Vaccini in carcere, priorità anche ai volontari di Sarah Grieco fuoriluogo.it, 17 febbraio 2021 Aprire anche ai volontari delle carceri italiane la vaccinazione contro il Covid. Continua la campagna de la Società della Ragione. Lo sforzo profuso da La Società della Ragione nella petizione sui vaccini in carcere, che ha raggiunto oltre 1.800 firme, non è stato vano. Tutt’altro. Gli istituti di pena, anche nel dibattito politico, sono finalmente entrati a far parte di quei luoghi che richiedono un’attenzione particolare nel piano vaccini. Attualmente, personale penitenziario e detenuti dovrebbero rientrare nella seconda e terza fascia di vaccinazioni, assieme ad altre categorie specifiche, quali il personale docente e le forze dell’ordine. Come più volte ribadito, tuttavia, le carceri sono comunità chiuse? ed aperte al tempo stesso, dove giornalmente, e per fortuna aggiungerei, accedono molte persone: associazioni di volontariato, insegnanti, tutors, assistenti sociali, psicologi e tutti quei soggetti coinvolti, a vario titolo, in progetti di recupero e reinserimento sociale. Si tratta di un numero di persone non elevato ma che necessita di una tutela rafforzata, così come tutti gli altri ospiti ed operatori dei luoghi di detenzione, dove sovraffollamento e condizioni igieniche rappresentano indubbi elementi di pericolo e diffusione del virus. La formazione del nuovo governo, con l’annunciato potenziamento del piano vaccinale e la? riconferma del ministro Speranza alla Sanità, sono segnali positivi che ci spingono a rilanciare la nostra battaglia. Nella lettera che abbiamo inviato al Ministro della Salute, subito prima della crisi di Governo, abbiamo chiesto un incontro per poter discutere della situazione carceraria durante il Covid, e non solo, e delle priorità sanitarie. Occorre ripartire da qui e far comprendere che anche il volontariato che opera in carcere, e non solo il personale, richiede un’attenzione particolare. E questo per le stesse ragioni che hanno spinto il Governo ad una rimodulazione del piano vaccinale, con un evidente cambio di marcia nei confronti di carcere e detenuti. Rivolte in carcere e presidi di protesta, le linee guida del capo della polizia di Lorenza Pleuteri ilrovescio.info, 17 febbraio 2021 A un anno dalle proteste che causarono la morte di 13 detenuti, una circolare riservata stabilisce le procedure per reprimere sommosse e azioni violente e per contrastare i picchetti. Critiche e perplessità dai direttori dei penitenziari. I dubbi che basti un atto amministrativo per disciplinare competenze in carico a soggetti diversi. Pianificazione a monte, a livello provinciale. Attivazione diretta dei comandanti della polizia penitenziaria, scavalcando i direttori delle carceri, da parte dei questori. Impiego dei reparti Mobili, gli ex celerini, da schierare in caso di rivolte e di manifestazioni di protesta, con una attenzione particolare alle iniziative organizzate da anarchico-insurrezionalisti. Elicotteri e idranti, protezione aerea e navale. Coinvolgimento delle Direzioni investigative antimafia, delle teste di cuoio di Nocs e Gis e pure dei militari dell’operazione Strade sicure. A quasi un anno dalle violente rivolte in decine di case di reclusione e dalla morte di 13 detenuti - una strage senza precedenti - qualcosa si muove. La circolare del capo della polizia - Lo Stato risponde con un atto amministrativo, che codifica procedure e sinergie per prevenire e soprattutto per reprimere future sommosse e azioni di supporto. Con una circolare datata 29 gennaio, tenuta riservata e destinata a far discutere, il capo della polizia Franco Gabrielli stabilisce le modalità di pianificazione dei servizi e gli interventi da attuare in caso di agitazioni e ribellioni dietro le sbarre e di proteste interne o esterne. E attribuisce responsabilità e compiti alle istituzioni e ai soggetti in campo, alla luce delle prerogative generali di prefetti e questori e delle consolidate competenze in materia di ordine pubblico e sicurezza. Domande, critiche e consensi - I rappresentanti dei dirigenti della polizia penitenziaria promuovono le “linee guida”, come vengono definite nell’intestazione del documento, 11 pagine in tutto. Dalla platea dei direttori dei penitenziari e dagli addetti ai lavori si levano voci critiche e preoccupate, in forma anonima. I dissidenti hanno paura a scoprirsi. Ma le domande poste si rincorrono. Basta “solo” una circolare per regolare interventi così delicati e complessi? Non sarebbe serviti almeno dei decreti ministeriali, se non una legge ad hoc? Il capo della polizia ha tutta questa autonomia decisionale oppure ha concordato il testo con i referenti politici del Governo uscente o con i vertici dell’Amministrazione penitenziaria? È vero che le direttive sono in contrasto con la normativa sulle mansioni e le responsabilità dei direttori di carcere? E che cosa ne pensa la neoministra della Giustizia Marta Cartabia? L’elaborazione delle linee guida - Argomenta Gabrielli, nella premessa: le rivolte, la maxievasione di Foggia e i tentativi di fuga “hanno fatto avvertire unanimemente l’esigenza di un più ampio, integrati e pianificato coinvolgimento tecnico-operativo di tutti i soggetti istituzionali deputati a garantire la sicurezza sia all’interno, sia all’esterno degli istituti penitenziari, con l’impiego, ove necessario, anche delle polizie locali e delle strutture destinate al soccorso pubblico e sanitario”. Da qui l’emanazione delle linee guida, lo strumento scelto per delineare “scenari definiti secondo un criterio di crescente minaccia (dalle iniziative di dissenso poste in essere in prossimità della struttura penitenziaria fino all’intervento eccezionale al suo interno) cui corrispondono schemi procedurali individuati al fine di consentire una rapida, efficiente ed omogenea azione e di contrasto”. Niente sarà più lasciato all’iniziativa dei singoli, a soluzioni improvvisate o a iniziative estemporanee, al buon senso di chi in carcere ci sta da anni. Tutto andrà pianificato. Il ruolo di prefetti e questori - La declinazione in sede locale delle direttive del capo della polizia è demandata ai prefetti, chiamati a mettere a punto Pianificazioni generali provinciali con il supporto dei Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza, “sentite le competenti autorità penitenziarie (direttore di istituto e comandante della polizia penitenziaria locale)” e con il contributo informativo e propositivo del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e dei magistrati di sorveglianza. I questori saranno invece tenuti ad occuparsi della attuazione tecnico-operativa di questi piani di sicurezza, con i consueti “tavoli” di concertazione aperti ai comandanti dei reparti locali della polizia penitenziaria, a detective e analisti del Nucleo investigativo centrale e agli ufficiali dell’esercito, nelle località dove i militari effettuano servizi di vigilanza. La gestione degli eventi critici dovrà procedere su un duplice binario: misure di primo intervento e controllo esterno e intervento eccezionale all’interno dei singoli istituti. L’attenzione per gli anarco-insurrezionalisti - Le manifestazioni di protesta sotto le mura delle carceri, “specie se di matrice anarchico-insurrezionalista”, vengono considerate “eventi tali da incidere sull’ordine e sulla sicurezza della struttura penitenziaria” e faranno scattare contromisure ad hoc. Il questore potrà avviare contatti con il comandante della polizia penitenziaria (e non anche il direttore dell’istituto coinvolto, o almeno questo non è stato esplicitato nella circolare), mettere in campo in il reparto Mobile, far levare elicotteri, disporre l’utilizzo di mezzi dotati di idranti. Poliziotti e carabinieri dentro le carceri - L’impiego di poliziotti, carabinieri e finanzieri dentro le strutture penitenziarie è previsto dal regolamento penitenziario ed è richiamato dalla circolare. Considerato “di natura assolutamente eccezionale”, viene ammesso “con il verificarsi di eventi non ordinari, non gestibili con le risorse interne e che non richiedano un intervento immediato”. Se il direttore di un carcere in rivolta chiederà aiuto e rinforzi, tramite il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria o attraverso il prefetto, la gestione e la responsabilità degli interventi passeranno nelle mani del questore. E sarà lui, pure in questo caso, ad avviare contatti con il comandante degli agenti dell’istituto (e anche qui il direttore scompare dalla scena) e a valutar se affidargli il comando delle operazioni o farlo affiancare da un suo funzionario. Non si esclude, nemmeno dentro i penitenziari, l’impiego del reparto Mobile. L’uso della forza fisica e le armi - La circolare di Gabrielli richiama il passaggio della riforma penitenziaria che ammette l’uso della forza fisica e dei mezzi di coercizione per prevenire e impedire atti di violenza, evasioni, resistenze. Non è chiaro se il direttore di un carcere in rivolta dovrà o potrà dare l’autorizzazione a portare armi anche al personale di polizia esterno o unicamente al personale intero, come è già previsto. Non si fa cenno al divieto di forme di violenza e tortura, nonostante le denunce e gli esposti presentati da detenuti che raccontano di abusi e di maltrattamenti durante e dopo le sommosse. Il plauso dei comandanti della polizia penitenziaria - Daniela Caputo, segretaria dell’Associazione nazionale dirigenti e funzionari di polizia penitenzia, in un comunicato spende parole positive per le direttive di Gabrielli: “Esprimiamo grande apprezzamento per le linee guida sugli interventi in caso di manifestazioni di protesta e disordini negli istituti penitenziari. Si tratta di una circolare di portata eccezionale. Per la prima volta, anche se con ritardo, l’autorità di pubblica sicurezza considera la polizia penitenziaria operativamente parte integrante del sistema pubblica sicurezza”. I timori e le riserve dei direttori di istituto - Rosario Tortorella, segretario nazionale del Sindacato direttori penitenziari, giura di non essere al corrente né della circolare né delle posizioni critiche e preoccupate che si registrano negli ambienti carcerari. “Non la conosco. Non l’ho letta. A noi non l’hanno mandata. E non abbiamo avuto segnali di dissenso da parte di nostri iscritti”. Alcuni direttori, invece, rumoreggiano, restando per ora nelle retrovie. L’ordinamento vigente - ricordano - prevede che siano loro stessi a dover “salvaguardare costantemente le condizioni di ordine e disciplina negli istituti penitenziari, nel pieno rispetto della dignità della persona e per il soddisfacimento delle esigenze di sicurezza della collettività”, il tutto “avvalendosi del personale penitenziario e non venendo esautorati dal questore o da un suo collaboratore”. Altre considerazioni critiche, e una domanda polemica, dal fronte degli addetti ai lavori. “Il capo della polizia ha fatto tutto da solo oppure ha scritto la circolare almeno con l’assenso del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, se non dei ministri competenti? Se così non fosse, avrebbe commesso una invasione di campo senza precedenti, entrando in competenze proprie dell’amministrazione penitenziaria. Gabrielli liquida il potere dei direttori come residuale. Dovrebbero chiamare rinforzi e poi sparire. Invece ai direttori compete il pieno esercizio delle responsabilità attribuite dalla legge, con la collaborazione piena del personale di polizia penitenziaria e prima ancora con la partecipazione ai tavoli tecnici convocati nelle questure, da cui sembrano tagliati fuori”. Un’ostinata razionalità per non essere trascinati nella “questione criminale” di Mauro Palma, Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella Il Manifesto, 17 febbraio 2021 I 30 anni dell’Associazione Antigone. Nessuno, giudice o custode, ha nella propria disponibilità la dignità e i diritti fondamentali delle persone arrestate o detenute. Ci disse un capo dell’amministrazione penitenziaria: “La tortura sta nel terzo mondo”. Poi ci furono: carcere di Sassari e Global Forum di Napoli, scuola Diaz e Bolzaneto... e tanti fatti di “cronaca”. Ha ancora senso, dopo trent’anni, interrogarsi sull’intuizione che si ebbe nel 1991 quando si decise di dar vita a un’associazione volta alla tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Quel che è accaduto negli ultimi tre decenni ci racconta di quanto quell’intuizione sia servita a controbilanciare la progressiva esondazione delle politiche criminali e, più genericamente, repressive. I numeri della popolazione detenuta sono un indice di questa presenza ingombrante: se nel ‘91 i detenuti erano poco più di 30 mila, oggi - nonostante le scarcerazioni dovute all’emergenza pandemica in corso - sono oltre 53 mila, avendo nell’arco del trentennio quasi raggiunto il picco dei 70 mila. E nel frattempo si è moltiplicata per dieci l’area penale esterna, senza però che questo aumento abbia parallelamente scalfito la crescita della pena detentiva e, quindi, i numeri del carcere. Sono passati trent’anni lungo i quali abbiamo assistito e fatto opposizione a una diffusa deriva securitaria. Mentre con sguardo miope si osservava estasiati, sia da destra che da sinistra, il modello della zero tolerance proposto oltreoceano dall’allora sindaco di New York Rudolph Giuliani, Antigone si affidava a un’ostinata razionalità affinché non si trascinasse nella questione criminale ciò che avrebbe dovuto avere solo ed esclusivamente rilevanza sociale: l’immigrazione, la povertà diffusa, l’uso di sostanze stupefacenti. Intellettuali che “si baloccano con Cesare Beccaria”: così ci siamo sentiti qualificare su qualche giornale mainstream quando contrastavamo uno dei tanti pacchetti sicurezza che se la prendeva con i lavavetri al grido che i rumeni sono tutti delinquenti. All’epoca Rudolph Giuliani andava di moda, era considerato un totem. Oggi è trattato come l’avvocato pazzo di Trump. Noi siamo invece rimasti fedeli a quell’opzione garantista che sa scorgere le possibili derive del potere di punire. E vi siamo rimasti fedeli anche quando la parola ‘garantismo’ è stata maltrattata, strumentalizzata, abusata, oppure accusata di correità con il nemico o con il criminale. In tutto questo, il manifesto è stato sempre al nostro fianco. Uno straordinario e leale compagno di viaggio, sin da quando Antigone, prima ancora di divenire associazione, era una rivista di critica dell’emergenza che usciva in edicola insieme a questo giornale. Erano gli anni in cui il primo avvio dell’allora recente riforma penitenziaria, che poneva l’esecuzione penale in linea con il dettato costituzionale, veniva contraddetto da provvedimenti adottati sulla spinta del contrasto alla lotta armata portata avanti da settori minoritari di movimento: era importante documentare i rischi del modello penale che si andava diffondendo, nelle prassi oltre che nelle norme, e l’iniziativa editoriale che affiancava il manifesto offriva lo spazio d’interpretazione e di ricomposizione della lacerazione che si era prodotta. Con il giornale abbiamo continuato nel tempo a camminare insieme ogni volta che abbiamo promosso campagne o battaglie, dall’abolizione dell’ergastolo alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, fino all’introduzione del delitto di tortura nel codice penale. Le ragioni di Antigone sono ancora tutte in piedi. Esse si trovano, da un lato, nella necessità di svelare le ipocrisie di un’idea vendicativa e retributiva di giustizia e, dall’altro, in quella di definire i confini invalicabili per chi detiene il potere di punire. Nessuno, giudice o custode, ha nella propria disponibilità la dignità e i diritti fondamentali delle persone arrestate o detenute. Questo principio, che oramai è parte del diritto interno e internazionale, fa fatica a trovare attuazione nei luoghi di privazione della libertà. Per questo Antigone, alla fine degli anni Novanta, decise di impegnarsi su tre fronti: l’osservazione diretta delle carceri, effettuata da propri volontari nella consapevolezza che lo sguardo esterno ha capacità tanto di lucida narrazione quanto di prevenzione rispetto a tentazioni di abusi; l’istituzione di una figura di garanzia dei diritti delle persone private della libertà, nei diversi luoghi ove queste sono ristrette per una varietà di ragioni, da quella penale a quella dell’irregolarità amministrativa o solo per le vicissitudini nello svolgersi della vita; la previsione del crimine di tortura. La tortura, ci disse un capo dell’amministrazione penitenziaria sul finire del millennio, è qualcosa che riguarda il terzo mondo. Poi ci furono le violenze nel carcere di Sassari e al Global Forum di Napoli, le torture alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, tanti altri fatti di cronaca che avrebbero potuto avere altro esito giudiziario se quel crimine non fosse stato introdotto solo nel recente 2017. Ma la tenacia di un’associazione è anche questa: portare avanti una campagna per vent’anni senza stancarsi di spiegarne le ragioni. Anche quando sembrano ovvie, scontate. Abbiamo imparato che nulla, ma proprio nulla, va dato mai per scontato; sapendo bene che molti dei traguardi non sono ancora vicini e necessitano di un’ampia azione di natura culturale. In questi trent’anni abbiamo avuto al nostro fianco tanti avvocati, magistrati, professori universitari, ricercatori, insegnanti, attivisti. E negli ultimi tempi anche tantissimi studenti e giovani che trovano nella mission di Antigone una ragione di impegno. Ciò costituisce un punto di forza e una speranza per il futuro. Il garantismo come legge del più debole e dell’oppresso, contro il potere di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 17 febbraio 2021 I 30 anni dell’Associazione Antigone. La nostra giustizia penale è classista: nelle carceri ci sono tossicodipendenti immigrati e condannati per reati di strada. Il diritto penale - almeno luogo dell’uguaglianza davanti alla legge - è diventato il luogo della massima disuguaglianza. Perché quel nome alludeva al punto di vista esterno - il punto di vista della giustizia, della morale e della politica - con cui intendevamo guardare alle durezze e alle iniquità del diritto penale, alle involuzioni inquisitorie dei processi e alle condizioni di illegalità delle nostre carceri. Allora, alla nascita della prima serie della rivista - nel 1985, sei anni prima della nascita dell’Associazione, nel 1991 - la nostra critica si rivolgeva alla legislazione e alla giurisdizione d’eccezione, che in quegli anni avevano ridotto il già debole sistema delle garanzie del corretto processo. Il nostro richiamo ad Antigone si identificava perciò con l’opzione per il garantismo penale contro le degenerazioni indotte dall’emergenza del terrorismo e manifestatesi nelle leggi eccezionali e in taluni grandi processi di stampo inquisitorio, a cominciare da quello del 7 aprile contro l’Autonomia operaia. Si trattava di una battaglia in difesa delle garanzie penali e processuali proprie dello stato di diritto. Ed è sintomatico dell’arretratezza del nostro sistema politico il fatto che quella battaglia, puramente liberale, fosse condotta da quella che allora era la sinistra cosiddetta estrema. Ma l’Antigone che Rossana volle come nome della nostra rivista e alla quale dedicò, proprio in quegli anni, uno splendido saggio, simboleggiava molto di più. Esprimeva, in primo luogo, le virtù politiche che Rossana ammirava e che lei stessa impersonava: la radicale autonomia del punto di vista esterno al diritto e alle istituzioni; l’intransigenza morale e politica; la difesa delle persone contro il potere e, soprattutto, degli oppressi contro i loro oppressori. Incarnava, in secondo luogo, la legge della ragione e, insieme, la legge del più debole, che se nel momento del delitto è la parte offesa, nel momento del processo è l’imputato e nel momento della pena è il condannato. Si capisce come in questo senso il garantismo fosse allora e sia tuttora ben lontano dal garantismo scoperto in Italia dalla destra all’indomani delle prime incriminazioni di Silvio Berlusconi. L’appello al garantismo quale sistema di limiti imposti alla sola giurisdizione penale si è infatti coniugato, presso la nostra destra, con l’insofferenza per ogni limite e controllo giuridico, fino alla pretesa dell’impunità, nei confronti sia del potere politico che di quello economico. Di qui il carattere classista della nostra giustizia penale, attestato dalla composizione della popolazione carceraria. In carcere ci sono solo tossicodipendenti, immigrati e condannati per reati di strada. È questa disuguaglianza che “Antigone” ha sempre denunciato nei suoi 30 anni di vita. Nel paese più corrotto d’Europa, i corrotti detenuti sono un’infima minoranza. Il diritto penale - luogo, nel suo modello normativo, quanto meno dell’uguaglianza davanti alla legge - è diventato, di fatto, il luogo della massima disuguaglianza. Non solo riproduce le disuguaglianze presenti nella società, ma ha ormai codificato discriminazioni e oppressioni modellate sugli stereotipi classisti e razzisti del “delinquente sociale”, oltre che “naturale”, con leggi e prassi tanto severe con la delinquenza di sussistenza quanto indulgenti con quella del potere. È perciò una riflessione sul garantismo e sulla democrazia che oggi viene sollecitata da questo trentesimo anniversario di “Antigone”. Il garantismo invocato dalle destre suppone una concezione assolutistica sia della democrazia che del liberalismo. Suppone, precisamente, due forme convergenti di assolutismo, contrarie entrambe al sistema di vincoli e contrappesi nel quale il garantismo consiste: l’assolutismo delle maggioranze, legittimate dal voto popolare che varrebbe a consentirne ogni abuso inclusi i reati commessi dai suoi esponenti, e l’assolutismo del mercato, concepito a sua volta come il luogo delle libertà che sarebbe illiberale limitare con regole e controlli; in breve, l’assolutismo dei poteri politici come di quelli economici, sempre più spesso, oltre tutto, tra loro confusi o collusi. Al contrario il garantismo penale che sempre ha animato le battaglie della nostra “Antigone” è solo un aspetto del garantismo quale modello generale del diritto e della democrazia. Tutti i diritti fondamentali, infatti, equivalgono ad altrettante leggi del più debole contro la legge del più forte che vige in loro assenza. Con garantismo s’intende quindi, in questa più larga accezione, un sistema politico che estende il paradigma classico dello stato di diritto in due direzioni: da un lato a tutti i poteri, non solo a quello giudiziario ma anche a quello legislativo e a quello di governo, e non solo ai poteri pubblici ma anche a quelli privati; dall’altro a tutti i diritti, non solo a quelli di libertà, ma anche a quelli sociali e del lavoro, con conseguenti obblighi oltre che divieti a carico sia della sfera pubblica dello Stato che della sfera privata del mercato. Dagli anni di piombo al populismo penale, trent’anni di giustizia di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 febbraio 2021 I 30 anni dell’Associazione Antigone. Dapprima era una rivista, edita dal manifesto a partire dal marzo 1985, bimestrale di critica all’emergenza terrorismo. L’associazione Antigone nasce il 18 febbraio 1991. Detenzione domiciliare, divieto di estradizione verso i Paesi dove vige la pena di morte, lotta alle tossicodipendenze in cella: molte le battaglie vinte. In principio fu una rivista, edita dal manifesto a partire dal marzo 1985: articoli lunghissimi, quasi dei trattati di filosofia politica, perlopiù assolutamente improponibili al giorno d’oggi, scritti da un gruppo di intellettuali, giuristi e politici che decisero di andare controcorrente, combattendo una battaglia garantista proprio mentre la vulgata comune si inchinava alla mano pesante dello Stato nei confronti dei protagonisti dei cosiddetti Anni di piombo. Scelsero l’archetipo della detenuta, Antigone, per dare nome al “Bimestrale di critica dell’emergenza” con il quale Stefano Rodotà, Massimo Cacciari, Mauro Palma, Luigi Ferrajoli, Rossana Rossanda, Luigi Manconi, Luca Zevi, Papi Bronzini e altri intendevano aprire una spazio di riflessione e dibattito anche tra culture molto diverse, facendo tesoro soprattutto del lavoro di monitoraggio del “Centro di documentazione sulla legislazione di emergenza” fondato all’inizio degli anni Ottanta dallo stesso Palma insieme a Rossanda, Bronzini, Ferrajoli, Gianni Palombarini e Luigi Saraceni. Loro che per anni avevano trascorso intere giornate nelle aule di giustizia dove si svolgevano processi come quello dei “7 aprile” a carico di esponenti del movimento extraparlamentare e di Autonomia Operaia. La rivista però non durò molto, e il 18 febbraio 1991 alcuni di quegli uomini e quelle donne passarono dalla teoria alla pratica fondando l’Associazione Antigone. È l’anno della Uno Bianca, della guerra del Golfo, del capitano Cocciolone, della fine dell’Apartheid, del primo mega sbarco di immigrati (albanesi) in Italia, della dissoluzione dell’Unione sovietica. Da noi continuavano le stragi di mafia, e nel 1992 venne introdotto davvero il carcere duro del 41bis. Di lì a poco sarebbe esplosa pure tangentopoli e la prima Repubblica si sarebbe estinta. Ma intanto, dopo l’ultima amnistia del 1990, anno in cui viene varata la legge sugli stupefacenti Jervolino-Vassalli e nasce il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, comincia a crescere il numero di detenuti nelle carceri italiane: se nel 1989 erano 29.157, e nel 1990 erano 24.844, nel ‘91 si saliva a 34.236 e nel ‘92 si raggiungeva quota 46.273 (con la curiosa stabilità del numero delle detenute, che si aggirava sempre attorno alle 2 mila, come oggi). Nel 1990 la percentuale di positivi all’Hiv era del 9,7%, iniziava la lotta all’Aids in carcere e nel giro di quindici anni quella percentuale scenderà al 2,5%, così come la prevalenza di positività per Hiv nei detenuti tossicodipendenti per via endovenosa passerà dal 32,6% all’8,1% tra il 1990 e il 2005. Antigone pone il tema di un “diritto penale che occupi meno spazi”, di una giustizia più efficace, rispettosa dei diritti umani e più giusta. Insiste fin da subito nella riforma del codice Rocco di era fascista, ormai disallineato alla Costituzione italiana. “Intendiamo riprendere e proporre all’opinione pubblica una riflessione sugli anni 70 e sull’insorgenza della lotta armata come fenomeno sociale e politico - spiegò Rossanda presentando alla Camera la neonata associazione insieme a Mauro Palma, primo presidente, all’eurodeputato verde Franco Russo e all’allora giornalista Nichi Vendola - e giungere a un riesame del ‘delitto’ politico, ottenendogli l’indulto. In passato già tentammo, ma senza successo perché restarono sorde non solo la gran parte delle forze politiche ma anche la stampa, che è diventata cassa di risonanza dei governi e, per quanto riguarda i processi, della pubblica accusa, rompendo così una sua tradizione di libertà. Una tendenza, questa, che andrebbe capita e analizzata”. Quando poi, nonostante l’indulto del 2006 difeso da pochissimi tra cui Antigone, nel 2010 si tocca il picco storico di 67961 detenuti (quasi 23 mila in più rispetto alla capienza regolamentare), l’associazione aveva già raccolto migliaia di ricorsi di detenuti contro il sovraffollamento. E così, dopo il caso Sulejmanovic del 2009, si arrivò nel 2013 alla condanna dell’Italia con sentenza pilota da parte della Corte di Strasburgo. Da allora qualcosa - anche se non abbastanza - è cambiato: alcune riforme hanno effettivamente decongestionato le carceri, malgrado il pregevole lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale promossi nel 2017 dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando sia stato vanificato dal populismo penale grillino. Insomma, in questi trent’anni il ruolo dell’associazione oggi presieduta dal giurista Patrizio Gonnella (un passato anche come direttore di vari istituti penitenziari) è stato più volte dirimente nell’evoluzione democratica del sistema di esecuzione penale e più in generale della giustizia italiana. Per esempio, grazie al lavoro di advocacy di Antigone alla fine degli anni ‘90 si arriva a una disciplina legislativa che favorisce la detenzione domiciliare per chi ha contratto l’Aids, mentre nel 1996 l’associazione promuove i ricorsi contro l’estradizione di Pietro Venezia negli Usa dai quali scaturirà poi la sentenza costituzionale che vieta l’estradizione verso Paesi e per reati per i quali sia prevista la pena di morte. Pure l’introduzione nel nostro ordinamento penale, nel 2017, del reato di tortura lo si deve senz’altro anche alle ripetute campagne promosse negli anni dalle organizzazioni che si battono per i diritti dei detenuti, cui Antigone ha fatto da apripista: già nel 1998 infatti aveva portato in parlamento una proposta di legge ad hoc affidata alla senatrice Ersilia Salvato, e aveva tentato anche l’istituzione del difensore civico dei detenuti, che poi nascerà nel 2014 nell’attuale forma del Garante. Riferimento nazionale del Cpt europeo, Antigone colleziona denunce fin da quando nel 2000 solleva il caso delle violenze e delle torture nel carcere di Sassari, nel 2001 quello della repressione durante il Napoli Global Forum e subito dopo denuncia la “mattanza” di Genova Bolzaneto. La prima metà degli anni Duemila sono quelli delle leggi ex-Cirielli (recidiva), Bossi-Fini (immigrazione) e Fini-Giovanardi (droghe). Antigone avvia una campagna contro queste tre leggi e raccoglie decine di migliaia di firme, dando inizio ad un’erosione continua nel tempo che ha portato la legge ex-Cirielli ad essere smantellata da sentenze e successive riforme normative, e la Fini-Giovanardi a dissolversi sotto i colpi della Consulta. Purtroppo però lo stesso non si può dire con la campagna per l’abolizione dell’ergastolo avviata nel 1992, che non è ancora congedabile. Instancabile comunque sempre nella lotta per i diritti dei detenuti, nel solo ultimo anno Antigone ha collezionato una serie di esposti in procura per le torture che sarebbero avvenute in alcune carceri (come quelle denunciate nell’aprile 2020 all’interno dell’istituto di Santa Maria Capua Vetere). Nel 2010 insieme al manifesto promuove una campagna per aprire le porte delle carceri ai giornalisti. L’allora capo del Dap Franco Ionta risponde positivamente alla mobilitazione che aveva coinvolto giuristi, intellettuali e politici, e per molto tempo gli istituti penitenziari rimarranno in effetti facilmente accessibili ai cronisti, con procedure chiare e trasparenti. Prima dell’amministrazione Basentini, prima che in via Arenula arrivasse il ministro grillino Alfonso Bonafede. Giuliano Pisapia: “L’associazionismo può cambiare l’Europa” di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 febbraio 2021 I 30 anni dell’Associazione Antigone. Parla l’ex sindaco di Milano, europarlamentare S&L e vicepresidente della commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo. “Dal 9 maggio al via la nuova Commissione, luogo di ascolto del territorio e delle organizzazioni civili da parte delle istituzioni Ue”. L’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, europarlamentare S&L e vicepresidente della commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo, da sempre è una delle personalità più vicine all’associazione Antigone, con la quale ha collaborato in numerose occasioni. Onorevole, qual è il primo risultato che le viene in mente tra i più importanti ottenuti dall’associazione Antigone? Di battaglie importanti ce ne sono state tante, alcune siamo riusciti a vincerle anche insieme a tante altre associazioni. Ma Antigone ha da sempre una caratteristica che non è di molti: non si limita a criticare o a denunciare, ma fa sempre proposte concrete sulla base di dati reali ed esperienze vissute. Penso al tema delle misure alternative al carcere, che all’inizio ha visto erigersi alti muri, ma che sono oggi una realtà positiva (anche se sarebbe necessario più coraggio). Ma direi che la grande battaglia è stata, ed è, quella sui diritti dei detenuti nella quale Antigone ha avuto un ruolo fondamentale. Sembrava un’iniziativa di pochi, è diventata un’iniziativa italiana ed europea. Quando ero sindaco di Milano abbiamo istituito non solo il garante comunale dei diritti delle persone private della libertà ma anche il garante dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e la delegata alle pari opportunità e alla parità di genere. Guardando all’Europa e a come ha reagito sulla questione di Giulio Regeni e Patrick Zaki, quale potere ha l’associazionismo nel far cambiare passo alle istituzioni europee nella tutela dei diritti umani? Come parlamentare europeo da soli due anni ho un’esperienza limitata ma molto positiva sul tema dei diritti, del carcere e delle garanzie. Ma quando si parla di Europa bisogna tenere conto che ci sono tre istituzioni indipendenti. Il Parlamento europeo, eletto dai cittadini, che ha preso posizioni molto forte nei confronti dei Paesi che violano i diritti umani, civili e politici e che ha deciso anche sanzioni nei loro confronti. La Commissione europea che pure va in questa direzione. Il blocco e il silenzio assordante in molte occasioni in cui l’Europa dovrebbe dimostrare forza e unità è purtroppo il Consiglio europeo, al quale partecipano i rappresentanti dei governi dei Paesi membri, e dove per le decisioni più delicate è necessaria l’unanimità. Lì basta un singolo Paese - come è già capitato con l’Ungheria, la Polonia e altri - per azzerare le decisioni prese dalle altre istituzioni. Ecco, bisogna superare questa assurdità e questo potrà avvenire solo se vi sarà una spinta e una mobilitazione dal basso verso l’alto. Posso anticipare che finalmente nei prossimi mesi dovrebbe vedere la luce la “Conferenza sul futuro dell’Europa” che sarà un luogo di ascolto del territorio da parte delle istituzioni europee. Questa conferenza durerà 9 o 12 mesi e, su temi come quelli dello stato di diritto, della pace e della solidarietà, l’associazionismo potrà dare un contributo fondamentale per superare l’attuale normativa che fa vincere gli egoismi dei singoli Stati. Se ne parla da mesi, ora l’iniziativa si sta concretizzando? Alla proposta hanno aderito la Commissione europea e il Parlamento a grande maggioranza. Doveva iniziare lo scorso maggio ma è stata rinviata al 9 maggio 2021 perché si è ritenuto fondamentale il rapporto diretto anche col territorio. I dibattiti, i confronti, le riunioni on line, che evidentemente sono indispensabili in periodi di emergenza, non debbono far venire meno la possibilità di partecipare a chi non ha la possibilità di collegarsi in rete. Lei nel giugno 2006 fu a capo di una Commissione per la riforma del codice penale italiano: mettendo a frutto anche il lavoro di tre precedenti commissioni, elaborò una proposta di riforma che conteneva tra l’altro l’abolizione dell’ergastolo, la limitazione della durata dei processi, argini alla discrezionalità dei giudici, decise depenalizzazioni. Oggi di quelle sue proposte non rimane nulla? Si, ho avuto l’onore di presiedere quella Commissione e avevamo elaborato un testo che, partendo dal diritto penale minimo e mite, aveva fatto molte proposte concrete, realizzabili e garantiste che avrebbero diminuito i tempi processuali ma non a scapito delle garanzie. Le nostre proposte erano già assegnate alla commissione Giustizia del Senato quando è caduto il governo Prodi e il cammino riformista si è fermato. Non solo, ma negli ultimi anni le varie maggioranze parlamentari sono andate proprio nella direzione opposta. Qual è il suo giudizio sull’imprinting dato al sistema italiano di giustizia dal ministro Bonafede? Una parte delle proposte avanzate dalla Commissione del 2006 sono state fatte proprie dal ministro Orlando, purtroppo bloccate poi dal governo M5S- Lega. Successivamente si è pure aggiunta la norma sulla prescrizione, ahimè approvata anche dal Pd, che è molto negativa e in aperto contrasto con la nostra Costituzione che garantisce, o dovrebbe garantire, il giusto processo e la sua “ragionevole durata”. Quindi non solo non sono stati fatti passi avanti, ma si sono fatti molti passi indietro sui temi fondamentali del diritto di difesa nel processo penale. Cosa si aspetta dalla nuova ministra Marta Cartabia? Ci ridà la speranza di vere riforme che incidano positivamente non solo sui tempi dei giudizi civili ma anche sui tempi troppo lunghi della giustizia penale e sulle condizioni, spesso disumane e degradanti, delle nostre carceri. La ministra della giustizia è stata ordinaria di Diritto Costituzionale e Presidente della Corte Costituzionale e ha sempre mostrato concretezza e attenzione ai temi dei diritti e della giustizia. Il sistema di giustizia italiano è in linea con gli altri Paesi europei? Cosa si aspetta l’Europa da noi in questo campo? Sulla giustizia e sulle condizioni carcerarie siamo fanalini di coda: la durata media dei processi civili e penali è di gran lunga maggiore di quella di altri Paesi europei. Anche sulle condiziono delle nostre carceri siamo maglia nera. Proprio per questo una delle priorità dell’attuale governo dovrà essere una vera riforma della nostra giustizia. Lo ha detto esplicitamente l’Unione europea: per poter beneficiare delle ingenti somme messe a disposizione dal “Next generation Eu” l’Italia dovrà fare alcune riforme ferme da tempo e non procrastinabili. Tra le priorità vi è la riforma della giustizia. Spero che questa possa essere la volta buona…ma non sono molto ottimista. Codice Rocco, dopo 90 anni eliminare un rudere di Katia Poneti Il Manifesto, 17 febbraio 2021 “Senza casa, senza lavoro”: è l’eloquente titolo del seminario, organizzato dal Garante dei detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano, che ha rimesso con forza al centro del dibattito il tema delle misure di sicurezza. Misure comminate in aggiunta alla pena detentiva, quando la persona è considerata particolarmente pericolosa e dichiarata “delinquente abituale, professionale o per tendenza”. Sono 335 le misure detentive in atto al 31 gennaio di quest’anno in sei strutture. Un numero esiguo, che rischia per questo di restare invisibile; una condizione di sostanziale ingiustizia che non può essere ignorata. La casa di lavoro e la colonia agricola erano state pensate, nel clima politico e culturale degli anni Trenta del secolo scorso, come mezzi per raddrizzare, attraverso il lavoro forzato, quelle persone per le quali la pena non era ritenuta sufficiente. Passato quasi un secolo, le misure di sicurezza sono ancora là, “ruderi mal collocati e che continuano a far danno”, come le ha definite Franco Maisto. Le misure di sicurezza contrastano con i principi garantisti affermati dalla Costituzione perché non sono diverse, nella sostanza, dalla pena detentiva, e in molti casi realizzano una forma surrettizia di ergastolo. Se ne potrebbe, per questo motivo, mettere in dubbio la legittimità costituzionale. La Consulta dovrà confrontarsi a breve con questo istituto e forse sciogliere qualche nodo, visto che la Corte di Cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 41bis O.P., in quanto consente di applicare il regime di rigide restrizioni anche dopo la fine della pena, a quelle persone assoggettate a misura di sicurezza detentiva. La politica ha difficoltà nel fare riforme su temi cruciali per i diritti dei detenuti, mentre le spinte al cambiamento arrivano da decisioni giurisprudenziali, così anche la proposta di riforma delle misure di sicurezza, elaborata della Commissione presieduta dal Prof. Marco Pelissero, rimase bloccata. Le Case Lavoro sono collocate in sezioni degli istituti penitenziari, in cui gli internati conducono la stessa vita dei detenuti, e il lavoro, che dovrebbe caratterizzarle, manca. Quale lavoro dovrebbe essere svolto dai reclusi? Non certo quello che aveva in mente il legislatore del 1930, un’idea terapeutica di lavoro attraverso la coazione, da cui è bene allontanarsi dice Stefano Anastasia, Garante della Regione Lazio e dalla Regione Umbria. Servirebbe piuttosto un lavoro dignitoso, retribuito in modo giusto, e volontario, come previsto dal nuovo art. 20. O.P., che ha abolito l’obbligatorietà del lavoro detentivo. Un lavoro che sia la base di un reinserimento sociale reale per le persone internate, che per la maggior parte si trovano recluse in quanto si ritiene che, una volta uscite, torneranno a delinquere, perché sono senza fissa dimora, non hanno supporti affettivi, hanno problemi di dipendenze. La testimonianza della Garante di Biella, Sonia Caronni, conferma che la marginalità sociale caratterizza i reclusi in Casa Lavoro, e rende necessario pensare a percorsi di reinserimento sociale di persone con particolari difficoltà di recupero. Sembra improcrastinabile l’iniziativa di riforma legislativa, proposta da Franco Corleone. A partire dal principio di reinserimento sociale affermato dalla Costituzione e dall’Ordinamento penitenziario, è necessario superare le Case di Lavoro e pensare invece a luoghi non detentivi, case che siano veramente tali e contesti di lavoro protetti, prevedendo misure alternative di reinserimento sociale. I Garanti (ne hanno discusso il Garante nazionale Mauro Palma e Alessandro Prandi, Garante di Alba) possono fare molto per modificare lo stato di cose, e sarebbe bello festeggiare i 90 anni dall’entrata in vigore del Codice Rocco, nel prossimo luglio, con l’abolizione delle misure di sicurezza, segno di una archeologia criminale. Viaggio nell’inferno degli internati aspettando la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 febbraio 2021 La Corte costituzionale dovrà esprimersi sulla legittimità degli internati al 41bis, dopo il ricorso accolto dalla Cassazione. Sono detenuti che hanno finito di scontare la pena, ma rimangono in carcere perché considerati ancora socialmente pericolosi. Parliamo degli internati. Sulla carta vengono raggiunti da una misura di sicurezza presso una “casa lavoro”. Ma è sempre in carcere: le case lavoro hanno celle, sbarre, agenti e addirittura gli internati non godono dei benefici penitenziari dei detenuti stessi. “Oggi le case lavoro sono popolate da disperati, malati di mente, tossicodipendenti, infermi, stranieri senza documenti, persone fragili”, dice Alessandro Prandi, Garante della Città di Alba, intervenendo nel convegno organizzato da Bruno Mellano, il garante della regione Piemonte. È un incontro in videoconferenza, intitolato “Senza Casa, senza Lavoro: gli internati in misura di sicurezza e il caso Piemonte”, organizzato dal garante piemontese. Abruzzo, Emilia Romagna e Piemonte sono le regioni con più internati - “La nostra regione, del resto, con 53 internati nella sede di Biella, è sul podio per numero di soggetti interessati. 78 sono in Abruzzo, 54 in Emilia Romagna, 35 in Sicilia, 23 in Sardegna eccetera”, ha ricordato Mellano, chiarendo che “la situazione subalpina è ancora più difficile, perché al momento si definisce Casa-Lavoro una sezione del carcere di Biella, con la prospettiva incerta di spostare gli internati suddividendoli fra Alba ed Alessandria. Sempre rigorosamente in ambito penitenziario”. Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, ha portato un saluto iniziale, ricordando che “l’attuale casa lavoro ha poco di dissimile rispetto alla detenzione e nel caso di rilascio le persone si ritrovano a tornare nel loro contesto, ma senza casa e senza lavoro”. D’accordo anche Sonia Caronni esperta di esecuzione penale, Garante della Città di Biella, ricordando che “si tratta di percorsi di reclusione lunghissimi, che alienano totalmente dalla vita esterna le persone che passano anni e anni all’interno di queste strutture. È risultato quasi impossibile il reinserimento nella società, quando abbiamo provato”. Per Francesco Maisto, Garante dei detenuti di Milano, “il concetto di pericolosità sociale ha un’inconsistenza scientifica. La domanda a questo punto è: assimilando di fatto la pena e la misura detentiva a queste misure restrittive, non è fondato porre una questione di costituzionalità su questo punto?”. Katia Poneti, esperta giuridica presso il Garante della Toscana, ha sottolineato che “i reclusi non sono persone con una carriera criminale, ma molto spesso soggetti con gravi problemi personali”. Per Marco Pellissero, Docente di Diritto Penale dell’Università di Torino, “le misure di sicurezza per i soggetti imputabili sono anche una palese truffa delle etichette, specie quando l’esecuzione della misura si identifica sostanzialmente con l’esecuzione della pena”. Stefano Anastasia, Portavoce nazionale dei Garanti regionali e territoriali, ha concluso i lavori sostenendo che “le necessità di contenere la marginalità è frutto di una cultura penalistica e giuridica del secolo scorso, che io considero incompatibile con i principi costituzionali. Oggi è decontestualizzata rispetto a quella casa di lavoro che si pensava di realizzare e quindi dovremmo semplicemente e radicalmente cancellarla”. Residuo della concezione fascista - Gli internati - definizione che richiama il vecchio linguaggio manicomiale - vivono in carcere a tempo quasi indeterminato, nonostante non abbiano una pena inflitta. Il rischio è di scontare, di fatto, una lunghissima pena nonostante abbiano già fatto i conti con la giustizia. Gli internati, infatti, chiamano la loro condizione “ergastolo bianco”, perché la misura di sicurezza può essere prorogata diverse volte. Il motivo? Subentra un meccanismo nel quale, non lavorando di fatto, gli internati non offrono elementi per far valutare ai giudici la loro cessata o diminuita pericolosità. A quel punto non possono che scattare le proroghe dell’internamento. Prima del 2014, il rischio di chi è internato era davvero quello di scontare una pena perpetua. A far fronte a questo problema, ai sensi dell’art. 1 comma 1ter del D.L. 31 marzo 2014 n. 52 così come convertito in legge 30 maggio 2014 n. 81, si prevede che “le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima”. Questi internamenti sono misure che risalgono al codice fascista Rocco, non a caso diversi giuristi le definiscono “reperti di archeologia giuridica”. Reperti che hanno anche una definizione ben precisa “il doppio binario”. In attesa della Consulta sul 41bis - Come annunciato da Il Dubbio a settembre scorso, la Cassazione ha accolto il ricorso degli avvocati Valerio Vianello Accorretti e Piera Farina, chiedendo alla Consulta di esprimersi sulla legittimità degli internati al 41bis. La corte di Cassazione ha infatti recepito il problema e ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del 41bis comma 2 e 2 quater, nella parte in cui prevedono la facoltà di sospendere l’applicazione delle regole di trattamento nei confronti degli internati. La Cassazione, oltre a fare riferimento alla violazione dei vari articoli della Costituzione, ha anche fatto riferimento all’articolo 4 del protocollo 7 della Cedu. Un passaggio significativo, perché tale articolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo parla del diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso fatto. In effetti, applicare il 41bis a una persona che ha finito di scontare la sua pena è una doppia punizione. Dalle motivazioni, si evince che la prima sezione della Cassazione censura la sottoposizione degli internati al 41bis con riguardo a tre aspetti. Il primo. Il regime del 41bis applicato agli internati rende sostanzialmente identico il concreto regime applicativo della pena e della misura di sicurezza detentiva assoggettando alla medesima regolamentazione istituti funzionalmente differenti e obliterando la distinzione - riconosciuta in Costituzione - tra gli stessi. Il secondo aspetto riguarda il fatto che l’applicazione del 41bis costituisce un elemento che influisce sulla durata della misura di sicurezza; sino a quando l’internato sarà sottoposto al regime duro, non potrà accedere a misure extra-murarie rendendo pressoché impossibile la sperimentazione di un effettivo percorso di recupero e perciò anche la revoca o comunque la sostituzione della misura di sicurezza detentiva. Tanto più che il perdurare della applicazione del regime differenziato presuppone una situazione che non consente di escludere la perdurante pericolosità del soggetto. Il terzo aspetto, invece, riguarda il dubbio che nello spazio giuridico europeo le misure di sicurezza per soggetti imputabili siano incompatibili con la garanzia fondamentale del “ne bis in idem”, se le stesse non risultano realmente differenziabili dalla pena, non soltanto a causa della loro diversa finalità ma soprattutto in ragione di modalità di esecuzione radicalmente differenziate. Ora sarà la Consulta a dichiarare o meno l’illegittimità costituzionale. Ancora una volta ci dovranno pensare i giudici, anziché la politica sempre più ostaggio degli umori. Storie dal carcere: quando il lavoro restituisce la dignità di Marta La Placa interris.it, 17 febbraio 2021 Riusciresti mai a dire che la prigione rende liberi? Alcune persone ci riescono, e queste non sono né dei grandi giuristi, né studiosi particolarmente convinti dell’efficacia del sistema penale nazionale. A dirla tutta, sono prigionieri. Ci sono alcune iniziative in Italia che offrono ai prigionieri la possibilità di lavorare, così che questi possano avere una possibilità di lavoro futura anche una volta usciti da prigione, e, allo stesso tempo, si ri-scoprano come persone in quest’attività. In quest’articolo, ci concentreremo principalmente sulle iniziative del carcere di Siracusa, Venezia e Padova. Ri-nascere nella laguna Veneziana - L’Associazione “Rio Terà dei pensieri” si occupa del re-inserimento in diversi ambiti lavorativi dei prigionieri delle carceri veneziane, sia maschile che femminile, offrendo loro diverse possibilità di lavoro durante il periodo in prigione. I fondamenti della loro attività sono la produzione di materiali ecosostenibili, che siano fatti con materiali riciclati nel rispetto dell’ambiente, e, come già menzionato, la possibilità di dare una “seconda chance” ai carcerati. Ciò che i carcerati coinvolti hanno da dire riguardo alle iniziative proposte è abbastanza commovente, ed è chiaro che le proposte sono state in grado di cambiare in modo significato le loro vite. “Rio Terà dei Pensieri” propone diversi lavori: un laboratorio di cosmetica, in cui si creano saponi e prodotti per la cura personale con delle ricette inedite, e interamente con prodotti naturali. Inoltre, l’Associazione coinvolge i carcerati nella creazione di borse, piccole sacche e portafogli in pvc, un materiale che si ottiene con particolari tecniche di riciclo della plastica. Ancora, nel carcere femminile si trova un piccolo campo coltivato, in cui le ragazze coltivano 40 specie diverse tra frutti, verdura e erbe naturali, e che poi vendono al mercato locale una volta a settimana, sotto la sorveglianza di poliziotti, e con permessi speciali. Le attività comprendono anche un laboratorio di serigrafia, nel carcere maschile della laguna, un’attività che i carcerati imparano a fare volentieri con alcuni brevi corsi che vengono loro offerti, o che, in alcuni casi, sapevano già fare per loro qualifiche personali. Il laboratorio realizza stampe di diverso tipo con disegni di diversi esperti e specialisti del mestiere, ma offrono anche stampe personalizzate su richiesta. Le mandorle di Siracusa - A Siracusa, invece, gli internati del carcere locale hanno la possibilità di lavorare in un laboratorio che si occupa della lavorazione delle mandorle, uno dei prodotti locali tipici più importanti e conosciuti. In questo caso, il lavoro è possibile attraverso l’impegno della cooperativa “L’Arcolaio”. Inizialmente, la loro attività consisteva quasi esclusivamente nella produzione di pane biologico, solo con ingredienti locali, ma col tempo, la loro produzione si è orientata verso le mandorle, creando dolcetti, biscotti e salse di mandorle con cui guarnire diversi piatti. Il loro obiettivo, anche in questo caso, è quello di dare una seconda chance ai prigionieri, un percorso lavorativo da seguire una volta usciti dal carcere; allo stesso tempo, facendo ciò, valorizzano e promuovono le mandorle siciliane: uno dei prodotti tipici più importanti per loro. Grazie all’associazione “Le Galline Felici” i loro prodotti sono distribuiti e venduti in tutta Italia, e in Europa. Regali di Natale dalla prigione - Un’iniziativa simile, e altrettanto nota in Italia, è quella del carcere di Padova, sostenuta dalla Cooperativa Giotto. Il carcere di Padova è infatti famoso per essere una elle migliori pasticcerie del paese; non a caso, infatti, ha vinto più di un premio, tra cui il “Dino Villani”, dell’accademia Italiana della cucina, per il miglior Panettone d’Italia. Il riconoscimento è significativo per l’associazione, non solo perché valorizza il loro lavoro a livello nazionale, ma anche perché è uno dei premi più importanti nell’ambito della “cucina a km 0”. Un lavoro a cui dare valore - Ciò che colpisce, e che è davvero ammirabile di tutte queste iniziative, non è solo il fatto che tutte valorizzano enormemente l’ambiente in cui hanno origine, rispettandolo e valorizzandone prodotti e tradizioni. Tutte, oltre a ciò, hanno in comune il fatto che tutti i prigionieri coinvolti siano estremamente grati per il lavoro che viene loro offerto. Questa gratitudine non deriva solo dal fatto che attraverso questi lavori i detenuti hanno la possibilità di mandare ai loro famigliari un contributo economico pur essendo in carcere, ma soprattutto dalla consapevolezza che il lavoro che viene loro offerto li salva. Max Cosham ha 44 anni, oggi è uno dei manager del lavoro offerto da “L’Arcolaio” ai prigionieri del carcere di Siracusa. Ciò che Max porta nel cuore dei suoi anni in prigione è il fatto che in tutti quei mesi egli abbia incontrato principalmente persone che volevano aiutarlo; in questi anni ha imparato che indipendentemente dal fatto che tu sia in prigione oppure no, la vera libertà la puoi trovare solo dentro di te. Inoltre, Marco, che lavora per la cooperativa Giotto, afferma che scopre con piacere che “la gente là fuori non ci guarda come dei mostri” dicendo “hanno sbagliato, butta via la chiave, lasciali là”; allo stesso modo, Marco ammette che “Nel carcere di Padova ho avuto la possibilità di scendere, imparare un mestiere. Cioè io sono diventato una persona nuova”, e, ancora, Pierin della stessa pasticceria sorride, grato: “Per chi lavora, in carcere è diverso. Il lavoro praticamente, ti fa avere una vita dignitosa”. Una carcerata di Venezia, inoltre, afferma che prima di lavorare per “Rio Terà dei pensieri” come creatrice di prodotti cosmetici, non faceva altro che fumare in cella; anche per lei, cominciare a lavorare ha cambiato tutto, nonostante il fatto che all’inizio fosse convinta del fatto che il lavoro che le era stato proposto non facesse per lei. Tutte queste iniziative sono da valorizzare, e dovrebbero diventare un esempio per molti in quanto sono in grado di ribaltare la visione che molti hanno sui prigionieri: quanto sarebbe più facile abbandonarli nelle loro celle? Non da ultimo, il lavoro e il tempo che tutti i volontari e collaboratori di queste associazioni dedicano alle iniziative è commovente: la loro capacità di valorizzare tutto ciò che li circonda dall’ambiente circostante alle persone intorno a loro non è scontata, ma, oserei dire, unica. Marta Cartabia e il Travaglio degli sfrattati di via Arenula di Adriano Sofri Il Foglio, 17 febbraio 2021 Non bastasse un curriculum formidabile, gli insulti preventivi e frustrati dei nostalgici di Bonafede al nuovo ministro della Giustizia, sono la garanzia migliore per chi diffida dai processi vendicativi, per cattiveria o distrazione. Più che il curriculum formidabile che pesa addosso a Marta Cartabia, spinge a un allegro ottimismo il livore stridulo che le riservano gli sfrattati di via Arenula, guidati dal Travaglio, dibattista minore. Le tre o quattro cose che ho saputo di lei da quando sollevò la mia attenzione - dapprincipio solo per una curiosità superficialmente estetica, l’eleganza con la quale guidava Floris e il suo pubblico televisivo attraverso la casa chiusa, fino ad allora, della Consulta, il collo che la fa somigliare a un uccello d’acqua - la raccomandano a chi diffidi della giustizia vendicativa, per cattiveria o per distrazione. Cartabia sembra aver fatto tesoro della visita alla galera, sulla scia del cardinale Martini. Suoi pensieri, affiancati a quelli del maggior protagonista dell’impegno per la giustizia riparativa, in Italia e fuori, Adolfo Ceretti, sono raccolti nel volume Bompiani dell’autunno scorso, “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione”. (Di Ceretti ora si legga “Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo”, con Niccolò Nisivoccia, il Saggiatore). Messi da parte gli insulti preventivi e frustrati, mi pare che si addebitino a Cartabia due supposte colpe, o due preoccupazioni. La prima, di essere “legata a Comunione e liberazione”. Persone e associazioni impegnate per i diritti civili temono per le libertà delle minoranze. Ma la frequentazione delle esperienze di Cl quanto alla giustizia è una buona referenza, salvo che le convinzioni e le opinioni, in particolare sulla sessualità, non si lascino tentare a invadere la libertà altrui di disporre del proprio corpo: mi aspetto che non sia il caso. La seconda ragione di diffidenza sta nel descrivere Cartabia come “predestinata” a ogni più alta carriera, come se questa candidatura a tutto le venisse da una fortuna di nascita, e non dal curriculum di cui sopra. Per restare ai giorni appena trascorsi, Cartabia era candidata a guidare il governo e restava candidata alla prossima presidenza della Repubblica pressoché alla pari di Mario Draghi. Nei confronti del quale ha qualche svantaggio immediato - lui è uomo, la Banca centrale europea è più influente della Corte costituzionale italiana - e qualche vantaggio a più lungo termine - lei è donna ed è parecchio più giovane. Andare al governo ora non è esattamente un passo sicuro nella carriera. Non lo è nemmeno per Draghi, che avrà i famosi 209 miliardi da smaltire ma ha anche, oltre al guazzabuglio partitico e antropologico che si sa, l’incognita di una pandemia molto riottosa. Meno ancora lo è per chi vada ad abitare al ministero della Giustizia, luogo che somiglia a un letto di altrettanti Procuste quanti sono i partiti e i loro mosconi cocchieri, e che deve far tremare chi senta lo sguardo di Dio. Non si esce facilmente con un guadagno di popolarità da Via Arenula. E però guai a starci con l’anima tiepida, contando di uscirne con l’impopolarità minore. Auguri. Bonafede o Cartabia? Dimmi con chi stai, ti dirò chi sei Il Riformista, 17 febbraio 2021 La spietatezza o il dubbio. Il rancore o una comprensione possibile. Il modo in cui ci si rapporta con chi sbaglia segna due mondi differenti. O si sta da una parte o dall’altra. Non è questione di partiti. È ciò che si è. Avanti. Indietro. Per spiegare l’Italia, il punto in cui si trova, qualcuno usa la fisiognomica, si ferma sullo sguardo degli uomini, i rappresentanti politici e istituzionali. Per spiegare il grado di civiltà giuridica, del Paese, può bastare lo studio della storia degli atti, di chi si succede al ministero della Giustizia. Due Italie differenti, forse inconciliabili. Lì, nel come ci si rapporta con chi sbaglia, si sta in un mondo o in un altro, a seconda di come la si pensi, lì si va avanti alla ricerca di un traguardo ideale o si torna irrimediabilmente indietro. O la Cartabia o Bonafede è il mondo che si vuole, è ciò che si è: non è, solo, questione di partiti, cultura, censo, provenienza, ma solo il fatto di che cuore batta in petto. Oltre che sui temi economici, il lavoro e ogni altro campo, l’Italia si dibatte e combatte da decenni fra la spietatezza e il dubbio, fra la ricerca di una comprensione possibile e la risolutezza della condanna irreversibile. Bonafede è stato, si spera l’ultimo di una lunga serie, il rappresentante di una parte sociale che forse ha concesso troppo al rancore. La Cartabia, insieme a pochi altri che fino a qualche giorno fa erano considerati dei folli, ha rappresentato la fermezza dell’amore, la certezza che debba arrivare qualcosa di migliore, almeno nel campo della giustizia, almeno nel rapporto fra chi vive oltre le sbarre e chi sia convinto di esistere nella libertà, almeno nella relazione fra giudice e giudicabile e giudicato. Contro di lei si è scatenata una parte che si dice di sinistra, progressista, al centro della polemica si è posta la posizione del nuovo ministro sulle unioni omosessuali, sull’aborto. Il Ministero della Giustizia si occupa dell’organizzazione giudiziaria, svolge funzioni amministrative relative alla giurisdizione civile e penale, ha la gestione degli archivi notarili, la vigilanza sugli ordini e collegi professionali, l’amministrazione del casellario, la cooperazione internazionale e l’istruttoria delle domande di grazia da proporre al presidente della Repubblica. Cura lo studio e la proposta di interventi normativi di settore: presso l’ufficio sono istituite Commissioni di studio con compito di analisi in materie che potranno essere oggetto di riforma normativa. Nel settore penitenziario, il Ministero attua le politiche dell’ordine e della sicurezza negli istituti e servizi penitenziari, del trattamento dei detenuti, di amministrazione del personale penitenziario. Si occupa dei minori e dei giovani-adulti sottoposti a misure penali. La Guardasigilli del Governo Draghi, nella tempesta confusionale che ha avvolto per decenni quasi tutti i Corpi Istituzionali del Paese, è stata uno dei pochi vascelli fedeli alla rotta naturale, le sue vele si sono gonfiate del fiato dei padri costituenti. Lei davvero ci ha provato a tenere in vita la Costituzione più bella del mondo, ad applicare i suoi principi nel pianeta doloroso della Giustizia. E anche se fosse solo, esclusivamente, per lei, il giorno del giuramento del Governo Draghi è stato un giorno migliore. Tregua sulla giustizia, ma la legge Bonafede ha i giorni contati di Errico Novi Il Dubbio, 17 febbraio 2021 L’effetto Cartabia consiste in una sospensione del conflitto con effetto immediato. Resta però un dato: la maggioranza, sulla giustizia penale, è radicalmente rovesciata. E la sopravvivenza della prescrizione di Bonafede non potrà essere lunga. Si può parlare di disarmo. A cinque giorni dalla nomina di Marta Cartabia a via Arenula, il quadro della giustizia ricorda la conferenza di Yalta. Enrico Costa di Azione comunica con Carlo Calenda il temporaneo stop all’emendamento sulla prescrizione. Cosimo Ferri e Lucia Annibali, dal fronte Italia viva, annunciano identica decisione. Matteo Salvini ha detto già domenica scorsa che bisogna “scegliere poche cose, non la riforma della Giustizia o della Costituzione, ma salute, lavoro e ritorno alla normalità”. Forza Italia, per voce di Pierantonio Zanettin, conferma al Dubbio quanto dichiarato da Francesco Paolo Sisto: non ritiriamo il siluro anti Bonafede ma “siamo pronti ad ascoltare le proposte della ministra e poi valuteremo, sicuri che la presidente emerita della Consulta troverà le soluzioni migliori per evitare i processi infiniti”. Serve altro? L’effetto Cartabia consiste in una sospensione del conflitto con effetto immediato. Resta però un dato: la maggioranza, sulla giustizia penale, è radicalmente rovesciata. E la sopravvivenza della prescrizione di Bonafede non potrà essere lunga. Persino dal Pd i due capigruppo nelle commissioni Giustizia di Senato e Camera, Franco Mirabelli e Alfredo Bazoli, chiedono, nel primo caso, “una riforma che assicuri alle fasi del processo una scadenza” e, nel caso di Bazoli, “una più esauriente definizione per la prescrizione dei reati, che oggi, per quasi unanime opinione, non ha una disciplina convincente”. Sulla giustizia penale cambia tutto. E il Movimento 5 Stelle è destinato a restare in minoranza, presto o tardi: è solo questione di tempo. Può essere illuminante una curiosità: il Fatto quotidiano, giornale in sintonia con i pentastellati e certo non entusiasta del governo Draghi, lunedì scorso ha pubblicato in prima pagina un titolo-slogan non riferito ad alcun articolo interno ma con un punto di vista netto: “La neoministra Cartabia vuol congelare l’emendamento pro prescrizione. Dopo il ministero Green, è un’altra furbata per prendere i voti dei 5 Stelle e fregarli poi”. Non c’è un numero di pagina che rimandi a ulteriori approfondimenti: la questione è tutta lì. Sarà un caso ma sempre ieri, nel giorno dell’apparente distensione sul processo penale, Alfonso Bonafede, tornato un semplice parlamentare 5 stelle, ha detto che voterà la fiducia ma che “non sarà in bianco”. Non fa riferimenti alle riforme della giustizia o alla prescrizione, ma è chiaro che se pure di qui ad alcuni mesi la maggioranza prendesse sul penale una direzione sgradita al Movimento, la reazione di Bonafede e dei pentastellati sarebbe inevitabile. D’altra parte già nel tentativo convulso di varare un Conte ter, il Pd aveva chiarito ai grillini che un passo avanti sulla prescrizione sarebbe stato necessario. Crimi e Bonafede avevano accettato il lodo Orlando: 7- 8 mesi per approvare il ddl penale, con congelamento della prescrizione in caso di flop. Certo, erano convinti che in quel momento contasse disinnescare l’assalto renziano. Però il Partito democratico è stato chiaro. E ancora adesso la linea del Nazareno è tutt’altro che bizantina: i 5 stelle accettino l’idea di essere in una maggioranza nuova, in cui quasi tutte le altre forze hanno una posizione diversa dalla loro sulla prescrizione, in un quadro simile non si può ragionare con le pretese del passato. Insomma, che il Movimento sia “in minoranza nella maggioranza” è un altro dato ineluttabile. Va detto che nell’immediato il disarmo premia la mediazione del Pd. Dai suoi esponenti impegnati sulla giustizia erano venuti i primi appelli a ritirare gli emendamenti anti Bonafede. Ora Bazoli esprime la soddisfazione dei democratici per il fatto che “come avevamo auspicato, i gruppi firmatari di emendamenti sulla prescrizione al Milleproroghe abbiano deciso di non metterli ai voti: siamo in una fase politica nuova, occorre deporre le armi e le bandiere ideologiche e affrontare i temi della giustizia in modo condiviso e pragmatico”. Il capogruppo pd nella commissione Giustizia di Montecitorio interviene dopo che Enrico Costa ha annunciato, in un’intervista a Repubblica, il “congelamento” degli emendamenti, in modo da consentire a Cartabia di illustrare al Parlamento “le proprie linee programmatiche” e arrivare a un “passo avanti collegiale” della maggioranza. Il testo del deputato di Azione era stato firmato anche da Riccardo Magi, leader di + Europa, che conferma: “Governo e maggioranza dovranno trovare una soluzione strutturale, e rapidamente, per garantire la ragionevole durata del processo”. Cosimo Ferri, deputato di Italia viva, spiega al Dubbio: “Penso che per cortesia istituzionale si debba ritirare l’emendamento, Cartabia merita un atto di fiducia”. L’ex vice di Orlando a via Arenula fa poi notare un dettaglio semplice: “Una modifica che congeli la norma Bonafede e riporti in vigore la riforma della prescrizione targata Orlando potrà sempre essere riproposta in altri provvedimenti”. Lucia Annibali, prima firmataria dell’emendamento renziano, conferma lo stop. È più sfumata, come detto, la posizione di Forza Italia: “Aspettiamo che vi sia un’interlocuzione con la ministra, prima di ritirare la modifica”, ribadisce Zanettin, “sappiamo che gli emendamenti al Milleproroghe andranno votati nelle prossime ore, e che certo Cartabia non avrà modo di presentare le proprie linee programmatiche in commissione Giustizia prima di quel voto. Ma”, dice il deputato azzurro, “si potranno trovare occasioni diverse nell’immediato, per una prima intesa di maggioranza sulla giustizia”. È cominciata una nuova era. E il disarmo è doveroso. Ma non vuol dire che Bonafede sia uscito illeso dalla battaglia sulla prescrizione, anzi. È solo questione di tempo. Anti-prescrizione: pressing renziano su Marta Cartabia di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2021 La bomba prescrizione per ora è lì, sotto la scrivania del nuovo ministro della Giustizia Marta Cartabia. Pronta ad essere innescata spaccando subito la nuova maggioranza che sostiene il governo Draghi. Venerdì, dopo la fiducia, nelle commissioni Affari Costituzionali e Bilancio della Camera non si voteranno gli emendamenti di Enrico Costa (Azione) e Riccardo Magi (Più Europa) che avevano posto la cancellazione della norma Bonafede che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado come pregiudiziale all’articolo l del decreto Mille-proroghe. Un segnale “distensivo”, hanno spiegato ieri Costa e Magi, in attesa di “un segnale di apertura e fiducia” del nuovo Guardasigilli. Ma nel frattempo restano “segnalati” (cioè considerati prioritari) gli emendamenti di Forza Italia e di Italia Viva per spazzare via la “blocca-prescrizione” e tornare alla vecchia legge Orlando, che la sospendeva solo per 36 mesi tra primo grado e Appello. Non è detto che la prossima settimana questi emendamenti saranno votati perché, come hanno deciso ieri i capigruppo in una riunione informale, si vuole evitare che la maggioranza imploda ancor prima che il nuovo ministro si insedi. Ma lasciare sul tavolo gli emendamenti è un modo per tenere sulle spine Cartabia e chiedere un segnale da parte sua su un tema così divisivo: “Noi non abbiamo ancora congelato niente - spiega la responsabile Giustizia di Iv Lucia Annibali - la prescrizione resta un punto importante come quello del processo penale”. Stessa idea del forzista Francesco Paolo Sisto che insieme al collega Pierantonio Zanettin ha confermato le sue richieste di modifica: “I nostri emendamenti li teniamo - dice al Fatto - aspettiamo di parlare con il ministro Cartabia, che ha un’autorevolezza indiscussa, e che venga a riferire il suo programma. Poi decideremo cosa fare”. Sisto, responsabile giustizia di FI, spiega però che la condizione per deporre l’ascia di guerra è che Cartabia “cambi radicalmente approccio rispetto a Bonafede sulla giustizia”. Ergo: “Riformare il processo penale e la prescrizione mettendo al centro il cittadino e non i pm in base al principio di non colpevolezza” conclude il berlusconiano. Insomma, i due partiti della nuova maggioranza guidati da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi chiedono che sia il Guardasigilli a dare segnali per superare le due norme volute da Bonafede su prescrizione e riforma del processo penale (approvata dal governo giallorosa e bloccata in commissione), in cambio di quella che Sisto chiama una “riappacificazione sul tema della giustizia”. Stessa minaccia ventilata da Costa, avvocato eletto con FI e poi passato con Carlo Calenda, che pur avendo ritirato il suo emendamento ci tiene a spiegare che il suo “è un atto di rispetto nei confronti del ministro, ma chiederemo modifiche immediate sullo stop alla prescrizione e sulla riduzione dei tempi del processo - spiega - ma una cosa è chiara: ora ci vuole un cambio radicale rispetto all’impianto di Bonafede”. Una posizione che già la prossima settimana potrebbe spaccare la maggioranza visto che il M5S continua a fare muro sul tema: “Se Cartabia tocca la prescrizione, ce ne andiamo dalla maggioranza” ha minacciato domenica Vito Crimi nell’assemblea con i senatori M5S. La conferma arriva dalla deputata Vittoria Baldino: “Non siamo disposti a fare passi indietro sulla prescrizione” dice al Fatto. Intanto Bonafede ha annunciato che voterà la fiducia al governo per “tenere unito il M5S” ma “non sarà in bianco”. Ma, oltre a porre condizioni a Cartabia, Berlusconi e Renzi stanno provando a piazzare un sottosegretario a testa a via Arenula per “controllare” l’operato del Guardasigilli: i renziani spingono per Gennaro Migliore mentre FI vorrebbe Sisto. Che non smentisce: “Lo deciderà la provvidenza”. Tribunali e carceri sono a pezzi, il ministro Cartabia intervenga subito di Marco Campora e Valerio Esposito Il Riformista, 17 febbraio 2021 Sono trascorsi moltissimi anni dall’ultima volta che la nomina di un ministro della Giustizia ha suscitato tante speranze tra gli avvocati, in particolare, tra i penalisti. È inutile negarlo: una parte di questo entusiasmo è determinata anche dal fatto che gli ultimi due anni e mezzo sono stati caratterizzati da provvedimenti, dichiarazioni, visioni distopiche che hanno messo a dura prova non soltanto il funzionamento della giustizia, ma l’idea stessa dello Stato di diritto. È pleonastico ribadire le sciagurate riforme che sono state ideate e realizzate negli ultimi 30 mesi: quella della prescrizione, la cosiddetta Spazza-corrotti quantomeno prima dell’intervento della Corte Costituzionale, il divieto di giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, i decreti Sicurezza che hanno inciso fortemente su diritti e libertà di specifici soggetti. Oltre i provvedimenti legislativi, l’idea liberale della giustizia è stata offuscata e talvolta fortemente lesionata da comportamenti, dichiarazioni e omissioni che ci hanno fatto a lungo temere che ci si fosse avviati verso una spirale senza ritorno, cioè alla definitiva teorizzazione e applicazione del populismo giudiziario che considera il diritto e la sanzione penale come meri esercizi di vendetta. Ma le speranze suscitate dalla nomina di Marta Cartabia non dipendono esclusivamente dal raffronto con il recentissimo passato. L’attuale ministra - oltre una straordinaria competenza nella materia - è portatrice di un’idea di giustizia che presenta notevoli e numerosi punti di contatto con la visione di cui noi avvocati penalisti siamo da sempre fautori. Ci sono - e ci saranno - delle differenze di vedute e forse anche di sensibilità su alcuni temi, ma finalmente, abbiamo la serena convinzione di muoverci all’interno di un medesimo perimetro di regole e valori condivisi. Non ci aspettiamo “miracoli” né abbiamo l’ingenuità di credere che d’emblée saranno azzerate tutte le strampalate riforme degli ultimi anni. La maggioranza politica che sostiene il governo Draghi è, infatti, forse troppo composita e variopinta per mettere mano in maniera sistematica a riforme relative a temi “caldi” e sensibili. Ma di due cose siamo certi: la sensibilità e le competenze di Cartabia produrranno sicuramente dei seri interventi sul carcere e sull’esecuzione della pena che è, senz’altro, il settore più disastrato della giustizia penale; la narrazione negli ultimi anni dominante - incentrata sul più carcere, più pena, sulla vendetta pubblica, sui corpi e le anime da far “marcire” in galera - subirà una sensibile battuta di arresto e si tornerà a ragionare in termini di funzione rieducativa della pena e di extrema ratio del diritto penale. Del resto, solo l’applicazione di un diritto penale che disciplini e sanzioni esclusivamente le condotte che ledono o mettono in pericolo il patto sociale, potrà porre rimedio all’altro gravissimo problema che funesta la giustizia penale: la durata elefantiaca dei procedimenti penali che si traduce in denegata giustizia oppure in pene irrazionali che mortificano ogni esigenza di rieducazione. E tutto questo non è poco perché solo destrutturando progressivamente, in primis dal punto di vista culturale, i capisaldi del populismo penale sarà possibile tendere a una giustizia penale realmente rispettosa del dettato costituzionale. Proprio in ragione delle eccellenti qualità umane e professionali di Cartabia e nella sicura consapevolezza di una sensibilità comune in relazione ai temi di maggior rilievo, ci permettiamo di rivolgere un appello alla ministra e cioè di dedicare una parte rilevante del suo programma di governo e delle risorse al carcere e ai Tribunali di Sorveglianza. L’appello parte da Napoli - è non è un caso - poiché nella nostra città il problema della detenzione non riguarda solo un’esigua minoranza e gli addetti ai lavori, ma è un tema che direttamente o indirettamente coinvolge una parte non irrilevante della popolazione. Occorre riportare al centro dell’attenzione il settore più ignorato della giustizia penale e cioè quello dell’esecuzione della pena. Settore che, anche a causa dell’emergenza pandemica, rischia il definitivo tracollo. In questi mesi, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli sta letteralmente affogando, non essendo nelle condizioni di rispondere alle numerosissime e legittime richieste provenienti dai detenuti. In un passato neanche troppo lontano si auspicava - in quanto peraltro previsto dalla legge - un magistrato di sorveglianza presente nelle carceri che controllasse adeguatamente il rispetto dei diritti umani nelle concrete modalità di espiazione della pena. Oggi tutto questo appare come una chimera, non essendo possibile per il magistrato neppure svolgere adeguatamente la funzione giurisdizionale in senso stretto. Questo sfascio non è casuale ma frutto di un cinico calcolo politico. In presenza di risorse insufficienti si è deciso di tagliare soprattutto nel settore più debole, quello di chi non ha voce, di chi non ha protettori e semplicemente non produce consenso. E allora rivolgiamo un appello affinché, nell’ipotesi in cui dovessero essere effettivamente stanziate per la giustizia ingenti nuove risorse provenienti dal Recovery Plan, una parte considerevole di tali risorse sia destinata all’Ufficio e al Tribunale di Sorveglianza, settore ormai allo stremo. In questo momento - anche a causa dell’emergenza sanitaria - il carcere è esclusivamente un reclusorio in cui sono sospese quasi tutte le attività. Dunque, di fatto, un luogo in cui si abdica a ogni finalità rieducativa e si privilegia esclusivamente - e in maniera miope - quella di prevenzione (se non addirittura quella meramente retributiva). Una pena congegnata in questo modo è tecnicamente illegale e impone immediati interventi da parte dello Stato che ha un obbligo di lealtà nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, nei confronti dei reclusi). La soluzione non può che essere quella di dar vita, attraverso un ampio ricorso alle misure alternative - e con l’auspicio che si possa tornare a ragionare con serenità di provvedimenti di clemenza quali amnistia e indulto - a una sostanziale diminuzione della popolazione carceraria che crediamo possa essere una delle missioni principali della politica giudiziaria del nuovo Governo. Lo abbiamo detto in premessa: non ci aspettiamo “rivoluzioni” nel campo della giustizia penale, anche perché probabilmente il quadro politico attuale non lo consente. Siamo, tuttavia, certi che - anche grazie alla nuova ministra - sarà possibile abbandonare il percorso intrapreso negli ultimi anni e iniziare a tracciare nuove rotte, con l’obiettivo ultimo di riportare il cittadino al centro di ogni discorso o riforma sulla giustizia. “Prescrizione e nuovo processo penale, costituente per una tregua sulla giustizia” di Emilio Pucci Il Gazzettino, 17 febbraio 2021 Per Walter Verini, coordinatore dei lavori del Pd sulla giustizia, “è il momento della svolta” su un tema che finora ha diviso le forze politiche. Nuovo governo, nuovo clima? Secondo lei è effettivamente possibile la mozione moratoria dopo gli scontri degli ultimi anni? “Non è solo possibile, ma necessaria. Da tempo come Pd lo sosteniamo, perché la giustizia non può più essere il terreno tossico di scontro politico. Questo tipo di governo e questa pur anomala maggioranza parlamentare possono favorire un clima che porti a riforme condivise”. Sulla prescrizione si è deciso di sotterrare l’ascia di guerra? “Abbiamo apprezzato il ritiro degli emendamenti divisivi. Non sarebbero stati solo un gesto di scortesia istituzionale verso il nuovo ministro, ma un partire col piede sbagliato”. Quale sarà il nuovo corso, considerando che la maggioranza è composta da forze diverse tra loro? Sul processo penale ora si punterà ad accelerare alla Camera? “La strada è questa. Come per il processo civile, si tratta di una riforma fondamentale. Le decine di audizioni hanno suggerito cambiamenti da accogliere, ma il punto di fondo è che si potrà finalmente giungere alla durata ragionevole dei processi, con tempi certi. Con la presunzione di innocenza degli imputati, ma anche con il diritto ad avere un esito in tempi giusti. E lo stesso naturalmente vale per le vittime di reati. A quel punto anche il tema prescrizione - che nei processi infiniti è una difesa dell’imputato ma anche un fallimento dello Stato - perde la sua dirompenza”. Sulla prescrizione si ripartirà dal cosiddetto Lodo Orlando? “Ripeto, la giustizia deve essere materia di confronto. La proposta di Orlando andava proprio in questa direzione”. Quale sarà l’atteggiamento del Pd? “Il Pd sostiene lealmente il governo con le sue idee senza sventolare bandierine”. Come sarà secondo lei la coabitazione tra FI e M5S, che sui temi della giustizia si sono sempre scontrati? “Bisognerà togliere di mezzo totem e tabù, puntando su lotta alla corruzione e alle mafie, su processi di durata ragionevole. Nel civile e nel penale. Serve l’indipendenza e la rigenerazione della magistratura, da aiutare anche con la riforma del Csm. E il rispetto autentico dei diritti della difesa. No a processi mediatici. E carcere con pene certe, soprattutto alternative per i reati di non grave allarme sociale, ma tese alla rieducazione. Non solo perché è giusto, umano, coerente con l’articolo 27 della Costituzione, ma perché un detenuto che esce rieducato non torna a commettere reati. Umanità significa anche sicurezza dei cittadini. Perché non lavorare per declinare insieme questi principi, che sono testi all’esame delle Camere?”. Si potrebbe pensare ad una costituente sulla giustizia? “Senz’altro sì, come spirito e volontà. Intanto si può pensare a delle sessioni dedicate al tema”. Cosa si aspetta dal ministro Cartabia? “La sua autorevolezza, il suo rigore costituzionale, il suo equilibrio potranno certamente favorire, in un clima collaborativo tra governo e Parlamento, il raggiungimento di importanti obiettivi. Aggiungo che il Recovery plan prevede investimenti per miliardi nella giustizia, in strutture, digitalizzazione, modernizzazione e risorse umane. Ciò si deve accompagnare a riforme. E il ruolo del Guardasigilli sarà fondamentale”. Ma il problema era la presenza di Bonafede o i distinguo di Renzi? “Il problema, da anni, sono i tabù, i totem, le strumentalità che davano vita spesso a un populismo giudiziario da un lato e a un garantismo a intermittenza dall’altro”. Non lasciamo all’intelligenza artificiale il compito di prevenire i crimini di Luca Bolognini Il Domani, 17 febbraio 2021 È davvero possibile “leggere” e prevedere i comportamenti delle persone permettendo alla polizia o addirittura alle macchine di intervenire e catturare potenziali malviventi? Non si tratta di domande di scuola e di discussioni accademiche rispetto a un futuro lontano e improbabile, perché il progresso corre veloce e questi interrogativi su “tecnogiustizia” e “tecnoautorità” iniziano a entrare nella nostra società. In Gran Bretagna così come in California vengono testati da tempo programmi di intelligenza artificiale che individuano aree, comunità e situazioni a rischio oppure scandagliano database con criminali comuni, cercando di indovinare quali soggetti possano commettere un reato violento, assegnando a ciascuno un punteggio di rischio. La Commissione Ue sta preparando un regolamento sull’intelligenza artificiale. Peccato che si riferirà solo all’Ai per usi civili, mentre i problemi più gravi li avremo nei settori della difesa e della sicurezza. È desiderabile che i dati, gli algoritmi, le macchine esperte, in una parola l’intelligenza artificiale diventino un’arma di previsione, dissuasione e repressione del crimine? È davvero possibile “leggere” e prevedere i comportamenti delle persone permettendo alla polizia o addirittura alle macchine di intervenire e catturare potenziali malviventi? È tollerabile che una società avanzata e uno stato di diritto possano anche soltanto concepire di analizzare espressioni ed emozioni per scommettere sull’attitudine criminale di un individuo? Non si tratta di domande di scuola e di discussioni accademiche rispetto a un futuro lontano e improbabile, perché il progresso corre veloce e questi interrogativi su “tecnogiustizia” e “tecnoautorità” iniziano a entrare nella nostra società. Non stiamo parlando di Tom Cruise e Minority Report, insomma, ma di vita reale. In Gran Bretagna così come in California vengono testati da tempo programmi di intelligenza artificiale che individuano aree, comunità e situazioni a rischio oppure scandagliano database con criminali comuni, cercando di indovinare quali soggetti possano commettere un reato violento, assegnando a ciascuno un punteggio di rischio. Come ha raccontato Fabio Chiusi su Valigia Blu si sperimentano perfino strumenti per rilevare dai volti le emozioni: in Uttar Pradesh, a Lucknow, le autorità hanno installato sistemi di identificazione di espressioni facciali di paura, tristezza, dolore e quant’altro possa indicare una violenza in atto contro donne e bambini (fenomeno assai diffuso, secondo le statistiche, in quel territorio come, purtroppo, in tanti altri luoghi del mondo). Questo “test”, che cerca di sfruttare algoritmi intelligenti per captare segnali d’allarme sui volti delle vittime, ha destato commenti sconcertati tra gli esperti di machine learning: pensare che un algoritmo possa capire le emozioni di un individuo solo valutandone le rughe del viso parrebbe, in effetti, un’illusione destinata a naufragare, poiché non tutto è visibile agli occhi artificiali. D’altra parte gli esseri umani non mostrano tutto ciò che provano; reagiscono sorridendo anche in frangenti dolorosi o di terrore o rimangono impassibili subendo abusi. Insomma, la pretesa di rilevare stati d’animo con una telecamera deve fare i conti con l’unicità umana e le variabili della coscienza. Sarebbe enorme la quantità di falsi positivi causati da queste tecnologie, ben lungi dall’essere infallibili. Il principio di “Rule of Human Law by Default” dovrebbe imporre la progettazione e l’uso di sistemi informatici, a maggior ragione se intelligenti, nei quali l’ultima parola spetti sempre e solo a super-admin umani. Cosa che ora non c’è e non ci mette al riparo dall’avere in futuro macchine a governarci, anche solo implicitamente. Già oggi quando parliamo di tutela dei lavoratori, i sindacati sono costretti spesso ad avere a che fare, più che con datori di lavoro umani, con algoritmi, app, controlli automatizzati che dettano le regole sul lavoro. Il rischio è quello di innescare un meccanismo irreversibile. La Commissione Ue ha lavorato negli anni per immaginare requisiti etici da applicare all’intelligenza artificiale. Dopo avere pubblicato linee guida etiche e un libro bianco sull’argomento, ci si attende a breve una proposta di regolamento europeo che miri a normare le forme più rischiose per i diritti e le libertà degli individui. L’intelligenza artificiale può essere una grande opportunità, ma se non governata può davvero essere “l’ultima invenzione dell’essere umano”, per citare, tra gli altri, James Barrat: in effetti, al di là della nostra sorte, potrebbe arrivare il momento in cui le persone delegheranno la creatività e la capacità di inventare agli algoritmi. Uno scenario di autoriduzione allo stato vegetativo assolutamente non desiderabile. Le macchine, in passato, hanno sostituito le azioni umane e questo ha avuto conseguenze sui posti di lavoro. Oggi il rischio è di un salto ulteriore: robot e algoritmi possono iniziare a sostituire i pensieri e le volontà degli esseri umani. C’è una bella differenza. Occuparsi di scenari distopici non vuol dire essere contro lo sviluppo tecnologico, l’intelligenza artificiale e le altre magnifiche sorti “e-progressive”, ma avere la consapevolezza e la determinazione, finché si è in tempo, di ancorare questa evoluzione a un’etica umanistica. Vale per la scienza, per l’industria, per la politica e per ogni istituzione. La politica dovrebbe abbandonare i conformismi e avere il coraggio, forse spudorato, di inserire nelle costituzioni nuovi principi e norme fondamentali. Proprio lo “stato di diritto umano”, ad esempio, per il quale mai dovrebbe essere lasciata la possibilità di agire come autorità o persino di far legiferare alle macchine e agli algoritmi. Bisogna evitare l’avvento di poliziotti-bot o, peggio, di deputati-bot, e l’ultima parola nell’amministrazione di società o sistemi informatici dovrebbe sempre e solo appartenere a esseri umani. L’umano, con le sue imperfezioni incalcolabili e con i suoi sentimenti misteriosi, custodisce il segreto del perdono e della pace, sconosciuti all’iper razionalità perfetta degli algoritmi, per i quali tutto è calcolabile. Si sta entrando in un mondo ancora inesplorato nel quale, in nome del progresso, ci imbatteremo in sistemi estremamente rischiosi per i nostri diritti e le nostre libertà. Una soluzione può essere trattare l’intelligenza artificiale alla stregua dei medicinali e dei dispositivi medici, idea già proposta dal sottoscritto e da altri esperti come Stefano Quintarelli: prima dell’immissione in commercio di sistemi AI rischiosi, si dovrebbe prevedere un percorso di sperimentazione e di valutazione degli impatti per considerarne gli effetti collaterali e attivare forme di vigilanza sulle conseguenze indesiderate. Sembra la strada tracciata anche dal libro bianco della Commissione Ue che prelude al prossimo regolamento europeo. Peccato che quel regolamento si riferirà solo all’intelligenza artificiale per usi civili, mentre i problemi più gravi li avremo nei settori della difesa e della sicurezza. Quel giorno di 30 anni fa, la mafia e il giudice “ammazza sentenze” di Attilio Bolzoni Il Domani, 17 febbraio 2021 Correva l’anno 1991, il 18 febbraio. Trent’anni sono passati da quando l’eccellentissimo giudice della prima sezione penale della Cassazione Corrado Carnevale aveva scarcerato con un cavillo quarantatré dei super boss portato a processo da Giovanni Falcone. Ecco le loro storie. Il portone di ferro di via Enrico Albanese numero 3 si spalanca e il primo che esce è un ragazzo smilzo, nervoso, molto pallido, visibilmente stordito dall’aria della libertà. “Chiddu è Anatredda”, quello è Anatrella, sussurra una donna inzuppata di pioggia che trova riparo sotto gli alberi. Anatrella, Salvatore Rotolo, sicario, cinque uomini uccisi con le sue mani nella “camera della morte”, la stalla a un passo del porticciolo di Sant’Erasmo dove torturavano e facevano “cantare” i traditori. Non c’è nessuno che aspetta Anatrella. Un minuto dopo esce il secondo. Cappotto elegante, i capelli neri impomatati, baffetti, trascina una costosa valigia di pelle nera. È Pietro Senapa, uno che i cadaveri li squagliava nell’acido o li buttava in mare con un blocco di cemento ai piedi. I parenti lo circondano. C’è la madre, ci sono le sorelle, i cugini, i fratelli, i cognati. Riemerge dai baci e dagli abbracci, vede che ho una penna e un taccuino e “Pieruccio” mi dice: “Scrivilo: Carnevale è buono e giusto come Papa Giovanni”. Palermo, carcere dell’Ucciardone, 18 febbraio del 1991, l’eccellentissimo giudice della prima sezione penale della Cassazione Corrado Carnevale ha appena scarcerato con un cavillo quarantatré imputati condannati al maxi processo contro Cosa nostra. È giornata di festa per la mafia siciliana. Quello che qualcuno aveva promesso, qualcun altro lo sta mantenendo: uscirete presto, uscirete tutti. Dopo Anatrella e Pieruccio Senapa, esce Pietro Alfano detto ù zappuni per gli incisivi a forma di zappa, dopo Alfano esce Stefano Fidanzati dell’Arenella, dopo Fidanzati esce Giovanbattista Pullarà di Santa Maria del Gesù, poi uno dei Prestifilippo dei Ciaculli, Vincenzo Buffa, Mariano Agate di Mazara del Vallo, poi un altro dei Marchese. Dopo tre giorni uscirà anche Michele Greco, “il papa della mafia” e il capo della Cupola. È un pomeriggio freddo di trent’anni fa. Il cielo grigio, Palermo che ha sperato ripiomba nel suo passato. Il “maxi” si è concluso con 19 ergastoli e 2665 anni di carcere, il secondo grado ha ridotto le pene e stravolto l’impianto del giudice Falcone negando l’”unitarietà” di Cosa Nostra, sono solo “bande scollegate una dall’altra”. Il processo viaggia verso la Suprema corte ma intanto “Papa Giovanni” grazia i boss. Sono ore di confusione, non si sa chi può uscire e chi deve stare dentro. La seconda sezione della Corte di assise di appello, presieduta da Salvatore Scaduti, ordina la liberazione di altri ventotto mafiosi “se non detenuti per altra causa”. Fra loro ci sono anche Pippo Calò, il vecchio Francesco Madonia, Masino Spadaro, Giuseppe Lucchese. Sono quelli che hanno fatto di Palermo una città di lapidi e di croci. I giudici sembrano impotenti, la Cassazione è Cassazione, la legge è legge. La decisione di Corrado Carnevale fa venire i capogiri, per lui la Cupola è soltanto una favola. E, per “l’altissima corte”, sono scaduti i termini di custodia cautelare per quei quarantatré del maxi processo. Quindi, tutti fuori. È un’interpretazione forzata e un po’ maramalda. Non tiene conto dell’articolo 297 comma 4 del nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1989: esclude, con chiarezza, che i giorni di udienza vengano computati nel calcolo dei termini di custodia cautelare. Ma Carnevale non se ne cura, lui nutre un profondo disprezzo per quei giudici di Palermo, detesta Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Firma. E i mafiosi tornano liberi. È uno dei magistrati più famosi d’Italia, odiatissimo da alcuni suoi colleghi e amatissimo dai principi del foro. È anche lui siciliano, di Licata, provincia di Agrigento. Dal 1985 è presidente di sezione della Suprema corte, “il più giovane presidente titolare della storia della Cassazione”. I giornalisti gli danno un soprannome: “L’ammazzasentenze”. È vanitoso, non si sottrae alle interviste. Dice: “La Costituzione vuole il magistrato in toga e non in divisa”. Dice: “C’è chi si è messo in testa di fare l’angelo vendicatore dei grandi mali che affliggono la società”. Dice ancora: “Io mi rifiuto di essere un combattente contro la mafia. Il mio compito non è quello di lottare...alcuni magistrati dovrebbero sparire dalla circolazione...”. Quante sentenze ha ammazzato presidente?, gli chiedono un giorno. Sono quasi 500. Ha invalidato i provvedimenti di don Stilo in Calabria, del camorrista Giuseppe Misso per la strage del rapido 904 Napoli-Milano e di Giuseppe Greco, il figlio del “papa”. Ha annullato il processo per l’Italicus, 12 morti e 48 feriti. Ha assolto Licio Gelli dall’accusa di sovversione e Salvatore Greco per l’omicidio del consigliere istruttore Rocco Chinnici. E una sera del febbraio del 1991, con un colpo di penna, rimette in strada gli uomini più pericolosi della Sicilia. A Palermo c’è paura. Si diffonde la notizia che da un momento all’altro potrebbe lasciare l’Ucciardone anche Michele Greco, il capo della Commissione che ha l’aspetto di un parroco di campagna ma è un pupo manovrato dai Corleonesi. Prima dell’arresto, nella sua tenuta della Favarella aveva fra i suoi ospiti abituali anche il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, sua Eccellenza Giovanni Pizzillo (il presidente della Corte di appello di Palermo, il magistrato più alto in grado nell’isola), sua eminenza il cardinale Ernesto Ruffini. E conti e baroni e marchesi. Tutti l’attendiamo in via Enrico Albanese numero 3, all’ingresso dell’Ucciardone. Ora esce, ora esce. Passa un giorno, passano due giorni. Niente, don Michele è ancora in cella. Alla procura generale fanno e rifanno i conti sulle sue condanne, non ne ha nemmeno una definitiva. Forse solo quella per la falsificazione della patente che gli hanno trovato in tasca il giorno della cattura, in un casolare sopra la montagna di Caccamo. Finalmente il portone di ferro si apre. Ecco, fra un attimo spunterà la faccia da prete del “papa”. Ma l’uomo che sorride alla libertà è Nicola Milano detto Ninu ù Ricciu, uno dei capi della famiglia di Porta Nuova. E Michele Greco? La Corte di assise firma l’ordine di scarcerazione, il foglio transita a mezzogiorno in cancelleria dove però c’è una fotocopiatrice rotta, il tecnico l’aggiusta dopo le 13, gli impiegati del tribunale non se la sentono di fare gli straordinari per liberarlo. Il “papa”, che non abbandona mai il suo Vangelo e due breviari, rimane all’Ucciardone a pregare. Tutto rimandato alla mattina dopo quando, finalmente, è pronto per tornare nella sua dimora di campagna. Davanti al carcere c’è trambusto, cronisti, carabinieri, poliziotti e, con fare sospetto, tre o quattro uomini che vengono fermati e perquisiti dagli agenti dell’”investigativa” della squadra mobile. Sono incensurati. Si scoprirà che sono dei “servizi”. Se non avesse visto “Il Padrino” A Villa Whitaker, sede della prefettura di Palermo, il prefetto convoca il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, è invitato anche l’Alto commissario per la lotta alla mafia Domenico Sica. A Roma ci sono riunioni febbrili fra il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti e quello della Giustizia Claudio Martelli, tutti e due in gran segreto di sera entrano a palazzo Chigi per ordinare, con un decreto legge stampato in fretta e furia sulla Gazzetta Ufficiale, un nuovo arresto per i quarantatré boss appena scarcerati. Con il decreto si stabilisce, una volta per tutte, che i tempi processuali saranno “congelati” automaticamente e indipendentemente dalle richieste dei pm o dai provvedimenti dei giudici. È il solo mezzo per riportare i boss all’Ucciardone. Dopo tre giorni, uno dopo l’altro tornano nel carcere borbonico di Palermo. Gli avvocati insorgono, sbraitano, protestano contro quello che diventa per tutti “il mandato di cattura del governo”. Un po’ come è accaduto l’anno scorso con il ministro Bonafede che, sempre con decreto, ha rispedito in galera i detenuti usciti dopo la circolare dell’amministrazione penitenziaria per il rischio Covid. In quei pochi giorni di libertà quarantadue boss si sono goduti la famiglia in silenzio. Uno solo si è concesso alle telecamere. Proprio lui, il “papa”. Con un’arancia in mano, passeggiando lentamente nella sua tenuta della Favarella, si è raccontato al grande pubblico. Cominciando così: “Mi volete dire in che cosa io avrei mafiato? Mi chiamano il papa ma non posso paragonarmi ai papi per intelligenza, cultura e dottrina. Ma per la mia coscienza serena, e per la profondità della mia fede, posso anche sentirmi pari a loro, se non superiore a loro...”. Continuando così: “La rovina dell’umanità sono certi film, film di violenza, film di pornografia. Per esempio, se il pentito Totuccio Contorno avesse visto Mosè e non Il Padrino, non avrebbe calunniato nessuno e io non sarei qui. Invece purtroppo Totuccio Contorno ha visto Il Padrino...”. E finendo così: “La calunnia si è fatta viva con i primi uomini apparsi sulla terra. Ed è sempre stata apportatrice di atroci conseguenze. A me mi hanno rovinato le lettere anonime. Un anonimato cieco e cattivo...Sappiate che la violenza non fa parte della mia dignità”. Il 30 gennaio del 1992 la Cassazione (ma Carnevale non è più alla prima sezione penale per volere del ministro Martelli) lo condannerà all’ergastolo e il “papa” non vedrà mai più la sua Favarella. Procura di Roma, il Tar annulla la nomina di Prestipino: accolti i ricorsi di Lo Voi e Viola di Carmine Di Niro Il Riformista, 17 febbraio 2021 Colpo di scena alla Procura di Roma. Il Tar del Lazio ha infatti annullato la nomina a procuratore capitolino di Michele Prestipino, accogliendo così i ricorsi presentati dal procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, e dai procuratori di Palermo, Francesco Lo Voi, contro la decisione del Csm datata 4 marzo dello scorso anno. Respinto invece il ricorso presentato dal procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Una nomina, quella di Prestipino, in “continuità” con la precedente gestione di Giuseppe Pignatone, andato in pensione nel maggio 2019. Come ricordava Giovanni Altoprati su questo giornale, per “imporre” Prestipino a Roma il Csm era stato costretto a una interpretazione estensiva del Testo unico sulla dirigenza per gli uffici giudiziari. Sulla carta, infatti, Lo Voi e Creazzo avevano molti più titoli. Oltre a essere già procuratori, Lo Voi aveva rappresentato l’Italia a Eurojust, mentre Creazzo era stato vice capo legislativo al ministero della Giustizia. Questa volta, per superare l’handicap del curriculum di Prestipino che era solo aggiunto e non aveva molti titoli, il Csm è ricorso alle “esperienze”. “Sebbene privo di indicatori specifici si è reso protagonista di esperienze pregnanti rispetto all’incarico da conferire, tali da fondare sul piano prognostico il giudizio sulla sua maggiore capacità a porsi a guida dell’ufficio a concorso”, era stata la formula utilizzata a Palazzo dei Marescialli per motivare la sua scelta. Secondo il Tar, come anticipa il Corriere della Sera, “non è dato comprendere perché, se per Prestipino la “raffinata conoscenza delle mafie tradizionali (in specie Cosa Nostra e ‘Ndrangheta) gli hanno consentito di cogliere e sviluppare sul piano processuale gli elementi di continuità e di originalità della situazione laziale e di quella peculiare della città di Roma, tale riconosciuta conoscenza eccezionale dell’attività di Cosa Nostra da parte del dottor Lo Voi non possa consentirgli ugualmente di cogliere e sviluppare come procuratore - presumibilmente in poco tempo o quantomeno in quello impiegato dal dottor Prestipino quale ‘aggiunto’, l’originalità della criminalità laziale”. Prestipino ricorrerà al Consiglio di Stato, mentre lo stesso Csm potrebbe sostenere la sua nomina a Roma. Detenuti al 41bis: giusto vietare l’acquisto di cibi pregiati, è possibile dimostrazione di potere quotidianogiuridico.it, 17 febbraio 2021 Cassazione penale, sezione I, sentenza 2 febbraio 2021, n. 4031. Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva rigettato il reclamo dell’Amministrazione penitenziaria contro il provvedimento con il quale il magistrato di sorveglianza aveva accolto il reclamo di un detenuto in regime di carcere duro, disponendo che la Direzione del carcere gli consentisse di acquistare al “modello 72” (in cui vanno inserite le richieste di acquisto di generi alimentari al sopravvitto) gli stessi cibi acquistabili presso le altre sezioni del carcere e di cucinare cibi senza la previsione di fasce orarie, la Corte di Cassazione (sentenza 2 febbraio 2021, n. 4031) - nell’accogliere la tesi dell’Amministrazione penitenziaria, secondo cui, per quanto qui di interesse, la previsione limitativa era da ritenersi giustificata in quanto finalizzata a impedire che il detenuto sottoposto a regime differenziato possa acquistare in carcere quantità e qualità di cibi tali da dimostrare e/o imporre il suo carisma, o spessore criminale, al resto della popolazione carceraria - ha diversamente affermato che, ove riconducibile alla necessita? di evitare l’acquisizione di una posizione di potere da parte del detenuto, la previsione di una serie di limitazioni alla possibilità di acquisito e/o detenzione è pienamente giustificata. Misure di prevenzione, il divieto di partecipare a pubbliche riunioni non si estende allo stadio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2021 Il luogo “aperto al pubblico” non rientra nella prescrizione della sorveglianza speciale del Codice antimafia. Il divieto di partecipare a pubbliche riunioni riguarda solo quelle che si svolgono in luoghi pubblici. E non in quelli “aperti al pubblico”, dove l’accesso non è indiscriminato, ma regolamentato anche solo attraverso il pagamento di un biglietto o la limitazione degli ingressi. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 6089/2021, ha perciò respinto il ricorso del procuratore contro il proscioglimento “perché il fatto non sussiste”, in occasione dell’accesso allo stadio da parte di un sorvegliato speciale cui era stato prescritto il divieto di partecipare a pubbliche riunioni. La Cassazione respinge l’orientamento che sovrappone il luogo pubblico a quello aperto al pubblico in nome della finalità del divieto che sarebbe quello di evitare tout court la comunicazione con un ampio numero di persone da parte di chi è colpito dalle misure previste dall’articolo 6 del Codice antimafia, perché considerato socialmente pericoloso. La sentenza riporta la soluzione a cui aderisce, indicata dalle sezioni Unite nel 2019, con la quale si afferma che il divieto di partecipazione a pubbliche riunioni va assunto in maniera obbligatoria ed esplicita in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Infatti, in caso di adozione delle misure di prevenzione ex articolo 6 del Codice antimafia vanno dettate le prescrizioni indicate dal comma 4 dell’articolo 8 tra cui quelle di “non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza” e di “non partecipare a pubbliche riunioni”. Divieti che si associano alle altre prescrizioni positive di vivere onestamente e di rispettare le leggi. Infine, conclude la Cassazione facendo rilevare che il divieto di accesso, per ragioni di sicurezza, alle manifestazioni sportive (che si svolgono, come chiarito, non in luogo pubblico, ma aperto al pubblico) è regolato da altra disciplina, la legge 401 del 1989. Lazio. Covid, da metà marzo parte la vaccinazione nelle carceri Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2021 A metà marzo nel Lazio inizierà la somministrazione del vaccino anti-Covid ai detenuti e al personale carcerario. A renderlo noto è l’assessore alla Sanità, Alessio D’Amato, durante un’audizione in consiglio regionale. A oggi, la Regione ha superato la soglia delle 295mila dosi somministrate, mentre sono oltre 116mila le persone che hanno già ricevuto i richiami. Un’accelerazione nella tabella di marcia dovuta al fatto che le vaccinazioni degli operatori sanitari sono state quasi completate. Come riferisce l’assessore “sono rimasti alcuni operatori sanitari privati”. Nel frattempo, “da alcuni giorni sono iniziate le somministrazioni per gli over 80: ad oggi abbiamo superato 54mila vaccinati e oltre 260mila prenotati”. Con il ritmo attuale, che potrebbe essere accelerato con più dosi di vaccini a disposizione, la vaccinazione della categoria degli over 80 potrebbe concludersi entro il mese di aprile. “Stiamo marciando sulle 7mila-9mila vaccinazioni al giorno, ma la capacità di somministrazione è di 30mila al giorno”, ricorda l’assessore, auspicando che il “tema sia all’attenzione del nuovo governo perché avere più dosi oggi è dirimente”. “Per noi è importante avere il cosiddetto il vaccino made in Italy, su cui anche la Regione Lazio ha investito. Ci sono anche altre Regioni che chiedono di poter partecipare al vaccino Reithera. Noi crediamo che potrebbe essere disponibile a settembre con 100milioni di dosi”, ha dichiarato D’Amato ricordando che “la campagna vaccinale non si concluderà con la singola o la doppia dose, si concluderà quando raggiungeremo l’immunizzazione di gregge. È facilmente prevedibile, quindi, che anche nei prossimi anni dovremo fare vaccini anti-Covid”. Da lunedì 22 febbraio inizia invece la somministrazione al personale, docente e non docente, di scuole e università del Lazio. “Confidiamo di concludere la platea dei docenti in sei settimane”, ovvero agli inizi di aprile, ha detto l’assessore alla Sanità. “Verranno utilizzati hub importanti come la Nuvola all’Eur e la stazione Termini, ma in generale tutte le strutture, in totale 27, sono attive”, ha proseguito l’assessore. Per i docenti di scuole, università e gli operatori dei servizi per l’infanzia le prenotazioni si aprono il 18 febbraio e saranno scaglionate per fasce di età secondo il calendario: 45-55 anni dal 18 di febbraio; 35-44 anni dal 22 febbraio; under 34 anni dal 26 febbraio. Questa modalità non riguarda gli studenti (over 18) che dovranno rivolgersi ai medici di medicina generale quando arriverà il loro turno. Per quanto riguarda le altre categorie, “la prima che verrà presa in considerazione dopo gli over 80, che contiamo di concludere entro aprile, sono le persone estremamente vulnerabili, per proseguire con le fasce d’età 75-79, 74-70 e così via”. In questi casi verranno utilizzati sempre i sieri Pfizer e Moderna”. Dal 1 marzo “inizieremo con le somministrazioni dei medici di medicina generale” per la popolazione “fino ai 55 anni di età”, aggiunge D’Amato. “I medici di medicina generale inizieranno con la fascia 55-54 anni nel primo mese (circa 180mila persone), la fascia 53-52 ad aprile, 51-50 a maggio”. Marche. L’avvocato Giancarlo Giulianelli è il nuovo Garante regionale dei diritti garantediritti.marche.it, 17 febbraio 2021 La nomina dell’avvocato è stata sancita dal Consiglio regionale con 18 voti favorevoli. Succede ad Andrea Nobili che negli ultimi cinque anni ha guidato l’Autorità di garanzia, chiamata ad occuparsi di difesa civica, infanzia e adolescenza, diritti dei detenuti, contrasto alle discriminazioni e sostegno alle vittime di reato. L’avvocato Giancarlo Giulianelli è il nuovo Garante per i diritti della persona della Regione Marche. La sua nomina è stata sancita dall’Assemblea legislativa con 18 voti favorevoli (nove sono andati al legale Manuela Caucci). Giulianelli succede all’avvocato Andrea Nobili che ha guidato l’Autorità di garanzia negli ultimi cinque anni e che proprio nei giorni scorsi ha ritirato la candidatura per un nuovo mandato. Istituito con legge del 2008, a cui successivamente sono state apportate diverse modifiche, il Garante regionale è chiamato ad occuparsi di difesa civica, infanzia e adolescenza, diritti dei detenuti, contrasto alle discriminazioni e sostegno alle vittime di reato, settore quest’ultimo introdotto nel marzo 2020. Resta in carico per cinque anni e, in base alla normativa vigente, puo’ essere confermato anche per un secondo mandato. Viterbo. Detenuto 45enne muore al carcere Mammagialla tusciaweb.eu, 17 febbraio 2021 È successo ieri poco prima delle 14 nel carcere viterbese. Si tratta di Emanuele Paolini, 45enne originario di Pescara. Ancora da chiarire le cause del decesso ma pare si tratti di morte naturale. La salma, al momento, è a disposizione dell’autorità giudiziaria. Palermo. Carcere Pagliarelli, contagi da Covid in calo: “Il vaccino ai detenuti” di Roberto Puglisi livesicilia.it, 17 febbraio 2021 Forse è presto per dire che al carcere Pagliarelli è tornato il sereno, ma è pure vero che i contagi da Covid tra i detenuti sono considerevolmente calati. Il primo focolaio si è ridotto di molto: da una cinquantina che erano, i positivi, sono nove, più sei casi dubbi. Nell’altra zona dell’istituto penitenziario, lì dove era divampato un nuovo focolaio, ci sono cinque contagiati. Si tratta di un aggiornamento importante, rispetto all’ultimo bollettino. Non si può parlare, appunto, di un problema superato: abbiamo imparato che il Coronavirus è un avversario subdolo. Ma si può, in questo momento, tirare un mezzo sospiro di sollievo. “Vacciniamo i detenuti” - Intanto, da più parti e con più voci, si chiede che la popolazione detenuta sia inserita tra le categorie prioritarie per la vaccinazione. Il carcere è una comunità chiusa, dove, semplicemente, non è possibile andare da un’altra parte. Di recente, con LiveSicilia.it, ha parlato l’avvocato Fabio Massimo Bognanni, vicepresidente della Camera penale di Palermo. “Vorremmo che fosse protetto l’intero universo della giustizia, senza dimenticare i detenuti che vivono in una condizione di fragilità”. Una presa di posizione, all’interno dell’avvocatura palermitana, scossa dal grave caso dell’avvocato Giovanni Lupo, ricoverato all’Ospedale “Cervello”. L’appello del garante - Una posizione già espressa dal garante regionale per i detenuti, il professore Giovanni Fiandaca, che sta seguendo la vicenda del ‘Pagliarelli’: “Già l’otto gennaio scorso ho inviato una nota formale all’assessore Razza e al presidente Musumeci per chiedere, sulla scia di quanto rappresentato dal garante nazionale e dalla conferenza dei garanti regionali, di prendere in considerazione, tra la categorie da vaccinare in via prioritaria, detenuti e personale penitenziario, o di prendere in considerazione, in subordine, gli over sessanta e i soggetti affetti da comorbilità” Chieti. Contagi da Covid in carcere, il caso in parlamento Il Centro, 17 febbraio 2021 La deputata del Movimento 5 Stelle Daniela Torto presenta una interrogazione parlamentare sui contagi Covid nel carcere teatino. “Sicuramente è una situazione che in qualche modo deve essere controllata”, dice Torto, “e credo sia necessario che i vaccini vengano somministrati sia ai reclusi sia agli operatori; sappiamo bene come qualsiasi focolaio possa allargarsi molto velocemente e anche piuttosto facilmente se non si interviene con l’attenzione necessaria e nel più breve tempo possibile. Il contagio all’intento del carcere di Chieti potrebbe diffondersi non solo all’interno dell’istituto penitenziario ma, attraverso le famiglie degli operatori che vi lavorano, anche al di fuori di esso”. Torto ha dunque annunciato che presenterà un’interrogazione parlamentare ai ministeri competenti, quello della Salute e quello della Giustizia, per sapere quali siano le azioni che intendono mettere in campo urgentemente, per contenere i contagi ed evitare che quanto sta accadendo in queste ore possa ripetersi nuovamente. “Sono sicura”, conclude la deputata, “che chi di dovere interverrà immediatamente affinché il focolaio rimanga circoscritto”. Roma. Rivolta nel carcere di Rebibbia: 55 detenuti a processo di Emilio Pucci Il Messaggero, 17 febbraio 2021 La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per una cinquantina di detenuti del carcere di Rebibbia per i disordini avvenuti all’interno del penitenziario il 9 marzo del 2020 a seguito delle misure disposte per contenere la diffusione del Covid. I pm Eugenio Albamonte e Francesco Cascini contestano, a vario titolo, reati di danneggiamento, sequestro di persona, rapina e devastazione. La rivolta avvenne tra il 7 e in 9 marzo, gli indagati furono 55, 9 gli arrestati. Durante i disordini un intero reparto venne messo a ferro e fuoco, le chiavi delle celle furono sottratte a un agente della penitenziaria, la biblioteca incendiata, l’infermeria distrutta e centinaia di medicinali rubati. Furono sequestrati e aggrediti anchedei poliziotti. Gli scontri furono ripresi dalle telecamere, immagini fondamentali per identificare i responsabili della rivolta. In base a quanto accertato dalla polizia Penitenziaria la sommossa è scoppiata prima nel reparto G11 per poi estendersi ad altri settori del complesso penitenziario. Il 24 novembre scorso, erano state emesse nove misure cautelare in carcere nei confronti di alcuni detenuti coinvolti nelle rivolte. Durante gli scontri un ispettore rimase ferito con una prognosi di 40 giorni. Dalle indagini, svolte dalla polizia penitenziaria e coordinate dalla Procura di Roma, è emerso il ruolo di quattro detenuti come promotori: dopo aver aggredito personale della polizia penitenziaria erano riusciti ad impadronirsi delle chiavi dei cancelli “filtro” così da permettere ai detenuti degli altri reparti di uscire e unirsi alla protesta. Rivolte ci furono in carceri anche di altre città. Oggi il capo della polizia Franco Gabrielli ha inviato una circolare a prefetti e questori con cui si definiscono le linee guida per la pianificazione degli interventi con l’obiettivo di una gestione più efficace di questi episodi. I prefetti sono invitati a convocare appositi Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica con la presenza del direttore del carcere e del comandante del Reparto di polizia penitenziaria di ciascuno degli istituti penitenziari presenti sul territorio. La Direzione investigativa antimafia fornirà notizie utili alla stesura del piano. Il Comitato dovrà pianificare le misure da attuare esternamente al carcere. Dovrà esser previsto il numero di forze di polizia da impiegare in base allo scenario di rischio. L’intervento all’interno dell’istituto, sottolinea la circolare, “è di natura assolutamente eccezionale e pertanto connesso con il verificarsi di eventi non ordinari”. In questi casi il direttore del carcere, sentito il comando del reparto di polizia penitenziaria, farà richiesta al competente Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Le linee guida invitano a seguire criteri di progressività. Nelle fasi iniziali le azioni potrebbero concretizzarsi in un “mero, ma visibile, dispiegamento della forza pubblica, posizionata in assetto di pronto intervento nei pressi dell’intercinta, a scopo dissuasivo e preventivo”. L’intervento all’interno dell’istituto, è l’indicazione, “può verificarsi esclusivamente in via residuale e straordinaria e solo dopo che siano stati esperiti tutti i sistemi di contenimento e le risorse a disposizione dell’amministrazione penitenziaria”. In caso di eventi di “straordinaria eccezionalità” potrà essere convocata l’Unità di crisi, con l’eventuale impiego dei reparti speciali (Nocs e Gis). Siena. Torture in carcere, sarà sentenza per 10 agenti di Ranza accusati del pestaggio di Cristian Lamorte agenziaimpress.it, 17 febbraio 2021 Sarà sentenza domani al Tribunale di Siena per 10 agenti di Polizia Penitenziaria del carcere di massima sicurezza di Ranza a San Gimignano rinviati a giudizio per tortura in concorso. I fatti contestati risalgono all’ottobre 2018 quando un detenuto, secondo l’accusa, sarebbe stato gettato a terra e colpito con calci e pugni durante un trasferimento coatto di cella. I 10 agenti insieme ai loro legali, Manfredi Biotti e Stefano Cipriani, hanno scelto fin da subito la strada del rito abbreviato. Il Pm Valentina Magnini ha chiesto 3 anni di reclusione per 8 di loro, 2 anni per uno ed un anno e 10 mesi per l’altro. Domani ci sarà il tempo delle controrepliche del Magistrato e poi camera di consiglio e, quasi certamente, la sentenza. Altri 5 agenti a processo - Si tratta di un troncone dell’indagine tradotta in centinaia di pagine e condotta dalla Procura di Siena sul presunto pestaggio di un detenuto e che aveva già portato, nel novembre del 2020, al rinvio a giudizio di altri 5 agenti accusati anch’essi di tortura dopo l’introduzione del reato per pubblici ufficiali dal 2017. I 5 agenti, a differenza dei 10 colleghi, andranno a processo e la prima udienza è fissata per il 18 maggio a Siena. Si tratta di un ispettore superiore, due ispettori capo, due assistenti capo coordinatori all’epoca dei fatti contestati in servizio nell’istituto penitenziario di Ranza, già più volte alla ribalta delle cronache per problemi di sovraffollamento. Ad un mese dalla prima condanna in Italia - La sentenza di domani per i 10 agenti che hanno scelto il rito abbreviato arriverà ad un mese esatto dalla prima condanna in primo grado in Italia per torture per un loro collega del carcere di Ferrara dell’Arginone, anch’egli a processo per aver usato violenza su un detenuto. In quel caso il fatto contestato risale al settembre 2017. Padova. Droga al Due Palazzi, chiesti 80 anni di Marco Aldighieri Il Gazzettino, 17 febbraio 2021 Le accuse a vario titolo per i diciannove imputati sono di spaccio e corruzione, per otto si va verso l’assoluzione. Il teste chiave davanti ai giudici ha snocciolato una serie di “Non ricordo”, ora rischia il processo per falsa testimonianza. Il processo sullo scandalo all’interno del carcere Due Palazzi, con l’introduzione in favore dei detenuti di droga e telefoni cellulari, è arrivato alle battute conclusive. Ieri il pubblico ministero Sergio Dini, titolare delle indagini, davanti al tribunale collegiale presieduto da Nicoletta De Nardus, ha chiesto in totale 80 anni di carcere per undici imputati, mentre per altri otto ha chiesto l’assoluzione. La prossima udienza, quella decisiva, è stata fissata per il 4 maggio. Durante le indagini prima e poi in corso di dibattimento, si sono registrati alcuni colpi di scena. Il poliziotto della penitenziaria Paolo Giordano e il detenuto Giovanni Pucci si sono tolti la vita. E poi il teste chiave Pietro Rega, indicato come il numero uno dell’organizzazione criminale nella casa di reclusione, davanti ai giudici ha fatto scena muta. Tutti quei “Non ricordo”, gli sono costati una richiesta di rinvio a giudizio per falsa testimonianza. I diciannove imputati finiti alla sbarra sono stati accusati a vario titolo di corruzione e di spaccio di sostanza stupefacente. L’accusa ha chiesto 6 anni per Gaetano Bocchetti, Giuseppe Cristino 5 anni, Ferruccio Chiostergi 5 anni ed Eros Murador 6 anni. Quindi per i due fratelli Issam e Mohamed Tlili dieci anni a testa; dieci anni anche per Adriano Patosi e per il suo compagno di cella Bledar Din-ja. Infine 5 anni per Mourad El Archi, Sigismondo Strisciuglio 5 anni e sei mesi, e Hakim Nafausi 7 anni e 6 mesi. Richiesta di assoluzione invece per Aldel Chabbaa, Amai El Archi, Ivan Firenze, Abdelhamid Jebrani, Adii Khamlich, Giuseppe Marino, Makrem Mestiri e Domenico Morelli. Il processo riguarda il primo filone delle indagini scattate nel luglio del 2014, quando gli uomini della Squadra mobile hanno scoperto il “marcio” all’interno del Due Palazzi. Rega si procurava la droga assieme a un collega contattando alcuni spacciatori nordafricani. Lo stupefacente finiva nelle mani di un pericoloso detenuto albanese, Adriano Patosi, che gestiva poi le ulteriori cessioni tra i corridoi e le celle della casa di reclusione. Gli altri canali di rifornimento per lo stupefacente, i telefoni cellulari e le Sim card facevano invece capo a due esponenti della malavita organizzata che si dividevano i profitti. Si tratta di Gaetano Bocchetti esponente del clan camorristico di Secondigliano e di Sigismondo Strisciuglio della Sacra Corona Unita. I due boss rifornivano di soldi gli agenti penitenziari ottenendo in cambio hashish, eroina, ma anche chiavette Usb, computer e telefoni cellulari, con cui poter mantenere senza difficoltà i contatti con le rispettive organizzazioni criminali. Il teste chiave davanti ai giudici ha fatto scena muta. L’ex agente della polizia penitenziaria, Pietro Rega, indicato come il boss uno dell’organizzazione criminale in carcere, ha di fatto ritrattato quanto in precedenza dichiarato agli inquirenti. Scarcerato il 19 novembre del 2019, dopo cinque anni di cella, il “Capo” o “Uomo brutto”, così era soprannominato, al magistrato ha sciorinato una serie di “Non ricordo”. Le uniche accuse le ha mosse nei confronti di detenuti deceduti. Aggiungendo anche: “Mi hanno indotto a dire certe cose”. Rega, nel lontano 2001 era già stato arrestato per fatti analoghi dalla Dda di Napoli quando lavorava nel carcere di Avellino. Contro la violenza delle parole, una piattaforma digitale aperta a insegnanti e genitori Corriere della Sera, 17 febbraio 2021 #AncheIoInsegno è un’iniziativa nata dalla collaborazione fra l’associazione Parole_Ostili e il ministero dell’Istruzione. Appello della Presidente Rosy Russo al governo: “Introdurre un’ora di cittadinanza digitale a settimana in tutte le scuole”. Una piattaforma piena di contenuti per affrontare a scuola ma anche a casa temi sensibili come il bullismo, il cyberbullismo, i rischi e opportunità della Rete, i diritti e doveri online, le fake news, gli hate speech, la web reputation, il revenge porn, il body shaming e la privacy online. Sarà online da mercoledì 17 febbraio 2021 e a disposizione di tutti gli insegnanti e i genitori che si vorranno iscrivere alla community di “Parole O_Stili”, l’associazione che lavora a sensibilizzare i più giovani contro la violenza delle parole. Giunta al quarto anno di collaborazione con il ministero dell’Istruzione l’associazione ha deciso di mettere a disposizione di insegnanti e genitori i progetti didattici realizzati per gli oltre 800 mila studenti che già hanno lavorato sui principi del Manifesto della comunicazione non ostile e su tematiche come la cittadinanza digitale e l’uso consapevole del web. Contro il bullismo e il cyberbullismo - Secondo quanto emerso dal Rapporto giovani 2021 realizzato dall’Istituto Toniolo (ente fondatore dell’Università Cattolica), i ragazzi riconoscono alla scuola di averli aiutati a sviluppare il senso di responsabilità (52,6%), il desiderio di imparare (50,8%), il pensiero critico (50,3%) e la capacità di lavorare in gruppo (50,1%) ma lamentano l’incapacità di esprimere una visione positiva della vita e di se stessi e l’incapacità di essere leader. Ed è proprio a sostegno di queste necessità e per supportare la crescita dei ragazzi e delle ragazze che è nata #AncheIoInsegno. La piattaforma - raggiungibile al link ancheioinsegno.it e aperta a tutti previa iscrizione - sarà una sorta di database, pronta a soddisfare le necessità didattiche di tutti quegli educatori, insegnanti e genitori che vogliono affrontare in classe o a casa temi come: bullismo e cyberbullismo. Un’ora di cittadinanza digitale - “Siamo sempre più convinti che l’educazione sia l’unica risposta per affrontare le sfide poste dal web - dice Rosy Russo, Presidente di - ed è per questo motivo che lancio l’appello per l’introduzione di un’ora di cittadinanza digitale a settimana nelle scuole, rafforzando la consapevolezza che virtuale è reale. L’istruzione deve essere una priorità del nostro Paese, motivo per cui ho accolto con grande piacere il richiamo del Presidente del Consiglio incaricato, Mario Draghi, sulle urgenze che il nuovo governo dovrà affrontare”. Oltre alla nuova piattaforma, Parole O_Stili sta per lanciare un’indagine demoscopica che coinvolgerà insegnanti di ogni ordine e grado e gli studenti della secondaria di secondo grado, con l’obiettivo di restituire una fotografia della situazione emotiva e sociale del mondo scuola dopo un anno di didattica a distanza. L’indagine sarà condotta da Ipsos con il sostegno dell’Istituto Toniolo. A questo si aggiunge un progetto didattico smart dedicato alle classi della secondaria e che coinvolgerà tre volti noti tra i più giovani: la youtuber Sofia Viscardi e i cantanti Coma_Cose, prossimi partecipanti a Sanremo. Il progetto culminerà con un evento live il prossimo 24 febbraio alle ore 10 sul canale YouTube di Parole O_Stili con la presenza di migliaia di studenti. Libia. Dieci anni dalla rivolta, la Nato e le occasioni perdute di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 17 febbraio 2021 Il 17 febbraio 2011, sull’onda di grandi speranze di libertà e democrazia passata alla storia come “primavera araba”, la protesta che portò alla caduta di Gheddafi. L’inizio delle rivolte in Libia dieci anni fa avvenne per il coraggio della popolazione, specie in Cirenaica, che invase le piazze contro la dittatura. Accadde sull’ondata di grandi speranze in nome di libertà e democrazia passata alla storia come “primavera araba”. Se erano appena stati defenestrati Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto, perché mai non avrebbe dovuto avvenire anche per Muammar Gheddafi? Il 17 febbraio 2011 Bengasi si era proclamata “libera” e già un comitato formato da intellettuali locali cercava di organizzare una sorta di autorità per governare la società civile e soprattutto le attività militari. Nel frattempo, si sollevavano Misurata, Tobruk, Derna, Zintan, Zawia, le proteste raggiungevano i sobborghi di Tripoli. Detto questo, occorre però sottolineare con chiarezza che senza l’intervento militare Nato, in particolare francese, americano e britannico, le rivolte sarebbero state battute nel sangue soltanto dopo poche settimane di vita. Gran parte dell’opinione pubblica internazionale accolse come oro colato la propaganda dei rivoltosi, per cui Gheddafi utilizzava mercenari africani per combattere la sua gente. Era falso. Il nocciolo duro delle truppe filo-regime era composto da figli delle tribù fedeli al Colonnello. Non sapremo mai quanto davvero contassero e che peso avrebbero avuto in caso di libere elezioni. Ma resta il fatto che, se il 19 marzo le colonne di Gheddafi non fossero state distrutte dai jet francesi alle porte di Bengasi, in pochi giorni la rivoluzione sarebbe finita. L’errore fu poi non cercare il compromesso. Evitato il bagno di sangue, la Nato avrebbe potuto insistere per facilitare il dialogo con il regime. Saif al Islam, il figlio più politico di Gheddafi, proponeva apertamente libere elezioni sotto supervisione internazionale. Non se ne fece nulla. Il seguito è cosa nota: la Libia resta nel caos. Gli errori di quel periodo chiedono ancora un’attenta lettura. Bielorussia, ondata di arresti e perquisizioni: nel mirino giornalisti e attivisti per i diritti umani di Rosalba Castelletti La Repubblica, 17 febbraio 2021 Fermato il presidente dell’Associazione bielorussa dei giornalisti (Baj) Andrej Bastuntes. Raid nella sede dell’ong Viasna. Solo l’anno scorso 477 reporter sono stati arrestati. Ondata di perquisizioni in Bielorussia dove dal 9 agosto 2020 sono in corso proteste senza precedenti contro la contestata rielezione del presidente Aleksandr Lukashenko tra accuse di brogli e frodi elettorali. Nel mirino 22 giornalisti, sindacalisti e attivisti per i diritti umani, riportano i media indipendenti bielorussi e l’ong Viasna. Perquisizioni sono in corso in diverse città del Paese - la capitale Minsk, Brest, Gomel, etc - e nella stessa sede del centro per i diritti umani Viasna. Diverse persone sono state arrestate, tra cui il presidente dell’Associazione bielorussa dei giornalisti (Baj) Andrej Bastuntes. “Stanno sfondando la mia porta. Non abbiamo violato nulla”, è riuscito a scrivere sul suo profilo Facebook Barys Haretski, portavoce di Baj, prima di essere disconnesso dalla Rete. Secondo il Comitato investigativo bielorusso, responsabile delle inchieste penali nel Paese, questi raid rientrano nell’ambito delle indagini sull’organizzazione e preparazione delle azioni di protesta “che violano gravemente l’ordine pubblico” ai sensi dell’articolo 342 del codice penale. “Arrestare e perquisire abitazioni e uffici di giornalisti indipendenti dimostra ancora una volta che le autorità stanno cercando di fare i loro ‘compiti’ dopo le presidenziali 2020 e i conseguenti arresti. Molte ong non erano state chiuse in vista delle elezioni per mantenere le apparenze, inclusa Baj. Ora le autorità creano incriminazioni, come finanziamento delle proteste, per paralizzarne le attività”, ha commentato Maryia Sadouskaya-Komlach, giornalista bielorussa e coordinatrice presso la “Free Press Unlimited”. La scorsa settimana, inaugurando “l’Assemblea del popolo bielorusso” per discutere di riforme e di sviluppo el Paese, riferendosi alle proteste, Lukashenko aveva detto di aver sconfitto il “Blitzkrieg” dell’Occidente. “La guerra lampo non ha funzionato, controlliamo il nostro Paese”, aveva assicurato il leader rivolgendosi ai 2.700 partecipanti all’Assemblea, tutti selezionati dalla presidenza, senza nessun esponente dell’opposizione. Secondo l’Associazione bielorussa dei giornalisti, 477 reporter sono stati arrestati lo scorso anno nel Paese e molti di loro sono sotto inchiesta penale. Due corrispondenti della televisione Belsat, con sede in Polonia, Katerina Bakhvalova e Daria Chultsova, 27 e 23 anni, rischiano tre anni di carcere per aver, secondo le autorità, “minato gravemente l’ordine pubblico”. Il loro processo è iniziato la scorsa settimana e dovrebbe riprendere oggi. In totale sono 256 i detenuti politici riconosciuti nel Paese. Molti rischiano dai 5 ai 15 anni di carcere. Stati Uniti. Entrato in carcere a 15 anni ne esce a 83: “Ma ero innocente” di Angela Marino fanpage.it, 17 febbraio 2021 In carcere dall’età di 15 anni per due omicidi che afferma di non aver commesso, è tornato a essere un cittadino libero dopo 68anni quando il suo ergastolo è stato dichiarato incostituzionale. Tutti i suoi cari oggi sono morti, ma Joseph Ligon, 83 anni, cittadino americano, ha fatto sapere di voler vivere pienamente i suoi anni da uomo libero. Con la condannata incassata, Ligon è stato il detenuto minorenne che ha trascorso più tempo dietro le sbarre. Quasi sette decenni dopo il verdetto, l’11 febbraio scorso, è uscito dalla prigione federale da uomo libero. Era stato condannato all’ergastolo per aver preso parte a una serie di rapine e aggressioni con un gruppo di adolescenti che provocarono la morte di due persone, a Philadelphia, nel 1953. Nonostante la condanna Ligon ha sempre affermato di non aver causato direttamente gli omicidi. Il suo rilascio è stato possibile grazie all’impegno dei suoi legali e del progetto Youth Sentencing & Reentry (Ysrp) di Philadelphia che sta lavorando ancora oggi per rendere la sua transizione alla vita post-carceraria il più agevole possibile. L’ex detenuto si sta ambientando in un mondo completamente nuovo. “Per quanto il mondo sia cambiato da quando il signor Ligon è andato in prigione per la prima volta, è cambiato anche lui. La sua esperienza nel tornare come un uomo nuovo è fondamentalmente”, ha detto Eleanor Myers, consulente senior di YSRP. “È incredibilmente allegro e stupito dai cambiamenti avvenuti a Filadelfia dal 1953, in particolare dagli edifici alti”. “Quello che gli manca di più, però, sono le persone che ha lasciato entrando in carcere e non ha più ritrovato”. Accusata di sedizione, in carcere Disha Ravi, la Greta dell’India che si batte per l’ambiente di Luca Zanini Corriere della Sera, 17 febbraio 2021 Ha solo 22 anni ma è già considerata dal suo governo un “nemico pubblico”. Per questo è stata arrestata con l’accusa di “sedizione”: in manette è finita sabato Disha Ravi, soprannominata la Greta del subcontinente per aver fondato la sezione di Bangalore di Fridays For Future. È accusata di aver diffuso sul web un manuale in sostegno allo sciopero degli agricoltori contro tre leggi neoliberiste a favore delle grandi industrie indiane accusate di land grabbing. Come lei, negli ultimi giorni sono finiti in manette Shantanu Mulak, attivista per il clima, e l’avvocatessa Nikita Jacob, 30 anni: tutti accusati di aver preso parte ad un incontro “sospetto” su Zoom. Disha si batte da tempo per il contenimento dei gas serra e il rispetto dell’ambiente: un suo tweet di pochi giorni fa su come sostenere la lotta dei contadini poveri in India è stato rilanciato proprio dalla giovane attivista svedese Greta Thunberg e questo ha fatto infuriare le autorità di Delhi. Dopo l’arresto avvenuto nella sua abitazione di Bangalore, Ravi è stata trasferita in aereo nella capitale dove è in custodia giudiziaria presso una stazione di polizia. Domenica è comparsa alla prima udienza in tribunale, accusata di “diffondere disaffezione verso lo stato indiano”. I giudici ne hanno ordinato la custodia cautelare per approfondire le indagini sul suo presunto crimine: secondo i suoi acusatori, potrebbe aver partecipato alla preparazione del piano per l’assalto al Forte Rosso durante la protesta di massa degli agricoltori lo scorso 26 gennaio a Delhi. (continua a leggere dopo il video) Studentessa modello, diplomata in Economia e specializzata in Finanza, la giovane attivista si mantiene facendo la cameriera in un ristorante vegano, e nel tempo libero pianta alberi e organizza gruppi per ripulire laghi e fiumi dai rifiuti. In tutta l’India si sono registrate manifestazioni di protesta e centinaia di attivisti e simpatizzanti di Fridays for Future hanno manifestato chiedendo la liberazione di Ravi in numerose città. Martedì 16 febbraio una folla di ragazzi con cartelli e foto di Disha si è radunata davanti al Comando generale della Polizia a Delhi. Numerosi politici dei partiti d’opposizione, tra cui vari esponenti del partito del Congresso, hanno contestato l’arresto della giovane ambientalista definendolo “un attacco alla democrazia”. La Coalition for Environmental Justice in India accusa la polizia indiana di abuso di potere e contesta che Disha sia stata portata a Delhi senza rivelare neppure ai suoi genitori dove fosse reclusa, definendo l’arresto “un sequestro extragiudiziale”. Nipote di contadini: li ho visti soffrire - Disha è un’attivista molto nota non soltanto a Bangalore ma in tutta l’India: scrive rubriche e articoli sui principali siti che si occupano di lotta ai cambiamenti climatici e partecipa a forum internazionali sul clima frequentati da giovani di tutto il mondo. In un’intervista con Auto Report Africa nel 2020, aveva raccontato di come era nata la sua passione per l’attivismo climatico: “Mi sono unita a chi combatte per l’ambiente e contro il surriscaldamento globale - aveva spiegato - dopo aver visto i miei nonni, che sono agricoltori, lottare e soffrire contro gli effetti della crisi climatica. All’epoca non sapevo che quello che stavano vivendo fosse dovuto alla crisi climatica, perché l’educazione climatica non esiste da dove vengo. Solo leggendo e studiando, facendo ricerche, ho poi capito che cosa minaccia gli agricoltori e tutti noi”. La solidarietà di Fridays for Future Italia - I ragazzi di Fridays for Future Italia si dicono “sgomenti” e seguono con attenzione gli sviluppi della vicenda. La procedura sommaria che ha portato all’incarcerazione di Disha è stata persino oggetto di discussione della loro ultima call nazionale. “Sarà tuttavia difficile organizzare delle manifestazioni per chiederne il rilascio”, commenta Sarah Brizzolara di Fridays for Future Milano. La pandemia ha reso impossibili le grandi proteste di piazza. “Per ora stanno girando alcune petizioni su Change.org (ndr. una ha già superato le 15 mila firme), non so se questo arresto porterà poi a una mobilitazione globale dei Fridays. Noi diamo spesso per scontato il fatto d’esser liberi d’esprimerci e di manifestare: queste storie, invece, ti fanno capire il valore della libertà”.