Giustizia, la riforma ha tempi stretti di Riccardo Ferrante* Il Secolo XIX, 15 febbraio 2021 Che sia indispensabile ammodernare il lavoro giudiziario è fuor di dubbio, anche solo dando reti digitali efficienti, o aumentando il tasso di managerialità presso le strutture amministrative. I margini di manovra ci sono. Prima seduta di Consiglio dei Ministri: alla destra di Draghi, dopo il ministro degli Esteri e la ministra dell’Interno, siede subito Marta Cartabia, titolare del dicastero della Giustizia, incidentalmente - ma non troppo - presidente emerito della Corte costituzionale. E poi Difesa, Economia e finanza, Sviluppo economico... Protocollo, certo, ma anche sostanza, e gerarchia, istituzionale. E una personificazione plastica degli ambiti amministrativi che dovranno essere “riformati” per far sì che il Recovery pian sia approvato e diventi parte della Next generation EU, con annessi finanziamenti. Come ha messo in evidenza su queste pagine Enzo Roppo un paio di giorni fa, la riforma della giustizia - per i politici una sorta di ritornello, recitato in rima con la riforma fiscale - diventa uno dei principali terreni d’ingaggio. Una riforma che dovrebbe appunto riguardare innanzi tutto la giustizia civile. Il processo civile telematico, ad esempio, è ancora controverso e, su altro versante, abbastanza penosa è stata proprio la politica quando, per non perdere consenso localista, ha ostacolato l’eliminazione di sedi piccole e inefficienti a favore di sedi ampie, dove più facilmente fosse possibile avere magistrati specializzati, e dunque più capaci. Un danno secco, oltre che per gli utenti della giustizia, per l’economia nazionale, cui ora si cerca di porre rimedio, magari con fantasiose soluzioni come “esternalizzare alcune funzioni giudiziarie” in materia economica (Angelo Ciancarella su “Il Sole 24 ore” del’11 febbraio): ne andrebbe affidata la gestione a mal assortiti consorzi che riuniscano istituzioni in condizione catatonica come il Cnel, o realtà complesse e vocate a tutt’altro come le fondazioni di origine bancaria, o le associazioni di industriali, con buona pace dei conflitti di interesse. Aboliti in Italia (non per nulla) nel 1888, i tribunali di commercio sono in effetti presenti in Francia, ma da noi manca quella solida cultura repubblicana che li renda franchi da pericoli corporativi. Insomma, dopo il generale fallimento della prospettiva neo-liberista, ora la strada sarebbe quella di privatizzare la giustizia. Su altro fronte passa per intento riformatore l’attacco ai giudici come “casta”. Non senza qualche ragione iniziale, si è messo nel mirino un presidio costituzionale cardine del nostro ordinamento, il Consiglio superiore della magistratura, in quanto “presidio degli interessi dei magistrati, della supremazia del loro punto di vista su ogni questione” (Ernesto Galli della Loggia, sul “Corriere della sera” del 12 febbraio). Ruggini antiche tra politica e magistratura che hanno ripreso forza dal 2019, dopo l’esplosione del caso Palamara, divenuto nel frattempo, da genio del male (giudiziario), il Savonarola che denuncia le malefatte del sistema intero, perché “così fan tutti”. Che sia indispensabile ammodernare il lavoro giudiziario è fuor di dubbio, anche solo dando reti digitali efficienti, o aumentando il tasso di managerialità presso le strutture amministrative. I margini di manovra ci sono, se è stato sufficiente rendere pubblici, e confrontabili, i dati sulla produttività delle sedi giudiziarie per muovere le acque e spingere verso un maggiore sforzo di efficienza. Il tutto però nel rispetto del quadro costituzionale, che certo non prevede una giustizia corporativa o giudici senza sufficienti garanzie di indipendenza dagli altri poteri. Un alveo in cui mantenere saldamente anche e tanto più - la giustizia penale. La “riforma Orlando”, che pure non poco favore ha raccolto tra operatori della giustizia e studiosi, suo malgrado non ha sciolto nodi importanti. Ad esempio un numero troppo alto di proscioglimenti, che indicano in genere un avvio disinvolto dell’azione penale (cosa diversa dalla sua obbligatorietà...). Per non dire dell’esecuzione delle sentenze, tema su cui la riforma del 2017 è stata amputata in sede di attuazione della delega legislativa. D’altronde deliberare misure alternative al carcere e migliori condizioni di vita per i detenuti svantaggia elettoralmente. Allo stesso tempo, di fronte a un problema reale ma complesso, “abolire” la prescrizione è stato percorrere una scorciatoia travolgendo uno dei capisaldi della civiltà giuridica (un velo pietoso sulla denominazione di una legge col termine “spazza-corrotti”). Vedremo quali saranno i margini di manovra per un governo che riunisce forze politiche con orientamenti divergenti proprio sui temi della giustizia, misconoscendone i profili tecnici e le implicazioni sistemiche. E si dovrà agire in tempi assai stretti, cioè fino al trasloco di Draghi da palazzo Chigi al Quirinale, quando calerà il sipario e si andrà al voto, tradizionalmente ammorbato da demagogia giustizialista. Di fronte al rischio che le riforme siano nuovamente semplici e inutili reazioni, avere al ministero della Giustizia una ex- presidente della Corte costituzionale, nello specifico apertamente sensibile al tema della funzione costituzionale della pena, francamente rassicura. *Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Genova La guerra sulla prescrizione verso uno stop: meglio aspettare la neo Guardasigilli Cartabia di Liana Milella La Repubblica, 15 febbraio 2021 Mercoledì, alla Camera, non si voteranno gli emendamenti al Milleproroghe. Il dem Verini: “Sta partendo un nuovo governo, evitiamo temi divisivi”. Brescia (M5s): “Non è tempo di battaglie di bandiera”. Rosato di Iv: “Aspettiamo il governo”. “En attendant Cartabia”. Si può intitolare così questa ennesima puntata della lunghissima guerra sulla prescrizione. Una guerra che oggi, stando alle carte, c’è. Ma che in realtà non c’è. Certo, ci sono gli emendamenti al decreto Milleproroghe. Che torna in commissione mercoledì alla Camera. Dove però non si vota in attesa della fiducia al nuovo governo che si terrà a Montecitorio il giorno dopo. E quindi anche dell’ipotetico voto per congelare la prescrizione si riparlerà dopo. Gli emendamenti li hanno presentati, e anche segnalati per il voto, Italia viva, Forza Italia, Lega e Azione. Ma si tratta più di un atto di presenza in chiave anti-Bonafede che di un’effettiva voglia di andare allo scontro. Perché tutti aspettano che la neo Guardasigilli Marta Cartabia pronunci anche una sola parola, e gli emendamenti si volatilizzeranno. Poi, se questa è la fotografia delle prossime ore, resta il dissenso pieno su una questione da sempre divisiva come la prescrizione: da una parte chi, come Alfonso Bonafede, vuole limitarla e da ministro della Giustizia l’ha fermata dopo il primo grado, e chi invece non ne vuole proprio fare a meno e la ritiene imprescindibile come garanzia di una giustizia giusta. Ma adesso stiamo ai fatti. A quello che accadrà mercoledì quando si riuniranno assieme la prima commissione per gli Affari costituzionali e la quinta per il Bilancio. E lì, sul tavolo, tra i circa 230 emendamenti per il decreto Milleproroghe, a cui i partiti non hanno rinunciato anche se i tempi di conversione sono strettissimi, ci sono anche quelli sulla prescrizione. Un fatto è certo. Non si voterà mercoledì per via della fiducia. Ma, dalla carrellata di opinioni raccolte da Repubblica, si capisce bene che di certo la nuova maggioranza non andrà a spaccarsi su questo tema. Basta sentire subito cosa dice il presidente della prima commissione, Giuseppe Brescia di M5S, con tono distensivo, quello di chi certo non vuole andare alla guerra. Appunto, la guerra che non c’è. Dice Brescia: “I gruppi hanno affidato all’unanimità a me e al presidente della Bilancio Melilli il ruolo di relatori di questo provvedimento e abbiamo chiesto a tutti collaborazione. Avremo poco tempo a disposizione. Sappiamo tutti che in questa fase non è tempo di battaglie di bandiera e di provocazioni. Concentriamoci su quello che è importante per i territori e lasciamo al dibattito già avviato in commissione Giustizia qui alla Camera il compito di trovare una soluzione”. Ecco, la soluzione del caso prescrizione sta già qui, in quel rinvio alla commissione Giustizia, dove in effetti, già l’8 marzo, scadrà il termine per presentare gli emendamenti al disegno di legge sul processo penale, la sede naturale in cui discutere di prescrizione. Perché, come dice il presidente di quella commissione, Mario Perantoni di M5S, “non è certo il decreto Milleproroghe la sede opportuna dove affrontare una questione così complessa”. Ma M5S che fa? Scarica Bonafede e la sua prescrizione? Nient’affatto, tant’è che Perantoni sugli emendamenti che vogliono congelarla è netto, “non devono passare” dice subito. E aggiunge: “Noi non siamo disposti ad arretrare di un passo, e vogliamo discuterne nella sede propria, quella del processo penale, per dimostrare che se i processi diventano rapidi, allora la prescrizione bloccata in primo grado può ben restare ed essere un incentivo ad andare avanti in fretta”. Perantoni ricorda poi che esiste già un accordo di maggioranza sul lodo Conte-bis, che lo stesso Bonafede aveva accettato. Quindi, conclude, “noi siamo fermi lì”. Da un presidente di commissione di M5s non ci può aspettare che questa affermazione. Ma adesso esiste una maggioranza in cui sono presenti anche Forza Italia, Azione, e soprattutto Italia viva, da sempre “nemici” giurati della prescrizione di Bonafede. Ai quali però il responsabile Giustizia del Pd, nonché tesoriere del partito, Walter Verini, dice netto: “Sta partendo un nuovo governo. C’è un nuovo ministro della Giustizia. Sarebbe auspicabile che temi divisivi, agitati spesso strumentalmente da più parti, vengano messi da parte per concentrarsi tutti insieme su riforme che uniscano e che aiutino la giustizia a diventare più civile ed europea”. Un argomento che più volte ha utilizzato anche il Dem Alfredo Bazoli, ma che non convince affatto l’ampia pattuglia dei nemici della prescrizione. Tra i quali il più assiduo è certamente Enrico Costa, adesso con Azione dentro la maggioranza. Lei, Costa, va avanti, e va anche contro Cartabia? La risposta di Costa è netta: “Non faremo di certo sgambetti alla neo ministra, anzi cercheremo di fare in modo che possa affrontare nel migliore dei modi la “meravigliosa eredità” lasciata da Bonafede. Ma, sia chiaro, che non prendiamo ordini né dal Pd né dai 5 Stelle. Abbiamo un intento collaborativo rispetto alla Guardasigilli e al premier. Ma Draghi e Cartabia sono una cosa, i partiti un’altra. Esisterà di certo un tavolo per la giustizia di questa maggioranza, e lì ci metteremo a discutere”. Detto questo l’emendamento di Costa e di Riccardo Magi di Più Europa, per congelare la prescrizione fino all’anno prossimo, “e quindi affrontare liberamente la riforma del processo penale, senza questa spada di Damocle sulla testa”, rimane tra quelli segnalati per il voto nel Milleproroghe e che andrà al voto in assenza di segnali da parte della stessa Cartabia. Anche Forza Italia, con Pierantonio Zanettin e Francesco Paolo Sisto, sono in attesa di “segnali”. E pure il loro emendamento è lì pronto per essere votato. Come quello dei Italia viva, anche se Ettore Rosato dice che “come sempre, Italia viva ascolterà il governo”. Visto che Cartabia, per esempio, potrebbe anche pronunciare un giudizio positivo sull’emendamento presentato da Lucia Annibali e Marco Di Maio. Il quale adesso dice: “Italia viva non rinuncia ai suoi temi, anche se è evidente che la nuova ministra non ha nulla a che vedere con Bonafede. Non vogliamo metterla in difficoltà su un tema così delicato, forse questo non è il decreto giusto in cui parlare di prescrizione, ma per noi la questione è troppo importante. E visto che anche gli altri gruppi non hanno rinunciato al loro emendamento, nonostante siano stati invitati a farlo proprio da noi, lo abbiamo segnalato per il voto, pur ribadendo che la nostra posizione resta collaborativa con il nuovo governo”. Marta Cartabia, anche oggi chiusa in via Arenula, sta costruendo la sua squadra e ha aperto i dossier più urgenti, a partire dalla prescrizione. Ma, “en attendant Cartabia...”, la guerra di posizioni sulla prescrizione continua. La prescrizione non è un privilegio per pochi di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 15 febbraio 2021 È intollerabile l’idea che sia un beneficio, riservato ai ricchi ed ai potenti, solo perché possono permettersi le parcelle di avvocati particolarmente agguerriti. Caro direttore, ogni opinione sulla prescrizione è rispettabile, più o meno condivisibile e certo utile a fare un po’ di chiarezza su luci ed ombre di un istituto, diventato ormai argomento divisivo e che appare, a seconda della prospettiva, una sconfitta dello Stato, perché non è riuscito ad assolvere o a condannare l’imputato ed a stabilire la verità processuale; o il rimedio per porre fine ad un iter, talmente lungo, da apparire esso stesso ingiusto e, dunque, eccessivamente penalizzante per l’imputato, che ha diritto ad un verdetto definitivo, in un tempo ragionevole, ad oggi fissato in un massimo di sei anni, un termine, superato il quale egli può chiedere di essere risarcito, ma che non impedisce che il processo duri di più. Ed è giusto che la politica si interroghi sul modo più equo per mitigare quella sconfitta, senza trascurare le aspettative di chi attende che il suo processo abbia termine; e trovi, alfine, un accettabile punto di equilibrio. Risulta, però, intollerabile l’idea, piuttosto diffusa e fatta propria anche da Gian Carlo Caselli sul Corriere, che la prescrizione sia un beneficio, riservato ai ricchi ed ai potenti, solo perché possono permettersi le parcelle di avvocati, che diventano, perciò e solo per questo, agguerriti e, dunque, capaci essi soli di trovare e sfruttare eccezioni, favorite da un codice traballante, fino a garantire ai propri clienti, ovviamente colpevoli, un risultato che non meritano, ma che hanno potuto conseguire, pagandoli profumatamente. È questa una tesi che umilia, soprattutto, i tanti avvocati che assistono persone comuni, che saldano le loro parcelle modeste, ma che, pur non agguerriti, visto che sono pagati poco, sono in grado anch’essi di individuare, quando la vedono, quella violazione di legge - questo essendo il solo presupposto delle eccezioni processuali - che lede i diritti del loro assistito e che, ove accolta dal giudice, può finire talvolta per ritardare il corso del processo, anche fino all’avvento della prescrizione, come si dice e sembra un’eresia, per ragioni, di giustizia. La prescrizione, dunque, non è un privilegio di pochi, ma è uguale per tutti e può maturare, quale conseguenza non diretta, ma inevitabile, quando un legale, che fa con dignità e capacità il suo mestiere, al di là della sua parcella, si accorge di un errore, che di norma è del suo contraddittore naturale, il Pm, e solleva la questione. Certo, non è solo il tempo che occorrerà al giudice per risolverla a pregiudicare l’epilogo fisiologico del processo, che è ritardato soprattutto dallo svolgimento delle indagini, senza termini perentori che ne impongano la fine; o dagli anni che passano, fra la fine delle indagini e l’inizio del processo, ma, sorprenderà qualcuno, non dalla richiesta di rinvio dell’avvocato, per improrogabili impegni o se l’imputato sta male, perché in quel caso il decorso della prescrizione si interrompe, per riprendere alla ripresa del processo. E se, come dice un proverbio cinese, “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”, bisogna domandarsi se l’attenzione sia davvero focalizzata sulla luna o, non piuttosto, sul dito. Ma la tesi della prescrizione, come privilegio non è gratificante neppure per gli avvocati dei ricchi e potenti - chissà poi se esiste un albo apposito sul quale cercarli - che sarebbero pagati solo per sfruttare il tempo, nell’attesa che faccia il suo corso, seppellendo la verità e graziando il colpevole; e non piuttosto, quasi che siano incapaci di farlo, soprattutto per far assolvere i loro clienti, perché anche loro perbacco si imbatteranno pure in qualche galantuomo, che sia anche innocente. Dunque, se davvero il problema è l’ineguaglianza da censo e l’avvocato lo strumento per attuarla, esiste allora una sola strada percorribile, l’abolizione della difesa per gli imputati ricchi e potenti e, va da sé, certamente colpevoli. Benvenuta Costituzione: il plauso dell’avvocatura alla nomina di Marta Cartabia di Davide Varì Il Dubbio, 15 febbraio 2021 Gli auguri di buon lavoro del Cnf e delle istituzioni forensi. Caiazza, Ucpi: “Finisce un’epoca giustizialista”. A poche ore dalla nomina di Marta Cartabia alla guida di Via Arenula arriva unanime il plauso dell’avvocatura, fiduciosa di stabilire al più presto un proficuo dialogo con la nuova ministra della Giustizia che ieri ha prestato giuramento con il Governo Draghi. “Il Consiglio nazionale forense rivolge alla ministra della Giustizia, professoressa Marta Cartabia, gli auguri più cordiali di buon lavoro. Con la certezza che saprà dare, con autorevolezza e competenza, un contributo essenziale per l’affermazione dei principi enunciati dalla nostra Carta costituzionale”, scrive in una nota la presidente facente funzioni del Cnf, Maria Masi. “Il suo costante richiamo ai valori fondanti dello Stato di diritto, alla leale collaborazione tra istituzioni quale proiezione della solidarietà tra i cittadini, la sua attenzione ai diritti dei più deboli in particolare, rappresentano la migliore premessa per il gravoso compito a cui è chiamata e rassicurano sulla futura, leale e costante interlocuzione con l’avvocatura”, conclude il Cnf. “Apprezziamo il coraggio di Marta Cartabia per avere accettato un incarico così difficile. Abbiamo inviato le nostre congratulazioni alla Ministra evidenziando le priorità che ci attendono e confermando la disponibilità dell’Organismo congressuale forense a collaborare”, dice all’Adnkronos Giovanni Malinconico, coordinatore dell’Ocf. Tra le priorità di intervento per la neo ministra della Giustizia, “persona di alta competenza sotto il profilo scientifico e culturale”, Malinconico ha indicato “misure strutturali urgenti sulla mole gigantesca dell’arretrato civile e penale; innovazioni tecnologiche, cui occorre procedere velocemente ma nel rispetto dei principi costituzionali che sovraintendono alla funzione Giurisdizionale; l’adeguamento di edifici e strutture giudiziarie ; la condizione di grande difficoltà economica dell’Avvocatura Italiana”. “Le risorse rivenienti dal “Recovery Fund” - ha concluso - costituiscono un’occasione irripetibile per ammodernare la Giustizia Italiana e restituirle quella dignità che il tempo, e una crisi di credibilità che dura ormai da oltre un ventennio, le hanno sottratto”. Entusiasmo anche da parte di Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, per il quale la nomina alla guida del dicastero di via Arenula di Marta Cartabia, “persona di sicura formazione e aderenza ai principi costituzionali, non fosse altro perché già presidente della Consulta”, segna “la fine di un’epoca: il termine del giustizialismo populista alla guida del Ministero della Giustizia. Non possiamo che salutarla con grande soddisfazione, esprimendo l’augurio che a queste premesse tutte positive seguano anche fatti concreti”. Il leader dei penalisti non nasconde il timore che “per evitare temi divisivi interni alla maggioranza, possano essere accantonate le questioni che attengono al processo penale ed alla prescrizione”. “Guardiamo con timore a questa strana aria che tira - prosegue - Noi speriamo che questo non accada. I temi vanno affrontati per l’urgenza che hanno e la rilevanza che hanno; non per evitare che qualcuno all’interno di questa maggioranza composita possa sentirsi sminuito. Noi chiederemo alla ministra Cartabia che ci voglia quanto prima ricevere, per esprimere personalmente il nostro augurio di buon lavoro e spiegarle quelle che secondo i penalisti italiani sono le priorità: che l’azione del governo possa essere ispirata ai principi liberali e costituzionali del giusto processo”. La giustizia inceppata dal “sistema” malato e l’urgenza delle riforme di Rosario Tornesello quotidianodipuglia.it, 15 febbraio 2021 Bisogna prenderla un po’ larga per arrivare a trovare una conclusione, più che una morale. Il libro, “quel” libro, è una ricostruzione di parte, mossa da spirito di rivalsa, si capisce; da evidente voglia di riscatto, è chiaro. E come tale va considerato, nel bene e nel male. Senza giudizi né pregiudizi. Perché il testo, “quel” testo, di questi tempi il più compulsato e commentato, venduto e scaricato, è la traversata faticosa, a tratti urticante e fastidiosa, lungo il deserto di valori in cui sembra essere finita la magistratura e, con essa, la giustizia. Sembra, sia chiaro: può essere tutto vero, forse; tutto falso, chissà. I dubbi, legittimi, non inficiano il peso del racconto. La verità è un altrove da perseguire con tenacia, qui vale una sana dose di distacco. Ma fosse autentica anche solo una parte degli eventi narrati, piccola o grande, basterebbe eccome. Per questo conviene prenderla larga. Molto larga. Intendiamoci. L’intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara - “Il Sistema. Potere, politica e affari: storia segreta della magistratura italiana” - ha in realtà la sua conclusione già all’inizio, in copertina, nel titolo, eloquente sintesi della lunga conversazione. Fermarsi all’apparenza, epifania dello sfascio (presunto) narrato da dentro, è un po’ rendere omaggio a Oscar Wilde: solo i superficiali si spingono oltre. L’enfasi delle parole espresse lascia un vuoto in cui ricercare la grande assente, come tema e come problema: la giustizia, appunto. Tutto il resto c’è: potere, politica, affari. “Quando ho toccato il cielo, il Sistema ha deciso che dovevo andare all’inferno”, spiega Palamara stampigliando il concetto alla fine del volume. Un cielo fatto di intrighi, camarille e intrallazzi è un modo buffo di definire la mortificazione delle norme, del merito, della rettitudine, della correttezza e della trasparenza. Non sorprende, così, che l’inferno possa essere nell’accertamento della verità, esperienza lacerante per chiunque si trovi a fare i conti, a torto o a ragione, con la giustizia. Peggio ancora se da comune cittadino. A maggior ragione se con questa giustizia. Ma è questa la giustizia? Bisogna prenderla larga, dunque. Necessariamente. Quanto meno per ristabilire l’ordine naturale delle cose ed evitare la trappola di immaginare o credere sic et simpliciter che sia tutto, o tutto sia stato, come sostiene Palamara, potentissimo uomo dei voti e delle correnti in magistratura, esponente di punta di Unicost, il più giovane presidente dell’Anm (dal 2008 al 2012), componente del Csm dal 2014 al 2018, radiato dall’ordine giudiziario il 9 ottobre scorso per essere stato al centro di un aggrovigliato intreccio di malcostume e malaffare, dentro e fuori la magistratura, decisione su cui pende istanza d’appello. Situazione grave, stavolta anche seria: la sua espulsione - mai successo prima per un ex presidente dell’Anm ed ex membro del Csm - segna forse il punto più basso toccato dalla categoria per colpa propria. Credibilità in picchiata; un terremoto con epicentro il Csm e i vertici della magistratura italiana. Il perimetro è questo. Ne sono esclusi quelli che dalla mattina alla sera ci credono e svolgono fino in fondo il proprio dovere, anche a costo della vita. Ma non è detto che quelli inclusi, al contrario, siano davvero - o davvero tutti, o davvero fino a quel punto - responsabili, nel senso deleterio del termine. “È impossibile attribuire alla magistratura nel suo complesso modestia etica e dilagante malcostume”, ricorda il capo dello Stato (e presidente del Csm) Sergio Mattarella: era il giugno scorso, parlava alla fine di una cerimonia in onore di Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato, Gaetano Costa e Rosario Livatino. Tutti magistrati. Tutti uccisi. Modestia etica e dilagante malcostume. In principio la Giustizia era Dike. E Dike era la sorella di Eunomia, la Legalità, e di Eirene, la Pace. E tutte e tre erano le figlie di Zeus e dell’ordine universale, Temi, e insieme erano custodi dell’Olimpo. Ma, tramontate l’età dell’oro e quella dell’argento, Dike scompare nell’età del bronzo, mandata in esilio perché alla virtù subentra h?bris, la tracotanza, la prevaricazione, l’oltraggio. Racconta Esiodo che per ristabilire la pace, facendo tornare la giustizia, occorrerà attendere il tempo degli eroi. Ma del mito in questo libro non c’è traccia; questo è un inno alla tracotanza elevata a sistema. Quanto agli eroi, si muovono ai margini. Qualcuno appare sullo sfondo, come citazione storica: Falcone, Borsellino. Qualcun altro viene citato a sproposito: “Il 18 maggio 2008 io divento presidente dell’Associazione nazionale magistrati - scrive Palamara. Ho trentanove anni, il più giovane di sempre in quel ruolo. Dedico il mio primo congresso a Rosario Livatino, che alla mia stessa età veniva barbaramente ucciso”. C’è magistratura e magistratura, è evidente. Livatino di anni ne aveva 38. Non è l’unico errore di ricostruzione e di contesto in cui incappa il libro. Come attenuante valga la fretta con cui è scritto: in ottobre Palamara viene radiato; in novembre incontra Sallusti in Versilia, carico di appunti e faldoni; in gennaio il volume è pronto e stampato. Ed eccoci qua. È passato più di un anno e mezzo dalla famigerata notte dell’”Hotel Champagne”, l’incontro tra l’8 e il 9 maggio 2019 nella saletta di un albergo alle spalle della stazione Termini, a Roma: ci sono cinque magistrati del Csm; il deputato Cosimo Ferri, storico leader di Magistratura indipendente, corrente di destra; l’ex ministro Luca Lotti, uomo forte del giglio magico di Matteo Renzi, e lo stesso Palamara, giunto con un ospite inatteso e perciò a sua insaputa (qualche volta accade davvero): è un virus, il Trojan, infilato nel suo cellulare dagli investigatori attraverso un escamotage, il link di aggiornamento del sistema operativo. Quella notte si discuteva di una delle poltrone più ambite: procuratore di Roma. Il 6 aprile dell’anno successivo, il 2020, verranno depositate migliaia di pagine con la trascrizione di messaggi, conversazioni e chat degli ultimi due anni: il mondo di Palamara messo a nudo. Un terremoto. Il Trojan è andato a segno. Qualcosa del mito, a ben vedere, ritorna. Circostanze, fatti e personaggi sono riproposti nel volume: 288 pagine con 334 nomi e cognomi. Più un luogo, il Quirinale, evocato diverse volte. Alcuni episodi fanno parte dei fascicoli di indagine, penale e disciplinare. Altri li aggiunge lo stesso interessato, ad abundantiam. “Sono consapevole di aver contribuito a creare un sistema che per anni ha inciso sul mondo della magistratura e di conseguenza sulle dinamiche politiche e sociali. Non rinnego ciò che ho fatto, dico solo che tutti quelli - colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni - che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo”: una chiamata in correità, quella di Palamara. Ma come tutti i “pentiti”, ammesso lui lo sia, ha bisogno di un doppio riscontro, intrinseco ed estrinseco. Altre sedi. I fatti coprono quasi vent’anni di vita pubblica e istituzionale di questo paese. Da Berlusconi a Salvini. Da Di Pietro a Di Matteo. Da Pignatone a Salvi. Dalla trattativa Stato-mafia a Tangentopoli. Da Milano, “fortino ben strutturato”, a Bari, “dove magistrati e indagati si fanno fotografare insieme a tavola”. Dal caso Ruby alla nave Diciotti. Dalla gestione di fascicoli e veline alla regola aurea del tre: “Una procura, un giornale amico e un partito”. E poi le nomine; gli incarichi; le corse ai posti-chiave; il “cecchino” che puntualmente impallina a colpi di scandali, veri o presunti, chi si mette contro il “Sistema”. E le autocandidature, infine, su cui cento magistrati chiedono ora di fare chiarezza per quanto accaduto, se veramente successo. “La verità è che dietro ogni nomina c’è un patteggiamento che coinvolge le correnti della magistratura, i membri laici del Csm e i loro referenti politici”. È il metodo “Palamara”, il “Sistema”. Lui ne va fiero: “Se le correnti si accordano su un nome può candidarsi anche Calamandrei, padre del diritto, ma non avrà alcuna possibilità di essere preso in considerazione”. È la prima e ultima volta che l’accademico e giurista viene citato; un motivo ci sarà. “La magistratura segue le stesse logiche della politica. Il potere non sta nelle sigle Anm e Csm, ma nel controllo delle correnti”. Chiede Sallusti: sa quante persone per fatti simili sono finite in galera? “Certo che lo so - risponde l’intervistato - ed è una vergogna. Noi però siamo al di là di questo, nessuno ci controlla: cane non morde cane”. No, è fin troppo chiaro: non è questo il tempo, né il luogo, degli eroi. Dov’è la giustizia, allora? Che fine ha fatto? Basta fermarsi alle apparenze: semplice, nel libro non c’è. È nel silenzio di chi lavora, nella dedizione di chi non appare e non sgomita. Nella credibilità di chi parla solo con atti giudiziari. Va cercata lì. “Ho visto cose che voi umani non potete neppure immaginare”, dice (direbbe) citando Blade Runner il magistrato salentino di Cassazione presente nella camera di consiglio in cui, nel 2013, fu sancita la condanna definitiva di Berlusconi. Qui non si tratta di riscrivere la storia; serve una robusta correzione di rotta, al di là di impegni e proclami. Era chiaro già prima, è impellente ora: il ruolo del Csm, il peso delle correnti, la selezione dei magistrati, la verifica dei requisiti, la scelta dei dirigenti, il potere disciplinare, la ridefinizione (separazione?) delle carriere. “Questa storia non finirà mai - conclude Palamara: senza una riforma radicale i metodi rimarranno gli stessi”. E arrivati a questo punto è chiaro qual è il problema: non importa se l’ex magistrato, il potente uomo dell’altro ieri, sia credibile o no; l’importante è che lo sia la Giustizia. E che, alla fine, Dike possa ritornare da questo nuovo esilio. Ancora una volta qui tra noi: né eroi né replicanti, semplicemente umani. La lezione di Sciascia trent’anni dopo: il maxi processo può e deve fare giustizia di Giuseppe Pignatone La Stampa, 15 febbraio 2021 Il suo scetticismo merita una rivisitazione: oggi oltre ai collaboratori di giustizia abbiamo le intercettazioni. “Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo.” Sono parole di Leonardo Sciascia che riflettono una concezione pressoché sacrale della giustizia e del compito di chi l’amministra. Penso al “piccolo giudice” che in Porte aperte, un romanzo tratto da una storia vera, si gioca con piena consapevolezza la carriera rifiutando di condannare alla pena di morte l’autore di tre efferati omicidi, nonostante le pressioni del regime fascista e anche dei suoi superiori. Dall’altro lato, proprio per questa concezione quasi sacrale, Sciascia è spietato verso quanti - magistrati in primo luogo - tradiscono quell’ideale o, peggio ancora, fanno della giustizia uno strumento del Potere, magari ammantando questo tradimento con il richiamo ad alti ideali o a ciò che sembra politicamente o socialmente utile. La necessità di andare oltre le apparenze, anche le più convincenti, è ricorrente in Sciascia ed è un tema cruciale ancora oggi per ogni intellettuale e - forse a maggior ragione - per il magistrato che si deve sforzare di accertare prima, e valutare poi, ogni elemento e ogni circostanza legati a un fatto reato, rinunciando ai propri pre-giudizi e alle proprie convinzioni personali e ideologiche e resistendo altresì alle pressioni esterne. Sciascia rimane ancora oggi colui che prima e meglio di ogni altro ha fatto conoscere con i suoi scritti (a cominciare da II giorno della civetta, del 1961), che cosa era la mafia, quale era la sua incidenza nella vita concreta e quotidiana della Sicilia, quali erano i suoi rapporti con le altre componenti della società isolana. Però non dobbiamo commettere, io credo, l’errore che per primo Sciascia condannerebbe: quello di considerare ogni singolo articolo, ogni singola frase da lui scritta come verità immutabili. In questo periodo, nella ricorrenza del centenario della nascita (8 gennaio 1921), sono stati pubblicati alcuni suoi scritti che contengono severe critiche ai primi maxiprocessi celebrati contro le cosche e all’uso processuale dei cosiddetti “pentiti”, certamente ispirate dalla vicenda di Enzo Tortora, arrestato il 17 giugno 1983, nonché dall’esito del maxi-processo alla camorra. Ugualmente critica era stata, almeno inizialmente, la sua posizione sul maxiprocesso di Palermo. Lo stesso Sciascia, però, in un articolo pubblicato il 27 dicembre 1987, subito dopo la sentenza di primo grado, aveva commentato positivamente la decisione in cui, scriveva, “si intravede anzi quell’osservanza del diritto, della legge, della Costituzione che i fanatici vorrebbero far cadere in desuetudine”. Un cambiamento di posizione notevole, su cui pesava non poco, come egli spiegava, l’assoluzione di Luciano Liggio, “decisione rassicurante per chi è ancora affezionato al diritto e (che) quasi assurge a segno del tabula rasa che i giudici hanno saputo fare dei pregiudizi esterni, piuttosto clamorosi e pressanti”. Lo scrittore, tuttavia, aggiungeva di non recedere “dall’opinione che i maxiprocessi mettono in pericolo l’amministrare giustizia”, ribadendo poi di non aver mai creduto e di non credere “che la mafia fosse un fatto fortemente unitario e piramidale”. Posizioni tutte ribadite da Sciascia nei due anni successivi, fino alla morte avvenuta il 20 novembre 1989, ma che meritano di essere rimeditate alla luce dell’esperienza maturata nell’arco di questi tre decenni. E alla luce, altresì, delle modifiche normative, anche molto significative ma sempre nel rispetto dei principi costituzionali, imposte dalle manifestazioni di eccezionale pericolosità della mafia e dalla accresciuta consapevolezza di tale pericolosità da parte della società civile. Dopo quello di Palermo, che allora fu una soluzione obbligata per riuscire a dimostrare l’esistenza stessa, la struttura e le regole di Cosa nostra, ci sono stati altri maxiprocessi in varie parti d’Italia, certo non paragonabili per numero di imputati e complessità delle questioni da decidere, e peraltro sempre meno frequenti anche per l’impostazione del nuovo codice di procedura. Anche in questi casi, evidentemente ritenuti inevitabili in relazione alla situazione concreta, l’esperienza ha dimostrato che, con le necessarie risorse organizzative e con un adeguato impegno dei giudici e delle parti, è possibile rendere sentenze che tengano conto di tutte le risultanze processuali e, in primo luogo, della diversità delle posizioni degli imputati. Anche riguardo al ruolo processuale dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti, la situazione è ben diversa da quella degli anni ‘80. Non solo per le modifiche normative che sono intervenute, ma soprattutto perché ormai le conoscenze sulle mafie sono cresciute talmente che le dichiarazioni dei collaboratori, pur sempre utilissime, possono essere vagliate molto meglio nella loro attendibilità anche alla luce di altre fonti di prova completamente autonome, a cominciare dalle intercettazioni. Anzi, oggi molti processi di mafia prescindono completamente dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Infine, oggi nessuno, neanche coloro che trent’anni fa condividevano la posizione di Sciascia, pone più in dubbio, dopo centinaia di processi, il carattere unitario - quanto meno in questo periodo storico - della mafia siciliana. Rimane invece sempre valido, al di là dell’evoluzione del fenomeno criminale e dei progressi delle tecniche investigative, il nucleo essenziale del pensiero di Sciascia sulla mafia e sui temi della giustizia: “La repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli non sono gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come mafia, ‘ndrangheta e camorra”. E ancora: “La soluzione passerà attraverso il diritto o non ci sarà; opporre alla mafia un’altra mafia non porterebbe a niente, porterebbe a un fallimento completo”. Una perversione chiamata mafia nella solitudine del Mezzogiorno di Isaia Sales La Repubblica, 15 febbraio 2021 Ecco perché le organizzazioni criminali rappresentano un fronte con cui si dovrà cimentare il nuovo governo. Oggi in tanti richiamano l’attenzione sul pericolo che le mafie possano diventare protagoniste della complicata fase economica che si è aperta con la pandemia. A volte anche con qualche esagerazione. Ma c’è stato un lungo periodo storico in cui non pochi studiosi, diversi esponenti politici e addirittura una parte consistente della magistratura, ritenevano che le mafie non esistessero come organizzazioni strutturate e che tutt’al più fossero solo espressione di un carattere bollente degli abitanti di alcune regioni meridionali, di una loro arcaica e personale concezione della giustizia. E quando a partire dalla seconda metà degli anni ottanta del Novecento è entrata sulla scena politico-giudiziaria l’antimafia, cioè una risposta finalmente adeguata sul piano legislativo/repressivo, essa è stata sempre guardata con sospetto e diffidenza da ampi settori della politica, della stessa magistratura e anche della pubblica opinione. Non è stato facile (e non lo è ancora oggi) far capire che le mafie non sono forme criminali fisiologiche come ce ne sono state nel passato e ce ne saranno nel futuro. Quando si analizzano le cifre di questo originale fenomeno criminale, si resta impressionati dallo stretto rapporto con la società circostante, con la politica nazionale e locale, con gli esponenti del mondo imprenditoriale e delle professioni, con le forze dell’ordine e spesso con uomini di chiesa. I mafiosi sono i primi criminali nella storia che hanno trasformato la loro violenza in potere stabile e duraturo attraverso le relazioni intrecciate con coloro che avrebbero dovuto isolarli, contrastarli e reprimerli. La loro storia non può essere affatto separata dalla storia delle classi dirigenti del nostro Paese. Semplici organizzazioni criminali, infatti, non sarebbero riuscite a durare tanto a lungo né tantomeno a raggiungere un tale potere se non nel quadro di reciproche relazioni con il mondo politico-istituzionale che ad esse si sarebbe dovuto contrapporre. Sono i dati a consolidare questo convincimento. Migliaia e migliaia di morti ammazzati dal 1861 in poi, di cui almeno 10.000 negli ultimi 30 anni del Novecento. Almeno 1.000 civili caduti, tra cui 84 donne e 71 bambini. Centinaia e centinaia di imprenditori, commercianti, sindaci, amministratori locali uccisi. Settanta tra sindacalisti e capilega ammazzati tra il 1905 e il 1966. Quindici magistrati uccisi (più dei 10 caduti per mano dei terroristi rossi e neri), e centinaia di vittime tra le forze dell’ordine, tra cui diversi in attentati mirati. Nove giornalisti ammazzati, tanti ancora oggi minacciati e intimiditi. Secondo i calcoli di Enrico Deaglio, a Palermo e provincia solo tra il 1981 e il 1983 ci sono stati più di 1.000 morti. A Napoli, Caserta e Salerno si sono verificati 1.598 omicidi solo tra il 1975 e il 1985. A Catania 1.000 e a Reggio Calabria 2.000 nel periodo 1980/1993. E la mattanza è continuata tra la fine del Novecento ad oggi con altri 3.000 delitti commessi nonostante l’enorme calo registratosi in Sicilia. E non sono mancati delitti di mafia al Centro-Nord (il primo eccellente è quello del magistrato Bruno Caccia a Torino ne11983) con Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia- Romagna che hanno assunto un ruolo centrale negli equilibri mafiosi, in particolare di quelli ‘ndranghetisti. La nazionalizzazione delle mafie, cioè il loro vasto radicamento nel Centro-Nord, è sicuramente il fenomeno politico-criminale più significativo dell’ultimo trentennio. Dal 2004 al 2020 sono stati arrestati 76.600 affiliati alle diverse organizzazioni mafiose, di cui almeno 10.000 condannati a lunghi anni di carcere; 759 sono oggi reclusi al 41 bis, il carcere speciale per i mafiosi. È stata adottata una legislazione speciale che non ha analogie in nessun’altra nazione in tempi di pace. Ben 209.108 sono i beni interessati a misure di sequestro e confisca per un valore di 21,7 miliardi di euro, di cui 97.378 immobili e ben 15.059 aziende. Ci sono stati, infine, ben 352 decreti di scioglimento di comuni (tra cui una città capoluogo, una Provincia e diverse aziende che gestiscono la sanità pubblica) in cui il nemico ha fortemente condizionato la gestione della vita amministrativa di intere comunità. Sono solo alcune cifre di una tragedia nazionale che non è finita affatto e che continua con almeno 10.000 soldati di questo esercito criminale ancora in azione, che continua a detenere una forza economica impressionante. Il ministero dell’Interno, in un recente studio, ha stimato le attuali entrate economiche della camorra in 3.750 milioni di euro, quelle della ‘ndrangheta in 3.491, mentre Cosa Nostra si attesta a 1.874 milioni di euro e la criminalità pugliese a 1.124. Ciò che colpisce delle mafie è, appunto, la loro lunga durata storica, una presenza che si protrae inarrestabile da due secoli, dai Borbone allo Stato unitario, sopravvivendo al fascismo e ripresentandosi in grande stile nel secondo dopoguerra fino a segnare alcuni dei tratti fondamentali della nostra storia contemporanea. Le mafie sono una forma di arcaicità che ha avuto successo, un residuo feudale che si è trovato a proprio agio nella contemporaneità. Un caso di assoluta originalità e di apparente inspiegabilità: potremmo definirla la più impressionante dinamica della permanenza (per usare le parole di Lucio Caracciolo) nella storia e nella società italiane. Come mai hanno resistito tanto a lungo? Come mai non sono state eliminate nonostante la fortissima repressione a cui sono state sottoposte negli ultimi tre decenni e mezzo dopo aver goduto di più di un secolo di una incredibile impunità? Tutte le forme criminali che hanno contrapposto il loro potere armato allo Stato moderno sono state sconfitte. L’Italia post unitaria sradicò il brigantaggio in meno di un decennio (causando più morti di tutte le guerre di indipendenza messe insieme). Nel secondo dopoguerra ha debellato il terrorismo etnico in Alto Adige, il separatismo siciliano, il terrorismo politico delle Brigate Rosse e dei neofascisti, il banditismo in Sardegna, i sequestri di persona. Le mafie no. È imparagonabile, ad esempio, ciò che l’Italia ha fatto contro il terrorismo politico tra gli anni 70-80 del Novecento (che aveva causato un numero di vittime inferiore a 100, escludendo le stragi) rispetto a ciò che ha fatto contro le mafie. Anzi la lotta al terrorismo politico fece passare sotto silenzio in quegli anni il problema delle mafie al Sud. I migliori investigatori furono usati contro le Brigate Rosse. E fu proprio in quel periodo che la mafia siciliana, indisturbata, aprì delle proprie raffinerie di droga nell’isola e assunse un ruolo centrale nel narcotraffico internazionale e, contemporaneamente, i clan camorristici e le ‘ndrine calabresi divennero protagonisti sulla scena criminale. Ma perché lo Stato è apparso efficiente contro il terrorismo (e contro le precedenti forme criminali) e non contro le mafie? La risposta è molto semplice. I terroristi erano esterni allo Stato, volevano abbatterlo. I mafiosi no, non sono in guerra contro di esso, o in ogni caso non sentono lo Stato avversario, ma solo singoli uomini che lo rappresentano. Inoltre, il terrorismo in genere non è una componente dell’economia mentre le mafie sì. L’economia criminale è contro le leggi dello Stato ma non contro quelle di mercato. Il ricorso ai mafiosi negli affari comincia a presentarsi come una risposta strutturale alle esigenze di una parte dell’economia di mercato. Tutto ciò ci porta a dire che vanno espulse dal lessico pubblico sulle mafie tre valutazioni sbagliate: che c’è stata una vera guerra tra Stato italiano e mafie; che le mafie rappresentano un antistato; che esse sono espressione di una arretratezza economica. La lotta alle mafie è un campo dove il linguaggio militare non ha nessuna efficacia per spiegarne gli interessi in gioco, seguirne gli andamenti e individuare i contendenti. Questa lotta ha sicuramente i tratti di una guerra civile perché i soldati sono italiani, e di una guerra totale perché miete vittime da più di un secolo e mezzo e ultimamente in tutto il territorio nazionale. Ma le analogie con la guerra si fermano qui. D’altra parte l’impegno repressivo dello Stato è cominciato seriamente solo qualche decennio fa e in diversi territori si può tranquillamente affermare che si è a lungo protratto un duopolio nell’uso della violenza e un duopolio della tassazione (tasse allo Stato e pizzo alle mafie). E poi, che guerra è questa se i nemici spesso sono amici? Se i nemici con i loro voti hanno contribuito a fare eleggere in ruoli istituzionali i loro amici? E se il nemico è foraggiato con i soldi che lo Stato investe nei lavori pubblici? Che guerra è questa se le attività economiche illegali (contrabbando di sigarette, prostituzione e traffico di droga) fanno parte ufficialmente del Pil nazionale, concorrono cioè alla ricchezza del Paese? Che guerra è questa se il nemico si rafforza economicamente spostandosi tranquillamente da un territorio all’altro, si radica nel Centro-Nord e lì costruisce nuove casematte di consenso? Insomma, non è affatto una guerra quella in cui i nemici dichiarati hanno relazioni permanenti con coloro che dovrebbero combatterli! Scriveva argutamente Giovanni Falcone: “Il dialogo Stato-Mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela”, un potere riconosciuto e legittimato nel corso del tempo da chi il potere istituzionale lo esercita ufficialmente. Se è esistita una politica senza mafia, non è mai capitato che si consolidasse un potere mafioso senza un rapporto con la politica e le istituzioni. Esistono Stati senza mafie, ma mai una mafia che non utilizzi i rapporti con lo Stato e i suoi rappresentanti. Purtroppo il rapporto perverso tra violenza e potere non è stato mai risolto definitivamente in Italia. È questo uno dei buchi neri della nostra democrazia e della nostra fragile statualità. Il canone del potere in Italia sembra oscillare tra giustificazione della violenza, furbizia e spregiudicatezza, tra “Il Principe” di Machiavelli e “Todo modo” di Sciascia. Girolamo Li Causi, il dirigente comunista siciliano che la lotta alla mafia la fece in prima persona, diceva: “Se vuoi capire l’Italia, studia la mafia, interrogati sul suo successo”. E aveva ragione. Si possono combattere le mafie senza leggi speciali? E senza mettere in campo una reazione più ampia di quella militare-repressiva? Coniugare diritti fondamentali con l’esigenza che lo Stato faccia sul serio lo Stato è una questione aperta e non banale. Ma se la sfida si pone a questa altezza è necessario rivedere alcuni cardini della strategia contro le mafie.A partire dalla norma sullo scioglimento dei consigli comunali: c’è una discrezionalità troppo ampia nella sua applicazione, i funzionari prefettizi non sempre sono all’altezza dei compiti loro assegnati come commissari, in molte realtà gli organi dello Stato appaiono inflessibili più verso i piccoli comuni che verso i grandi. Quando poi si arriva a constatare che ben 78 comuni sono stati sciolti più di una volta, e a volte per ben tre volte (e si potrebbe arrivare addirittura alla quarta!) vuol dire che la legge non è più efficace. Le leggi in genere devono fornire senso dello Stato non paura dello Stato agli amministratori onesti, altrimenti si arriva ad una eterogenesi dei fini: si allontanano i migliori dalla politica locale. Così come si deve radicalmente cambiare passo nell’utilizzo dei beni confiscati, dando la massima attenzione agli aspetti economici della questione: su migliaia di imprese confiscate pochissime sono state rimesse sul mercato. È impressionante la sproporzione tra il valore della ricchezza sottratta ai mafiosi e il ritorno economico per i territori interessati. Finora non è stato dimostrato (nonostante encomiabili eccezioni) che sottraendo i soldi alle mafie si aumenta la ricchezza collettiva. La lotta antimafia non è un pallino di orde di fanatici che si sono inventati un pericolo che non c’è o che l’hanno ad arte esagerato. E in ogni caso meglio un eccesso di attenzione alle mafie che quel negazionismo su di esse che ha segnato i primi trent’anni dell’Italia repubblicana. Caratteristica del movimento antimafia negli ultimi decenni è l’affiancamento a chi è preposto all’azione di contrasto di un originale movimento d’opinione prima inesistente. Che questo affiancamento civile abbia potuto generare forme di fanatismo, o di disconoscimento delle garanzie minime di uno Stato di diritto, è fuori dubbio. E vanno assolutamente riportate a sobrietà tutte le persone che operano nel campo, a partire dai magistrati. Ma non si può rimpiangere minimamente la situazione precedente. Per esempio, come non si fa a cogliere il valore dirompente dell’organizzazione dei familiari delle vittime. Il dolore privato si è trasformato in dolore pubblico, rompendo un altro tabù in base al quale la morte violenta doveva essere tenuta dentro le pareti domestiche. I familiari hanno invertito la rassegnazione e la dimensione privata delle loro tragedie, spingendo le istituzioni a intitolare strade, aule, biblioteche ai loro cari caduti, scrivendo biografie, ispirando mostre, romanzi, film, opere teatrali, canzoni. Sulla base di esperienze fatte in altri contesti (le madri e le nonne dei desaparecidos in Argentina e in Cile) il movimento antimafia si è impegnato a che nessuna vittima innocente debba essere dimenticata. E quando il dolore privato si espone sulla scena pubblica ci possono essere eccessi e qualche protagonismo di troppo (dovuto anche alla non totale elaborazione del lutto da parte di alcuni familiari). Ma meglio il valore dirompente e a volte non equilibrato del dolore pubblico che la rassegnazione privata. Nel Sud tutto ciò è ancora più significativo perché si è dimostrato che in queste terre ci sono state sì le mafie, ma anche chi le ha combattute. In Italia gli eroi civili del secondo dopoguerra sono quasi tutti meridionali, e la lotta antimafia rappresenta il più originale contributo della società civile meridionale ai valori condivisi della nazione. Vittime della strada, in arrivo un decreto taglia-risarcimenti di Federico Formica La Repubblica, 15 febbraio 2021 Il testo, ancora provvisorio, revisiona le tabelle tagliando gli indennizzi per disabilità meno gravi, che sono le più frequenti. L’allarme di Assoutenti e Cncu. Il 2021 rischia di cominciare con il piede sbagliato per i cittadini che hanno la sfortuna di incappare in un incidente automobilistico, da guidatori o da pedoni. C’è un decreto, ancora in forma di proposta, che se approvato porterebbe a un taglio dei risarcimenti per chi ha subito danni in eventi di questo tipo. Tutto in nome del risparmio per le imprese assicuratrici che, questa è la ratio del decreto, si ripercuoterebbe in premi più bassi per tutti gli automobilisti. Lo schema di decreto del presidente della Repubblica “Regolamento recante la tabella delle menomazioni all’integrità psicofisica comprese fra 10 e 100 punti di invalidità” prevede infatti una revisione delle tabelle dei risarcimenti che, analizza l’associazione Assoutenti, porterebbe al -10,5% del risarcimento per lesioni che determinano una invalidità al 50% e, per invalidità fino al 10%, si arriverebbe quasi al -13%. Secondo le nuove tabelle solo le invalidità tra il 90 e il 100% otterrebbero cifre maggiori rispetto a oggi: intorno al +10%. “Questo maggior esborso, però, è compensato da un risparmio che riguarda tutte le lesioni sotto a quel livello, che sono di gran lunga le più frequenti” commenta il Cncu (il Consiglio nazionale consumatori utenti, che riunisce molte associazioni di consumatori del nostro Paese). Oltre alle tabelle, il decreto in fase di studio prevede anche la revisione di altri parametri. Ad esempio il danno morale: fino a oggi, a ogni livello di invalidità corrisponde una percentuale fissa di danno morale. Il decreto tenta invece di scardinare questo principio: questa voce diventa “personalizzabile”, insomma le compagnie valuterebbero di caso in caso. La conseguenza, secondo il Cncu, sarà che le compagnie proporranno alle vittime il minimo risarcimento possibile, con un aumento dei contenziosi “rischiosi, aleatori e dolorosi per le vittime della strada”. Già oggi le vittime di incidenti o le loro famiglie sono in attesa di ricevere - nel complesso - 5 miliardi di euro dalle compagnie assicurative, che al momento sono bloccati a causa della lentezza della giustizia italiana. Tagliando i risarcimenti, l’intero sistema riuscirebbe a risparmiare tra i 500 e gli 800 milioni di euro annui. Il problema, ribatte Assoutenti, è che il nuovo decreto si basa su una convinzione superata dagli eventi: che in Italia l’alto numero di sinistri costringa le assicurazioni ad alzare i prezzi. “Dal 2010 al 2019, secondo dati Ania, la sinistrosità in Italia si è ridotta del 46%. È evidente che la tendenza al calo degli incidenti non è determinata solo dalle contingenze ma è un fatto epocale” spiega il presidente di Assoutenti Furio Truzzi. Un calo che si spiega con il miglioramento tecnologico delle auto, con sistemi di sicurezza più evoluti, scelte lungimiranti di alcuni enti locali come le “zone 30” urbane e l’aumento delle rotonde, ma anche con scelte politiche come l’inasprimento delle sanzioni per chi guida in stato di ebbrezza e l’istituzione del cosiddetto “omicidio stradale”. Meno incidenti significa anche più guadagni per le assicurazioni, che Assoutenti quantifica in circa dieci miliardi dal 2012 al 2019, con una redditività media di oltre il 9%. ?Fisco, la riforma necessaria per la ripartenza di Emanuele Orsini* Il Messaggero, 15 febbraio 2021 Un fisco nuovo, meno pesante su imprese e cittadini e più efficiente nel metodo e nei rapporti con l’amministrazione, è un obiettivo che troppo spesso è stato solo un miraggio nel nostro Paese. Questa volta però con il governo Draghi (a cui tutti noi come cittadini ed imprenditori guardiamo con fiducia) deve essere raggiunto. Confindustria continuerà ad impegnarsi con determinazione per cambiare il fisco, per sostenere il lavoro e la ripresa dell’economia. Sappiamo che non possiamo farcela in tre mesi ma dobbiamo evitare che una riforma, indispensabile e urgente, venga smembrata e diluita. Oggi l’imposta principale del nostro ordinamento, l’Irpef, sembra uscita dal bisturi del Dr. Frankenstein: parti estranee e incoerenti, tenute l’una all’altra solo dal filo ideale di tassare il reddito personale. Su questa creatura deforme servono interventi chirurgici di miglioramento. Innanzitutto sul perimetro. La base imponibile è stata svuotata negli anni da un profluvio di imposte sostitutive. Va quindi aperta una riflessione su quali mantenere e su come coordinarle con il regime ordinario. I regimi sostitutivi, piccoli o grandi, sono almeno 12 e per l’Irpef trasformano l’eccezione in regola di sistema. Va fatta quindi una attenta riflessione sull’utilità di ogni singola misura, con l’obiettivo di razionalizzare e semplificare, avendo bene in mente i principi cardine dell’equità e della capacità contributiva. Dipendenti e pensionati insieme fanno l’87% dei contribuenti Irpef e versano circa l’81% dell’imposta totale. Ricadere nella progressività dell’Irpef vuol dire essere soggetti a molteplici distorsioni, dal nostro punto di vista particolarmente gravi, che vanno corrette. I punti di debolezza più gravi sono la tassazione effettiva e l’opacità del sistema. Con i meccanismi attuali un lavoratore dipendente che cerca di guadagnare un euro in più rischia di intascare al netto delle tasse pochi centesimi o al limite anche di peggiorare la situazione economica complessiva della propria famiglia, perdendo bonus e detrazioni. Ecco, questo non è esattamente quello che definiremmo un sistema che incentiva al lavoro e alla produttività. Alla luce di questi andamenti, dovrebbero risultare chiare le ragioni dell’enfasi posta, negli anni, da Confindustria nella creazione di meccanismi di favore fiscale anche per i lavoratori dipendenti, come la detassazione dei premi di risultato o la normativa fiscale del cosiddetto welfare aziendale. Qualsiasi intervento di riforma dell’Irpef non può prescindere dalla salvaguardia e dal potenziamento di queste misure. In generale va disboscata anche la giungla di agevolazioni in cui i contribuenti faticano a districarsi per lasciare solo un ristretto numero di incentivi strutturali. Aggiungo che le agevolazioni hanno un senso se vivono abbastanza da consentire la loro implementazione e fruizione, senza abusi, e se hanno un’intensità tale da smuovere i comportamenti desiderati. Il superbonus al 110% è un esempio di questo giusto approccio. Si tratta di una misura potente e utile, ma che andrebbe estesa e rafforzata anche consentendone l’accesso alle imprese semplificando l’iter applicativo e la normativa sottostante. Finora ho solo delineato alcuni fronti di intervento, ma una riforma che si rispetti deve intervenire a 360 gradi. L’abrogazione definitiva dell’Irap, ad esempio, renderebbe il sistema di tassazione delle imprese più semplice e attrattivo per nuovi investimenti. Possono essere apportate numerose modifiche anche alla tassazione del reddito d’impresa, tenendo conto delle evoluzioni storiche che stiamo vivendo. C’è poi il capitolo patrimoniale. Parlarne non deve essere un tabù, dato che nell’ordinamento ne abbiamo già 17 in vigore. Il punto non è quindi introdurre la patrimoniale ma ripensare quelle che ci sono già. Da ultimo ma non in ordine di importanza la ridefinizione del rapporto fisco-contribuente in un’ottica di fiducia reciproca e di chiarezza. Riformare il fisco è un passaggio decisivo per la ripartenza, tuttavia le risorse stanziate in bilancio a tal fine non sono sufficienti. Confidiamo che nella definizione del programma di Governo questi temi siano tra le priorità. *Vicepresidente di Confindustria per il credito, la finanza e il fisco Matilda e la legge senza giustizia di Giusi Fasano Corriere della Sera, 15 febbraio 2021 La storia della bimba uccisa in una casa in cui c’erano soltanto la mamma e il suo uomo, ognuno dei quali accusava l’altro. “Cercavi giustizia ma trovasti la legge” cantava De Gregori nella sua “Il bandito e il campione”. Forse sarebbe bastato scrivere questo, nella sentenza che ha chiuso il caso di Matilda Borin, una palese resa della Giustizia e nello stesso tempo un palese trionfo della legge e del principio in dubio pro reo davanti a un rebus irrisolvibile: chi ha ucciso quella bambina dagli occhi azzurri? Aveva 22 mesi, Matilda. Un caldissimo giorno di luglio del 2005 fu l’ultimo di cui vide la luce, a Roasio (Vercelli). Era con sua madre, Elena Romani, a casa dell’uomo che lei (hostess separata dal marito) frequentava in quel periodo. Lui era Antonio Cangialosi, ex bodyguard. Matilda quel giorno dormiva nel lettone di casa, Elena e Antonio erano sul divano. Lei sente la piccola che piange, corre, la trova che ha vomitato, la pulisce, la coccola, poi va a sciacquare e stendere quel che ha sporcato e lascia lui con la bimba, così giura fin dal primo giorno. Quando rientra, pochi minuti dopo, Matilda sta morendo. Ha lesioni alle costole, la milza spappolata e un rene distaccato da un colpo violento alla schiena, forse un calcio. Ora. In quella casa c’erano soltanto Elena e Antonio, quindi o è stato lui o è stata lei. Ma per tutti questi anni i due si sono accusati a vicenda. Lei dice che la piccolina stava bene quando l’ha lasciata con lui, lui dice che non le ha mai fatto nulla, che quand’è arrivato in camera da letto l’ha solo presa in braccio. Dopo quel pomeriggio Matilda ha dato il nome a due fascicoli giudiziari; il primo accusava lei, processata e assolta fino in Cassazione; il secondo lui: stessa sorte (la parola fine è di pochi giorni fa). In appello, mentre chiedeva di assolvere Cangialosi, il procuratore generale disse che “non essere arrivati un giudizio di colpevolezza è una sconfitta per tutti noi che ci siamo occupati del caso ed è una sconfitta del sistema giudiziario, ma condannare un innocente sarebbe ancora peggio”. Nella motivazione di quella sentenza c’è scritto che “uno dei due è certamente colpevole”, “uno o l’altro ha mentito”. Ha trionfato la legge, appunto: sulla bilancia della giustizia il ragionevole dubbio ha pesato più della condanna. Ma c’è un verdetto non scritto, in tutta questa storia. Dice che loro due, pur assolti, sono condannati al sospetto del mondo per tutta la vita. E dice che Matilda - oggi avrebbe 17 anni - non avrà mai giustizia. Campania. Covid nelle carceri, positivi 68 tra detenuti e agenti: due ricoverati Il Riformista, 15 febbraio 2021 Venti detenuti e 48 agenti penitenziari positivi in Campania. È quanto emerge dal bollettino diffuso dal garante regionale Samuele Ciambriello. Tra i 20 detenuti contagiati dal Covid nove si trovano nel carcere di Carinola (dove nei giorni scorsi è stato accertato un focolaio che ha provocato la morte di un agente), cinque a Secondigliano, tre a Poggioreale e uno a Salerno. Sono tutti asintomatici mentre altri due detenuti (di Carinola e Secondigliano) sono ricoverati all’ospedale Cotugno a causa dell’aggravarsi delle loro condizioni. Nella casa di reclusione di Carinola tutti i detenuti, per due volte, sono stati sottoposti a tampone. Una parte che ha avuto contatti con i contagiati vive in isolamento precauzionale e sono monitorati costantemente. Sono saltati alcuni permessi, temporaneamente, perché i detenuti che dovevano uscire sono in isolamento sanitario. “Occorre in tutte le carceri della Campania, compresi gli Istituti per minorenni e quello militare di santa Maria Capua Vetere, somministrare tamponi periodicamente a detenuti, personale penitenziario ed operatori sanitari” auspica Ciambriello. L’obiettivo è quello di “prevenire e successivamente debellare il virus” oltre a “rispettare i protocolli sanitari”. Il garante chiede poi “di riservare in ogni Istituto sia un reparto per i contagiati che per quelli che devono essere isolati. Anche le conseguenze sanitarie, fisiche, psicologiche di quelli risultati contagiati in quest’anno di pandemia vanno affrontate da tutti, compreso la magistratura di Sorveglianza, così come la riorganizzazione e l’aumento di agenti penitenziari e personale sociosanitario (medici, infermieri, oss, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, educatori penitenziari)”. Sardegna. Ancora carcere, ma di un nuovo genere maistrali.it, 15 febbraio 2021 La zona arancione ha portato con sé una grande novità, sicuramente non strettamente correlata, ma significativa. Fino ad ora non se ne è parlato nei giornali eppure, il 5 gennaio scorso, è stato pubblicato un nuovo bando sul sito della Regione ai fini della creazione di due “Centri di raccolta” per minori affetti da Coronavirus. Prima dell’arrivo del Covid ci sarebbe sembrato un modo alquanto discutibile di gestione sanitaria anche se, come si evince dal testo del bando, di sanitario rimane ben poco lasciando spazio a una repressione che è facilmente accettabile se giustificata con l’emergenza in corso. Il bando è aperto a tutte le strutture, già operative e con esperienza nell’accoglienza di minori, al fine dell’individuazione di due luoghi di raccolta per minori affetti da coronavirus (più precisamente asintomatici e con sintomatologia trascurabile). Il bando riporta che i due Centri saranno collocati rispettivamente con uno nel Nord e uno nel Sud Sardegna, ma da chi saranno riempiti? Le due strutture sono destinate ai minori provenienti da Case famiglia e Centri di accoglienza, ma ci sarà posto anche per i maggiori di 14 anni, sotto misura penale, ospitati nelle case famiglia e per i detenuti minorenni degli istituti penitenziari per minori. Parliamo quindi di luoghi di segregazione in cui andranno a finire ragazzi di classi sociali disagiate che ora vengono ancora più represse approfittando della situazione emergenziale. Ci saranno giovani che non hanno possibilità di avere dei contatti stabili con genitori, amici o parenti e saranno totalmente sotto il controllo degli operatori delle strutture, in caso di fuga ci sarà l’ovvia collaborazione delle forze dell’ordine e dell’ATS. Proprio da questo emerge il carattere classista questi luoghi che andranno a raccogliere i ragazzi provenienti da realtà popolari e che vivono un profondo disagio. Non è da escludere che tra questi ci saranno alcuni non residenti in Sardegna, come avviene per i minori detenuti, per i quali raramente viene applicata la territorialità della pena. Il minorile di Quartucciu presenta tre detenuti straniera, dei restanti circa la metà proviene da altre regioni italiane. Quello che accadrà è che in questo centro entreranno non solo persone di altre regioni, ma ovviamente anche immigrati, delineandosi come un vero e proprio luogo di prigionia per tutti i giovani subalterni. Si sta preparando il terreno a ulteriori deportazioni e a un nuovo tipo d’isolamento, giustificato dal virus. La Regione ha trovato un’ottima soluzione per gestire tutti i problemi che derivano dalla chiusura di un giovane per almeno 14 giorni, problemi che non sono nuovi in ambienti come il carcere minorile o le case famiglia. Nel 2020, a Quartucciu, son stati registrati almeno 13 atti di autolesionismo che mostrano chiaramente un malessere diffuso tra le carceri, senza escludere quelle per minori. Certo, si potrà obiettare che l’isolamento per Covid è temporaneo, ma è significativo che le istituzioni progettino dei luoghi in cui chiudere tutti i malati di una certa categoria, non è certamente un nuovo modo di gestire le problematiche sociali e pare che la classe dirigente voglia portarsi avanti con il lavoro di prevenzione del malcontento. Chiunque riesca a leggere vagamente la situazione attuale sa che non basteranno i soldi a calmare gli animi e anzi prima o poi dovranno tirare fuori il bastone, proprio come hanno fatto a Marzo sui detenuti in rivolta, solamente che presto o tardi quel bastone si abbatterà su tutto il resto della società, giusto per ricordarci quanto il dentro e fuori dalle mura siano più che collegati. Quindi perché non iniziare a pensare un luogo in cui rinchiudere i minori? Si parla da mesi di ospedali Covid, con cui si è pensato più volte di mettere una pezza allo sfascio della sanità pubblica. Comunque serve sottolineare di nuovo che il progetto in campo non è un ospedale Covid, è un vero e proprio luogo dove recludere i giovani, evidenziando ancora di più dove finisce la sanità e inizia la repressione delle classi popolari. Se non fosse che un ospedale, perché rinchiudere solamente i ragazzi provenienti da un determinato contesto sociale? Ciò che verrà realizzato non può che essere chiamato carcere e salta all’occhio la similitudine con i manicomi per ciò che accomuna i reclusi: una malattia. Le due strutture saranno gestite in primis dagli operatori, mentre il ruolo dell’ATS è relegato alla distribuzione del materiale di protezione individuale e a degli interventi generale dipendenti da caso a caso. Un’ulteriore dimostrazione del fatto che questi centri non hanno un fine sanitario, ma solo di facilitazione del controllo. Bisogna sottolineare che le vittime non avranno la stessa facoltà di azione e di opposizione di un adulto, proprio per la loro giovane età e proprio perché provenienti tutte da contesti di subalternità o da precedenti situazioni di incarceramento. Probabilmente molte delle loro vite sono accomunate dal controllo costante delle guardie e degli assistenti sociali, come prassi che accompagna la crescita, e l’impossibilità di un contatto diretto con un intorno affine e solidale, che siano la famiglia o le amicizie. Si va inserire come ulteriore spinta, vero e proprio addestramento degli sfruttati, alla rottura di qualunque legame umano, ciò che ha preso piede tra le classi agiate grazie agli smartphone e la didattica a distanza. Con questa scelta cade ancora di più la maschera di Solinas e i suoi accoliti, ma anche dell’opposizione e di tutti i benpensanti che ancora non hanno proferito parola su questo schifo, giusto per sottolineare la totale connivenza di chi è al potere, al di là di ogni schieramento. Mentre ci si scandalizza ancora per la zona arancione o la spartizione delle poltrone in regione, tutti si uniscono nell’accettare un nuovo genere di galera, anzi vale come minaccia per chiunque voglia alzare la testa. Da mesi si discute del come gestire il sovraffollamento delle carceri, in relazione al virus, e questa scelta è l’ennesima provocazione di una politica che è democratica solo quando gli sfruttati stanno zitti o chiusi a chiave, una politica che non si mette problemi a torturare chi prova a ribellarsi. Bisognerà presto lasciare da parte la paura, le cifre dei contagi e gli schiamazzi dei politici per prendere esempio da tutti i rivoltosi che a marzo hanno dimostrato che lottare è possibile, senza farci abbindolare dalle spiegazioni degli esperti, dalle raccolte firme o da chi crede che l’unico problema sia la morte da Coronavirus. Qui il bando della regione Sardegna: http://www.regione.sardegna.it/j/v/2644?s=1&v=9&c=389&c1=1249&id=91371 Larino (Cb). Detenuto morto in carcere, Procura indaga medico per omicidio colposo teleregionemolise.it, 15 febbraio 2021 Potrebbe essere eseguita martedì l’autopsia sulla salma del 57enne detenuto di nazionalità albanese, residente a Campomarino, deceduto giovedì scorso, tre ore e mezza dopo essere stato dimesso dal reparto di Malattie infettive dell’ospedale Cardarelli. L’esame autoptico è stato disposto dalla Procura di Larino, che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, dopo il decesso avvenuto alle 15.30 in carcere. Al momento non c’è alcuna delega d’indagine. Il Pm intende sentire prima il medico indagato. Attualmente, il cadavere del 57enne è custodito nella cella frigorifera dell’obitorio dell’ospedale San Timoteo di Termoli, a disposizione della Magistratura frentana, mentre non è stato ancora deciso dove far effettuare l’autopsia, potrebbe essere anche trasferita fuori regione. Chieti. Covid in carcere, aumenta il numero degli agenti positivi chietitoday.it, 15 febbraio 2021 Si aggiungono alle decine di detenuti contagiati nei giorni scorsi. Voci di dentro: “Occorre subito avviare le procedure per la vaccinazione”. Allarme contagi anche tra gli agenti penitenziari nel carcere di Chieti. Ad oggi sono una decina gli agenti di polizia della casa circondariale di Madonna del Freddo risultati positivi al Coronavirus, alcuni di loro sono anche persone avanti con l’età. “Se si vuole evitare una bomba epidemiologica, anche in considerazione che si tratta di persone che hanno famiglia, occorre subito avviare le procedure per la vaccinazione di tutto il personale, oltre che dei detenuti” lo afferma Francesco Lo Piccolo, direttore di Voci di dentro, precisando che “in questi giorni la polizia, peraltro sotto organico, e tutto il personale, direzione e area sanitaria compresa, sta facendo enormi sacrifici dimostrando dedizione al lavoro e grande senso di responsabilità nel svolgere un difficile compito in un istituto come quello di Madonna del Freddo che da sempre ha gravi problemi strutturali. Problemi mai affrontati seriamente e che rendono problematica la stessa assistenza sanitaria che deve essere garantita ai detenuti al pari delle persone libere”. Gli agenti positivi si aggiungono alle decine di detenuti contagiati nei giorni scorsi: su una popolazione di 58 detenuti, sono 48 i positivi (e non 55 come detto in precedenza) e 10 quelli negativi. Da qui la decisione di isolare e trasferire nella sezione femminile i dieci detenuti non contagiati, spostando le donne nel carcere di Rebibbia. “Quello che avviene a Chieti - ribadisce Lo Piccolo - e quello che sta avvenendo anche in altre carceri italiane conferma che la politica non ha saputo fare prevenzione. In carcere e neppure fuori. E che ancora continua una politica penale e giudiziaria assolutamente sbagliata ignorando le proprie responsabilità e facendo pagare tutto ciò alla polizia penitenziaria oltre che ai detenuti”. Catanzaro. Donne vittime di violenza, nasce il progetto “Women free” cn24tv.it, 15 febbraio 2021 Si scrive “Women Free”, si legge “insieme per sostenere le donne vittime di violenza”. È l’obiettivo del progetto promosso dalla Fondazione Città Solidale Onlus e l’Ammi di Catanzaro (Associazione Mogli Medici Italiani) che offre servizi di aiuto e accompagnamento per donne sole o con figli minori, vittime di violenza psicofisica, sessuale, economica o di maltrattamenti. “Il progetto “Women Free” - spiega Silvana Aiello Bertucci, presidente Ammi Catanzaro - nasce dall’esigenza di fornire una risposta reale ai problemi che le donne maltrattate si trovano ad affrontare durante il loro percorso di fuoriuscita dalla situazione di violenza e di disagio. Le donne che si rivolgono ai Centri Antiviolenza, ad esempio, quasi sempre lamentano serie difficoltà a rompere la situazione di isolamento a causa della mancanza di soldi e lavoro”. “La nostra associazione - afferma la presidente - favorisce la costruzione di una rete a supporto delle donne; un modello operativo per gestire e fare prevenzione e screening. Questa nuova modalità organizzativa è ora possibile grazie alla buona sanità capace di fare rete, con l’obiettivo unico di porre al centro la donna e di garantire il miglior percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale. Tra le azioni portate avanti con questo progetto vi è l’attivazione di un servizio di screening gratuito con visite senologiche per le donne vittime di violenza, considerando la nostra collaborazione con la Breast Unit - Organizzazione Unità Multidisciplinare nata per curare il cancro al seno - dell’Azienda Ospedaliera “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro”. Bari. Premio letterario per detenuti: così l’associazione Falcone ricorda Stefano Fumarulo bariseranews.it, 15 febbraio 2021 Quale è il modo migliore per ricordare una persona se non continuare a mettere in pratica i suoi insegnamenti e trasmettere alle future generazioni il suo impegno civile? Nel nome di Stefano Fumarulo, impegnato sul versante della legalità, morto a 38 anni nel 2017, è stato indetto un premio letterario nelle carceri: il dirigente antimafia. Il premio, rivolto ai detenuti di Puglia e Basilicata si divide in tre sezioni: poesia, narrativa e lirica. Al concorso è possibile partecipare fino al 4 maggio. L’iniziativa dall’associazione barese Giovanni Falcone, per celebrare il 25° anniversario della fondazione, in collaborazione con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Il presidente dell’associazione Falcone, Corrado Berardi ha voluto così mantenere l’impegno preso un anno fa. Gli elaborati devono pervenire in un plico con la dicitura “Premio letterario in memoria di Stefano Fumarulo 2021” entro il 4 maggio, all’indirizzo “Associazione culturale G. Falcone, via dei Narcisi 1 a Bari Santo Spirito-Catino” (info 340.5824196). Una giuria di esperti, formata da umanisti, esperti nel campo dell’editoria e della scrittura poetica, valuteranno le opere. Nella sede della scuola Falcone di Catino il 26 giugno alle 18, si terrà la premiazione. Inoltre è in programma la realizzazione di un murales raffigurante Fumarulo. L’associazione G. Falcone, nata il 6 luglio1995, grazie all’impegno di 25 soci, opera sul quartiere Catino organizzando, tra l’altro, eventi culturali, sportivi e di utilità sociale. Mantova. Le detenute dipingono il mare: il carcere diventa una tela di Paola Cortese Gazzetta di Mantova, 15 febbraio 2021 Decorati l’ingresso, il corridoio, la sala della socialità e le aule. Il progetto di arteterapia proseguirà per coinvolgere la sezione maschile. Balconi con vista sul mare e fiori oltre i cancelli, tra le finestre con le sbarre, annullano i confini. Grazie al progetto di arteterapia, iniziato a dicembre, le pareti della sezione femminile della casa circondariale di via Poma sono state decorate dalle detenute coordinate da Valeria Pozzi, restauratrice e decoratrice. “Sono molto soddisfatta dell’esito di questo progetto che è andato ben oltre le aspettative - dice la direttrice del carcere Metella Romana Pasquini Peruzzi - alcune detenute all’inizio erano titubanti, ma quando il corso è finito si sono mostrate spiaciute. Si era creato un bel clima tra loro e l’operatrice, hanno lavorato con piacere e sono state molto gratificate dall’esito. Hanno abbellito gli spazi in cui vivono lasciando un segno, durevole nel tempo e fruibile anche da altri, il personale e i medici ad esempio, che hanno espresso apprezzamenti. È importante dare ai detenuti la possibilità di sperimentarsi e di occupare le giornate, infinite e senza scopo nella maggior parte dei casi, esprimendosi in maniera creativa”. Sono donne italiane e straniere tra i trenta e i quarantacinque anni quelle che hanno partecipato al progetto che ha portato alla decorazione dell’ingresso, del corridoio e della sala della socialità della sezione femminile, oltre che delle due aule scolastiche. “Abbiamo cercato di evitare l’isolamento dal mondo esterno, molto pesante soprattutto in questo periodo di pandemia e di distogliere i detenuti dai pensieri ricorrenti del tempo della carcerazione - aggiunge Giuseppe Novelli, funzionario giuridico-pedagogico - dare la possibilità di riqualificare degli spazi e decorarli ha fatto molta presa. Le partecipanti al progetto hanno anche imparato a rispettare questi spazi proprio perché hanno contribuito ad abbellirli e renderli più piacevoli”. L’arteterapia è stato l’unico corso che la direzione ha mantenuto in questo periodo in cui sono state limitate al massimo le occasioni di possibile contagio tra detenuti, un centinaio tra la sezione femminile, maschile e speciali. Sulle pareti sono comparsi un ponticello tra cielo e acqua, ispirato al giardino di Givency di Monet, trompe l’oeil sul mare, cani e gatti, fiori rampicanti, glicine e rose, vasi disegnati, da terra, con gerani e ortensie, atmosfere familiari e rassicuranti che hanno dato luce e aria tra le sbarre di ogni porta e finestra. Le parole uomo, libertà, scelta vanno a comporre la frase dello psichiatra e filosofo austriaco Viktor Frankl “tutto può essere tolto a un uomo ad eccezione di una cosa: la libertà di scegliere il proprio comportamento in ogni situazione” scritta sui muri delle aule didattiche, una decorazione realizzata sempre dal gruppo delle detenute. “È parlando con loro che sono emerse le idee - spiega infine Valeria Pozzi - ho portato delle immagini da cui abbiamo preso spunto e deciso i tipi di decorazione. Le detenute hanno partecipato e la prima cosa che mi hanno chiesto è stato di dipingere il mare, poi sono venute le richieste di realizzare i loro animali d’affezione e i fiori, sempre tenendo conto degli ambienti in cui andavamo a dipingere con la presenza di porte, finestre, caloriferi, estintori e altri elementi strutturali. La ricerca della natura, l’uso dei colori in maniera terapeutica, ha fatto sì che si appassionassero e acquisissero nel tempo maggior sicurezza e competenza. Nella sala della socialità, dove leggono e giocano, abbiamo scelto decorazioni geometriche colorate di giallo, che aiuta la concentrazione, arancione caldo, che induce alla serenità, e viola che produce armonia”. Il programma di arteterapia proseguirà nei prossimi mesi nella sezione maschile, sempre grazie alla collaborazione e disponibilità degli agenti di polizia penitenziaria. In procinto di partire anche un corso di pasticceria, nel laboratorio di panificazione, attivo da anni con commesse dall’esterno, mentre prosegue, attivo anche durante i lockdown, il lavoro nell’orto del carcere, appena avviato, con produzione di ortaggi. Ancora da decidere la loro destinazione, se l’esterno o il consumo interno. Democrazia ultimo atto di Massimo Cacciari La Stampa, 15 febbraio 2021 Dobbiamo proprio arrenderci? Impossibile ragionare sull’onda lunga della crisi di sistema che sta travolgendo il nostro Paese? Per quanto tempo potremo continuare a rammendare e tamponare? Ricordiamolo ai più giovani. È l’eterno ritorno dell’uguale in forme sempre più asfittiche, deboli, emergenziali. Al crollo della prima Repubblica suonò il primo appello alla Banca d’Italia, nel 1994 il secondo. Da Ciampi a Dini. E il Gotha dei “tecnici-competenti” al loro interno, dai Cassese agli Elia, dai Barbera agli Spaventa, dai Bassanini ai Treu. I massimi esperti che la Patria ha generato in materia delle riforme ad essa necessarie. I frutti? Deboli vagiti in alcuni settori, profondo nulla in altri. La mano passa, allora, ai politici-politici i quali, attraverso raffazzonate maggioranze tra forze e movimenti che hanno magari un passato, ma nessuna comune destinazione, catastrofizzano di nuovo durante la grande crisi 2007-2008, e si deve ritornare al Salvatore che proviene dai grandi organismi economico-finanziari, a chi appaia innocente degli sfracelli commessi. Ora la Banca d’Italia è sostanzialmente la Banca centrale europea, e perciò… Così da Monti a Draghi. E Draghi, come Monti, altro non potrà che ripetere il ritornello del piano di riforme di cui il Paese ha bisogno, senza le quali neanche un Recovery fund dieci volte maggiore servirebbe a rimetterci in sesto. Monti lo sapeva, Draghi ancora di più, e già lo sapevano benissimo i Ciampi e i Dini. Le riforme, come tutti gli atti decisivi, in tempo di pace come di guerra, che siano crisi economiche o pandemie, possono essere intraprese soltanto da forti maggioranze politiche che si sentano partecipi di una comune visione e di un comune destino. Vale la pena ripeterlo: politica è anche competenza o non è. Una politica incompetente è chiacchiera demagogica per definizione. Non si tratta affatto dell’assurda pretesa che chi fa il politico di professione abbia la competenza di un Draghi in materia finanziaria o di un Cassese in pubblica amministrazione o di una Cartabia in diritto. Ciò che è necessario è che una forza politica contenga in sé, nella sua struttura, nel modo in cui si organizza, un rapporto continuo e organico con quelle competenze che rendono possibile fondare una strategia realistica, credibile nei suoi obbiettivi e nel percorso da compiere per realizzarli. Abbiamo disfatto in questo trentennio l’idea stessa di questa forma di azione politica, l’idea stessa di una forza così strutturata. Ma lo si sappia finalmente: se la competizione politica non avviene tra partiti che compongono in se stessi tecnica-e-politica, politica-e-competenza, non solo mai si avvierà un processo reale di riforme, ma dileguerà agli occhi del “popolo sovrano” l’interesse stesso per la democrazia. A che servono, infatti, le rappresentanze politiche se nei momenti più difficili bisogna ricorrere a Autorità “da fuori”? Se per la terza volta in un decennio è capo del governo chi nessuno ha eletto? Vi pare questo un fatterello irrilevante, dal momento che, certo, la Costituzione rimane inviolata, e tutto si svolge secondo le regole del puro parlamentarismo? Gli dèi accecano coloro che vogliono perdere. E’ assolutamente inevitabile che il “popolo sovrano” si chieda: perché tanto spreco di rappresentanti e assemblee se il mio destino, nei momenti decisivi, non può essere loro affidato, mentre nei momenti normali può benissimo esserlo a capaci amministratori? La domanda ha una risposta sola: perché in democrazia i governi Monti, Draghi e quelli prima citati si configurano necessariamente come “servizi di emergenza” e mai potranno realizzare riforme di assetti istituzionali, né quelle della pubblica amministrazione, della giustizia, della scuola. Possono fare leggi di bilancio equilibrate, permetterci di ridurre lo spread, evitare sprechi e errori di “calcolo”. E sono tutte cose giuste e buone. E dobbiamo essere loro grati quando le combinano. Ma se vogliamo davvero che i “governi del Presidente” assumano, loro, la responsabilità di metter mano al sistema Paese, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di “superare” l’idea di democrazia nel cui grembo siamo stati allevati. Delle due l’una e il terzo non è dato: o i partiti sono capaci di ricostruire il loro radicamento sociale, di formare gruppi dirigenti realmente rappresentativi, di elaborare strategie sulle quali costruire alleanze operative, non dettate esclusivamente dal primum vivere, oppure si elegga un Presidente-Capo che nomina il proprio governo, al quale è lui a dettare l’agenda. Ma la si faccia finita con questo presidenzialismo surrettizio. Per quanto tempo ancora si potrà andare avanti nell’equivoco? All’ombra protettiva di Mario Draghi destre, sinistre e centri nostrani hanno un anno per rifletterci. Se, fatto il nuovo presidente della Repubblica, all’esito delle prossime elezioni politiche, dovesse ripresentarsi una situazione analoga al 2018 e ancora una volta, dopo defatiganti tentativi, l’invenzione di nuovi Conte, di altri e sempre uguali responsabili e ricostruttori, Draghi, divenuto nel frattempo capo dello Stato, dovesse ricorrere al suo collega di turno di via Nazionale o di Francoforte per salvare la baracca, non sarebbe più soltanto il crollo definitivo del nostro ceto politico, ma della fiducia stessa nella democrazia rappresentativa. E l’opera iniziata con tanta passione dai populismi, sovranismi e “vaffa” giungerebbe al suo felice coronamento. Ora tutti conoscono l’orrore delle Foibe di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 15 febbraio 2021 Dopo anni di silenzio e di indifferenza. L’impegno di Ciampi, e la nobile testimonianza di Mattarella. Ho conosciuto molto presto la tragedia delle Foibe, nonostante nei libri di storia non fosse neppure citata. Non soltanto grazie alla Giornata del ricordo, voluta dall’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, galantuomo tra i più grandi della nostra Repubblica. Quella tragedia l’avevo conosciuta molto prima, da ragazzo. La famiglia di Franco, mio amico d’infanzia e compagno di scuola, fu costretta a fuggire dall’isola di Lussinpiccolo, oggi Mahli Losinj in Croazia, abbandonando tutto, per rifugiarsi in Argentina e poi per tornare in Italia per ricostruire a Genova la propria vita, cercando di vincere la malinconia. Il papà di Franco, che dovette sfuggire alle vendette, lasciando la splendida Lussinpiccolo, viveva il suo passato con tristezza, in rassegnato silenzio. Uno dei più grandi amori della mia vita, una meravigliosa ragazza di Fiume che si chiama Giuliana, mi ha regalato momenti indimenticabili mentre frequentavo ancora l’Università. I suoi erano fuggiti appena in tempo da Fiume, oggi Rijeka, abbandonando casa, amici e affetti per sottrarsi alle vendette dei comunisti di Tito, che non facevano distinzione tra italiani per bene e italiani fascisti. Giuliana, che avevo conosciuto nella discoteca genovese “Psichedelik”, ne parlava raramente. Ne parlavo di più con sua madre, quando andavo a casa sua per ascoltare racconti di vita vissuta. Allora, visto che avevo cominciato a collaborare con il mio primo giornale, il Secolo XIX, una sera andai con Giuliana a sentire Nicola di Bari, di cui ero diventato amico. Nicola, cantante famosissimo (ricordate “Il cuore è uno zingaro”?) alla fine dell’esibizione, mi venne vicino, mi salutò e, abbagliato da Giuliana, mi chiese: “Ma dove hai trovato questo angelo del cielo?” Ecco perché la figlia di profughi che ho amato con tutto il cuore, non la dimenticherò mai. È stata una fortuna, per me, condividere quelle sofferenze, figlie degli orrori della guerra e dei successivi aggiustamenti politici, perché la Jugoslavia di Tito, dopo gli eccessi feroci, era diventata un caposaldo filoamericano e antisovietico, visto che si contrapponeva allo strapotere dell’Urss. Giuliana ogni tanto si rabbuiava e mi parlava di quella ferita insanabile, ed è anche per questo non ho mai accettato né tantomeno condiviso la propaganda comunista di allora. Avrei capito di più qualche anno dopo, quando cominciai a frequentare, ai tempi della primavera di Praga, oltre 50 anni fa, i Paesi dell’Est comunista. Esperienza dolorosa e unica. Ma anche nella mia vita professionale ho incontrato persone straordinarie, che avevano le loro radici in Istria e Dalmazia, terre di frontiera frequentate dai migliori, come diceva Hemingway. Toni Concina, che dal 2003 al 2006 è stato direttore delle relazioni esterne del nostro Corriere della Sera, ai tempi della gestione di Cesare Romiti, ne è esempio lampante. Abbiamo subito simpatizzato, e visto che già a quel tempo mi occupavo assiduamente di Turchia, entrai assieme al collega Massimo Gaggi nel ristrettissimo gruppo di coloro che rappresentavano il nostro giornale, allora partner del gruppo laico Dogan (da non confondere con l’attuale presidente-sultano Erdogan, che poi ha cannibalizzato il gruppo turco). Insomma, eravamo spesso invitati nel Paese. Di Toni Concina ho sempre ammirato il rigore, la coerenza, l’amore per il lavoro e per le sfide più ardue. Non ho saputo subito la sua storia. Sapevo solo che i suoi genitori erano una coppia che riuscì, a fuggire in tempo da Pola, abbandonando tutto. I legami con quella dolce porzione della nostra Europa di frontiera, per me sono continuati e continuano ancora perché una carissima collega della Rai, Daiana Paoli, che considero una mia straordinaria allieva, e lei mi tratta con l’affetto riservato a un secondo padre, è figlia, da parte della madre, di quella regione jugoslava che tanto sta a cuore anche a me. Le dure parole pronunciate sulla strage delle foibe dal presidente della Repubblica Mattarella sono davvero di grande fierezza, rigore e nobiltà. Un’altra persona, che mi è molto cara, Vera Vigevani Jarach, alla cui storia con la collega Alessia Rastelli abbiamo dedicato la serie per il Corriere TV “Il rumore della memoria”, poi diventata un film con la regia di Marco Bechis, è andata a testimoniare il proprio impegno per gli orrori delle foibe. Vera, che vive in Argentina, ha avuto il nonno ammazzato ad Auschwitz e la figlia Franca, resistente anti-Videla, lanciata viva nel Rio de la Plata da uno degli aerei del dittatore fascio-piduista che guidava il Paese. Queste sono storie di vera vita vissuta, quindi indimenticabili. Contro i cyber-bulli è una lotta ad armi impari Italia Oggi, 15 febbraio 2021 Contro il cyber-bullismo, per adesso, solo armi spuntate. Se i cyber-reati denunciati (solo una percentuale di quelli avvenuti) aumentano di anno in anno, vuol dire che si deve pensare a strumenti più efficaci di quelli predisposti dalla legge. I numeri presentati dalla Polizia postale sono inequivocabili: nel 2020 si è registrato un aumento dei casi trattati di vittimizzazione dei minori per reati quali la pedopornografia, l’adescamento, il cyber-bullismo, la sextortion, le truffe online, il furto di identità digitale, altri reati online pari al 77% rispetto al 2019 (2.379 casi trattati nel 2019 contro i 4.208 trattati nel 2020). Se questa è la cruda realtà delle cifre, bisogna chiedersi quale sia il grado di effettività degli strumenti previsti dalla legge. Prendiamo per esempio la legge 71/2017, sul cyber-bullismo. Ci sono, sulla carta, almeno due strade, oltre quelle rinvenibili nel codice di procedura penale. Una cyber-vittima può contare sull’intervento del Garante della privacy, che ha il potere di intervenire sul gestore del sito internet o del social media con lo scopo di ottenere l’oscuramento, la rimozione o il blocco di contenuti diffusi per via telematica.Per la maggiore efficacia dell’intervento il Garante ha stipulato un protocollo d’intesa con la Polizia postale, nei casi in cui sia necessario identificare il titolare del trattamento o il gestore del sito internet o del social media dove sia stato pubblicato un contenuto (informazioni, foto, video, ecc.) ritenuto atto di cyber-bullismo. Nei confronti di chi non rispetta le misure disposte dal Garante possono essere applicate sanzioni amministrative. Tra l’altro può avviare l’intervento direttamente il minore, se ha più di 14 anni, oppure chi esercita la responsabilità genitoriale. Altra possibilità è quella che vede protagonista il questore, che può ammonire il minorenne di età superiore a 14 anni autore di un fatto di cyber-bullismo ai danni di un altro minorenne. Non sono, allo stato, però note statistiche a riguardo del numero di segnalazioni pervenute al garante della Privacy di ammonimenti pronunciati dai questori. Bambini soldato, Medio Oriente e Africa sono le regioni più colpite dal fenomeno di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 15 febbraio 2021 La campagna di Intersos, Human Rights Watch e Unicef in occasione della giornata che ne ricorda l’esistenza. È un’altra emergenza umanitaria in atto in tutto il mondo. Una barbarie nella barbarie, la guerra combattuta dai minori. Per “bambini soldato” si intende qualsiasi persona minore di 18 anni reclutata o utilizzata da gruppi e forze armate per fini bellici e non solo. Bambine e bambini coinvolti lavorano anche come spie, messaggeri, cuochi, assistenti di campo e per fini sessuali. Il 40% dei minori arruolati sono bambine, spesso vittime di violenza di genere. Sono sempre di più coinvolti nelle guerre. Sono 18 i Paesi nei quali, dal 2016 ad oggi, è stato documentato l’impiego di bambini-soldato in conflitti armati: Afghanistan, Camerun, Colombia, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, India, Iraq, Mali, Myanmar, Nigeria, Libia, Filippine, Pakistan, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Siria e Yemen.Nonostante gli sforzi delle organizzazioni internazionali e benché non esistano stime ufficiali, il numero di casi documentati è in costante aumento dal 2012 al 2020 ed è nell’ordine delle decine, forse centinaia di migliaia. Quasi 8.000 bambini reclutati nel 2019. Le Nazioni Unite hanno adottato nel 2002 il primo protocollo opzionale alla convenzione sui diritti dei bambini, che condanna fermamente il coinvolgimento dei minori nei conflitti armati. Secondo il rapporto Onu 2019 per i bambini nei conflitti armati, sono state accertate oltre 25.000 gravi violazioni contro bambini e bambine. Per quanto riguarda il reclutamento, i dati specifici parlano di 7.747 bambini, alcuni dei quali di soli 6 anni, utilizzati all’interno di un conflitto. I numeri, tuttavia, potrebbero essere molto più alti. Povertà, insicurezza e rapimenti. I bambini diventano parte di una forza armata o di un gruppo per vari motivi. Alcuni vengono rapiti, minacciati, manipolati psicologicamente. Altri sono spinti dalla povertà e dal bisogno di sopravvivenza. Anche la diffusione sempre maggiore di armi leggere, che non necessitano di forza fisica per essere maneggiate, ha incoraggiato ulteriormente il ricorso a bambini-soldato. L’allarme di Human Rights Watch. Secondo l’organizzazione internazionale Human Rights Watch, con la crescita di gruppi come ISIS, Boko Haram, Al-Shabab, molti paesi occidentali hanno adottato misure di controterrorismo sempre più dure che spesso comportano la detenzione e la condanna di minori. Dal 2012 ad oggi, l’Onu ha registrato una crescita di cinque volte del numero di bambini detenuti. Secondo Human Rights Watch si è creato un doppio standard: nelle guerre “tradizionali”, i bambini sono visti come vittime che necessitano riabilitazione, mentre nei conflitti con i gruppi terroristi i bambini coinvolti sono trattati come criminali. La campagna di Intersos. Tra le organizzazioni internazionali impegnate a contrastare il fenomeno c’è l’Ong italiana Intersos, che ha lanciato la campagna #Stopbambinisoldato in occasione della Giornata Mondiale che ne ricorda l’esistenza. Intersos coordina la Coalizione Italiana Stop all’uso dei bambini soldato, e dedica la campagna all’impegno delle organizzazioni, degli operatori e degli attivisti della società civile che si impegnano affinché gli ex bambini-soldato possano reintegrarsi nella società. Progetto Intersos-Unicef per il reinserimento. Uno dei progetti di Intersos condotto con il sostegno di Unicef riguarda la reintegrazione di ex bambini-soldato nella Repubblica Centrafricana, dove il fenomeno ha ormai i contorni dell’emergenza umanitaria. Qui, il 34% dei 299 casi verificati di reclutamento forzato tra minori riguardava bambine e ragazze. Durante il 2020, Intersos ha aiutato 214 minori liberati dai gruppi armati e ad oggi 180 di loro stanno completando il percorso di reinserimento sociale e lavorativo, lungo e difficile ma possibile. In una prima fase il minore accede alle cure mediche e al supporto psicologico. I ricongiungimenti familiari. Nella seconda fase avviene il ricongiungimento familiare o l’affidamento e, per i minori di 15 anni, il reinserimento a scuola. Altrimenti è previsto un inserimento professionale e formativo. “La piena reintegrazione di un ex bambino soldato è un percorso lungo e complesso, ma possibile” spiega Federica Biondi, operatrice di Intersos che ha lavorato insieme agli ex bambini-soldato. “Significa dare a un minore la possibilità di reinserirsi nella società, accettando di riconoscersi in un nuovo ruolo e in una nuova identità, venendo accettato in questa nuova veste dalla famiglia e dalla comunità in cui va a vivere.” L’avvocato Aslanov: “In Azerbaigian la democrazia non esiste” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 febbraio 2021 In occasione della Giornata internazionale degli avvocati in pericolo, che si celebra ogni anno il 24 gennaio per ricordare il massacro di Atocha, avvenuto a Madrid nel 1977 e in cui persero la vita cinque avvocati, l’avvocata Lucia Lipari (*) ha intervistato il collega Emin Aslanov, perseguitato in Azerbaigian per essersi occupato di diritti umani. Iniziamo col raccontarci qualcosa di lei… Difendo i diritti umani dal 2009. Da quel momento, ho assistito a una progressiva erosione dei diritti. La repressione del governo azero nei confronti della società civile, dei politici, degli attivisti, dei giornalisti e dei difensori dei diritti umani ha raggiunto il suo apice nel 2015. Quell’anno sono dovuto andare in Georgia per sfuggire al regime. Durante il mio soggiorno in Georgia, ho continuato a lavorare per la difesa dei diritti umani e nel 2017 ho deciso di andare a studiare negli Usa. Nel 2018 ho deciso di tornare. Conoscevo i rischi che mi aspettavano, ma non volevo più restare all’estero. E poi cos’è successo? A distanza di quattro giorni dal mio arrivo in Azerbaigian, sono stato accerchiato per strada da un gruppo di persone in borghese, che mi ha intimato di andare con loro. Sapevo che non aveva senso disobbedire al loro ordine. Mi hanno portato al Dipartimento per la lotta alla criminalità organizzata, dove mi hanno interrogato e accusato di avere agito in spregio al potere amministrativo. Il giorno successivo è stata stilata un’imputazione priva di ogni fondamento: non avrei obbedito ad un ordine della polizia. Secondo la legge, non avendo subito precedenti condanne, doveva essermi elevata una sanzione. Tuttavia, il giudice mi ha condannato a 30 giorni di carcere, la pena massima per quel reato. Al momento dell’arresto non fui in grado di contattare il mio avvocato o i miei familiari, non me ne fu data l’opportunità. Lo Stato aveva nominato un avvocato d’ufficio, che incontrai tre giorni dopo la cattura e che tuttavia non riuscì a contestare le accuse a mio carico. Aveva timore della polizia. Fu comunque presentato il ricorso in appello, ma venne confermata la sentenza di primo grado. Il caso ora è pendente dinanzi alla Corte europea dei diritti umani. Dopo il rilascio è stato ulteriormente perseguitato? Mi fu impedito di lasciare il paese per più di un anno. Quando per la prima volta provai a partire, il servizio di frontiera non me lo consentì e non mi venne neanche detto chi aveva ordinato o decretato il mio divieto di espatrio. Ho invano tentato di capire le ragioni di quel provvedimento, perché alla fine nessuna delle agenzie governative mi aveva spiegato chi e per quale motivo era stata emessa quella misura restrittiva. Solo un anno dopo e a seguito di molte denunce alle autorità competenti, il divieto è stato revocato. Anche adesso non ho il diritto di muovermi liberamente, perché ogni volta che attraverso il confine, il Servizio doganale mi chiede di scrivere un rapporto sulle mie disponibilità economiche. Tutto ciò è del tutto illegale. Secondo la legge si dovrebbero dichiarare importi di $ 10.000, ma nel mio caso sarebbe obbligatorio anche per $ 10. Questo è il chiaro segnale che sono ancora nel mirino del governo. Cosa può dirci della situazione in Azerbaigian? La radice del problema è il sistema di governance. Purtroppo la democrazia non esiste, il potere esecutivo ha assunto il pieno controllo sia del parlamento che della magistratura. La subordinazione della magistratura all’organo amministrativo poi ne ha ridotto il ruolo e ogni impulso nella tutela dei diritti umani e delle libertà. Questi problemi hanno un impatto determinante e negativo sull’istituto della difesa. Anche l’Ordine degli avvocati dipende dall’autorità amministrativa. Il governo, con l’aiuto dell’Ordine, punisce i legali attraverso azioni repressive, ma non sono risparmiati neanche i giornalisti, i giudici indipendenti e tutti i coloro che si occupano di diritti umani. Attualmente, ci sono pochi avvocati. La maggior parte dei colleghi ha paura di essere ingiustamente coinvolta in procedimenti orchestrati e subire ritorsioni. Alcuni hanno proprio cessato l’attività, altri si sono impegnati in campi diversi, ma molti sono stati costretti ad andare via. Fatto sta che gli avvocati sono sempre meno. Come viene visto il sistema giudiziario dai cittadini azeri? Le persone non ripongono alcuna fiducia nella giustizia in Azerbaigian. L’assenza di ogni diritto è oramai una convinzione radicata in tutti i cittadini e dal momento che si ritiene che lo stato non garantisce alcuna forma di tutela, si cerca di risolvere i propri problemi di natura legale e personale ricorrendo a conoscenze personali, che aprono le porte al dilagare della corruzione. Come affronta la questione la stampa nazionale? In Azerbaigian l’accesso delle persone a fonti d’informazioni diversificate è fortemente limitato. I media tradizionali come la televisione e la radio sono interamente sotto il controllo statale e ci sono pochi media online indipendenti e comunque situati all’estero. Il governo vieta ogni accesso e limita la libertà di pensiero all’interno del paese. Le persone usano la VPN per avere accesso a questi media. Se potesse rivolgersi alla comunità internazionale cosa chiederebbe? Credo sia essenziale continuare a dimostrare solidarietà. In molti casi, alzare la voce contro la brutale repressione del governo può aiutare i difensori dei diritti umani a venire fuori da situazioni di grave pericolo. (*) Avvocata, giornalista e data protection officer. Ha perfezionato gli studi presso l’Abat Oliba CEU University di Barcellona e l’Università Tor Vergata di Roma. Esperta di comunicazione istituzionale e politica, ha maturato esperienze presso la Direzione generale della Rai - Settore Relazioni istituzionali e internazionali e presso enti pubblici. Referente di diverse realtà associative, scrive per diverse testate di cultura e diritti. Myanmar, scattano gli ordini di cattura per i capi delle proteste di Francesca Sabatinelli vaticannews.va, 15 febbraio 2021 La giunta golpista decide l’arresto dei leader della disobbedienza civile. Sette i ricercati, minacce contro chiunque li aiuti a nascondersi. Sospese le leggi che proteggevano la privacy e la sicurezza dei cittadini. A due settimane dal golpe della giunta militare in Myanmar e dall’arresto della leader Aung San Suu Kyi, il 1° febbraio scorso, sono stati emessi gli ordini di cattura per i leader della protesta che, negli ultimi otto giorni, hanno portato enormi folle in piazza, in aperta sfida ai generali. A firmare i mandati di arresto sarebbe stato lo stesso capo dei militari, il generale Min Aung Hlaing, che ha anche ordinato la sospensione della legge che, dal 2011, con l’insediamento di un governo di transizione democratica, dopo quasi 40 anni di dittatura militare, proteggeva i cittadini da arresti, perquisizioni e detenzioni arbitrari da parte delle forze di sicurezza. Nella lista delle persone da arrestare vi sarebbero sette nomi, si tratta di personaggi di alto rango che si oppongono al governo militare attraverso i social, tra loro persone con alle spalle già molti anni di carcere durante la precedente dittatura militare. I militari avrebbero anche minacciato pesanti sanzioni contro chiunque darà loro rifugio o ne coprirà la fuga. La condanna, secondo una nuova legge, potrebbe arrivare fino ai due anni di carcere senza processo. Negli ultimi giorni si conta un moltiplicarsi di arresti a danno di chiunque si unisca al movimento di disobbedienza civile. Un appello alla pace e alla giustizia sociale è stato lanciato da monsignor Ivan Jurkovic, Osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, il quale ha anche richiamato le parole del Papa, lo scorso 7 febbraio, quando Francesco aveva assicurato al popolo del Myanmar “vicinanza spirituale, preghiera e solidarietà” e poi quelle del giorno successivo, quando ricevendo in udienza il corpo diplomatico, il Papa aveva auspicato “la pronta liberazione” dei leader politici incarcerati in Myanmar, come “segno di incoraggiamento a un dialogo sincero per il bene del Paese”.