“Nessuno sarà abbandonato”. La promessa di Draghi sul carcere di Rocco Vazzana Il Dubbio, 19 febbraio 2021 “Non dovrà essere trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri, spesso sovraffollate, esposte a rischio e paura del contagio e particolarmente colpite dalla funzione necessarie a contrastare la diffusione del virus”. Lo ha detto il premier Mario Draghi nella replica al dibattito sulla fiducia alla Camera. Una replica durata appena 13 minuti nella quale il premier ha percorso i punti più importanti del suo programma di governo: dalla pandemia al recovery al rilancio dell’economia italiana. Altro che premier tecnico a distanza di sicurezza dalle questioni più scivolose per i partiti di maggioranza. Nell’intervento di replica alla Camera, Mario Draghi entra a piedi uniti sul dibattito politico e tocca alcuni dei nervi scoperti della maggioranza: carceri e giustizia. “Non dovrà essere trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri, spesso sovraffollate, esposte a rischio e paura del contagio e particolarmente colpite dalla funzione necessarie a contrastare la diffusione del virus”, dice Draghi, rispondendo alle preoccupazioni esposte in mattinata dal deputato di Più Europa, Riccardo Magi. “Spero condividiate questo sguardo sempre rivolto al futuro, che confido ispiri lo sforzo comune verso il superamento di questa emergenza sanitaria e della crisi economica”, aggiunge il premier, rivolgendosi all’ampia ed eterogenea maggioranza che ha scelto di sostenerlo. Del resto, la sensibilità del presidente del Consiglio alla questione carceraria non è una novità. E la scelta di Marta Cartabia alla guida di via Arenula non è di certo casuale: giurista di altissimo livello, cristiana, da sempre ossessionata dall’umanità della pena. Memorabili le sue parole pronunciate nel gennaio dello scorso anno, ancora nelle vesti di presidente della Consulta, in occasione di un convegno alla Sapienza dal titolo “Viaggio in Italia. La Corte Costituzionale nelle carceri”: “L’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non di carcere. Noi abbiamo una tradizione centrata sul carcere, ma la Costituzione lascia un campo molto aperto e non è detto che il carcere sia sempre la pena più adeguata”. Ed è dopo aver scelto come ministra della Giustizia una personalità di questo spessore che Draghi si sente libero di chiedere al Parlamento di seguirlo anche su questo cammino, di discontinuità. Con buona pace dei partiti, Movimento 5 Stelle in testa, che non hanno mai fatto dell’attenzione ai detenuti una bandiera da sventolare. Ma anche della Lega, non certo campione di garantismo quando a invocare diritti è qualcuno dietro le sbarre. Draghi - lo ha già dimostrato durante discorso d’esordio al Senato, quando ha definito l’Euro una scelta “irreversibile” - non intende in alcun modo rimanere imprigionato dalle suscettibilità dei singoli partiti. E sembra voler cambiare passo. Sui temi caldi, infatti, il premier non si tira indietro e sulla giustizia propone un ragionamento complessivo, su cui “bisognerà intraprendere azioni innovative” per “migliorare l’efficienza civile e penale” e ottenere “un processo giusto, di durata ragionevole in linea con gli altri Paesi europei”. Questa volta Bonafede ascolta dai banchi. Draghi parla di carceri e corruzione: discorso applaudito da garantisti e giustizialisti di Concetto Vecchio La Repubblica, 19 febbraio 2021 Consensi soprattutto dalla Lega quando, parlando delle piccole e medie imprese, ha detto che sulla tutela del made in Italy e la concorrenza sleale “l’impegno del governo sarà totale”. Ci sono due novità rispetto a ieri nel discorso (tredici minuti, otto applausi) di replica di Mario Draghi alla Camera dei deputati: l’importanza della lotta alla corruzione, la necessità di guardare alla criminalità non solo per i dati della statistica ma anche per la percezione che ne ha la cittadinanza, e le parole spese contro il sovraffollamento delle carceri, un passaggio da radicale. Marco Cecchini nel suo libro L’enigma Draghi scrive che in passato il premier abbia espresso simpatia per molte battaglie del Partito radicale. Nel suo italiano impeccabile, anche l’Accademia della Crusca gli ha fatto i complimenti, Draghi ha confermato l’impressione fatta al Senato: non vuol accontentare tutti. L’identità del suo governo è più forte degli umori dei social, sembra dirci. Ha ottenuto l’applauso della Lega quando, parlando delle piccole e medie imprese, ha detto che sulla tutela del made in Italy e la concorrenza sleale “l’impegno del governo sarà totale”. Calorosi battimani anche quando ha spiegato che la corruzione è un fattore disincentivante per le imprese estere che vogliono investire in Italia. Insomma, mafia e camorra sono un freno al Pil, senza legalità e sicurezza non c’è crescita che tenga. Un tema caro ai Cinque Stelle. E urge un Paese con meno burocrazia, anche la mancata semplificazione della pubblica amministrazione deprime l’economia. Uno dei cavalli di battaglia del centrodestra da sempre. Sulla giustizia si è notata una discontinuità con la linea giustizialista del ministro Bonafede. Qui la sintonia con Marta Cartabia, notoriamente garantista, sembra totale. Il governo, ha detto Draghi, s’impegna a migliorare la giustizia civile e penale e si batterà per “un processo giusto e di durata ragionevole in linea con la durata degli altri Paesi europei”. Il turismo ripartirà, ha detto, “perché noi siamo l’Italia”: un invito a coltivare l’amor patrio. Ha concluso con un inno al futuro: “Spero che condividiate questo sguardo costantemente rivolto al futuro che confido ispiri lo sforzo comune” per uscire dalla pandemia e dalla crisi economica e che “certamente caratterizzerà l’azione del mio governo”. Stasera la fiducia di Montecitorio e poi il governo Draghi inizierà la sua navigazione. Presto capiremo se sarà all’altezza delle grandi attese che ha suscitato nel Paese. Giustizia, carcere, prescrizione: qualcosa da fare per Draghi di Mario Chiavario Avvenire, 19 febbraio 2021 ?Nel campo della giustizia, prioritaria attenzione al settore civile. Questo il messaggio che il premier Mario Draghi ha esplicitato nel discorso d’investitura: un impegno giustificato anche dalle sollecitazioni provenienti dall’Europa e che non si segnala per divisioni di principio tra le forze politiche. Tutt’altro discorso quanto alla giustizia penale, a sua volta tutt’altro che immune da criticità e da esigenze di attenzione operativa. Si pensi al tema della prescrizione, che torna proprio oggi alla ribalta del confronto parlamentare, con gli echi di un annoso scontro tra giustizialisti e ipergarantisti. Siamo nella parte finale di una legislatura, e con la vita quotidiana dei processi ulteriormente lacerata - non si sa fino a quando - a causa dell’emergenza pandemica. Difficile, dunque, che per aggirare il problema specifico ci si possa affidare soltanto a un impegno per il varo dell’ennesima riforma del Codice di procedura penale, com’era stato ventilato anche nelle affannose trattative volte al salvataggio del Governo precedente. Auspicabile, senza dubbio, un impegno da prendere seriamente fin d’ora per incidere sulle proverbiali lentezze della macchina giudiziaria senza introdurre o avallare pesanti sacrifici ai princìpi basilari del “giusto processo£. Pure a tal proposito dovrebbe però valere l’impostazione evocata in termini generali dal nuovo presidente del Consiglio: progettare in grande e in prospettiva anche lontana, ma senza dimenticare le urgenze o illudersi, come suol dirsi, ora per allora. Senza immaginare, dunque, che per quella via, in un breve volger di mesi, di reati prescritti non si sentirà più parlare o quasi. Tuttavia non è unicamente questione di dire ‘sì’ o ‘no’ alla legge Bonafede. Questa ha di fatto cancellato la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sovrapponendosi ai preesistenti freni che legge e giurisprudenza già ponevano a eventuali manovre difensive dirette a prolungare la durata del processo per ‘guadagnare la prescrizione. In tal modo, però, si è finito col far incombere sulle parti private il rischio di un processo che non finisce mai. Alla cancellazione, che resta opportuna, di quella riforma non potrebbe però accompagnarsi qualche intervento più in radice? Magari avvalendosi di dati provenienti da esperienze straniere, tanto più che proprio la neo-ministra della Giustizia Marta Cartabia è un’autorevolissima esperta della comparazione giuridica transnazionale. In Francia, ad esempio, almeno per i reati più facilmente destinati a rimanere a lungo occulti o dissimulati, la prescrizione non corre più - com’era da tradizione, e com’è tuttora in Italia - dal giorno della loro commissione ma da quello in cui possano venirne a conoscenza la vittima o gli inquirenti. La presenza di Cartabia come titolare del Ministero di via Arenula rende d’altronde certi che non resteranno sotto traccia altri problemi, ancor più di fondo, della giustizia penale. È nota, intanto, la sua competenza nel campo della ‘giustizia riparativa’, una cui attuazione, equilibrata ma più coraggiosa rispetto a quanto realizzato finora, può davvero fornire preziosi strumenti per dare corpo ai princìpi costituzionali di umanizzazione e di finalità rieducativa delle pene. Non meno sicura una sua consapevole sensibilità per i problemi del carcere, realtà intrinsecamente drammatica e ancora recentemente scossa da violenze e da morti inopinate, senza essere stata liberata dalla piaga del sovraffollamento. Alla base, la certezza che i diritti fondamentali non possono venir meno per nessuno e in alcun luogo: neppure tra quelle mura, pur non potendosi accettare che lì o altrove dei prepotenti, mafiosi o no, se ne facciano scudo per pretendere privilegi o per instaurare o consolidare posizioni di potere e condotte di soprusi. Ma a far bene promettere è anche l’umiltà con cui, parlando delle sue visite compiute nelle prigioni italiane, le è accaduto di confessare smarrimento, unito alla coscienza di esserne uscita con domande a se stessa, più che con risposte alle questioni ascoltate, viste o percepite là dentro. Per finire, un piccolo ma significativo motivo di ottimismo, a causa di un ‘regalo’ che il Ministero della Giustizia ha ricevuto da un emendamento parlamentare inserito in extremis nell’ultima legge di bilancio. Si tratta di un milione e cinquecentomila euro: una cifra modesta per la contabilità dello Stato, tanto più che si tratta di un finanziamento annuo per soli tre anni. Quella somma, però, rappresenta un (provvidenziale?) sostegno per sottrarre dei bambini - in realtà, più di trenta - alla disumanità di un’incolpevole reclusione: è vincolata a un fondo per l’accoglienza protetta e sorvegliata, fuori dal carcere e con accanto i figli piccoli, di donne condannate a pene detentive. L’abbia o no già trovata sul suo nuovo tavolo di lavoro, si può essere sicuri che non sarà, per Marta Cartabia, solo una ‘pratica’ burocratica da evadere. Carceri e prescrizione: la linea Draghi già spacca la maggioranza di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2021 La fiducia c’è, bulgara, anche alla Camera: 535 sì, 56 no e 5 astenuti. Il governo Draghi non riesce a superare il record di Mario Monti del 2011 (556 favorevoli) ma da oggi può iniziare a lavorare. Con una prima grana tutta politica: la scissione nel M5S. Dopo i 21 dissidenti al Senato, alla Camera. Dopo aver ascoltato ogni intervento, il premier parla per 13 minuti soffermandosi su ciò che non aveva toccato nel suo discorso programmatico: imprese, corruzione, appalti e sport. Ma è sulla giustizia che si concentra di più, incassando applausi scroscianti da tutto l’emiciclo. Se al Senato aveva accennato solo alla riforma della giustizia civile, il premier a Montecitorio affronta anche lo spinoso tema di quella penale, che divide la maggioranza: “Bisognerà intraprendere azioni innovative per migliorare l’efficienza della giustizia penale che rispetti tutte le garanzie e i principi costituzionali che richiedono un processo giusto e un processo di durata ragionevole, in linea con la media degli altri Paesi europei” dice. Lungo applauso, solo i deputati di Fratelli d’Italia non si muovono. Poi Draghi, sollecitato durante gli interventi da molti deputati come il renziano Roberto Giachetti, si sofferma anche sullo stato delle carceri: “In tempi di pandemia non dovrà essere trascuratala condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri spesso sovraffollate - conclude il presidente del Consiglio - esposti al rischio della paura del contagio e particolarmente colpiti dalle misure necessarie per contrastare la diffusione del virus”. Standing ovation. Come fare una riforma del processo penale mettendo mano a temi divisivi come la prescrizione con una maggioranza che va dal M5S a Forza Italia, Draghi non lo dice. E in pochi ci credono davvero. Ma per ora va bene così. La fiducia c’è, per le divisioni di una maggioranza così variegata ci sarà tempo. Anche se le dichiarazioni di voto fanno capire che la distanza tra i partiti sulla giustizia è tanta, quasi incolmabile, e Lega, Forza Italia e Italia Viva non possono farsi scappare l’occasione di provare a spazzare via le bandiere del M5S. Così la capogruppo renziana Maria Elena Boschi applaude alla svolta “garantiste” del governo per superare la “patologia giustizialista di Conte”, il berlusconiano Roberto Occhiuto chiede una riforma “che non sia figlia dell’ispirazione giustizialista” mentre il capogruppo della Lega Riccardo Molinari tira fuori la spada di Damocle che in questi giorni incombe sulla maggioranza, ovvero la prescrizione: “Noi rinunciamo ai nostri totem ideologici e chiediamo anche agli altri di farlo - alza i toni - ma di prescrizione si può e si deve parlare”. I 5 Stelle però fanno muro: “Il reddito di cittadinanza non si tocca e per snellire i tempi del processo si parta dalle nostre riforme già depositate: non faremo passi indietro”. Nella sua replica Draghi parla anche di lotta alla corruzione che “deprime l’economia” e “la concorrenza” da combattere con legalità e semplificazione delle norme sugli appalti e dedica qualche passaggio alle imprese rilanciando l’industria 4.0 e allo sport citandole Olimpiadi di Milano-Cortina 2026. Il resto del dibattito scorre liscio tra paragoni con Alcide De Gasperi di Bruno Tabacci (“Il politico diventa un uomo di stato quando pensa alle prossime generazioni più che alle prossime elezioni”) e l’intervento di Giorgia Meloni che, omettendo la fonte, cita il comunista Bertolt Brecht: “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati - dice - non avere un’opposizione avvicinerebbe l’Italia alla Corea del Nord”. Anche Nicola Fratoianni vota “no” (ma da sinistra), il deputato leghista Gianluca Vinci passa con l’opposizione a FdI e sono ben 10 gli interventi in dissenso del M5S. Alla fine i ribelli saranno 16. Tutti espulsi. Marta Cartabia, ministra della Giustizia, è un ritorno al futuro di Franco Corleone L’Espresso, 19 febbraio 2021 Devo confessare che quando il Presidente Napolitano nominò Marta Cartabia giudice costituzionale il primo riflesso fu quello dettato dal pregiudizio ideologico. Ricordo con emozione la sua relazione nella udienza che portò alla dichiarazione di incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, esempio del più perverso proibizionismo. Ero accanto a Giovanni Maria Flick che, superando le remore legate al suo ruolo di ex presidente della Corte, accettò di essere l’avvocato per accusare quella legge criminogena di essere il frutto dell’inganno e della truffa contro il Parlamento. Da quel momento fummo molto attenti verso le sentenze e le idee di quella che sarebbe diventata Presidente della Corte Costituzionale. Quando il Presidente Lattanzi promosse l’idea del viaggio della Consulta nelle carceri, Marta Cartabia dimostrò una sensibilità particolare. Ora è stata chiamata a reggere il ministero di via Arenula e mi dispiace che per una improvvida disposizione burocratica il dicastero abbia perso la grazia e sia solo della giustizia. Sono sicuro che nei fatti sarà il dicastero di grazie e giustizia, dei diritti e delle garanzie, insomma della Costituzione. Sono stato cinque anni in quel Palazzo e so che occorre molta determinazione per ottenere risultati, per cambiare e non essere cambiati. C’è molto da fare per rompere le cristallizzazioni corporative in tanti settori, ma sono sicuro che una attenzione straordinaria va dedicata alla vita delle carceri per attuare una grande riforma. Con Flick e Margara realizzammo una grande stagione di cambiamento ma il vento della restaurazione ha fermato quel processo. C’è una agenda fitta di nodi da sciogliere. Innanzitutto va messo in cantiere un piano per la completa applicazione del Regolamento del 2000 per assicurare dignità nella vita quotidiana sulla base di principi di responsabilità e autonomia. Poi va assicurato il diritto alla affettività alle detenute e ai detenuti e va rivista la legge sulle droghe che determina la presenza in carcere della metà dei prigionieri. Un altro punto delicato è rappresentato dall’art. 79 della Costituzione che impedisce, nel caso fosse utile e necessario, al parlamento di decidere un provvedimento di amnistia e indulto. Infine proprio quest’anno in cui ricorre il novantesimo anno dell’entrata in vigore del Codice Rocco, sarebbe l’occasione per eliminare almeno il rudere rappresentato dalle misure di sicurezza per trecento internati e infine le norme sulla incapacità di intendere e volere che insidiano la chiusura degli Opg. Mi auguro che Marta Cartabia scelga come riferimento nella sua azione Aldo Moro, ministro della Giustizia sensibile al dramma del carcere e impegnato come giurista per una concezione della pena non fondata sulla vendetta e avversario della pena di morte e dell’ergastolo. Dopo la sbornia del giustizialismo e del populismo penale è ora che torni il senso di umanità. Giustizia, primo vertice di Marta Cartabia con i capigruppo di Liana Milella La Repubblica, 19 febbraio 2021 “La Costituzione sia il faro per riformare il processo penale”. Alla Camera l’incontro della Guardasigilli con i capigruppo della maggioranza. Un ordine del giorno proposto dalla ministra affronta il nodo della prescrizione, ma alla luce dei principi costituzionali. Rientrano gli emendamenti nel decreto Milleproroghe. “Affrontare il nodo della prescrizione senza fretta, perché non ce n’è motivo, ma nel rispetto della Costituzione e dei tanti interventi dell’Europa sulla questione”. Con un obiettivo, “processi rapidi e giusti, e nel rispetto della funzione rieducativa della pena”. Parola di Marta Cartabia. Alla Camera, nella sala del governo, ecco il primo “vertice” politico sulla giustizia che ha per protagonista la neo Guardasigilli. L’ha convocato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, alla vigilia della maratona parlamentare che parte domani sul decreto Milleproroghe, dove si sono affacciati anche gli emendamenti contro la prescrizione dell’ex ministro Bonafede. Ma la conclusione del vertice con i capigruppo che si occupano di giustizia vede volatilizzare le ultime richieste di modifica rimaste sul tappeto. Dopo il passo indietro di Costa di Azione e di Magi di Più Europa, da ieri sera, dopo l’incontro con Cartabia, anche Sisto di Forza Italia e Annibali di Italia viva hanno deciso di soprassedere. È il primo risultato dell’effetto Cartabia e di un ordine del giorno, da lei proposto, che impegna il governo ad affrontare il nodo della prescrizione, ma non in modo estemporaneo, bensì nell’ambito delle riforme sul processo penale, ma soprattutto tenendo conto dei principi già fissati dalla Corte costituzionale e dall’Europa. Come dice Enrico Costa, alla fine del vertice, “è il cambio di passo che tutti auspicavamo”. Dunque Marta Cartabia affronta la prima grana politica sul suo cammino, quella della prescrizione. D’Incà, preoccupato per il destino del decreto Milleproroghe, convoca la riunione. E subito Cartabia affronta il problema che ormai da mesi è oggetto di scontro all’interno della ex maggioranza (Italia viva contro Bonafede) e con l’ormai ex opposizione. Dice Cartabia ai capigruppo: “Non c’è un’urgenza di intervenire frettolosamente sulla prescrizione perché gli effetti della legge di Bonafede, che pure è in vigore, si esplicheranno tra alcuni anni”. Parole che non rappresentano affatto un rinvio sine die. Tutt’altro. Perché Cartabia aggiunge: “Senza indugio, ma anche senza fretta, bisogna considerare il tema della prescrizione anche alla luce delle altre iniziative legislative pendenti che riguardano il processo penale”. “L’obiettivo - dice Cartabia - è quello di stabilire un bilanciamento tra tutti i molteplici e complessi principi costituzionali ed europei coinvolti”. Insomma, per uscire dall’impasse, Cartabia propone a tutte le forze politiche di fare una sorta di passo indietro, con l’obiettivo però di farne uno in avanti. Per questo presenta un articolato ordine del giorno che impegna il governo “ad adottare le necessarie iniziative di modifica normativa e le opportune misure organizzative volte a migliorare l’efficacia e l’efficienza della giustizia penale, in modo da assicurare la capacità dello Stato di accertare fatti e responsabilità penali in tempi ragionevoli (articolo 111 della Costituzione), assicurando al procedimento penale una durata media in linea con quella europea, nel pieno rispetto della Costituzione, dei principi del giusto processo, dei diritti fondamentali della persona e della funzione rieducativa della pena”. Parole che necessariamente non possono che essere accettate dai protagonisti dell’incontro, da Alfredo Bazoli del Pd, a Lucia Annibali di Italia viva, a Federico Conte di leu, da Enrico Costa di Azione, da Francesco Paolo Sisto di Forza Italia, da Roberto Turri della Lega, da Mario Perantoni di M5S. Proprio da quest’ultimo arrivano suggerimenti per migliorare l’ordine del giorno che vengono accolti. Si sgonfia la polemica sulla prescrizione che viene riportata sui giusti binari. Anche guardando in modo razionale agli effetti della legge Bonafede che, pur entrata in vigore dal primo gennaio 2020, esplicherà i suoi effetti, anche per reati non gravi, non prima di alcuni anni. Quindi, come spiega la stessa Cartabia, c’è tutto il tempo per affrontare la questione con l’obiettivo di assicura il giusto bilanciamento. Per raggiungere il risultato di cui ha parlato anche il premier Draghi. E che nell’ordine del giorno presentato dalla Guardasigilli è presentato così: “È necessario, attraverso opportuni interventi sulla legislazione penale sostanziale e processuale e l’iniezione e l’organizzazione delle necessarie risorse strumentali al funzionamento della Giustizia, in linea con gli standard europei, cercare di raggiungere un punto di equilibrio del sistema, che assicuri il contemperamento delle esigenze di effettività nell’accertamento dei reati e delle responsabilità personali con la tutela dei diritti fondamentali della persona, l’attuazione dei principi del giusto processo e della funzione rieducativa della pena”. Come si fa a dire di no a uno work in progress di questo tipo? Infatti la riunione si chiude alla Camera con un sì a una road map che affronti il nodo della prescrizione in chiave tecnica, tenendo ben presente che dall’Europa sono arrivati numerosi moniti sia sui processi penali troppo lunghi, sia su una prescrizione che spesso ha falcidiato i risultati raggiunti. Trovare il punto di equilibrio adesso è nelle mani di Marta Cartabia. Cutolo dopo la trattativa Camorra-Br-Stato osò troppo e fu condannato a morire al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 febbraio 2021 In questi anni, soprattutto nel periodo pandemico, Cutolo è stato ricoverato più volte in ospedale. Sono state presentate istanze per i domiciliari. “Sto troppo male, non ce la faccio a parlare con nessuno in questo momento. Capisco tutti, rispetto tutti ma ora sono io a chiedere rispetto”. Immacolata Iacone risponde così alla stampa all’indomani della morte di suo marito, Raffaele Cutolo, avvenuta nel reparto ordinario dell’ospedale di Parma. Prima ancora era nel reparto detenuti, ma con l’aggravarsi della sua crisi respiratoria è stato trasferito in quello ordinario perché poteva essere monitorato ogni ora. La moglie più volte si era pronunciata contro la detenzione a vita del fondatore di Nuova Camorra Organizzata (Nco), lasciato in carcere nonostante la malattia. Nel corso di questi anni, soprattutto nel periodo pandemico quando la malattia si è acuita con gravi crisi respiratorie, è stato ricoverato più volte in ospedale. Diverse sono state le istanze per chiedere la detenzione domiciliare, puntualmente respinte. L’ultima riguarda la richiesta di revocare il 41bis: rigettata. L’avvocato Gaetano Aufiero, legale di Cutolo, ha spiegato a Il Dubbio che negli ultimi otto mesi, l’ex boss della nuova camorra organizzata, era affetto di una grave demenza senile. Non si alzava dal letto, non riconosceva la moglie, la figlia e l’avvocato stesso. “Quello che voglio sottolineare - spiega l’avvocato Aufiero - è la vergogna del carcere duro, perché Cutolo è morto con il 41bis. L’applicazione di questa norma in questa vicenda, ma anche in altrettanti casi simili, è una barbarie. Chi pensa che il 41bis debba accompagnare alla tomba una persona che da tempo aveva non solo gravi patologie tanto da non alzarsi più dal letto, ma dei deficit cognitivi certificati da una perizia psichiatrica, per me o è ignorante oppure in malafede. Tralascio il discorso che da decenni non esiste più la sua organizzazione mafiosa, come si giustifica il 41bis nei confronti di un uomo che non può dare ordini a nessuno visto che non si rendeva conto nemmeno in che giorno e anno si trovava?”. Che senso ha avuto il 41bis nel suo caso? L’importanza strategica che ha svolto il regime differenziato nella lotta alla criminalità organizzata dovrebbe essere ben chiara. L’obiettivo è volto a impedire che il detenuto continui a mantenere collegamenti, e possa dunque impartire ordini e direttive, pur dal carcere, con le associazioni criminali di riferimento. Se il 41bis ha più volte superato il vaglio della Corte costituzionale e della Corte europea dei Diritti dell’uomo, questo è grazie a quei magistrati di sorveglianza che hanno emesso misure come quelle che nell’ultimo hanno creato indignazione. Intervenire con una norma (il decreto Bonafede che scoraggiava le “scarcerazioni”) per limitare questi provvedimenti, vuol dire rischiare proprio di porre fine al 41bis. Il paradosso è che potrebbe non superare più il vaglio, proprio perché impone il carcere duro anche nei confronti di chi non ha più la capacità cognitiva nel dare ordini all’esterno. La vera trattativa Camorra - Br - Stato - Il 27 aprile 1981 le Brigate rosse sequestrarono Ciro Cirillo, assessore regionale all’Urbanistica, presidente del comitato per la ricostruzione ed ex presidente della giunta regionale campana. Il sequestro avviene a pochi metri dall’abitazione di Cirillo, a Torre del Greco. Nel corso dell’azione brigatista vengono uccisi l’appuntato Luigi Carbone, addetto alla tutela dell’assessore democristiano, e l’autista Mario Cancello. È ferito il segretario Ciro Fiorillo. In un rapporto delle forze dell’ordine del 29 giugno 1981, l’assessore, legato all’onorevole Antonio Gava, è descritto come “un personaggio realmente discusso per un modo quanto meno spregiudicato di gestire la cosa pubblica”. Il 24 luglio 1981, l’assessore Cirillo viene liberato. A questo esito non si giungerebbe dopo un’efficace opera di intelligence, né dopo una brillante azione di polizia. Vi si giunge dopo trattative condotte da funzionari dello Stato e uomini politici con camorristi e brigatisti. Circostanze confermate da Carlo Alemi, titolare dell’istruttoria sul sequestro: “Le sentenze hanno dato atto in modo inequivocabile che c’è stata una trattativa tra Stato, camorra e Br”. Tre anni prima, durante il tragico sequestro dell’onorevole Aldo Moro, il mondo politico e lo stesso partito dello statista avevano, invece, respinto qualsiasi ipotesi di trattativa con i terroristi. In quel caso Moro fu lasciato morire. Non è un caso che l’egemonia della Nco all’interno della camorra raggiunge il punto più alto tra la fine del 1981 ed i primi mesi del 1982. Ciò dipende in larga misura dai rapporti che Cutolo aveva costruito o rinsaldato nei due mesi del sequestro Cirillo. Non va dimenticato che proprio nel periodo successivo al sequestro, Cutolo sferrerà un durissimo attacco contro il clan Alfieri, per togliere di mezzo un centro di aggregazione alternativo alla Nco. Il disegno di occupazione e di controllo del territorio è ambizioso e si ispira per certi aspetti al totalitarismo di Cosa nostra. I patti non più rispettati: l’inizio della fine - Ma poi accade qualcosa. È la relazione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante a spiegarlo. Il 17 marzo 1982 viene pubblicato su l’Unità un falso documento, apparentemente del ministero dell’Interno. In quel documento si attestava che l’onorevole Scotti ed il senatore Patriarca si erano recati nel carcere di Ascoli Piceno per trattare con Cutolo. Ispiratore del falso è lo stesso Cutolo. Lo scopo principale, secondo la Corte d’appello di Napoli del 1993, è la vendetta contro chi non ha osservato i patti. La pubblicazione richiama infatti l’attenzione sulle trattative e sui coinvolgimenti politici. Il fatto che il documento contenga notizie false non può non preoccupare chi ha effettivamente negoziato. Cutolo intende così vendicarsi per il mancato adempimento delle promesse e premere su tutti i suoi interlocutori perché rispettino gli impegni. Ma le conseguenze del messaggio sono controproducenti perché Cutolo ha sottovalutato tanto i suoi interlocutori quanto la situazione complessiva. Fu l’inizio della sua fine. Il fatto esterno più significativo è la presa di posizione del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che interviene personalmente perché Cutolo sia trasferito nel famigerato carcere dell’Asinara. Il trasferimento era già stato proposto con urgenza dal ministro dell’Interno il 25 febbraio 1982, subito dopo un vertice sulla situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica in provincia di Napoli. Con una missiva inviata al ministro di Grazia e Giustizia Clelio Darida, veniva indicata dal ministro Virginio Rognoni come possibile destinazione di Cutolo proprio l’Asinara. Il Guardasigilli non dava seguito alla proposta fino al 17 marzo: il giorno stesso della pubblicazione del falso documento. In quella data veniva disposto il trasferimento, consegnando direttamente nelle mani del direttore del carcere di Ascoli una copia del relativo provvedimento. Il cambio di alleanze politiche - Secondo il pentito di camorra Pasquale Galasso, la decisione di colpire in questo modo Cutolo sarebbe dipesa da un cambio di alleanze politiche. I politici che avevano negoziato con Cutolo, impossibilitati a mantenere le promesse a causa della pubblicità che la vicenda aveva acquisito, intimoriti per la pubblicazione del falso documento, che poteva preludere anche più corposi ricatti, si erano rivolti ai nemici di Cutolo chiedendo aiuto. E l’aiuto era stato immediatamente restituito con robuste contropartite nei lavori della ricostruzione. Viene così eliminato il più importante collegamento fra Cutolo, i politici e i servizi. Viene lasciato a Cutolo un messaggio inequivoco: ha osato troppo; la sua era è finita e lo azzerano. Da 26 anni tumulato per sempre al 41bis, nonostante non fosse più capo di nulla, nonostante le sue gravi patologie lo rendevano, di fatto, incompatibile con il 41bis. Insieme a sua moglie Immacolata decise di mettere al mondo nel 2007 la loro figlia Denise, la loro unica ragione di vita. L’ha potuta abbracciare fino a quando Denise non ha compiuto 12 anni. Per il 41bis lei è “maggiorenne”, quindi da quel momento in poi ha potuto vedere il padre solo dopo un vetro. Nell’ultimo periodo ha visto il padre peggiorare sempre di più, con lo sguardo assente, non la riconosceva più. Poi, come sappiamo, mercoledì sera è morto. Antonio Ingroia: “La morte di Raffaele Cutolo? Il 41bis in questi casi è accanimento” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 19 febbraio 2021 Parla l’ex pm antimafia: “Il carcere duro serve a spezzare rapporti con i criminali fuori, ma dopo decenni per detenuti malati andrebbe allentato”. “Se esiste l’ergastolo, è inevitabile che chi è condannato al ‘fine pena mai’ muoia in carcere. Ferma restando la detenzione, però, mantenere il 41bis in certe condizioni mi sembra eccessivo”. Antonio Ingroia, oggi avvocato, ieri - per tanto tempo - magistrato antimafia a Palermo, interviene così, parlando con HuffPost, sulla morte di Raffaele Cutolo. Il boss della Nuova camorra organizzata è deceduto ieri sera per i postumi di una polmonite nel reparto sanitario del carcere di Parma. Cutolo era molto malato da tempo, e nei mesi scorsi l’avvocato Gaetano Aufiero aveva presentato delle istanze di detenzione ai domiciliari. A maggio 2020 una di queste è stata rigettata perché non si ritenevano le sue patologie incompatibili col carcere e perché Cutolo, riteneva il magistrato, “esercitava ancora carisma” all’interno della criminalità organizzata. Così il don Raffaè ha finito i suoi giorni non solo in carcere - stava scontando l’ergastolo - ma ancora al 41bis, il regime di detenzione più dura. Proprio come era accaduto per Totò Riina e Bernardo Provenzano. Per quest’ultimo, però, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo, proprio perché aveva lasciato che, nonostante fosse molto malato e ormai non lucido, trascorresse i suoi ultimi giorni non solo in carcere, ma al regime più duro. All’indomani della morte di Cutolo, l’avvocato del capomafia siciliano, Rosalba Di Gregorio, all’AdnKronos dice: “La forza, la democrazia di una nazione non si dimostra mantenendo in carcere uomini vecchi e malati, ma applicando le regole del diritto. Vale per Raffele Cutolo e valeva per Bernardo Provenzano e tanti altri. La lotta alle mafie non può comportare l’accanimento su un corpo distrutto, da età e patologie. Questa è tortura”. Ora come allora, il dibattito resta aperto. Ferme restando le condanne, le pene pesanti, l’indubbia complessità della questione, lo Stato come deve agire in casi come questo? Lasciar morire il boss (o ex boss) nella condizione di detenzione più dura, naturalmente garantendogli le opportune cure, o allentare il regime? Intorno a questi interrogativi si muovono i principi basilari dello stato di diritto e il significato più profondo di funzione della pena. Che non deve essere una vendetta, né un accanimento. Neanche nei casi dei boss più efferati e influenti. C’è chi è sordo a questi principi e trova giusto lasciar morire al 41bis chi si è macchiato di reati molto gravi. Chi, invece, ritiene ciò inumano - come Patrizio Gonnella di Antigone - e ricorda: “Non bisogna avere paura di dimostrarsi debole nel far morire in una condizione di non totale abbandono una persona. Non entro nel merito della sua condizione di ricovero, ma il concetto vale per Cutolo come per chiunque altro”. Ingroia si colloca nel mezzo, e ci dice: “Non conoscevo le condizioni di salute di Cutolo, ma lasciare una persona anziana e malata al 41bis, oltre a dare l’idea che ci sia un accanimento, si snatura la funzione stessa del carcere duro”. Cutolo è morto ieri sera a Parma, a 79 anni, per i postumi di una polmonite. Era anziano e molto malato, ma ha comunque trascorso i suoi ultimi giorni in carcere, con il regime più duro. Cosa ne pensa? Sulla detenzione non ci sono dubbi. In Italia esiste la pena dell’ergastolo, il cosiddetto ‘fine pena mai’, quando si tratta di reati gravi come quelli commessi da Cutolo è inevitabile che si muoia in carcere. Quello che però mi sembra eccessivo, in casi come questo, con un detenuto anziano e malato, è il 41bis. Anche perché in questo modo se ne snatura la funzione. Qual è la funzione? E perché nel caso di Cutolo ormai non c’era più? ll 41bis serve a interrompere il canale comunicativo tra il capo e l’organizzazione mafiosa che resta fuori. A spezzare un vincolo. Ma nel caso di un boss (o, vista l’età che aveva e i decenni di detenzione alle spalle, dovremmo dire ex boss) che non è più operativo, il carcere continua a essere necessario. Il 41bis no. Questa è una misura che andrebbe applicata per i mafiosi che sono attivi, attualmente pericolosi. Innegabile che per i primi tempi della detenzione di Cutolo sia stata indispensabile. Ma dopo decenni sarebbe stato coerente allentarla, ferma restando la detenzione. Altrimenti, se lo si applica in questo modo, il 41bis rischia di essere un accanimento. I più attenti alle garanzie del condannato potrebbero dire che costringendo al carcere duro una persona che sta molto male lo Stato realizza solo una vendetta... Sicuramente in queste circostanze si assiste a un inasprimento della funzione retributiva della pena, che non risponde alle ragioni per cui il carcere duro è nato. Questioni del genere si sono poste anche nei casi della morte di Riina e Provenzano. Per quest’ultimo l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Vicende abbastanza simili, non trova? Uno degli ultimi atti che ho fatto da magistrato è stato andare a interrogare Provenzano, nel 2012. Già allora (Provenzano morirà nell’estate del 2016, ndr) era in condizioni psicofisiche precarie. Il caso di Riina ritengo fosse diverso: aveva certamente patologie, ma queste non ne compromettevano il carisma. A proposito di carisma. Il giudice che l’anno scorso ha respinto l’istanza con cui l’avvocato di Cutolo chiedeva per lui i domiciliari ha affermato, tra l’altro, che l’ex boss della Nco poteva esercitare ancora carisma sugli affiliati. Davvero è così? Davvero dopo decenni di 41bis un boss può rientrare nei giochi e influenzare significativamente gli altri malavitosi? Bisogna fare delle valutazioni caso per caso. Indubbiamente in un’organizzazione criminale il carisma dei capi conta. Ma se quest’ultimo è stato per decenni e decenni in carcere, e quindi per tanto tempo non ha più comandato, è difficile che possa influenzare in maniera incisiva le cose. Nel giro di pochi anni i boss più influenti della criminalità organizzata italiana sono morti. Provenzano, Riina, e ora Cutolo. Che significato ha il suo decesso per la Camorra? Così come con la morte del ‘capo dei capi’ si è chiusa la stagione criminale dei corleonesi, con il decesso di Cutolo finisce la stagione che ha visto, per decenni, la Camorra come protagonista. L’organizzazione è stata tristemente influente non solo sul piano della criminalità organizzata, ma anche della politica, delle relazioni esterne. La Camorra oggi è ancora molto attiva sul territorio campano, muove tanti affari, ma assomiglia di più a un’associazione di tipo gangsteristico. Che non si incanta più intorno a figure criminali come Raffaele Cutolo. La moglie di Cutolo: “Solo e isolato, era come se avessero già scritto la sentenza di morte” di Paolo Berizzi La Repubblica, 19 febbraio 2021 Immacolata Iacone a 19 anni sposò il super-boss della Camorra deceduto ieri. Con la fecondazione assistita la coppia ha avuto una figlia. “In carcere l’avevano ridotto a un fantasma. Nemmeno ci riconosceva più”. Un solo bacio in 20 anni. Dopo il matrimonio le disse: “Tu hai scelto di stare con un morto”. “È morto come volevano. L’hanno ridotto a un fantasma che non riconosceva più né me né nostra figlia”. Seduta in un chiosco davanti all’ospedale di Parma insieme alla figlia Denise e a due cugini che le hanno accompagnate in auto nella notte da Ottaviano, Immacolata Iacone, 57 anni, parla con una voce stanca. È la moglie di Raffaele Cutolo. La donna che, a 18 anni - era il 1982 - in visita nel carcere di Ascoli Piceno dal fratello detenuto viene folgorata dallo sguardo del super-boss della Nuova Camorra organizzata. Cutolo, il Male. Il criminale feroce e spietato che per anni distribuisce sangue e morte in Campania dichiarando guerra allo Stato e minacciando e ricattando politici e boss rivali. Nell’83 Immacolata lo sposa nell’ex isola-carcere dell’Asinara. “Un matrimonio bianco”, dice lei. “Ci siamo baciati una sola volta in 20 anni”. Nel 2007, grazie al permesso ottenuto dai legali dell’ex boss in regime di 41bis, l’inseminazione artificiale e la nascita di Denise Cutolo, che oggi ha quasi 14 anni. Quando ha visto l’ultima volta suo marito? “Quindici giorni fa. Non mi riconosceva. Mi scambiò per mia cognata. Era ormai quasi completamente assente. Non sapeva nemmeno in quale città si trovasse. Non mangiava più”. Ora vedrà la salma? “Stiamo aspettando che ce lo lascino vedere. Pensare che avrei dovuto vederlo oggi. Ma da vivo”. Cioè? “Negli ultimi giorni, sapendo che le sue condizioni erano peggiorate, avevo chiesto con insistenza di poterlo vedere. Mi avevano autorizzato a venire a Parma proprio oggi. E invece ieri sera mi hanno chiamato per dirmi che era morto”. Da quanto tempo era ricoverato in ospedale? “Da luglio. Prima nel reparto detenuti. Poi, quando la polmonite è peggiorata e gli ha procurato la setticemia al cavo orale, lo hanno trasferito in un altro reparto. Voglio sperare che abbiano fatto tutto il possibile per curarlo”. Perché, pensa il contrario? “Non lo so. Non so quanto fosse grave l’infezione che lo aveva colpito. Non so nemmeno se questa polmonite fosse o meno Covid. Lo vedranno, forse, con l’autopsia. Stiamo cercando di capire se gliela faranno. Poi spero ci autorizzino a portarlo a Ottaviano. E che ci facciano fare il funerale”. Perché dice che suo marito è morto “come volevano”? “Da anni è come se avessero già scritto la sentenza di morte. Solo e isolato. Lo era da 50 anni. Nonostante fosse diventato l’ombra di se stesso, nonostante non sapesse più nemmeno dove si trovasse e chi avesse di fronte, continuavano a ritenerlo pericoloso”. Per i tribunali lo era ancora. E poi c’è un tema fondamentale: suo marito ha ucciso e fatto uccidere, ha distribuito morte per anni. Un boss spietato. Non pensa alle sue vittime? Ai familiari? “Certo. Mio marito ha fatto del male e capisco che per molti Cutolo è stato il male assoluto. Ma ha scelto di pagare le sue pene fino all’ultimo giorno. Senza chiedere sconti, senza pentirsi. E questo perché considerava il pentimento solo un modo per ottenere benefici e sconti di pena”. Con gli avvocati avevate chiesto gli venisse revocato il 41bis. “Richieste sempre rigettate. C’è sempre stato un muro. Io dico che era giusto che mio marito pagasse per quello che ha fatto. Ma penso che, come tutti i detenuti, meritasse dignità. Dopo oltre mezzo secolo di carcere. Essendo per di più malato da tempo.” Vostra figlia è con lei? “Si. Volevo restasse a casa, a Ottaviano. Ma ieri sera mi ha detto: ‘Fate decidere a me, per favorè. Ed è venuta. Vuole vedere suo padre. Sa quello che ha fatto, conosce la sua storia. Ma è suo padre”. Porterà sempre un cognome ingombrante. “È una figlia modello, ha sofferto e soffre. Come hanno sofferto e soffrono le vittime di camorra, le vittime di mio marito”. Il nome di Cutolo evoca un passato di atrocità, e segreti che suo marito si porta nella tomba. “Forse il suo nome farà paura anche da morto. Mi chiedo ancora, in queste ore, come si poteva pensare fosse ancora pericoloso un uomo di 80 anni nelle sue condizioni. Ma evidentemente doveva andare così”. Senza entrare nel giudizio e nei sentimenti: come ha fatto a sposare un uomo di cui sapeva che, con ogni probabilità, sarebbe rimasto in carcere a vita? “Lui me lo diceva sempre: hai sposato un morto. Ti sei sposata e sei diventata subito vedova. Ma ho fatto questa scelta e, se tornassi indietro, nonostante tutto, la rifarei”. Quando la giustizia si è trasformata in vendetta di Stato di Paolo Delgado Il Dubbio, 19 febbraio 2021 Raffaele Cutolo, don Rafaele, è stato lasciato morire in carcere. La crisi polmonare che alla fine lo ha ucciso durava da un anno. La richiesta di arresti domiciliari era stata respinta perché la condizione di detenuto in regime di 41bis, in cella singola, garantiva il rispetto delle norme anti Covid. Le istanze di scarcerazione erano state respinte anche dopo l’aggravamento delle sue condizioni. Non per vendetta, come si dice di solito, ma per paura. Non paura dell’uomo che era stato un tempo feroce, pericolosissimo, mandante di centinaia di omicidi fuori e soprattutto all’interno delle carceri dove i suoi killer avevano instaurato all’inizio degli anni ‘ 80 un vero regime di terrore. Paura dell’opinione pubblica, delle critiche, delle forze politiche giustizialiste sempre pronte a puntare il dito. Anche e quando a essere scarcerate perché in fin di vita sono persone che non rappresentano più alcun pericolo. Raffele Cutolo aveva smesso da un pezzo di essere ‘ O Professore. Era stato sconfitto nella guerra di camorra che insanguinò Napoli a cavallo tra gli anni 70 e 80. Il suo miraggio di costruire una camorra ricalcata sul modello di quella ottocentesca, che aveva studiato sui libri dell’antropologo De Blasio, della quale cercava di farsi raccontare tutto dai vecchi camorristi nei primi anni della sua lunghissima detenzione e poi di estendere il dominio sull’intera Campania era affogato sotto le testimonianze dei suoi uomini più fidati diventati pentiti, l’uccisione del figlio, i tradimenti. “Credetemi, il crimine non paga. Non seguite i falsi ideali di organizzazioni perché siamo, e mi metto anche io in mezzo, una razza d’infami che si pentono appena gli scattano le manette ai polsi. È molto meglio andare a lavorare per un solo tozzo di pane che arruolarvi nelle organizzazioni”. Cutolo non poteva uscire neppure per morire, come non aveva potuto passare un solo giorno con la moglie sposata nel 1983 non perché ancora temibile ma perché, come scrivono senza perifrasi i magistrati rigettando le istanze di scarcerazione, “era un simbolo”. Non è il primo caso. Sono morti in carcere, vecchi, malati, senza più alcun potere Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capi dei Corleonesi. Nessuno di loro, né Cutolo né i terribili corleonesi meritava forse la libertà. Erano boss spietati, con sulle spalle centinaia di omicidi, forse migliaia. Ma a condannarli a una morte spietata e solitaria non son stati i loro delitti ma il loro nome. Il ‘ simbolo’ e ancor più la paura delle reazioni alla sola notizia che quei ‘ simboli’ siano fuori da quelle quattro mura. Non solo i criminali comuni sono soggetti a questa legge non scritta ma inesorabile. Mario Moretti, ex capo delle Br, è l’unico dell’intero commando di via Fani, ma quasi di tutte le Br a dover ancora tornare in carcere a dormire la notte. Moretti non firma la ‘ lettera di scusè ai parenti delle vittime, una formalità vuota e ipocrita che di solito viene redatta dagli avvocati e poi fatta firmare dall’interessato. Anche Mario Tuti, sul fronte opposto della barricata politica, all’estrema destra, è in carcere dal 1975, condannato non dai reati, gravissimi ma non più di quelli di tanti ex terroristi liberi da decenni ma dal nome e dal rifiuto di porgere scuse formali. Renato Vallanzasca, il bel René, è stato uno dei nomi più noti della malavita milanese e italiana. Bello spavaldo, provocatori. Ha pagato il nome e il caratteraccio quasi più dei delitti per cui è stato condannato a quattro ergastoli. Nel 2010, dopo una trentina d’anni di carcere e molti rifiuti ottiene il lavoro esterno al carcere ma perde subito il beneficio per essersi appartato con una donna. Il lavoro gli viene restituito ma lo perde subito per le proteste degli abitanti del paese dove aveva trovato impiego. Pochi mesi dopo è di nuovo in regime di lavoro esterno ma nel 2014 si fa prendere mentre ruba in un grande magazzino calzini e mutande. Verrà condannato a 10 mesi ma nel 2018, senza che nel frattempo sia mai uscito di nuovo di galera, il tribunale di sorveglianza di Milano, nonostante le richieste non solo dell’avvocato di Vallanzasca ma dello stesso carcere, stabilisce che deve scontare tutta la pena in carcere, non avendo dato segni di ravvedimento. Una giustizia che nega ogni possibilità ai condannati per reati gravi è discutibile, poco civile, contraria ai princìpi della nostra Costituzione ma ha una sua logica, non differente da quella che ispira la pena di morte. Una giustizia condizionata dal nome del condannato più che dalla sua situazione reale e ostaggio di un’opinione pubblica spesso sollecitata nel modo e nel senso peggiore, invece, non è giustizia ma arbitrio. Il boss al 41bis potrà ascoltare la musica, lo stabilisce il Tribunale: “È un diritto primario” di Elena Del Mastro Il Riformista, 19 febbraio 2021 Aveva chiesto per mesi di avere un lettore Cd e dei dischi da ascoltare ma gli erano stati negati. Ma il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha stabilito che si tratta di “un diritto primario, un residuo di libertà”. Per questo motivo ha concesso l’acquisto di un lettore e dei dischi per il boss barese Domenico Strisciuglio, soprannominato “Mimmo la luna”, 48enne capo dell’omonimo clan mafioso del quartiere Libertà di Bari, detenuto dal 1999 al regime del 41bis. “Non vi è dubbio - scrivono i giudici nel provvedimento - che sia in gioco il potenziale pregiudizio al diritto al trattamento e il diritto a svolgere attività culturali, che del trattamento sono elementi portanti. Attività, peraltro, che diventano ancora più significative in un regime, quale quello previsto dal 41bis, nel quale residua poco o nessuno spazio per attività in comune”. Per il Tribunale di sorveglianza, concedere al detenuto di ascoltare musica garantisce “diritti primari allo svolgimento di attività culturali, che sono fondamento del trattamento e che, più a fondo, costituiscono manifestazione della personalità che fanno parte di quel residuo di libertà personale” che non può essere violata “da qualsiasi tipologia di detenzione. A livello costituzionale, si tratta di diritti che trovano presidio direttamente negli articoli 2, 9, 21 e 33 della Costituzione”. I giudici ritengono inoltre che “l’impossibilità di poter svolgere quei gesti segna un’indebita diversità di trattamento dai detenuti comuni e in media sicurezza, non giustificata da alcuna esigenza di sicurezza”. Spiegano, anzi, che “il divieto di utilizzo di quel supporto non sarebbe proficuo sotto il profilo dell’incremento della tutela dell’ordine e della sicurezza e della maggior prevenzione di flussi comunicativi illeciti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale o organizzazioni criminali contrapposte e comprimerebbe inutilmente i diritti fondamentali sopra esplicitati”. Era ai domiciliari giudice obiettore le vietò l’aborto: censurato dal Csm di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 febbraio 2021 La Cassazione ha confermato la decisione del Csm sull’allora magistrato di sorveglianza di Brescia che con la sua condotta aveva danneggiato la donna. La donna era ai domiciliari, l’allora magistrato di sorveglianza di Brescia le aveva negato il permesso per andare in ospedale a interrompere la gravidanza. Lo aveva fatto per obiezione di coscienza. Per questo è stato censurato dal Csm per la sua condotta che aveva anche danneggiato la donna. Ora la Cassazione, con la sentenza numero 3780, conferma tale decisione. Ripercorriamo i fatti. Il magistrato è stato sottoposto a procedimento disciplinare, perché nel 2012 ha respinto l’istanza della donna ai domiciliari che chiedeva di allontanarsi dall’abitazione per sottoporsi ad un intervento di interruzione volontaria di gravidanza. Il rigetto lo ha motivato con un provvedimento dal seguente tenore: “Non ravvisandosi i presupposti di cui l’articolo 284, comma 3, cod. proc. Pen., richiamato dall’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario”. L’interruzione di gravidanza contraria ai suoi principi religiosi - Secondo il capo di incolpazione tale motivazione sarebbe stata fondata su una interpretazione dell’articolo citato e palesemente in violazione di legge, strumentalizzata al fine di impedire alla donna di eseguire il programmato intervento che lo stesso riteneva non praticabile perché contrario ai suoi principi religiosi, così come reso palese dal successivo provvedimento, adottato su nuova istanza della detenuta, con il quale il magistrato rimetteva il fascicolo alla presidente della Sezione con la seguente motivazione: “(…) ritendendo questo magistrato di astenersi dall’emissione del richiesto provvedimento per ragioni di coscienza e ritenendo che il diritto all’obiezione di coscienza debba essere riconosciuto anche agli appartenenti all’ordine giudiziario (stante la particolare ristrettezza dei tempi non è possibile sollevare la questione di legittimità costituzionale”. Il magistrato, quindi, è stato incolpato di vari illeciti. Nel capo di incolpazione si legge che il magistrato, violando i doveri di imparzialità, correttezza, equilibrio e rispetto della dignità della persona di cui all’articolo 1 del decreto legislativo numero 109 del 2006, avrebbe arrecato grave discredito sia all’istituzione giudiziaria che alla donna con un ingiusto danno: quest’ultima si è vista costretta a riproporre l’istanza e di rinviare l’intervento chirurgico in una data assai prossima alla scadenza dei novanta giorni entro i quali poter praticare l’intervento. La sentenza del Csm confermata anche dalla Cassazione - Con la sentenza depositata il 22 luglio scorso, la sezione disciplinare del Csm ha dichiarato l’allora magistrato di sorveglianza di Brescia, responsabile degli illeciti e gli ha inflitto la sanzione disciplinare della censura. Sempre la sezione disciplinare, dopo aver premesso che la richiesta della donna era senz’altro intesa ad ottenere l’autorizzazione a recarsi fuori dal luogo della detenzione domiciliare per sottoporsi a trattamento di interruzione volontaria della gravidanza, ha osservato che le ragioni oggettive della richiesta rientrano sicuramente tra quelle indispensabili esigenze di vita la cui sussistenza consente l’autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione domiciliare per il tempo necessario ad assentarsi dal luogo di detenzione domiciliare per il tempo necessario a provvedere alla loro soddisfazione. Il magistrato ha quindi fatto ricorso in Cassazione. Il pubblico ministero, opponendosi al ricorso, nelle sue conclusioni scritte sottolinea che la scelta di ricorrere all’aborto, è “un diritto personalissimo che non tollera limitazioni a causa dello stato di detenzione”. La Cassazione ha rigettato il ricorso confermando la censura posta dal Csm. Per la Corte suprema, il magistrato di sorveglianza - sostenendo che non c’erano i presupposti per accogliere la richiesta -, aveva, di fatto, escluso che l’interruzione di gravidanza potesse rientrare tra le indispensabili esigenze di vita che consentono di lasciare “a tempo” i domiciliari o il carcere. Sia i probi viri sia la Cassazione chiariscono che la nozione di indispensabili esigenze di vita non va intesa solo in senso materiale ed economico, ma letta come una tutela dei diritti fondamentali della persona. Sì, perché la donna, a causa del magistrato di sorveglianza, ha dovuto rinviare ulteriormente la data dell’operazione e ciò - come si legge nelle osservazioni della sezione disciplinare del Csm - è “disagevole sotto il profilo psicologico e fisico per ogni donna, tanto più questa versa in condizioni di detenzione”. Pozzuoli (Na). Detenuta nel reparto articolazione psichiatrica muore a 37 anni di Viviana Lanza Il Riformista, 19 febbraio 2021 Il 15 febbraio 2021 muore all’ospedale di Pozzuoli Isabella P., una detenuta del carcere femminile di Pozzuoli ricoverata lì dall’11 febbraio. Era nel reparto articolazione psichiatrica ed il suo fine pena era previsto per il 2026. Era accusata di furto, estorsione e minaccia a pubblico ufficiale. Aveva 37 anni, Isabella. Gli ultimi mesi della sua vita li ha vissuti in carcere consumando le giornate come consumava le sigarette, fumate una dietro l’altra per impiegare il tempo in una delle tre celle che divideva con altre sette detenute del reparto psichiatrico del carcere femminile di Pozzuoli. Tutto questo fino a ieri, quando una crisi respiratoria ne ha causato la morte. A nulla sono valsi i tentativi di rianimarla del personale sanitario del carcere, a nulla sono valsi i tentativi dei medici del pronto soccorso. Ora il nome di Isabella P., nata a dicembre del 1983 a Torino, è un nome in più nell’elenco dei detenuti morti in carcere. Per cause naturali, certo. Ma in condizioni che spingono ancora una volta a chiedersi se davvero sia necessario tenere in cella persone fragili perché psicologicamente instabili, affette da patologie che minano la loro salute mentale e fisica. Isabella era detenuta per accuse di furto e oltraggio. E a questo punto della sua storia viene da porsi anche una seconda domanda: furto e oltraggio possono considerarsi reati che impediscono la possibilità di accedere a una misura alternativa al carcere? Sicuramente anche con assistenza e cure garantire al meglio, un carcere resta sempre un carcere: dovrebbe essere l’extrema ratio e finisce spesso per continuare a essere il contenitore dove confinare soggetti di cui la società fa fatica a prendersi cura in modo diverso. Isabella era una detenuta del carcere di Bologna e in quello femminile di Pozzuoli ci era arrivata a settembre scorso per starci temporaneamente, solo il tempo che nel carcere di Bologna si competessero i lavori di ristrutturazione. Sarebbe stato questione di settimane e Isabella sarebbe tornata nella struttura emiliana, era stata anche già fissata la data del rientro. E invece il destino ha messo un punto a tutto: alla sua giovane vita, alle trafile giudiziarie e burocratiche, alle cure e alle crisi, alle sigarette fumate una dietro l’altra per provare a ingannare il tempo e la malattia. Appena un mese fa il garante regionale della Campania, Samuele Ciambriello, aveva sollevato il tema della tutela della salute mentale in carcere, presentando un report con dati e cifre per descrivere una realtà piena di criticità. Perché non in tutte le carceri ci sono sezioni specializzate per ospitare al meglio detenuti con patologie psichiatriche e perché i ricoveri sono spesso lunghi finendo per diventare una sorta di “ergastolo bianco”. A tutto ciò si aggiunga che anche nelle strutture più attrezzate si verifica una compressione dei diritti individuali. La condizione di reclusione, lo stato di privazione della libertà, la condizione di dipendenza in cui il detenuto è costretto a vivere anche per far fronte alle più elementari necessità del vivere quotidiano sono fattori che condizionano la sfera psicologica e, nei casi di patologie pregresse, si sommano a tali patologie rendendo difficile, talvolta impossibile, la compatibilità tra salute mentale e reclusione in cella. Nell’ultimo anno si sono contati circa mille detenuti con disagi mentali negli istituti normali e 1.200 detenuti in istituti specifici. Schizofrenia e disturbi psicotici, disturbi d’ansia e psicosi indotte dall’uso di particolari sostanze, disturbi dell’umore e della personalità sono tra le patologie più diffuse all’interno delle celle. Ma il vero problema restano i tempi: il soggiorno nelle sezioni cliniche di salute mentale dovrebbe durare pochi mesi per poi continuare con programmi terapeutici e riabilitativi da eseguirsi sul territorio, invece - come denunciato dal garante Ciambriello - “i detenuti che transitano in questi spazi vi restano in maniera cronica, come a scontare un ergastolo bianco”. Bari. Agente penitenziario suicida. “Era vittima di pregiudizi nell’ambiente di lavoro” di Valentino Sgaramella Gazzetta del Mezzogiorno, 19 febbraio 2021 Si sarebbe tolto la vita perché stanco di non essere accettato dai suoi colleghi. Un agente di polizia penitenziaria in servizio all’interno di un carcere del Barese, è stato trovato morto all’interno della sua vettura a Bitritto, dove viveva con i suoi genitori Si sarebbe ucciso con la pistola d’ordinanza. Avrebbe anche lasciato un biglietto sul cruscotto, messaggio attualmente nelle mani della Procura della Repubblica. C’è dunque un’inchiesta sulla morte dell’agente? Di fatto si sta tentando di approfondire lo scenario che fa da sfondo alla vicenda. Una testimonianza importante arriva dall’avvocato Antonio La Scala, presidente e fondatore dell’associazione “Gens Nova” della quale il poliziotto era membro. “Sono ancora sconvolto - dice l’avvocato - Era un uomo un po’ timido, ansioso per carattere, gentile. Due giorni fa ho raccolto il suo ennesimo sfogo: non ce la faceva più. Mi ripeteva che i colleghi lo prendevano in giro, non gli credevano, dicevano che non stava bene con il cervello, che era malato immaginario, lo dileggiavano perché non si era mai sposato”. Qualcuno, dunque, avrebbe evidenziato le differenze tra l’agente e l’ambiente, per così dire, machista tipico di molti ambienti militari. Aggiunge La Scala: “In quasi 15 anni di umiliazioni subite, ha sempre rifiutato l’etichetta di omosessuale, ma era questo l’argomento principale con il quale alcuni suoi colleghi lo tormentavano”. Il tema non è se l’agente fosse o meno omosessuale, il problema è il senso di isolamento che era costretto a vivere perché trattato in ogni caso da “diverso”. Il presidente di “Gens Nova” ricorda un episodio risalente a 5 anni fa: “Un collega lo vede ad una stazione di servizio e lo riferisce ai superiori; scatta una denuncia per una malattia fasulla e truffa ma la denuncia viene archiviata dal pm perché anche in quel caso era in malattia e poteva comunque uscire”. Questo episodio sembra abbia segnato l’agente che da quel momento arriva a pensare perfino di poter essere pedinato. Soprattutto non digerisce che abbiano messo in dubbio la sua parola. “Due giorni fa era esausto - dice ancora La Scala - si sentiva nel centro del mirino, obiettivamente non stava bene, viveva in un’atmosfera ossessiva, si sentiva perseguitato”. C’è chi lo additava come diverso, chi come falso malato, chi riferiva ai superiori episodi sul suo conto, spesso frutto di fantasia. Questo, insomma, il clima nel quale l’agente avrebbe maturato la scelta di farla finita. Assistente capo coordinatore del corpo di polizia penitenziaria, 56 anni, originario di Bitritto, da molti anni era in servizio in un carcere di terra di Bari. Nella notte tra il 17 e il 18 febbraio una pattuglia dei carabinieri ha notato un’automobile ferma accanto a una stazione di servizio nella zona 167. I militari hanno notato all’interno la sagoma di un uomo che sembrava addormentato, ma quando hanno aperto lo sportello si sono accorti del sangue abbondante. “Ogni volta che rientrava dalle riunioni in associazione era sereno, Antonio La Scala era diventato la persona a cui confidare tutto quello che ha subito in anni di servizio”, racconta la madre sfinita dal dolore. Un padre anziano malato di cancro gli consentiva di usufruire della cosiddetta legge 104, assentarsi dal lavoro per accudire il genitore. Nel frattempo aveva chiesto di usufruire di un periodo di aspettativa. “In questo periodo mio figlio non stava lavorando - dice ancora la donna - Mi chiedo come abbia potuto procurarsi la pistola che viene sistematicamente lasciata in armeria, nel carcere, al termine dell’orario di lavoro”. L’avvocato La Scala, che si prepara a dare battaglia legale sulla vicenda, lancia intanto un altro tipo d’allarme: “Troppi suicidi tra militari delle forze dell’ordine, in media 60 ogni anno. Nelle scorse settimane si è tolto la vita un luogotenente dei carabinieri a Bari e un altro sottufficiale della Guardia di Finanza nell’aprile scorso, sempre a Bari”. Ancora sull’agente penitenziario suicida: “Aveva bisogno di un aiuto psicologico serio ma con massima discrezione, non facendolo sentire un folle o in colpa”. Un aiuto che nessuno è riuscito a dargli, nemmeno all’interno del suo ambiente di lavoro che in alcuni casi è stato perfino percepito come ostile. Sarà la Procura barese ora a fare chiarezza sulle eventuali responsabilità. Brescia. Imprenditore condannato a 7 anni per fatture false si toglie la vita: “Sono innocente” di Lilina Golia Corriere della Sera, 19 febbraio 2021 Brescia. “Sono innocente”. L’ha scritto, nero su bianco, nel messaggio che ha lasciato ai familiari, prima di scendere in cantina, prendere una fune e farla finita. Ha scelto di morire un imprenditore del rottame di 60 anni, condannato poco più di una settimana fa in primo grado per fatture false, per uno dei tre filoni della maxi inchiesta antimafia Leonessa. Per l’imprenditore la pena più alta, sette anni e mezzo (la richiesta era di sei anni). Per l’accusa era uno degli organizzatori dell’associazione a delinquere, uno dei finanziatori, oltre che utilizzatore delle fatture false per coprire operazioni in nero. Era finito in carcere anche con l’accusa di corruzione, nel secondo filone Leonessa: accusato di aver consegnato una mazzetta da 65 mila euro a un finanziere e a due funzionari Entrate per cambiare la valutazione sfavorevole della commissione tributaria regionale. Una condanna che non ha accettato. Che gli ha tolto la voglia di vivere. “Scusatemi - ha scritto ai Suoi - ma sono innocente”. Bologna. Alla Dozza apre il reparto di psichiatria senza sanitari. “Agenti abbandonati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 febbraio 2021 Nel carcere La Dozza di Bologna apre un reparto di articolazione psichiatrica, ma mancano le figure sanitarie e gli agenti penitenziari rischiano di trovarsi da soli a gestire situazioni critiche senza averne la competenza. A lanciare l’allarme è il sindacato di polizia penitenziaria Sinappe per voce della dottoressa Anna La Marca. “Non abbiamo competenza sanitaria - scrive La Marca rivolgendosi alla direzione del carcere bolognese - per cui è a dir poco inaccettabile che l’azione gestionale ed organizzativa nonché gli interventi sanitari possano essere delegati al personale dell’area sicurezza”. Osserva che “sarebbe stato opportuno, quindi, che fossero state date delle linee guida alla Polizia Penitenziaria ivi operante, fornite soprattutto con la costante presenza di professionisti competenti nella cura di soggetti così fragili e problematici”. La sindacalista del Sinappe, ricorda che il servizio psichiatrico in carcere non rappresenta un’area a sé stante, ma s’inscrive nella complessità dell’intervento sanitario intracarcerario. “La tutela della salute della persona reclusa assume - sottolinea La Marca - inoltre, una valenza positiva in relazione all’art. 27 della Costituzione, terzo comma. Tale articolo, infatti, secondo il principio dell’umanizzazione e della funzione rieducativa della sanzione penale, impone una concezione della pena non meramente retributiva e preventiva, ma attenta ai bisogni umani del condannato in vista del suo possibile reinserimento sociale”. La mancanza del personale dell’Area Sanitaria è vissuta con forte disagio dalla popolazione detenuta e, contestualmente, per logica consequenzialità, diventa fattore di rischio per l’incolumità del personale di Polizia Penitenziaria operante presso quelle sezioni detentive con il verificarsi di aggressioni da parte dei detenuti che vedono nel poliziotto penitenziario l’unica figura sempre presente su cui scaricare la propria rabbia e la propria tensione. “L’assenza - denuncia sempre La Marca -, voluta, casuale o temporanea (non è dato saperlo e sul punto si chiedono chiarimenti e delucidazioni) di un presidio psichiatrico h 24 nel reparto Girasole, riporta, a giudizio di chi scrive, ad un parallelismo infelice, vissuto non moltissimi anni fa in cui la malattia mentale veniva trattata in modo grossolana e brutale se non addirittura negata”. Con l’assenza delle figure sanitarie specializzate nella cura e assistenza delle persone affette da patologie psichiatriche, c’è il rischio che si ritorni a quella arcaica logica manicomiale dove la gestione è puramente contenitiva. Come ben spiega la dottoressa La Marca, oggigiorno il concetto di malattia mentale è molto più articolato per cui recludere delle persone con un disagio psichico, senza una progettualità, senza impegnare la loro mente, senza canalizzare la loro emotività con l’aiuto costante di addetti del settore non fa che riportarci a quel periodo. La malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed è appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona è titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica alla quale l’ordinamento è tenuto ad apprestare un identico grado di tutela. “Le patologie psichiche possono aggravarsi ed acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale che non può assolutamente interrompersi nel weekend quando, parrebbe, che nessuna figura psichiatrica sia presente e a disposizione delle detenute del reparto Girasole”, conclude la sindacalista del Sinappe. Vercelli. Politiche sociali: un alloggio per detenuti in permesso premio primavercelli.it, 19 febbraio 2021 Con l’adesione al nuovo tavolo carcere-volontariato. L’Assessore alle Politiche Sociali Ketty Politi, comunica l’adesione al nuovo progetto del Tavolo carcere volontariato e della Casa Circondariale di Vercelli. Il Comune di Vercelli - Settore Politiche Sociali, impegnato da anni in progetti condivisi con la Casa Circondariale di Vercelli, intende continuare la collaborazione aderendo ad un progetto di accoglienza dei detenuti in permesso premio. Questa iniziativa riguarda l’accoglienza temporanea dei detenuti che escono dalla Casa Circondariale in permesso premio per breve tempo. In collaborazione con l’associazione Argilla - Nell’adesione all’iniziativa il Comune metterà a disposizione un alloggio situato in città, in comodato d’uso gratuito all’associazione di volontariato Argilla, la quale si occuperà della gestione e dell’organizzazione dell’attività con le associazioni facenti parte del Tavolo carcere volontariato, sempre in accordo con la Direzione della Casa Circondariale. La permanenza dei detenuti e familiari, in alloggio, sarà limitata al solo tempo del permesso premio di uscita concesso, e permetterà loro di trascorrere momenti di quotidianità familiare, in un ambiente sereno. Rimini. Ass. Papa Giovanni XXIII: le Comunità hanno posti liberi che non vengono occupati altarimini.it, 19 febbraio 2021 Galere sovraffollate ma non mandano detenuti. In Emilia-Romagna alcune comunità per il recupero di carcerati hanno posti liberi che però non vengono occupati, perché dalle carceri non vengono inviati i detenuti. A denunciarlo è la Comunità educante con i carcerati dell’associazione Papa Giovanni XXIII, che si occupa di reinserimento sociale. “Abbiamo messo a disposizione 11 posti, ma ne abbiamo occupati soltanto tre” nonostante “ora vi siano i finanziamenti”. “Non è un problema solo nostro, ma di tutte quelle comunità che hanno dato disponibilità”, afferma il coordinatore della comunità, Giorgio Pieri. Perché gli altri posti non vengono occupati? “Perché non sono state inviate le richieste dalle carceri della regione Emilia-Romagna”, afferma Pieri, per il quale vi è “un blocco organizzativo dentro le carceri”, “non c’è informazione. I detenuti - aggiunge - non vengono a sapere di questa opportunità. Fatto sta che i soldi ci sono, ma sono fermi. Le comunità ci sono ma sono vuote. E ci si lamenta che il carcere è pieno e il Covid avanza”. Per Pieri cogliere l’occasione delle comunità sarebbe come “cogliere due piccioni con una fava”, ovvero alleggerire le carceri e diminuire il rischio di focolai. Trapani. “Mi riscatto per il futuro”: Favignana adotta l’inclusione lavorativa di Antonella Barone gnewsonline.it, 19 febbraio 2021 Il protocollo d’intesa firmato stamani dal capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Bernardo Petralia e dal sindaco di Favignana Francesco Forgione, aggiunge l’isola alla lunga lista di enti, istituzioni pubbliche, soggetti del settore privato e imprese di grandi dimensioni che si avvalgono del lavoro di detenuti in progetti a favore della collettività. L’accordo intende favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti secondo il modello Mi riscatto per il futuro, basato sull’offerta a condannati di opportunità formative spendibili una volta in libertà e sull’adesione ad attività di utilità sociale. Un percorso reso possibile dall’articolo 20 ter dell’Ordinamento penitenziario (come modificato dal D.lvo 124/2018) che consente l’impiego di condannati, su base volontaria e gratuita, nei lavori pubblica utilità. Lavoro, come strumento fondamentale di reinserimento sociale, e “sviluppo della cultura della restituzione, intesa come riparazione indiretta dei danni provocati dai reati” sono due delle finalità evidenziate nell’accordo e condivise dai firmatari. I detenuti, provenienti dalla locale casa di reclusione Giuseppe Barraco, saranno occupati principalmente in attività di manutenzione del verde e di recupero del patrimonio ambientale, area d’interventi definita come prioritaria dall’accordo, sulla base del successo di analoghe esperienze e per le caratteristiche naturali e paesaggistiche dell’isola. L’individuazione delle attività lavorative, la selezione delle persone detenute, interessate a seguire il percorso, e le relative attività di formazione saranno programmate - prevede il protocollo - da un Comitato di coordinamento, composto da rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria, del Comune di Favignana e della casa di reclusione. Dopo una sperimentazione iniziata a Roma (con oltre 4500 detenuti coinvolti) e proseguita in altri capoluoghi, il progetto è divenuto un modello d’inclusione lavorativa che ha dato vita, nel novembre 2019, alla istituzione presso la segreteria del capo del Dap di “Mi riscatto per il futuro - Ufficio centrale per il lavoro penitenziario”, per garantire l’uniformità degli interventi e delle procedure esecutive. Per la sua caratteristica di coniugare riabilitazione e riparazione, la formula ha assunto rilevanza internazionale ed è stata adottata anche a Città del Messico, dove il sindaco di Favignana, componente della delegazione italiana, ha avuto modo di conoscerla e apprezzarla. Presenti alla stipula della convenzione, avvenuta a Palazzo Florio, oltre ai firmatari, il provveditore regionale della Sicilia, Cinzia Calandrino, e il responsabile dell’Ufficio Centrale per il lavoro penitenziario, Vincenzo Lo Cascio. “Il lavoro è nobiltà, serenità, democrazia e tutto ciò che ruota attorno alle virtù fondamentali delle Stato. Sul lavoro puntiamo per dare una funzione sociale all’attività trattamentale” ha dichiarato il Capo Dap Petralia. “Più lavoro significa più garanzie per il singolo, la comunità, lo Stato stesso”. Sono in tutto 108 gli accordi firmati dal Dap con enti locali e associazioni operanti sul territorio e 7 i protocolli stipulati con soggetti dell’imprenditoria privata di rilevante entità. Aosta. L’appello dei detenuti di Brissogne: “Comprate lo zafferano che produciamo noi” di Francesca Soro La Stampa, 19 febbraio 2021 Vendite ferme a causa dello stop di mercatini e fiere: “Chi desidera fare un acquisto solidale ci scriva”. Senza mercatini e fiere ormai assenti da mesi, è difficile per i piccoli produttori agricoli piazzare il frutto del loro lavoro nei campi. E questo vale anche quando il campo è all’interno della casa circondariale. L’Associazione volontariato carcerario Onlus (Avvc), attiva nel carcere di Brissogne, lancia un appello ai cittadini: “La mancata edizione della Fiera di Sant’Orso ci ha privati della nostra consueta vetrina. Se per quanto riguarda i lavori in legno possiamo dire “sarà per la prossima volta”, non vale altrettanto per quanto riguarda la nostra piccola produzione di zafferano”. Come fare? “Chi volesse effettuare un acquisto solidale (0,5 grammi di zafferano a soli 12 euro) può scrivere alla nostra email avvc.onlus@gmail.com. Ci siamo organizzati con volontari disponibili per farvi avere questa preziosa spezia. Il denaro raccolto è interamente reinvestito in iniziative in favore della popolazione detenuta, in particolare quella priva di sostegno familiare”. Il progetto agricolo carcerario dell’Avvc era stato premiato con il Premio del volontariato regionale 2016, patrocinato dal Consiglio Valle. “Assieme ad alcuni detenuti disponibili al lavoro volontario abbiamo recuperato un’area dismessa all’interno del perimetro del carcere impiantandovi un migliaio di bulbi acquistati da un’azienda specializzata in Sardegna. Gli stessi detenuti ne hanno curato la manutenzione e con l’arrivo dell’autunno sono sbocciati i primi fiori, permettendo così di effettuare il primo raccolto” racconta Maurizio Bergamini, presidente dell’associazione. I detenuti al carcere di Brissogne si avvicendano velocemente, “ma anche se ogni anno cambiano i protagonisti umani, la natura segue il suo corso e le piante si sono rafforzate e moltiplicate, moltiplicando il primo raccolto che è arrivato a 60 grammi”. Cambiano le persone ma il sapere agricolo rimane: “I detenuti si sono “tramandati” il know-how passato loro dal nostro primo consulente e pur con metodi un po’ caserecci, riescono ad ottenere un prodotto di qualità, che merita essere lavorato e degustato con attenzione”. Ci lavorano in tre. L’obiettivo del progetto “non è quello di mettere sul mercato una merce, ma quello di fornire ai detenyti una triplice opportunità” sottolinea il presidente. Spiega: “Innanzitutto un momento di attività all’aperto (sempre gradito), poi un gettone di presenza erogato a sorpresa, dato che i detenuti si candidano convinti di lavorare gratis, e infine una competenza tecnica che può rientrare nel bagaglio di conoscenze individuali”. L’ultimo aspetto è quasi un ponte con la vita che li aspetta fuori dal carcere. “Alcune persone di estrazione contadina ci hanno detto di volerci riprovare una volta ottenuta la libertà”. Lo zafferano in vendita ora è stato raccolto a ottobre 2020. “Purtroppo il secondo lockdown ci ha impedito di completare il lavoro con la consueta confezione con etichetta in cartoncino legata con la rafia, ma il prodotto è ottimo!”. Massa Marittima (Gr). “Orti in carcere”: al via il progetto per il reinserimento dei detenuti grossetonotizie.com, 19 febbraio 2021 È tutto pronto a Massa Marittima per la partenza di “Orti in carcere”, un’opportunità per i detenuti di formarsi e fare pratica sull’attività agricola, ai fini di un futuro inserimento nel mondo del lavoro. Si tratta di un progetto della Regione Toscana, finanziato da Cassa Ammende, per cui il Comune, in collaborazione con la casa circondariale di Massa Marittima, ha presentato uno specifico programma pensato per la struttura cittadina, ottenendo 30mila euro per la sua realizzazione. Proseguendo sulla scia di un’attività già avviata in passato, che ha visto nel cortile della casa circondariale la messa a dimora di alcuni olivi e alberi da frutto, il nuovo progetto prevede l’integrazione di quest’area verde con un’oliveta composta da diciotto piante e da colture di erbe aromatiche. Il progetto prevede una prima fase di orientamento rivolta a tutti gli ospiti della casa e un secondo step in cui, in base all’interesse dimostrato, saranno selezionati quindici detenuti per attività formative interne; per alcuni di loro sarà anche possibile uno stage pratico, grazie alla collaborazione delle aziende agricole del territorio. Il programma formativo comprenderà l’approfondimento di varie tematiche: la conoscenza delle colture e degli aspetti tipici del paesaggio agricolo locale, la tutela ambientale, la sicurezza sui luoghi di lavoro e la collaborazione con le realtà produttive della zona. “Crediamo che questa sia una bella occasione per i detenuti che presto potranno affrontare una nuova vita all’esterno della struttura - commenta l’assessore alle politiche sociali del Comune di Massa Marittima, Grazia Gucci - sia ai fini del loro reinserimento sociale, sia per l’acquisizione di una formazione lavorativa specializzata in un territorio fortemente vocato alla olivicoltura”. Fossombrone (Pu). Due detenuti della Casa di reclusione di si sono laureati con 110 e lode primocomunicazione.it, 19 febbraio 2021 Grande emozione, nei giorni scorsi, alla Casa di Reclusione di Fossombrone per due nuove lauree di due studenti del Polo Universitario, attivato dal 2015 e che vede a oggi iscritti 20 studenti a 10 corsi di laurea differenti. A poco più di un anno dal primo laureato, altri due studenti hanno concluso il percorso triennale, conseguendo, con 110 e lode, il titolo in Informazione Media Pubblicità. La commissione di laurea presieduta dalla professoressa Gea Ducci e dai docenti Anna Tonelli, Lorenzo Giannini, Guido Capanna Piscé, Carlo Magnani e Franco Elisei, ha ascoltato la discussione delle due tesi dal titolo: “La marca: un sogno per dare un senso” e “Un maestro di giornalismo nel mondo del calcio: Giovanni Luigi Brera”. La seduta di tesi ha risentito del periodo di emergenza in corso e si è svolta in modalità online nella biblioteca del carcere, alla presenza della Tutor del Polo, Dott.ssa Vittoria Terni de Gregory, dell’educatrice Dott.ssa Angela Rutigliano e del personale della Polizia Penitenziaria. Docenti e collaboratrici del Polo hanno fatto comunque sentire il loro sostegno ai laureandi assistendo in remoto alla discussione: tra di loro la Coordinatrice del Polo, professoressa Daniela Pajardi, i docenti Rowena Coles, Paolo Stauder, Massimo Russo, e le collaboratrici che hanno lavorato in questi anni nel servizio di tutorato Silvia Lecce, Mara Cirimbilli e Viola Ceregini. Anche i familiari hanno potuto collegarsi e seguire i laureandi in questo momento così importante, che ha un così profondo significato di cambiamento e di impegno. “Questo progetto si conferma di grande valore” ha affermato la professoressa Tonelli “che va avanti grazie ad un lavoro reciproco tra l’impegno degli studenti e la collaborazione dei docenti, delle tutor, della Direzione, dell’Area Trattamentale e della Comandante del carcere. I due laureati di oggi, tra i primi ad essersi iscritti al Polo Universitario, hanno mostrato grande forza e tenacia fino a raggiungere questo traguardo”. Come sottolinea la professoressa Pajardi, “si tratta di un traguardo culturale ma soprattutto personale, visto che loro, come molti detenuti hanno proprio iniziato a studiare in carcere, alcuni dalle medie altri dalle superiori. Lo studio universitario è vissuto spesso come qualcosa di troppo complesso e difficile, mentre con l’impegno e il supporto, ma soprattutto con una grande motivazione a mettersi in gioco, sono riusciti a concludere il percorso e già sono orientati a proseguire con la magistrale”. Dopo la proclamazione, i neodottori hanno voluto ringraziare chi li sostenuti in questo percorso e le loro parole sono state di sincera e commossa gratitudine per chi ha creduto in loro e li ha incontrati come persone e come studenti a prescindere dalle sbarre alle finestre dell’aula del Polo in carcere. “Conseguire una tesi in carcere è una tripla vittoria” ha dichiarato uno dei laureati “per le istituzioni coinvolte, per la cultura, per il detenuto e per il suo gruppo familiare”. La vita oltre il “Fine pena mai”: un film la racconterà di Sergio D’Elia Il Riformista, 19 febbraio 2021 Ambrogio Crespi non è solo un regista di film che osserva e dirige dall’alto lo svolgersi di una storia, è innanzitutto un uomo che pensa, sente e agisce in comunione con la vita del protagonista della storia. È un cantastorie incantato dalla storia che canta. Si muove e si commuove sulla scena. Mentre gira e rigira, la vita che racconta scorre e risuona nella sua. Il suo pensiero va. il suo cuore batte, la sua opera si compie in armonia con lo spirito, il corpo e il vissuto dei protagonisti dei suoi film. Non sono mai i potenti ma le vittime dei poteri del nostro tempo e della nostra società: i ricattati e gli avvelenati dai poteri criminali, i servitori dello stato di diritto vittime degli stati di emergenza, i malati e gli emarginati della società, i detenuti e i detenenti, entrambi vittime e testimoni della pena fino alla morte e della morte per pena. L’ho visto emozionarsi fino alle lacrime cinque anni fa, durante le riprese di “Spes contro spem-Liberi dentro”, il film che ha messo a nudo i detenuti di Opera, li ha resi visibili, ne ha scoperto l’anima, li ha fatti concretamente sperare contro ogni speranza. L’umanità dolente del carcere lascia il segno in chiunque. Lo ha lasciato anche in Ambrogio che quel film non voleva fare, un po’ per pudore, quello di violare la vita dei condannati a vita, un po’ per timore, quello di accostarsi alla banalità del male che avevano arrecato. Ma come sempre accade, l’umanità emerge sempre, anche nell’essere più disumano e si prende cura di chi se ne cura. Cosa ha fatto Ambrogio? Ha - gandhianamente - preso un raggio di sole e lo ha proiettato là dove regna la notte. “Spes coma spem”, è stato queste il trionfo nonviolento della luce sul buio. Così è accaduto che dai detenuti di Opera, artefici del proprio cambiamento, sia partito il “viaggio della speranza” che ha raggiunto Strasburgo e i giudici supremi europei, creatori del diritto umano alla speranza La via della nonviolenza e del Diritto ha poi portato a Roma, innanzi ai massimi magistrati italiani della Corte Costituzionale, che hanno aperto una breccia nel muro di cinta del “fine pena mai”. È stato l’effetto anche dell’opera miracolosa di Ambrogio Crespi, “Spes contra spem-Liberi dentro”. Un’opera che un Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, non ha esitato a definire un “manifesto della lotta alla mafia”. paradossale e. umanamente oltre che giuridicamente, inaccettabile che l’autore di questo capolavoro artistico, politico e civile sia oggi sotto processo per associazione di stampo mafioso, e rischi una condanna definitiva a sei anni di carcere. Quando in tutta la sua vita ha invece testimoniato a viso aperto, incarnato valori, sentimenti e opere di nonviolenza, di incrollabile speranza e continua conversione del male in bene, dell’odio in amore, di persone detenute in persone autenticamente libere. Di questo film, insieme a Nessuno tocchi Caino e al fratello Luigi, Ambrogio Crespi ha iniziato in questi giorni, a cinque anni di distanza dal primo, le riprese del suo seguita “Spes contra spem-La colpa e il perdono”. Dopo il “senso di colpa” e la consapevolezza del danno arrecato, il “senso della colpa”, l’immersione in una nuova vita alla luce della coscienza. Dopo aver distrutto, nella loro prima vita, la vita del prossimo e la loro stessa vita, i detenuti di Opera rinascono a una seconda vita e, come Caino, diventano costruttori di città. Testimoni e artefici di una grande opera di conversione, interiore e culturale, da un sistema di giustizia che punisce e separa a un sistema di giustizia che riconcilia e ripara. Con il seguito di “Spes contra spem”, il “viaggio della speranza” continua e corre ora verso una nuova frontiera, quella invocata da Aldo Moro: “non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”. In questo altro viaggio, Ambrogio si è commosso di nuovo, alcuni giorni fa, alle prime riprese de La colpa e il perdono. Quando ha sentito le parole e le emozioni di Gherardo Colombo, il giudice che si è dimesso dalla magistratura, dopo trentatré anni di servizio, perché l’idea di mandare in galera una persona lo tormentava, perché ha cominciato a pensare che il carcere non fosse più compatibile con il suo senso della giustizia, perché ha sentito tutta l’ingiustizia della prigione. Ambrogio si è commosso ancora, il giorno dopo, quando ha ripreso il volto sereno e il sorriso di Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, i suoi pensieri a favore di una giustizia gentile, temperata dalla grazia, che tuteli i diritti delle persone detenute e sappia cogliere la diversità dell’uomo della pena rispetto a quello del delitto. Afferma Giovanna Di Rosa: niente resta sempre uguale, tutto scorre. “La flessibilità della pena è una cosa meravigliosa: permette a un fatto brutto qual è un reato, che causa dolore, di essere sanato sotto forma di riconciliazione”. È questa, secondo lei, la missione di un magistrato di sorveglianza: valutare il cambiamento sempre possibile nella natura dell’uomo; avere fiducia nel cambiamento e nel valore dell’uomo, valore che non va mai perso per nessuna delle persone che esistono sulla iena. Una nuova repubblica contro il declino. Rifondare le aspettative per curare la politica di Marco Zatterin La Stampa, 19 febbraio 2021 Una nuova repubblica contro il declino. Rifondare le aspettative per curare la politica. L’Italia tracolla perché non innova e per colpa di uno stato iniquo. Un saggio per capire la crisi e continuare a sperare. La notizia è in testa, come si deve. “L’Italia è in declino perché è organizzata in modo iniquo e insufficiente”, con l’aggravante di non essersi mai davvero domandata come abbia fatto a precipitare negli abissi del malessere diffuso. Certo non è colpa dell’euro, avverte subito Andrea Capussela, economista di ottimo curriculum, visiting fellow alla London School of Economics. Piuttosto, argomenta, il danno si deve a mali strutturali ben noti, economici e istituzionali. E non soltanto. In questo “giorno primo” del governo non-tecnico di Mario Draghi colpisce soprattutto la fetta di responsabilità pesante e lorda che lo studioso attribuisce “all’usuale dialettica politica che nasconde i problemi di fondo dietro quelli secondari”. Essa si è imposta come “reazione di una società sfiduciata” che riconosce la debolezza delle élite, nella furia di gente che ha patito la crisi degli ultimi decenni ed è delusa dal voto itinerante con cui ha inseguito più i sogni che le soluzioni, più la percezione che la realtà. Così, non incomprensibilmente, molte donne e molti uomini hanno smesso di vedere risposte possibili. E hanno lasciato che il declino, protagonista (per ora) incontrastato dello scorcio che viviamo, facesse il suo corso. Capita da un quarto di secolo, ma - evviva! - non sarebbe irreversibile. Basterebbe aprire gli occhi e praticare il buon senso, ristabilire i valori, magari distribuendo rispetto, etica e volontà virtuosa sino a favorire una “Rifondazione repubblicana”. Nel chiudere la prefazione del suo Declino Italia (Einaudi, 144 pagine, 12 euro) Capussela confessa di vedere lo spazio intellettuale per un Paese diverso e all’altezza delle possibilità. Sentenzia che “il pessimismo è una scelta!”. Ma è chiaro che occorre coraggio. La lunga ola che saluta con poche eccezioni l’arrivo di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio probabilmente conforterebbe il cuore dell’economista. Come il discorso programmatico dell’ex banchiere centrale, il suo saggio si offre non come fotografia ma come specchio. Il popolo della Penisola può leggere e vedersi ritratto, con le grandi potenzialità troppo spesso nascoste e tradite, gli evidenti difetti reiterati non senza bagnarsi miseramente nell’illegalità. Le ragioni economiche del tracollo sono quelle che da anni leggiamo nei bollettini della Banca d’Italia come nelle raccomandazioni della Commissione Ue. Capussela le riassume in una frase: “l’Italia ha smesso di crescere perché ha smesso di innovare”. Ciò è successo perché - analizza -, rispetto alle rivali europee, le nostre aziende sono più piccole, meno capitalizzate, meno stimolate dalla concorrenza, peggio gestite, senza tralasciare che si muovono in una scena di regole inadeguate. Un disastro. Ne consegue che viviamo sdraiati su una bomba d’incertezza che alimenta povertà e diseguaglianze. Con un’aggravante. Il talento insegue il reddito e, dalle nostre parti, il reddito tende a manifestarsi più generosamente in attività socialmente dannose, la rendita, la corruzione, la predazione. Risultato: “La bassa mobilità sociale e la debole supremazia della legge distorcono la distribuzione dei talenti italiani”. Troppo debito, inefficienza dello Stato, riforme ineludibili mai fatte. Capussela sembra il ghostwriter di Draghi. Col vantaggio di poter apertamente parlare male della classe politica (e della stampa), privilegio che il neopremier può concedersi solo fra le righe e con misura. Già, la politica. Il declino, nota l’economista, è frutto di problemi di azione collettiva che si segnalano nella “drastica caduta della qualità dei parlamentari”, come nella “retorica addirittura violenta” di eletti e candidati, sebbene “gli interessi materiali li conducano a colludere”. Racconta la volatilità di un elettorato confuso, il trasformismo “molecolare” alla Gramsci. I partiti sono l’uovo e la gallina. Sono l’acceleratore del male e la sua conseguenza. Finché viene il punto di rottura e spunta SuperMario nel tripudio generale. Capussela nega il pessimismo come religione, ma ricorda che non è per nulla facile fermare il motore dei declini. “L’esito di Mani Pulite fu deludente”, si sovviene. Il libro spiega bene perché e, pagina dopo pagina, matura la convinzione che l’oggi sia una tragedia già scritta e inevitabile. Arriva così a descrivere una spirale composta da “circoli viziosi distinti ma armonici che schiaccia l’Italia su un equilibrio politico-economico meno equo ed efficiente dei suoi pari”. Potrebbe andare peggio, concede, ma qui a salvarci interviene la partecipazione all’Ue e la qualità di molti cittadini. Sollievo. Ce la faremo? Possibile. Sono danni reversibili. Come? “Cambiando le aspettative dei cittadini”, risponde Capussela. Il senso è che la profezia funzionerà se i cittadini riterranno che una grande percentuale fra loro è pronta a credere nella efficacia dei suoi vaticini. “Per questo serve una organizzazione”, punteggia. Ai sensi della teoria dell’azione collettiva, sarebbe “per condurre la battaglia e delle idee, e per costruire sui risultati un programma politico credibile”. In altre parole, e questo Capussela poteva solo immaginarlo (o sperarlo), è proprio quanto potrebbe accadere col meccanismo generato dalla chiamata di Draghi a Palazzo Chigi. “Una rifondazione repubblicana”, suggeriva il saggio. Per far diventare i cittadini “più esigenti”. Per ridare speranza e fiducia. Ci si può riuscire affermando che “l’unità è un dovere guidato dall’amore per l’Italia”. Concetto draghiano che potrebbe calzare bene a una futura edizione di Declino Italia. Ora che - nello specchio della crisi- si guarda un Paese che potrebbe aver scoperto la voglia e il piacere di essere diverso da come si è dipinto troppo a lungo. La strage silenziosa degli homeless morti al gelo è il fallimento di tutti noi di Mons. Vincenzo Paglia Il Riformista, 19 febbraio 2021 Non possiamo prendere alla leggera la notizia sui senzatetto morti a causa del freddo: 25 nelle strade italiane in poco tempo. È uno scandalo inaccettabile! Nella Roma di fine VI secolo, Papa Gregorio Magno, quando gli fu comunicato che un uomo senza fissa dimora era morto per fame, reagì in questo modo come scrive un suo biografo: “Quel giorno Gregorio non volle celebrare la messa: “Oggi è venerdì santo” (giorno in cui non si celebra la messa), disse, “perché in quell’uomo è morto Gesù” e se ne fece una colpa personale come se lo avesse ucciso con le sue mani” (Giovanni Diacono, Gregori Magni vita 2, 29). Dovremmo celebrare 25 volte il Venerdì Santo, in Italia. E Papa Francesco, domenica 20 gennaio - era morto qualche giorno prima un “barbone” che stava al colonnato di San Pietro - all’Angelus fece suo questo episodio storico. Non si può tacere. E neppure stare inerti. Sarebbe complicità. Purtroppo i morti per freddo, i senzatetto, non fanno notizia. Anche perché sono considerati come vittime collaterali di una situazione difficile come l’emergenza freddo. No, non sono vittime inevitabili. Non sono scarti comunque da eliminare. Sarebbe già un passo se provassimo vergogna per quanto è successo. E magari inizieremmo a non considerarli un fastidio, anzi come persone con le quali incrociare lo sguardo, chiedersi come mangeranno, come e dove vivono, perché sono caduti in una povertà così dura. Inizieremmo a capire che non debbono essere abbandonati e ancor meno scomparire in questo modo. Se sono in questa condizione non è - come spesso si sente dire - per colpa loro. Chi di noi ha piacere di non avere una casa? O comunque un luogo ove stare per ripararsi dal freddo? Eppure loro esistono. Come anche le soluzioni esistono. Eccome! Basterebbe intanto accorgersi di loro. Fermarsi. Parlargli. Papa Francesco diceva anche di toccare le loro mani quando diamo qualche spicciolo. In realtà è davvero raro che la gente li guardi, e ancor meno che si fermi. In genere ognuno continua la sua strada. Ma lì, in quel tratto di strada, quell’uomo (quella donna) ci abita. È di qui che inizia la soluzione: fermarsi e cercare di capire. Si potrebbe dire, alla lettera, è questa la strada della carità, la via del Samaritano, la strada del prendersi cura di chi ha bisogno di aiuto. L’antica storia evangelica (quell’uomo non è chiamato “buono”, come in genere facciamo noi, era semplicemente “samaritano” uno che era pure inviso ai correligionari di Gesù) ci aiuta a capire anche il nostro oggi. Quella pagina inizia con una domanda del dottore della legge: chi è il mio prossimo? “Prossimo” è una parola da riscoprire. Il dottore della legge intendeva chiedere chi avrebbe dovuto aiutare. Appunto, chi era il “prossimo”. La narrazione sembra indicare nell’uomo mezzo morto, appunto, il prossimo da aiutare. Ma al termine Gesù ne rovescia il significato: “prossimo” non è l’uomo mezzo morto, bensì il samaritano che si avvicina, che si fa prossimo a quell’uomo. Da notare che il termine prossimo è il superlativo della parola latina “proper” (vicino) e quindi significa “il più vicino”. Che rovesciamento! O anche quale arricchimento: la stessa parola unisce chi aiuta e chi è aiutato. Il samaritano (a differenza del prete e del sacrestano) sentì l’obbligo di avvicinarsi e prendersi cura sino a portarlo in un ostello e affidarlo perché potesse essere curato sino alla guarigione. È una pagina da rileggere in questo tempo con attenzione. Durante la pandemia abbiamo visto vivere in questo modo la parola “prossimo”, anche a volte nel dramma della morte che ha visto medici e malati morire per aiutarsi a vicenda. Come anche ristabilirsi a vicenda. È così che si è semplicemente umani. Uomini e donne davvero. Chiunque è umano - non necessariamente “buono”, semplicemente umano - sente dentro di sé i sentimenti di quel samaritano: procurare una casa a chi non l’ha (è l’albergo della parabola) e un aiuto (l’albergatore) perché venga curato. La “carità” chiama alla responsabilità politica, ossia al coinvolgimento più largo per ridare una casa a chi non l’ha, una compagnia a chi è solo, una speranza a chi ha perso tutto. Va riscoperta - e presto - la responsabilità perché la società tutta possa garantire la dignità a tutti i suoi figli. Purtroppo, una cultura sempre più individualistica ci ha come polverizzati, atomizzati, separati, nebulizzati…Il poeta aveva avvertito: “nessun uomo è un’isola”. Ma lo siamo diventati. E le conseguenze amare sono sotto i nostri occhi, a partire dalla pandemia, frutto di una cultura esasperatamente individualista tesa unicamente al benessere individuale. Ma torniamo al tema dei morti in strada per il freddo. Ripeto, dobbiamo sentirne tutti la responsabilità. E non è retorica. Deve emergere anche culturalmente l’oggettiva responsabilità che ci lega gli uni agli altri. L’esaltazione dei soli diritti individuali ci ha fatto dimenticare i rispettivi doveri a essi correlati. Tutti, a partire dai poveri, hanno il diritto a essere aiutati. E noi il dovere di aiutarli: siamo gli uni debitori dell’aiuto degli altri. E i più deboli vanno inclusi per primi. Certo, so bene che è davvero difficile eliminare la povertà. E chi ha esperienza “di strada” sa anche che esistono sempre persone problematiche. Molti infatti fanno difficoltà per accettare il recupero e il reinserimento: le loro ferite sono complesse, gravi, corporali e psichiche, e spesso si cronicizzano… Di nuovo carità e politica - o, se volete, diritti e doveri - sono chiamate a farsi carico di queste situazioni difficili. Vanno combattute ingiustizie, disoccupazione, discriminazione… E con sollecitudine. Quando si entra nella spirale, non è facile uscirne. In questo senso l’indagine condotta dalla Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, ha un grande merito: scuote le nostre coscienze, ricorda una grave ingiustizia sociale e punta il dito sull’indifferenza con cui guardiamo - e non vediamo - quanto accade davanti a noi. In un anno di pandemia abbiamo capito che le più colpite sono state le categorie più fragili: gli anziani, vittime inconsapevoli di un sistema di “case di riposo” oramai da ripensare e i giovani e giovanissimi, strappati dalla vita di relazione e dalla scuola. La pandemia ha mostrato la vastità dell’ingiustizia sociale: appena leviamo quel velo di benessere e di soddisfazione economica che domina la nostra vita, ci scopriamo “nudi”, senza risorse, indifesi e deboli. Indifesi e deboli soprattutto se pensiamo di essere soli o se pensiamo a dare soluzioni individuali ai problemi. La soluzione alla pandemia incrocia necessariamente il prendersi cura gli uni degli altri. Certo, c’è bisogno delle risorse scientifiche per sconfiggere il Covid-19. Ma è altrettanto indispensabile l’impegno per una prossimità reciproca tra i popoli e le persone. A partire da coloro che sono abbandonati, appunto, come i poveri che vivono per la strada. Sono passati duemila da quando l’esempio del Samaritano sta davanti agli occhi soprattutto dell’Occidente. E abbiamo maturato idee ed esperienze proprio da quella ispirazione. Dovremmo finalmente - proprio a partire dai morti per il freddo - apprendere che la casa è un diritto, come il lavoro, come il dovere di accogliere ed essere accolti. C’è bisogno che questa “visione” torni a ispirarci. In una sua poesia, Karol Wojtyla scriveva: “l’uomo soffre soprattutto per mancanza di visione”. Aveva ragione. Ci siamo fermati al presente degli interessi individuali o comunque particolari. Ma la pandemia e queste morti ci offrono l’opportunità di riprenderla e tradurla in azioni concrete. E abbiamo anche le risorse, la consapevolezza, la capacità di intervenire più e meglio rispetto al passato. La “prossimità” - nel suo duplice versante: unendo chi aiuta e chi è aiutato - può e deve ispirare il domani dopo la pandemia. Ma lo sarà se iniziamo da oggi, ripartendo senza dimenticare i dimenticati. Insomma, dobbiamo riaprire la frontiera della solidarietà - o della fraternità - per farla diventare uno stile di civiltà sin da ora. È nella forza dei legami umani che si riapre oggi il futuro. Per noi deve essere un punto d’onore. Da schiavi a produttori di pelati: il riscatto degli immigrati che sfidarono la mafia dei caporali di Michele Pennetti Corriere della Sera, 19 febbraio 2021 Da oggi nei supermercati e negli iper Coop di tutta Italia, in vendita i pomodori di Casa Sankara, l’azienda gestita a San Severo da braccianti africani di undici nazionalità. Da schiavi a produttori di pomodoro. Da clandestini delle campagne a protagonisti di una filiera che al punto uno prevede il rispetto delle regole. Da vittime dei caporali a loro concorrenti. Le centinaia di migranti africani di undici nazionalità che vivono a Casa Sankara, l’immensa rimessa ristrutturata a San Severo dalla Regione per cancellare la vergogna della baraccopoli di Rignano Garganico, finalmente vedono realizzato il loro sogno. Da oggi, sugli scaffali dei supermercati e degli iper di Coop Alleanza 3.0 di tutta Italia, compariranno i barattoli di pelati raccolti dai braccianti dell’associazione Ghetto Out - Casa Sankara e inscatolati in confezioni da 400 grammi con l’etichetta Riaccolto - La Terra della Libertà. In verità il marchio recita R’Accolto. Ma si legge riaccolto perché quell’apostrofo simbolizza una “i” minuscola, invisibile come lo erano gli extracomunitari ammassati a Rignano, che vivevano in condizioni disumane, sfruttati dai signori (per modo di dire) della terra. Coltivati su quattordici ettari, è innegabile che questi pomodori abbiano un sapore diverso. Sprigionano la squisitezza dell’iniziativa promossa proprio da Coop Alleanza 3.0 e Legacoop Puglia che, insieme, sostengono la start up etica foggiana sbocciata quattro anni fa. Sprizzano la voglia di legalità che ha animato i ribelli del ghetto capitanati dal senegalese Mbaye Ndiaye, gli stessi che adesso gestiscono la “loro” azienda agricola in autonomia e abitano a Casa Sankara con le rispettive famiglie. Sintetizzano la riuscita (e la bellezza) del progetto di Stefano Fumarulo, il dirigente dell’antimafia sociale fortemente voluto da Michele Emiliano alla Regione, stroncato nel 2017 a 38 anni da un improvviso malore nel garage di casa a Bari. “La catena virtuosa nata a San Severo è un tassello che si aggiunge al modello di società inclusiva che proprio Stefano agognava”, dichiara Carmelo Rollo, presidente di Legacoop Puglia. “È la testimonianza - continua - di cosa accade quando il sistema cooperativo si mette a disposizione del territorio e crea un valore indiscusso per tutti. La Capitanata, da tempo identificata come verminaio di arbitrarietà e violazioni, diventa così un luogo di riscatto grazie anche al lungimirante supporto della Regione”. Soci e consumatori di supermercati e ipermercati Coop compreranno i pelati Riaccolto a un prezzo speciale, più alto della media in rapporto a merce simile. Lo scopo è aiutare la crescita dell’associazione Ghetto Out che si cura della produzione. Peraltro, condividendo sui social l’acquisto con l’hastag #CasaSankara e taggando Coop Alleanza 3.0, ciascuno potrà testimoniare già da stamane la sua scelta etica. “Con questa campagna vogliamo sensibilizzare i nostri clienti, ma anche tutti gli stakeholder, a prendersi carico del tema dell’illegalità, delle sue cause e delle sue conseguenze”, afferma Mario Cifiello, presidente di Coop Alleanza 3.0. “Il rischio che stiamo correndo, soprattutto in questi tempi di pandemia, è che l’impresa “cattiva” scacci quella buona e che la ricerca del prezzo più basso cancelli i diritti delle persone. I pomodori coltivati a San Severo - dichiara sempre Cifiello - sono la dimostrazione che un’altra economia, un altro modo di intendere le scelte da parte dei consumatori è possibile”. Una storia di riscatto sociale e ribellione reale al caporalato. Una prova di accoglienza sincera che fa anche un po’ bene al cuore. Russia. La Corte di Strasburgo: “Liberate subito Navalnyi”. Mosca: “Irricevibile” di Emiliano Squillante Il Manifesto, 19 febbraio 2021 Unione europea e Russia ai ferri corti. Borrell: rilasciatelo come firmatari della Convenzione europea dei diritti umani. La vicenda Navalnyj continua a generare tensioni nei rapporti tra Ue-Russia, dopo che il 16 febbraio la Corte europea per i diritti dell’uomo ha deciso di invitare Mosca a rilasciare l’oppositore, per cui è stata disposta la commutazione della sospensione della pena per il caso Yves Rocher in tre anni e mezzo di detenzione - di cui due anni e otto mesi da trascorrere in colonia penale. La richiesta, confermata anche dalla difesa di Navalnyj, ha portato rapidamente alla dura reazione delle autorità russe: ad esprimersi - oltre al ministro della Giustizia Konstantin Chuichenko che ha definito le richieste “irricevibili” - anche la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, che ha parlato di conseguenze “catastrofiche”. Non meno aspro il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, che ha parlato di un “tentativo inaccettabile di interferire negli affari interni della Russia: una decisione illegittima che è fonte di preoccupazione”. Sulla questione è intervenuto anche l’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, che ha ribadito in un tweet il suo invito a rilasciare Navalnyj, ricordando che l’oppositore “dovrebbe essere rilasciato immediatamente” e auspicando che la Federazione “rispetti i suoi impegni internazionali in quanto firmataria della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Il capo della diplomazia comunitaria si è trovato recentemente nell’occhio del ciclone a seguito della sua visita a Mosca ad inizio mese, durante la quale ha discusso il caso Navalnyj con il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Sono stati infatti 81 i deputati europei che, al suo rientro, hanno sottoscritto una lettera dell’eurodeputato estone Riho Terras (esponente del Partito popolare europeo), in cui si chiede alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di intervenire per chiederne le dimissioni. Secondo Terras, l’Alto rappresentante avrebbe “provocato gravi danni alla reputazione dell’Ue e alla dignità del suo ufficio”. Lo stesso Borrell, scrivendo sul suo blog, aveva confermato l’esito negativo della visita condannando l’espulsione di tre diplomatici europei - un polacco, un tedesco e uno svedese - dalla Russia annunciata durante la sua conferenza stampa con Lavrov. Le tensioni sul fronte diplomatico sono poi proseguite con reazioni analoghe da parte di Berlino, Varsavia e Stoccolma, e anche ieri dopo che Mosca ha annunciato l’espulsione di un diplomatico dell’ambasciata estone, dopo un’analoga decisione delle autorità di Tallinn. Proseguono nel frattempo i procedimenti penali ai danni dei sostenitori di Navalnyj, che domani è atteso in tribunale per due udienze: l’esame del ricorso contro la sospensione della pena nel caso Yves Rocher e il proseguimento del processo per diffamazione. Anche il fratello di Navalnyj, Oleg, resterà agli arresti domiciliari per aver violato le norme sanitarie durante le manifestazioni del 23 gennaio scorso, secondo quanto disposto ieri dal tribunale della città di Mosca. Bielorussia. Giornaliste condannate a due anni di carcere per aver ripreso una manifestazione di Marta Serafini Corriere della Sera, 19 febbraio 2021 Il legale: sentenza assurda, stavano facendo il loro lavoro. L’oppositrice Tikhanovskaya dall’esilio: Lukashenko non può spezzarci. Due anni di carcere per aver fatto il loro lavoro. Katsyaryna Andreyeva e Darya Chultsova, le due giornaliste di Belsat (la stazione televisiva satellitare polacca rivolta alla Bielorussia), sono state condannate a due anni di prigione per aver riportato in diretta una manifestazione a Minsk, nel novembre scorso. La sentenza, l’ultima di una lunga scia di repressione da quando è scoppiata la protesta, è stata definita “assurda” dal legale delle reporter dato che le giornaliste “stavano solo facendo il loro mestiere”. Sulla vicenda è intervenuta anche la leader dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaya, ora in esilio. “Basta guardare Darya e Katsiaryna: forti, sorridenti, salutano i loro cari attraverso le sbarre. Lukashenko non può spezzarci”, ha scritto su Twitter in sostegno alle reporter. Le due croniste lavorano per la testata Belsat e come riporta il quotidiano locale Belarus Feed, sono state arrestate il 15 novembre scorso a Minsk per aver filmato e trasmesso in streaming quanto avveniva nella piazza dove pochi giorni prima era stato picchiato e ucciso il 31enne Roman Bondarenko. Della sua morte i familiari e le associazioni per i diritti umani hanno accusato le forze di sicurezza. In quel luogo, i manifestanti antigovernativi hanno portato per giorni fiori, candele e bandiere bielorusse per commemorare l’attivista e proseguire la protesta pacifica contro il governo del presidente Aleksander Lukashenko, contro cui il movimento popolare protesta da mesi. Le due reporter avevano filmato anche i momenti in cui gli agenti di polizia sgomberavano e arrestavano i dimostranti. “Questa condanna è assurda e infondata, come lo sono tutte le condanne e le persecuzioni nei confronti dei cittadini che partecipavano alle manifestazioni pacifiche dal 9 agosto scorso” ha dichiarato Sergey Zikratsky, l’avvocato di Andreyeva e Chultsova. “Nel caso specifico- ha continuato l’avvocato- l’assurdità sta nel fatto che le giornaliste stavano semplicemente mostrando quello che stava succedendo. Il giudice ha considerato come un crimine alcuni passaggi della diretta in cui le due croniste raccontavano i fatti in modo neutrale ed obiettivo”. Secondo Zikratsky “il diritto a informare e ad essere informati nonché il diritto dei cittadini a esprimere la propria opinione mediante la protesta pacifica sono gravemente violati. Presenteremo sicuramente ricorso e continueremo a difendere i nostri diritti”. Nel mentre il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, visto sempre di più come un paria dalla comunità internazionale, ha annunciato che lunedì prossimo, il 22 febbraio, si incontrerà con Vladimir Putin per “estesi colloqui”. Lukashenko ha negato che chiederà a Mosca un altro prestito, questa volta per tre miliardi di dollari, così come sostengono alcune voci. “Ci sono cose più importanti di cui parlare, come il sostegno della Russia alla difesa e alla sicurezza del nostro Paese”, ha detto Lukashenko precisando che, oltre a Putin, vedrà il vice segretario del Consiglio di Sicurezza, Dmitry Medvedev. Il Cremlino ha confermato l’incontro precisando che i due leader si concentreranno sui “rapporti bilaterali”, benché non si escludono scambi di vedute sui principali argomenti dell’agenda “internazionale”. Mosca, non è un segreto, resta interessata al progetto dello Stato dell’Unione in un’ottica di “maggiore integrazione”. Chi conosce il dossier sostiene però che si tratterebbe quasi di un’annessione. Lukashenko, per ora, è riuscito a resistere alle mire del Cremlino. Assieme a Putin, il presidente bielorusso vedrà anche l’ex premier russo, competente per le questioni di sicurezza, Dmitry Medvedev per discutere di difesa. In Bielorussia proseguono per il sesto mese consecutivo le proteste di massa scatenate dalla conferma di Lukashenko al massimo incarico politico del paese alle presidenziali di agosto. I manifestanti arrestati da allora dalle forze di sicurezza sono stati oltre trentamila, centinaia i feriti e diversi i morti. Paraguay. Rivolta nel più grande carcere del Paese, almeno 7 morti di Chiara Gentili sicurezzainternazionale.luiss.it, 19 febbraio 2021 Una protesta scoppiata nella prigione di Tacumbú, la più grande del Paraguay, martedì 16 febbraio, si è conclusa con un bilancio di almeno 7 vittime tra la popolazione carceraria. Centinaia di detenuti, armati di coltello, hanno scatenato oltre 24 ore di caos, prendendo il controllo di uno dei padiglioni della prigione, sequestrando 19 guardie e massacrandosi tra di loro. L’intervento delle forze antisommossa ha permesso di riportare l’ordine. Gli agenti, tuttavia, non sono riusciti ad evitare l’uccisione di almeno 7 persone, 3 delle quali decapitate. “Non si tratta di uno scontro tra clan”, ha chiarito il ministro della Giustizia, Cecilia Pérez, in un’intervista radiofonica, mercoledì 17 febbraio, dopo che alcuni media locali avevano fatto accenno ad una lite tra detenuti della mafia paraguaiana, Clan Rotela, e membri del gruppo brasiliano, Primer Comando Capital (PCC), la più grande organizzazione criminale del Sud America, che controlla parte del traffico illegale di droga, armi e persone al confine tra Brasile, Argentina e Paraguay. Secondo il governo di Asunción, la rivolta sarebbe iniziata in seguito al trasferimento di un detenuto del PCC che distribuiva droga all’interno della prigione. Andando più nel dettaglio, il ministro ha successivamente rivelato che la protesta sarebbe stata provocata dalla reazione di un settore organizzato contro il trasferimento di un pericoloso prigioniero, Efrén Orlando Benitez, coinvolto in un presunto piano di fuga che avrebbe consentito a diversi detenuti di scappare. Benitez era stato condannato a 19 anni di carcere nel gennaio 2020. Mentre il caos dilagava all’interno di Tacumbú, fuori dal carcere, le famiglie di centinaia di detenuti si erano radunate per chiedere cosa stesse succedendo. Davanti all’entrata principale della prigione, file di poliziotti antisommossa stavano schierati, pronti ad entrare, con elmetti, scudi, manganelli e armi da fuoco. La tensione saliva dentro e fuori l’edificio, situato vicino al centro della capitale paraguaiana. Le tv diffondevano immagini dei rapitori che minacciavano di uccidere le guardie. Secondo gli ostaggi, circa 1.000 persone si sarebbero ammutinate mentre almeno 19 guardie carcerarie sarebbero state sequestrate. Nel giro di poche ore, il ministro della Giustizia è arrivato davanti ai cancelli della prigione e ha iniziato a guidare la trattativa, che si è conclusa con il rilascio degli ostaggi e l’ingresso della polizia. “Erano tutti armati di coltelli e ci hanno portato in una cella, ci hanno rinchiusi con più di 50 persone a guardia. Non abbiamo visto quando sono avvenuti gli omicidi”, ha detto uno degli ostaggi alla stampa locale, subito dopo il rilascio. Il testimone ha rivelato che i rapitori non li avrebbero torturati, ma solo minacciati di morte durante il rapimento. Il Pubblico Ministero ha esaminato la prigione e ha confermato la morte, finora, di 7 detenuti, anche se non ha specificato dove o come siano morti, ad eccezione di tre di loro, che sono stati decapitati. Questo metodo viene spesso usato dalle mafie per inviare messaggi ai loro nemici. Il pm, Giovani Grisetti, ha detto ai giornalisti, fuori dal carcere, che i corpi sono stati portati all’obitorio giudiziario e che la verifica dei fatti proseguirà, quindi non ha escluso che ci possano essere altri morti. “Il penitenziario è molto grande e l’ordine è stato recentemente ripristinato, quindi è evidente che risulta complicato svolgere il lavoro come si vorrebbe”, ha sottolineato il pm, spiegando che “ci sono molte informazioni da elaborare”. La procura, nel frattempo, è entrata nell’edificio per ispezionare le strutture dove è avvenuta la rivolta, subito dopo che il ministro della Giustizia ha lasciato il luogo dell’incidente. Perez ha riferito ai media che i detenuti avrebbero accettato di consegnare le guardie solo dopo essersi assicurati che “nessuna ritorsione sarebbe stata presa come conseguenza di tutto questo”. La prigione di Tacumbú ospita circa 4.100 persone, il doppio di quanto dovrebbe. “Le carceri paraguaiane sono state a lungo governate dalle mafie o dalla corruzione, alcune prigioni sono dominate dal PCC e altre dal clan Rotela. Tacumbú è dominata, in teoria, da quest’ultimo”, ha rivelato al quotidiano El País Dante Leguizamón, avvocato paraguaiano esperto di sistemi carcerari ed ex presidente del Meccanismo nazionale per la prevenzione della tortura. Questi 7 omicidi si aggiungono ad altri 392 decessi di persone che si trovano sotto custodia statale dal 2013, secondo un rapporto dell’ente. “Nelle informazioni del governo ci sono molte contraddizioni. Dicono che la rivolta di martedì sia dovuta al trasferimento di un prigioniero considerato membro del PCC, ma questo fatto non è decisivo. Il problema è che la lotta interna tra i clan avviene perché c’è un importante autogoverno tra i detenuti”, ha spiegato Leguizamón, aggiungendo: “Lo Stato ha pochissime capacità di reazione e amministrazione a causa della precarietà in cui opera”. Sia i clan che le mafie sono cresciute e si sono rafforzate nelle carceri paraguaiane a causa delle pessime condizioni in cui vivono i prigionieri, con un livello molto alto di sovraffollamento, mancanza di accesso a servizi sanitari, alimentari, igienici o a un posto sicuro dove dormire. “Questo senza considerare l’uso della violenza da parte delle guardie carcerarie nei confronti dei settori più svantaggiati”, ha sottolineato Leguizamón. Il sistema carcerario paraguaiano è in crisi da molti anni, secondo rapporti statali e di organizzazioni per i diritti umani. “Fino ad ora, la risposta delle autorità è stata quella di costruire prigioni e non affrontare il problema sottostante, che è l’abuso della detenzione preventiva. In Paraguay non esiste una politica criminale che affronti preventivamente i problemi per evitare i crimini. L’unica risposta è la repressione, cioè la prigione”, ha detto ancora l’avvocato. La popolazione carceraria del Paraguay è cresciuta esponenzialmente negli ultimi 20 anni, dai circa 3.200 detenuti nel 2000 agli oltre 14.000 di oggi. Il Paese è primo nella regione per proporzione di persone incarcerate senza condanna e il quarto al mondo. Quasi l’80% dei detenuti deve ancora vedere un giudice, il che può richiedere in media dai sei mesi ai tre anni, secondo i rapporti del Meccanismo nazionale per la prevenzione della tortura. In Paraguay ci sono 18 carceri per adulti e centri educativi per adolescenti, con 9.877 posti in tutto il sistema. “La maggior parte di questi sono stati costruiti dopo il 2000 e non hanno portato alcun miglioramento in termini di condizioni della popolazione carceraria perché si basano sull’espansione del modello di violenza, ingiustizia e privazione di Tacumbú”, ha afferma l’avvocato paraguaiano Ximena López Jiménez, nell’ultimo rapporto annuale del Coordinatore paraguaiano dei diritti umani (Codehupy). Le azioni attuate in 25 anni non sono state efficaci e le problematiche del sistema penitenziario sono cresciute in relazione all’aumento della popolazione carceraria. “La questione richiede uno sguardo più incisivo che cerchi di individuare il fulcro del problema molto prima che raggiunga il sistema penale”, ha concluso López Jiménez.