“La giustizia sia equa, la pena proporzionata, i detenuti recuperati” di Marta Cartabia Il Dubbio, 16 febbraio 2021 Pubblichiamo un estratto della relazione del 2020 dell’allora presidente della Corte Costituzionale e nuovo guardasigilli. “Occorre muovere da una considerazione, solo apparentemente ovvia e banale: il compito di garantire e attuare i principi costituzionali è di per sé inesauribile e coinvolge tutte le Istituzioni repubblicane. Vero è che alla Corte costituzionale spetta una funzione insostituibile, che è quella di assicurare il rispetto dei principi costituzionali anche da parte del Legislatore. È altresì vero, però, che la piena attuazione dei principi costituzionali ha un carattere necessariamente corale e richiede l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni: Giudici ordinari, Corti sovranazionali, Regioni, Pubblica Amministrazione e soprattutto Legislatore nazionale. Come già sottolineato dal presidente Lattanzi nella 7 relazione dello scorso anno, le pronunce della Corte costituzionale sono, molto spesso, “più che il punto conclusivo di una certa vicenda, il punto intermedio di uno sviluppo normativo che trova compimento solo quando il Legislatore lo conclude”. O meglio, con una sentenza della Corte si conclude in via definitiva una questione di costituzionalità: contro le sentenze della Corte costituzionale non è ammessa alcuna forma di impugnazione (art. 137 della Costituzione); ma la decisione della Corte non è che un frammento di un processo e di una dinamica ordinamentale che prosegue in altre sedi. Di qui la necessaria cooperazione che deve governare i rapporti tra tutte le Istituzioni. Le proficue relazioni tra la Corte costituzionale e gli altri Giudici sono ormai un dato acquisito dell’esperienza italiana di giustizia costituzionale e pressoché unico nel quadro del diritto comparato, che ha portato storicamente e porta tuttora frutti preziosi in termini di effettività del sistema di controllo di costituzionalità. Altrettanto importante per ricondurre a Costituzione l’ordinamento legislativo, tuttavia, è anche il rapporto di collaborazione tra la Corte costituzionale e il Legislatore - Governo e Parlamento - essenziale quanto il rispetto della necessaria separazione dei poteri. Separazione e cooperazione tra poteri sono due pilastri coessenziali e complementari che reggono l’architettura costituzionale repubblicana. L’indipendenza reciproca tra i poteri non contraddice la necessaria interdipendenza fra gli stessi, specie in società ad alto tasso di complessità, come sono quelle contemporanee. Da tempo e in numerose circostanze la giurisprudenza costituzionale ha affermato la centralità del principio costituzionale di leale cooperazione, non solo con le altre giurisdizioni, nazionali ed europee, non solo nei rapporti tra Stato e Regioni, ma anche, e soprattutto, nei rapporti tra gli 8 organi costituzionali, come condizione fondamentale per un corretto funzionamento del sistema istituzionale e della forma di governo. Il terreno su cui si fa urgente, direi improcrastinabile, la cooperazione da parte del Legislatore è quello delle cosiddette “sentenze monito”. Accade frequentemente che nelle motivazioni delle sentenze della Corte costituzionale - di accoglimento, di rigetto o di inammissibilità - si incontrino espressioni che sollecitano il Legislatore a intervenire su una determinata disciplina, allorché la Corte individui aspetti problematici che sfuggono alle sue possibilità di intervento e che richiedono invece un’azione delle Camere. Di norma, tali affermazioni sono denominate come “moniti” al Legislatore, ma si tratta più propriamente di “inviti” rivolti al Governo e alle Camere, in spirito cooperativo, per porre rimedio a situazioni normative problematiche, obsolete o comunque suscettibili di evolvere in un vero e proprio attrito con i principi costituzionali. Nel corso del 2019 si incontrano numerosi esempi, in vari ambiti (raccolti dal Servizio studi in un apposito documento): in materia previdenziale, finanziaria e di bilancio, di riscossione fiscale, penale e dell’esecuzione penale e molti altri. Spesso i “moniti” danno luogo al fenomeno delle cd. “doppie pronunce”: in un primo momento la Corte indica al Parlamento i punti problematici che richiederebbero una modifica legislativa, ma se il problema persiste e continua ad essere portato all’esame della Corte, questa non può che porre essa stessa rimedio, utilizzando gli strumenti normativi a disposizione. Un esempio è costituito dalla sentenza n. 40, avente ad oggetto le misure sanzionatorie dei reati in materia di traffico di stupefacenti, ultima di una 13 lunga serie in cui la Corte aveva invano sollecitato il Legislatore a sanare un vizio di proporzionalità della pena. Non mancano, fortunatamente, esempi virtuosi, in cui la collaborazione con il Parlamento ha tempestivamente funzionato, com’è accaduto con la sentenza n. 20 in materia di pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi e dei dati patrimoniali dei dirigenti pubblici e dei loro congiunti. A seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale, il legislatore ha raccolto l’invito della Corte costituzionale con il decreto-legge 30 dicembre 2019 n. 162 (cd. “Mille-proroghe”), in attesa di attuazione con apposito regolamento governativo. Un’attenzione particolare è stata riservata, nel 2019, alla giustizia penale, proseguendo il cammino tracciato negli ultimi anni. Le novità non attengono tanto al terreno del processo penale, quanto ai terreni del diritto penitenziario e dello stesso diritto penale sostanziale, nel quale la giurisprudenza costituzionale si era mossa in passato con grande deferenza verso la discrezionalità legislativa. Tuttavia, è sembrato sempre più inaccettabile che proprio là dove vengono in rilevo i diritti fondamentali della persona di fronte alla potestà punitiva dello Stato, la Corte dovesse arrestare il proprio sindacato per mancanza di univoche soluzioni: perciò, anche in questo ambito una nuova sensibilità ha imposto alla Corte di rinvenire nell’ordinamento soluzioni adeguate a rimuovere la norma lesiva della Costituzione, allo stesso tempo preservando la discrezionalità del Legislatore. Nella giurisprudenza costituzionale degli anni più recenti emergono alcuni principi fondamentali alla luce dei quali la Corte svolge un vaglio di legittimità più puntuale anche in questi settori. Il principio di proporzionalità della pena, implicito nel principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e nella 16 finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.), ed esplicitamente formulato nella giurisprudenza delle Corti europee. In applicazione del principio di proporzionalità la Corte si è pronunciata, con esiti opposti, nella sentenza n. 40, in materia di reati legati al traffico di stupefacenti, e nella sentenza n. 284, in materia di oltraggio a pubblico ufficiale. Altri principi che stanno guidando la giurisprudenza della Corte sono quelli della individualizzazione e della flessibilità del trattamento penitenziario, orientati alla piena realizzazione della finalità rieducativa della pena richiesta dall’articolo 27 della Costituzione. Nel 2019 tali principi hanno condotto la Corte a decisioni di grande impatto. Ad esempio, la sentenza n. 99 ha esteso l’ambito di applicazione della detenzione domiciliare, nel caso di condannati affetti da gravi malattie psichiche sopravvenute all’inizio dell’esecuzione della pena. Ma di speciale rilievo è la sentenza n. 253, che ha dichiarato illegittimo l’articolo 4bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non consente ai condannati per i delitti ivi elencati la concessione di permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. La Corte ha ritenuto che la vigente disciplina, introducendo una preclusione assoluta alla concessione del beneficio dei permessi premio, impedisse ogni verifica in concreto del percorso di risocializzazione compiuto in carcere dal detenuto, rischiando di arrestare sul nascere tale percorso. Una tale presunzione deve poter essere superata attraverso la dimostrazione caso per caso dell’avvenuto distacco del condannato dal contesto associativo di riferimento, e della insussistenza di un pericolo di ripristino di tale collegamento durante la fruizione del beneficio. Anche nel tempo presente, dunque, ancora una volta è la Carta costituzionale così com’è - con il suo equilibrato complesso di principi, poteri, limiti e garanzie, diritti, doveri e responsabilità - a offrire alle Istituzioni e ai cittadini la bussola necessaria a navigare “per l’alto mare aperto” dell’emergenza e del dopo- emergenza che ci attende. L’intera Repubblica e tutte le sue Istituzioni - politiche e giurisdizionali; statali, regionali, locali - stanno indefessamente lavorando nella cornice europea per il comune obiettivo di servire al meglio le esigenze dei singoli cittadini e dell’intera comunità. Nella società civile sono ovunque fiorite iniziative spontanee di solidarietà. Alle Istituzioni, lo spirito che la contingenza richiede è stato espresso dalle parole rivolte dal Presidente della Repubblica agli italiani sin dall’inizio della crisi, il 5 marzo 2020: “Il momento che attraversiamo richiede coinvolgimento, condivisione, concordia, unità di intenti”: nelle Istituzioni, nella politica, nella vita quotidiana della società, nei mezzi di informazione. I momenti di emergenza richiedono un sovrappiù di responsabilità ad ogni autorità e in particolare agli operatori dell’informazione, che svolgono un ruolo decisivo per la vita sociale e democratica". Rivolte in carcere e presidi di protesta, le linee guida del capo della polizia di Lorenza Pleuteri repubblica.it, 16 febbraio 2021 A un anno dalle proteste che causarono la morte di 13 detenuti, una circolare riservata stabilisce le procedure per reprimere sommosse e azioni violente e per contrastare i picchetti. Critiche e perplessità dai direttori dei penitenziari. I dubbi che basti un atto amministrativo per disciplinare competenze in carico a soggetti diversi. Pianificazione a monte, a livello provinciale. Attivazione diretta dei comandanti della polizia penitenziaria, scavalcando i direttori delle carceri, da parte dei questori. Impiego dei reparti Mobili, gli ex celerini, da schierare in caso di rivolte e di manifestazioni di protesta, con una attenzione particolare alle iniziative organizzate da anarchico-insurrezionalisti. Elicotteri e idranti, protezione aerea e navale. Coinvolgimento delle Direzioni investigative antimafia, delle teste di cuoio di Nocs e Gis e pure dei militari dell’operazione Strade sicure. A quasi un anno dalle violente rivolte in decine di case di reclusione e dalla morte di 13 detenuti - una strage senza precedenti - qualcosa si muove. Studiare in carcere: i Poli universitari penitenziari di Carmelina Maurizio tecnicadellascuola.it, 16 febbraio 2021 È salita agli onori della cronaca in questi giorni la notizia segnalata dalla Conferenza dei Poli Universitari Penitenziari Universitari, istituiti nel 2018, che hanno reso noto l’aumento del numero di detenuti che hanno deciso di accedere agli studi accademici. In particolare, il record di iscritti spetta alla Sardegna, dove il 5,4% delle persone nelle carceri dell’isola frequenta un corso in università, contro l’1,4% nazionale. Abbiamo iniziato in una ventina di atenei - ha detto Franco Prina, presidente Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari della Conferenza dei Rettori italiani - Oggi siamo 37 e copriamo regioni nuove, come Puglia e Sicilia, in cui stiamo attivando nuove convenzioni con i provveditorati. In totale l’anno scorso erano 920 i detenuti iscritti in università italiane che offrono questo servizio. L’Università di Cagliari - La Rettrice del polo cagliaritano, Maria Del Zompo, ha parlato di ascensore sociale, commentando il successo degli atenei sardi in ambito carcerario. L’Università di Cagliari ha garantito lezioni e seminari, con la collaborazione di tecnici e docenti e inoltre la pandemia ha fatto sì che anche l’amministrazione penitenziaria adottasse collegamenti multimediali che hanno consentito anche in questo periodo la partecipazione dei detenuti ai corsi. Negli anni scorsi gli studi scientifici dello staff della prof.ssa Cristina Cabras - ha aggiunto il Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia Gianfranco De Gesu - hanno dimostrato che quando i detenuti delle colonie penali sarde avevano la possibilità di acquisire competenze attraverso lo studio, il tasso di recidiva crollava. A rivelare i dati del boom in Sardegna, ma anche a far riflettere sugli studi universitari in case di pena, è stato il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Maurizio Veneziano, che ha definito il fenomeno delle sedi universitarie carceraria sarde fortemente significativo di un’azione ben condotta in questa regione con il supporto dell’amministrazione penitenziaria nazionale, che ha saputo creare una rete interistituzionale in grado di far salire questo dato a livelli così importanti. Inoltre, lo stesso Provveditore ha fatto rilevare come lo studio, la cultura e il lavoro, che sono considerati elementi premianti in ambito carcerario, riducano la recidiva, creando un risparmio notevole per l’amministrazione pubblica, un detenuto infatti costa allo Stato in media 300 euro al giorno. Studi universitari e Poli Penitenziari - Attualmente sono 75 su 190 le sedi carcerarie dove sono attivi i poli penitenziari universitari. Il regolamento di esecuzione adottato con d.p.r.30 giugno 2000, n. 230 ha introdotto diverse agevolazioni per gli studi accademici, come la possibilità per gli studenti di essere assegnati a camere e reparti adeguati per potersi concentrare nello studio, di tenere nella propria camera libri, pubblicazioni ed altri strumenti didattici. I Poli universitari penitenziari sono stati realizzati grazie a protocolli d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e/o i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione penitenziaria (Prap) e le diverse sedi universitarie del territorio. Poli universitari penitenziari o - comunque - accordi volti a favorire il compimento degli studi universitari sono oggi presenti in diverse regioni italiane tra cui Lazio, Sardegna, Abruzzo, Triveneto, Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Calabria, Marche, Emilia Romagna, Puglia e Lombardia. Giustizia. Anche per il penale serve una svolta più civile di Paolo Borgna Avvenire, 16 febbraio 2021 La notizia che il nuovo governo, in materia di giustizia, si occuperà principalmente di riforma del processo civile, tralasciando il penale, è una buona notizia. Non certo per scarsa capacità della nuova ministra, grande giurista di profonda cultura che, in un quadro politico diverso, potrebbe farsi levatrice di un vero rinascimento della giustizia italiana. Ma perché il breve tempo residuo di questa legislatura e la radicale diversità di orientamento di alcune delle forze politiche che stanno dando vita al nuovo esecutivo costituiscono, per la Guardasigilli, una gabbia stretta che impedisce la lunga marcia riformatrice di cui la giustizia ha bisogno. Ritessere una nuova fiducia dei cittadini verso la giustizia è un’impresa per cui servono tempo e pazienza. Che non può essere improvvisata (come accaduto negli ultimi anni) con qualche riformetta che ha come retroterra un generico elenco di buoni propositi. Due sarebbero comunque i piani da non trascurare e da cui, anzi, ripartire (oltre a quello del processo civile, che il governo affronterà): far funzionare meglio il processo penale e rendere meno opaca la vita interna della magistratura, rafforzando la sua indipendenza, ma evitando che essa assuma le forme dell’arrogante separatezza. Il primo piano di intervento riguarda le regole del processo, la sua eccessiva lunghezza e la credibilità delle sentenze emesse dai tribunali; e dunque comporta una rivisitazione delle procedure e delle tante regole disordinatamente affastellatesi negli ultimi decenni. Il secondo piano riguarda l’ordinamento giudiziario, lo statuto dei magistrati, la disciplina delle loro carriere e responsabilità. Piani diversi che, però, si intersecano. Perché quello che chiamiamo ‘populismo giudiziario’ - il bisogno immediato di una condanna, ricercata non nelle sentenze, ma nella verità delle procure e nelle loro propalazioni giornalistiche; la fase delle indagini utilizzata come anticipazione della pena - è una malattia figlia di frustrazioni alimentate dall’eccessiva durata dei processi. Se le sentenze definitive arrivassero in tempi più accettabili, l’esclusiva e morbosa attenzione dell’opinione pubblica verso l’operato delle procure sarebbe attenuata, sdrammatizzata. Ma, per tendere a questo risultato, c’è bisogno di un robusto retroterra culturale, che sappia ispirare le scelte che la politica autonomamente dovrà compiere. Questa elaborazione culturale, svincolata dalle contingenze della politica e dagli interessi personali, in questi anni è stata insufficiente. Perché dietro la “modestia etica” della magistratura, di cui ha parlato il presidente Mattarella a proposito della ‘vicenda Palamara’, c’è anche una modestia culturale che ha tanti padri. Il principale dei quali è l’incapacità di dialogo e il clima asfittico in cui da decenni vivono gli attori del sistema giudiziario. Nessuno di questi attori ha, da solo, la forza morale per uscire da questa crisi culturale. Nessuna “rigenerazione morale”, di cui molti parlano con riferimento alla magi-stratura, è possibile rimanendo rinchiusi nella propria torre di avorio. Se ne può uscire soltanto - come più volte questo giornale ha scritto - aprendo una nuova stagione di dialogo tra avvocati, magistrati e università, che, partendo dall’ascolto delle esigenze dei cittadini, sappia fondere l’esperienza sul campo delle prime due categorie con la sapiente e più distaccata riflessione dell’accademia. È un’opera lunga. Ma non ha alternative. Se la nuova Guardasigilli sarà in grado, pensando anche alla prossima legislatura, di porre almeno le fondamenta per questa nuova stagione, compirà un capolavoro. Degno di passare alla storia. Un equilibrio più avanzato per il diritto penale malato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2021 C’è un malato ai piani nobili del nostro ordinamento giuridico. Ed è un malato eccellente, il diritto penale, le cui criticità sono sotto gli occhi di tutti e al quale peraltro tutti (o molti) chiedono troppo. Ed è un passaggio impervio non solo per gli operatori del diritto. Dove al cronista peraltro toccherebbe qualificare la stagione attuale come fase forse terminale di quel panpenalismo sfociato poi in populismo giudiziario, coni quali si fanno ora i conti in questo scorcio finale di legislatura. E dall’accademia, almeno quella più attenta alle politiche del diritto, arrivano ora analisi non solo qualificate, cosa forse scontata, ma anche puntuali e tempestive. Se ieri sono state eccellenze come Ennio Amodio con “A furor di popolo” (Donzelli) o Filippo Sgubbi nell’aureo e purtroppo conclusivo pamphlet “Il diritto penale totale” (il Mulino), ora arriva Roberto Rampioni, docente a Tor Vergata, con cento concentratissime pagine a interrogarsi sul diritto penale e sui suoi limiti, “Diritto penale. Scienza dei limiti del potere punitivo” (Giappichelli, pagg. 102, euro 15,00). Dove già l’oggetto della ricerca assume per certi versi il tono della provocazione, nel qualificare il diritto penale come la scienza dei limiti del potere punitivo. Quando i mali sono invece del tutto evidenti: dalla flessibilizzazione per il predominio dell’idea di scopo su quella di diritto, alla materializzazione, per il sempre più frequente utilizzo di valutazioni di contenuto, alla moralizzazione, da intendere come perdita di laicità dell’ordinamento, per finire con la soggettivizzazione, tendenza a privilegiare gli elementi che esprimono l’atteggiamento interiore di chi agisce, a danno di quelli oggettivi del fatto reato. A soccorrere allora, nella lettura di Rampioni, è la determinazione di quella linea di confine del “diritto penale frammentario”, che passa da quanto offre la teoria del bene giuridico. Una sorta di “ritorno ai fondamentali”, nella consapevolezza però che la nozione di bene giuridico non può essere cristallizzata una volta per sempre, piuttosto deve trovare definizione sia dai processi sociali, che fanno emergere il bene, sia da quelli politico criminali, che lo incasellano a bene giuridico. Quest’ultimo allora è “solo” quell’interesse umano che richiede una tutela di natura penale. Di fatto però oggi è proprio il parametro della meritevolezza della tutela, come criterio per l’individuazione dei beni da proteggere anche sul piano penale, quello più invasivo in uno Stato liberale, a essere più in difficoltà per l’assenza di una tavola di valori se non generalmente, quanto meno ampiamente condivisi. Ma di qui anche la necessità, Rampioni non lo nasconde, della ricerca di quello che in altre epoche si sarebbe qualificato come un equilibrio più avanzato, perché, se è vero che nel processo legislativo democratico un ruolo determinante è rappresentato dal principio di maggioranza, tuttavia proprio nel campo penale sarebbe necessario mitigare il riconoscimento alla maggioranza della determinazione dell’area della penalità, con l’opportunità di una maggioranza qualificata(almeno) per l’introduzione di nuove norme penali. Di sicuro, il riconoscimento del carattere storicamente condizionato degli interessi meritevoli di protezione non evita la riflessione sul perimetro della tutela penale e sulla selezione degli interessi stessi. E allora, sotto il primo profilo, lo strumento concettuale privilegiato deve essere quello della natura ultra-individuale degli interessi, caratterizzati da un numero indeterminato di posizioni coinvolte. Mentre nel nostro ordinamento penale, la distinzione passa tra delitti e contravvenzioni, queste ultime esempio di una protezione “minore”, non indirizzata alla protezione di beni in quanto tali, ma presidio della regolarità di procedure di soluzione di conflitti. Giustizia, prima sfida: un lodo Cartabia per evitare la guerra sulla prescrizione di Errico Novi Il Dubbio, 16 febbraio 2021 Sisto (FI): “È la ministra della pacificazione, pronti ad ascoltarla” Camere penali e Anm: “Il nostro testo condiviso è a disposizione”. Non è un contrordine: la priorità del governo sulla giustizia resterà la riforma del processo civile. Ma sono bastate poche ore per far emergere una necessità politica immediata: nelle prossime ore si dovrà votare sugli emendamenti che congelano la prescrizione di Bonafede, serve dunque una soluzione sul penale che eviti di trasformare il Parlamento in un campo di battaglia, e di trovarsi subito con una rottura fra i 5 stelle e il resto della maggioranza. Il responsabile Giustizia di FI Sisto dice: “I nostri emendamenti sono là, ma Cartabia è l’eccellenza, siamo disponibili ad ascoltare la sua proposta sulla riforma del processo”. Sarà un momento di tensione massima. Già venerdì prossimo, dopo che il governo di Mario Draghi avrà ottenuto la fiducia, le commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera potrebbero mettere ai voti gli emendamenti al Milleproroghe. Compresi quelli che congelano la prescrizione di Bonafede, firmati dall’intero centrodestra e da Italia viva. Il bombardamento concentrico potrebbe anche non dare esito immediato: l’equilibrio nelle commissioni vede il blocco formato da M5S, Pd e Leu ancora in grado di resistere. Ma la pratica sarebbe rinviata solo di poco. Come ripete Enrico Costa, deputato di Azione e in prima linea tra gli “anti Bonafede”, “nelle commissioni i numeri ci sono seppur di poco sfavorevoli: nessuno però può impedire che l’emendamento sia riproposto in Aula, e lì può esserci il voto segreto a sgretolare la maginot a difesa della prescrizione 5 stelle”. Chiarissimo. Come è chiaro quanto spiega al Dubbio Francesco Paolo Sisto, responsabile Giustizia e Affari costituzionali di Forza Italia: “Ritirare il nostro emendamento sulla prescrizione? Il primo passaggio non può essere questo. Però è vero che quando si discuterà su quelle proposte, la ministra della Giustizia Marta Cartabia potrà indicare la propria linea sul processo penale. E la ascolteremo. Siamo di fronte a una guardasigilli da tripla A. L’eccellenza. Se fosse stato Alfonso Bonafede a proporre una road map organica sulla giustizia penale, non avremmo potuto considerarla risolutiva. Bonafede è stato il ministro di una visione pm- centrica, di una ricerca esclusiva del colpevole anziché della verità processuale. Cartabia invece è la più alta garanzia che si possa avere per la giustizia”, dice Sisto, “e siamo pronti a vedere quale modello propone per la riforma del processo. Di più: siamo certi che Cartabia sarà la ministra della pacificazione fra la giustizia e cittadini”. Chiarissimo anche questo: sulla prescrizione si può anche aprire una parentesi. A questo punto a poter cambiare è l’intero impianto della riforma penale. Ed è questo l’obiettivo di chi ha avversato la norma Bonafede. Se è vero che la priorità del governo Draghi per la giustizia è il processo civile, è vero anche che ora si apre una partita diversa sul penale. In gioco non c’è solo la norma Bonafede. E poiché l’obiettivo può essere anche più ambizioso di un congelamento di quella norma, Forza Italia, Lega e la stessa Italia viva sono pronte a un confronto più ampio con la guardasigilli. Lo stesso Enrico Costa, come segnala Repubblica, si dice fiducioso in “un tavolo per la giustizia di questa maggioranza: è lì che ci metteremo a discutere”. Potrebbe riaprirsi la partita sul patteggiamento, che il ddl Bonafede ha sì reso applicabile a condanne più pesanti rispetto a quanto oggi previsto, ma ha poi contraddetto la scelta con una lunga lista di fattispecie escluse da quel rito. Allo stesso modo, rientreranno in gioco le depenalizzazioni accantonate dal ddl Bonafede, che è all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio. Riti alternativi e depenalizzazione sono due cardini della proposta condivisa presentata da Camere penali e Anm due anni fa, al primo tavolo di Bonafede. Tre ulteriori indizi mostrano come la strada del penale possa cambiare a breve. Il primo è in un passaggio della lettera inviata ieri a Cartabia da Gian Domenico Caiazza, che dell’Unione Camere penali è il presidente: “Resta una ferita aperta nella nostra civiltà giuridica aver scelto, per finalità propagandistiche e ideologiche, di abolire, con un improvvisato e malfermo tratto di penna, un istituto di antica civiltà giuridica quale la prescrizione dei reati, prima e invece che risolvere le cause della durata irragionevole dei processi che la rendono indispensabile. Rendere l’imputato prigioniero del suo processo per tutto il tempo che uno Stato inefficiente ritenga di spendere per pronunciare la sua definitiva sentenza, è e resta una inconcepibile barbarie”. Uno Stato efficiente rende marginale il nodo prescrizione, e per scioglierlo, ricorda Caiazza, basterebbe appunto recuperare le “soluzioni volte a ridurre drasticamente i tempi del processo penale”, a cui “abbiamo lavorato con impegno e spirito costruttivo”. Quegli “approdi”, dice il presidente dell’Ucpi, “condivisi tra avvocatura, magistratura e accademia ma poi traditi dalla legge delega, restano una risorsa per chi voglia davvero affrontare e risolvere la piaga della irragionevole durata dei processi”. Secondo indizio: come segnala una nota del Partito radicale, domani “passerà in decisione del giudice Katia Pinto del Tribunale di Lecce il ricorso del segretario Maurizio Turco, assistito dagli avvocati Giuseppe Talò e Felice Besostri, per mandare alla Corte costituzionale la legge sul “fine processo mai” dell’ex ministro Bonafede”. E “se il giudice deciderà di investire la Consulta, probabilmente si deflazionerà l’inizio del nuovo mandato ministeriale”. Cioè il problema prescrizione non esisterà più. Terzo indizio: il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ieri ha definito “impensabile” aver introdotto lo stop alla prescrizione senza che si sia assicurato il “governo dei tempi del processo”. Lo ha fatto all’inaugurazione dell’anno giudiziario delle Camere penali, cioè al fianco di quell’interlocutore con cui la stessa Anm aveva condiviso un modello alternativo di riforma. Tutti chiedono di riscrivere il processo penale. Ed è difficile che Cartabia lasci inascoltato l’appello. Non basta un nuovo ministro per battere la furia forcaiola di Iuri Maria Prado Il Riformista, 16 febbraio 2021 Lo sfascio dello Stato di diritto dell’era Bonafede non è imputabile solo alla incompetenza. Avere oggi un Guardasigilli preparato non è garanzia sufficiente: per cancellare l’orrore manettaro va ripristinata la Costituzione. Un ministro competente al posto del giovanotto in debito di cognizioni che ha imperversato nei due governi precedenti non è garanzia di nulla. Perché il problema di Bonafede e di quelli che senza perplessità ne hanno legittimato gli spropositi non è un problema di competenza, che c’era, ma non era quella che faceva più danni. Il dottore Piercamillo Davigo, il dottore Gian Carlo Caselli, il dottore Nicola Gratteri non sono incompetenti: ma uno Stato modellato sui loro desideri (Bonafede lavorò senza dubbio in questo senso, con ottimi risultati) sarebbe anche più micidiale rispetto a quello tirato su alla bell’e meglio dallo spontaneismo analfabeta del giustizialista con pochi studi. Nulla di ciò che è stato inflitto al Paese si spiegava per difetto di competenza. La spazza-diritti, gli interventi sulla prescrizione, la pratica dello spionaggio, dell’intercettazione, del pedinamento elevata a normalità investigativa non per cercare prove ma per rimpolpare il dossieraggio dei pubblici ministeri: nulla di tutto ciò veniva dalla poca preparazione degli autori di questo riformismo giustizialista e, al contrario, quell’apparato autoritario e lesivo era l’effetto di una efficientissima e ragionata concezione dei diritti delle persone e dei rapporti tra queste e il potere pubblico. Una concezione barbara e antidemocratica, ma non priva di un suo illustre fondamento nell’idea - ben diffusa presso gente ottimamente coltivata - che compito del giudice sia di ricondurre a morale la società: e pace, anzi tanto meglio, se gli strumenti di quella rifondazione morale sono le manette e le sbarre. Ebbene, se le cose stanno così significa che non c’è nessuna riprova - anzi c’è prova del contrario, perché ne abbiamo avuti tanti - che un Guardasigilli provvisto di indiscutibile dottrina assicuri un trattamento delle cose di giustizia proclive al ripristino dello Stato di diritto e alla riaffermazione dei diritti delle persone. Serve rivoltare l’Italia come un calzino, ma questa volta dalla parte giusta. Serve smontarla e rimontarla come un giocattolo: ma questa volta con le istruzioni rese disponibili dalla Costituzione, non quelle illustrate nelle conferenza-stampa a margine dei rastrellamenti. La prescrizione, caposaldo di civiltà di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 16 febbraio 2021 La lettera del leader dei penalisti alla neo ministra della Giustizia: “Rendere l’imputato prigioniero del suo processo è una barbarie. Noi pronti al confronto per individuare soluzioni condivise”. Illustre Ministra, Gentile Professoressa, La politica è fatta di scelte, nei contenuti, nelle forme e perforo nei simboli; appare dunque a noi ben chiaro che l’aver destinato al Governo della giustizia italiana, dopo tre anni di rivendicato ed incalzante presidio populista e giustizialista, la Presidente emerita della Corte Costituzionale, nonché la giurista cresciuta nel culto delle garanzie e dei diritti della persona, offra il segno inequivoco di una svolta. L’Unione delle Camere Penali Italiane ha tenuto alto l’impegno e ferma la voce di quanti da sempre rivendicano, di fronte all’indispensabile e vitale esercizio della potestà punitiva dello Stato nei confronti di chi infrange la legge, la irrinunciabile supremazia dei principi costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata, della presunzione di innocenza, della eccezionalità della privazione della libertà personale prima della sentenza definitiva, della finalità rieducativa della pena. Il nostro quotidiano impegno contro il populismo giustizialista ha visto schierarsi al nostro fianco, come mai era accaduto prima d’ora, pressoché l’intera Accademia italiana, insieme ai cui prestigiosi esponenti - costituzionalisti, penalisti, processualisti di tutte le Università italiane abbiamo concepito e licenziato il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. La identità culturale e politica che da sempre orgogliosamente rivendichiamo non ci ha certo impedito di renderci senza riserve aperti al dialogo ed al confronto costruttivo e leale, anche con il Ministro On. Alfonso Bonafede, pure interprete di un mondo valoriale nitidamente collocato agli antipodi del nostro. Al tavolo da lui convocato, insieme alla magistratura italiana, per costruire soluzioni volte a ridurre drasticamente i tempi del processo penale, abbiamo lavorato con impegno e spirito costruttivo. Gli approdi di quel tavolo, condivisi tra avvocatura, magistratura ed accademia ma poi traditi dalla legge delega per ragioni che non sta a noi indagare, restano una risorsa per chi voglia davvero - e noi siamo tra quelli - affrontare e risolvere con efficacia ed in modo condiviso la piaga della irragionevole durata dei processi in Italia, senza sacrificare o eludere i principi costituzionali del giusto processo. E tuttavia, resta una ferita aperta nella nostra civiltà giuridica aver scelto, per mere finalità propagandistiche ed ideologiche, di abolire, con un improvvisato e malfermo tratto di penna, un istituto di antica civiltà giuridica quale la prescrizione dei reati, prima ed invece che risolvere le cause della durata irragionevole dei processi che la rendono indispensabile. Rendere l’imputato prigioniero del suo processo per tutto il tempo che uno Stato inefficiente ritenga di spendere per pronunciare la sua definitiva sentenza, è e resta una inconcepibile barbarie. Anche in ordine a tale emergenza, che insieme alla larghissima maggioranza della comunità dei giuristi italiani consideriamo incompatibile con i principi dello Stato di Diritto, i penalisti italiani sono pronti al confronto, ed alla individuazione di soluzioni concrete, praticabili e condivise, che vorremmo poterle rappresentare quando Ella riterrà di riceverci. Infine, conosciamo bene la Sua peculiare attenzione e la Sua articolata riflessione in tema di pena e di carcere, saldamente e lucidamente ispirate ai principi declinati dall’art. 27 della Costituzione. Confidiamo vivamente che, con Lei Ministro, possa tornare a vedere la luce il grande lavoro degli Stati Generali dell’Ordinamento penitenziario, irresponsabilmente sacrificati sull’altare di parole d’ordine ideologiche e calcoli elettorali di piccolo cabotaggio. *Presidente Unione camere penali italiane Anm: sì a modifiche alla prescrizione di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 16 febbraio 2021 I magistrati vanno incontro alla nuova ministra. Il presidente Santalucia: quella di Bonafede è stata una riforma a metà, avvertiamo l’ingiustizia di un imputato abbandonato a tempi indefiniti Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia. “Avvertiamo l’assoluta iniquità di un imputato abbandonato ai tempi indefiniti del processo”. Il segnale che arriva dal nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, è forte e chiaro per la nuova ministra della giustizia Marta Cartabia. La magistratura associata italiana allenta la difesa strenua della riforma dell’ex ministro Bonafede, quella che nella legge “spazza-corrotti” aveva cancellato la prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, dirottando gli imputati sul binario di un processo eterno. Quella riforma, spiega adesso Santalucia, “è una riforma a metà”, perché “lasciava morire la prescrizione con la sentenza di primo grado ma poi non creava le condizioni per un governo certo dei tempi del processo successivo”. Non è molto diverso da quello che gli avvocati penalisti sostengono da tempo, e forse non è casuale che Santalucia prima di guidare l’Anm sia stato capo dell’ufficio legislativo dell’ex ministro della giustizia Orlando che aveva fatto una diversa riforma della prescrizione. Alla neo ministra Cartabia si è rivolto anche il presidente dell’Unione camere penali Giandomenico Caiazza, ricordando che la sostanziale abolizione dell’istituto della prescrizione “resta una ferita aperta nella nostra civiltà giuridica”. Toni diversi, in senso opposto, arrivano però da Forza Italia dove il responsabile giustizia Francesco Paolo Sisto (candidato al posto di sottosegretario) raffredda la battaglia sugli emendamenti (al decreto mille-proroghe) per il ripristino della prescrizione: “Siamo per il dialogo”. Prescrizione: un errore grave tornare indietro di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2021 La prescrizione c’è in tutti i Paesi democratici, ma in Italia per alcuni profili è disciplinata diversamente. Ecco le principali differenze. Primo. Solo da noi ci sono polemiche tanto accanite. Dipende dal fatto che i nostri processi durano un’enormità di tempo, il che causa centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno. Per cui quel che altrove è un rimedio fisiologico ai pochi casi che il sistema processuale non riesce a concludere (il tempo trascorso fa sì che per svariate ragioni non sia più “conveniente”), da noi è diventato un fenomeno patologico. Tant’è che la percentuale delle prescrizioni è del 10/11% in Italia, contro lo 0,1/0,2% degli altri paesi europei. Una débâcle. Secondo. La prescrizione in Italia decorre dal giorno in cui è stato commesso il reato. Negli altri Paesi invece può decorrere dal giorno in cui il presunto autore è stato individuato o dal primo atto di accusa. È evidente che i reati tipici dei colletti bianchi” (evasioni fiscali, corruzioni, falsi, frodi, concorso esterno in associazione mafiosa...) sono di natura tale che di solito si possono scoprire solo dopo un bel po’ di anni. Ma intanto la prescrizione corre, un bel vantaggio per certi galantuomini. Terzo. Essendo la prescrizione “facile”, c’è chi ne approfitta per allungare quanto più possibile “il brodo”; cioè i tempi di un processo già di per sé eterno, in modo da non pagare mai dazio arrivando alla prescrizione che tutto inghiotte. Ovvio che questo “meccanismo” favorisce non le persone accusate di reati comuni, ma chi può e conta, le persone “per bene a prescindere” in ragione della posizione sociale ed economica che consente loro di garantirsi difese di primo livello. Di nuovo i “colletti bianchi”, che non si sporcano le mani ma operano nel settore “ovattato” della criminalità dei potenti. Ne risulta una faglia profonda nell’uguaglianza dei cittadini. Vero è chela prescrizione è rinunziabile, ma è un fatto più raro della neve in Sicilia di piena estate. Quarto. La possibilità di allungare i tempi del processo, fino a farlo svanire con l’agognata prescrizione, è figlia primogenita di un’altra nostra peculiarità. Pressoché ovunque il decorso della prescrizione a un certo punto si interrompe definitivamente (nel momento del rinvio a giudizio o con la condanna in primo grado), mentre da noi fino a poco tempo fa non c’era alcun blocco definitivo ma solo sospensioni temporanee. Ed ecco, in parole povere, che la prescrizione infinita favoriva i processi infiniti: quasi matematico. Quest’ultima differenza è cessata il 1° gennaio 2020, con la norma (già inserita nella “spazza-corrotti”) che interrompe la prescrizione con la sentenza di primo grado. Finalmente, si direbbe, ci siamo scrollati di dosso un’imbarazzante zavorra riuscendo ad allinearci agli altri Paesi. Invece no! Le polemiche sono riesplose alla grande. E la parola esplosione è proprio quella se si pensa che un ex ministro della Repubblica (Giulia Bongiorno) ha salutato la riforma con la sobria formula “una bomba atomica sul processo”. Oggi le polemiche sono arrivate al punto di lambire il programma del neo-governo Draghi, e nel contempo si sono concretizzate in alcuni emendamenti alla “mille proroghe” che sarà discussa mercoledì. Sarebbe indispensabile un bilancio sereno, spogliandosi quanto più possibile da schemi ideologici precostituiti e riferendosi piuttosto ad analisi concrete. Senonché è semplicemente impossibile calcolare gli effetti della riforma, perché il 2020 è stato un anno terribile, nel senso che il Covid ha stravolto tutto anche nel campo della giustizia, causando una pesante contrazione del numero dei processi trattati. Come si fa a stabilire se la riforma è stata una bomba atomica o un petardo o niente di tutto ciò? Premesso che il vero problema è da sempre l’appello, che da solo “brucia” il 48% della durata totale del processo; per parte mia pensavo (e penso) che la catastrofica prospettiva di una pendenza perpetua del procedimento, non essendo più previsto un termine entro cui debba essere concluso, può semmai riferirsi ad alcuni soltanto e non a “tutti” i processi come vien detto. Comunque, sarebbe un rischio bilanciato dalla scomparsa dei troppi casi in cui prescrizione significa negare all’innocente l’assoluzione o regalare al colpevole l’impunità per processi passati al vaglio del tribunale, cioè quelli di maggior rilievo con una più forte esigenza di evitare un default dello Stato. Ma rimane una mia idea, non verificabile allo stato degli atti. In ogni caso, la fretta e la voglia di tornare all’antico - senza possibilità di valutare in concreto il nuovo - appaiono quantomeno discutibili. Anche vincendo la tentazione di evocare ancora una volta gli interessi dei “colletti bianchi”. Maria, incensurata, rubò un paio di scarpe dal valore di 20 euro: otto anni sotto processo di Giorgio Mannino Il Riformista, 16 febbraio 2021 Quasi tre anni di indagini, otto di processo e decine di udienze ovviamente tutte a carico dei contribuenti. Sembra il procedimento penale del secolo. Ma gli accusati non sono assassini, mafiosi o corruttori, bensì una signora che ha tentato di rubare in un centro commerciale un paio di scarpe dal valore di 19,99 euro. Incredibile ma vero. È l’ennesima storia che definisce i contorni di una giustizia schizofrenica. Troppo spesso lenta, macchinosa, capace però di tirare fuori le unghie, senza pietà, con i più deboli. La rappresentazione plastica del sistema giustizia ingolfato da processi come questi che non dovrebbero neanche essere istruiti. Condannata in primo grado a un mese di reclusione e al pagamento di 50 euro di multa, pochi giorni fa Maria (il nome è inventato) è stata assolta dalla Corte d’Appello per “la particolare tenuità del fatto”. Il prezzo pagato, però, è stato altissimo: “La giustizia nel nostro paese funziona molto male”, dice Maria. “Io ho commesso - continua - un errore, ne sono consapevole e mi sono sin da subito pentita. Ma quello che mi ha causato più dolore è stato non poter più vivere con tranquillità. La mia vita è stata condizionata. Non ho potuto presentare domanda, a causa dei carichi pendenti, a diversi concorsi pubblici, ho rinunciato a una candidatura in politica. Psicologicamente è stato frustrante. Nonostante tutto continuo a credere nella giustizia ma molte norme vanno cambiate e la legge va applicata in modo corretto”. L’odissea di Maria, al tempo 32 anni, inizia il 24 maggio 2013. Siamo a Palermo, quartiere San Filippo Neri. La donna - incensurata con un lavoro part-time e ragazza madre di un figlio allora minorenne - esce dal negozio `Pull & Bear’ sito all’interno del centro commerciale Conca d’Oro. All’uscita scatta l’allarme: Maria viene bloccata dal titolare e, subito, in lacrime tira fuori dalla borsa il paio di scarpe che aveva tentato di rubare. Valore 19,99 euro. Maria riconsegna la merce e, vergognatasi del gesto, è pronta a pagarla. Il titolare del negozio, però, denuncia il tentato furto ai carabinieri. Che, ovviamente, contestano il reato per il quale si procede d’ufficio. I pezzi del mosaico sono tutti al loro posto: le scarpe sono state restituite, la donna ha confessato, non ci sono indagini da fare. Eppure il pubblico ministero tiene aperto il fascicolo per quasi tre anni. Si arriva così a ottobre 2016. “Il pm - spiega l’avvocato Mauro Barraco, legale della donna - aveva due possibilità: avanzare richiesta d’archiviazione per particolare tenuità del fatto in quanto nel 2015 era entrata in vigore una norma che prevede l’assoluzione quando un soggetto incensurato, non abituale a commettere reati, commette un reato che non desta allarme sociale e la cui pena non supera i cinque anni. Una norma utile a evitare ingolfamenti al sistema giustizia per reati bagatellari. Oppure chiedere il rinvio a giudizio”. È stata scelta la seconda opzione. La prima udienza di un processo surreale inizia il 12 maggio 2017. “Per far sì che la mia cliente rimanesse incensurata - spiega Barraco - decidiamo di chiedere la messa alla prova Di farle svolgere, dunque, un programma di tre mesi di volontariato per riabilitare la propria posizione. Il tribunale, invece, ha ritenuto che questo programma svolto per tre mesi fosse troppo blando e ha così emesso un’ordinanza spiegando che il programma sarebbe dovuto durare almeno un anno”. Per Maria è impossibile accettare un anno di servizi sociali. Avrebbe perso il posto di lavoro, ma soprattutto non avrebbe potuto seguire al meglio il figlio. La donna non dà il consenso e viene giudicata in abbreviato. Nonostante la richiesta d’assoluzione per tenuità del fatto supportata da molte altre sentenze della Cassazione che hanno assolto protagonisti di casi molto più gravi, Maria il 6 novembre 2019 viene condannata in primo grado a un mese di reclusione e al pagamento di 50 euro di multa. Il pm, addirittura, aveva chiesto una pena di quattro mesi di reclusione e 200 euro di multa. Nelle motivazioni della sentenza il giudice sottolinea la sussistenza del reato di tentato furto e l’aggravante di “aver commesso il fatto - scrive - su cose esposte per necessità alla fede pubblica” e che “il valore economico della merce sottratta (19,99 euro, ndr), per quanto modesto, non può considerarsi di entità irrilevante e pertanto non consente di applicare la particolare tenuità del fatto”. La giustizia, però, arriva in ritardo con la Corte d’Appello che, lo scorso 9 febbraio, accoglie la tesi della difesa dichiarando il fatto “non punibile”. “Ci sono situazioni incomprensibili - dice Barraco - a partire dal fatto che certi fascicoli che non richiedono indagini rimangano sul tavolo del pm così tanto tempo. La magistratura inquirente non ha accolto la norma del 2015. Secondo alcuni pm questa norma consente una sorta d’impunità. Ma intanto esiste e non si può decidere di non applicarla”. Lazio. Anastasìa: “La nomina di Cartabia alla Giustizia suscita grandi aspettative” regione.lazio.it, 16 febbraio 2021 Il Garante regionale dei detenuti: “Confido che possa affrontare con saggezza e determinazione le urgenze più immediate”. “La nomina della professoressa Marta Cartabia a ministro della Giustizia nel nuovo governo Draghi suscita grandi aspettative nel mondo penitenziario e della esecuzione penale”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. “Sia come giudice e presidente della Corte costituzionale che come persona e studiosa - prosegue Anastasìa - la professoressa Cartabia ha mostrato grande attenzione al sistema penitenziario e alle condizioni materiali di esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale. Confido che possa affrontare con saggezza e determinazione le urgenze più immediate, a partire dalla campagna vaccinale da garantire a tutta la comunità penitenziaria e dalla riapertura di un laboratorio di riforme nel senso della depenalizzazione e della decarcerizzazione che non può più aspettare”. Come si legge nel sito del ministero della Giustizia, l’ex presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, alla quale il presidente del Consiglio Mario Draghi ha affidato l’incarico di dirigere il ministero di via Arenula, è stata la prima donna a essere eletta presidente della Corte Costituzionale ed è la terza donna a ricevere l’incarico dopo Annamaria Cancellieri (governo Letta) e Paola Severino (governo Monti). Marta Cartabia, nata il 14 maggio del 1963 a San Giorgio su Legnano (comune di seimila abitanti nella città metropolitana di Milano), è il 42esimo ministro della Giustizia della Repubblica italiana. La nuova guardasigilli ha guidato il palazzo della Consulta dal dicembre del 2019 al settembre del 2020, quando è scaduto il suo mandato di nove anni da giudice costituzionale. Laureata in giurisprudenza, è stata docente di diritto pubblico all’università di Verona e di diritto costituzionale alla ‘Bicocca’ di Milano e ha insegnato in diversi atenei in Francia, Spagna, Germania e negli Stati Uniti. Finito il mandato alla Consulta - dove era stata nominata nel settembre del 2011 dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - ha ottenuto la cattedra di Diritto e giustizia costituzionale alla ‘Bocconi’ di Milano. Due mesi fa, le è stato conferito il dottorato honoris causa in Legge dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dove ha tenuto una lectio magistralis dal titolo “Per l’alto mare aperto: l’università al tempo della grande incertezza”. Puglia. Presidente del Consiglio regionale in visita alle carceri di Brindisi e Lecce brindisireport.it, 16 febbraio 2021 La presidente del consiglio regionale, Loredana Capone, accompagnata dal garante regionale dei detenuti, Pietro Rossi, ha visitato ieri mattina (lunedì 15 febbraio) le case circondariali di Brindisi e Lecce, nell’ambito di un tour che nei prossimi giorni coprirà anche le altre strutture detentive regionali. A tal proposito nei prossimi giorni sarà insediato un tavolo regionale alla presenza dei direttori dei penitenziari, del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone, dell’assessore alla sanità Pierluigi Lopalco, del direttore del Dipartimento regionale promozione della salute, Vito Montanaro e dei direttori generali delle Asl pugliesi “Tra tutti i diritti che abbiamo il dovere di tutelare - ha detto la presidente Capone - quello più importante è certamente il diritto alla salute. Nella vita di tutti i giorni, sui luoghi di lavoro, all’interno dei nostri ospedali, nelle residenze che si prendono cura dei nostri anziani, e nelle carceri. Non c’è chi ha più diritto e chi meno, è una questione di equità e di dignità della vita, e le detenute e i detenuti hanno gli stessi diritti dei cittadini liberi. Ecco perché è fondamentale lavorare sulle condizioni dei detenuti e dare sostegno alle famiglie con l’obiettivo di eliminare, o quanto meno ridurre il più possibile, quei confini in cui ad oggi, purtroppo, vi è ancora una reale sospensione della nostra Costituzione”. La Capone e Pietro Rossi si sono recati prima presso il carcere di Lecce, dove hanno incontrato la direttrice, Rita Russo, il comandante Riccardo Secci, la presidente dell’associazione Antigone, Mariapia Scarciglia, la garante comunale, Maria Mancarella, poi si sono spostati presso la casa circondariale di Brindisi. “Nel confronto con la direttrice, Maria Teresa Susca - afferma Loredana Capone - ho colto subito il prezioso lavoro. Questa pandemia ci ha fatto riscoprire il valore dello spazio e per chi vive una condizione di limitazione è fondamentate avere luoghi per la socializzazione o fare due passi”. “Credo sia fondamentale affrontare con loro, il presidente Emiliano e la Giunta - prosegue la Capone - inoltre, anche il tema delle risorse del Next Generation Eu destinate proprio alla Giustizia e al Sistema Penitenziario che, stando alle prime anticipazioni, dovrebbero essere utilizzate per costruire nuove strutture detentive. Ma è davvero solo costruendo carceri che si innova il sistema? Oppure lì dove non c’è necessità di costruire basterebbe modernizzare quelle esistenti? Investendo sulle risorse umane (educatori, mediatori, psicologi), potenziando le infrastrutture tecnologiche, per assicurare la formazione professionale a distanza per esempio, o per aumentare le possibilità di video colloqui con i familiari? Con interventi che avrebbero magari un impatto il più significativo possibile nella lotta alla recidiva e negli obiettivi di recupero sociale dei condannati? A queste domande dovremo rispondere ai tavoli, insieme ai direttori, e dovremo farlo in fretta perché la salute e la dignità non possono aspettare. D’altra parte è questo uno dei più grandi lasciti di questo tempo di pandemia”. Intanto gli uffici sono già al lavoro per concordare la visita nelle altre dieci carceri pugliesi e per organizzare un primo incontro con i direttori, l’assessore Lopalco, il direttore del Dipartimento regionale promozione della salute, Vito Montanaro e i direttori generali delle Asl pugliesi. Napoli. La Messa alla prova entra anche in tribunale redattoresociale.it, 16 febbraio 2021 Firmata a Napoli una convenzione che permette a imputati di reati lievi di svolgere lavori di pubblica utilità negli uffici giudiziari. Fiore (coop Less): “Percorso innovativo di inclusione sociale” Giustizia, la messa alla prova entra anche in tribunale. Imputati messi alla prova negli uffici del tribunale. Accade a Napoli, grazie a una convenzione sottoscritta dall’Ufficio interdistrettuale per l’esecuzione penale esterna (Uiepe) della Campania, dai vertici del Palazzo di giustizia e dai responsabili di Less, cooperativa sociale impegnata nei servizi per migranti, minori e welfare. “Il 12 febbraio scorso - racconta Daniela Fiore, presidente di Less - abbiamo posto la prima pietra di una iniziativa innovativa per le politiche di inclusione sociale: abbiamo firmato una convenzione con il tribunale civile e penale di Napoli e l’Uiepe della Campania, che consentirà lo svolgimento di lavori di pubblica utilità in tribunale per i soggetti messi alla prova, imputati per reati penali lievi. Una innovazione che avvicina le persone alle istituzioni e che, ci auguriamo, sia solo l’inizio di un progetto significativo e condiviso”. La convenzione coinvolgerà 30 persone messe alla prova, con percorsi individualizzati a seconda della professionalità e delle conoscenze di ognuno, con l’accortezza che non si trovino a prestare servizio proprio nell’ufficio del magistrato che li sta giudicando. “Il progetto - spiega la presidente di Less - è nato dopo un’interlocuzione con l’Uiepe con cui erano state avviate le prime messe alla prova che abbiamo ospitato, in un’ottica di potenziamento della collaborazione: volevamo attivare percorsi di giustizia riparativa efficaci e abbiamo pensato di coinvolgere il Tribunale di Napoli”. Lo scopo della convenzione è anche creare un circolo virtuoso che possa estendere l’attivazione dei lavori di pubblica utilità a tutto l’ambiente che ruota intorno alla giustizia. “Stiamo lavorando - sottolinea Fiore - affinché questi strumenti arrivino a coinvolgere gli altri enti vicini al mondo della giustizia, come gli ordini degli avvocati e gli studi legali, contribuendo a dare vita a buone prassi di inclusione sociale innovativa”. Alle persone che svolgeranno la messa alla prova negli uffici giudiziari verranno affidate mansioni vicine alle proprie esperienze lavorative: dall’archivistica alle funzioni amministrative. Un referente dell’associazione svolgerà attività di coordinamento e monitoraggio periodico in collaborazione con professionisti interni. “Il tribunale ha accolto con piacere la nostra proposta - conclude la presidente di Less -. Ora l’auspicio è che anche in altri settori si possa raggiungere un grado di concertazione così solido da determinare interventi condivisi e positivi, creando un circolo virtuoso tra pubblico e privato: solo così si può determinare un intervento di welfare sociale reale e positivo nella nostra società”. Genova. In tribunale priorità ai reati connessi alla pandemia di Simona Musco Il Dubbio, 16 febbraio 2021 In un documento l’elenco delle violazioni che hanno la precedenza rispetto a quelli considerate minori: tra queste quelle legate al Covid. Priorità ai “reati Covid”. Dice questo il protocollo firmato da Procura e Tribunale di Genova, dove per smaltire il lavoro si è deciso di creare una corsia preferenziale per le violazioni commesse in relazione alla pandemia, a cui dare la priorità assieme ai reati normalmente considerati particolarmente gravi. Un ordine di servizio riservato per pm e giudici, come riporta il Secolo XIX, che riguarda esclusivamente i casi per i quali il pubblico ministero può citare direttamente a giudizio. Il documento arriva all’esito di due mesi di fitti incontri tra le parti ed è valido dal 10 febbraio, stabilendo una scala di priorità tra reati, distinti in “prioritari” e “non prioritari”. Tra le violazioni ritenute prioritarie quelle che, in qualche modo, sono legate agli eventi della pandemia. Dunque trovano spazio i processi a carico di quei datori di lavoro che non hanno provveduto adeguatamente alla sicurezza dei propri dipendenti, chi ha lucrato sulla pandemia sfruttando la vendita di mascherine e disinfettanti, magari facendo la cresta sui costi, e chi ha somministrato farmaci in modo irregolare. Nel documento a firma del procuratore Francesco Cozzi viene sottolineato come “al fine di agevolare la rapida trattazione di talune fattispecie di reato e di selezionare i processi da svolgere, anche nel rispetto delle esigenze di salute e sicurezza davanti alla pandemia Covid-19, si è concordato di introdurre la categoria dei processi prioritari, meritevoli di fissazione anticipata rispetto alla categoria dei processi ordinari”. I fatti più gravi rimangono fuori dalla classificazione, così, ad esempio, viaggiano su un altro binario i reati contro la persona, il patrimonio, la violazione delle norme sugli stupefacenti, le violazioni in materia di pubblica amministrazione o in materia di terrorismo. Il pm dovrà dunque seguire l’ordine di servizio per quei casi di citazione diretta in giudizio, dando dunque la precedenza alle udienze classificate come prioritarie dal documento. Sono 29, in totale, le “questioni” da ritenere più urgenti, tra le quali il reato di lesioni, anche se con prognosi inferiore ai 21 giorni, se dovute alla mancata prevenzione obbligatoria sui luoghi di lavoro o per colpa medica. Ci sono poi la sottrazione di minori, la sottrazione di persone incapaci, danneggiamenti a seguito di incendio e frodi informatiche, che hanno subito un’impennata proprio durante il periodo del lockdown. Tra i reati urgenti anche quelli compiuti dai magistrati (la procura di Genova indaga sulle violazioni commesse dai colleghi di Firenze) e gli abusi edilizi, nonché i processi per lesioni stradali e l’omissione di soccorso. Possono essere affrontati in un secondo momento, invece, reati come la guida in stato di ebbrezza, salvo che non sia collegata a incidenti o per i recidivi, i furti semplici - mentre sono tra le priorità quelli compiuti in casa o con strappo. L’ordine di servizio arriva all’esito di un periodo drammatico per la giustizia ligure, come evidenziato nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “La pandemia - ha sottolineato il presidente vicario della corte d’appello di Genova Alvaro Vigotti - ha avuto notevoli effetti sulla gestione dei processi e più in generale sulla organizzazione dei processi, con un grave rallentamento nel funzionamento della giustizia sia nel settore civile che in quello penale”. Tra i problemi principali, accentuati proprio dall’emergenza, lo scarso numero di aule idonee a celebrare i processi in sicurezza. “Ciò ha determinato la necessità di ulteriori rinvii delle udienze, con la conseguenza di una diminuzione dei processi e un aumento dei tempi di svolgimento di quelli in corso”, ha aggiunto Vigotti. Se, da un lato, si è registrata una diminuzione dei procedimenti penali conseguente al lockdown, dall’altra parte sono aumentati i maltrattamenti in famiglia e gli persecutori, nonché le violenze sessuali. Ma non solo: proprio nel distretto di Genova, sono state molte le indagini sulla gestione dell’emergenza. In primo luogo, per gli eventi conseguiti ai contagi nelle Rsa e negli ospedali sono stati iscritti - a seguito di esposti dei congiunti dei soggetti deceduti e, per le lesioni, delle segnalazioni dell’Inail - procedimenti penali, specialmente nei confronti dei direttori sanitari delle strutture interessate, per i reati colposi di epidemia, omicidio e lesioni, si legge nella relazione del procuratore generale della corte d’appello di Genova Roberto Aniello. “Si è inoltre ritenuta la necessità di verificare i contenuti dei documenti di valutazione dei rischi (che anche prima della pandemia dovevano prevedere misure per la prevenzione del rischio biologico da infezioni) e il loro aggiornamento dopo la diffusione dei contagi. Ulteriori accertamenti riguardano il rispetto delle regole di precauzione nel corso dell’evoluzione del fenomeno: in particolare la segregazione dei soggetti positivi, la formazione e l’informazione del personale, la fornitura di Dpi”. Larino (Cb). La morte di un recluso riapre il caso delle misure deflattive di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 febbraio 2021 Dimesso dall’ospedale dove era stato ricoverato per Covid. È morto tre ore dopo essere stato dimesso dall’ospedale dove era ricoverato per infezione da Covid 19. Una prima diagnosi parla di arresto cardiocircolatorio. Oggi dovrebbero effettuare l’autopsia sulla salma del 57enne detenuto albanese del carcere di Larino, deceduto giovedì scorso, poco dopo essere stato dimesso dal reparto di Malattie infettive dell’ospedale Cardarelli. L’esame autoptico è stato disposto dalla Procura di Larino che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, dopo il decesso avvenuto giovedì alle 15.30 in carcere. Attualmente, il cadavere del 57enne è custodito nella cella frigorifera dell’obitorio dell’ospedale San Timoteo di Termoli, a disposizione della Magistratura frentana, mentre non è stato ancora deciso dove far effettuare l’autopsia, potrebbe essere anche trasferita fuori regione. Si cercherà quindi di chiarire le effettive condizioni di salute dell’uomo, albanese residente in Italia da tempo, al momento delle dimissioni dall’ospedale dove era stato assistito per infezione da Covid- 19. Il caso riporta alla luce le condizioni dei detenuti del carcere di Larino dove già in autunno era scoppiato un grosso focolaio con decine di contagi. Purtroppo nelle ultime settimane ci sono stati nuovi casi all’interno della Casa circondariale frentana con circa 15 persone risultate positive al Sars- Cov2. Sulla vicenda è intervenuto Aldo di Giacomo. L’esponente del Sindacato Polizia Penitenziaria ha puntato i riflettori sul caso del detenuto deceduto e ha chiesto nuovamente che ai detenuti e agli agenti penitenziari venga somministrato uno dei due vaccini precedentemente autorizzati dall’Aifa, vale a dire Pfizer o Moderna e non quello di AstraZeneca. Di Giacomo contesta infatti la decisione del governo di far somministrare ai detenuti, ma anche alle forze dell’ordine e agli insegnanti, il vaccino AstraZeneca che al momento sembra essere meno efficace per persone che hanno superato i 55 anni d’età e con patologie accertate. Dubbi che sono legati anche all’efficacia contro le varianti del virus che stanno emergendo negli ultimi mesi anche se al momento anche il terzo vaccino approvato in Italia è considerato affidabile e sicuro contro la variante inglese del virus. Ma se da una parte c’è il discorso vaccini, dall’altra rimane la questione delle misure per alleggerire la popolazione penitenziaria. Com’è detto, l’effetto delle misure deflattive si è esaurito e c’è il rischio che il numero dei detenuti ritorni a crescere. Forse è il momento adatto, visto il cambio di governo, magari più orientato a osservare i precetti costituzionali, a mettere sul tavolo quelle misure che sono state accantonate dall’ex ministro Bonafede. Ad esempio c’è la misura, frutto di un emendamento presentata dal deputato Roberto Giachetti su proposta del Partito Radicale e da Nessuno tocchi Caino, ma anche dal deputato Franco Mirabelli del Pd, che è quella già in vigore in Italia quando ci fu la sentenza Torreggiani: ovvero la liberazione anticipata speciale che porta i giorni di liberazione anticipata da 45 a 75 ogni semestre. In sintesi, c’è da valutare tutte quelle misure volte a liberare gli spazi che non ci sono per isolare i detenuti positivi o creare il distanziamento fisico come il protocollo sanitario impone. Ma questo dovrebbe valere a prescindere della pandemia, anche perché in futuro potrebbe accadere qualsiasi altra emergenza. Reggio Calabria. Detenuto positivo al Covid, protesta nella sezione di Alta Sicurezza newz.it, 16 febbraio 2021 I Garanti Siviglia e Russo in visita congiunta presso il carcere di San Pietro a Reggio Calabria. La visita nella Casa circondariale Panzera è scattata dopo una richiesta dei detenuti della sezione di alta sicurezza “Scilla”, a causa di tensioni per la paura di diffusione del Covid all’interno dell’Istituto penitenziario”. Ieri mattina i Gaanti, regionale dei detenuti, avvocato Agostino Siviglia e comunale per le persone private della libertà personale, avvocato Giovanna Russo hanno fatto visita alla casa circondariale G. Panzera. Gli stessi, dopo aver ricevuto una richiesta da parte dei detenuti della sezione di alta sicurezza “Scilla”, a causa di tensioni derivanti dalla paura di diffusione del Covid all’interno dell’Istituto penitenziario, si sono prontamente coordinati. Accompagnati dal comandante Stefano La Cava e dal coordinatore della sanità penitenziaria calabrese, dott. Luciano Lucania, dopo una preliminare riunione con il direttore, dott. Calogero Tessitore, sempre attento alle relazioni tra istituzioni, i garanti hanno visitato personalmente la sezione dell’Istituto penitenziario riscontrando che gli sforzi profusi dall’amministrazione penitenziaria reggina sono volti in questo particolare momento a tutelare e scongiurare il rischio da contagi all’interno del carcere. Nella giornata di venerdì pomeriggio si è appreso che un detenuto, già posto per profilassi in isolamento Covid in una delle due celle dedicate all’interno della stessa sezione, sia risultato positivo ai controlli effettuati con il primo tampone. “Prontamente - spiegano i garanti - sono state sottoposte a tampone tutte le unità che potevano essere entrate in contatto con il detenuto positivo e successivamente si sono esperite le procedure di sicurezza, ulteriore tracciamento e contenimento. Malgrado ciò i detenuti hanno sollevato una pur sempre pacifica protesta e domenica mattina sono stati tamponati tutti e 56 i detenuti della sezione benché non fossero entrati direttamente in contatto con il soggetto positivo. Risultato dei tamponi: tutti negativi. Si è poi verificata la seconda occasione in cui, grazie alla scrupolosa osservanza delle circolari del Dap e del Prap, l’amministrazione ha potuto scongiurare ad oggi, la diffusione di questo nemico invisibile”. “La tensione che si respira negli istituti penitenziari rimane alta, - si legge in una nota dei garanti - del resto impossibile non comprenderne le ragioni. Questo periodo di pandemia aumenta la paura all’interno delle carceri dove le celle non consentono un distanziamento sociale tra i detenuti e gli spazi di isolamento destinati ai casi sospetti presentano comunque delle fragilità strutturali”. “Siamo dalla parte dell’Amministrazione penitenziaria, - continuano Siviglia e Russo - in piena e reciproca sinergia lavorativa, ma sempre e soprattutto a sostegno e tutela dei diritti dei detenuti che rimangono il nostro primo obiettivo nello svolgimento del mandato assunto”. I due garanti hanno fatto visita anche alla sezione femminile ascoltando e risolvendo prontamente alcune istanze delle detenute, tra le quali la richiesta di una madre che non poteva mettersi in contatto con il figlio di soli due anni e mezzo ospite in una casa famiglia. Un’ulteriore verifica è stata operata nella sezione di osservazione psichiatrica in cui l’avvocato Siviglia ha potuto rilevare come, malgrado gli sforzi profusi in questi ultimi anni, “la situazione sia ancora inadeguata o peggio non rispondente ai risultati sperati”. Il messaggio che i garanti vogliono trasmettere è che “proprio in questo particolare momento di pandemia, di perdita delle certezze per l’essere umano e di fragilità psicologica maggiormente avvertita in carcere, loro decidono di collaborare istituzionalmente in maniera sinergica facendo fronte comune alle mancanze di un sistema politico fragile o peggio distratto, segno di una Calabria che cambia passo a partire dalle Istituzioni per la tutela dei più fragili”. Lecce. Carcere, l’SOS di Antigone: “Sovraffollamento e criticità in psichiatria” quotidianodipuglia.it, 16 febbraio 2021 Salute e area psichiatrica in carcere. Sono stati gli argomenti al centro dell’incontro che si è tenuto oggi al carcere di Lecce tra i rappresentanti dell’associazione Antigone, il sindaco di Lecce e la presidente del Consiglio regionale Loredana Capone. La delegazione ha visitato la sezione femminile, il reparto delle detenute comuni, le salette di socialità, la zona delle lavorazioni e i passeggi. “Le donne presenti al momento della visita sono 85: 41 comuni, 41 As, 2 infermeria e 1 nido - spiegano dall’associazione. Nelle celle delle detenute comuni sono allocate 3 persone. La saletta di socialità è spoglia ma sono presenti alcuni macchinari per l’attività fisica. I detenuti presenti in totale sono 1017 su una capienza regolamentare di 610 posti. Il nuovo reparto da 200 posti inaugurato nel 2020 è operativo solo come reparto Covid 19 con 16 celle singole per detenuti positivi o/e in quarantena. Gli stranieri sono sotto il 15%. Per un totale di 166. La provenienza è perlopiù dei paesi dell’est e Albania. Non ci sono detenuti positivi ma c’è stato nelle settimane precedenti alla visita un piccolo focolaio che ha interessato 14 agenti di polizia penitenziaria. Gli agenti al momento sono tutti rientrati in servizio”. L’associazione rileva varie criticità nel reparto osservazione psichiatrica in cui vi è un solo psichiatra su una pianta organica di quattro. “Per questi motivi - proseguono - la Asl ha ridotto i posti letto da 20 iniziali a 15 ciò a causa della penuria di psichiatri. Al momento della visita i posti occupati nel Rop sono sei. Si tratta di detenuti con patologie e disturbi psichiatrici importanti definitivi con misure di sicurezza che dovrebbero essere allocati nelle Reims, ma i pochi posti creano lunghe liste d’attesa trasformando i reparti di osservazione in zone limbo dove permangono soggetti che in carcere non potrebbero più permanere”. Bologna. “Detenute positive al Covid, il sovraffollamento non garantisce distanziamento” bolognatoday.it, 16 febbraio 2021 Fp-Cgil Bologna riferisce che, nelle ultime settimane, il numero dei detenuti avrebbe raggiunto “una cifra molto vicina alle 720 presenze, a fronte di una capienza di 492”, oltre a “diverse detenute risultate positive al Covid 19”. È ancora allarme per il “grave sovraffollamento in atto presso la Casa circondariale (Dozza - ndr), divenuta nell’ultimo periodo, questione sempre più delicata e urgente anche a causa del costante rischio di contagio dal virus Covid 19”. Salvatore Bianco di Fp-Cgil Bologna riferisce che, nelle ultime settimane, il numero dei detenuti avrebbe raggiunto “una cifra molto vicina alle 720 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 492”, oltre a “diverse detenute ristrette presso l’apposito Reparto, risultate positive al Covid 19 con la conseguente allocazione temporanea delle stesse presso il Reparto Semiliberi, situazione non idonea dal punto di vista della sicurezza. Risulta inoltre - continua Bianco - che negli stessi giorni è stato riaperto, quasi a sorpresa, il Reparto di Osservazione Psichiatrica sempre presso il Reparto Femminile”. Bianco fa notare che “negli stessi giorni, presso il sopra citato Reparto è stato registrato un tentativo di suicidio a mezzo impiccagione, fortunatamente scongiurato grazie alla prontezza del personale in servizio. Appare chiaro - rileva - che la situazione risulta particolarmente grave, ed influisce molto negativamente nella gestione quotidiana, soprattutto di alcune sezioni detentive”. Critica anche la situazione al Reparto Infermeria, dove “permangono da diverso tempo alcuni detenuti particolarmente problematici che quotidianamente mettono in seria difficoltà il personale, oltretutto detto reparto finisce spesso per ospitare detenuti che dovrebbero essere allocati negli altri reparti, ma che per carenza di posti finiscono per permanervi per diverse settimane. Anche le sezioni giudiziarie risultano congestionate e finiscono spesso per diventare teatro di eventi critici dovuti alla convivenza forzata di soggetti di difficile gestione”. Nella nota inviata al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Roma, al Provveditore Regionale Emilia-Romagna e Marche e alla direttrice del carcere, Claudia Clementi, si legge che sarebbe “di prossima apertura un’altra sezione detentiva, destinata ad ospitare detenuti ad alta sicurezza, e che in tale situazione di sovraffollamento è palese l’altissimo rischio di contagio per le evidenti difficoltà nel garantire il distanziamento sociale, appare del tutto chiaro che occorrono urgenti interventi da parte dell’Amministrazione destinati a decongestionare quanto prima l’istituto e limitare i possibili rischi da questo derivanti”. Per Bianco “la condizione sopra descritta, finisce per penalizzare sia la Polizia penitenziaria, che la Popolazione detenuta si chiede un immediato intervento da parte dei Superiori Uffici, al fine di assicurare migliori condizioni lavorative per il personale e di vivibilità per la popolazione detenuta”. Ancona. Visita medica negata a un testimone dei pestaggi nel carcere di Modena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 febbraio 2021 Mattia Palloni, uno dei testimoni dei presunti pestaggi nel carcere di Modena, detenuto a Montacuto nelle Marche, ha un’ernia inguinale. Da diverse settimane che chiede una visita medica per una ernia inguinale (già da tempo a rischio strozzatura), ma alla richiesta di visita un agente penitenziario gli avrebbe risposto che “sarebbe stato portato in ospedale solo in caso di emorragia”. Ma è uno dei tanti inspiegabili dinieghi che il detenuto starebbe subendo nel carcere di Montacuto, nelle Marche, dove è attualmente recluso. La questione, però, diventa più inquietante perché parliamo di Mattia Palloni, uno dei cinque detenuti che hanno sottoscritto l’esposto in procura per i fatti di Modena: i pestaggi dopo la rivolta e in particolare la morte di Salvatore Piscitelli, avvenuta nel carcere di Ascoli Piceno dove era stato tradotto nonostante le sue condizioni fisiche. I cinque non parteciparono attivamente alla rivolta - Ricordiamo che i cinque detenuti del carcere di Modena, oltre a essere vittime di pestaggi nonostante si fossero consegnati senza nemmeno aver partecipato attivamente alla rivolta di marzo, hanno testimoniato di aver visto caricare “detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta a un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi di informazione all’abuso di metadone”. Segnalazione dell’Associazione Yairaiha Onlus a al Dap e alla neo ministra Cartabia - I familiari di Mattia Palloni, che hanno appreso da lui stesso queste presunte vessazioni, sono preoccupatissimi ed è l’Associazione Yairaiha Onlus a farsene carico inviando una segnalazione al Dap e alla neo ministra della Giustizia Marta Cartabia, la quale si ritroverà - tra le innumerevoli criticità del sistema penitenziario lasciate in sospeso dal guardasigilli precedente - a occuparsi anche del dossier delle rivolte di marzo e le 13 relative vittime, per le quali c’è stata una minimizzazione dell’accaduto, nonostante le numerose testimonianze che sono pervenute da diverse carceri, teatro di presunti pestaggi. Ritorniamo alle presunte vessazioni che uno dei testimoni dei fatti di Modena starebbe subendo. Com’è stato detto ci sarebbe stato il mancato accertamento medico per un’ernia inguinale a rischio strozzatura. Ma non solo. Mattia Palloni ha riferito alla sorella che gli vengono negati la consegna di un pacco (che è stato inizialmente rifiutato dal personale del carcere, costringendo i familiari a sostenere nuovamente le spese di spedizione, e successivamente trattenuto) e la disponibilità dei soldi spediti dai familiari. Il detenuto fa sapere che ha evitato di replicare ai dinieghi dell’agente per evitare sanzioni disciplinari, ma ha messo a conoscenza di queste vessazioni i propri familiari perché impaurito da possibili ritorsioni. “Vale la pena ricordare -sottolinea nella missiva l’associazione Yairaiha Onlus - che il signor Palloni è uno dei 5 firmatari dell’esposto presentato in Procura per i fatti di Modena e per la morte di Salvatore Piscitelli oltre che compagno di camera, cella n. 52, presso la cc di Ascoli Piceno e che ha assistito, impotente - nonostante le numerose richieste di aiuto, alla morte del suo compagno, avvenuta la mattina del 9 marzo 2020”. Altro fatto riferito è che ci sarebbe stato il rifiuto della consegna del numero di protocollo di una istanza presentata da Mattia tramite ufficio matricola. “Anche questo appare insolito - osserva Yairaiha - e fuori dal regolamento penitenziario. I familiari, e noi, siamo estremamente preoccupati per i fatti narrati dal sig. Mattia Palloni e per i toni che sarebbero stati usati dal personale di Polizia penitenziaria a fronte di richieste semplici e legittime”. Per questo l’associazione invita le autorità a voler verificare quanto rappresentato e a voler predisporre “le giuste misure di tutela della salute e dei diritti del sig. Mattia Palloni e per la sua incolumità che, attualmente, appaiono sensibilmente compromessi”. Palermo. Mense nelle carceri, lavoratori a rischio: è sciopero livesicilia.it, 16 febbraio 2021 La vertenza delle mense delle carceri in Sicilia continua a tenere banco: la Cisal ha infatti indetto una giornata di sciopero e un sit-in a difesa degli oltre 70 lavoratori coinvolti. “Già lo scorso 5 ottobre - dice il Segretario Regionale Cisal Terziario Sicilia Paolo Magrì - avevamo lanciato l’allarme alle istituzioni, ma la vertenza che da subito avevamo capito essere aspra è stata presa sotto gamba, abbiamo più volte cercato un’interlocuzione con il Provveditore, richiesto l’intervento della Prefettura di Palermo, dell’assessorato regionale e perfino del Presidente della Regione, senza che nessuno si sia fatto carico di una vicenda che porta alla disperazione oltre 70 lavoratori coinvolti, in gran parte unico sostentamento delle loro famiglie”. “Una vicenda - si legge in una nota del sindacato - iniziata lo scorso 25 settembre quando improvvisamente e senza alcun preavviso la committenza ha revocato l’appalto che era affidato fino al 31 dicembre 2020 alla ditta uscente Cot Società Cooperativa; tutto bene visto che contemporaneamente si comunicava il subentro della ditta aggiudicataria Fabbro Spa e Itaca Ristorazione dal primo ottobre. Solo qualche giorno dopo la situazione è precipitata con una serie di differimenti senza mai arrivare all’avvio del servizio, fino al triste epilogo: la comunicazione odierna da parte della Cot dell’avvio di licenziamento di tutto il personale delle mense delle carceri”. Il sit-in, che si terrà nel rispetto delle normative anti Covid-19, è indetto per il 22 febbraio dalle 9 alle 13 davanti alla sede del Provveditorato in viale Regione Siciliana. “L’ultima richiesta di aiuto dei lavoratori disperati, da mesi in cassa integrazione con misere indennità - dice Magrì - Ci auguriamo di avere concrete rassicurazioni circa la ripresa del servizio, dando una boccata di ossigeno e tranquillità ai lavoratori”. “Si tratta di una vicenda dai contorni drammatici - dice Gianluca Colombino, segretario della Cisal Palermo - In un momento difficile come questo, in cui i posti di lavoro nel privato sono altamente a rischio, non possiamo accettare che un simile atteggiamento venga portato avanti proprio dallo Stato che invece quei posti di lavoro dovrebbe tutelarli. Non vorremmo registrare i primi segnali di inversione di tendenza rispetto agli avvicendamenti al governo”. Milano. Stranieri nei Cpr, incontro fra Garanti dei detenuti sul tema dei reclami di Paolo Guido Bassi lombardiaquotidiano.com, 16 febbraio 2021 Affrontare congiuntamente la novità introdotta dal D.L. 20 ottobre 2020 n. 130 che attribuisce agli stranieri, trattenuti nei Centri di Permanenza e Rimpatrio (Cpr), la possibilità di inoltrare reclami ai Garanti. Questo il tema affrontato venerdì nell’incontro che si è tenuto a Palazzo Pirelli fra il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma, il membro del Collegio del Garante nazionale Daniela de Robert e i Garanti della Regione Lombardia e del Comune di Milano Carlo Lio e Francesco Maisto. L’individuazione delle modalità di raccolta delle istanze consentirà di affrontare le criticità già emerse nella realtà locale del Centro di Via Corelli. L’occasione ha inoltre consentito un confronto sul quadro generale dei contagi negli Istituti di pena, sia a livello regionale sia a livello nazionale, nonché sulle condizioni critiche di sovraffollamento, esaminate alla luce dei dati relativi alle scarcerazioni e ai nuovi ingressi. L’accordo tra i diversi livelli istituzionali permetterà di affrontare sinergicamente le nuove competenze attribuite con una modalità di azione condivisa. Roma. Il 25 febbraio parte il nuovo corso online per volontari nelle carceri isolasolidale.it, 16 febbraio 2021 Partirà giovedì 25 febbraio 2021 il nuovo “Corso di formazione online per volontari interni ed esterni al carcere”, promosso dalle associazioni L’Isola Solidale e Semi di Libertà Onlus e dal Numero Verde “Oltre il Carcere” per il disagio carcerario, in collaborazione con la Garante dei diritti delle persone private della libertà di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni. Il corso si comporrà di 10 lezioni che si terranno tramite la piattaforma Zoom ogni giovedì dalle ore 18 alle ore 19.30. Potrà partecipare chiunque sia interessato ad affrontare un’esperienza di volontariato in carcere e per questo verranno fornite le nozioni di base sulle principali leggi che disciplinano l’esecuzione pensale, sul ruolo del volontariato in ambito penitenziario, sull’organizzazione, i regolamenti e le figure professionali presenti negli Istituti Penitenziari, e in generale su tutti gli aspetti più importanti per sostenere efficacemente i detenuti nel difficile periodo dell’esecuzione penale e agevolare il loro reinserimento nella società. Per la partecipazione è prevista una quota d’iscrizione di 10 € (per info: info@semidiliberta.org) e al termine del percorso i partecipanti riceveranno un attestato di partecipazione e, per chi vorrà, un orientamento individuale con operatori dell’Isola Solidale e di Semi di Libertà Onlus per essere eventualmente inseriti in attività progettuali, o per prendere contatto con altri enti di zone differenti. I temi dei 10 incontri saranno: “Costituzione e diritto penitenziario” (25/2/2021), “Esecuzione penale interna” (prima parte 4/3/2021, seconda parte 11/3/2021), “Il carcere femminile” (18/3/2021), “Sex offender, transessuali, malati psichiatrici e reparti precauzionali” (25/3/2021), “Esecuzione penale esterna” (1/4/2021), “Giustizia riparativa e mediazione penale” (8/4/2021), “La giustizia minorile” (1574/2021), “Dopo il carcere” (22/4/2021), “Il ruolo del volontariato in ambito penale” (29/4/2021). Campobasso. “Scrittodicuore 2021”, al via la quinta edizione del concorso di scrittura molisenews24.it, 16 febbraio 2021 Si rinnova l’appuntamento con il concorso nazionale di scrittura rivolto ai detenuti degli Istituti carcerari di tutto il territorio nazionale. L’iniziativa del Comune di Campobasso e dell’Unione Lettori Italiani. Torna l’appuntamento con il concorso nazionale di scrittura “Scrittodicuore” rivolto ai detenuti degli Istituti carcerari di tutto il territorio nazionale. L’iniziativa, giunta alla quinta edizione, è promossa e organizzata dal Comune di Campobasso- assessorato alle Politiche per il Sociale e dall’Unione Lettori Italiani con la direzione artistica di Brunella Santoli e con la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale di Campobasso e rientra nell’ambito della programmazione di Ti racconto un libro 2021 che sarà presentata ufficialmente non appena l’emergenza sanitaria nazionale lo consentirà. Ai partecipanti verrà chiesto di inviare una lettera “scritta di cuore”, che sarà valutata da due giurie. La Giuria Tecnica, composta da scrittori di primo piano nel panorama narrativo italiano, e da una Giuria Giovani, composta da selezionati e motivati lettori di età non superiore ai 35 anni, che segnalerà la lettera d’amore ritenuta più meritevole. Da sempre convinta che la lettura e la scrittura abbiano un ruolo fondamentale nella costruzione di una società giusta e attenta alle necessità sociali, l’Unione Lettori Italiani di Campobasso, nonostante le ben note difficoltà del momento, ha voluto coinvolgere ancora una volta gli istituti carcerari, luoghi in cui il tempo e lo spazio in cui vivere i sentimenti confluiscono marcatamente nell’interiorità del singolo. Scrittodicuore è un modo per riportare il calore della condivisione all’interno del carcere dove la scrittura diventa un importante strumento di contatto indiretto con l’esterno, veicolo fiduciario di una riflessione rispetto a sé stessi e rispetto agli “oggetti” d’amore. Una esperienza che oggi assume i contorni della necessità. Perché se è vero che questa pandemia ci ha fatto riscoprire l’importanza del contatto umano, è altrettanto vero che ci sono persone che sperimentano quotidianamente la durezza di una vita in cui l’incontro con l’altro è un’occasione di rara bellezza. Mantova. Immagini e colori: quando in carcere le parole non bastano di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 febbraio 2021 “Tutto può essere tolto a un uomo ad eccezione di una cosa: la libertà di scegliere il proprio comportamento in ogni situazione” è la scritta che decora le aule didattiche della casa circondariale di Mantova. Sono parole di Viktor Frankl, psichiatra austriaco sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, scelte dalle detenute del corso d’arteterapia, assieme all’immagine di alcuni libri, per illustrare l’importanza dello studio. Il laboratorio, coordinato dalla decoratrice Valeria Pozzi, è stata l’unica attività a rimanere aperta tra le tante organizzate nell’istituto e sospese per contrastare la diffusione del virus. È stato scelto di mantenerla “per dare la possibilità ai detenuti- spiega la direttrice Metella Romana Pasquini Peruzzi - di sperimentarsi, esprimersi in maniera creativa e occupare giornate infinite”. Le decorazioni realizzate dalle donne (italiane e straniere) che hanno partecipato al corso, hanno trasfigurato a colpi di colore l’ingresso, il corridoio, la sala socialità e le aule. Tra le immagini, molto presenti gli elementi da sempre evocativi di libertà, come il mare, “che hanno scelto subito tra le mie proposte” racconta la coordinatrice, già responsabile di un progetto analogo nel carcere di Cremona e autrice di murales antismog in spazi cittadini. “A volte le parole non bastano, e allora servono i colori” è stato uno dei commenti alle foto pubblicate sul profilo social di Valeria Pozzi, quanto mai calzante anche per i lavori delle detenute. Le immagini rappresentate raccontano, infatti, molto dei loro sentimenti, non solo il bisogno di orizzonti liberi ma anche l’intimità della vita familiare ricordata da cani, gatti, rampicanti e davanzali fioriti. La scelta dei colori ha tenuto conto anche della loro valenza terapeutica: “Nella sala della socialità- spiega Valeria Pozzi - dove leggono e giocano, abbiamo optato per immagini geometriche gialle, colore che aiuta la concentrazione, arancione caldo, che favorisce serenità, e viola che produce armonia”. Il programma di arteterapia proseguirà a breve con i detenuti. Presto anche le decorazioni sulle pareti della sezione maschile racconteranno l’attesa di ritrovare la bellezza del mondo libero. Giustizia malata, un grido nel libro di Giovanni Verde recensione di Luigi Labruna La Repubblica, 16 febbraio 2021 “Giustizia, politica, democrazia. Viaggio nel Paese e nella Costituzione”, di Giovanni Verde (Ed. Rubettino, 250 pp., euro 22.00). Pare che anche nel nostro Paese, martoriato dai populismi, non siano morte la politica e la democrazia, tendenzialmente ricondotte da Mattarella e Draghi, “mentre i partiti sono nel panico”, nell’alveo della Costituzione. Sarà dura, ma c’è da sperare che - munito finalmente di un competente ministro della Giustizia, assente da anni da via Arenula - il nuovo esecutivo avvii con urgenza (oltre agli interventi su sanità, economia, ambiente, scuola) la riforma della Giustizia, presidio della democrazia ormai priva della fiducia dei cittadini, e - nel suo àmbito - con priorità, quella del processo civile. Non perché sia più urgente di quelle della giustizia penale e del Csm, ma perché essa incide più immediatamente sulla crisi economica che devasta il Paese e scoraggia gli investimenti degli stranieri (che si rifugiano spesso in clausole arbitrali per sottrarsi alla giurisdizione italiana) e gli stessi imprenditori nostrani. Stritolati (gli uni e gli altri) dai folli grovigli di norme e procedure e dalle conseguenti lungaggini, “che spesso si traducono in vere e proprie vessazioni, creando il terreno fertile nel quale alligna la corruzione”. E sono altresì dissuasi dal rischiare dal timore delle responsabilità, che “ingessa gli amministratori pubblici, i quali cercano riparo in regolamenti che riducono a zero la discrezionalità con una crescita esponenziale della burocrazia”, e dal terrore di incappare in guai penali eterni con l’accusa (magari ingiusta o frutto di interpretazione “creativa”) di aver violato qualche regola. Lo mette in luce, fra tante altre cose di cui tratta (e sulle quali torneremo) in un approfondito, ma chiarissimo libro intitolato Giustizia, politica, democrazia. Viaggio nel Paese e nella Costituzione, con prefazione di Biagio De Giovanni e postfazione di Gerardo Bianco (Rubettino ed.) Giovanni Verde, maestro universalmente riconosciuto della procedura civile, formatosi alla Federico II alla scuola di Andrioli e Vocino. Ne seguirà - spero - gli insegnamenti la neo-guardasigilli Cartabia, giurista eccellente, anch’essa di elevata genealogia accademica. (A proposito: ma che ci azzecca in un governo “di alto profilo” Di Maio agli Esteri anche se “con Draghi premier avrà autonomia solo sull’Oceania”?). Il capitale sociale della fiducia per ricostruire l’Italia di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 16 febbraio 2021 Alla prima uscita da presidente del consiglio incaricato, il professor Mario Draghi ha preso le redini del Paese, affidandosi alla sola forza muta del suo prestigio. Dal massimo possibile al minimo indispensabile. Dalla promessa che l’ha reso celebre, “whatever it takes” (tutto ciò che serve), formula salvifica per la sopravvivenza dell’euro, alla lista dei ministri declinata venerdì scorso al Quirinale senza un preambolo né una chiusa né un cenno di ringraziamento a chi l’aveva preceduto, Giuseppe Conte. Alla prima uscita da presidente del Consiglio incaricato, il professor Mario Draghi ha preso le redini dell’Italia affidandosi alla sola forza muta del suo prestigio. E che quel tipo di debutto non fosse casuale l’avrebbe ripetuto, riferiscono le cronache, alla prima riunione dei suoi ministri, mettendoli sull’avviso: noi comunichiamo quello che facciamo e, non avendo ancora fatto niente, niente comunichiamo. Per i molti abituati a riempire il vuoto di azione politica con un pieno di parole e proclami, il segno più drastico di un cambiamento che mal tollererà eccezioni. Lo stile Draghi è asciutto come l’uomo. Nei suoi precedenti incarichi, dalla Banca d’Italia alla Banca centrale europea passando per la Banca Mondiale, quello stile ha funzionato, e ancora funziona. Mario, il nome italiano una volta più comune e quindi anche più anonimo, accompagnato al suo cognome diventa subito un marchio internazionale ad alta affidabilità. È bastata la comparsa del suo augusto profilo perché lo spread si acquattasse sotto quota 90, la Borsa aprisse le porte alla speranza e le Cancellerie tutte (quasi tutte) facessero a gara per garantire plauso e sostegno. Persino il neo presidente americano, Joe Biden, finora parco di contatti con i nostri vertici istituzionali, ha teso la sua lunga e grande mano: “Non vedo l’ora di lavorare a stretto contatto con lei”. Con credenziali simili, l’opera di rilanciare l’Italia, per quanto squassata, sembra un problema non insormontabile. Ma ci sono alcune variabili che sicuramente non sfuggono alla consumata saggezza del premier Draghi, il più alto profilo di un governo d’alto profilo come quello voluto dal presidente Mattarella, rimedio estremo a una crisi dai contorni ancora non chiarissimi, consumata e precipitata lontana dal Paese abitato dalla gente comune. Parte di queste variabili sono il frutto diretto e prevedibile della frantumazione della maggioranza del Conte bis e della conseguente ricomposizione rapida di un mosaico dove parecchi tasselli sembrano incastrarsi a fatica: Lega e Pd, per esempio, ma anche Forza Italia e 5Stelle, o quel che resterà del Movimento dopo la diaspora in corso. La difficile coabitazione di forze per natura agli antipodi verrà messa alla prova non appena si uscirà dall’indefinito “tutti insieme per superare l’emergenza” e toccherà confrontarsi su temi fortemente divisivi, a cominciare dalla gestione della pandemia per finire, prima o poi, a questioni soltanto in apparenza sullo sfondo come l’immigrazione o i diritti civili. La speranza è che il caos intorno alla riapertura delle piste da sci, annunciata e poi ritirata a poche ore dalle prime discese, con il contorno di divieti infranti e trasgressioni manifeste, sia la coda della confusione da vecchia gestione e non il preludio di incidenti di percorso all’avvio della nuova, casuali ma non troppo. Stretti come siamo tra l’opportunità storica di non sprecare l’ossigeno vitale dei fondi europei del Recovery e l’ansia di ritrovarci mortificati dall’incapacità di contenere le ondate di varianti del Coronavirus, in ritardo sulle vaccinazioni e in confusione sulla girandola delle colorazioni regionali, la missione del Draghi Uno è l’ultima possibilità realistica che resta a questo Paese prima che sia davvero, e definitivamente, troppo tardi. Il nascente governo che tra mercoledì e giovedì si presenterà nei due rami del Parlamento otterrà una fiducia scontata e potrà mettersi ufficialmente al lavoro sull’agenda delle priorità che sono state fatte filtrare ma che sono poi quelle che chiunque indicherebbe su una lista ragionevole: lotta al virus, lavoro, economia, scuola, ambiente, fisco. La somma degli addendi, ciascuno dei quali contiene una serie infinita di complessità, dovrebbe dare come risultato una speranza tangibile: mettere l’Italia nella condizione di avere un futuro. Nei suoi discorsi a Camera e Senato, sicuramente Mario Draghi illustrerà come intende procedere, e con che tempi, e con quali modi. Lecito aspettarsi interventi di spessore, come l’articolo a sua firma pubblicato sul Financial Times il 26 marzo 2020 (centrato sull’aumento del debito pubblico “produttivo”) o il discorso che ha tenuto al meeting di Rimini dello scorso 18 agosto (contro i populismi e per una gestione europea della tragedia biblica della pandemia, pensando soprattutto ai giovani e al dovere di fornire loro tutti gli strumenti per vivere in società migliori delle nostre). Chiederà unità, il professor Draghi, non come un’opzione ma come un dovere per il momento che stiamo attraversando, per le sfide che ci attendono. Ma il colloquio più importante che lo aspetta è quello con gli italiani, la spinta più decisiva che deve ricevere è la loro. Un’apertura di credito che vada al di là delle appartenenze partitiche, una comprensione anche emotiva che in gioco, da qui ai prossimi mesi, c’è un pezzo, se non tutto, del destino della loro nazione, e quindi delle generazioni che verranno; e che la forbice delle diseguaglianze può e deve essere contenuta attraverso un gigantesco sforzo collettivo di responsabilità, a partire dal rispetto delle regole per non permettere al virus di allargarla, quella forbice. Il rischio da scongiurare è un Paese tagliato in due, con la sua parte più debole destinata alla marginalità. Lo stile Draghi è improntato sulla sobrietà, che è indiscutibilmente un valore ma che è cosa diversa dall’aridità. Per provare a ricostruire davvero l’Italia, non basteranno un uomo per quanto capace, né un governo speriamo animato di buone intenzioni durevoli, né tutti i 209 miliardi del Recovery Fund. Serve il capitale sociale della fiducia. Serve il coinvolgimento degli italiani, la loro ragionevole passione. Una delega per il Terzo settore, e se toccasse a uno di loro? di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 16 febbraio 2021 Dalla portavoce del Forum Claudia Fiaschi in giù, ci sono decine di personalità di livello, preparate, competenti, riconosciute e riconoscibili. Su Sette del 29 gennaio scorso Dario Di Vico citava Giuliano Amato, a proposito di nuove classi politiche e dirigenti: “È tempo che il terzo settore la smetta di lamentarsi della mediocrità del ceto politico e dica “Tocca a noi”“. Partiamo da qui. Perché l’insediamento del nuovo governo, al quale anche questi mondi hanno guardato con grandissima fiducia e apertura, ha provocato l’inevitabile giro di giostra fra incarichi e deleghe, che ogni volta si traduce in altrettanto inevitabili rallentamenti per le pratiche in corso. Prendiamo la Riforma del Terzo settore: cantierizzata nel 2016 ha già assistito all’alternarsi di quattro governi e ogni volta bisogna ripartire da capo a costruire una relazione, spiegare l’urgenza, dipanare complicate matasse burocratiche. Eppure è ormai noto a tutti che anche il Terzo settore sta pagando pesanti effetti alla pandemia e siamo sicuri che il nuovo esecutivo abbia ben chiaro, come è sempre stato chiaro al Presidente Mattarella, quanto sia cruciale il servizio garantito da questi enti. E il tema della coesione sociale citato dal presidente Draghi, è il mestiere di queste realtà. Forse allora potrebbe essere il momento di coinvolgere qualcuno “del ramo”: per battezzare una delega organica del Terzo settore, che copra dall’associazionismo all’impresa sociale, e affidarla a qualcuno che abbia chiaro quali sono i bisogni e quali le urgenze. Qualcuno che potrebbe dare suggerimenti utili su come usare alcune voci di spesa dei soldi del Pnrr perché conosce progetti efficaci, economicamente sostenibili e ripetibili. Serve qualcuno che abbia relazioni già aperte e che sarebbe riconosciuto come interlocutore super partes. Lo chiediamo anche ai big dei partiti: pensateci. Dalla portavoce del Forum Claudia Fiaschi in giù, ci sono decine di personalità di livello, preparate, competenti, riconosciute e riconoscibili. Si perderebbe meno tempo, si avrebbe una operatività immediata e basata sulle competenze, ci si affiderebbe a chi sa. E scusate se è poco. Droghe. C’era solo l’oratorio a salvarci dalla tentazione dell’eroina di Massimo Coppola Il Domani, 16 febbraio 2021 Le droghe, anche all’oratorio, erano l’elemento cruciale per la formazione dei gruppi; questo dice molto se non tutto sul ruolo sociale delle sostanze stupefacenti, come le chiamavano al tempo. Quando percorrevo a velocità supersonica la stretta e breve via che portava da casa di mia madre all’oratorio di Santa Maria di Caravaggio, in porta Ticinese a Milano, non avevo alcuna idea di chi fosse la suddetta Maria, né tantomeno ero a conoscenza del fatto che in una remota città brasiliana, Farroupilha, nel sud del paese, ci fosse un santuario alla stessa dedicato. Il santuario è addirittura il secondo per affluenza e fama nella grande terra del nuovo cristianesimo e dei mille rivoli capitalistico-evangelici di derivazione americana. Il santuario venne dedicato alla madonna di Caravaggio solo perché la prima opzione (madonna di Loreto, ovviamente più trendy) si rese impraticabile causa l’impossibilità di reperire immagini della medesima, mentre tal Pietro Colzani, lì emigrato, aveva con sé una tela raffigurante la madonna del Caravaggio. Era la fine dell’Ottocento. Oggi il santuario ha una chiesa per più di duemila credenti. Chissà poi chi era Pietro Colzani e perché mai avesse con sé un dipinto della madonna di Caravaggio, la cui storia, scopro ora scrivendo, perché ci facevano pregare ma non ci hanno mai raccontato perché diavolo si chiamasse “Caravaggio” il nostro oratorio, è piuttosto interessante. In sintesi, la madonna appare a una giovincella (appare sempre a giovincelle la madonna, chissà perché, forse è femminista, la madonna, e ama la gioventù) e le chiede di riportare la pace tra non so quali fazioni avverse; ella prese il tutto molto sul serio e come inviata della madonna ebbe un certo successo. Non so tracciare una linea retta che divida storia e mito, ma pare che un qualche risultato ella riuscì a conseguirlo. Una storia bella, ignota a tutti noi giovani empi frequentatori dell’oratorio, luogo nel quale, benché fossimo chiamati a una preghiera quotidiana (ci torno dopo), pena l’esclusione dalle competizioni calcistiche, mai nessuno ci parlò. E tantomeno venne mai organizzata la gita al più noto e comodo santuario di Caravaggio, intesa come la cittadina dove avvenne l’apparizione. Nulla sapevo di ciò e forse avrei voluto saperne, ma che importava al mio cuore dodicenne che si precipitava nella via verso l’oratorio e l’agognato campetto da calcio? La via era intitolata a Borromini, grande architetto del barocco, prima favorito del Vaticano - cosa piuttosto decisiva per un architetto all’epoca - e poi sostituito dal Bernini nelle grazie dei porporati; per questo cadde in depressione e morì trafiggendosi con una spada. Nemmeno questo sapevo, correvo io, solo, pochi metri, meno di cento, all’ora del rush verso l’oratorio e il suo campo da calcio in mattonelle di porfido, collinare, ma con le righe segnate e le porte vere anche se senza reti. Correvo nella via bianca e nera, tagliata esattamente in diagonale da sole e ombra. Era così nei mesi migliori, da primavera a estate inoltrata; la precisione di quella diagonale che io per gioco percorrevo al confine, rispondeva all’esercizio di equilibrismo che è la giovinezza stessa, divisa tra il richiamo della gioia di vivere e la realtà che avrebbe già a quel tempo potuto essere migliore. Ci si arrivava di corsa all’oratorio, a premere contro la porta di ferro, che si sarebbe aperta alle 15.45 in punto. Era di fondamentale importanza essere lì presto - soprattutto per i più scarsi, poiché la regola era che all’apertura della porta si corresse verso il muro più lontano dall’ingresso e i primi due a toccarlo, quel muro, avrebbero avuto il diritto di comporre le prime due squadre che avrebbero iniziato il quotidiano torneo, basato su semplici quanto durissime regole: si arriva ai quattro, chi vince rimane in campo sfidato dalla squadra composta dal terzo che aveva toccato il muro, e via così fino alla chiusura. Il torneo si teneva sul campo da basket, da noi definito “a porticine”. Quattro contro quattro, le porte erano i rettangoli alti e stretti che reggevano i tabelloni con i canestri. Da un lato la linea “del fuori” era quella del campo da basket, dall’altro era un muro irregolare, interrotto com’era da una serie di panche in cemento. Valeva il gioco di sponda, ovvero calciare il pallone contro il muro per un passaggio vincente o un dribbling azzardato. Si arrivava ai quattro, in caso di 3-3 si arrivava ai 5. Grazie a dio sapevo giocare a pallone, quindi potevo risparmiarmi la corsa iniziale, anche se qualcuno dei bravi a turno partecipava per mettere in piedi una squadra di quattro forti che potessero provare a vincere tutte le partite fino a chiusura. Mi è capitato ed è stato bellissimo. Vi sto descrivendo il paradiso, se non l’avete capito. A gestire l’oratorio c’era un prete, don Aldo, che poi nel tempo e nel ricordo, mi pare sempre più somigliare a Bruno Vespa. Aveva lo stesso modo di fregarsi le mani e qualche neo. Non era simpatico, ma nella mia memoria, abbastanza equo. Pretendeva da noi semplicemente la partecipazione alla preghiera delle 17, che veniva organizzata nel campo più grande - lasciato agli scarsi e ai bambini o occupato dalle squadre in attesa del proprio turno “a porticine”, che organizzavano tornei di “coppie e rigori” nei quali due squadre da due giocatori si sfidavano ai calci di rigori, un totale di dieci, con 5 tiri e 5 parate per ognuno dei componenti delle due squadre. In caso di respinta la palla rimaneva in gioco e i due componenti delle squadre si univano a quelli che si erano fronteggiati dal dischetto per completare la giocata. Un sacco di botte, sbucciature, e caviglie distorte dalle colline di porfido. La preghiera avveniva con un rituale ripetuto (altrimenti di che preghiera parliamo?) intorno al cerchio del centrocampo ce n’erano disegnati altri due di raggio maggiore destinate man mano ai più grandi; sul dischetto di centrocampo prendeva posto Don Aldo e noi tutti intorno a rumoreggiare, prenderci per il culo, darci botte trattenute, in attesa che il supplizio finisse, e finiva, presto, anche se al tempo sembravano ore. Nel caso in cui la preghiera fosse arrivata sul 3-3, potete immaginare con quale animo vi partecipavamo. A ogni modo a parte pochissimi di noi a nessuno fregava un cazzo, com’è giusto. E il prete lo sapeva, bontà sua, non se ne faceva un cruccio. Visto da oggi, temo che fosse quello meno determinato: almeno noi avevamo l’obiettivo che finisse per tornare a giocare a calcio. Lui dopo cosa avrebbe fatto? A farmi ripensare all’oratorio (da me frequentato dalla fine degli anni Settanta, bambino fino a poco oltre la metà anni degli anni Ottanta) è stato l’hype intorno alla serie su San Patrignano. Ricordo esattamente il momento in cui mi accorsi che esisteva l’eroina. Avevo dodici anni, era il 1984, e si diceva che un mio compagno di classe, mio grande amico, occhi chiari, campione di arti marziali già alle medie, l’avesse provata. Non so se fosse vero, non ne parlai con lui a quel tempo, troppa era la paura anche solo a nominarla; vero è, che due o tre anni dopo era un eroinomane. Solita situazione; madre disperata (suo padre non pervenuto); iniziò a sniffarla e poi a farsi in vena. Finì arrestato dopo un regolamento di conti nel quale venne ferito da una coltellata all’addome; aveva con sé un quantitativo sufficiente (bastavano pochi grammi, forse anche una sola dose, non ricordo) per finire in carcere. Non ho avuto più notizie di lui, spero ce l’abbia fatta. L’eroina arrivò quindi anche all’oratorio. Il primo fu un ragazzo che chiamavamo Giorgione perché era gigantesco, a me sembrava adultissimo ma avrà avuto sì e no vent’anni. Venne subito bandito dall’oratorio, nel quale provava tuttavia a entrare lo stesso, a volte protestando platealmente (di rado si incazzava, ma quando si incazzava faceva davvero paura). È morto su una panchina, con la spada nel braccio. L’arrivo delle droghe sintetiche e della coca fu il colpo finale. La “compagnia” si spezzò in due, impossibile stare in mezzo: da un lato chi si era fermato alle innocentissime cannette, dall’altro quelli che abbracciarono la montante onda delle pasticche - prima di andare a ballare, all’inizio, e poi anche solo con l’autoradio davanti alla chiesa. Io ero un drop-out o un fighetto a seconda del punto di vista; ascoltavo roba figa, il rap che nasceva, i Beasties, quel mondo lì e oltretutto non avevo i soldi per andare in discoteca, o meglio, i pochi che avevo - loro avevano già iniziato a lavorare, io ero andato al liceo, altro spartiacque, li spendevo in altro modo. Insomma, le droghe, anche all’oratorio (o davanti allo stesso, i gradini della chiesa) erano l’elemento cruciale per la formazione dei gruppi; questo dice molto se non tutto sul ruolo sociale delle sostanze stupefacenti, come le chiamavano al tempo. Io sono rimasto battitore libero, ero in contatto con tutti e dentro nessun gruppo, ero il liceale, il comunista, quello che ascoltava musica assurda e non andava in discoteca. Avrei mille aneddoti per nulla originali, li salto a piè pari e racconto il ricordo che mi ha acceso SanPa, ricordo che è apparso con una chiarezza e lucidità insopportabili e dolcissime al tempo stesso. Tra gli eroinomani della piazza il più figo di tutti era Uno (vorrei scrivere il suo nome, ora, bellissimo nome, un diminutivo, ma non lo faccio, anche se mi pare un tradimento più grave che tacerlo, ma meglio essere prudenti). Uno aveva sette o otto anni più di me; era bellissimo. Aveva la pelle scandinava, gli occhi ghiacciati, i capelli biondi corti e forti. Era sempre pieno di graffi, questo me lo ricordo bene. Era muscolosissimo e sempre in formissima, e questo faceva a pugni con quello che ti dicevano sulla roba. Orfano di padre, sua madre era una gran cattolica, attivissima in oratorio, forse faceva anche catechismo, non ricordo, ma senz’altro bigotta e, per questo, femminilissima. Oggi da adulto la definirei una bella donna. Al tempo sembrava solo una sciura fin troppo curata e con atteggiamenti che non mi tornavano se confrontati con quelli delle suore che gestivano l’oratorio femminile, separato da quello maschile da una porta che imparammo presto a violare per cercare riparo o addirittura organizzare improvvisati giacigli. Io all’oratorio ho consumato tutte le mie prime volte: sesso, droga e rock’n’roll. In totale sicurezza, aggiungo senza pudore e ringraziando tardivamente la chiesa cattolica romana. Uno, il biondo, era il più figo, il più duro e, pochi se ne accorsero, il più sensibile. Faceva paura a tutti e quando si incazzava era ancora più minaccioso di Giorgione. Avevamo un rapporto particolare. Gli piacevo - mi diceva che ero il più figo e intelligente, che la mia fidanzata era la più bella e quando avevo moti di gelosia lui mi diceva sempre “Chi è che la riaccompagna a casa la sera? Tu. Finché la riaccompagni tu, non c’è problema”. Il ricordo riacceso da Sanpa è quello di una sera d’estate al tramonto, Uno stava seduto accanto a me sui gradini della chiesa, al solito con una t-shirt di una taglia in meno, che metteva sfacciatamente in mostra i graffi (se li procurava lui, a volte, quando provava a smettere) e i buchi. Sopra gli avambracci i bicipiti crudi e duri. Era appena scappato da Le Patriarche, l’omologo e antesignano francese di San Patrignano, anche negli esiti: fondatore accusato di ogni nefandezza, destituito, condannato a cinque anni di reclusione, poi scappato in Belize e lì morto negli anni zero. Le Patriarche esiste ancora ma si chiama Dianova e sembra sia diventato un posto più sano, se così si può dire. Ma non mi pronuncio su questo. Quella sera, al tramonto e interrotto solo dalle campane che quando rintoccavano - eravamo sotto il campanile - portavano con sé la potenza della promessa dell’infinito che riducevano al silenzio noi poveri giovanissimi mortali, Uno mi raccontò di una fuga dalle catene, a piedi nudi, da qualche parte in mezzo alla campagna francese; di una rapina in Francia, beccato ed espulso dal paese (questo passo del racconto era confuso) e della sera in cui, dopo aver pensato di avercela fatta, camminando, vide un tale in un’automobile spruzzare via un goccio del contenuto di una pera prima di infilarsela in vena. Non sono in grado di restituire la forza di quel racconto, della lotta interiore che si combatteva dentro di lui, lui solo, e non riesco nemmeno a ricordare se alla vista della pera a vincere fu ancora l’eroina oppure no. Mi ricordo la durezza e la dolcezza; il sentirmi un privilegiato (ero amico del cattivo affascinante, forte e saggio, e mi voleva bene il cattivo, mi proteggeva quando le cose si mettevano male, per un motivo o per l’altro, sui gradini della chiesa); e la seduzione terribile della paura, della libertà e tutto quanto. Per molto tempo, dopo quella sera, non l’ho più visto; un po’ perché credo fosse andato via, un po’ perché io ero ormai sempre più spesso con i compagni del liceo, che mi avevano spalancato le porte delle feste fighe in case bellissime e la sensazione di non essere più quello diverso, coi pantaloni stracciati, senza un soldo e la fissa della musica figa; un altro mondo era possibile. L’altra comunità che frequentavo era quella della sezione del Pci in Via Lagrange. Mi ci portava mio padre. Ricordo solo gran discussioni, votazioni interne, interminabili riunioni con decine di persone iscritte a parlare e una macchina da scrivere, che stava in fondo all’ampia sala e sulla quale schiacciai i miei primi bottoni cagaparole, una macchina esoterica e misteriosa. Scrivevo il mio nome, com’è ovvio. Mio padre, comunista nonché sindacalista del teatro alla Scala, dove ha suonato per tutta la sua vita… un tipo strano, mio padre. Generoso e dolce, isolato e ossessivo; grande musicista e quindi. Era ed è tutto questo tutto assieme, mio padre. Non facile, la vita, appunto. Ma lo vedo ora. Al tempo mi sentivo, ed ero, con tutta probabilità, molto fortunato. Divorziarono presto i miei, pareva stessero aspettando solo che passasse la legge. Ma questo ebbe il solo risultato di farmi sentire ancora più figo (beato me) perché all’oratorio ero l’unico ad avere i genitori separati e poi divorziati, appunto, ma dopo; c’era un periodo lungo di trial perché potessero ripensarci, al tempo. Non ci ripensarono. Né all’oratorio né alla sezione (dove non ero l’unico figlio di separati/divorziati con tutta probabilità, ma ero l’unico ragazzino a frequentarla, quindi non posso esserne certo) ho tuttavia il minimo ricordo di nessuno che facesse parola della “piaga della droga”; tantomeno ho memoria di altri presidi territoriali che si occupassero di un problema che, in quel quartiere di Milano, era divenuto diffusissimo. Un morto al giorno visto da oggi. Nonostante fosse una comunità piccola e a maglie strette, al modo don Camillo e Peppone: mio padre ateo e comunista sosteneva economicamente la squadra dell’oratorio, che da squadretta locale per tornei minori arrivò a giocare in terza categoria quando io l’avevo tuttavia già lasciata, sedotto da una sontuosa offerta da una squadra di prima categoria. 50milalire a vittoria, boom! Era in zona Gratosoglio, ci andavo in moto e mi sentivo un calciatore fortissimo. Mio padre continuava a sostenere la squadretta dell’oratorio, ormai squadra a tutti gli effetti. Venne a vedermi giocare una volta sola, nella squadra figa. Quella domenica mi ruppi (mi ruppero, per l’esattezza) il ginocchio. Insomma, la comunità. In qualche modo teneva; soprattutto grazie alla solidarietà tra le famiglie e a queste due istituzioni; oratorio e sezione del Pci. Nonostante a ognuno di noi sarebbe potuto capitare il peggio, accadde a pochi; i più deboli che si fingevano i più forti. La dipendenza dalla droga è sempre stata e sempre sarà, oltre a un problema sanitario (effetti) un problema sociale (cause). Leggo il meraviglioso libro Drug Use for Grown-Ups del professor Carl Hart, docente di psicologia alla Columbia University, appena uscito per Penguin. Si apre con la frase “Sono al quinto anno di uso regolare di eroina”. Uno statement abbastanza forte. Hart sostiene che il tema della tossicodipendenza sia esclusivamente un effetto di una situazione socio-economica svantaggiata. Esclusivamente. Hart non è un poeta beat o una rockstar; la sua area di ricerca è la neuropsicofarmacologia (si studia gli effetti sul cervello - e dunque su psiche e comportamento - dell’uso di sostanze). Hart assicura che il suo consumo regolare di droghe non gli crea problemi nella vita professionale; non occuperebbe il posto che occupa, se così non fosse. La sua tesi, in un campo in cui disinformazione e ipocrisia sono moneta corrente, è che la sofferenza causata dalle droghe non abbia nulla a che fare con i suoi effetti psicotropi, ma con il contesto sociale nel quale la si consuma e la criminalizzazione dello stesso. Racconta di come la maggior parte dei consumatori di crack negli anni Novanta fosse bianco, mentre il il 90 per cento degli incriminati fosse, al contrario, nero. Nell’introduzione al suo libro scrive “…in più di 25 anni di carriera ho capito come la maggior parte dei consumatori non subiscono danni e che anzi il consumo ricreativo di droghe fa bene - alla salute e alla capacità di perseguire i propri obiettivi”. In una intervista al Guardian critica duramente il National Institute on Drug Abuse, che finanzia il 90 per cento delle ricerche sull’uso ricreativo delle droghe. “Molti scienziati pensano che l’istituto sovrastimi abbondantemente l’impatto negativo dell’uso ricreativo delle droghe, ignorandone completamente gli effetti positivi. E lo fanno perché temono che i finanziamenti che ricevono sarebbero immediatamente azzerati se si mettessero a lavorare nella direzione opposta al mainstream”. Il tema, com’è ovvio che sia, è innanzitutto politico: “Si tratta di dove metti l’enfasi, non di un metodo empirico. Se le uniche discussioni sulle automobili riguardassero l’altissimo numero di morti che provocano, nessuno le userebbe, quando invece la quasi totalità delle persone che ogni giorno le usa arriva a destinazione sano e salvo”. Un’altra osservazione banale ma ancora percepita come radicale è che confondiamo sempre l’abuso con l’uso; se lo facessimo con il vino, dice Hart, tutti quelli che ne bevono uno o due bicchieri a sera dovrebbero ricadere nella categoria degli alcolisti. Hart è radicale, ma il suo discorso ha sostanza - e non è il primo a farlo. Per convincersene basta riportare quel che pensa delle droghe leggere: l’uso non responsabile di cannabis, in età puberale o adolescenziale, è rischioso. È provato che può indurre forti stati di ansia, e forme depressivo-paranoidi. La sua non è una posizione ideologica dunque, nonostante la radicalità delle sue posizioni; piuttosto, come rivendica più volte, empirica. E il fatto che abbia usato il suo corpo come test, assodato che non stiamo parlando di un folle, è indicativo. È arrivato a procurarsi una crisi d’astinenza da eroina, aumentandone il dosaggio per un breve periodo. Ha passato una notte d’inferno quando di colpo ha smesso, ma solo una notte. Non sei giorni, come dice la vulgata scientifica. E aggiunge che non si può morire di astinenza di eroina, mentre l’astinenza da alcol, per chi è assuefatto, è potenzialmente letale. Insomma Hart sostiene che il metodo migliore per capire l’uso di droga è smettere di essere ipocriti, avere il coraggio di dire come stanno le cose, basandosi su un metodo totalmente empirico e non ideologico. Che rimane la via migliore, per ogni cosa. Ed è consapevole che, così come per guidare una automobile occorre passare un esame, lo stesso dovrebbe valere per l’uso di droghe, una volta legalizzato. Sta per trasferirsi in Svizzera, per continuare le sue ricerche (e, è lecito immaginare, a godersela con la sua capacità di divertirsi con le droghe senza eccessivi problemi). Ma il tema centrale rimane quello delle comunità. Con tutti i suoi limiti - innanzitutto rispetto alle stigmate che facevano del drogato un escluso da evitare piuttosto che un escluso da aiutare - il raccontino edificante ma sincero col quale ho cominciato non significa che questo. Abbiamo bisogno di comunità; la scuola, il territorio, i gruppi di persone. È un tema che sta avendo molta risonanza anche in ambito psicanalitico, dove la pratica dell’analisi di gruppo, nonostante abbia faticato a imporsi nel nostro paese, è una delle risposte più adeguate alla solitudine alla quale ci troviamo costretti. La pandemia, va da sé, non ha fatto che acuire questa necessità. Ho scritto una mail all’attuale parroco del mio ex-oratorio. Ho telefonato al numero indicato sul sito (il mio oratorio ha un sito!). Non ho ricevuto risposta. Sono andato a vedere com’è oggi, senza appuntamento con nessuno. Le colline di porfido non ci sono più, e nemmeno il campo di porticine. Ci sono campetti perfettamente piatti di erba artificiale e le porte con le reti (le reti le abbiamo sognate per decenni). È ovviamente vuoto, non ho idea di come sia stato in questi anni prima della pandemia. Poi passo da Via Lagrange - sembra uno showroom quello che ha sostituito la sezione del Pci - ma vabbè, sono passati cento anni, no? Ripenso a Uno e a quando, vent’anni dopo la nostra chiacchierata sui gradini della chiesa l’ho rincontrato per caso. Non era cambiato. Ancora e sempre perfettamente rasato; un tossico che si faceva la barba tutti i giorni, che roba, signora mia! Aveva ancora addosso una delle sue t-shirt nonostante fosse inverno. Faceva il portinaio. Era felice, e anche io, tanto, di vederlo e immaginarlo a farsi due chiacchiere col professor Hurt. Giurisdizione universale: l’Italia indietro nella persecuzione dei crimini contro l’umanità di Giorgia Cacciolatti La Repubblica, 16 febbraio 2021 Aumentano i processi in Europa mentre in Italia non è ancora possibile processare criminali di guerra presenti sul territorio. La rivista Altreconomia - mensile diretto da Duccio Facchini, che dal 1999 fornisce un’informazione indipendente e servizi di comunicazione per l’affermazione di un’economia solidale e sostenibile - dedica la copertina del nuovo numero di febbraio (n. 234) alla “giurisdizione universale”, strumento per garantire giustizia alle vittime dei crimini contro l’umanità. L’articolo di Ilaria Sesana fornisce un panorama complessivo della realtà processuale europea e italiana dei crimini contro l’umanità. Sempre più azioni processuali. Nel 2019 si sono svolti 2.906 processi per crimini contro l’umanità e genocidio nei Tribunali di Germania - dove tra il banco degli imputati erano presenti anche affiliati a gruppi terroristici come l’Isis o Jabat al Nusra - Olanda, Norvegia, Belgio, Svezia e di altri Paesi europei. L’arrivo dopo il 2015 di migliaia di profughi dalla Siria e dall’Iraq ha determinato un drastico aumento del numero di inchieste e processi. Coblenza e la giurisdizione universale. La Germania è il Paese più attivo, con circa 110 procedimenti in corso. A Coblenza, in Germania, è in corso infatti il primo procedimento a livello mondiale volto ad accertare il sistema della tortura di Stato in Siria. Le autorità giudiziarie tedesche hanno raccolto circa 2.800 testimonianze che riguardano crimini internazionali commessi in Siria. Il processo è il risultato delle denunce presentate da quasi 50 sopravvissuti alle torture e alla prigionia. Queste si fondano sul principio della giurisdizione universale, secondo il quale chi ha commesso crimini contro l’umanità, crimini di guerra, genocidio e aggressione, può essere processato in un Paese estraneo sia a lui sia alle vittime coinvolte. L’Italia è indietro. In questo quadro europeo risulta marginale il ruolo dell’Italia. Come riportato nell’articolo sopracitato, le autorità giudiziarie italiane non possono perseguire penalmente i criminali di guerra eventualmente presenti nel territorio. Nonostante la ratifica nel 1999 dello Statuto di Roma, l’Italia non ha ancora recepito le norme relative alla definizione dei reati di crimini di guerra, crimini contro umanità e genocidio. Nel 2012 è stata adottata la Legge 237 che si limita a considerare gli aspetti procedurali relativi alle modalità di collaborazione tra la giurisdizione nazionale e quella della Corte. Una lacuna importante che urge di essere colmata per assicurare giustizia alle vittime dei crimini commessi in Libia, i cui aguzzini possono essere processati solo per reati specifici come tortura, stupro o violenze. Il numero di febbraio 2021. Il nuovo numero di Altraeconomia è suddiviso in “tre tempi”. Il primo riporta il reportage da Bergamo sugli effetti sulla salute psichica, su scala locale e globale, della pandemia. Sono presenti inoltre interventi sulla crisi del diritto umano all’acqua, tra privatizzazioni e quotazioni in Borsa, sul tema delle migrazioni e sul commercio d’armi, temi che coinvolgono anche il nostro Paese. Nel secondo tempo lo sguardo si sposta a Barcellona, modello concreto del “futuro pubblico” delle città. Vi è spazio inoltre per l’economia carceraria italiana legata al commercio equo che ha dovuto reinventarsi durante la pandemia, e per la rivoluzione in campo e tavola dei panificatori agricoli urbani. Del terzo tempo è da segnalare l’intervista ad Abdullahi Ahmed, mediatore culturale somalo che lavora per rafforzare le nuove generazioni di migranti, e a seguire il dialogo con Andri Snær Magnason, scrittore e poeta islandese, sugli effetti dei cambiamenti climatici sulla terra dei ghiacciai e dei vulcani. Spagna, arrestato il rapper Hasel barricato all’università di Lleida di Alessandro Oppes La Repubblica, 16 febbraio 2021 Condannato a 9 mesi per “esaltazione del terrorismo e ingiurie alla corona”, sarebbe dovuto entrare in carcere venerdì scorso ma non si è presentato. Un manifesto di solidarietà firmato da 200 personalità del mondo della cultura, da Pedro Almodóvar a Javier Bardem e Fernando Trueba. “E ora vengano a prendermi”. Per dare ancora maggiore risonanza al suo caso, che già da giorni sta facendo molto discutere non solo in Spagna ma anche all’estero, il rapper Pablo Hasel si è barricato da ieri mattina nell’edificio del rettorato dell’Università di Lleida, la sua città, capoluogo di una delle quattro pronvince catalane. Così è stato: nelle prime ore della mattina oggi la polizia ha lanciato un’operazione per catturarlo e lo ha portato in cella. Hasel sarebbe dovuto entrare spontaneamente in carcere entro le 8 di sera di venerdì scorso, per scontare una condanna a nove mesi per “esaltazione del terrorismo” e “ingiurie alla corona” contenute, secondo i giudici, nelle sue canzoni e nei commenti postati su Twitter. Ma non si è presentato. Da allora attende che i Mossos d’Esquadra, la polizia regionale catalana, vadano a “sequestrarlo”, come definisce il suo possibile arresto, dopo che la Audiencia Nacional - il tribunale con sede a Madrid e giurisdizione su tutto il territorio spagnolo e che si occupa di tutti i reati in qualche modo connessi al terrorismo - avrà emesso il mandato di cattura. “Sarebbe un’umiliazione indegna presentarmi spontaneamente di fronte a una sentenza così ingiusta”, ha spiegato ai suoi oltre 120mila follower su Twitter. Oltre che per il contenuto dei suoi messaggi sui social, il rapper 32enne - Pau Rivadulla è il suo vero nome - è stato condannato anche per il testo della canzone “Juan Carlos el Bobón”: tolta la “r” della casata regnante, significa “lo sciocco”. Ma proprio nel giorno in cui sarebbe dovuto entrare in cella (la pena di 9 mesi non dovrebbe comportare l’arresto, ma Hasel aveva già una condanna precedente a due anni per reati simili) il musicista in tono di sfida ha lanciato un nuovo videoclip con una canzone contro il re, questa volta Felipe VI, il sovrano in carica. Subito un grande successo, con più di 200mila visualizzazioni su YouTube. Il video comincia con una dichiarazione fatta dal re durante la consegna dei premi di giornalismo alla Asociación de la Prensa di Madrid: “Non c’è alcun dubbio che, senza libertà d’espressione e d’informazione, non c’è democrazia”. E allora Hasel si riprende la sua libertà: “Senti tiranno, non ce n’è solo per tuo padre. Che il grido repubblicano trapani il tuo timpano. Amo l’oppresso, odio il regno oppressore”. La notizia dell’imminente arresto di Hasel aveva provocato già una settimana fa, la mobilitazione immediata di oltre duecento personalità del mondo della cultura e dello spettacolo, con un manifesto firmato tra gli altri da Pedro Almodóvar, Javier Bardem, Joan Manuel Serrat, Luis Tosar, ma anche dal rapper Valtonyc, fuggito in Belgio dove attende una decisione dei giudici sulla sua possibile estradizione: la Spagna reclama la sua consegna sempre per il reato di ingiurie alla corona. Esplosa la mina in piena campagna elettorale per il voto in Catalogna, anche il governo di Pedro Sánchez si è sentito in dovere di reagire immediatamente. E ha promesso di eliminare al più presto le condanne a pene di carcere per i reati legati alla libertà di espressione. Gli “eccessi verbali” che vengano commessi nel contesto di manifestazioni artistiche, culturali resteranno esclusi dal castigo penale. Il codice non dovrebbe più perseguire l’esaltazione del terrorismo (un reato che era stato creato apposta per colpire i fiancheggiatori dell’Eta, ma il terrorismo basco non c’è più), le ingiurie alla corona e le offese al sentimento religioso. Ma la riforma non c’è ancora. E la sentenza contro Hasel, a meno di clamorosi ripensamenti, dovrebbe essere applicata. Per questo il rapper invita a proseguire la mobilitazione. “Sono qui all’università con un gruppo di sostenitori. Dovranno farla saltare in aria per arrestarmi”, ha twittato ieri mattina. Afghanistan. La società civile messa a tacere con gli omicidi di Giuliano Battiston Il Manifesto, 16 febbraio 2021 Il rapporto dell’Onu: in tre anni colpiti 32 attivisti per i diritti umani e 33 giornalisti. Si è passati dalle stragi terroristiche agli omicidi mirati. Che funzionano: c’è chi emigra, chi lascia il lavoro e chi si autocensura. Le Nazioni unite lanciano l’allarme: in Afghanistan, sempre più esponenti della società civile vengono uccisi e il negoziato di pace inaugurato il 12 settembre non ha condotto alla riduzione della violenza. Tutt’altro. Sono i risultati principali di un rapporto speciale di 33 pagine redatto dai ricercatori dell’Onu e reso pubblico ieri: Killing of Human Rights Defenders, Journalists and Media Workers in Afghanistan, 2018-2021. Il rapporto copre il periodo dall’1 gennaio 2018 al 31 gennaio 2021 e rivela costanti e novità nelle minacce e nei rischi che corrono gli esponenti della società civile. Difensori dei diritti umani, giornalisti e operatori dei media, giudici, rappresentanti del clero, procuratori, lavoratori della sanità, analisti politici, funzionari pubblici: l’elenco delle persone uccise o minacciate è lungo. Non risparmia nessuno. In questi tre anni, sono stati uccisi 33 giornalisti e operatori dei media, di cui due donne, a cui vanno aggiunti 32 difensori dei diritti umani (due donne). Per quanto drammatici, i numeri non spiegano tutto. Cambiano i pericoli, cambiano modalità e obiettivi degli omicidi. Se nel 2018 le responsabilità maggiori sono da attribuire alla branca locale dello Stato islamico, la cosiddetta Provincia del Khorasan, che colpiva per ottenere il maggior numero di vittime con attentati complessi e non individuali, nel 2019 le vittime diminuiscono, ma comincia ad affermarsi la tattica dell’omicidio mirato singolo, che raggiunge il picco nei mesi a noi più vicini, da fine 2020. Più in particolare, dall’inizio del negoziato tra i Talebani e il “fronte repubblicano” che include il governo di Kabul, l’opposizione al presidente Ashraf Ghani, qualche sparuto rappresentante della società civile. Figlio dell’accordo bilaterale del febbraio 2020 tra i Talebani e Washington, il cosiddetto negoziato “intra-afghano” è iniziato il 12 settembre scorso e ha coinciso con un aumento della violenza contro la società civile. Tra il 12 settembre 2020 e il 21 gennaio 2021 sono stati deliberatamente uccisi cinque difensori dei diritti umani (di cui una donna) e sei giornalisti o operatori dei media. Degli 11 omicidi mirati registrati negli ultimi mesi, solo uno è stato rivendicato, ancora una volta dallo Stato islamico: l’uccisione della giornalista Malalai Maiwand e del suo autista, a Jalalabad. La strategia è deliberata, l’obiettivo chiaro, viene spiegato nel rapporto speciale: “Silenziare persone specifiche uccidendole, e allo stesso tempo inviare un messaggio che spaventi la più ampia comunità”. In parte, l’obiettivo è stato raggiunto. Tra i giornalisti e le giornaliste, c’è chi ha abbandonato il lavoro, chi ha deciso di emigrare, chi è costretto all’autocensura. Reazioni simili si riscontrano tra i difensori dei diritti umani. Una progressiva ritrazione nella sfera privata, proprio nel periodo in cui più sarebbe necessaria la partecipazione pubblica per condizionare forma ed esiti del negoziato tra i Talebani e i rappresentanti del “fronte repubblicano”, due attori con scarsa legittimità agli occhi della popolazione. Rimane poi la grande incognita: chi ci sia dietro questa serie di omicidi mirati. La risposta più ovvia, ma più superficiale, punta solo ai Talebani, ma sono tanti gli attori che vogliono zittire la società civile.