sono necessari. Le carceri, proprio per questa condizione di grave sovraffollamento, per le scarse condizioni igieniche e per le condizioni di salute di molti detenuti, sono luoghi ad alto rischio di diffusione per qualsiasi epidemia. Infatti, 110 dei detenuti attualmente sono positivi al Covid, nonostante gli sforzi della Polizia penitenziaria e del personale sanitario di questi lunghi mesi. Il Garante dei Detenuti del Lazio, il Dott. Stefano Anastasìa, ci spiega cosa succede e se ci sono speranze che possa esserci a breve una svolta. La situazione che si è creata a Rebibbia, che non è detto non possa duplicarsi altrove, è surreale. L’isolamento, il monitoraggio e l’assistenza sono possibili per le persone che hanno contratto il virus in carcere? Situazione molto complicata e difficile, la maggior parte di queste persone è asintomatica ed ha bisogno solo di monitoraggio costante e non di assistenza sanitaria. Ma certamente li ho visti, ho visitato il reparto Covid di Rebibbia. Sono stanze ricavate da una sezione chiusa in attesa di ristrutturazione, quindi fra quelle messe peggio dal punto di vista ambientale. Vedere queste persone in ambienti di 5 o 6 persone e in situazioni così precarie anche igienicamente ed altro è davvero molto difficile. Questo riguardo ai positivi, ormai non spostano neanche più gli altri perché non si sa dove metterli, quindi chiudono le sezioni dove risultano i detenuti positivi. Poi c’è il problema di coloro che sono stati in contatto con i positivi, che vanno con maggiore attenzione isolati, messi in quarantena per verificare nel caso dovessero risultare anch’essi positivi che non vadano a contagiare altri. Anche lì la mancanza di spazi, il cronico sovraffollamento degli Istituti di pena, in modo particolare di Rebibbia nuovo complesso, fa sì che queste quarantene non si svolgono come ci hanno spiegato, che dobbiamo stare in casa, in stanze separate, senza entrare in contatto e con tutte le precauzioni del caso. Le quarantene in carcere si svolgono tutti insieme, nella stessa stanza in cui normalmente si vive e i negativi e i positivi stanno insieme col rischio che si contagino fra loro. Nel carcere lavorano sia il personale penitenziario che il personale medico-sanitario, che poi tornando a casa si rapportano a loro volta con le famiglie. La campagna vaccinale che è partita sul piano nazionale copre in qualche modo il personale medico ed infermieristico, che già nei mesi passati risultava positivo operando dentro gli Istituti di pena. Ora con loro siamo un po’ più tranquilli, ma lo siamo meno nel caso della Polizia penitenziaria. Sono alcune decine i poliziotti positivi al virus, pur esentati dal servizio, stanno a casa, ma questo pesa su tutto il funzionamento della macchina. Avere venti agenti in servizio in meno significa complicare i turni di servizio, lasciare postazioni vuote. È un sistema intero in grande sofferenza. Ci sono 5 Rems nel Lazio. In tre di queste è stato fatto il vaccino anti-Covid ai pazienti e addirittura è stato già dato il richiamo. Come mai non si è pensato di vaccinare subito anche i detenuti nelle carceri che sono tutte sovraffollate? La vaccinazione nelle tre Rems della ASL di Tivoli si è conclusa con i due cicli e le altre due lo stanno completando. Possiamo dire che tutta la popolazione dei malati di mente autori di reato ospitati nelle Rems sono stati vaccinati, ma questo lo hanno potuto fare le Autorità Sanitarie Locali, in particolare i Dirigenti di Salute mentale competenti su queste strutture, perché si tratta di “strutture sanitarie” e rispondevano alla giurisdizione delle Asl. Le Strutture Sanitarie Residenziali sono quelle che sono state individuate come priorità assoluta, pensiamo alle famose Rsa dove ci sono tanti nostri anziani e dove si è partiti nella campagna di vaccinazione e quindi i dirigenti sanitari hanno ritenuto di poter intervenire direttamente nell’ambito della loro autonomia anche in queste strutture in quanto strutture sanitarie. Purtroppo le carceri non sono strutture sanitarie, quindi la decisione riguardo le carceri, in merito alla campagna vaccinale, dipende direttamente dalle decisioni del piano vaccinale. Per cui le carceri in una prima fase non sono proprio state prese in considerazione e in una seconda fase è stato detto che le vaccinazioni potranno arrivare all’inizio della terza fase, cioè a partire da luglio. Sappiamo che ci sono i ritardi nelle forniture e che la cosa può slittare molto più in là. Questa però è responsabilità del piano vaccinale nazionale, del Ministero della Salute e del Commissario Arcuri, il quale vorrei precisare ha risposto alle molte sollecitazioni di noi Garanti e dei tanti operatori del sistema penitenziario. Ha finalmente detto che effettivamente le carceri, intendendo sia i detenuti che il personale che lavora nelle carceri, dovrebbero rientrare nella campagna vaccinale dopo gli ultra 80’enni, quindi nella prossima fase della campagna vaccinale. Aspettiamo che queste indicazioni al momento solo verbali del Commissario Arcuri, possano tradursi in provvedimenti scritti. Potremmo considerare i detenuti parte di quella popolazione “fragile” dato che vivono non solo ammassati l’uno su l’altro, ma anche in condizioni igieniche molto scarse e in condizioni di salute spesso molto precarie? Dobbiamo tener infatti presente la specificità delle istituzioni penitenziarie peraltro riconosciute a livello internazionale, a partire dall’Oms in giù. Ovunque sia quindi riconosciuta una particolare fragilità o vulnerabilità degli ospiti delle istituzioni penitenziarie. In Italia lo ha fatto anche la commissione di Bioetica in un suo documento dello scorso aprile, dicendo che dopo le Rsa le carceri sono un luogo di attenzione. Perché sono un luogo di vita comunitaria esattamente come le Rsa e sebbene ci sia un’età media più bassa ci sono condizioni non paragonabili e più gravi di quelle delle Rsa e le persone detenute hanno storie di salute assai complicate con patologie pregresse molto rilevanti e quindi una vulnerabilità individuale molto significativa. Pertanto sono convinto che se la questione dovesse essere discussa in sede di Comitato Tecnico Scientifico per il piano vaccinale, questo non potrà che decidere che quella delle carceri sia effettivamente una priorità. Che tipo di disposizioni si potrebbero mettere in atto per alleviare questa situazione durante il Covid? Sarebbe necessaria la riduzione delle presenze in carcere, una riduzione radicale ed immediata. Fino a quando non ci sarà una campagna vaccinale che possa coprire tutto l’ambiente penitenziario, detenuti e operatori, noi dobbiamo pensare che nelle strutture penitenziarie siano liberati spazi per quell’isolamento, quelle necessità di cura e di monitoraggio che oggi non ci sono. Purtroppo i provvedimenti governativi in questo senso sin dal marzo scorso sono molto timidi, non hanno fatto diminuire quanto necessario la popolazione detenuta, però gli uffici giudiziari e le autorità competenti possono intervenire con i loro strumenti. Ricordo che ci fu un intervento importante del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, sul contenimento delle misure cautelari in carcere e sulla possibilità di rinviare l’esecuzione di provvedimenti penali che non avessero una ragione di particolare urgenza o di sicurezza evidente. Intanto si potrebbe lavorare in questo modo poi bisogna procedere alla campagna vaccinale. Roma. A Rebibbia restano in cella malati gravi, ma Verdini è fuori di Nello Trocchia Il Domani, 1 febbraio 2021 Nel nuovo complesso dell’istituto penitenziario di Roma ci sono 70 casi positivi e decine di detenuti affetti da gravi malattie. Anche il ministero chiede spiegazioni sulla scarcerazione dell’ex senatore. Il carcere è unico, si chiama Rebibbia, ma le possibilità cambiano a seconda del nome e del cognome del detenuto. Il nuovo complesso, il più grande dei quattro istituti del polo carcerario, ospita in media 1350 ristretti, almeno 200 oltre la capienza. Qualche giorno fa Denis Verdini, per lungo tempo senatore della repubblica e al centro della scena politica, è uscito dall’istituto dove era entrato 85 giorni prima per scontare una condanna definitiva a sei anni e mezzo, ottenendo la misura meno afflittiva della detenzione domiciliare. Alla base del provvedimento la drammatica situazione in cui versa il carcere di Rebibbia, dove alcune sezioni sono state chiuse per la diffusione dei contagi. I giudici hanno quindi deciso per la scarcerazione di Verdini, che compirà 70 anni a maggio, disponendo una detenzione domiciliare provvisoria in quanto il regime carcerario, con l’aumento dei casi di Covid-19, non è compatibile con le condizioni di salute dell’ex parlamentare. Verdini ora trascorre il periodo di detenzione pressa la propria abitazione di Firenze. Nessuno, neanche chi protesta, inascoltato, come i familiari di decine di ristretti, vuole sindacare sul caso Verdini, che esce a causa delle condizioni di salute incompatibili con il carcere, ma a leggere le storie di decine di detenuti emerge la disparità di trattamento. Detenuti che presentano condizioni anche più gravi, ma che non riescono a ottenere ascolto e la necessaria visita per dimostrare l’incompatibilità con la detenzione carceraria. L’accusa a Bonafede - Verdini entra in carcere a inizio novembre, riceve le visite degli educatori, degli assistenti sociali e anche dei parlamentari di ogni schieramento: Matteo Renzi, Matteo Salvini, Roberto Giachetti, Daniela Santanché, del magistrato in aspettativa e deputato renziano Cosimo Ferri. Un cordone di amicizia e attenzioni si stringe attorno all’ex senatore e leader di Ala, il partitino di ex berlusconiani che ha tenuto in vita il governo Renzi, qualche anno fa. Verdini è entrato a Rebibbia, nel nuovo complesso, e dopo qualche giorno è stato trasferito al G14, il reparto infermeria, è riuscito a ottenere la visita del medico che ne ha certificato l’incompatibilità e poi l’approvazione della misura differita da parte del magistrato di sorveglianza. Una vicenda che ha avuto anche una ricaduta politica. Il senatore ex M5s Mario Michele Giarrusso ha attaccato duramente il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Siamo alle solite vergogne e incapacità di Bonafede, alcuni giorni fa avevo rilanciato l’allarme scarcerazioni per Covid, in quella occasione si era detto di procedere senza ritardi alle vaccinazioni dei detenuti e degli operatori carcerari per evitare nuove scarcerazioni. L’ottimo e superlativo ministro Bonafede, ovviamente nulla ha fatto al riguardo ed ecco le ovvie evitabili conseguenze”, scrive Giarrusso sui social annunciando un’interrogazione urgente. Intanto i vertici del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, hanno chiesto spiegazioni alla direzione dell’istituto di pena per capire l’iter di scarcerazione. Nulla di anomalo, le condizioni di salute sono state giudicate incompatibili con il carcere, visto il rischio Covid, ma la trafila che ha riguardato l’ex senatore si è svolta in tempi da paese civile, mentre per gli altri detenuti i tempi cambiano. Una condizione carceraria che lo stesso Verdini ha potuto verificare parlando con gli altri detenuti e che ha posto all’attenzione di chi gli ha fatto visita e delle autorità preposte, ma la situazione resta drammatica. A Rebibbia, nel nuovo complesso, padiglione G12, è scoppiato un focolaio Covid, attualmente ci sono una settantina di contagiati all’interno del carcere. I casi dei signor nessuno sono tanti e i tempi sono lunghi, terribilmente lunghi con richieste e sollecitazioni continue, da parte di avvocati e garanti, in alcuni casi anche per accelerare l’invio delle certificazioni di incompatibilità. Le richieste respinte - M.E. è ristretto in carcere, in isolamento da inizio gennaio, gli è stata respinta la richiesta di domiciliari in quanto l’amministrazione non ne ha certificato il rischio Covid, ma è risultato positivo a quattro tamponi. Ora attende ancora che venga valutata dal giudice l’ultima istanza presentata. A G.D. è andata meglio, alla fine di una battaglia lunghissima è uscito, a distanza di mesi dalle richieste. Ha un tumore, una necrosi e diverse malattie. In carcere ha perso 23 chili, è finito in isolamento precauzionale per Covid. Dopo lettere e sollecitazioni è riuscito a ottenere la visita ed è stato dichiarato incompatibile con il carcere in quanto la malattia è in stato avanzato, ottenendo la scarcerazione disposta dal magistrato di sorveglianza. G.R attualmente si trova al padiglione G14 dove è stato Verdini. È un detenuto che ha l’Hiv, ha perso 20 chili, è cardiopatico e presenta altre patologie, attualmente ha l’ossigeno, già due relazioni specialistiche ne hanno accertato la non compatibilità con il carcere, ma è ancora nel braccio G14. In carcere ci sono storie di ogni genere, troppe certificano la violazione costante della nostra Costituzione. E.H è in carcere perché ha commesso un reato da minorenne, divenuto definitivo a distanza di 11 anni, da quando è entrato non ha ancora avuto modo, nonostante le richieste, di incontrare l’educatore, primo passo per chiedere una misura alternativa. Aspetta da agosto. Aspettano in tanti, M.Z., come altri, da mesi non vede i familiari e per chiedere il permesso ha bisogno di incontrare l’educatore, ma è in attesa. Un altro recluso, G.D., ha diverse patologie, una invalidità al 100 per cento e si muove in sedia a rotelle, l’azienda sanitaria ne ha certificato il pericolo di complicanze polmonari visto anche il rischio Covid, ma il tribunale di sorveglianza ha respinto la richiesta con questa motivazione: “Le condizioni di vita non appaiono determinare un pericolo di vita, né sono tali da far apparire l’espiazione della pena in istituto in contrasto con il senso di umanità e con la tutela del diritto alla salute, costituzionalmente garantiti”. Ora è ricoverato in ospedale, affetto da Covid-19, ma è ancora detenuto, al momento le sue richieste di differimento della pena sono state tutte respinte. Pavia. Rivolta per le condizioni di vita legate al Covid: 99 detenuti indagati Corriere della Sera, 1 febbraio 2021 Sono 99 i detenuti indagati per la rivolta scoppiata la sera dell’8 marzo 2020 nel carcere di Torre del Gallo a Pavia, su 200 che avevano partecipato alla protesta. Le accuse sono di devastazione e saccheggio e, solo per alcuni reclusi, resistenza a pubblico ufficiale. I disordini scoppiarono dopo quanto accaduto anche in altre carceri italiane. La rivolta fu scatenata dalla protesta contro le condizioni vissute dai detenuti durante l’emergenza coronavirus e contro il paventato blocco dei colloqui a causa della pandemia. Le devastazioni nella casa circondariale di Pavia si protrassero per sette lunghe ore, provocando danni per circa un milione di euro tra materassi e arredi incendiati e porte distrutte. Alcuni detenuti, usciti dalle celle, salirono sul tetto del carcere. Tre agenti rimasero feriti. La rivolta venne sedata solo dopo una difficile mediazione. Secondo la procura, i 99 indagati avrebbero avuto un ruolo attivo nella protesta, rispetto agli altri detenuti. Lecce. Nel carcere troppi detenuti... pressioni, proteste e microcellulari di Veronica Valente lecceprima.it, 1 febbraio 2021 La fotografia del penitenziario di Lecce nei mesi dell’emergenza, contenuta nelle relazioni redatte in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dal presidente della Corte d’Appello e dal procuratore generale. Sovraffollamento, pressioni da parte di esponenti della criminalità organizzata sul personale di polizia penitenziaria per ottenere favori, proteste “pilotate per ottenere benefici”, l’utilizzo di piccoli cellulari da parte di alcuni tra i detenuti più pericolosi. Ne parlano il presidente della Corte d’Appello di Lecce Lanfranco Vetrone e il procuratore generale (Pg) Antonio Maruccia, nelle loro relazioni sull’anno giudiziario che si è appena concluso. “È un settore quello carcerario al quale guardiamo con attenzione e adottando le contromisure per le dinamiche criminali che da esso si dipartono; basti pensare alla quantità di microcellulari introdotti illecitamente nei penitenziari coi quali la criminalità organizzata e mafiosa tiene i collegamenti con l’esterno, come riferisce la Direzione distrettuale antimafia”, scrive il pg. Secondo il procuratore generale, la stagione carceraria è stata affrontata e gestita con grande competenza ed equilibrio da parte degli uffici giudiziari e dei dirigenti delle strutture detentive: i casi di diffusione di infezione da Covid 19 a danno di detenuti e di operatori penitenziari sono stati davvero pochi e tutti controllati in maniera efficace. Sono state pochissime, inoltre, le scarcerazioni per effetto della normativa emergenziale, a riprova, secondo il pg, della tenuta degli uffici giudiziari e soprattutto della buona gestione sanitaria delle strutture. Nel carcere di Lecce, il picco delle presenze, 1.117, si è avuto il 26 febbraio scorso, alla vigilia del lockdown, scendendo di 61 unità nel novembre successivo. Ma la struttura ha una capienza di 632 posti, ai quali se ne aggiungono 174 nel nuovo padiglione che sebbene aperto nel giugno 2020, non è ancora andato a regime per l’assenza di lavori strutturali e la mancata attivazione di un intero piano. Questo limite viene superato da tempo. Le cose sono certamente migliorate rispetto al passato, prima che entrasse in vigore la legge cosiddetta “svuota carceri”: nel 2011 gli ospiti erano 1.350, nel 2012, 1.269. Si tratta di dati preoccupanti, secondo il presidente Vetrone, perché in costante crescita e in ogni caso di gran lunga superiori alla capienza regolamentare. Rispetto al 2018, nel 2020, si è registrato anche un aumento delle presenze per reati di associazione mafiosa: in riferimento alla Mafia, i reclusi sono stati 27 (il 19 percento in più); alla Camorra, 50 (il 29 percento in più); all’Ndrangheta, 33 (il 12 percento in più); alla Sacra Corona, 84 (il 34 percento in più). Nella relazione, il numero uno della Corte d’Appello ha tenuto conto anche delle iniziative incoraggianti che si sono tenute nel penitenziario di “Borgo San Nicola”, “segno di una crescente umanizzazione della pena”. Tra queste, l’impegno a offrire sostegno emotivo alle famiglie impossibilitate, a causa dell’emergenza, di far visita ai parenti ristretti. Grazie all’associazione “Fermenti lattici”, per esempio, sono stati realizzati dei videomessaggi in cui i detenuti spiegavano ai figli le regole del distanziamento sociale e le motivazioni della chiusura dei colloqui. Certo è che quando gli incontri sono ripresi, alcuni esponenti del crimine organizzato avrebbero fatto pressioni affinché si svolgessero senza le barriere anti-contagio che impediscono il passaggio, oltre che del virus, anche di quello fraudolento di oggetti e scoraggiano le comunicazioni compromettenti. Ma non finisce qui. Durante il lockdown, sono stati segnalati, a livello nazionale, accordi tra diversi esponenti della criminalità organizzata detenuti in istituti diversi, volti a “pilotare” le proteste che divampavano a macchia di leopardo, con l’obiettivo di aprire un negoziato con l’Amministrazione penitenziaria sulla concessione dei benefici, sulla ammissione alle misure alternative alla detenzione e sull’ottenimento di alcuni vantaggi (per esempio chiamate su Skype, corrispondenza telefonica non prevista dall’Ordinamento penitenziario e su cellulari). Savona. Quel carcere di “voluto” dai Gavio, i giudici riaprono l’inchiesta di Giuseppe Filetto La Repubblica, 1 febbraio 2021 In seguito all’avvio del fascicolo della Corte dei Conti per il danno erariale di 8 milioni allo Stato dopo 17 anni spuntano le intercettazioni tra l’imprenditore scomparso e il banchiere Ponzellini. Quel carcere di Savona, che non c’è, “si doveva fare” in quel sito, sulla collina di Passeggi, buona parte di proprietà della Società Autostrada Torino- Savona del Gruppo Gavio. Su un terreno a rischio idrogeologico, tanto che nel novembre 2019 il versante è franato, trascinando il viadotto Madonna del Monte della A-6. E però la famiglia Gavio di Castelnuovo Scrivia a quanto pare spingeva perché fosse scelta quell’area. Se in un primo momento il Comitato Ministeriale Paritetico Giustizia-Infrastrutture aveva individuato un altro terreno, nel 2004 Massimo Ponzellini (all’epoca amministratore delegato di Patrimonio dello Stato Spa, società del ministero dell’Economia) riesce a ribaltare la scelta. Dà la buona notizia proprio a Marcellino Gavio, l’imprenditore scomparso nel 2009. Il colloquio telefonico del 21 luglio 2004 è intercettato dalla Guardia di Finanza, che per la Procura di Milano indaga sulla società autostradale “Milano-Mare” (ex Serravalle). “Abbiamo fatto il miracolo! Per fare il carcere è stata scelta quell’area, abbiamo ribaltato la decisione - dice Ponzellini. Guarda che però dobbiamo essere grati a qualcuno, perché bisogna accontentarli”. Già, accontentarli. Come? Le intercettazioni sono state pubblicate nel 2009 dal Corriere della Sera, ma in questi giorni tornano attuali. La Corte dei Conti della Liguria ha chiesto gli atti alla Procura di Roma, alla quale li avevano trasmessi i magistrati di Milano. Tant’è che nella Capitale il pm Pietro Giordano aveva aperto un’inchiesta sul “mattone a sbarre”, indagando il consulente per l’edilizia penitenziaria Giuseppe Magni. Attenzione. Il leghista Magni è stretto collaboratore di Roberto Castelli, in quegli anni ministro della Giustizia. Inoltre, alle Infrastrutture c’è Pietro Lunardi (di Forza Italia) di Parma. E Ponzellini, banchiere bolognese vicino a Romano Prodi (è stato suo assistente nel 1978 al ministero dell’Industria), nonché cugino di Giancarlo Giorgetti (tesoriere della Lega) con Giulio Tremonti nel 2002 diventa amministratore delegato della Patrimonio dello Stato: per finanziare la costruzione di nuove carceri. Tanto che Castelli e Lunardi nel giugno 2004 sottoscrivono una convenzione con la società Dike Aedifica (al 95% della Patrimonio Spa) con in dote 461 milioni di euro. Tra questi penitenziari c’è quello di Savona ed i Gavio sono galvanizzati dall’idea di costruire un istituto penitenziario da 250 posti. Un investimento da 75 milioni di euro. Ma Ponzellini, uomo trasversale per tutte le stagioni, dice che “bisogna accontentare qualcuno”. Chi? Il favore è stato ricambiato? Non si sa che fine abbia fatto l’inchiesta di Roma. In ogni modo, se i fatti sono del 2004 e dal punto di vista penale i reati di corruzione e falso sono prescritti, certo è che del carcere di Savona non si è vista neppure l’ombra. Anche se il vecchio di Sant’Agostino è chiuso dal 2018. Proprio sull’eterna incompiuta adesso la Procura Regionale della Corte dei Conti della Liguria punta l’attenzione, affidando il fascicolo al pm Marco Ferraro; le indagini alla Guardia di Finanza di Savona. Si indaga per danno erariale che ha tempi di prescrizione più dilatati, e sentenze della Cassazione dicono che per la giustizia contabile fa fede la data in cui si ravvisa la violazione, non quella in cui viene consumata. Parliamo di un buco di 8 milioni di euro che lo Stato ha dovuto pagare alla ditta di progettazione, la Pizzarotti di Parma: cinque sono riferiti ai soldi che il Mit ha versato all’impresa che aveva vinto la gara. Altri 3 milioni di euro contestati dalla Corte dei Conti riguardano spese di progettazione e istruzione dell’iter amministrativo e tecnico. Nel 2018, infatti, la Corte di Appello di Roma ha condannato il ministero a risarcire la Pizzarrotti che aveva intentato la causa civile. L’assegnazione del primo lotto di appalto, infatti, è del 2009. Con una gara pubblica bandita dal Provveditorato alle Opere Pubbliche della Liguria e dal Mit alla cui guida è Antonio Di Pietro. E la Corte dei Conti chiama in causa come “indagati”: due amministrazioni che si sono succedute al Comune di Savona, guidate dai sindaci Carlo Ruggeri e Federico Berruti, entrambi Ds e poi Pd; le giunte regionali presiedute prima da Sandro Biasotti (centrodestra), poi da Claudio Burlando (centrosinistra); più i ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture. E non solo. Liliana Segre: “L’indifferenza è già violenza” di Alessia Rastelli Corriere della Sera, 1 febbraio 2021 La senatrice a vita al Memoriale della Shoah di Milano all’incontro organizzato da Sant’Egidio con la Comunità ebraica. “Quando ognuno era ancora un sigillo/ Di noi ciascuno reca l’impronta/ Dell’amico incontrato per via;/In ognuno la traccia di ognuno”. Cita i versi di Primo Levi, deportato come lei ad Auschwitz, Liliana Segre, parlando al Memoriale della Shoah di Milano. Da lì, da quel luogo un tempo nascosto della Stazione Centrale, nel ventre della città, oggi diventato uno spazio di memoria e di dialogo, la testimone e senatrice a vita fu deportata il 30 gennaio 1944, a 13 anni, con suo padre Alberto e altre 603 persone. Di quel convoglio solo in 22 sopravvissero e ogni anno, proprio al Memoriale, attorno a quella data, con la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità ebraica di Milano Liliana Segre ricorda “tutti quelli che non sono tornati”. “I versi di Primo Levi, tratti dalla poesia Agli amici, sono il contrario dell’indifferenza. Quando ognuno è la traccia di ognuno, non ci può essere indifferenza. L’indifferenza porta alla violenza, è già violenza”, dice la senatrice (la cerimonia si è svolta domenica 31 gennaio, in forma essenziale per la pandemia). “Allora - ricorda Liliana Segre - i violenti non furono solo i nazisti, ma anche i fascisti nostri vicini di casa. Poi, quando eravamo nei vagoni, ognuno era l’altro, ognuno piangeva con le lacrime dell’altro”. Il 30 gennaio, la partenza. Il giorno dopo “si varcò il confine. Ero già una ragazza vecchia che quando l’altro, mio padre, ti dice di non avere paura, risponde: “Non ne ho, perché sono vicino a te”. Liliana Segre parla nell’atrio del Memoriale, davanti alla parola “Indifferenza”. Fu la Comunità di Sant’Egidio a far conoscere i sotterranei da cui partì. “Era il 1997 - ricorda la senatrice -, all’inizio venivamo qui in pochi, con una candela. C’erano figure importanti: il cardinale Martini, il rabbino Laras. Poi pian piano è nato il Memoriale e io ho insistito per la scritta “Indifferenza”. Liliana Segre ricorda il silenzio di chi allora si voltò dall’altra parte, quando da San Vittore i camion attraversarono Milano per raggiungere in quei sotterranei il binario 21. “Il silenzio, inteso come incapacità di sentire il dolore degli altri, è un problema su cui riflettere anche oggi”, sottolinea Rav Alfonso Arbib, rabbino capo della Comunità di Milano. E l’arcivescovo Mario Delpini si augura che il messaggio raggiunga “chi vive questi giorni tribolati senza lasciarsi toccare dalla compassione”. Non furono indifferenti, in quel gennaio 1944 i detenuti di San Vittore. “Ci fecero sentire ancora persone”, testimonia Liliana Segre, che nel carcere milanese, dopo l’arresto, fu rinchiusa quaranta giorni. “So come si sta nelle celle. Perciò mi preoccupo che i detenuti siano vaccinati”, dice (e infatti il 17 dicembre 2020 ha presentato un’interrogazione in tal senso). Invia un video Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. E il sindaco Giuseppe Sala, in presenza, dice che “il Memoriale è un luogo di riscatto per Milano, dove nacque il fascismo” e che lotterà “perché le forze politiche che accettano persone che fanno saluti romani non abbiano spazio a Milano”, evocando i fatti di Cogoleto (Genova) nel Giorno della Memoria. Ad ascoltare Liliana Segre, ci sono anche gli adorati figli Alberto e Luciano, i carabinieri della scorta diventati famiglia. E poi Alpha, giovane profugo tra i 7 mila accolti al Memoriale tra il 2015 e il 2017, oltre a una delegazione di ragazzi di Sant’Egidio e studenti del liceo Carducci di Milano che eseguono brani musicali. A loro, ai giovani, la senatrice ricorda ancora che “sono fortissimi”. E a loro si rivolge il Memoriale. “Uno spazio aperto per le nuove generazioni”, nota Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio. “Da fine giugno avremo anche la biblioteca”, aggiunge Roberto Jarach, presidente del Memoriale dal 2017, dopo che per dieci anni lo era stato Ferruccio de Bortoli, ora presidente onorario. Ai giovani pensa anche Emanuele Fiano, figlio di Nedo, superstite della Shoah scomparso a dicembre, al quale è stata dedicata una “Stanza delle testimonianze”. “Rimarrà per le future generazioni, ne sarebbe orgoglioso”, dice il figlio. “Io e Nedo non parlavamo del passato - racconta Liliana Segre - ma sempre di figli e nipoti. Era la nostra vittoria su Hitler”. L’indigestione del diritto di Vittorio Coletti La Repubblica, 1 febbraio 2021 L’assurda condanna della sindaca di Torino per la ressa, il morto e i feriti provocati dal panico deliberatamente provocato da alcuni malfattori in piazza S. Carlo, quasi l’Appendino fosse, dal punto di vista legale, una loro complice, ha suscitato un giusto sconcerto e fatto ricordare a molti che, in questi giorni, l’ex sindaca di Genova, Marta Vincenzi, condannata per l’omicidio (colposo) delle sei vittime dell’eccezionale alluvione del 2011, inizia il suo percorso penitenziale per espiare in qualche opera sociale una colpa che il diritto le ha attribuito in tutta legalità, ma a scapito del buon senso e della ragione. Persino il pm di Torino sembra avere avuto perplessità nel chiedere la condanna dell’Appendino e certamente ne ha avuta un alto magistrato genovese, che aveva svolto un ruolo importante nei processi territoriali alla Vincenzi, quando mi ha detto che, a normativa vigente, c’è da chiedersi chi abbia ancora il coraggio o la sventatezza di fare il sindaco. Il diritto dei tribunali sta soffocando la società che vorrebbe proteggere e la consegnerà, andando di questo passo, a degli sprovveduti che si prenderanno responsabilità politiche solo perché non avranno né coscienza né intelligenza, e magari né arte né parte. Se si verifica un evento calamitoso, col senno di poi si scopre sempre che qualcosa non ha funzionato e quindi non ci sarà mai tragedia naturale, grave incidente o disastro, che non possa essere imputato anche a qualche falla nel comportamento degli amministratori di turno. Qualche volta sarà davvero così, ovviamente; ma ora, per un sindaco, lo è sempre e a prescindere, in virtù della sua posizione di garanzia. Il legislatore ha paura dell’impopolarità e tace di fronte a queste assurdità; preferisce assecondare la passione collettiva per il capro espiatorio, specie se molto in vista. Troppi operatori del diritto assecondano questa deriva populista, che assicura notorietà e, a volte, persino carriera. Vincenzo Roppo, uno dei grandi giuristi genovesi, ha concluso il suo splendido “Racconto della legge” auspicando un diritto mite, non perché indulgente, ma perché consapevole dei propri limiti, del dovere, in certi casi, di ritirarsi e tacere. In questi giorni, si legge che la procura di Savona ha chiesto l’archiviazione delle indagini per il crollo di un pilone sulla A6 dovuto a una frana proveniente da un punto assai distante dalle fondamenta del viadotto interessato dal cedimento. C’è da chiedersi: poiché chiunque, anche a occhio nudo, poteva vedere che in quel caso l’autostrada non c’entrava, perché spendere tempo (con l’intasamento che c’è nei tribunali), denaro (perizie ecc.) per un’iniziativa che il buon senso avrebbe archiviato in partenza, tanto più che, grazie a Dio, nel crollo non c’erano state vittime? Il fatto è che gli agenti del diritto tendono ad occupare ogni angolo della realtà, specie se mediaticamente ben esposta, e decidono persino, lo abbiamo visto qualche giorno fa qui in Liguria, sulla riapertura delle scuole. Se non ci pensano gli addetti ai lavori a far scorpacciate di iniziative legali dubbie o inutili, li rifornisce di argomenti per promuoverne di nuove la gente comune, che sporge denunce e presenta esposti per qualsiasi cosa. È di questi giorni la lodevole decisione di una GIP di Genova di archiviare le denunce per diffamazione sporte dall’infettivologo Matteo Bassetti, che aveva querelato chi aveva sollevato pubbliche riserve sull’abbinamento della sua immagine professionale alla pubblicità di aziende private. La sentenza di archiviazione della giudice è piena di buon senso e induce a chiedersi perché si ricorra alla magistratura anche in casi così piccoli e inconsistenti, affidando alla legge il compito di proteggere non già il proprio onore (cosa doverosa, se a uno si attribuisce falsamente un illecito), ma la propria suscettibilità (notoriamente molto soggettiva). Ci vorrebbe una rivoluzione culturale nel mondo del diritto, nella legislazione e nella giurisprudenza. Se non saranno gli stessi magistrati e avvocati a reintrodurre la ragione nei loro territori professionali (“a chi non ci è abituato dobbiamo ormai sembrare tutti dei matti”, ha detto un’importante avvocata genovese), prima o poi ci penserà qualcuno che non cercherà l’equilibrio della giustizia, ma l’impunità del potere. Conta la qualità della classe politica di Stefano Passigli Corriere della Sera, 1 febbraio 2021 I dati dimostrano che un legame tra spesa pubblica e consenso elettorale è indubbiamente possibile, ma non tra legge elettorale - maggioritaria o proporzionale che sia - e qualità della spesa. In un suo recente articolo a favore di una legge elettorale maggioritaria (Corriere della Sera, 23 gennaio) Angelo Panebianco sostiene l’esistenza di un rapporto tra leggi elettorali e spesa pubblica, affermando che il proporzionale, rendendo più instabili i governi, spinge i governanti a ricercare consenso incrementando la spesa pubblica per erogare “beni privati” a vantaggio dei propri sostenitori, piuttosto che “beni pubblici” a vantaggio dell’intera comunità. Il punto sollevato da Panebianco è interessante perché se fosse supportato da adeguata evidenza risolverebbe la eterna disputa tra proporzionale e maggioritario. Purtroppo, l’evidenza non permette di risolvere la questione. Su queste colonne ho più volte affermato che non esistono leggi “sbagliate” da rifiutare sempre, o leggi “giuste” buone per ogni tempo e Paese. Ogni legge va giudicata nell’ambito del sistema in cui è chiamata a operare, e giudicata per gli effetti che concorre a produrre in quello specifico sistema. In Germania, ad esempio, il proporzionale, corretto da una adeguata soglia di sbarramento e dalla sfiducia costruttiva, ha assicurato una stabilità di governo molto superiore a quella assicurata al Regno Unito dal maggioritario. Potrei portare numerosi altri esempi, e non dubito che Panebianco potrebbe oppormi esempi contrari. In breve, le leggi elettorali sono solo uno degli elementi che spiegano il funzionamento di un sistema, e hanno effetti mutevoli al cambiare degli altri elementi sistemici. Credo perciò che non sia assolutamente possibile affermare l’esistenza di una correlazione da condannare tra legge elettorale proporzionale e spesa pubblica orientata alla erogazione di beni privati - o per meglio dire alla soddisfazione di interessi privati e settoriali - e di converso una correlazione virtuosa tra maggioritario ed erogazione di beni pubblici nell’interesse della intera collettività. La storia italiana dall’inizio della Repubblica lo dimostra con chiarezza: fino ai primi anni Settanta il rapporto debito/Pil è stato intorno al 35%, e una grande classe politica ha orientato la spesa pubblica negli anni del centrismo e del primo centro-sinistra a sostegno della crescita economica e dell’ampliamento dei diritti civili e sociali, ricostruendo il nostro Paese, sollevandolo da storiche miserie e riducendo le diseguaglianze. Per tutto questo periodo avevamo una legge elettorale proporzionale. Ancora nel 1980 il rapporto debito/Pil era al 55%, malgrado l’aggravio di spesa rappresentato dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e delle Regioni, nella logica di Panebianco misure entrambe qualificabili come beni pubblici. A partire dagli anni Ottanta la spesa esplose con i governi Craxi e Andreotti. La legge elettorale era ancora la stessa. La differenza, dunque, non la fa la legge elettorale, ma la qualità della classe politica. Nel 1996 il rapporto debito/Pil era al 120%. In cinque anni il centro-sinistra di Prodi-D’Alema-Amato, lo riportò con Ciampi al Tesoro a quota 106%. E perse le elezioni. Berlusconi che governò 10 dei 12 anni tra il 2001 e il 2013 riportò il deficit oltre quota 130%. Per tutto il periodo a partire dal 1994 la legge elettorale era la stessa e sostanzialmente maggioritaria. La differenza ancora una volta non la fa la legge elettorale ma la qualità della classe politica. I dati su indicati dimostrano che un legame tra spesa pubblica e consenso elettorale è indubbiamente possibile, ma non tra legge elettorale - maggioritaria o proporzionale che sia - e qualità della spesa. L’esperienza italiana non conferma il rapporto tra proporzionale e spesa pubblica senza freni e con obiettivi particolaristici, indicando semmai il contrario, posto che il nostro debito pubblico si consolida e il rapporto debito/Pil cresce soprattutto durante il periodo in cui il nostro sistema elettorale è stato il maggioritario, e la nostra spesa pubblica non ha sostenuto grandi e onerose riforme perdendosi piuttosto a pioggia in mille rivoli. Purtroppo, la variabile che spiega il successo dell’azione di governo nei primi decenni della storia repubblicana e l’attuale impasse è la qualità della classe politica. Spero che su questo Panebianco convenga, e anche che sia con me d’accordo che occorre riportare i cittadini a partecipare attivamente alla politica, innanzitutto dando loro il diritto di scegliere i propri rappresentanti ponendo fine allo scandalo dei parlamentari “nominati”. Nel 1992 le élites del nostro Paese si mobilitarono per cambiare un sistema ormai logoro, e in un decennio l’Italia consolidò almeno la sua posizione in Europa. Dopo altri venti anni di una transizione senza successo occorre che le nostre élites rinnovino quell’impegno. I nostri bambini nel buio della Rete di Giusi Fasano Corriere della Sera, 1 febbraio 2021 Non lasceremmo mai un bimbo da solo per strada di notte. E non dovremmo neppure lasciarlo addentrare da solo nella Rete. Ci sono i nostri bambini soli per strada, di notte. E noi non soltanto non li accompagniamo ma li guardiamo allontanarsi nel buio come se niente fosse. Chissà se dietro l’angolo c’è un pericolo, chissà se saranno capaci di riconoscerlo, di schivarlo e di tornare a casa sani e salvi... Lascereste mai che accadesse una cosa del genere? Guardereste allontanarsi nell’oscurità una bambina di 5-7-10 o 12 anni? Se la risposta è no allora la domanda vera è un’altra: per quale motivo star loro accanto e proteggerli nel mondo reale e invece non preoccuparsi di difenderli in quello virtuale della Rete? Eppure in quell’universo, esattamente come nella realtà, ci sono molti rischi in agguato e territori pericolosi da esplorare, luoghi che per i più piccoli sanno essere spaventosi quanto rimanere soli in mezzo alla notte. Fino a che punto possano diventare pericolosi ce lo racconta la cronaca, a volte drammatica. A settembre dell’anno scorso fu l’undicenne di Napoli morto suicida - così si disse - con un volo dalla finestra della sua cameretta per seguire una sfida online, l’altro giorno è stata la bambina di 10 anni di Palermo che si è tolta la vita per un’altra sfida via web, stavolta su TikTok. Nel caso di Napoli le indagini non hanno poi confermato nulla e forse succederà la stessa cosa anche a Palermo, ma non è questo il punto. Perché se non è la challenge mortale è la pedopornografia, il cyberbullismo, l’adescamento o - con il crescere dell’età - è il revenge porn, lo scambio di immagini mostruose (come le decapitazioni) o lo stalking (e l’elenco delle nefandezze possibili si allunga sempre più). Il punto è che dovremmo approfittare dei riflettori accesi sul binomio Rete-minori per mettere in cantiere una riflessione seria sul da farsi, finalmente. Come genitori, tanto per cominciare: per non rinunciare al ruolo educativo nel nome dell’analfabetismo tecnologico e per osare aggiornarsi, imparare e (se serve) usare controlli e divieti. Una riflessione anche a livello internazionale, come sostengono in molti, poiché “le armi di una nazione sola sono armi spuntate”, per dirla con il direttore della Polizia postale Nunzia Ciardi. Lo psicoterapeuta Alberto Pellai ha scritto su queste pagine che “lo smartphone prima dei 13 anni è un rischio estremo per ogni minore”. Sarebbe un bel passo avanti se almeno questo fosse chiaro a tutti. La resa dei conti di GameStop era nell’aria da tempo di Kevin Roose La Repubblica, 1 febbraio 2021 Wall Street è stata una delle ultime istituzioni ad essere travolta dai populisti online e questo è in parte dovuto al fatto che aveva una barriera di ingresso più alta. Non si tratta solo di una bolla speculativa o di uno stupido scherzo. Si tratta di una crisi di autorità. L’evento clou della settimana sui mercati finanziari è stato il dramma assurdo e improbabile vissuto da GameStop, una catena di negozi di videogiochi in crisi che è diventata l’oggetto di un poderoso tiro alla fune tra i colletti bianchi di Wall Street e una moltitudine coalizzata di utenti Internet. La spiegazione più semplice di ciò che è accaduto è che un gruppo di facinorosi riuniti nel forum di Reddit r/WallStreetBets - una cricca di degenerati, come si definiscono loro, con nomi utente tipo “dumbledoreRothIRA” e “Coldcutcombo69” - ha deciso che sarebbe stato divertente e legittimo (e forse anche redditizio, anche se questo per loro era meno importante) organizzare una “short squeeze” (ricopertura di scoperto) per far salire il prezzo delle azioni di GameStop, mettendo così in scacco i fondi speculativi che avevano scommesso contro il titolo. Il piano ha funzionato. Nel giro di soli due giorni il titolo di GameStop è diventato il più scambiato al mondo. Elon Musk e Alexandria Ocasio-Cortez hanno spalleggiato la rivolta mentre gli utenti del subreddit r/WallStreetBets postavano schermate del saldo dei loro conti che saliva alle stelle. L’ideatore dello schema, il cui nickname non è francamente pubblicabile su un giornale come questo, sostiene di aver trasformato un investimento inziale di cinquantamila dollari in un guadagno di più di quaranta milioni. Uno degli hedge fund che aveva venduto allo scoperto le azioni di GameStop, Melvin Capital, ha dovuto chiedere un salvataggio da 2,75 miliardi di dollari ad altri due investitori per ripianare le enormi perdite subite. A seconda dell’interlocutore, c’è chi vi racconterà la saga di GameStop come la storia di un gruppo di nerd irresponsabili che per puro divertimento hanno destabilizzato il mercato azionario in un modo che probabilmente gli si ritorcerà contro o come la storia, in stile Davide e Golia, di un gruppo di impavidi piccoli investitori che hanno dato una lezione alle élite finanziarie corrotte. La verità sta da qualche parte nel mezzo. C’è sicuramente una componente di “rivincita dei nerd” ma ci sono anche molti ricchi investitori che stanno guadagnando su GameStop assieme a lavapiatti e studenti delle superiori. Comunque la si legga, la cosa più strana in questa storia di Wall Street che viene presa d’assalto da una chiassosa masnada di redditor è che sia successo solo ora. Questo tipo di rivolta populista - in cui gli insorti si organizzano in rete e danno gioiosamente una lezione all’establishment ignaro - colpisce da anni molte potenti istituzioni. Anzi, riesce difficile trovare un pilastro dell’establishment globale che negli ultimi anni non sia stato travolto da un assalto di questo tipo. Editori, studi cinematografici, catene di ristoranti, tutti in un modo o nell’altro sono stati costretti a cedere di fronte al potere dei loro critici online. Anche la politica è stata trasformata dagli attivisti digitali, fra teenager che organizzano su TikTok il sabotaggio di comizi presidenziali e manifestanti che trasmettono in diretta su Twitch mentre danno l’assalto a Capitol Hill. Qualunque sia il loro obiettivo - far fluttuare un titolo, ribaltare il risultato di un’elezione presidenziale o far cambiare la grafica di un film su Sonic - queste rivolte organizzate in rete tendono a seguire uno schema comune. Un bel giorno un gruppo di persone decide di agire contro un sistema che ritiene immorale o corrotto. Ne identifica i punti deboli strutturali (un partito politico vulnerabile, un produttore poco propenso al rischio, una posizione corta sovraesposta) e trova un modo creativo per approfittarne, usando i social media per fare pressione e ottenere visibilità. Se ci sono abbastanza persone motivate a spingere nella stessa direzione, il gruppo riesce nel suo intento, o quantomeno ottiene abbastanza attenzione da dare l’idea di esserci riuscito. Queste crociate online possono essere condotte in buona fede o in malafede e alcune possono diventare anche molto distruttive. L’esempio classico di una battaglia condotta in malafede è il Gamergate, una battaglia culturale del 2014 iniziata come un attacco ai giornalisti che scrivono di videogiochi e poi degenerata in una violenta campagna misogina e razzista che ha aperto la strada all’estrema destra. Le migliori però possono scuotere la società in maniera utile: facendo luce su un’ingiustizia, sfidando norme anacronistiche o semplicemente risvegliando guardiani pigri. Wall Street è stata una delle ultime istituzioni ad essere travolta dai populisti online e questo è in parte dovuto al fatto che aveva una barriera di ingresso più alta. Chiunque abbia un account Twitter e una connessione a Internet può creare un hashtag e dare il via a una campagna, il trading invece ha un costo - e richiede una certa competenza e un investimento di tempo - quindi è stato perlopiù lasciato ai professionisti. La situazione è cambiata con l’avvento delle app di trading per smartphone come Robinhood, che hanno introdotto gli scambi senza commissioni e un’interfaccia in grado di rendere l’esecuzione di una “gamma squeeze” facile come ordinare la cena online. Da un giorno all’altro, milioni di dilettanti hanno potuto organizzarsi, generare ricerche di mercato e tesi di investimento, suscitare entusiasmo nei sub di Reddit o con dei video su TikTok e sedersi ai tavoli del casinò assieme ai pezzi grossi. (Che poi portare scompiglio sui tavoli dei ricconi li abbia aiutati finanziariamente o meno, è un altro paio di maniche.). Molte cronache della saga di GameStop si sono concentrate sull’entusiasmo giocoso e volgare dei piccoli trader e sull’incredulità attonita dei loro antagonisti a Wall Street. Ma in questi resoconti spesso manca la prospettiva della giustizia economica. Su r/WallStreetBets ci sono testimonianze toccanti di trader che raccontano come scommettere su GameStop li abbia fatti sentire emancipati rispetto a un sistema finanziario che per anni ha approfittato di loro e delle loro famiglie. Mercoledì, in un post divenuto popolare, un utente ha scritto: “Ai piani alti l’avidità è completamente fuori controllo e questa piccola storia divertente ne è la prova. Non lasciatevi convincere a credere che sia sbagliato reclamare una fetta un po’ più grande della torta”. Sorvolando sui deliri scritti tutti in maiuscolo e sullo strano gergo dei più assidui, i redditor dicono alcune cose sensate. Le grandi banche e i fondi speculativi giocano davvero secondo regole diverse rispetto a quelle dei piccoli investitori. Le banche di Wall Street sono davvero state salvate dopo la crisi finanziaria del 2008 mentre l’economia reale riduceva sul lastrico chi aveva comprato una casa. Né è così scontato che sia più probabile ottenere un buon consiglio finanziario da un tizio elegante che ha un Mba piuttosto che da uno che posta video su YouTube con lo pseudonimo “RoaringKitty”. Mentre assistevo all’evolversi della vicenda di GameStop mi è tornato in mente il concetto di “rivolta del pubblico” di Martin Gurri. Gurri scrive che Internet ha emancipato le persone comuni mettendo a loro disposizione nuove informazioni e nuovi strumenti da usare per scoprire le falle dei sistemi e delle istituzioni che governano le loro vite. Una volta scoperti questi difetti, scrive, i cittadini spesso si ribellano e, in preda alla rabbia per essere stati ingannati ed esclusi, tentano di abbattere le élite e le istituzioni dominanti. Il risultato, scrive Gurri, è una specie di nichilismo vendicativo, una pulsione a demolire lo status quo senza avere un’idea chiara di cosa potrebbe sostituirlo. Trovo che assomigli molto a quello che sta succedendo con GameStop. I piccoli investitori, armati di nuovi strumenti e informazioni che permettono loro di competere alla pari con i professionisti, guardano i “padroni dell’universo” e dicono: “Sul serio? Sono quei tizi a gestire il mercato?” In altre parole, non si tratta solo di una bolla speculativa o di uno stupido scherzo. Si tratta di una crisi di autorità. E anche se le azioni di GameStop dovessero colare a picco o le autorità di controllo dovessero intervenire e interrompere la festa, questi day trader disillusi continueranno a cercare di fomentare il caos ai danni delle élite che, secondo loro, hanno passato decenni ad arricchirsi a loro spese. Probabilmente sul lungo termine non saranno i ribelli a vincere. Il potere istituzionale ha i mezzi per riaffermarsi dopo uno shock improvviso. Alla fine arriva la Guardia Nazionale, il produttore si fa coraggio o intervengono le autorità di controllo. L’allegra brigata di GameStop si sta già scontrando con i limiti del suo potere. Mercoledì Discord, un’applicazione di messaggistica istantanea che i trader di Reddit hanno trasformato nel loro casinò virtuale, ha bandito il server di Wall Street Bets, prendendo a pretesto una violazione delle sue norme contro l’istigazione all’odio. Giovedì Robinhood, un’app la cui immagine pubblica, a partire dal nome, trasmette il messaggio “dalla parte dei più deboli”, ha impedito ai propri utenti di acquistare azioni di GameStop e diversi altri titoli presi di mira dalle masse di r/WallStreetBets. Ma per i day trader di Reddit la vittoria che conta è sempre stata quella simbolica. Magari finiranno sul lastrico ma saranno riusciti a far passare il messaggio che, con sufficiente passione e un’emoji a forma di razzo, una folla di degenerati irriverenti e volgari (lo ripeto, sono loro stessi a definirsi così) può mandare a gambe all’aria il mercato azionario. Renzi e la fantasia di un’Italia alleata con l’Arabia Saudita di Paolo Lepri Corriere della Sera, 1 febbraio 2021 Matteo Renzi giustifica con argomenti che appartengono alla fantasia il suo viaggio da Mohammed Bin Salman, per magnificare il “Rinascimento” saudita. Questo “nuovo Rinascimento” sarebbe guidato proprio da un Paese dove l’attivista Loujain al-Hathloul, protagonista della battaglia per il diritto delle donne a guidare l’automobile, è stata condannata a cinque anni e otto mesi di reclusione. “Stiamo parlando - dice il leader di Italia Viva in un’intervista al Corriere accolta con molte critiche dal mondo politico e che secondo la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, per fare un esempio, contiene “parole inaccettabili” - di uno dei nostri alleati più importanti”. E dove si realizzerebbe questa alleanza? Nella Nato abbiamo già la Turchia, ci mancherebbe solo il regime del “grande” principe ereditario Mohammed Bin Salman. Ma non è il caso di scherzare. Pensiamo piuttosto a quelli che stanno davvero dalla nostra stessa parte. Quando si usa la parola “alleati” generalmente si guarda verso l’altra parte dell’Atlantico. Vediamo allora cosa dicono a Washington. In un dibattito elettorale il presidente Joe Biden annunciò che i sauditi avrebbero “pagato il prezzo” del barbaro assassinio del giornalista Jamal Khashoggi. La promessa è stata mantenuta con la decisione, nei giorni scorsi, di sospendere la vendita di armi all’Arabia Saudita. Pur riconoscendo giustamente le “aggressioni” di cui sono responsabili entrambe le parti nel conflitto dello Yemen, il segretario di Stato, Antony Blinken, ha parlato di una “campagna” guidata da Riad, “che ha contribuito a quella che viene ritenuta da molti la peggiore crisi umanitaria del mondo attuale”. Le immagini dei bambini che muoiono fanno gridare di rabbia, altro che Rinascimento. Lo Yemen è oggi la ragione prioritaria delle pressioni sui sauditi. Non è un caso che anche il governo italiano abbia deciso di revocare l’esportazione di missili e bombe di aereo verso Riad, mettendo in pratica il divieto di vendere armi a Paesi che violano i diritti umani. Due alleati veri, non di fantasia, hanno compiuto passi analoghi quasi contemporaneamente. “Una piacevole coincidenza”, è stato il commento di Amnesty International. Una spiacevole coincidenza, si potrebbe aggiungere, che Renzi nel frattempo parlasse con invidia del basso costo del lavoro saudita alla “Davos del deserto”. Noury: “Ma quale Rinascimento saudita: il Regno è ancora la tomba dei diritti umani” di Umberto De Giovannangeli globalist.it, 1 febbraio 2021 Parla il portavoce di Amnesty International Italia: “Le carceri sono piene di dissidenti”. Il senatore Matteo Renzi ha affermato e ribadito che in Arabia Saudita è in atto un vero e proprio “Rinascimento”. Risulta anche a Amnesty International? Se questa espressione include anche aspetti riguardanti i diritti umani, direi che è un puro ossimoro. Non c’è nulla nella situazione attuale dei diritti umani in Arabia Saudita che possa far pensare ad un miglioramento: le carceri sono piene di dissidenti, in particolari di avvocati, difensori dei diritti umani e di attiviste che hanno combattuto anni per ottenere riforme che hanno posto fine a molti aspetti della discriminazione nei confronti delle donne, purtroppo stanno in galera per aver lottato per quelle conquiste. La pena di morte continua ad essere applicata in modo massiccio. E questo riguarda solo il fronte interno. Stiamo parlando di un Paese che ormai saranno sei anni a marzo, bombarda lo Yemen, e quindi direi che si possa parlare, a ragion veduta, di un periodo ancora oscuro per quanto riguarda i diritti in Arabia Saudita. Un’altra affermazione del leader di Italia Viva è che l’Arabia Saudita nello scenario mediorientale sia un argine all’estremismo integralista. Non è anche questo un ossimoro? Si potrà anche dire che l’Arabia Saudita del 2021 non è quella del 2001, dunque non è l’incubatrice ideologica dei terroristi che compirono i crimini contro l’umanità alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001. Ma se veniamo ad anni più recenti, quello che va evidenziato è che l’Arabia Saudita ha finanziato i gruppi più estremisti e crudeli islamisti nel conflitto in Siria. Che decapita e mette a morte attivisti della minoranza sciita all’interno della provincia orientale, dunque all’interno stesso dell’Arabia Saudita. Che ha invaso il Bahrein nel 2011 dove c’era una rivolta della minoranza sciita. Che da sei anni combatte una guerra contro un gruppo estremista sciita che controlla parte dello Yemen. Affermare che Riyadh sia un baluardo di moderazione sembra un po’ singolare. Tanto più singolare è che nel momento in cui Renzi fa questo elogio del Regno Saud, il Governo italiano, su pressione delle organizzazioni pacifiste e per i diritti umani, tra le quali Amnesty, ha preso una decisione importante: la revoca della vendita di armamenti all’Arabia Saudita... È stata indubbiamente una decisione importante, arrivata dopo una campagna portata avanti da organizzazioni della società civile che è iniziata poco dopo che la prima bomba saudita venisse sganciata sullo Yemen. Sappiamo che negli anni immediatamente successivi all’inizio, quasi sei anni fa, del conflitto in Yemen, bombe italiane sono state autorizzate per l’esportazione verso l’Arabia Saudita, che queste sono state utilizzate per colpire obiettivi civili in Yemen. Quella assunta nei giorni scorsi dal Governo italiano era una decisione da lungo tempo dovuta. Siamo contenti che sia stata presa, contenti che ci sia stato, almeno a partire dal luglio del 2019, un’accelerazione sia dal punto di vista del Governo che del Parlamento per arrivare a questo risultato. Te la butto già brutalmente: perché l’Italia ha questo atteggiamento ossequioso, accondiscendente, verso autocrati come Erdogan, al-Sisi e lo stesso principe ereditario saudita, tanto plaudito da Renzi, Mohammad bin Salman? C’è sempre un tema che domina sugli altri. E questo tema non è mai quello riguardante i diritti umani. Intanto, si tratta di Paesi, in tutti e tre i casi che hai citato, che rappresentano clienti importanti dal punto di vista della fornitura di armi. Sono considerati partner su aspetti che non riguardano i diritti umani, anzi che ne presuppongono la violazione: penso al ruolo della Turchia come soggetto che è stato lautamente pagato per fermare le partenze di migranti verso la frontiera marittima orientale dell’Unione europea. All’Egitto viene attribuito un ruolo di soggetto stabilizzatore nella sua area, con particolare riferimento alla Libia. E alla fine di tutto questo, c’è un enorme equivoco sul significato dell’aggettivo “moderato”. C’è una tendenza a credere, e questo vale soprattutto per quanto riguarda l’Arabia Saudita, ad una narrazione assolutamente finta... Vale a dire? Una narrazione che presuppone di investire grandi somme di denaro in campagne di pubbliche relazioni, in organizzazioni di forum, e questa narrazione è quella che si nutre dello “sport washing”, per cui si punta a investire nello sport per far dimenticare la situazione interna. E da ultimo, e questo secondo me è ancora più grave, nel “pink washing”, cioè mostrare questa leadership illuminata o “rinascimentale” del principe bin Salman come quello che ha emancipato le donne nel suo Paese. La prova contraria è che le vere riformiste, le vere “rinascimentali”, quelle che hanno iniziato decenni fa a sfidare il divieto di guidare, stanno in galera. In galera per un reato che potremmo dire di “oscuramento reputazionale”, cioè hanno avocato a sé quelle riforme che MbS pretende che il mondo creda che le abbia fatte lui. A proposito di acquiescenza. Amnesty International Italia è stata fin dal primo giorno a fianco di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, per chiedere verità e giustizia. La risposta la si è avuta dalla magistratura e non dalla politica, tanto meno dal Governo italiano. Anche qui vale la genuflessione ad un presidente, Abdel Fattah al-Sisi, che viene considerato, pure lui come Mbs, uno stabilizzatore del Medio Oriente? Vale lo stesso discorso. Gli storici parlerebbero di “appeasement”, cioè di una politica basata sull’accettazione a tutti i costi dell’interlocutore. Sul dimenticare le violazioni dei diritti umani, sul mantenere buoni rapporti a tutti i conti ed evitare di disturbare. I risultati li abbiamo sotto gli occhi: da qualunque punto di vista si voglia esaminare, e torno ai tre Paesi menzionati, Egitto, Arabia Saudita, Turchia, c’è una complicità indiretta nel peggioramento della situazione dei diritti umani, in tutti e tre quei Paesi. Perché nel momento in cui non si parla di diritti umani, si fa il gioco dell’interlocutore che li inibisce nei modi più brutali. Nel caso dell’Arabia Saudita anche facendo a pezzi un giornalista dissidente, Jamal Khashoggi, il regime “rinascimentale” zittisce ogni forma di dissenso. Russia. Putin trasforma Navalny in un simbolo di massa di Franco Venturini Corriere della Sera, 1 febbraio 2021 Un errore far arrestare di nuovo il dissidente, che ora non più rappresenta soltanto la giovane classe media di Mosca e di San Pietroburgo. Forse Vladimir Putin si era illuso. Forse aveva pensato che le proteste di massa di sabato 23 gennaio fossero un episodio isolato. Che Aleksej Navalny, se duramente punito, avrebbe smesso di essere per lui una spina nel fianco. E che i russi, in gran parte nazionalisti, avrebbero finito per credere alla tv di Stato che indica in Navalny un agente occidentale. Se è così, Putin ha compiuto l’ennesimo errore. Navalny, sabato 23 e di nuovo ieri, ha smesso di essere il capo di un movimento circoscritto al quale i sondaggi di Levada attribuivano dopo il suo avvelenamento il 20 per cento di consensi e il 50 per cento di dissensi. Ha smesso di rappresentare soltanto la giovane classe media di Mosca e di San Pietroburgo. È diventato, invece, il simbolo e anche il martire, se Putin si ostinerà a farlo arrestare, di una protesta radicata in settori molto più ampi della società russa, presenti in tutti i fusi orari del Paese più grande del mondo. Questo salto di qualità Navalny lo ha compiuto, come spesso avviene nei movimenti di protesta, cogliendo il fatidico momento giusto. In non poche delle 120 città russe dove si sono svolte manifestazioni, Navalny è poco o punto conosciuto. Ma la gente è prontissima a scendere in piazza alla prima occasione perché l’economia di provincia è gravemente in crisi, la riforma al ribasso delle pensioni non è stata perdonata a Putin, le tanto amate sovvenzioni statali diminuiscono e i prezzi salgono, la lotta al Covid-19 è male organizzata, la corruzione dei vertici viene data per scontata. Navalny, coraggioso e ben consigliato, ha percepito che questa era l’occasione per allargare la sua base. Il dilemma ora riguarda Vladimir Putin: capirà il suo errore e vorrà evitare che Navalny diventi davvero un martire, oppure allontanerà da se ogni sospetto di debolezza che potrebbe costargli un trono ancora solido? La scelta è scontata, Putin continuerà a picchiare duro. Ma dovrà stare attento perché Biden picchierà duro anche lui nella difesa dei diritti umani in Russia. E l’Europa dovrà, volente o nolente, partecipare. Russia, tutti i leader della protesta in cella da giorni: “Purghe per emanare terrore” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 1 febbraio 2021 Raffica di arresti tra i collaboratori di Navalnyj e tra gli attivisti del movimento di opposizione. L’insensatezza della nuova repressione in Russia è tutta lì: negli occhi di un bimbo di cinque anni che si vede strappare via il padre e non capisce perché. Serghej Smirnov, il direttore di Mediazona, passeggiava con il figlioletto quando sabato, alla vigilia delle nuove proteste a Mosca, la polizia lo ha fermato e portato via con sé. Smirnov, un giornalista. Per di più direttore di un sito di notizie su detenzioni illegali, abusi della giustizia e violazioni dei diritti umani in Russia. A rendere ancora più inquietante l’arresto, il balletto sulle accuse: “Si è unito alle proteste non autorizzate del 23 gennaio”. Ma Smirnov era a casa quel giorno e in vita sua non ha mai partecipato a una manifestazione. E allora la rettifica ancora più paradossale: “Ha ritwittato una battuta sulla sua presunta somiglianza con il leader del gruppo punk Tarakany! era un invito a manifestare. “Prendere di mira Serghej Smirnov ha un solo obiettivo: terrorizzare la gente. Spaventare Smirnov, i suoi colleghi e ogni giornalista dipendente”, ha commentato Meduza, una delle 30 testate che si sono mobilitate per la sua scarcerazione, prima che Smirnov venisse liberato con l’obbligo di comparire in tribunale martedì. “Legge marziale a Mosca”, ha rincarato The Village. In un Paese che erge statue di cera a Lavrentij Beria, il padre delle Purghe staliniane, e ha resuscitato contro gli oppositori i vecchi marchi d’infamia “agente straniero” e “nemico del popolo”, non è mancato chi ha evocato le purghe di fronte alla raffica di arresti degli ultimi giorni. La scorsa settimana i familiari e principali collaboratori di Aleksej Navalnyj, nonché i più noti oppositori, sono stati fermati uno ad uno dopo che le loro abitazioni erano state perquisite: il fratello Oleg che ha già trascorso tre anni e mezzo in carcere per un processo “motivato politicamente”, l’avvocata del Fondo anti-corruzione (Fbk) Ljubov Sobol, il coordinatore del quartier generale di Mosca Oleg Stepanov, la presidente del sindacato Alleanza dei medici nonché oculista di Navalnyj Anastasija Vasilieva che suonava Beethoven durante il raid e la Pussy Riot Maria Aljokhina. Quando venerdì sono stati chiamati in tribunale, Sobol leggeva simbolicamente Il mondo nuovo di Aldous Huxley su un’utopia dove il potere soffoca l’individualità. Nel tentativo non riuscito di decapitare la protesta, sono stati tutti condannati agli arresti domiciliari fino al 23 marzo, insieme al capo delle inchieste Georgij Alburov, perché sospettati di violazione delle norme sanitarie anti-Covid per la manifestazione del 23 gennaio a Mosca. Rischiano fino a due anni di carcere. Cinque se le autorità dimostreranno che le violazioni hanno provocato una morte. Finora i centri anti-coronavirus hanno rilevato il contagio di 19 manifestanti. È il pretesto usato per vietare le proteste ieri e blindare il centro benché il sindaco della capitale Serghej Sobjanin abbia allentato le restrizioni, citando un calo dei positivi. Leonid Volkov, braccio destro di Navalnyj, è stato invece incriminato in contumacia per aver incitato i minori a prendere parte a proteste illegali. Mentre degli oltre 4mila fermati il 23 gennaio, 21 sono sotto inchiesta penale con accuse che vanno dall’aver ostacolato il traffico all’aver usato la violenza contro un funzionario pubblico. Molti, tra cui un popolare TikToker e un lottatore ceceno, rischiano il carcere. Domani Navalnyj, su cui pendono almeno quattro inchieste penali, tornerà in tribunale per scoprire se una sua vecchia condanna alla libertà vigilata verrà convertita in oltre due anni di carcere. Quando il 18 gennaio è stato processato in una stazione di polizia trasformata in tribunale, alle sue spalle c’era il ritratto di Henrich Jagoda, direttore della polizia segreta Nkvd, antenata del Kgb. “È stato come un messaggio di Putin iscritto sul muro: le esecuzioni iniziano adesso”, commentò profetica la Pussy Riot Aljokhina. Colpo di Stato in Myanmar, arrestata dai militari Aung San Suu Kyi Corriere della Sera, 1 febbraio 2021 La leader della Lega nazionale per la democrazia nelle mani delle forze armate. Le accuse di brogli nelle elezioni di novembre, in giornata si insedia in il nuovo Parlamento. Il Myanmar nel caos. Il capo di fatto del governo Aung San Suu Kyi (premio Nobel per la pace nel 1991) è stata “arrestata” dalle forze armate. Lo ha detto la portavoce del suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Lnd). “Abbiamo sentito che è detenuta a Naypyidaw (la capitale del paese, ndr), presumiamo che l’esercito stia organizzando un colpo di stato”, ha detto Myo Nyunt. Ma nel corso della notte tra domenica e lunedì quella che era una voce ha trovato conferma in un comunicato emesso dalle forze armate. Tutti i poteri in Myanmar sono stati trasferiti al generale Min Aung Hlaing. La decisione è stata annunciata dall’esercito poco dopo l’annuncio dello stato di emergenza per un anno e della presidenza ad interim affidata al generale Myint Swe, che era uno dei due vicepresidenti in carica. I militari avevano denunciato da diverse settimane irregolarità durante le elezioni legislative di novembre, vinte in modo schiacciante dalla Lnd. Il comunicato dell’Esercito: “Rispettiamo la Costituzione” - La situazione adesso è davvero incerta. Ci sarebbero stato altri arresti di esponenti politici. L’esercito nei giorni scorsi aveva assicurato di voler proteggere e rispettare la Costituzione, questo con una dichiarazione arrivata in seguito alle crescenti paure del colpo di Stato, con tanto di esortazioni dell’Onu e della comunità internazionale a rispettare le norme democratiche. Il Tatmadaw (il nome ufficiale delle forze armate nazionali) “rispetta la Costituzione attuale e rispetterà la legge. Organizzazioni e media hanno mal interpretato il discorso del comandante in capo e hanno formulato il loro punto di vista”, era scritto nel comunicato dell’esercito, riferendosi a un discorso di mercoledì del capo delle forze armate Min Aung Hlaing in cui menzionava la possibilità di revocare la Costituzione del Paese. Ma poi l’ipotesi del golpe si è concretizzata per davvero e tutto è precipitato con l’arresto di Aung San Suu Kyi. Le accuse di brogli - Nelle ultime settimane, l’esercito aveva denunciato diffuse irregolarità nelle elezioni dello scorso novembre, che hanno visto il trionfo della “Lega nazionale per la democrazia” di Aung San Suu Kyi. La Commissione elettorale ha negato l’esistenza di brogli, pur ammettendo alcune imprecisioni nelle liste elettorali. Nella giornata di oggi (lunedì) è attesa l’inaugurazione del Parlamento uscito dal voto di novembre. Ma non chiaro cosa succederà nelle prossime ore. Nella graduale transizione dalla dittatura alla democrazia iniziata nel 2011, in Birmania vige un delicato equilibrio di potere tra l’esercito, che controlla il 25 percento (il che gli dà potere di veto per qualsiasi modifica alla Costituzione) dei seggi in Parlamento e tre ministeri chiave, e il governo civile guidato di fatto da Aung San Suu Kyi attiva per molti anni nella difesa dei diritti umani sulla scena nazionale del suo Paese, oppresso da una rigida dittatura militare - che la costrinse a vivere a a lungo in una stato di detenzione domiciliare - imponendosi come capo del movimento di opposizione, tanto da meritare i premi Rafto e Sakharov (quest’ultimo sospeso nel 2020), prima di essere insignita del Premio Nobel per la pace nel 1991. Gli Usa: “Sosteniamo la democrazia, liberate Aung San Suu Kyi” - Gli Stati Uniti “continuano ad affermare il loro forte appoggio per le istituzioni democratiche” della Birmania e “in coordinamento con i nostri partener nell’area, chiediamo alle forze armate e a tutte le altre” parti in causa “di aderire alle norme democratiche e di rilasciare i detenuti”. Lo afferma la Casa Bianca, sottolineando che il presidente Joe Biden è stato informato sugli eventi in Birmania, incluso l’arresto di Aung San Suu Kyi. Gli Usa, “allarmati” dalle informazioni che arrivano dalla Birmania, “si oppongono a ogni tentativo di alterare il risultato delle recenti elezioni o impedire una democratica transizione”. Chiuse le banche - Il colpo di stato in Birmania ha portato anche alla chiusura di tutte le banche del Paese da oggi fino a nuovo ordine, e al contempo sono sospesi anche i servizi di prelievo automatici. Lo ha annunciato l’associazione birmana degli istituti bancari.