Detenuti in calo, ma aumentano i suicidi osservatoriodiritti.it, 18 febbraio 2021 Nell’anno del Covid-19 il numero dei detenuti nelle carceri italiane scende, ma il sovraffollamento continua a essere un problema in alcuni istituti. Mentre i suicidi raggiungono livelli preoccupanti. Ecco l’ultimo aggiornamento relativo 2020 con i nuovi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Mentre i numeri della pandemia da nuovo coronavirus tornano a crescere, quelli dei penitenziari italiani vanno giù: il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane diminuisce. Al 31 dicembre 2020, secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), i detenuti sono 53.364, contro una capienza di 50.562 posti dichiarati dallo stesso Dap. Quello di fine dicembre 2020 è il dato mensile più basso mai registrato durante questi mesi di emergenza sanitaria e riporta la popolazione penitenziaria a maggio 2020, quando per via del Covid-19 la presenza in carcere è diminuita di quasi 8 mila unità rispetto al mese di febbraio 2020. Le regioni che presentano il più alto numero di detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare sono la Lombardia (7.602 detenuti per 6.143 posti) e la Puglia (3.501 detenuti per 2.686 posti). Al 31 dicembre, inoltre, il numero degli stranieri detenuti è di 17.334, mentre le donne sono 2.255. Il 2020 segna una netta controtendenza per quanto riguarda la popolazione carceraria: al 31 dicembre 2020, infatti, nei penitenziari di tutto il paese risultano 53.364 detenuti, un numero ben distante da quello registrato al 31 dicembre del 2019, quando si contavano oltre 60 mila presenze. In un solo anno, quindi, si è tornati alla situazione del 2015 (vedi grafico sotto), con un’inversione netta, dovuta alla pandemia da Covid-19. I dati raccolti dal 2015 in poi, infatti, mostrano una crescita costate della popolazione penitenziaria, terminata esattamente nel mese di febbraio 2020, quando negli istituti di pena di tutta italia c’erano oltre 61 mila detenuti. Nonostante le oscillazioni del dato mensile registrate anche lungo tutto il 2020, per poter fare un confronto con gli anni precedenti, abbiamo scelto di prendere come riferimento unicamente la data del 31 dicembre di ciascun anno. Ferma da qualche anno, invece, è la capienza regolamentare degli istituti dichiarata dal Dap: dai 43 mila posti del 2008 si è arrivati ai 50,5 mila posti disponibili nel 2020, ma se nel 2019 erano 10 mila i posti in meno rispetto al numero dei detenuti presenti negli istituti di pena, nel 2020 questo scarto si è assottigliato. Il sovraffollamento, tuttavia, è ancora critico in alcune regioni e in alcuni istituti di pena, nonostante il dato nazionale più favorevole. In costante calo è la popolazione detenuta straniera: al 31 dicembre 2020 i detenuti stranieri sono circa 17,3 mila, contro i 19,9 mila di fine 2019 e i 20,2 mila del 31 dicembre 2018. Un dato, quello di fine 2020, che rispecchia il trend nazionale e segna un ritorno al 2015. La percentuale di popolazione straniera in carcere rispetto al totale dei detenuti invece passa dal 34 per cento del 2017 al 32,5 per cento di fine 2020. Rispetto al totale dei detenuti, le percentuali del 2020 confermano il trend degli ultimi 10 anni: la percentuale di stranieri in carcere rispetto al totale, infatti, è diminuita circa 4 punti percentuali rispetto al 2010. Anche la presenza di donne in carcere segue l’andamento generale della popolazione penitenziaria: al 31 dicembre 2020 sono 2.255 le donne in carcere contro le 2.663 dell’anno precedente e le 2.576 presenze del 31 dicembre 2018. Il trend del 2020 riguarda anche i numeri registrati tra i reati che producono carcere, come la violazione delle leggi sugli stupefacenti. Al 31 dicembre 2020, sono 18.757 i detenuti per aver violato la normativa sulle droghe. Un anno prima erano oltre 21 mila, con un trend in costante crescita dal 2015 al 2019. Dati che occorre maneggiare con cura, visto che, ad esempio, nel 2017, su 19.793 detenuti per droga, sono 13,8 mila quelli ristretti a causa della violazione del solo art. 73 del Testo unico (quindi la produzione o il traffico o la detenzione di sostanze), mentre sono quasi 5 mila quelli detenuti per l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). Solo 976, inoltre, i detenuti esclusivamente per l’art. 74. Come nel 2015, infine, anche il 2020 fa segnare una battuta d’arresto sui detenuti per il 416 bis del codice penale, ovvero associazione di tipo mafioso: a fine 2020 si contano 7.274 detenuti, in ogni caso sempre 2 mila in più rispetto ai 5.257 del 2008. Suicidi in carcere: numero in crescita - Di carcere si può morire. Lo confermano i dati dei suicidi negli istituti di pena italiani. Al 31 dicembre 2020 sono 61 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere secondo il Dap. Un dato che torna a salire nonostante il forte e repentino calo della popolazione detenuta e che, con quello del 2018, rappresenta il dato più alto dal 2002 ad oggi, anche se non il più alto in assoluto. Nel 2001, infatti, ci sono stati ben 69 suicidi negli istituti di pena italiani e nel 1993 si registrarono ancora una volta 61 suicidi. Fine pena mai. Per la prima volta - in base ai dati raccolti il 31 dicembre di ogni anno - il numero dei detenuti condannati all’ergastolo diminuisce. Se nel 2019 c’erano 1.802 detenuti all’ergastolo, il dato più alto mai registrato, nel 2020 i detenuti con questa condanna sono 1.784. Negli ultimi 14 anni, il dato ha fatto segnare soltanto una battuta d’arresto tra gli anni 2012 e 2014, con circa 1.580 ergastolani detenuti, ma dal 2016 il dato è tornato a salire fino a superare quota 1.800 durante il 2019. Un’altra storia inizia qui di Riccardo Bonacina Vita, 18 febbraio 2021 Sono reduce dall’ascolto del discorso di insediamento di Mario Draghi al Senato accompagnato da 25 interruzioni per applausi e da un’ovazione finale di tutto il Senato in piedi. Un discorso finalmente di parole piene, pesanti, capaci di nominare cose, progetti, visioni, finalmente. Ci eravamo abituati a parole vuote, anzi a vanvera, invece delle visioni ci venivano ammansite liste della spesa. Bene così. Tra i passaggi sulle riforme anche quella della Giustizia, e davanti a Draghi c’era una delle presenze di punta del nuovo Governo, Marta Cartabia, prima presidente donna della Corte Costituzionale. A lei e ad Adolfo Ceretti (professore di criminologia alla Bicocca di Milano) rubiamo il titolo di questo post, che è titolo del libro che raccoglie i loro discorso alle Martini Lecture del 4 marzo 2020 (Un’altra storia inizia qui, la giustizia come ricomposizione, Bompiani). Un libro da leggere e che dà l’idea della visione della giustizia della Cartabia, un cambiamento epocale rispetto a un ministro della Giustizia come Bonafede che soprattutto sul sistema carcerario non ne ha azzeccata una! Scrive Marta Cartabia: Per una riflessione sulla realtà dei diritti e delle pene “bisogna aver visto”, come osserva Piero Calamandrei in un celebre intervento sulla situazione del carcere pubblicato sulla rivista Il Ponte nel 1949. (…) Anche per Carlo Maria Martini e iniziato così dall’aver visto. Anzi: dall’aver visitato. È dal vedere che sorge l’idea. Idea viene dal greco idéin. che pure significa vedere. Anche noi giudici costituzionali di recente abbiamo visto grazie a una encomiabile e inedita iniziativa della Corte costituzionale che ha preso avvio con una visita dal carcere di Rebibbia il 4 ottobre 2018”. Un’iniziativa importante a cui Marta Cartabia dedica alcune pagine di ricordi di un viaggio davvero inedito nelle carceri italiane. Poi, ragionando sulle riflessioni del cardinal Carlo Maria Martini disegna una visione che a me sembra davvero necessaria di una Giustizia come ricomposizione del tessuto sociale. Una riflessione di cui riportiamo qualche passaggio sperando che questi pensieri possano incidere su una realtà mai come in questi anni umiliata e trascurata, quella degli uomini e delle donne in carcere abbandonati a loro stessi nel lungo anno della pandemia. “Due sono i capisaldi su cui si articola la riflessione del cardinal Martini: la dignità della persona, come incomprimibile possibilità di recupero e cambiamento, qualunque errore sia stato commesso; e la costruzione di un sistema veramente efficace dal punto di vista della tutela della sicurezza e dell’incolumità dei cittadini o meglio le ripristino dell’armonia dei rapporti sociali. Una visione che implica una visione realistica della persona umana. Dice il cardinal Martini Dio giudica il colpevole ma non lo fissa nella colpa identificandolo in essa. È lo stesso sguardo che si ritrova negli interventi di Papa Francesco ad esempio nel discorso alla polizia penitenziaria del 14 settembre 2019 in cui ringraziandoli chiede di non essere solo vigilanti ma soprattutto custodi di persone e poi sottolinea che non bisogna mai privare la persona umana del diritto di ricominciare. Paul Ricoeur ha scritto che dopo la sentenza deve iniziare un’altra storia deve poter incominciare qualcosa di nuovo un’altra possibilità un’altra fase del cammino: “Occorre una parola di giustizia. Ma un’altra storia inizia qui” (Paul Ricoeur “Il diritto di punire” pp. 84-85) Da questa idea scaturisce una concezione davvero nuova della giustizia penale che guarda al futuro piuttosto che pietrificarsi su fatti passati che pure sono incancellabili. E una giustizia volta a ri-conoscere, ri-parare, ri-costruire, ri-stabilire, ri-conciliare, ri-comporre, ri-cominciare. E una giustizia caratterizzata dal prefisso “ri” che guarda in avanti e allude alla possibilità di una rinascita”. Bonafede è acqua passata, ora carceri più umane sono un dovere per tutti di Domenico Alessandro De Rossi Il Riformista, 18 febbraio 2021 Draghi ce l’ha fatta. Il primo tempo destinato alla formazione della squadra dei ministri ha dato risultati in parte attesi, in taluni casi molto importanti, vista l’alta qualità delle new-entry. Alcuni sicuramente eccellenti, i nuovi ingressi sono fondamentali per una ricostruzione sistemica per riportare il Paese su di una soglia di credibilità e di efficienza operativa, ormai giunta in questi ultimi anni a livelli insostenibili per il grado di incapacità e attendibilità. In tutta evidenza i principali ministeri-chiave per la ripresa strutturale sono nelle mani del presidente del Consiglio, alcuni di questi anche “strappati” ai precedenti titolari politici, decisamente ora affidati alle responsabilità di personalità di altissimo spessore e di grande esperienza. Il che lascia sperare che molti dei mali profondi che hanno afflitto l’Italia e sono tuttora presenti (inefficienza, burocrazia, scuola, malagiustizia, differenze territoriali, malasanità, fisco, per elencarne alcuni), possano finalmente essere curati nell’immediato e risolti in via definitiva per i prossimi decenni in base a una nuova impostazione politico-programmatica di vasto respiro che abbia, nel più distante orizzonte temporale dei futuri trenta o quaranta anni, finalmente una visione di Paese moderno e democratico dove, tra i più urgenti, anche il “servizio giustizia” trovi finalmente un suo più appropriato assetto e funzionamento. La decisa quanto auspicata rimozione di Bonafede, sostituito con la costituzionalista Marta Cartabia, meritoriamente è stata posta alla guida di un dicastero che necessita di urgenti riforme strutturali di importanza strategica per la giustizia civile, penale e per i diritti di coloro che sono in carcere, detenuti, polizia e personale civile. Basti pensare alla drammatica realtà in Campania, in particolare a Poggioreale, Secondigliano e Nisida. Non va dimenticato peraltro che la guardasigilli ha rivelato in più occasioni una spiccata sensibilità verso temi delicati, come quello della rieducazione dei detenuti e della condizione delle madri nelle carceri; negli anni passati alla Corte Costituzionale, ha avuto il merito di operare una vera e propria rivoluzione nel meccanismo di giudizio, aprendo le porte ai pareri esterni al perimetro della Consulta, dando ufficialità alla partecipazione della società civile nei giudizi. Una professionalità e un’energia straordinarie che auspichiamo possa esprimere appieno anche in questo nuovo contesto, tenuto conto, che serviranno capacità non comuni per affrontare una delle riforme che si preannunciano più divisive all’interno dell’esecutivo Draghi: quella, appunto, della giustizia. Per questo alla Ministra auguriamo, nella fase in cui debbono essere nominati i sottosegretari, di potersi garantire le necessarie assistenze da parte di chi è al corrente, dall’interno, anche delle meno note questioni penitenziarie. Realtà non sempre trasparenti, spesso solo in possesso dei giudici o dei giuristi presenti in via Arenula che comunque controllano in ogni senso ogni complessa dinamica. Sarebbe auspicabile che la vasta problematica dell’esecuzione penale riguardante la non rinviabile riflessione su cosa significhi oggi la funzione della detenzione e delle sue finalità, direttamente connessa anche ai problemi dell’edilizia penitenziaria, possa avvalersi oltre che del contributo di giuristi ed esperti di diritto presenti nel Ministero, anche dell’apporto di un più vasto perimetro culturale e professionale allargato alle competenze multidisciplinari. Dal fenomeno della radicalizzazione a quello dell’evitamento della recidiva e del necessario reinserimento nel contesto sociale, fino all’obiettivo della difesa della famiglia, dei diritti umani e affettivi, oltre che dello stress e dei suicidi di chi lavora in carcere, sarebbe augurabile una riflessione intorno alle nuove tecnologie, sostenuta dagli indispensabili apporti culturali di antropologici e sociologi, assistiti dagli esperti di neuroscienze. Insomma, è necessario che il nuovo Ministero muova verso modelli interpretativi sistemici che riguardino con una nuova ottica tutte le problematiche della detenzione in diretto collegamento con le realtà territoriali di competenza (Città metropolitane, trasporti, urbanistica, servizi e assistenza). Il futuro della riflessione sull’esecuzione della condanna e del suo significato deve passare in primo luogo per la riduzione della recidiva e per la proposta di nuovi modelli organizzativi destinati a supportare le istituzioni trasformandosi in servizi per il territorio. L’orizzonte dell’esecuzione penale dovrà inevitabilmente recuperare il ruolo sociale del cittadino privato della libertà, sviluppando nuovi modelli operativi/organizzativi con le conseguenti strutture edilizie in grado di attuare innovativi criteri metodologici, coinvolgendo centri di ricerca e accademici pubblici e privati nell’ambito delle neuro-scienze, della neuro-architettura, delle scienze antropologiche e psicosociali, oltre che giuridiche e filosofiche. Il sequestro del tempo come condanna deve trasformarsi nella civile opportunità di recupero, nell’interesse del detenuto e del corpo sociale tutto. Direzione antimafia: “Il 41bis va potenziato e non attenuato” di Paolo Berizzi La Repubblica, 18 febbraio 2021 Nella relazione annuale la Dna spiega che il regime “deve essere potenziato e mai attenuato, atteso che sul fronte della lotta alla mafia si può solo avanzare e non arretrare e che, in tale contesto, il ruolo dell’istituto previsto dall’articolo 41bis è imprescindibile”. Il 41bis va potenziato - e non attenuato - anche con nuovi investimenti per la creazione di strutture adatte. È quanto scritto nella relazione annuale della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna). In cui si legge che tale regime carcerario “deve essere potenziato e mai attenuato, atteso che sul fronte della lotta alla mafia si può solo avanzare e non arretrare e che, in tale contesto, il ruolo dell’istituto previsto dall’articolo 41bis è imprescindibile”. La Dna, nel documento specifica che “si tratta pertanto di un ruolo che va potenziato con nuovi investimenti per la creazione di strutture adatte allo scopo e non certo depotenziato o rispetto al quale si possa addivenire ad una limitazione dei soggetti sottoposti per ragioni diverse dal venir meno della loro capacità di comunicare in maniera efficace con l’organizzazione criminale nella quale continuano ad avere un ruolo di vertice”. Parlano poi di Covid e sistema carcerario la Dna ha evidenziato come “il sistema penitenziario, già appesantito dalla cronica situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari, non ha retto all’impatto con la grave pandemia che ha colpito il Paese, né le misure emergenziali adottate per contenere il rischio di contagio epidemiologico tra i detenuti e tra gli addetti alla custodia si sono rivelate adeguate alla gravissima compromissione degli standard di sicurezza all’interno delle carceri”. Ricordando poi che “l’applicazione generalizzata di una interpretazione della disciplina dettata dagli articoli 146 e 147 codice penale, sganciata dalla sussistenza effettiva e attuale dei presupposti normativi, ha determinato la contemporanea scarcerazione e/o detenzione domiciliare di centinaia di detenuti di elevatissima pericolosità, alcuni anche sottoposti al regime del 41bis, cui ha fatto seguito il concreto rischio di una gravissima compromissione dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Secondo la Dna, “i provvedimenti di accoglimento adottati nei confronti di condannati per gravissimi delitti di criminalità organizzata non hanno nemmeno valutato le conseguenze devastanti di una detenzione domiciliare nella località di origine, dunque, nel territorio di operatività dell’organizzazione mafiosa di appartenenza vanificando totalmente e irrimediabilmente le esigenze di prevenzione che sono alla base del regime speciale previsto dall’articolo 41bis e del regime di Alta sicurezza”. Gli accadimenti, si legge ancora nella relazione della Direzione nazionale antimafia, “sono troppo recenti per una valutazione complessiva della vicenda che richiede un’analisi approfondita delle ragioni e delle conseguenze di quanto accaduto nel contesto della pandemia in atto”, ma “certo è che nonostante i provvedimenti governativi che hanno tentato di porre rimedio alla conseguente gravissima situazione di pericolosità e il costante aggiornamento che questo ufficio assicura alle Dda in ordine ai detenuti AS3 e 41bis per i quali non è stata ripristinata la detenzione in carcere”, si rileva nel documento, “ad oggi risultano ancora presenti sul territorio centinaia di ‘mafiosi’, appartenenti alle diverse organizzazioni criminali (cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra) ai quale è stato consentito di riallacciare relazioni e contatti che indiscutibilmente rafforzeranno il potere della criminalità”. In questo senso, si legge ancora nel documento, “diviene sempre più pressante l’esigenza di individuare nel piano carceri nuove strutture idonee, nate esclusivamente per l’assolvimento della funzione di prevenzione prevista dall’articolo 41bis, e da destinare in via esclusiva a tale scopo”. Neanche il Covid scalfisce la Dna: “Il 41bis deve essere potenziato” di Victor Castaldi Il Dubbio, 18 febbraio 2021 I magistrati ribadiscono il ruolo “imprescindibile” del regime di detenzione “Nella lotta alle cosche si deve avanzare e non si può mai tornare indietro”. Nemmeno la pandemia di Covid- 19 sembra sgretolare la granitica certezza della Direzione nazionale antimafia sul carcere duro. L’emergenza mafiosa, secondo i procuratori deve essere trattata con mezzi e leggi speciali, indipendentemente dai rischi della detenzione in un contesto di allarme sanitario come quello che sta vivendo l’intero pianeta. Le scarcerazioni degli ultimi mesi dovute a evidenti ragioni di emergenza coronavirus e all’aumento esponenziale dei contagi negli istituti di pena non sono affatto piaciute alla Dna che, al contrario ribadisce il ruolo “imprescindibile” del 41bis per la lotta alla criminalità organizzata, invitando tutti a non arretrare di un millimetro. Queste linee guida sono sottolineate nella relazione annuale pubblicata ieri che rimane nel solco ideologico di quelle che l’hanno preceduta: “Il sistema penitenziario, già appesantito dalla cronica situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari, non ha retto all’impatto con la grave pandemia che ha colpito il Paese, né le misure emergenziali adottate per contenere il rischio di contagio epidemiologico tra i detenuti e tra gli addetti alla custodia degli stessi si sono rivelate adeguate alla gravissima compromissione degli standard di sicurezza all’interno delle carceri”. In tal senso la relazione si addentra sul regime carcerario del 41bis, criticando aspramente tutti coloro che ne chiedono l’attenuazione per ragioni umanitarie, una prospettiva che per i relatori della Dna equivale a mostrarsi deboli nei confronti delle cosche: “Il regime deve essere potenziato e mai attenuato, atteso che sul fronte della lotta alla mafia si può solo avanzare e non arretrare e che, in tale contesto, il ruolo dell’istituto previsto dall’art. 41bis è imprescindibile. Si tratta pertanto di un ruolo che va potenziato con nuovi investimenti per la creazione di strutture adatte allo scopo e non certo depotenziato o rispetto al quale si possa addivenire ad una limitazione dei soggetti sottoposti per ragioni diverse dal venir meno della loro capacità di comunicare in maniera efficace con l’organizzazione criminale nella quale continuano ad avere un ruolo di vertice”. Infine la relazione traccia un bilancio dell’attività mafiosa in questo anno di pandemia con un’affermazione paradossale: “Nella prima fase di piena emergenza epidemiologica, le organizzazioni criminali hanno cercato di evitare azioni palesi in grado di creare e aumentare le tensioni sociali, ma dietro questa facciata di immobilismo, si è avuta una prosecuzione dei tradizionali business”. Che cosa attende Marta Cartabia. Coloro che l’hanno preceduta finsero di non vedere di Matteo Milanesi Italia Oggi, 18 febbraio 2021 Il nuovo ministro della giustizia, Marta Cartabia, è un ex presidente della Corte costituzionale. A differenza del precedente ministro Alfonso Bonafede, tanto per intenderci colui che confondeva la responsabilità dolosa con quella colposa, la personalità di Marta Cartabia ha diversi indiscutibili punti a favore: già professoressa universitaria, ha ricoperto il ruolo di giudice costituzionale dal 2011 al 2019, nonché prima donna alla guida della Corte. Ma le sfide che dovrà affrontare non sono poche. Oltre alla già richiesta riforma della giustizia civile, sul tavolo sono presenti numerose questioni relative al problema carceri, alla prescrizione, alla separazione delle carriere ed alla riforma del Csm. Il neoministro potrebbe iniziare a muovere i primi passi in sinergia con il Pd, che da tempo sta cercando di rimettere in campo la legge di riforma dell’esecuzione penale dell’ex guardasigilli, oggi ministro del lavoro, Andrea Orlando, lasciata nel cassetto da Bonafede. Ma la vera partita si gioca sulla magistratura, sicuramente il tema più insidioso. È urgente trovare una soluzione efficace per smantellare il “Sistema” denunciato da Luca Palamara nel libro best seller scritto insieme ad Alessandro Sallusti, da cui emerge chiaramente il ruolo che la magistratura associata (in particolare Magistratura Democratica, la corrente di sinistra) ha avuto nel deviare il corso della vita politica italiana degli ultimi vent’anni. La strategia vincente di Palamara consisteva nel mediare, nel cooperare, nel reggere gli equilibri senza cadere mai, garantendo di fatto la sopravvivenza del “Sistema” e contrastando in ogni modo le riforme della giustizia indesiderate dalle correnti: “Io ero il protettore del sistema correntizio che a maggioranza era su posizioni politiche e ideologiche di sinistra in conflitto con le destre di Silvio Berlusconi”, spiega l’ex magistrato. Sotto le incalzanti domande di Sallusti, Palamara descrive per filo e per segno tutte le nefandezze compiute in quegli anni dalla magistratura associata: nomine pilotate, negoziazioni notturne, campagne politiche. Uno spaccato che racconta non solo tutto ciò che è successo ai vertici della magistratura, ma anche i legami con esponenti politici, passando addirittura per il Quirinale. Vorrà il ministro Marta Cartabia, forte del suo eccellente curriculum, mettere mano al problema, smantellare il “Sistema” denunciato da Palamara, oppure preferirà nascondersi dietro il capro espiatorio, sprecando l’ennesima occasione? Supermario dribbla la giustizia penale: sarà la dark room della maggioranza di Errico Novi Il Dubbio, 18 febbraio 2021 L’ex governatore della Bce chiede unità contro la pandemia e annuncia interventi immediati (solo) sulla giustizia civile. Poche parole. Poche rispetto alla portata del problema. Mario Draghi parla sì di giustizia, ma solo a proposito del settore civile. Cita l’efficienza dei tribunali, lo “smaltimento dell’arretrato”, i “posti vacanti del personale amministrativo” che vanno coperti. Insomma, la scossa che ci chiede “l’Unione europea”. Ma non la soluzione al rebus del penale. Né la formula magica per risvegliare la prescrizione dall’incantesimo di Bonafede. Solo un accenno fugacissimo, alla fine, sulla necessità di rafforzare la lotta alla corruzione. Siamo sempre e solo ai titoli delle “Country Specific Recommendations” rivolte dalla Commissione Ue all’Italia sulla giustizia. Nient’altro. Scelta strategica, che si rivela in tutta la sua necessaria prudenza poco dopo, nel dibattito in Aula. La senatrice Cinque Stelle Agnese Gallicchio così risponde all’eleganza del premier: “Voglio essere molto chiara, quella di oggi non è una fiducia in bianco: il Movimento non è disposto a fare passi indietro su reddito di cittadinanza e riforma della prescrizione da noi varata”. Ecco il tono: non ti azzardare. Draghi lo ha fiutato e ha evitato, forse con saggezza, forse con un po’ d’astuzia, di farsi impallinare al primo colpo. Però il vuoto resta. È pesante come un non detto. Un’omissione fatale, cioè necessaria. Il punto è capire quanto potrà reggere. Quanto l’elusione del conflitto potrà essere adottata da Marta Cartabia, guardasigilli accolta con grande fiducia innanzitutto dall’avvocatura e, nelle ultime ore, dal Parlamento. In mattinata il capogruppo di Italia viva Ettore Rosato, prima ancora che parli Draghi, conferma in un’intervista ad Affaritaliani la disponibilità a ritirare il “Lodo Annibali”, l’emendamento al Milleproroghe che avrebbe congelato la prescrizione di Bonafede. Giuseppe Brescia, presidente grillino della commissione Affari costituzionali, dove quelle proposte avrebbero dovuto essere discusse domani, conferma la tregua: “Il Movimento andrà avanti compatto sulla riforma della prescrizione: la sede per discuterla sarà la commissione Giustizia della Camera, l’hanno capito anche i nemici più ostili”. Dunque “non ci saranno sorprese nel Milleproroghe”. Se ne parlerà a inizio marzo, al più tardi, con l’esame del ddl penale. A quel punto Enrico Costa di Azione, gli stessi renziani, Forza Italia, la Lega tenteranno di nuovo di congelare la legge pentastellata. Anzi, il responsabile Giustizia degli azzurri, Francesco Paolo Sisto, conferma al Tg1 quanto anticipato al Dubbio: “Non ritiriamo il nostro emendamento, ma sarà l’interlocuzione con Marta Cartabia, ministro di serie A, a dirci quale sarà la migliore soluzione”. In commissione Giustizia c’è un altro presidente pentastellato, Mario Perantoni, avvocato penalista di Sassari, considerato rigido su alcune posizioni ma corretto e disponibile al dialogo persino dai “nemici” di Italia viva. Traccia una linea che sulla giustizia penale può essere un grande assist per Cartabia: “Draghi ha fatto bene a inserire tra le priorità la riforma della giustizia civile, da lì passa la ripresa del sistema-Italia, è un obiettivo condiviso e già perseguito dal precedente governo”. È la premessa. Riguardo la “non meno importante riforma penale”, aggiunge Perantoni, “interpreto il silenzio di Draghi come una precisa scelta di investire pienamente il Parlamento”. Cioè la sua commissione. E quindi, “per costruire un percorso veloce e virtuoso, occorre senz’altro uno spirito collaborativo, senza polemiche e attacchi strumentali, nel rispetto dei ruoli di ciascuno: conterà la responsabilità di tutte le forze politiche. A questo punto non si tratta di vincere o perdere una partita ma di farne uscire vincente il Paese. Mi auguro che tutti i protagonisti saranno all’altezza del compito”. Discorso da uomo delle istituzioni. Appello che sembrerebbe lasciar intravedere una disponibilità a mettere in gioco qualcosa, sulla giustizia penale, persino da parte dei 5s. Certo un tono assai meno da duello western rispetto quello pre-minatorio della senatrice Gallichio. Ci sono le diplomazie al lavoro. C’è una ministra che evita di confondere, e che forse interverrà dopo la fiducia di oggi alla Camera, in tempo per sminare del tutto l’esame del Milleproroghe (che lunedì mattina dovrà essere pronto per l’Aula). C’è un Draghi che non sfiora l’ordigno e qualche parlamentare di buona volontà che dà esempio di virtù diplomatica. Ma la sensazione resta: la giustizia penale potrebbe anche non essere un “fight club”, uno sfogatoio, ma rischia di restare comunque una dark room, un luogo virtuale di cui non si parla, o si parla poco e con toni allusivi. Non il massimo, ma è un esercizio dialettico forse inevitabile. Anche se l’avvocatura non farà finta di nulla. Lo lascia intendere il presidente della Camera penale di Roma Vincenzo Comi, leader dei penalisti nell’ufficio giudiziario più grande e congestionata d’Europa: “Tra i molti temi toccati la grande assente è la giustizia penale. Il primo ministro ha ritenuto di non affrontare la questione nel richiedere la fiducia alle Camere. Tema divisivo che comunque si impone in tutta la sua attualità con i problemi e le contraddizioni vissuti tanto da operatori del diritto e cittadini” Comi fa un breve elenco: “Il nodo sulla prescrizione, i tribunali in tilt dall’inizio della pandemia, il processo penale telematico adottato più per necessità che per coscienza, udienze rinviate e processi infiniti, la situazione emergenziale in cui versano le carceri, la riforma dell’ordinamento giudiziario, l’accesso alle professioni legali”. Sono “problemi sotto gli occhi di tutti”, ma “Draghi rimanda l’approccio politico”. Infatti. È un’incognita che pesa. Che peserà cioè sulla guardasigilli Cartabia. D’altra parte il redde rationem sulla prescrizione è rimandato di poco: Forza Italia aspetta un segnale per deporre temporaneamente le armi. E sarà appunto la guardasigilli a doverlo dare. Lì si intuirà meglio la rotta. Oltretutto Cartabia, seppure si limitasse, per ora, a impegnarsi per un lavoro condiviso sul ddl penale (basterebbe, in fondo), dovrebbe essere più specifica di qui a una decina di giorni al massimo, all’atto del suo primo passaggio istituzionale: l’esposizione delle linee programmatiche nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato. È in fondo quello il tornante che Costa, Sisto, Annibali e i leghisti aspettano per capire se possono rimettere nella fondina i revolver. Nella commissione presieduta da Perantoni e in quella del Senato che vede al vertice il leghista Andrea Ostellari, la ministra sarà necessariamente più specifica rispetto all’elegante dribbling del premier. Che poi va riportato: perché per quanto breve, per quanto silenziosa sul penale, la parte che Draghi ha riservato alla giustizia non è così priva di spunti: “Le azioni da svolgere sono quelle che si collocano all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea”, ha premesso testualmente il Capo del governo nel suo discorso. “Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta: ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione”. Tutto condivisibile, e qualcosa davvero è già sui binari, come i decreti sulla crisi d’impresa e sull’insolvenza. Ma c’è quella piccola frase finale: rafforzare il contrasto della corruzione. Come a dire: non tutto quanto fatto da Bonafede è da rimettere in discussione. Persino nella “spazza-corrotti” qualcosa forse va salvato. Di nuovo: la giustizia penale ci sarà. Ma se ne tratterà sottovoce. Come una dark room. Chi ha idee migliori, si faccia avanti. Giustizia, l’intervento si limiterà al civile con una spinta anti-corruzione di Francesco Grignetti La Stampa, 18 febbraio 2021 Ma avvocati e magistrati chiedono investimenti su infrastrutture e digitale. Lucido anche sulla giustizia, Mario Draghi. Dal discorso programmatico s’intuisce che la materia la conosce eccome. Così come padroneggia le raccomandazioni della Commissione europea. Cita le ultime Country Specific Recommendations che ci esortano ad “aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono da tribunale a tribunale”. Unico accenno al penale, spingere contro la corruzione. Il programma dunque è questo: riforma della giustizia civile, e indirizzarvi i fondi del Recovery. In fondo si sapeva. Troppo divisiva la giustizia penale per questa maggioranza anomala. Alla neo-ministra Marta Cartabia l’arduo compito di riscrivere la riforma ereditata da Alfonso Bonafede e investire al meglio i miliardi di Bruxelles. I tecnici del settore hanno le idee chiare. “Non credo affatto - è la tesi di Antonio De Notaristefani, presidente dell’Unione camere civili - che abolire il procedimento sommario e denominare “semplificato” il rito che oggi chiamiamo “ordinario” cambierà granché. Quanto alla durata, basta far di conto: prima e dopo la cura, passeranno esattamente lo stesso numero di giorni, 170, tra l’atto introduttivo del giudizio ed il momento in cui si completano le richieste delle parti”. Per De Notaristefani, insomma, è abbastanza inutile inseguire l’ennesima riforma. Quel che è indispensabile è un investimento davvero massiccio su uffici, infrastrutture, digitalizzazione, personale amministrativo, nuovi giudici. Anche l’Associazione nazionale magistrati è critica. L’attuale Giunta è appena arrivata e non ha avuto modo di interloquire con la ministra o con il Parlamento. Dice il segretario generale, Salvatore Casciaro, che per la maggior parte della carriera è stato giudice civile: “La mia prima impressione era di un progetto non compiutamente definito. Si prevedeva il rafforzamento dell’Ufficio del processo con ben 16 mila assunzioni a tempo. Peccato che allo stesso tempo, con altro provvedimento, ci si orienterebbe ad intervenire sul concorso per entrare in magistratura e, se la proposta di modifica verrà approvata, non sarebbe più obbligatorio il tirocinio di 18 mesi. I più qualificati tra i laureati tenteranno di entrare in magistratura e non fare l’assistente. Quel che entra dalla porta, potrebbe uscire dalla finestra”. Casciaro porta l’esperienza concreta. “Bene l’idea di riqualificare 40 edifici e costruire cittadelle della giustizia però occorrerebbero appositi stanziamenti. Se per ipotesi arrivassero 16 mila assistenti, per loro non sarebbe facile trovare scrivanie, né computer. Nella mia stanza siamo quattro magistrati e non c’è spazio nemmeno per una sedia in più”. Per Casciaro sarebbero anche indispensabili alcuni piccoli atti di coraggio: “Un potenziamento della disciplina sulla mediazione e negoziazione assistita, una revisione delle piante organiche. Fissare un limite tendenziale alla lunghezza degli atti degli avvocati in linea col principio di sinteticità consacrato per il processo telematico, intervenire sul principio dell’abuso del processo”. E poi tante assunzioni di personale amministrativo e di giudici. Nodo prescrizione, con Cartabia cresce la disponibilità per una riforma di sistema di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2021 Prime aperture dei partiti, e delle Associazioni, pronte ad ascoltare il neo ministro Guardasigilli su di una riforma che accorci i tempi del processo. Sul nodo della prescrizione, primo vero banco di prova parlamentare del nuovo Governo Draghi, qualcosa si muove. Ad un giorno dalla fiducia in Parlamento, l’abolizione della prescrizione, ‘bandiera’ dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede e del suo Movimento, resta al centro di alcuni emendamenti al decreto milleproproghe, all’esame della Commissione Affari costituzionali della Camera che potrebbero andare al voto già venerdì. I tempi per l’approvazione dell’intero Dl sono comunque molto stretti, visto che “scade” il primo marzo e in mezzo ci sono ancora tre passaggi (aula Camera, commissione Senato, aula di Palazzo Madama). A cominciare a sminare il percorso a Montecitorio sono stati Enrico Costa (Azione) e Riccardo Magi (Più Europa) che hanno annunciato un fermo agli emendamenti sulla prescrizione. “Un gesto di grandissima fiducia nei confronti della Guardasigilli Marta Cartabia - ha affermato Costa in una intervista a Repubblica - è congelare temporaneamente gli emendamenti sulla prescrizione nel decreto Milleproroghe che avrebbero potuto dividere il governo per la prima volta”. “Voglio dare un segnale immediato di fiducia e disponibilità verso la nuova Guardasigilli. Sulla prescrizione ci aspettiamo un passo avanti collegiale. Se invece dovessimo trovarci di fronte a uno stallo non esiteremmo a ripresentare le nostre proposte”. E segnali in questo senso arrivano anche dal deputato e responsabile Giustizia e Affari costituzionali di Forza Italia Francesco Paolo Sisto che ai Tg Rai ha confermato “Il leale contributo a questo governo”. E in una intervista al “Dubbio” in edicola oggi ha affermato: “Ritirare il nostro emendamento sulla prescrizione? Il primo passaggio non può essere questo. Però è vero che quando si discuterà su quelle proposte, la ministra della Giustizia Marta Cartabia potrà indicare la propria linea sul processo penale. E la ascolteremo. Siamo di fronte a una guardasigilli da tripla A. L’eccellenza”. “Cartabia - ha proseguito - è la più alta garanzia che si possa avere per la giustizia e siamo pronti a vedere quale modello propone per la riforma del processo”. Ma una apertura arriva anche da Italia Viva, la terza forza politica, che ha presentato emendamenti blocca prescrizione. In ballo infatti c’è l’intera riforma del processo penale e la prescrizione potrebbe rientrarci. Non esclude l’ipotesi Lucia Annibali, renziana firmataria dell’emendamento pro sospensione. “Sono due temi che vanno tenuti insieme. Di sicuro c’è tutta la nostra fiducia alla neoministra e non vogliamo mettere in difficoltà il governo, valuteremo insieme ai gruppi”. Ma rimarca: “La prescrizione non è una bandiera, è un tema importante a cui teniamo”. Temporeggia il Pd che era all’opposizione del Conte 1, quando fu varata la norma. “Bisogna vedere che iniziativa assume il governo, noi attendiamo la fiducia e poi decidiamo”, si limita a dire il deputato Dem Stefano Ceccanti. I 5 Stelle chiedono collaborazione. “In questa fase non è tempo di battaglie di bandiera e di provocazioni”, ammonisce Giuseppe Brescia nella doppia veste di presidente della commissione Affari costituzionali e relatore del provvedimento, che poi suggerisce la via d’uscita: “Lasciamo al dibattito già avviato in commissione Giustizia alla Camera il compito di trovare una soluzione”. Nella giornata di ieri, intanto, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia ha affermato che “non è pensabile sterilizzare la prescrizione e non intervenire sui tempi del processo”. Secondo Santalucia l’intervento che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio “è una riforma a metà”, visto che non si è messo mano a una regolamentazione dei tempi del processo”, con il risultato di abbandonare l’imputato a “tempi indefiniti”. Spostando dunque l’attenzione su di una riforma complessiva del processo. E ad allargare il quadro a favore di una riforma del processo penale sembra favorevole anche l’Unione delle camere penali. Per il Presidente Giandomenico Caiazza: “Con il Governo uscente erano state costruite soluzioni volte a ridurre drasticamente i tempi del processo penale, poi tradite dalla legge delega. Quelle soluzioni restano una risorsa per chi voglia davvero affrontare e risolvere con efficacia ed in modo condiviso la piaga della irragionevole durata dei processi in Italia, senza sacrificare o eludere i principi costituzionali del giusto processo”. “ I penalisti italiani - conclude - sono pronti al confronto, ed alla individuazione di soluzioni concrete, praticabili e condivise”. Prescrizione, il lodo Cartabia. “Garanzie per l’imputato” di Massimo Malpica Il Giornale, 18 febbraio 2021 La Guardasigilli è sempre stata garantista su questo tema divisivo. Scintille in vista con sinistra e 5 Stelle. Quella casella, la poltrona di via Arenula, era tra le più delicate del “governo dei migliori”. Difficile immaginarsi Alfonso Bonafede o un profilo simile all’ultimo Guardasigilli che andasse bene a una compagine di governo così variegata e diversa. Così la scelta di Draghi è caduta su Marta Cartabia, primo presidente donna della Corte Costituzionale, cattolica, da sempre attenta a un tema delicato e centrale del sistema giustizia come le carceri. E, nell’agenda del governo dell’ex presidente Bce, il ruolo della Cartabia è forse il più acrobatico, dovendo riuscire a declinare le istanze di partiti che vanno dai garantisti di Forza Italia ai giustizialisti spinti a Cinque stelle. Il tutto con una serie di riforme all’orizzonte, dal processo civile arenato in commissione Giustizia al Senato da più di un anno al Csm scosso come più non si potrebbe dalle rivelazioni di Palamara, dal processo penale alla separazione delle carriere in magistratura fino, appunto, alle carceri. Temi poco divisivi come il processo civile, appunto o invece ad altissimo rischio di lite nella eterogenea compagnia portata a Palazzo Chigi da Mario Draghi. Un tema spinoso è già tra i denti del pettine: la prescrizione. Che vedrà insieme al governo quelli che un tempo appoggiavano la riforma firmata dal fu ministro Bonafede M5s, appunto, con Pd e Leu e quelli che, al governo (Italia Viva) o all’opposizione (Lega, che pure nel Conte I l’aveva votata, e Fi) la osteggiavano, invocando semmai un ritorno al ddl Orlando approvato nel 2017. Si prospetta una grana non da poco, con i 5S che mettono le mani avanti, considerando la conferma di quella riforma un requisito essenziale per la presenza nella maggioranza. Intanto, come gesto di “cortesia istituzionale” verso il neoministro, il deputato di Azione Enrico Costa, già con Fi e con Renzi e in prima linea per la “controriforma”, ha annunciato, intervistato da Repubblica, di voler congelare “temporaneamente gli emendamenti sulla prescrizione nel decreto Milleproroghe che avrebbero potuto dividere il governo per la prima volta”. Un riconoscimento, spiega Costa, dei segnali di “discontinuità” già arrivati dalla Cartabia. Per la quale parlano il curriculum e le esternazioni anche del passato. Un anno fa, l’allora numero uno della Consulta in un’intervista a Repubblica (in cui difendeva la scelta della Corte Costituzionale di bocciare la retroattività della “spazza-corrotti”, altro precedente sgradito ai grillini) toccava anche il tema della prescrizione, ricordando che “la giustizia deve avere sempre un volto umano”, criticando “i processi troppo lunghi” che “si trasformano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere”, e sostenendo che la ragionevole durata del processo “è un principio di civiltà giuridica scritto nelle norme internazionali ed esplicitato nella Costituzione dal 99”. Lampante. E se non fosse abbastanza il nuovo Guardasigilli, nell’occasione, commentava anche nel merito un aspetto della riforma Bonafede che avrebbe dovuto abbreviare i tempi del processo, ossia il ridimensionamento e l’irrigidimento dei tempi delle indagini. Un punto che la Cartabia evidentemente non approvava, ritenendo che fosse in contrasto con la “necessità di accuratezza delle prove” e con le “garanzie per l’imputato”. Insomma, la “discontinuità” citata da Costa sembra esserci, rispetto all’era Bonafede. Ma, anche per questo, con i numeri in ballo in una maggioranza di governo dominata da profonde divisioni genetiche, trovare una sintesi per lavorare insieme anche sul fronte della giustizia sarà tutt’altro che facile. Se la giustizia è malata, la democrazia non può godere di buona salute di Ivanoe Pellerin malpensa24.it, 18 febbraio 2021 È vero, siamo in un tempo di mezzo con il cambio del governo dopo tanta incertezza politica, ma trovo molto inquietante che una situazione tanto grave e oscura, come quella denunciata dal libro di Sallusti e Palamara, non provochi, accanto al giusto e doveroso rilievo per il nuovo governo Draghi, grossi titoloni sulle prime pagine dei giornali, editoriali sferzanti e furibondi dei più noti maitre à penser, richieste di conferme e di chiarimenti dai soliti politologi, filosofi e colti di varia misura che abitano dalle nostre parti e che parlano spesso a sproposito di fatti trascurabili. Il libro “Il sistema”, credo ormai piuttosto noto e diffuso e che per questo non ha bisogno di alcun risalto, è in cima alla graduatoria dei libri più venduti del momento e il dato è stato incredibilmente ignorato per molti giorni dai nostri scrutatori editoriali, dai nostri critici della domenica, dai nostri attenti segnalatori degli inconsueti avvenimenti intorno alla parola scritta. Un fantasma, un’ombra oscura e difficile, un ingombro fastidioso e pericoloso, di certo foriero di problemi assai gravi, al quale si teme di rivolgere un pensiero o uno sguardo. Non potendo più ignorare il fatto, solo domenica 14 febbraio Tutto Libri, l’inserto della Stampa, pone “Il sistema” al primo posto nella classifica dei libri più venduti. Non so se considerare del tutto casuale che il libro di Sallusti e Palamara sia stato presentato in coincidenza con l’inaugurazione dell’anno giudiziario quando l’anno prima, nella stessa occasione, era esploso proprio il “caso Palamara” che aveva innescato le dimissioni di alcuni membri del Consiglio superiore della magistratura. Né mi pare di poco conto che il governo Conte II sia decaduto appena prima della discussione sul progetto di riforma Bonafede con la terribile proposta dell’abolizione della prescrizione, elemento imprescindibile in tutti i sistemi giudiziari delle moderne democrazie. Nell’ottobre 2020 per la prima volta nella storia della magistratura un ex membro del Csm, Luca Palamara, il più giovane presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, veniva radiato dall’ordine giudiziario dopo essere stato accusato di rapporti illeciti con imprenditori e politici e di aver orientato nomine importanti ai posti di rilievo proprio nella struttura delicata del corpo della magistratura. L’esplosione rovinosa di rivelazioni disturbanti l’equilibrio instabile del terzo potere della repubblica rende questo libro un “caso” difficile e inquietante. Di fatto “Il sistema” mostra che il potere della magistratura può intervenire (è intervenuto) in tutte le maglie della nostra vita pubblica e privata, non solo con giusta e doverosa ragione, ma più spesso in modo ambiguo e del tutto arbitrario. I casi raccontati sono tanti e riguardano nomine, promozioni e trasferimenti, molto lontani dalle normali procedure, qualche volta addirittura in modo “malavitoso”. Non dubito che siano supportati da prove inconfutabili ma, proprio per questo, lasciano il lettore incredulo e frastornato di fronte all’ampiezza del “sistema”. Sono del tutto convinto che la maggior parte dei magistrati esprimano con sacrificio e abnegazione un lavoro straordinariamente oneroso e indispensabile alla nostra società e che la complessa attività della magistratura sia all’insegna del dovere e dell’etica ma i fatti raccontati lasciano, forse proprio per questo, sgomenti e disorientati. Il numero e la qualità delle persone coinvolte sono troppi per pensare ad una qualche “deviazione” isolata e per non pensare ad una qualche protezione “dall’alto”, più volte evocata. Cari amici vicini e lontani, all’inizio dell’ultima ignobile estate con il Covid, già ricordai la figura di un grande politico del nostro tempo, Francesco Cossiga, che alle soglie degli anni ‘90 affermava: “… che quello della giustizia è il più grave dei problemi del nostro paese, che il problema della giustizia ancor prima che giuridico, tecnico e politico è un problema di ordine culturale e direi addirittura di etica pubblica; è un problema che attiene alla coscienza, al senso di dignità del cittadino, al suo amore per la libertà”. Nel libro “Discorso sulla giustizia” sono indicati tre caposaldi di una possibile riforma: terzietà del giudice, non obbligatorietà dell’azione penale, giurisdizione disciplinare estratta a sorte. Purtroppo il libro di Palamara e Sallusti è una spiacevole conferma dell’importanza di queste parole. Poiché mala tempora currunt, mi pare assolutamente necessario che intorno alle circostanze narrate sia al più presto approntata un’apposita Commissione parlamentare con poteri inquirenti e mi auguro che questa nuova situazione politica sia in grado di promuoverla. Per questo fine è indispensabile che il nuovo ministro della Giustizia abbia un forte animo per questo impegno e goda dell’assoluto appoggio del presidente Mattarella. E ancora. Poiché temo che sia improponibile pensare che proprio la magistratura abbia la forza e la possibilità di riformare sé stessa, credo davvero che sia giunto il momento di pensare e di gettare le basi per una seria e rigorosa riforma della stessa, riforma ormai indispensabile per la buona vita di questa nazione. Se in un paese la giustizia è malata, la democrazia non può godere di buona salute. “Processo eterno anche per gli assolti: un assurdo che va cancellato subito” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 febbraio 2021 Intervista a Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto penale alla Sapienza. “Dire che la riforma del processo penale debba attendere il tempo necessario per far maturare una cultura delle garanzie mi lascia perplesso, a maggior ragione ora che alla guida dell’Anm ora abbiamo un giudice e non un pm, che mi sembra favorevole a fare delle riforme”. Parte da qui Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto penale alla Sapienza. Sul tema della prescrizione aggiunge: “Il problema va affrontato subito, anche con una soluzione non ottimale ma va fatto: in Italia purtroppo siamo abituati a rinviare le discussioni all’infinito”. E la sua proposta è quella di “togliere il blocco della prescrizione all’imputato prosciolto: è irragionevole che non si sospenda prima che io venga assolto e poi lo si faccia il giorno dopo la mia assoluzione”. Professor Spangher, nel discorso di Draghi c’è attenzione per la giustizia civile, non per quella penale. Cosa ne pensa? Ho ritrovato lo stesso pensiero anche in un articolo pubblicato su Avvenire dal magistrato Paolo Borgna. Alcune riflessioni critiche sono inevitabili: è noto da tempo che l’Europa ci chiede una riforma del processo civile perché la crisi della stessa comporta la perdita di un certo numero di punti di Pil. C’era anche l’ipotesi di approvare la riforma civile con decreto legge: questo è giustissimo ed è anche chiaro che il presidente Draghi in poco tempo non può affrontare tutte le criticità che riguardano il nostro Paese. Tuttavia, l’Italia e il governo devono occuparsi di alcune questioni: due giorni fa è stata annullata la nomina del procuratore di Roma, c’è una attività della Procura generale in tema di procedimento disciplinare, l’Anm ha inviato i suoi probiviri a Perugia, l’anno prossimo si vota per il rinnovo del Csm. È evidente che il rapporto tra i cittadini e la giustizia è in crisi e la ricucitura non può essere tema da rinviare. C’è un altro aspetto che non è secondario. Mi dica... Affermare che la riforma del processo penale debba attendere il tempo necessario per far maturare una cultura delle garanzie mi lascia perplesso, a maggior ragione che alla guida dell’Anm ora abbiamo un giudice e non un pm, che mi sembra favorevole a fare delle riforme. È vero che alla giustizia civile si legano i punti di Pil ma la giustizia penale decide della libertà delle persone, e credo che il nuovo ministro della Giustizia avrà la giusta sensibilità verso la questione penitenziaria e l’esecuzione della pena. Se vogliamo anche farne qui un discorso economico, i dati che riguardano i risarcimenti per ingiusta detenzione mostrano numeri alti. Forse si vuole rinviare tutto, perché al fondo c’è l’altro argomento che incombe sulla giustizia penale, ed è la prescrizione. Secondo lei quale strada dovrebbe intraprendere la ministra Cartabia sul tema della prescrizione per non scatenare attriti nella maggioranza? Il tema della prescrizione, e su questo sono d’accordo con Borgna, va visto all’interno di un quadro generale complessivo. C’è la soluzione di Verini per cui “è divisivo, rinviamo”: ma la prescrizione è tornata subito in discussione appena entrata in vigore la riforma Bonafede. Poi abbiamo avuto un lodo Conte di cui non si è fatto nulla, poi gli emendamenti Costa e Annibali. Dunque è un tema su cui diverse riflessioni sono già maturate. Il problema va affrontato, ma occorre grande capacità di mediazione. Andrebbe rivisto complessivamente ma significherebbe allungare di molto i tempi. Altre proposte in campo sono: attendere qualche mese giacché, sostengono alcuni, gli effetti della riforma Bonafede si vedranno tra qualche anno, oppure lavorare per la cosiddetta “prescrizione per fasi”... Il problema va affrontato subito, anche con una soluzione non ottimale ma va fatto: in Italia purtroppo siamo abituati a rinviare le discussioni all’infinito. Temo che rinviare significherà non risolvere mai la questione e quindi vorrebbe dire ripetere reiteratamente le contrapposizioni tra avvocatura, magistratura, parti della politica. Cosa si potrebbe fare allora? Per me bisogna sicuramente togliere il blocco della prescrizione all’imputato prosciolto: è irragionevole che non si sospenda prima che io venga assolto e poi lo si faccia il giorno dopo la mia assoluzione. Mi rendo anche conto che qualcuno ritenga incostituzionale la differenza tra prosciolto e condannato. Ma non riesco davvero a capire perché una sentenza favorevole blocchi in termini indefiniti il processo. Se poi la persona verrà condannata in appello, con quella sentenza si potrà bloccare il tempo della prescrizione verso il giudizio di Cassazione. Non dimentichiamo che la lontananza dal fatto ha il suo valore: se invece partiamo dall’idea che la prescrizione è semplicemente, come qualcuno sostiene, una scusa, un mezzo con cui ci si vuole assicurare l’impunità, allora entriamo in un terreno minato in cui diviene difficile ragionare. Il tema della prescrizione ha tante sfaccettature. Quali? Per lei è giusto per esempio che un processo nei confronti di un imputato inizi anche dopo venti anni? C’è quindi anche il problema della prescrizione dell’azione. Vorrei precisare poi un’altra cosa. Prego... La prescrizione non è un giudizio di assoluzione perché, pur escludendo la pena detentiva, si conserva comunque l’onere di risarcire il danno o la possibilità di confiscare. Sotteso alla prescrizione c’è comunque l’accertamento della responsabilità, altrimenti sarei stato prosciolto. Ma secondo lei, sempre in tema di riforme, ci sono le condizioni per portare a casa alcune depenalizzazioni? Certo, era già previsto nella riforma Bonafede. Non tutto può essere pena e carcere, e noi abbiamo tanti altri strumenti per perseguire attività illecite, come reati fiscali e ambientali: archiviazioni condizionate, eliminazione delle conseguenze dannose del reato, indennizzo delle società per i danni causati. Parma. Raffaele Cutolo è morto al 41bis, l’ex boss seppellito in carcere per 57 anni di Ciro Cuozzo Il Riformista, 18 febbraio 2021 Raffaele Cutolo è morto. L’ex boss sanguinario della Nuova Camorra Organizzata, soprannominato ‘o professore dai suoi compagni di carcere perché l’unico capace di leggere e scrivere e che in galera ha scontato 57 dei suoi quasi 80 anni, era ricoverato nel reparto riservato ai detenuti dell’ospedale di Parma. Era recluso al 41bis nel carcere di massima sicurezza della città ducale. Al carcere duro era ristretto da oltre 25 anni. Il quadro clinico di Cutolo, che negli anni 80 aiutò i servizi deviati dello Stato a trattare con le Brigate Rosse per la liberazione dell’allora assessore regionale Ciro Cirillo, era compromesso in seguito a diverse patologie che si portava dietro da decenni. “Raffaele Cutolo era ricoverato da diversi mesi nell’ospedale di Parma ed è morto per le complicazioni legate ad una polmonite a cui si è associata una setticemia del cavo orale. Purtroppo era da due giorni in choc settico e non ce l’ha fatta”. A dirlo a La Presse è l’avvocato Gaetano Aufiero, legale dell’ex boss della Nuova Camorra Organizzata, che è morto nella serata del 17 febbraio. “Le esequie - ha aggiunto il legale - si svolgeranno in forma privatissima ad Ottaviano”, paese natale di Cutolo. Aufiero, dopo aver appreso la notizia dal carcere di Parma, ha “sentito un nipote di Raffale Cutolo - ha spiegato - e ho cercato di mandarlo a casa dalla moglie, in modo che non apprendesse della morte del marito dalla televisione, ma purtroppo - ha concluso - temo di aver fallito”. La moglie Immacolata Iacone aveva deciso di partire per Parma perché era stata riconosciuta la possibilità di avere un colloquio straordinario, ma purtroppo non ha fatto in tempo”. “L’ultima volta che si sono visti - ha spiegato Aufiero - è stato 20 giorni fa, ma avevamo chiesto un colloquio straordinario perché avevamo saputo lunedì scorso di un improvviso peggioramento. Purtroppo era da due giorni in choc settico e non ce l’ha fatta. Ci è stato detto che si era ripresentato un problema di ossigenazione per una polmonite bilaterale che aveva già avuto 15 giorni fa e per un paio di giorni era stato in prognosi riservata”. Cutolo “era già fortemente debilitato, non credo pesasse più di 40 chili, i sanitari ci avevano detto che non c’erano grandi speranze di recuperarlo” ha spiegato Aufiero all’Adnkronos aggiungendo: “Lo hanno curato nel migliore dei modi e, per quanto ci risulta, con la massima umanità”. Durante i lunghi anni della sua detenzione, Cutolo ha sempre rifiutato di collaborare con la giustizia. Porterà via numerosi segreti, a partire dalla morte di Aldo Moro. Fu arrestato una prima volta, a 22 anni, nel 1963 dopo aver ucciso un uomo che aveva fatto avance alla sorella. Dopo sette anni di carcere, venne scarcerato nel 1970 per decorrenza dei termini e dopo circa un anno di latitanza, nel 1971, tornò nel carcere di Poggioreale dove fondò la Nuova Camorra Organizzata. Nel maggio del 1977 una sentenza della Corte d’Appello riconobbe al boss l’infermità mentale, disponendone il ricovero nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa dove evase “rumorosamente” (i suoi fedelissimi piazzarono una bomba dinanzi l’ingresso) il 5 febbraio 1978. La latitanza durò fino al 15 maggio 1979. Dal 1995 era ristretto al carcere duro. Lo scorso ottobre 2020, un anno dopo il reclamo presentato dal suo legale Gaetano Aufiero, il Tribunale di Sorveglianza di Roma confermò il carcere duro (41bis) nonostante le gravi condizioni di salute. In precedenza, nella primavera del 2020 il Tribunale di Sorveglianza di Bologna gli negò i domiciliari nonostante i problemi di salute e l’emergenza coronavirus. “Questo provvedimento - commentò al Riformista Gaetano Aufiero, legale di Cutolo - dimostra che il nostro sistema giuridico, e penitenziario in particolare, è indecente. Sono senza parole: come si può pensare che un uomo di 80 anni con uno stato patologico conclamato e una grave disabilità mentale possa continuare a mantenere indisturbato i contatti con l’esterno? Non mi resta che dire che siamo in presenza della stessa inciviltà giuridica di quando si condannava alla pena di morte un disabile mentale che aveva commesso un reato senza rendersene conto”. Cutolo era allettato da mesi e non poteva avere contatti fisici nemmeno con la moglie. “Quando è andata a trovarlo in ospedale sono stati messi tra loro suppellettili per evitare che la donna lo accarezzasse o gli prendesse la mano. Tutto questo - spiegò Aufiero - è inumano. Lei non sa manco se lo rivedrà vivo la prossima volta”. Lo scorso 7 agosto 2020 la moglie Immacolata Iacone si è ritrovata davanti una persona con la mente quasi completamente offuscata: ha confuso la donna con la propria cognata, moglie di suo fratello, deceduta 8 anni fa; ha affermato di aver sposato la propria moglie ad Ottaviano, laddove invece le nozze furono celebrate presso il Carcere dell’Asinara; non ricordava che il fratello di sua moglie fosse stato ucciso. “Cosa c’entra il 41bis con tutto questo? La stessa cosa è stata fatta qualche anno fa con Provenzano. Era un vegetale ma negarono ai suoi familiari di salutarlo con affetto prima che morisse”. Le sue condizioni di salute, anche per via dell’età, erano precarie da anni. Recluso in una cella di 5-6 metri quadri, camminava poco e non faceva attività fisica da tempo. Aveva problemi di diabete, alla vista ed era affetto da artrite e prostatite. Da circa un anno poteva vedere solo attraverso un vetro la figlia (avuta con l’inseminazione artificiale) dopo che quest’ultima aveva compiuto 12 anni. Parma. Lo Stato ha lasciato morire in carcere Raffaele Cutolo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 febbraio 2021 Alla fine Raffaele Cutolo è morto tumulato al 41bis del carcere di Parma. Nell’ultimo periodo ha fatto un via vai tra carcere e ospedale, per questo ha chiesto la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute. A maggior ragione quando, a inizio pandemia, la Ausl locale ha dipinto il penitenziario parmense ad “alta complessità sanitaria”. Molti sono i passaggi del documento della Ausl dove veniva evidenziata una presunta inadempienza da parte della precedente amministrazione penitenziaria sulla collocazione di alcuni detenuti al centro clinico (ora denominato Sai) del super carcere di Parma. Un documento nel quale viene indicata una lunga lista di persone over settanta e con varie patologie che sono “curate” nelle sezioni “comuni” e non nel Sai (Servizio di assistenza integrata - ex centro clinico), tanto che la stessa Ausl consiglia di valutare un differimento pena per la tutela della loro salute. C’era una prima lista, la più urgente, che è composta da 51 nominativi classificati a rischio per l’età e presenza di importanti comorbidità (la coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo, ndr). Tra i nomi compariva anche quello di Raffaele Cutolo. Ma niente da fare, per la magistratura di sorveglianza, nonostante le sue gravi malattie conclamate e in un ambiente penitenziario non adatto, poteva rimanere benissimo in carcere. Negato perfino il differimento pena provvisorio. “Ho incontrato mio marito in carcere a Parma un mese fa, era previsto un colloquio normale attraverso il vetro, ma mi sono ritrovata davanti una persona 80enne con una bottiglia in mano, non parlava, non dava segni, è stato bruttissimo vederlo in quelle condizioni. Mia figlia non si è sentita bene, non ha voluto restare più di tanto, e siamo andati via perché era inutile parlare con una persona che non alzava gli occhi, non riusciva a portare la bottiglia alla bocca, una persona che non rispondeva quando lo chiamavamo”. Ad affermarlo, a tratti piangendo, è stata Immacolata Iacone, moglie di Raffaele Cutolo, intervenendo quest’estate al Consiglio Direttivo di “Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem” dal titolo “41bis: monumento speciale della lotta alla mafia, fossa comune di sepolti vivi”. Raffaele Cutolo è morto a 79 anni, afflitto da gravissime malattie e recluso da 40 anni, delle quali 25 al 41bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana. Nasce nel 1941 a pochi passi dal Castello mediceo di Ottaviano, da genitori contadini. A soli 22 anni commette il suo primo omicidio per una questione d’onore. Dopo tre anni entra in carcere. Qui, con brevi periodi di latitanza, passerà l’intera sua vita, e da qui inizierà a lavorare al suo progetto criminale. Cutolo, all’interno del carcere napoletano di Poggioreale, formò un’associazione criminale sul modello di quella calabrese e siciliana, con una precisa data di fondazione: il 24 ottobre del 1970. Da decenni la sua camorra non esiste più. Non è rimasto capo di più nulla, ma secondo i magistrati rimane un simbolo. Resta il dato oggettivo che “Don Raffaè”, reso famoso da Fabrizio De Andrè in una canzone a lui dedicata, e da Giuseppe Tornatore nel film “Il camorrista”, interpretato da Ben Gazzara e ispirato al libro di Joe Marrazzo, è morto senza uscire dal carcere duro. Ha senso il 41bis visto che lo scopo originario era finalizzato esclusivamente ad evitare che un boss mandi messaggi al proprio gruppo di appartenenza criminale? Ma soprattutto, è meglio la pena di morte, oppure la pena di morte lenta che esiste di fatto per le persone come Cutolo? Viterbo. Detenuto rifiuta il ricovero in ospedale e muore in cella di Maria Letizia Riganelli Il Messaggero, 18 febbraio 2021 Lunedì un quarantenne, trasferito solo da dieci giorni nel penitenziario viterbese, è deceduto in seguito a un malore. L’uomo era arrivato nella Casa circondariale il 6 febbraio da Rieti. Da quanto appreso le sue condizioni di salute sarebbero state già gravi. L’uomo soffriva di diverse patologie, sarebbe stato iperteso e diabetico. Ad aggravare la situazione l’obesità. Il detenuto sarebbe infatti stato affetto anche da questa patologia in maniera acuta. Una situazione compromessa aggravata dall’uso di sostanze stupefacenti. L’uomo ha un primo malore l’11 febbraio scorso. E viene immediatamente portato all’ospedale di Belcolle. Qui i medici dopo un’approfondita visita gli prescrivono una cura adeguata anche con somministrazione di metadone. Torna a Mammagialla ma la situazione non migliora. L’uomo sta male e domenica 14 febbraio torna con il 118 in ospedale. I medici del pronto soccorso decidono per un ricovero. La situazione era critica. Il detenuto però rifiuta il ricovero e una volta tornato in carcere, rifiuta anche di restare in infermeria. Dove avrebbe potuto essere tenuto ancor di più sotto sorveglianza medica. I due rifiuti categorici portano il detenuto di nuovo nella sua cella. Il personale in servizio però continua a monitorarlo costantemente. Un monitoraggio che non ha però lasciato scampo al decesso. Nemmeno due giorni dopo, intorno alle 13 del 16 febbraio scorso, il quarantenne è stato trovato morto nella sezione comune del carcere di Viterbo. A niente sarebbero valsi i tentativi di rianimarlo per tentare un disperato ritorno al pronto soccorso di Belcolle. Larino (Cb). Detenuto morto in carcere, eseguita l’autopsia primopianomolise.it, 18 febbraio 2021 Si attende in nulla osta della Procura per restituire la salma del 57enne albanese alla famiglia. Sarà restituito ai familiari in queste ore il feretro del 57enne detenuto di origine albanese e residente a Campomarino, morto in cella, nel carcere di Larino, giovedì pomeriggio, 11 febbraio, alle 15.30, a causa di un arresto cardio-circolatorio, a 3 ore e mezza dalle dimissioni avvenute dal reparto di Malattie infettive dell’ospedale Cardarelli, dove era stato ricoverato a causa dell’infezione da Covid-19, avvenuta nell’ambito del focolaio interno al penitenziario che si era palesato dalla seconda decade di gennaio. Come disposto dalla Procura di Larino, che sta indagando sulle cause del decesso, ieri mattina è stata eseguita l’autopsia sulla salma dell’uomo, coi medici legali dell’istituto di Foggia che l’hanno effettuata proprio nella struttura accademica da una, prelevando prima il cadavere del 57enne - che era stato custodito nella cella frigorifera dell’obitorio all’ospedale San Timoteo di Termoli - e quindi a esame autoptico ultimato è stato riportato nella sala mortuaria di viale San Francesco, a disposizione sempre dell’autorità giudiziaria. La Procura di Larino ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, ma non c’era stata ancora alcuna delega d’indagine. Il Pm doveva sentire prima il medico indagato. Torino. Detenuto muore alle Vallette, si indaga per omicidio colposo di Elisa Sola Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2021 La Procura di Torino ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo sulla strana morte di un detenuto del carcere delle Vallette, Carlo Limongello, trovato senza vita il 30 gennaio. L’uomo, che aveva 47 anni, è stato trovato senza vita dalla polizia penitenziaria alle sette del 30 gennaio. Era solo in cella e la sua gamba sinistra era insanguinata, segnata da diverse ferite e abrasioni. Limongello era arrivato in carcere il 17 dicembre dello scorso anno, dopo che i carabinieri lo avevano arrestato con l’accusa di spaccio di stupefacenti. È deceduto senza mai essere stato processato: era in attesa di giudizio. La sua morte era stata etichettata, in un primo momento, come un “decesso per cause naturali”. Dopo, tuttavia, è emersa la tesi - che i pubblici ministeri stanno cercando di verificare - che Limongello possa essere collassato a causa di un’infezione. I segni e il sangue rinvenuti fanno ipotizzare che potesse avere un arto in cancrena. Gli inquirenti sono al lavoro per appurare da quanto tempo il detenuto stesse male e se fosse stato curato a dovere. Milano. Detenuto morto a San Vittore, “altri sei mesi per indagare” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 18 febbraio 2021 A 9 anni dalla morte del 21enne Alessandro Gallelli nel carcere di San Vittore nel febbraio 2012, il gip Domenico Santoro ordina alla Procura un supplemento di indagini sull’apparente suicidio. In passato, infatti, vi erano state indagini per “ipotesi di responsabilità omissiva nella forma del “non aver impedito” la morte” o dell’aver “indotto il ragazzo al suicidio”, ed era stato poi archiviato anche un fascicolo per omicidio colposo con due agenti due agenti indagati. Da ultimo la Procura aveva aperto, a carico di ignoti, un fascicolo per “morte come conseguenze di altro delitto”, alla cui archiviazione si sono opposti i familiari del giovane, con l’avvocato Gabriele Pipicelli e i propri consulenti a valorizzare “segni e indicatori coerenti con un’ipotesi di omicidio mediante strozzamento e successiva simulazione di suicidio”. Ora il gip, preso atto che profili di “negligenza o imperizia” sono già stati scandagliati, dispone 6 mesi di verifiche su un’”eventuale azione di natura preterintenzionale (se non, a ben vedere, dolosa) di terzi che possa aver determinato la morte”. Come sulle “modalità di impiccamento mediante felpa”; “analisi completa” delle “condizioni di sorveglianza”; l’audizione dell’allora Garante dei detenuti per il Comune di Milano che in una email del 2016 esprimeva “perplessità”; e i quattro detenuti “potenzialmente presenti il giorno della morte” del giovane. Caserta. Carcere, 23 agenti e 11 detenuti positivi al Covid: il Dap chiede rinforzi di Mary Liguori Il Mattino, 18 febbraio 2021 Sale a 23 il numero di agenti di polizia penitenziaria in servizio al carcere di Carinola positivi al covid. È emergenza personale, tanto che il Dap ha pubblicato un avviso in cui chiede “rinforzi”, in numero di dieci unità, per far fronte alla fase emergenziale. La richiesta è rivolta al personale di polizia penitenziaria che attualmente occupa posizioni utili nella graduatoria relativa alla casa circondariale di Carinola (interpello del 2019) e che intendano aderire al distacco temporaneo fino al termine dello stato di emergenza che si è venuto a creare in seguito ai contagi che hanno colpito sia gli agenti in servizio nel penitenziario che i detenuti. Dopo il decesso del poliziotto Antonio Maiello avvenuto l’8 febbraio, l’Asl di Caserta ha intensificato la sorveglianza sanitaria sottoponendo il personale del carcere e i detenuti a ripetute batterie di tamponi. Ieri il bollettino rimandava 23 contagi tra i poliziotti, undici casi tra i detenuti. Di questi ultimi, uno solo risulta ricoverato al Cotugno mentre gli altri si trovano in isolamento all’interno della struttura di pena. Positivi, di cui si è avuta notizia già nei giorni scorsi, anche un operatore Os e un infermiere in servizio nel penitenziario. “Mi rassicura sapere che c’è un monitoraggio costante con i tamponi - ha commentato il garante dei detenuti campani, Samuele Ciambriello - e sarebbe necessario applicare la stessa prassi sistematica anche in altre carceri della Campania. Ma al di là dello screening, ribadisco ancora una volta che è assolutamente necessario programmare al più presto la campagna vaccinale per la polizia penitenziaria e per la popolazione carceraria, naturalmente con somministrazione su base volontaria. Mi auguro che i detenuti che si trovano in isolamento a Carinola siano ospitati in luoghi idonei alla loro condizione - continua Ciambriello che poi aggiunge. Molti familiari di detenuti di Carinola mi hanno contattato in questi giorni dopo avere appreso che i loro parenti in carcere erano in isolamento - spiega - e ho dovuto chiarire loro che si tratta di un isolamento sanitario, come quello che devono osservare anche i contagiati liberi, e non un isolamento punitivo”. Com’è ovvio, infatti, oltre ai detenuti contagiati e asintomatici, sono in isolamento anche i loro contatti diretti. La cosa ha causato qualche tensione per fortuna rientrata rapidamente anche grazie al costante contatto tra le famiglie e il garante. Intanto, allo stato attuale, risultano positivi al Covid complessivamente 54 agenti di polizia penitenziaria in servizio nelle carceri campane. Oltre ai 23 casi di Carinola, quindici sono poliziotti del penitenziario di Secondigliano, sei di Poggioreale e gli altri in altre strutture. “Dal momento in cui è scoppiata la pandemia, c’è stata poca attenzione da parte della sanità pubblica nei confronti di chi deve garantire la sicurezza nelle carceri”. È il commento di Stefano Pellegrino della Cisl. “Al di là del focolaio di Carinola, viviamo forte disagio in tutti gli istituti italiani per la carenza del personale perché le assunzioni vanno a rilento anche per il mancato turn over per il personale andato in pensione o che ci andrà a breve”. Il Covid, insomma, “ha solo peggiorato una situazione già emergenziale” continua Pellegrino. “Carinola è solo la punta di un iceberg e prevedere lo spostamento di dieci unità da un penitenziario all’altro non risolve il problema, è un palliativo perché attenua il problema in un istituto, ma nello stesso tempo toglie risorse a un altro”. “C’è carenza di personale in tutta Italia, a ciò si aggiunga la problematica del Covid che si ripercuote sul personale in servizio per la gestione quotidiana. Siamo d’accordo con il garante Ciambriello sulla linea dei vaccini: dal mese prossimo inizierà la profilassi sul personale di polizia ed è fondamentale accelerare per la sicurezza dei detenuti e delle nostre famiglie prima ancora che nostra”. Pescara. Covid, scoppia un focolaio in carcere: 5 positivi, bloccate tutte le celle Il Centro, 18 febbraio 2021 Cinque detenuti sono risultati positivi al carcere di San Donato. Tre stranieri e due italiani, reclusi nella seconda sezione giudiziaria dove sono state bloccate le celle in via precauzionale, per contenere una eventuale diffusione del contagio, sono stati trasferiti nell’area Covid al pianterreno dello stabile per essere monitorati dal personale della Asl e del carcere. La segnalazione del focolaio scoppiato in carcere arriva da Alessandro Luciani, vice segretario regionale Sinappe (Sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria) che racconta come si è sviluppata l’emergenza sanitaria che ha avuto il suo apice nella giornata di ieri: “È stato un collega ad accorgersi che i detenuti presentavano sintomi febbrili, già nei giorni scorsi. Il medico del carcere ha subito disposto dei tamponi rapidi che hanno dato esito positivo”. Immediatamente sono scattate le misure di sicurezza per arginare l’allarme. “I detenuti contagiati sono stati trasferiti nell’area Covid al pianterreno, spazio normalmente utilizzato per la quarantena giudiziaria”, spiega il dirigente del Sinappe, “dove sono stati posti sotto osservazione e vengono seguiti dal personale sanitario della Asl e del carcere”. Contemporaneamente “le celle della seconda sezione giudiziaria dove si trovavano i reclusi sono state bloccate, ogni detenuto è rimasto confinato nelle proprie stanze come misura precauzionale contro il diffondersi del contagio. Gli ambienti sono in attesa si sanificazione, la situazione è preoccupante”. Uno dei contagiati “svolge un servizio all’interno del penitenziario che lo pone a contatto con altri detenuti, se la situazione non verrà contenuta, l’evoluzione sarà tragica”. Al momento “non sappiamo come sia stato veicolato il Covid all’interno del carcere, finora rimasto indenne dagli sviluppi della pandemia” riflette Luciani, “ma da tempo chiediamo” ai vertici penitenziari, “il potenziamento dei dispositivi di sicurezza: non bastano le mascherine chirurgiche, sono necessarie le dotazioni di Ffp2; l’incremento dei sanificatori, un percorso pulito per smaltire le protezioni usate. Ci è stato tolto persino il tendone esterno per il triage che ci era stato concesso dalla Croce Rossa, struttura che ci farebbe comodo in caso l’emergenza si allargasse. Inoltre più volte, come sindacato, abbiamo denunciato la mancanza di rilevazione della temperatura del personale in ingresso che non viene effettuata nelle ore serali e nei festivi”. Nella casa circondariale di San Donato sono ospitati 290 detenuti, 120 sono gli agenti penitenziari in servizio “ma ne servirebbero altri 50” conclude il delegato di Sinappe. San Gimignano (Si). “Nel carcere fu tortura”. Condannati dieci agenti penitenziari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 febbraio 2021 I fatti risalgono a ottobre 2018: un video testimonia le violenze su un detenuto durante un trasferimento coatto di cella. Il giudice ha riconosciuto la fattispecie autonoma del reato di tortura. Condannati per tortura i 10 agenti penitenziari del carcere di San Gimignano, compreso il risarcimento di 80 mila euro nei confronti della vittima. I fatti contestati risalgono all’ottobre 2018 quando un detenuto, secondo l’accusa, sarebbe stato gettato a terra e colpito con calci e pugni durante un trasferimento coatto di cella. I 10 agenti insieme ai loro legali, Manfredi Biotti e Stefano Cipriani, hanno scelto fin da subito la strada del rito abbreviato. Il Pm Valentina Magnini ha chiesto 3 anni di reclusione per 8 di loro, 2 anni per uno ed un anno e 10 mesi per l’altro. La condanna varia da 2 anni e 3 mesi a 2 anni e 8 mesi. Si tratta di un troncone dell’indagine tradotta in centinaia di pagine e condotta dalla Procura di Siena sul presunto pestaggio di un detenuto e che aveva già portato, nel novembre del 2020, al rinvio a giudizio di altri 5 agenti accusati anch’essi di tortura dopo l’introduzione del reato per pubblici ufficiali dal 2017. I 5 agenti, a differenza dei 10 colleghi, faranno un processo ordinario e la prima udienza è fissata per il 18 maggio a Siena. Si tratta di un ispettore superiore, due ispettori capo, due assistenti capo coordinatori all’epoca dei fatti contestati in servizio nell’istituto penitenziario di Ranza. La sentenza di condanna individua la fattispecie autonoma di reato. Il giudice ci ha tenuto a sottolinearlo. Non è un dettaglio di poco conto. La legge sul reato di tortura, secondo alcuni, potrebbe indurre a proporne la diversa lettura della norma in termini di fattispecie autonoma di reato. In estrema sintesi, la tortura da parte di pubblici ufficiali è inserita al secondo comma e c’è il rischio che venga considerata come una fattispecie aggravata, invece che come reato autonomo. Fortunatamente questo non è accaduto. Nell’udienza precedente sono stati visti ampi spezzoni del video che riprese la scena incriminata. L’avvocato Michele Passione, parte civile che ha rappresentato il Garante nazionale delle persone private della libertà, ha detto fin da subito che il video è apparso sufficiente per ricostruire quanto è accaduto. “Si sono mossi a falange - ha spiegato l’avvocato Passione - si vede che viene tirato un pugno, buttato giù. Gli sferrano calci”. Il Garante nazionale ha chiesto il risarcimento simbolico di un euro. Secondo l’avvocato Passione non era importante né il risarcimento, né tantomeno gli anni di pena. L’importante, per la parte civile del Garante, è che si sia affermato il principio del contrasto all’impunità evidenziando una fattispecie di reato ben specifica. Lo scopo del Garante Nazionale, d’altronde, è stato quello di sempre: partecipare in qualità di persona offesa ai procedimenti riguardanti presunti episodi di maltrattamento. Tale ruolo ha consentito al Garante nazionale di seguire l’indagine e di contribuire a fare chiarezza su quanto avviene negli Istituti di pena e a contrastare l’impunità. Come parte civile c’è anche l’associazione Altro Diritto che si è presentata anche come garante locale dei detenuti del carcere di San Gimignano. Fin da subito, ha seguito questa vicenda accanto sia alla vittima che ai detenuti testimoni del pestaggio (sollecitando al Dap il trasferimento dei detenuti coinvolti e seguendoli anche una volta trasferiti in altri istituti) e a quei medici che hanno deciso di compiere il proprio dovere refertando le lesioni subite dalla vittima, subendone purtroppo le conseguenze. “Esprimiamo soddisfazione per questa sentenza non tanto per le condanne inflitte in sé, auspichiamo infatti che questo possa essere un primo passo verso la fine delle torture e degli abusi nelle carceri e in tutti i luoghi di reclusione”, afferma l’associazione Yairaiha Onlus che ha segnalato per la prima volta i presunti pestaggi grazie a una lettera di denuncia da parte dei detenuti, testimoni dell’accaduto. Lettera che Il Dubbio pubblicò in esclusiva e con successivi approfondimenti. Venezia. Rivolta a Santa Maria Maggiore, chieste sei condanne Il Gazzettino, 18 febbraio 2021 Pene tra un anno e un anno e mezzo. Il pubblico ministero, Giorgio Gava, ha avanzato le sue richieste per sei dei 23 indagati di varie nazionalità (italiani, tunisini, marocchini, romeni, senegalesi, bulgari) accusati di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale durante la rivolta in carcere scoppiata il 10 marzo dell’anno scorso. I sei sono quelli che hanno chiesto il rito abbreviato, per godere dello sconto di un terzo della pena. Mentre gli altri 17 hanno scelto di difendersi in un’udienza con rito ordinario. L’udienza si è svolta ieri, nell’aula bunker di Mestre, davanti al giudice per l’udienza preliminare Marta Paccagnella. Tra i difensori dei sei imputati, l’avvocato Federico Tibaldo. Dopo le richieste del pm, il giudice ha rinviato l’udienza al prossimo 12 marzo. Quel giorno pronuncerà la sentenza relativa ai sei che hanno scelto l’abbreviato e fisserà anche la data di inizio del processo con rito ordinario per gli altri 17. La rivolta del 10 marzo a Santa Maria Maggiore avvenne nel clima confuso di inizio pandemia. Mentre nei penitenziari di tutta Italia infiammava la protesta per i primi Dpcm che vietavano le visite di parenti e avvocati, anche il carcere di Venezia visse una mattinata di forte tensione. Tra i detenuti di Santa Maria Maggiore crebbe il malcontento per lo stop alle visite, nonché la paura del virus. In particolare il timore di finire come i passeggeri della nave da crociera che in quei giorni assistevano al contagio progressivo di tutti i presenti. Prima c’era stato il consueto tam tam fatto di stoviglie e altri attrezzi sbattuti sulle sbarre. Poi le cose erano degenerate. Tutto iniziò al secondo piano del complesso carcerario dove una cinquantina di detenuti spaccò i vetri di alcune finestre delle celle, diede fuoco a materassi e coperte lanciandoli in un’area comune, gridando a gran voce e battendo i blindi delle celle per chiedere di essere liberati. Intervenuti i pompieri e tutte le forze dell’ordine, la rivolta era stata sedata a fatica. Dopo quella giornata di tensione, per una decina di detenuti era scattata la punizione di 10 giorni di isolamento. Parallelamente la Procura aveva avviato l’inchiesta che ha individuato i 23 indagati. Sullo sfondo resta il problema del sovraffollamento delle carceri veneziani, che nonostante qualche scarcerazione, resta fonte di tensioni in questo periodo pandemico. Lo si è visto anche a fine anno, con forti proteste tra i detenuti. Milano. Giovanni, l’artista del disagio che aiuta gli ex detenuti a integrarsi di Giovanni Migone De Amicis milanopavia.news, 18 febbraio 2021 Lo dice senza mezze parole: sono caduto e rialzarmi è stato difficile, ma se hai forza di volontà, allora è possibile. Certo, un sostegno esterno può sempre aiutare. Giovanni Marelli oggi ha 70 anni e tra il 1990 e il 2011 ha passato 21 anni nelle carceri italiane. Oggi, con la sua associazione Cisonoanchio APS, aiuta chi come lui è uscito dal carcere e fatica a ricomporre la propria vita. Negli anni ‘80 da guru della ristorazione ha aperto locali in giro per il mondo, ma anche a Milano, come la Champagneria di via Clerici, dove ha servito personalità del calibro di Henry Kissinger e Frank Sinatra. L’inchiesta di Mani Pulite gli ha tolto oltre 20 anni di libertà, ma in carcere ha trovato nuove prospettive e una nuova curiosità, diventando l’artista del disagio, come si definisce lui stesso. Attraverso la pittura e la poesia oggi aiuta chi ha più bisogno, ma non solo, perché alla Barona dove l’associazione ha la sua sede, sono tante le attività con cui dà impiego a ex detenuti e persone disagiate. L’ultima iniziativa, in rampa di lancio per inizio marzo, è il pollo volante: un servizio di cucina e consegna di pollo allo spiedo e patatine fritte o arrosto da consegnare a tutta la zona 6. Un progetto che potrebbe però essere solo l’inizio: l’obiettivo, infatti, è quello di portare una cucina in ogni municipio della città, impiegando 100 persone. Sconti di pena e programmi di recupero per i condannati in Vaticano vaticannews.va, 18 febbraio 2021 Con un motu proprio Papa Francesco aggiorna il settore della giustizia penale adeguandole alle “mutate sensibilità dei tempi”. Abolito il processo in contumacia. L’ufficio del promotore di giustizia sosterrà l’accusa nei tre gradi di giudizio. Sconti di pena, possibilità di concordare un programma di lavori di pubblica utilità e attività di volontariato, sospensione del dibattimento nel caso di legittimo impedimento da parte dell’imputato: il sistema della giustizia penale dello Stato della Città del Vaticano si aggiorna e rimodula le sue norme per rispondere alle esigenze dei tempi e di una pena che punti al recupero della persona condannata. È quanto prevede il motu proprio di Papa Francesco pubblicato oggi, “recante modifiche in materia di giustizia” nella legislazione dello Stato. “Esigenze emerse, ancor recentemente, nel settore della giustizia penale - scrive Francesco - con le conseguenti ripercussioni sull’attività di quanti, a vario titolo, vi sono interessati, richiedono una costante attenzione a rimodulare la vigente normativa sostanziale e processuale che, per taluni aspetti, risente di criteri ispiratori e soluzioni funzionali ormai superati”. Per queste ragioni, “proseguendo nel processo di continuo aggiornamento dettato dalle mutate sensibilità dei tempi”, il Pontefice pubblica tre nuovi articoli di legge. Il primo articolo apporta modifiche al codice penale e stabilisce uno sconto di pena da 45 a 120 giorni per ogni anno di pena restrittiva già scontata al condannato che durante l’esecuzione della pena “abbia tenuto una condotta tale da far presumere il suo ravvedimento ed abbia proficuamente partecipato al programma di trattamento e reinserimento”. Nel momento in cui la pena diventa esecutiva, il condannato elabora d’intesa col giudice “un programma di trattamento e reinserimento contenente l’indicazione degli impegni specifici che assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni”. Il condannato può proporre “lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, di attività di volontariato di rilievo sociale nonché condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa”. La precedente legislazione non prevedeva nulla di tutto questo. Il secondo articolo modifica il codice di procedura penale in senso garantista e abolisce il cosiddetto “processo in contumacia” che era ancora presente nel codice vaticano: nel caso l’imputato non si fosse presentato, il giudizio avveniva sulla base della documentazione raccolta senza l’ammissione dei testimoni della difesa. Ora invece se l’imputato rifiuta di assistere all’udienza senza che sia dimostrato un legittimo impedimento, si procede con il normale processo considerandolo rappresentato dal suo difensore. Se invece l’imputato non si presenta all’udienza e sia dimostrata l’impossibilità di comparire “per legittimo e grave impedimento, ovvero se per infermità di mente sia nell’impossibilità di provvedere alla propria difesa”, il tribunale o il giudice unico è tenuto a sospendere il dibattimento. Il terzo articolo apporta modifiche e integrazioni alla legge CCCLI sull’ordinamento giudiziario dello Stato della Città del Vaticano. Stabilisce che i magistrati ordinari al momento della cessazione mantengano “ogni diritto, assistenza, previdenza e garanzia previsti” per i cittadini vaticani. Infine una modifica importante riguarda il secondo e terzo grado di giudizio. Si stabilisce infatti che “l’ufficio del promotore di giustizia esercita in autonomia e indipendenza, nei tre gradi di giudizio, le funzioni di pubblico ministero e le altre assegnategli dalla legge”. Fino ad oggi era previsto che in caso di ricorso in appello e poi in cassazione, la pubblica accusa fosse rappresentata da un magistrato diverso rispetto a quello che l’ha condotta nel primo processo, con un incarico ad hoc per i processi di secondo e terzo grado. Ora invece, con due diversi articoli, si stabilisce che anche nei giudizi di appello e di cassazione, come già avviene per il primo grado, le funzioni di pubblico ministero siano svolte da un magistrato dell’ufficio del promotore di giustizia, designato dal promotore stesso. Diverso rimarrà ovviamente il collegio chiamato a giudicare. Una normativa che tende a velocizzare i procedimenti, dato che d’ora in avanti sarà lo stesso ufficio che ha sostenuto la pubblica accusa in primo grado a sostenerla anche negli eventuali altri gradi di giudizio. Tikhanovskaya: “La Bielorussia non ha più paura, ma ora abbiamo bisogno di voi” di Roberto Saviano Corriere della Sera, 18 febbraio 2021 Intervista alla leader dell’opposizione bielorussa: “Sono stata costretta dal destino a occupare questo posto, con altre due donne abbiamo sostituito i nostri uomini strenui oppositori, esiliati o messi in prigione”. Ventisei anni di regime, dal 1994 Lukashenko comanda in Bielorussia, durante l’ultima tornata elettorale nell’agosto scorso però teme, teme che questa volta la propaganda e le intimidazioni dei servizi segreti (che in modo evocativo ancora si chiamano ufficialmente Kgb) non riusciranno a portargli il consenso che è sempre riuscito a ottenere, quindi arresta tutti i suoi oppositori: Sergei Tikhanovsky e Viktor Babaryko, e ha costretto alla fuga Valery Tsepkalo. Le accuse, tipiche dei regimi, sono ridicole e pretestuose: “incitamento alla rivolta”, “frode fiscale”. Eppure, dopo gli arresti, accade qualcosa di impensabile per la Bielorussia di regime, tre donne si uniscono in una coalizione tutta femminile con lo scopo di dare vita a un’opposizione politica articolata in grado di rimuovere Lukashenko. Vogliono convocare nuove elezioni democratiche, libere e controllate da autorità internazionali. Queste donne sono Veronika Tsepkalo (moglie di Valery Tsepkalo), Svetlana Tikhanovskaya (moglie di Sergei Tikhanovsky) e Maria Kolesnikova (responsabile della campagna elettorale di Viktor Babaryko). E così, nelle elezioni dell’agosto 2020, la vera candidata d’opposizione è stata Svetlana Tikhanovskaya, ma Lukashenko si è autoproclamato vincitore delle elezioni con l’80% dei voti, nonostante siano numerose le prove di brogli. Consapevole del consenso ottenuto dall’opposizione delle donne bielorusse, dopo le elezioni, Lukashenko ha costretto Svetlana Tikhanovskaya e Veronika Tsepkalo all’esilio, con la minaccia di far loro perdere la potestà genitoriale, mentre Maria Kolesnikova è stata arrestata. Il contesto è questo, non solo: nelle ultime ore, come riportato da Amnesty International, la polizia bielorussa ha effettuato incursioni a Minsk, a Homel, a Mahilyou, a Vitsebsk e a Brest, intimidendo gli attivisti del Centro per i diritti umani “Viasna”, dell’Associazione dei giornalisti, del sindacato indipendente Rep. Ha fatto incursione nelle abitazioni private di attivisti e giornalisti con il pretesto della presunta violazione dell’art. 342 del codice penale bielorusso (“organizzazione e preparazione di azioni per turbare gravemente l’ordine pubblico”) allo scopo, secondo le autorità inquirenti, di “chiarire le circostanze del finanziamento delle azioni di protesta”. Raggiungo via Skype Svetlana Tikhanovskaya, che si trova in Lituania. Nell’estate del 2020, pur senza alcuna precedente esperienza politica, lei, Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova avete preso la guida dell’opposizione al governo del presidente Alexander Lukashenko, e siete state appoggiate subito da migliaia di bielorussi: quanto ha contato l’essere donne in questa svolta epocale? “È difficile essere leader in Bielorussia, quasi impossibile direi, perché, nel corso degli ultimi 26 anni, ci è stata inculcata l’idea che abbiamo un solo padrino, un solo presidente che non ci lascerebbe mai andare, e quindi abbiamo sempre creduto che questa sia la nostra unica realtà; la linea del potere era costruita sull’assunto che non ci fosse libertà di parola. Ci sono stati dei precedenti: nel 2010 tante persone sono state arrestate per motivi politici e quindi, anno dopo anno, ci hanno convinti del fatto che non riusciremo a cambiare nulla, che siamo impotenti e che c’è un solo presidente per tutto il paese e che, senza di lui, avremmo fatto una brutta fine. Però, per arrivare alla situazione attuale, dobbiamo comprendere ciò che è successo: ci sono stati tanti fattori che hanno portato all’esito di queste elezioni. Sì, sono stata costretta dal destino a occupare questo posto, e proprio il destino ha voluto che mi unissi ad altre due donne, insieme abbiamo dovuto sostituire i nostri uomini, strenui oppositori, esiliati o messi in prigione. I nostri concittadini non sono ciechi, si accorgono dell’illegalità. Poi è arrivata la pandemia e mio marito Sergei Tikhanovsky ha cominciato a girare la Bielorussia per aprire gli occhi alla gente: “Ragazzi, guardate come stiamo vivendo: dobbiamo lottare per il nostro futuro!”, e quindi le persone si sono strette attorno a noi perché hanno iniziato a svegliarsi. Abbiamo smesso di avere paura quando abbiamo capito quanti siamo; quando la gente ha iniziato a partecipare ai nostri incontri per il sostegno di “Svetlana Tikhanovskaya candidata”, abbiamo visto tantissime persone incontrarsi e stringersi la mano. Sapete, in passato, tutte le questioni politiche sono state discusse - diciamo cosi - in cucina, nessuno poteva parlare apertamente, ma dall’estate dell’anno scorso abbiamo avuto una dimostrazione chiara, le persone hanno capito di essere in tante. Il fatto che io sia una donna ha sicuramente avuto un peso perché Lukashenko in me non ha visto un oppositore; ha pensato che nessun bielorusso avrebbe mai votato per una donna. Fatto sta, però, che Lukashenko ha dimostrato di non conoscere il suo popolo. È talmente distaccato, vive in un mondo tutto suo al punto di non aver capito che le persone votavano per me non perché donna, casalinga o politica, ma lottavano e votavano contro la dittatura. Lukashenko tutto questo non lo ha per nulla compreso, e non essendo riuscito a convincere le persone di aver commesso un errore a votare per me, ha usato la forza”. Lukashenko ha individuato e colpito un punto chiaramente vulnerabile dell’essere madre minacciando di allontanare da voi i vostri figli. Lei aveva mandato i suoi all’estero già prima delle elezioni, quindi sapeva che ci sarebbe stato questo ricatto? “Ricordo che nell’estate del 2020 abbiamo avuto tante emozioni positive, però ogni mattina mi svegliavo in ansia per me stessa, per mio marito, che è imprigionato e maltrattato, e avevo anche tanta paura per i miei figli. Avevo paura e non riuscivo a lasciare libero l’appartamento; conosco i metodi del Kgb: potevano perquisire casa mia, lasciare della droga per potermi accusare, per poter avvisare i servizi sociali e per poter dire: “Guardate che madre snaturata è la Tikhanovskaya” e quindi potevano privarmi dei miei figli. Avevo paura a lasciare i miei figli da soli. Erano con mia madre, la loro nonna, e comunque ero preoccupata. Quando ho ricevuto la “chiamata”, mi è stato detto: “Basta, devi lasciar stare la politica, devi andartene altrimenti noi ti mettiamo in prigione. Tuo marito è già in carcere, se ci finisci anche tu, ti togliamo i figli”, lì ho capito che si trattava di una minaccia vera a propria. Ma io sapevo anche che non avevo il diritto di rimanere indifferente, di smettere di lottare, ecco perché ho scelto di portar via i miei figli. Ho deciso di portarli via dalla Bielorussia perché solo così avrei potuto continuare a cuor leggero”. Maria Kolesnikova è in carcere da settembre. Come sta? Cosa stanno facendo in questo momento a tutti i dissidenti in carcere in Bielorussia? “Non posso conoscere i dettagli su ogni prigioniero politico in Bielorussia, su ogni persona arrestata e che non è ancora stata dichiarata “prigioniero politico”, ma ho come l’impressione che le persone più popolari vengano trattate in maniera migliore, non che abbiano un occhio di riguardo, ma credo che vengano trattate con un po’ di decenza in più: non vengono torturate, non vengono violentate. Tutte le altre, le migliaia di persone che sono state imprigionate in Bielorussia per il solo fatto di aver partecipato alle manifestazioni pacifiche, quando escono dal carcere ci raccontano storie che fanno rabbrividire. Ci parlano di condizioni di scarsità di cibo. Voi in Italia fate fatica a immaginarlo, ma ora in Bielorussia ci sono -20°, - 25°, immaginate… non c’è riscaldamento nelle celle: è una tortura vera e propria, perché la gente si sta congelando. Non viene fornito dentifricio, non viene fornito sapone. Immaginate… per igienizzare buttano dell’acqua con il cloro sul pavimento della cella e la gente soffoca perché non c’è ricambio d’aria. Fa freddo, le finestre sono chiude e manca l’aria, la gente soffoca ed è una bruttissima sensazione. La gente sta patendo moltissimo. Lei mi chiede come sta Maria Kolesnikova, spero davvero che stia bene, vivamente. Lei è una persona molto forte. È sempre stata decisa e il fatto che abbia strappato il passaporto la dice lunga su quanto sia forte. Pratica tanto sport in cella, una cella di due metri per due. Mette il rossetto rosso e cerca di tirarsi su di morale. Comunica attraverso le sue lettere in cui dice: “Sono stata arrestata e sono in prigione, ma dentro sono libera e, anche con la violenza dei manganelli, questa libertà non mi verrà mai tolta”“. Nel ritirare il Premio Sacharov lei ha detto: “Noi vi chiediamo di non intervenire negli affari interni della Bielorussia, ma sostenere i diritti umani e la democrazia non è un’interferenza” e questa l’ho trovata una dichiarazione molto potente. Negli ultimi 26 anni avete sperato che qualcuno intervenisse per fermare la dittatura di Lukashenko? Questo cambiamento può sono avvenire partendo dall’interno o è necessario un intervento esterno? “La responsabilità di ciò che sta accadendo in Bielorussia è sulle spalle dei bielorussi stessi, sulla dittatura, sul regime e sulle persone comuni che vogliono mettere un punto al regime, che vogliono costruire un paese felice, nuovo, libero. Però dobbiamo anche capire e renderci conto dello squilibrio. Lukashenko ha forze speciali, forze antisommossa, ha manganelli, ha tanta gente, ha il controllo della tecnologia. Le persone normali non hanno niente, solo la speranza che possa cambiare qualcosa. Naturalmente, però, nonostante questo squilibrio nel potere, sappiamo che non possono, gli altri paesi, subentrare e intervenire per fare in modo che Lukashenko se ne vada. Però, allo stesso tempo, non è accettabile che nel centro dell’Europa si assista a questa violenza e allo sradicamento totale dei diritti umani; ecco perché vogliamo che alle parole seguano le azioni. Ecco perché chiediamo di fare pressione sul regime e non perché il regime non mi piaccia, ma perché questo regime sta minando i diritti umani con azioni molto violente. Sono grata all’Europa perché, nel momento in cui abbiamo intrapreso questa rivoluzione, o meglio, questa evoluzione bielorussa, ci ha dato un grande sostegno; che Lukashenko non sia stato riconosciuto come presidente legittimo è stato un messaggio molto forte che ci è arrivato dall’Europa e che ci ha fatto capire di essere sulla strada giusta. Il fatto che l’Europa non aiuterà Lukashenko, che non avrà una posizione neutra, ci ha dato una carica enorme. E che io, come leader scelta dal popolo bielorusso, venga accettata ai massimi livelli in altri paesi, che grazie a me sia stata data al popolo bielorusso la possibilità di dialogare con l’Europa, ci ha fatto sentire forse l’ondata di solidarietà. Però i bielorussi dopo un po’ di tempo si sono disillusi perché non sono stati intrapresi passi concreti. Ora abbiamo 32 mila persone imprigionate. Abbiamo visto le fotografie delle persone torturate, ferite con armi da fuoco, senza arti; ci sono tantissime fotografie che girano su Internet, eppure ci sono stati solo tre pacchetti di sanzioni che hanno riguardato poche centinaia di persone. Quindi è una presa in giro, voi ci dite: “Grazie per quello che state facendo”, vi preoccupate, ma non c’è nulla di concreto. Purtroppo pochi paesi ci sono vicini e agiscono concretamente per noi. Quando noi bielorussi guardiamo all’Unione europea, abbiamo come l’impressione di vedere un’unione di paesi forti che si esprimono e che sono responsabili delle loro parole. Noi eravamo convinti di poter ottenere questo sostegno concreto; ci sono tante persone che soffrono, la nostra gente non è ricca, abbiamo centri per la protezione dei diritti umani che forniscono assistenza per gli avvocati, abbiamo 227 prigionieri politici che devono ricevere la visita del loro legale almeno una volta a settimana, e gli avvocati vanno pagati. Dobbiamo anche fornire vestiti e prodotti alimentari alle persone arrestate, questi servizi costano e, non vorrei risultare offensiva, ma dall’Europa ci aspettavamo di più. Eppure, verso i bielorussi, notiamo che interesse è scemato nonostante le repressioni non siano scomparse, anzi si sono acuite e il nostro dolore è tuttora forte. Ci sono persone detenute; i miei figli, per esempio, non vedono mio marito, loro padre, da 8 mesi. Mia figlia mi chiede se suo padre sia ancora vivo. Mi rendo conto che ci sono tante istanze provenienti da tutto il mondo, ma noi viviamo di fronte a voi e abbiamo questo maledetto dittatore che non ci permette nemmeno di esprimerci perché se sei un dissidente sei privato della libertà. Noi chiediamo all’Europa di darci supporto, deve agire in maniera più forte, più reattiva. Voi vivete in un paese libero, siete persone libere, avete dei valori, dovete lottare per questi valori. Questa è una prova anche per l’Europa, dovete capire se i vostri valori sono basati solo sulle parole o se realmente siete disposti a difendere con i fatti la democrazia e i diritti umani”. Cosa deve accadere perché Lukashenko cada: si rischia una guerra civile? Cosa deve succedere perché cada questo regime di polizia? “Noi vogliamo agire nel rispetto della legge. Lukashenko ha detto: “A volte non c’è tempo per le leggi”, e lo ha detto quando picchiava e arrestava, quando le persone venivano giudicate sulla base di false accuse; in quel caso non ha agito legalmente. Invece noi, in ogni circostanza, vogliamo agire secondo legge, siamo contro la violenza. Personalmente non ho alcuna intenzione di assumermi la responsabilità di dire: “Andate a sparare”, e non posso assumermela perché so che ci saranno vittime, e io non voglio che tra i miei concittadini ci siano vittime. Però chi è al potere deve capire che ci sono nuovi movimenti politici che, al contrario, potrebbero assumere su di sé, in Bielorussia, questa responsabilità, e saranno in grado di richiamare le persone ad azioni più concrete. E se così fosse, non abbiamo idea di cosa potrebbe accadere”. Quindi secondo te c’è il rischio di una lotta armata? “Dobbiamo dialogare e risolvere con il dialogo ogni contrasto; noi vogliamo evitare che ci siano vittime, da sei mesi continuiamo a dirlo. Abbiamo anche contattato la Russia, l’amico più vicino a Lukashenko, abbiamo provato ad avviare questo dialogo, ma per il dialogo sembra non esserci spazio. Lukashenko continua a dire di non volersi aggrappare al potere, ciononostante reprime tantissime persone pur di rimanere al potere. Si è reso conto di essere in bancarotta e di non contare assolutamente nulla per la nostra gente: ha il potere solo grazie alle forze armate. Ecco perché il nostro compito adesso è di convincere le forze antisommossa a prendere parte, e a farlo al fianco del popolo della Bielorussia libera, perché anche i loro figli dovranno vivere in questo paese e subiranno questa dittatura. Sono in tanti, nelle forze dell’ordine, a rendersi conto che così non può andare avanti, però sono schiavi del sistema dal punto di vista economico perché se un poliziotto antisommossa dovesse licenziarsi prima del tempo, dovrebbe pagare molti soldi al suo paese. Inoltre si stanno rendendo conto di essere criminalizzati per le violenze perpetrare… c’è tanta propaganda, e il nostro compito, ora, è convincere gli agenti antisommossa che chi ha colpe verrà giudicato in base alla legge da tribunali indipendenti. E chi non ha mai fatto nulla di grave dovrà rimanere con il paese, con il popolo, perché nella nuova Bielorussia avremo bisogno di una polizia libera e leale: le risorse che abbiamo a nostra disposizione, in questo momento, le dobbiamo ampliare per far sì che le risorse di Lukashenko al contrario diminuiscano: solo se questo equilibrio cambierà, potremmo portare il potere al dialogo, un dialogo che attualmente non c’è”. Da sei mesi vive in esilio, in Lituania, immagino una scelta molto sofferta e obbligata: tornerà in Bielorussia solo una volta caduto Lukashenko? “Tornerò in Bielorussia quando mi renderò conto che dopo aver attraversato la frontiera non verrò immediatamente arrestata, e questo potrebbe accadere se fossi accompagnata da diplomatici o ambasciatori, con delle garanzie da parte del regime. Ma dovrebbe esserci quel dialogo di cui ho parlato, dialogo che ora non c’è. Oppure rientrerò in Bielorussia quando verranno rilasciati i prigionieri politici, quando verrà scarcerato mio marito. Ci devono essere le condizioni e i presupposti per il mio ritorno, perché tornare in Bielorussia sapendo che verrò messa in prigione, farebbe di me una vittima non necessaria. Questa mia non è una via di uscita perché, al contrario, il mio esilio potrebbe rafforzare lo spirito dei bielorussi che vorranno scendere in piazza”. I simboli della vostra coalizione sono un pugno alzato, una “V”, e un cuore fatto con le mani. Come li avete scelti? “È stata una casualità, una cosa davvero spontanea. È capitato che Viktor Babaryko e il suo team avessero già come simbolo il cuoricino fatto con le mani; Veronika Tsepkalo ha assunto come simbolo la “V”, “V” come vittoria e come Valery, il nome di suo marito. Sergei Tikhanovsky, mio marito, mostrava il pugno per dare forza alle persone: quando è arrivata la pandemia e non ci si poteva stringere la mano per salutarsi, abbiamo scelto il pugno. Così è nata questa immagine rivoluzionaria, adottata anche dalla nostra gente: crediamo, riusciamo e vinceremo”. Grazie a Svetlana Tikhanovskaya. Ti chiedo solo questo: va aggiunto qualcosa a quanto abbiamo già detto? “Vorrei rivolgermi ai vostri lettori e alla società internazionale. Vorrei ripetere che non bisogna valutare le nostre manifestazioni contando le persone che scendono in piazza, non vi focalizzate sul fatto che le nostre dimostrazioni non sono così massicce; dovete andare alla radice del problema. La situazione in Bielorussia è peggiorata, noi non abbiamo smesso di lottare e continuiamo nonostante l’indifferenza, nonostante le migliaia di persone incarcerate. E qui, da queste pagine, voglio rivolgermi a ogni italiano con un appello: scrivete, mandate lettere ai nostri prigionieri politici, a loro fa bene ricevere lettere di vicinanza. Ci sono tanti bielorussi che scrivono ai nostri prigionieri messaggi di sostegno. Se potete, provate a dedicare del tempo anche voi, bastano poche righe. Gli indirizzi sono reperibili sui siti delle associazioni per i diritti umani (come Viasna, ndr), ci sono nomi e cognomi… la nostra gente ve ne sarà grata, perché tutto quello che stiamo facendo adesso è una piccola goccia che, unita ad altre gocce formerà un oceano, un’ondata di solidarietà che ci aiuterà nella nostra lotta”. Libia. Tutto è in mano delle milizie di Carlo Ciavoni La Repubblica, 18 febbraio 2021 L’analisi di Amnesty International. Il dominio delle bande e l’assenza di giustizia. Un decennio di soprusi, omicidi extragiudiziali e impunità dei miliziani accolti nei gangli dello Stato. In Libia la giustizia per le vittime di crimini di guerra e di gravi violazioni dei diritti umani si fa ancora attendere. Si tratta di omicidi extragiudiziali, sparizioni, torture, sfollamenti forzati e sequestri di persona, commessi da milizie e gruppi armati. A denunciare tutto questo è oggi Amnesty International, a 10 anni dal rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi. Secondo l’organizzazione per i diritti umani, le autorità libiche hanno promosso e legittimato capi delle milizie responsabili di violazioni inimmaginabili dei diritti basilari delle persone anziché accertare le loro responsabilità e risarcire le vittime di tutte le nefandezze commesse sotto il regime di Gheddafi e soprattutto dopo la sua scomparsa di scena. L’impunità regna sovrana da 10 anni. Nel 2012 una legge ha concesso piena immunità ai membri delle milizie per le azioni commesse al fine di “proteggere la Rivoluzione del 17 febbraio”. Il sistema giudiziario libico non funziona ed è inefficace: giudici e procuratori rischiano di essere sequestrati e assassinati semplicemente per il fatto di svolgere il loro lavoro. L’accertamento delle responsabilità resta una chimera, anche per i crimini commessi durante il regime di Gheddafi. Come il massacro del 1996 nella prigione di Abu Salim. I tentativi di portare di fronte ad un Tribunale i funzionari agli ordini di Gheddafi sono stati caratterizzati da gravi violazioni dell’equità dei processi, da torture e sparizioni forzate Oggi un Paese senza pubblici poteri riconosciuti e credibili. Intanto la società civile libica, secondo diversi segnali colti da operatori umanitari, tende a percepire e valutare la situazione che si è creata in modi molto diversi: c’è chi crede di assistere ad una cospirazione internazionale - come del resto la cronaca degli avvenimenti ci conferma - che ha lo scopo di ridisegnare i perimetri di influenza nella regione. C’è poi chi invece ritiene che la “rivoluzione” di 10 anni fa, di fatto, ha raggiunto i suoi scopi. Altri ancora tendono a giudicare solo in base a quello che oggettivamente oggi si vede: un Paese allo sbando, insicuro, senza istituzioni e pubblici poteri riconosciuti solidi e credibili. Dieci anni in un vortice di crimini di guerra. Le proteste iniziate nel febbraio 2011 vennero stroncate con violenza e degenerarono presto in un conflitto armato che, dopo una campagna aerea della Nato, portò alla caduta di Gheddafi. Da allora, la Libia è sprofondata in un vortice oscuro dove non esistono regole e dove milizie armate in lotta fra loro compiono crimini di guerra, per lo più fuori dai radar del sistema mediatico internazionale. Vari governi che si sono succeduti in Libia avevano promesso di ripristinare lo Stato di Diritto, di rispettare i principi fondamentali della convivenza civile, ma nessuno finora è riuscito a riprendere il controllo effettivo e totale della situazione. Quando tutto cominciò. La missione aerea che portò alla fine del regime di Gheddafi e alla sua uccisione ebbe inizio la mattina del 19 marzo 2011. Tutto cominciò all’indomani della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che delimitò una zona d’interdizione al volo sul Paese, con lo scopo (ufficiale) di tutelare l’incolumità della popolazione civile dai combattimenti violenti tra le forze armate fedeli a Gheddafi e i ribelli che avevano animato le proteste di piazza per rovesciare il suo regime. A cominciare furono i caccia bombardieri francesi, con un attacco contro le postazioni terrestri dell’esercito regolare libico, vicino a Bengasi. Solo qualche ora dopo seguì il lancio di missili Tomahawk dalle navi statunitensi e britanniche al largo della costa libica, contro obiettivi strategici su tutto il territorio della nazione. Gli assassini accolti nelle istituzioni dello Stato. Cominciò così un nuovo capitolo della storia del vicino Paese mediterraneo. “Per dieci anni - dice Diana Eltahawy, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International - l’accertamento delle responsabilità e la giustizia sono stati sacrificati in nome di una pace e di una stabilità mai raggiunte. Gli autori delle violazioni dei diritti umani hanno beneficiato dell’impunità, sono stati integrati nelle istituzioni statali e sono stati trattati addirittura con deferenza. Se i responsabili delle violazioni dei diritti umani non saranno portati di fronte alla giustizia e continueranno a essere premiati con posizioni di potere - ha aggiunto Diana Eltahawy - la violenza, il caos, gli abusi sistematici e la sofferenza dei civili che hanno segnato l’era post-Gheddafi proseguiranno incontrastate”. Le due entità rivali in conflitto. Dal 2014 la Libia si è frammentata in due entità rivali in competizione per ottenere legittimità, governo e controllo del territorio. Lo scorso 6 febbraio i negoziati guidati dalle Nazioni Unite hanno portato all’annuncio di un nuovo governo di unità nazionale, col compito di organizzare le elezioni nazionali nel corso dell’anno. “Chiediamo a tutte le parti in conflitto e al nuovo governo di unità nazionale - ha sottolineato Eltahawy - di assicurare che alle persone sospettate di aver commesso crimini di diritto internazionale non siano affidati posti di potere dai quali potranno continuare a compiere violenze e a rafforzare l’impunità. Le persone accusate di crimini di guerra dovrebbero essere sospese da posizioni di autorità, in attesa dell’esito di autentiche indagini indipendenti”, ha concluso. Le promozioni e gli stipendi ai miliziani. La realtà di questi ultimi anni è stata caratterizzata da promozioni di capi delle milizie responsabili di uccisioni illegali e torture, con la complicità (o la “distrazione”) dei governi che si sono succeduti alla guida del Paese dopo la caduta di Gheddafi. sono stati integrati uomini delle milizie nei ministeri della Difesa e dell’Interno, ai quali sono stati attribuiti incarichi speciali, inseriti a libro-paga del Governo. Ad esempio, il cui Consiglio di presidenza dell’esecutivo di accordo nazionale di Tripoli ha nominato, all’inizio di quest’anno, Abdel Ghani al-Kikli (noto come “Gheniwa”), capo della milizia “Forza di sicurezza centrale di Abu Salim”, a capo di un nuovo organismo chiamato “Autorità di sostegno alla stabilità”, alle dirette dipendenze della presidenza. “Gheniwa” è uno dei più potenti capi delle milizie tripoline costituitesi dopo il 2011, in uno dei più popolosi quartieri della capitale, Abu Salim, dove si trova il carcere di massima sicurezza di Tripoli, luogo indicato spesso dagli attivisti dei diritti umani come un vero inferno per chi vi è rinchiuso. Delinquenti con ampi poteri. “Gheniwa”e la sua agenzia, insomma, avranno ampi poteri, compresi quelli dell’applicazione della legge: potrà arrestare persone per motivi di “sicurezza nazionale”. Tutto questo nonostante negli ultimi 10 anni Amnesty International abbia documentato crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani ad opera di gruppi sottoposti al suo comando. Nel 2013 e nel 2014 le ricerche di Amnesty International servirono per scoprire che persone detenute dalle forze di sicurezza controllate da “Gheniwa” erano state sottoposte a sequestri e torture e altri maltrattamenti, a volte con esiti mortali. La stessa Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) è arrivata a conclusioni analoghe, comprese quelle relative alle morti in custodia sotto tortura. Stupratori funzionari del ministero dell’Interno. Il Governo di accordo nazionale, già dal 2016, aveva assegnato stipendi alle milizie di “Gheniwa”, integrando suoi uomini nel ministero dell’Interno, rendendo così legittimi e “legali” gli omicidi, i sequestri di persona, le torture, le violenze sessuali contro le detenute. Insomma, impunità di massa. “Gheniwa” e le forze in servizio nel carcere di Abu Salim non sono stati gli unici ad essere stati ricompensati, nonostante le gravi violazioni dei diritti umani a loro carico. Nel gennaio scorso - sempre secondo il lungo rapporto di Amnesty International - Haitham al-Tajouri, capo della milizia “Brigata dei rivoluzionari di Tripoli” è stato nominato vice di “Gheniwa”, nonostante fosse stato coinvolto in detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate e torture. Sequestri di persona, torture, uccisioni extragiudiziarie. Sempre a Tripoli e sempre su decisione del Governo di accordo nazionale, nel 2018 le “Forze speciali di deterrenza” (note come “al-Radaa”), sotto il comando di Abdel Raouf Kara, sono state integrate nel ministero dell’Interno. Due anni più tardi, nel 2020, vennero trasferite sotto il diretto controllo del Consiglio di presidenza. Sia Amnesty International che altri organismi tra cui le Nazioni Unite, hanno documentato il coinvolgimento di “al-Radaa” in sequestri di persona, sparizioni forzate, torture, uccisioni extragiudiziarie, lavoro forzato, attacchi alla libertà d’espressione e persecuzione ai danni di donne e di esponenti della comunità Lgbtq+. Le milizie di Misurata. E ancora. Nel settembre 2020, il Governo di accordo nazionale ha anche promosso Emad al-Trabulsi, capo della milizia “Sicurezza pubblica”, a vicedirettore dell’intelligence nonostante il coinvolgimento di questa milizia in violazioni gravissime dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati. Vari governi non hanno portato di fronte alla giustizia gli appartenenti alle milizie di Misurata responsabili di crimini di guerra tra cui attacchi contro la popolazione civile, come quello contro la città di Tawarga nel 2011, che causò lo sfollamento forzato di circa 40.000 persone. Le milizie di Misurata hanno sottoposto gli abitanti ad arresti arbitrari di massa, uccisioni illegali, torture con esiti a volte mortali e sparizioni forzate. Le coperture e le complicità dell’Egitto. Le forze armate arabe libiche continuano a proteggere i capi della “Nona brigata” (nota come “Forze al-Kaniat”), coinvolta in omicidi di massa, nel disfacimento di cadaveri in fosse comuni, in torture e sequestri di persona nella città di Tarhuna. Contribuiscono ad evitare l’accertamento delle responsabilità anche ulteriori parti. L’Egitto, ad esempio, ha continuato a proteggere Khalid al-Tuhamy, capo della sicurezza ai tempi di Gheddafi e ricercato dal Tribunale penale internazionale, fino alla sua morte avvenuta nel febbraio 2012. Turchia, Russia, Emirati Arabi Uniti e lo stesso Egitto hanno violato l’embargo delle Nazioni Unite sulle armi alla Libia. La Missione di accertamento. Nel giugno 2020, il Consiglio Onu dei diritti umani ha approvato una risoluzione per l’istituzione di una Missione di accertamento dei fatti per indagare sulle violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto libico. “L’accertamento delle responsabilità dev’essere una componente centrale del processo politico in Libia”, ha sottolineato infine Eltahawy. Biden non mantiene la promessa: all’Egitto 197 milioni in missili di Chiara Cruciati Il Manifesto, 18 febbraio 2021 Solide alleanze. “Basta carta bianca ad al-Sisi”, aveva detto il neo presidente Usa ma i rapporti militari restano una colonna portante. L’annuncio nel giorno del caso Sultan. Dopo la sconfitta dell’amico Trump, il regime era corso ai ripari con misure di facciata, preoccupato anche dalla nuova “lobby” dem per i diritti umani. Dopo quattro anni di carta bianca lasciata a Trump al regime di al-Sisi, che l’avvento di Biden alla Casa bianca avrebbe scompigliato un po’ la situazione ce se lo aspettava. O almeno questo emergeva dalle dichiarazioni del democratico prima delle elezioni e nei mesi da presidente-eletto: “Basta con gli assegni in bianco di Trump al suo ‘dittatore preferito’”, come il tycoon apostrofò l’alleato. Dal Cairo ci si attendeva una virata, anche simbolica, di facciata, sulla questione dei diritti umani. Non è successo eppure i rapporti, almeno quelli militari, non ne hanno risentito. Se le autorità egiziane, dopo la pressione globale per il rilascio dei tre membri dell’ong Eipr, hanno ceduto rimandandoli a casa (ma le accuse di terrorismo restano), l’ultimo episodio in ordine di tempo ha ricordato anche a Washington che il lupo il vizio non lo perde: domenica agenti in borghese hanno arrestato a Mounofiya e ad Alessandria sei familiari di Mohamed Soltan, attivista egiziano ed ex prigioniero politico, rilasciato nel 2015 dopo due anni di carcere e un lunghissimo sciopero della fame, poi deportato negli Stati uniti dopo la rinuncia alla cittadinanza egiziana. È da lì che prosegue la sua attività di opposizione al regime con l’organizzazione Freedom Initiative. Ed è da lì che ha lanciato la sua “bomba”: una denuncia alla corte federale di Washington DC contro l’ex primo ministro egiziano Hazem el-Beblawi per le torture subite in prigione, dove fa anche i nomi del presidente al-Sisi e del capo dei servizi segreti Abbas Kamel. Non è la prima volta che il regime prova a fermare Soltan attaccando la sua famiglia. Era già successo nel 2020: cinque familiari vennero arrestati per essere rilasciati poco dopo le elezioni americane. Il padre invece è in carcere dal 2013, condannato all’ergastolo perché tra i leader dei Fratelli musulmani, messi al bando da al-Sisi. Lo stesso Mohamed fu arrestato per aver protestato dopo il massacro di sostenitori islamisti dell’agosto 2013 a piazza Rabi’a, l’atto primo del regime. Il rilascio di novembre 2020 rientrava nella categoria gesti di buona volontà, simile a quello concesso all’Eipr, per disinnescare la mina con cui Biden sembrava minacciare gli storici rapporti con l’Egitto. In particolare, l’intenzione di far dipendere la vendita di armi al rispetto dei diritti umani (vedi Arabia saudita), secondo quanto deciso dal Congresso lo scorso dicembre. Eppure, se è vero che Biden non ha ancora telefonato ad al-Sisi (destino condiviso con il premier israeliano Netanyahu, sempre più nervoso a riguardo) e se è vero che il Dipartimento di Stato ha fatto sapere che seguirà il caso della famiglia Soltan, è di ieri la notizia dell’approvazione alla vendita di 168 missili tattici Raytheon all’Egitto, valore totale 197 milioni di dollari. Erano stati chiesti dalla Marina egiziana per le aree costiere mediterranee e del Mar Rosso. La vendita include anche il supporto tecnico e logistico americano. La motivazione la dà il Dipartimento di Stato in una nota: “L’Egitto continua a essere un importante partner strategico in Medio Oriente”. A conferma dell’inamovibile pacchetto di aiuti militari garantito annualmente al Cairo, 1,3 miliardi di dollari. Quella somma ha cristallizzato nel tempo le relazioni tra Il Cairo e Washington, difficili da scalfire anche nel post-Trump, sincero e indefesso ammiratore di al-Sisi. Da quando la vittoria di Biden è stata certificata al di là di qualsiasi ragionevole dubbio, spiegano funzionari anonimi all’agenzia indipendente Mada Masr, il ministero degli esteri egiziano ha iniziato a lavorare a una serie di proposte per puntellare l’alleanza, dal ruolo regionale (Libia e Palestina su tutto) al possibile allentamento della pressione sulle opposizioni interne. Magari anche qualche rilascio dal carcere - esclusi a prescindere i Fratelli musulmani - un’opzione che però non andrebbe giù ai veri decisori, i servizi segreti. A preoccupare il regime era stata anche la nascita, in occasione del decimo anniversario della rivoluzione, lo scorso 25 gennaio, dell’Egypt Human Rights Caucus, una sorta di lobby formata da parlamentari democratici per fare pressioni su Washington in merito all’Egitto. I 168 missili potrebbero ora far svanire ogni paura. Afghanistan, la donna che costruisce la pace con i Talebani che volevano ucciderla di Angeles Espinosa La Repubblica, 18 febbraio 2021 Fawzia Koofi, avvocata e politica, è una delle quattro componenti femminili della delegazione governativa di Kabul che dialoga con i fondamentalisti. I talebani tentarono di ucciderla nel 2010. Dieci anni dopo, Fawzia Koofi siede di fronte a loro per negoziare il futuro dell’Afghanistan. Nemmeno un ennesimo attentato, in cui fu ferita da una pallottola lo scorso agosto, le impedì di unirsi ai colloqui di Doha poche settimane dopo. A 45 anni, questa politica, nota per la sua difesa dei diritti delle donne afgane, sostiene che quella del dialogo tra coloro che hanno progetti diversi per il Paese è l’unica strada da seguire per mettere fine a quarant’anni di guerra e di miseria. Koofi (nata a Kof Ab, provincia di Badakhshan, nel 1975) inizia la sua carriera politica nel 2001 quando, dopo la caduta del regime talebano, promuove la campagna “Ritorno a scuola” in difesa del diritto delle bambine e delle donne afgane all’istruzione, che gli estremisti avevano loro negato. L’Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia, la nomina responsabile della protezione dei minori. Quattro anni dopo, si candida per il Badakhshan, la provincia dove è nata, alle prime elezioni legislative dell’Afghanistan. Non solo ottiene il seggio, ma è la prima donna afgana ad essere eletta vicepresidente della Wolesi Jirga, la Camera bassa dell’Assemblea Nazionale. Nel 2019, fonda il partito Movimento per il Cambiamento. Ma questa è solo una parte della storia. Il processo che l’ha portata ad essere una delle quattro donne nella delegazione del governo per i negoziati con i talebani ha molto a che fare con la traiettoria della sua vita. Diciannovesima dei 23 figli di un uomo che aveva sette mogli, Koofi fu inizialmente rifiutata da sua madre, che voleva un figlio maschio per conservare l’affetto del marito. Come racconta nella sua autobiografia, “Lettere alle mie figlie” (Sperling & Kupfer), è sopravvissuta dopo essere stata abbandonata per un giorno intero sotto il sole e, contro ogni previsione, è cresciuta per seguire le orme di suo padre, un deputato ucciso dai mujaheddin durante la guerra civile scoppiata negli anni Ottanta del secolo scorso. La morte del padre costrinse i Koofi a cercare rifugio a Kabul e permise a Fawzia di essere la prima bambina della famiglia a frequentare la scuola. Questo non le evitò un matrimonio combinato, che lei accettò. L’uomo che sarebbe diventato suo marito, Hamid Ahmadi, ingegnere e professore di chimica, non era contrario al suo sogno di diventare medico. Ma la sua vita cambiò quando i talebani andarono al potere a Kabul. Oltre a vietare alle donne di studiare, i fondamentalisti islamici misero in prigione Hamid appena 10 giorni dopo il matrimonio, nel 1997. Koofi riuscì a farlo uscire di prigione, ma la tubercolosi che vi aveva contratto gli impediva di lavorare (e avrebbe messo fine alla sua vita nel 2003). La coppia, con Koofi già incinta della loro prima figlia, si trasferì a Faizabad, la capitale del Badakhshan, fuori dal controllo dei talebani, dove lei si dedicò a dare lezioni per mantenere la famiglia, cui presto si aggiunse la seconda figlia. Lì la sua vita privata si intreccia con i primi passi nella vita pubblica. Sconfitti i talebani, studia relazioni internazionali e diventa avvocato. Combattente instancabile per i diritti delle donne e dei bambini, il suo lavoro è all’origine del miglioramento delle condizioni di vita delle donne in prigione, dell’istituzione di una commissione per combattere la violenza (soprattutto sessuale) sui bambini, delle modifiche al codice della famiglia sciita - che riconosceva il diritto allo stupro all’interno del matrimonio, permetteva i matrimoni tra bambini e stabiliva che una donna avesse bisogno del permesso del padre o del marito per studiare, lavorare o andare dal medico - o, più recentemente, della campagna per inserire il nome delle madri sulle carte d’identità. Ma Koofi non si limita a lottare per la causa delle donne. Sostenitrice della democrazia e dell’Islam moderato, crede che l’uguaglianza sia impossibile in un contesto di violenza. Per questo avrebbe voluto candidarsi alla presidenza nel 2014, ma dovette rinunciarci non avendo raggiunto l’età di 40 anni richiesta dalla legge al momento della chiusura delle candidature. Per questo si è anche coinvolta fin dall’inizio negli sforzi per aprire un canale di dialogo con i talebani. Anche prima che il gruppo accettasse di tenere dei colloqui con il governo a Doha, Koofi, insieme all’attivista Laila Jafari, fece parte della prima delegazione della società civile che incontrò i fondamentalisti a Mosca nel 2019. Vedendo che i suoi interlocutori erano tutti uomini, suggerì loro persino di includere qualche donna. I talebani si misero a ridere, ma non era uno scherzo. Koofi stava cercando di capire fino a che punto si fossero evoluti. Ora dicono di accettare che le donne possano studiare e lavorare “nei limiti della legge islamica e della cultura afgana”. Koofi è diffidente. “Non vogliamo essere vittime della pace”, dice. Per lei, pace significa vivere con “dignità, giustizia e libertà”. Ecco perché difende la presenza di truppe straniere in Afghanistan fino a quando non sarà raggiunta una soluzione politica stabile.