Cartabia, quella volta a San Vittore: “Non dimenticherò i vostri problemi” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 14 febbraio 2021 Era il 15 ottobre 2018 e l’allora vicepresidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, oggi ministro della Giustizia, aveva trascorso una intera giornata con i detenuti del carcere milanese di San Vittore: “I vostri problemi - aveva detto loro - mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita” E ora nel mondo delle carceri l’aspettativa è enorme. La fotografia è tuttora sul sito della Corte Costituzionale: era il 15 ottobre 2018 e Marta Cartabia, allora vicepresidente della Consulta, stava per arrivare al termine della lunga giornata trascorsa con i detenuti del carcere milanese di San Vittore. La foto rende esattamente l’idea di quel “con”: per individuare l’attuale ministro della Giustizia in mezzo a quel gruppo di persone che le avevano regalato una felpa uguale alle loro, da lei immediatamente indossata, bisogna veramente sforzare gli occhi. Loro erano i detenuti del reparto La Nave, quello dedicato a quanti oltre a misurarsi con la detenzione cercano di sconfiggere la dipendenza, e lei li aveva salutati così: “I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita personale. Mi auguro che gli ideali della Costituzione possano fare compagnia a voi in questo vostro viaggio”. Quell’incontro in effetti fece parte di una iniziativa più generale, battezzata come “Viaggio in Italia”, che la Corte costituzionale aveva allora intrapreso prima nelle scuole quindi nelle carceri del Paese. E la tappa a San Vittore, per Marta Cartabia, aveva rappresentato un momento particolarmente intenso: “Mi ha sempre colpito il fatto di questo istituto collocato nel centro di Milano. Per tanti anni - confidò all’inizio del suo discorso ai circa cento tra detenuti e detenute che l’avevano accolta con l’Inno di Mameli nella rotonda centrale del carcere - ho accompagnato i miei figli che andavano a scuola qui vicino e ogni giorno mi chiedevo chissà chi sono le persone che stanno lì dentro. La presenza di San Vittore nel cuore della città ha un alto valore simbolico perché ci ricorda che chi sta in carcere non deve essere considerato in esilio, fuori dalla società. È un monito per noi che siamo fuori”. Per più di tre ore Marta Cartabia aveva risposto alle loro domande. Come quella di Marco, che rifacendosi al passo della Costituzione da lei citato poco prima sulla “promozione del pieno sviluppo della persona” le aveva chiesto “come si è evoluto a suo avviso il concetto di umanità e dignità della persona negli ultimi 70 anni se nel 2018 mi trovo un parassita nel letto della cella”. Tanti, soprattutto, le avevano elencato le innumerevoli difficoltà burocratiche - se non gli ostacoli veri e propri eretti per legge - rispetto alla volontà di reinserirsi nella società con un lavoro a pena espiata. “Il fatto che voi percepiate una distanza tra le parole della Costituzione e la realtà che vivete - aveva risposto lei - non significa che quelle parole non siano vere. Sono gli ideali a cui continuamente aspiriamo anche se la realtà li contraddice, e come tutte le cose della vita hanno una attuazione inesauribile”. Oggi è inutile nascondere che non solo tra i detenuti delle carceri italiane - alcuni di loro sono ancora a San Vittore e ricordano quell’incontro molto bene - ma in moltissimi operatori, educatori, volontari attivi nel mondo della “pena” la nomina di Marta Cartabia a ministro della Giustizia ha suscitato una immensa soddisfazione unita a una grandissima aspettativa: soprattutto adesso che dopo un anno di pandemia - inutile nascondersi anche questo - le legittime misure prudenziali legate a ragioni sanitarie si sono unite in praticamente tutte le carceri italiane all’interruzione di praticamente tutte le attività “costruttive” volte appunto al recupero, reinserimento, cura di detenuti e detenute. Dopo quella visita dell’ottobre 2018 Marta Cartabia è tornata a san Vittore in almeno due occasioni, a titolo personale, e di diversi detenuti incontrati la prima volta ricordava anche in nomi. “Si dimentica sempre - aveva detto a conclusione di quella sua prima visita - che la storia di Caino non finisce con la sua cacciata dall’Eden dopo che uccise Abele. Ma finisce con un incontro, quello con sua moglie, in seguito al quale proprio lui, Caino, divenne costruttore di città”. Sì: è una nomina che ha suscitato grande speranza. Che da oggi, nelle carceri italiane, si trasforma in attesa. Il paradosso di Marta Cartabia, da autrice “censurata” a ministra di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 febbraio 2021 La neo-Guardasigilli alla Consulta si è battuta per lo smantellamento degli automatismi nell’esecuzione di una pena da rimodulare in base al percorso di ciascun detenuto. Ma proprio l’acquisto di un suo libro è stato negato a un recluso. Siccome i copioni orchestrati dalla realtà sono sempre più spiazzanti delle sceneggiature di Cesare Zavattini e Woody Allen, la medesima amministrazione giudiziaria-penitenziaria che poche settimane fa negò a un detenuto per mafia al 41-bis nel carcere di Viterbo di poter acquistare il libro della costituzionalista Marta Cartabia e del criminologo Adolfo Ceretti sul senso della pena nelle riflessioni anni 80 del cardinale Carlo Maria Martini, con la motivazione che sarebbe stato “un privilegio” in grado di “accrescere il carisma criminale” del detenuto, da ieri al suo vertice ha proprio l’autrice di quel libro. Buffa inversione di un dettaglio attorno al neoministro della Giustizia, “motore” alla Consulta dello smantellamento degli automatismi nell’esecuzione di una pena invece continuamente da rimodulare con gradualità e flessibilità in base al percorso di ciascun detenuto. Non per buonismo d’accatto, ma per “cura che salvi insieme assassino e città” (David Maria Turoldo nel 1989), dissolvendo l’irrazionalità per cui tanti magari rifiutano il vaccino Astrazeneca perché non protegge in 30 casi su 100, ma accettano come niente fosse un modello di carcere che 70 volte su 100 fallisce a fine pena restituendo alla società persone che tornano a delinquere, alla faccia della sicurezza collettiva e della tutela delle vittime. Sulla pena giacciono nei cassetti i già pronti lavori della Commissione Giostra, che il centrosinistra Gentiloni-Orlando avviò e poi non varò per maldestro calcolo elettorale. Ma la “giustizia come ricomposizione” sarebbe bussola non peregrina pure già sulla prima mina in agenda, la prescrizione, il cui sacrosanto blocco dopo le sentenze di primo grado andrebbe almeno temperato da rimedi compensativi (indennizzi all’assolto o detrazioni al condannato) per il processato che restasse appeso a tempi morti a lui non imputabili. Cartabia: priorità al civile, la prescrizione sarà il primo banco di prova di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 febbraio 2021 Il primo compito per Marta Cartabia ministra della Giustizia è confrontarsi con l’eredità lasciata dal predecessore Bonafede, divenuto l’icona delle divisioni all’interno della vecchia maggioranza. Ora ce n’è una nuova che ha aumentato il numero dei partiti, e al tempo stesso le potenziali frizioni. L’ex presidente della Corte costituzionale ne è consapevole e sa che non c’è tempo da perdere. La prima mossa sarà comporre la squadra che l’accompagnerà nella nuova avventura. In attesa di sapere quanti e quali sottosegretari la affiancheranno, dovrà individuare il capo di gabinetto e altri stretti collaboratori; è probabile che non saranno solo magistrati, e questo sarebbe un segnale per chi vorrebbe alleggerire il peso della “burocrazia togata”. Soprattutto da parte di una neo-ministra che viene dal mondo accademico e dalla Consulta, senza esperienze dirette nel mondo giudiziario. Ieri, subito dopo il consiglio dei ministri seguito al giuramento, Cartabia è andata in via Arenula per incontrare Alfonso Bonafede; un faccia a faccia di oltre due ore nel quale l’ex ministro grillino ha illustrato i provvedimenti che giacciono in Parlamento e il suo piano di spesa dei quasi tre miliardi riservati al comparto giustizia, soprattutto per accelerare i processi, nell’ultima versione del Recovery plan. Un piano che forse sarà rivisto a livello generale e settoriale, ma del quale la neo-Guardasigilli deve conoscere i dettagli. Come dei disegni di legge al vaglio di Camera e Senato. Quello sulla riforma della giustizia civile, il meno “divisivo” e il più urgente nei programmi di Draghi, potrebbe andare in porto senza troppe difficoltà, magari con qualche miglioramento da annunciare nel discorso programmatico del premier. Le spine più acuminate sono nel penale, e a Montecitorio la prossima settimana è già fissato un appuntamento che riproporrà i contrasti sul provvedimento più contestato della “gestione Bonafede”, che ha rotto gli equilibri prima con la Lega e poi con Italia viva, oltre che incrinato i rapporti col Pd: l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Due partiti della ex opposizione, Forza Italia e Azione di Carlo Calenda, hanno proposto emendamenti al decreto Milleproroghe per abrogare quella riforma, in discussione mercoledì. Se dovessero mantenerli e votarli si aprirebbe la prima crepa nella neonata maggioranza; il governo non è a rischio perché alla Camera Pd e Cinque stelle garantiscono la tenuta, ma la questione si riproporrà con la discussione sulla riforma del processo penale. Lì il termine per gli emendamenti è fissato all’8 marzo, e dunque Cartabia avrà tempo per studiare una strategia. Enrico Costa, ex viceministro forzista passato ad Azione, promette: “Dobbiamo aiutare la ministra a trovare una soluzione accettabile, che non può essere la norma attuale né il rimedio studiato dal Conte 2, a rischio incostituzionalità”. Ecco un campo nel quale Cartabia ha da insegnare più che da imparare. Ma su questo e gli altri nodi che verranno al pettine - dalla riforma del Csm alla situazione nelle carceri - seguirà da un lato la linea politica concordata con Draghi, e dall’altro il metodo già applicato alla Consulta: cercare vie d’uscita che riescano a bilanciare tutte le esigenze e gli interessi in gioco. Su Bonafede si litiga ancora, la prescrizione primo ostacolo di Liana Milella La Repubblica, 14 febbraio 2021 La priorità? È la giustizia civile. L’emergenza? È la prescrizione. La neo ministra della Giustizia Marta Cartabia arriva in via Menula, e resta tre ore a colloquio con Alfonso Bonafede per il passaggio di consegne e incontra il capo di gabinetto Raffaele Piccirillo. Sul tavolo della ministra ci sono due questioni calde. Innanzitutto la priorità già indicata dal premier Mario Draghi, la riforma della giustizia civile, prodromica alla gestione del Recovery fund. In secondo luogo, lo storico conflitto sulla prescrizione che si ripresenta alla Camera, già mercoledì, con gli emendamenti nel decreto Milleproroghe che puntano a mettere in freezer la riforma dell’ex Guardasigilli di M5S. Che farà Cartabia? Il dossier sulla legge che ha fatto cadere due governi e bruciato Bonafede, è sul suo tavolo. Lo studierà oggi e concorderà nei tempi necessari una linea con il Consiglio dei ministri. Nel frattempo non sono stati fermi i - da sempre - nemici della prescrizione. Annibali di Italia viva, Costa di Azione, Sisto e Zanettin di Forza Italia, la Lega. Che stavolta però, divenuta ministra la Cartabia, si dividono tra di loro e cambiano strategia. Soprattutto i renziani. Tant’è che da giorni Maria Elena Boschi cerca di convincere chi ha presentato un emendamento anti-prescrizione a soprassedere almeno per adesso. E chi, nel suo partito, lo ha firmato, come la responsabile Giustizia Lucia Annibali, autrice un anno e fa e oggi del “lodo” omonimo, dice: “Sarebbe bello se la prescrizione si bloccasse subito. Buttando via anche quel brutto lodo Conte-bis. Però mi sembra inopportuno mettere in difficoltà la ministra Cartabia, come commissione dovremmo aspettare prima le sue linee guida”. E ancora: “Non sarebbe un buon viatico per il governo se mercoledì si arrivasse alla prima spaccatura”. Eh già. Perché né Enrico Costa, nemico storico della Bonafede, né Fi sono decisi a fare marcia indietro. Tant’è che, in una massiccia scrematura degli emendamenti per ragioni di tempo (il decreto scade a fine mese), hanno “segnalato” comunque quelli sulla prescrizione. Dice Costa: “È una questione di principio e di valori. Da ministro ho votato contro il ddl Orlando. Ora confermo la mia richiesta perché tutti insieme dobbiamo cancellare i danni di Bonafede e dei precedenti governi, dalla prescrizione alle norme inaccettabili sul processo penale”. E la Cartabia? “Ho grande fiducia sulla sua capacità di mediazione. Nessuno vuole creare problemi al governo, ma la maggioranza non è più Pd-M5S, sediamoci intorno a un tavolo e discutiamo”. Allo stesso modo la pensa Fi, tant’è che Pierantonio Zanettin, ex laico del Csm, e il responsabile Giustizia Francesco Paolo Sisto, entrambi avvocati, confermano il loro emendamento che congela fino al 31 dicembre 20211a prescrizione di Bonafede. A questo punto la mina è nelle mani di Cartabia. Ma ovviamente M5S farà muro sulla Bonafede e il rischio è che la maggioranza si spacchi subito. Marta Cartabia: “Credo in una giustizia dal volto umano. Prescrizione? No ai processi infiniti” di Grazia Longo La Stampa, 14 febbraio 2021 Come dice la Costituzione, la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità. La condanna sia rieducativa. Da costituzionalista e cattolica Marta Cartabia è orientata alla ricerca di una giustizia sociale “dal volto umano” che si fondi sulla “funzione rieducativa della condanna” e che rispetti i tempi dei giudizi “perché i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena”. Nelle parole, pronunciate o scritte, della neo ministra della Giustizia è possibile intravedere le linee guide del suo dicastero. Esperta di diritto comunitario e diritti fondamentali, in cattedra alla Bicocca e alla Bocconi, ha impiegato l’incarico di prima donna presidente della Corte Costituzionale ad alleggerire la macchina della giustizia costituzionale attraverso un consistente piano di digitalizzazione. C’è da aspettarsi dunque, che la dematerializzazione dei flussi documentali diventi ora prioritaria anche per la giustizia penale e civile. La giustizia, croce e delizia del governo appena formatosi che raccoglie il testimone di una stagione dura. È facile immaginare che la Cartabia spingerà per accelerarne la riforma perché, ha più volte sottolineato, le lungaggini della giustizia civile sono la zavorra da cui derivano gli scarsi investimenti esteri nel nostro Paese, tema molto caro al premier Draghi. Sul carcere il Cartabia-pensiero è se possibile ancora più chiaro, anche per i detenuti di mafia al 41 bis. “La dignità va intesa come incomprimibile possibilità di recupero, di riscatto, qualunque fatto sia stato commesso: qui è la dignità della persona. Come recita l’articolo 27 della Costituzione, la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità”. Il ragionamento è conseguente: “La pena sia volta a sostenere il cammino di cambiamento di ogni persona” senza tralasciare o “la sicurezza sociale, il bisogno di giustizia delle vittime”. I critici contrappongo all’attenzione per il sociale la rigidità che le deriverebbe dalla fede, l’amicizia con il teologo di Comunione e Liberazione Julian Carron, le posizioni espresse in favore della famiglia tradizionale a scapito del matrimonio omosessuale. Al contempo però, si è spesa per consentire alle madri di figli gravemente disabili la possibilità di scontare la pena ai domiciliari, a prescindere dalla durata della pena. E sulla prescrizione? È evidente la distanza del suo pensiero da quello del suo predecessore Bonafede, che puntava ad abolirla: “Che il processo debba avere una ragionevole durata è un principio di civiltà giuridica scritto nelle norme internazionali ed esplicitato nella Costituzione dal 1999”. L’ex ministro pentastellato ha provato ad accorciare i tempi della giustizia con la proposta di irrigidire i tempi dell’indagine. Ma secondo Cartabia questo si scontra con la “necessità di accuratezza delle prove e alle garanzie per l’imputato”. E che d’ora in poi in via Arenula cambierà decisamente aria è chiaro anche dalla posizione della ministra sul decreto Spazza-corrotti. In qualità di titolare del dicastero non è ancora intervenuta in merito, ma il suo orientamento è emerso quando, mentre presiedeva la Consulta, non è stata ammessa la retroattività dell’obbligo del carcere per i reati contro la pubblica amministrazione. Una scelta spiegata con il fatto che “la Corte ha semplicemente applicato uno dei principi fondamentali della civiltà giuridica in materia penale che vieta l’applicazione delle leggi più severe ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore”. “La prescrizione primo banco di prova. Agli alleati dico: nessuna provocazione” di Emilio Pucci Il Messaggero, 14 febbraio 2021 Giuseppe Brescia, lei da militante M5s e da presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, cosa risponde all’appello di Grillo che vi invita a scegliere da che parte stare? “Io sono dalla parte della nostra storia e dei risultati di governo ottenuti in questi due anni. Il voto degli iscritti ha dimostrato maturità e noi parlamentari dobbiamo adeguarci, ma il no va ascoltato e ci invita ad aprire gli occhi. Il Parlamento non è il passacarte del governo, abbiamo il dovere di controllare”. Il Movimento 5 stelle rischia una scissione? “Dalle scissioni non nasce niente, lo dimostra Renzi. I nostri dibattiti sono aperti e trasparenti, ma la nostra comunità deve andare avanti unita. È comodo stare all’opposizione”. Ha parlato di un sì condizionato, che cosa significa? È possibile che il Movimento si tenga in qualche modo le mani libere? “Noi giudicheremo il governo sui fatti, senza pregiudizi, ma con qualche convinzione. Ci misureremo su una gestione trasparente ed efficace degli oltre 200 miliardi del Recovery Fund conquistati grazie al lavoro del presidente Conte. Va bene migliorare il reddito di cittadinanza, non smantellarlo. Sulla prescrizione, per esempio, invitiamo ad evitare ogni provocazione, a partire dalla discussione che avremo in settimana sul milleproroghe. Sarà il primo banco di prova di questa maggioranza. Come relatore mi aspetto collaborazione dalle altre forze di maggioranza”. Cosa non la convince dell’attuale governo? “Non è una squadra e non può esserlo oggi. Il Paese si aspettava qualcosa in più, non una mera somma di quote dei partiti. Dai cosiddetti tecnici ci aspettiamo una profonda connessione con il Parlamento e con i cittadini”. Dopo la scelta di Mario Draghi M5S è passato dal no senza se e senza ma al discutiamone, infine il voto su Rousseau. Non c’è il pericolo che la base si disorienti? “Noi dobbiamo completare un percorso organizzativo. Il rapporto con la piattaforma deve essere gestito con un contratto di servizio, come ha chiesto l’87% degli iscritti. La base va ascoltata e vanno creati spazi di incontro come le sedi sul territorio”. Secondo lei ci sono stati errori da parte di chi ha condotto la trattativa? “Manca poco per arrivare alla nuova governance. È stata questa lunga transizione a farci male nei consensi, non i provvedimenti che abbiamo approvato in quest’anno. Ringrazio comunque chi come Vito Crimi si è messo a disposizione”. Ritiene che il premier uscente Conte sia stato marginalizzato? “La sua uscita da palazzo Chigi ha commosso tutti. La sua figura è nella storia del nostro Paese. Ha gestito con testa e cuore un momento difficile per tutti gli italiani e lui un referendum costituzionale l’ha vinto. Sarà una risorsa per M5S”. Si riuscirà a fare una legge proporzionale con la nuova maggioranza? “Lo vedremo in commissione con la discussione sugli emendamenti. Sicuramente bisognerà tornare alle preferenze e superare le liste bloccate. Questo tema non spetta al governo e anzi in Parlamento va costruita un’agenda concreta trovando punti in comune. Penso ai poteri speciali per Roma o alla riforma della polizia locale”. Cosa dovrebbe fare secondo lei un governo di unità nazionale? “Prima di tutto gestire la crisi economica, sociale e sanitaria e gettare le basi per una crescita sostenibile. Poi rafforzare il ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo. Lavoreremo per far diventare i nostri temi patrimonio comune, sicuramente non metteremo in discussione i nostri valori”. Ha paura che la responsabilità non vada di pari passo con il consenso? “Questa questione riguarda tutti i partiti. La responsabilità non deve essere scambiata per complicità. Abbiamo messo davanti l’interesse del Paese”. I magistrati dimostrino coraggio: è ora di ribellarsi al sistema Palamara di Paolo Itri Il Riformista, 14 febbraio 2021 Nel mio recente romanzo “Il Monolite” (Edizioni Piemme, ottobre 2019) ho descritto il mastodontico Palazzo di giustizia come la spettrale parodia del semidesertico territorio lunare dove gli ominidi di 2001 Odissea nello Spazio si scontrano tra di loro per il controllo di una fonte d’acqua. Il misterioso oggetto kubrickiano che dà il titolo al libro, così granitico e immutabile, non è altro, in effetti, che una metafora del potere, così come esso ci appare, fuori e dentro quel Palazzo e particolarmente dentro la Magistratura, dove il Monolite rappresenta l’incontrastato dominio delle correnti interne alla potentissima Associazione nazionale magistrati. Quelle stesse correnti che - secondo l’ormai famoso best seller a firma del direttore Alessandro Sallusti - hanno esercitato per decenni una subdola forma di prevaricazione nei confronti dei magistrati “disallineati” dal Potere o che si collocavano comunque fuori dal “Sistema”. Quando, nell’estate del 2019, completai il mio romanzo - all’epoca del mio autoesilio alla Procura di Vallo della Lucania -, ero ben consapevole che a causa di quel libro mi sarei fatto degli altri nemici (cosa che si è puntualmente verificata), eppure mai mi sarei immaginato il cataclisma che di lì a poco si sarebbe invece scatenato sull’onda del libro-intervista di Luca Palamara. In effetti il mio romanzo può per certi versi essere considerato l’antesignano dell’opera di Sallusti, laddove l’enigmatico Monolite rappresentava nient’altro che la materializzazione in termini metaforici dello stesso identico “Sistema” palamariano. E ne ho potuto parlare proprio in quanto ho provato sulla mia pelle cosa voglia dire essere emarginati da un tale “Sistema” di potere al quale non ho mai inteso sottomettermi né piegare le mie funzioni e la mia indipendenza, anche a costo di passare - nella migliore delle ipotesi - per un soggetto “originale” o un “cane sciolto”. Il prezzo che ho pagato è stato alto e non poche sono state le umiliazioni che mi è toccato subire sul piano professionale, per colpa di un Csm servo del potere delle correnti (questo lo dice Palamara, non io) e nonostante avessi un curriculum più alto della stessa statura fisica di alcuni dei colleghi che sedevano intorno a quel tavolo. Eppure io dico che ne è valsa la pena. Pare che oggi qualcosa si stia finalmente muovendo. E non mi riferisco di certo né alla politica e né alle varie istituzioni o articolazioni dello Stato che pure avrebbero il dovere di intervenire a fronte a uno sfascio del genere di quello descritto da Palamara, giacché la loro inerzia - peraltro del tutto prevedibile - costituisce forse il maggior riscontro alla esistenza del “Sistema”. E nemmeno all’imbarazzante silenzio della maggior parte degli organi di informazione - tranne alcune encomiabili eccezioni come Il Riformista -, poiché anche quello si spiega secondo la stessa identica logica omertosa. Ma bensì al fermento che sta in questi giorni montando in alcuni ambienti esterni all’Anm, quegli ambienti frequentati dalle anime più pure e genuine della magistratura italiana come Gabriella Nuzzi, Clementina Forleo e altri, dove è tutto un fiorire di iniziative, di progetti e di rinnovato entusiasmo e ai quali la soffocante e ottusa mano del potere non si è mai avvicinata perché sapeva di non trovare terreno fertile. Alcune di tali proposte sono già ben note, come quelle del sorteggio temperato per la elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura e della rotazione degli incarichi direttivi, proposte entrambe dirette a scardinare la malapianta del consociativismo associativo, che proprio sul mercato delle nomine fondava e fonda il suo immenso potere. Altre iniziative sono ancora allo studio, come la istituzione di una nuova associazione di magistrati destinata, dopo quasi 80 anni, a soppiantare l’Anm, il sindacato dei magistrati, che da istituzione nata anche con lo scopo di favorire il dibattito culturale e dialettico tra le diverse anime della magistratura è diventata, nel corso degli anni, sempre di più un vecchio arnese nelle mani di alcune ben individuate cricche di potere. Questo per quanto riguarda il futuro (auspicabile) della magistratura italiana. Ma per quanto riguarda invece le responsabilità, morali (o di altro genere) ascrivibili a coloro che hanno trasformato per anni una delle istituzioni fondamentali della Repubblica nel luogo di foschi ricatti, doppiogiochismi e minacce dipinto da Palamara? Allo stato, non sembra che la magistratura sia in grado di fare pulizia al proprio interno. Anzi. Appare perciò ineludibile che a occuparsi della faccenda - anche per consegnare alla storia nomi e cognomi di coloro che portano la responsabilità di un simile sfacelo - non possa essere che una Commissione parlamentare d’inchiesta di cui, affidandoci anche alla saggezza del presidente Sergio Mattarella, auspichiamo al più presto l’istituzione. Spetta infatti a noi, che abbiamo conosciuto e sperimentato il “Sistema” sulla nostra pelle, il compito di consegnare ai cittadini e alle future generazioni di magistrati una istituzione finalmente libera, indipendente e depurata dalle vecchie scorie della degenerazione correntizia. Alberto Paolini: “I miei 42 anni in un manicomio perché ero un bimbo silenzioso” di Walter Veltroni Corriere della Sera, 14 febbraio 2021 Oggi ha 88 anni: “Restai orfano, per una risposta fraintesa mi fecero tre cicli di elettrochoc. Fino al 1990 non avevo mai visto il mondo fuori”. “Mi chiamo Alberto Paolini, ho ottantotto anni. Ne ho passati quarantadue nel manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma. Sono entrato che avevo quindici anni e ho rivisto la città nell’anno dei mondiali, il 1990. Ho subito per tre volte l’elettrochoc perché avevano scambiato i miei silenzi per una malattia. Ma io non parlavo perché stavo male. Cominciamo dall’inizio, come in tutte le storie che si rispettino. Vivevo con la mia famiglia a Via Piave 15, nel quartiere Pinciano di Roma. Papà faceva il portiere e per arrotondare riparava le scarpe del vicinato. Mia madre lavorava a mezzo servizio. Era una donna dura, severa. Comandava tutto lei, una mamma “padrona”. Era sempre nervosa, urlava. A mia sorella voleva bene, a me no. Mi brontolava sempre, mi picchiava. A casa nostra nessuno dei parenti si avvicinava più, la temevano. Papà è morto quando io avevo cinque anni. Stava bene. Una sera si è portato le mani al cuore e ha cominciato a rantolare. Mia sorella ed io ci siamo tanto spaventati. Mamma ha detto poi che era stata una “sincope” a portarlo via da noi. Da quel momento tutto è precipitato. Mia madre non ce la faceva più a sostenerci, abbiamo dovuto lasciare la casa e ci ha messo in due collegi differenti, lontani. Poi, qualche anno dopo, anche lei è morta e ci siamo trovati completamente soli al mondo. Nel mio collegio le suore erano cattive, non ci trattavano bene, spesso ci picchiavano. Insegnavano a stare zitti e obbedire senza discutere. In collegio era obbligatorio il silenzio, se parlavi eri punito. Tutti sembravano volere solo una cosa, quando ero bambino: che non parlassi. E io obbedivo, non parlavo. Le suore non erano caritatevoli, stava cominciando la guerra, tutti avevano fame, tutti avevano paura. A 12 anni vengo mandato in un collegio di salesiani. Anche loro erano duri, severi. Anche loro picchiavano per un nonnulla. Io che, va bene, ero silenzioso e timido, subivo tante cattiverie dagli altri ragazzi. Si faceva l’avviamento professionale e io stavo studiando in un laboratorio di sartoria. Ma quelli più grandi mi prendevano di mira. Io ero piccolo, anche fisicamente, e poi non parlavo, o parlavo poco. Mi facevano scherzi di tutti i tipi. Al laboratorio c’erano, di norma, un capo e un maestro. Il capo però era tornato al suo paese e un giorno il maestro si assentò. Al ritorno trovò una gran confusione e volle sapere di chi era la colpa. Tutti dissero che ero stato io. Ma non era vero. Un’altra volta mi spinsero fuori dalla classe e mi lasciarono in corridoio. Quando arrivò il maestro mi punì. Io non ci volevo più entrare, in quel laboratorio. Cercavo di richiamare l’attenzione del direttore che era più buono, ma non ci riuscii. A un certo punto vennero due benefattori, due persone ricche che avevano un locale, forse un caffè, in Piazza di Spagna. Ci andava il bel mondo romano e, visto che eravamo alla fine della guerra, anche gli ufficiali americani. La signora, credo fosse svizzera, ho saputo più avanti che aveva fatto un voto. Suo figlio, durante la guerra, si era imboscato e i nazisti lo cercavano per fucilarlo. Lei si era rivolta alla Madonna garantendo che se si fosse salvato, lei avrebbe adottato un bambino in un collegio. Quel bambino fui io. Ma non venni adottato. Stetti a casa loro per un po’ e poi loro mi seguirono nel tempo. Ma da lontano. Perché a un certo punto anche loro pensarono che stessi male. Ero poco esuberante, per essere un bambino. E parlavo poco. Ma che volevano da me? Era quello che tutti, da mia madre al collegio delle suore fino ai salesiani, mi avevano imposto di fare. D’accordo con i salesiani mi portarono alla clinica neuropsichiatrica dell’Università. C’era un giovane professore di guardia che si chiamava Giovanni Bollea. Lui disse che spesso i bambini strappati dalla famiglia o abbandonati che finiscono in collegio, hanno queste reazioni. E che dovevo solo stare sereno, stare fuori, conoscere la città e la vita. Per un po’ fu così. Ma io ero rotto dentro e le parole non mi uscivano facilmente. Così i benefattori e i salesiani decisero di farmi ricoverare alla clinica dell’Università. Lì mi facevano tante domande, scrivevano dei moduli, mi fecero la puntura lombare che era molto dolorosa. Fui sottoposto a vari test psicologici, tra i quali quello delle macchie di Rorschach. Il dottor Finzi disse che ero un caso interessante e mi tennero lì cinque mesi. Poi questo tempo finì e dovevo uscire. I medici dicevano che non avevo patologie, ero solamente stato troppo vessato da un’educazione repressiva. Ma i benefattori non volevano o non potevano accogliermi e il collegio si rifiutò di riprendermi. Avevo una zia, lo scoprii allora, ma anche lei non mi volle, perché i suoi due figli erano contrari. Non sapevano dove mettermi. Era il dopoguerra, c’era tanta fame. E allora decisero tutti insieme di ricoverarmi al Santa Maria della Pietà. Lì mi trovai nel reparto dei bambini, anche se avrei dovuto stare con i grandi perché il limite era quattordici anni. Io ero piccolo, mingherlino e allora mi tennero con i ragazzi. Ho fatto amicizia con un bambino che si chiamava Franco. Lui era il contrario di me, faceva scherzi, si burlava di tutti e in particolare di Italia, un’infermiera che aveva paura dei piccoli insetti con i quali lui, immancabilmente, le riempiva le tasche. D’altra parte in quei tempi erano i ragni o le lucertole i nostri compagni di giochi preferiti. Non avevamo altro. Franco stava bene di testa, aveva però delle crisi epilettiche e per quello lo avevano chiuso lì. Il primo mese giocammo sempre insieme. Scaduto quel periodo, detto di osservazione, o qualcuno ti veniva a prendere oppure il tuo destino era in un padiglione di internamento. Lui fu portato al 22 e io mi sono ritrovato di nuovo solo. Dopo altre due settimane toccò a me. E qui la storia prende un carattere che non so descrivere. Potrei dirla così: sono finito all’elettrochoc per un equivoco. C’era un giovane medico, non il primario, che mi fece un mucchio di domande. A un certo punto mi chiese se io sentivo ogni tanto delle voci che mi chiamavano senza che ci fosse nessuno vicino. Io risposi candidamente di sì, ma volevo solo dire che ogni tanto qualcuno mi chiamava dal corridoio, insomma che ci sentivo bene. Io ero nuovo lì, non sapevo che l’espressione “sentire le voci” corrispondesse alle allucinazioni. Ho risposto di sì perché volevo dire che non avevo problemi di udito. Quando mi sono accorto dell’equivoco, o del tranello, ho cercato di correggere ma il dottore mi incalzava, era un incubo, e io ero confuso anche perché non ero abituato a parlare, non sapevo rispondere perché, da piccolo, non dovevo rispondere. Io ho cercato di farmi capire ma lui ha scritto sul verbale che io non ero capace di spiegare la ragione per la quale sentivo le voci. Alla fine lui ha scritto qualcosa sulla cartella clinica: avevo uno “stato depressivo” il che mi rendeva, chissà perché, “una persona pericolosa”. La suora ha chiesto dove mi dovessero mandare. Lui ha risposto gelido: “Al padiglione sei a fare l’elettrochoc”. Io mi sono subito spaventato. Quando ero con i bambini avevo visto applicare quella tecnica a un ragazzino, Claudio, e lui, a ogni scossa, era come se si alzasse in volo, se levitasse. Lo dovevano tenere per evitare che cadesse dal lettino. E poi faceva la bava alla bocca, mi aveva molto impressionato. Tornando nella mia camerata ho chiesto a un’infermiera, si chiamava Teresa, se davvero lo avrebbero fatto anche a me. Lei mi rispose “Ma no, stai tranquillo. È per quelli che non capiscono”. Mi rassicurò. Ma poi mi chiamarono e mi ritrovai in una fila, tutti erano silenziosi più che disperati, gli avevano detto che dopo la cura sarebbero tornati a casa. Arrivò il mio turno. Io volevo scappare. Avevo sentito che l’elettrochoc non si poteva fare agli anziani, ai malati di epilessia e a quelli con problemi al cuore. Allora, una volta entrato, dissi al medico che avevo male al cuore, sperando di farla franca. Lui mi appoggiò un istante lo stetoscopio al petto e disse che non avevo nulla e si poteva procedere. E procedettero. In quattro mi tennero mentre la suora mi inumidiva le tempie con un batuffolo bagnato di acqua e sale e mi appoggiava due elettrodi alle tempie. Io piangevo invocando la mamma che non avevo. Il medico ha chiesto: “È pronto?”. La suora ha risposto: “Sì, è pronto”. Poi non ho sentito più nulla. Mi sono risvegliato in una corsia piccola, con una sensazione penosa, non sapevo dove fossi e cosa stessi facendo, mi sentivo con la testa con la nebbia, i nervi del corpo tutti tesi. Me ne hanno fatti tre, così. La cura prevedeva tre cicli di quindici applicazioni. Quarantacinque scosse alla tempia. Ma poi anche io ho avuto una fortuna. Un giorno è venuta a trovarmi la benefattrice. L’aspettavo da tanto, mi aveva promesso che sarebbe venuta a trovarmi ma era passato più di un mese e non si era visto nessuno. Ero disperato, pensavo che mi avessero abbandonato tutti. Avevo quindici anni. Quando la signora è entrata e mi ha visto in quello stato, in quel padiglione, si è arrabbiata moltissimo. Non era quello che aveva concordato al momento del mio ricovero. Le dissero che c’era stato un disguido e mi mandarono subito al padiglione dei lavoratori. E lì sono rimasto fino al 1990. Si sono avvicendati, nel tempo, vari direttori. Chi apriva i cancelli dei padiglioni, chi li chiudeva. Un direttore, Buonfiglio, diceva che i pazienti non erano dei reclusi, che dovevano muoversi, dovevano distrarsi. Organizzava feste, spettacoli, veniva spesso Claudio Villa. E anche gite. Vabbè solo una volta all’anno, ma erano bellissime. Ci si poteva anche incontrare con le donne, nascevano degli strani fidanzamenti. Ci si facevano i regalini, che so, un fazzoletto ricamato o cose così. Io avevo conosciuto una ragazza, avevamo fatto amicizia, stavo bene con lei. Ma dopo un mese è uscita e non l’ho più rivista. Ho lavorato, per trent’anni, in tipografia, all’ufficio statistica e poi in biblioteca. Era per i medici, con testi specializzati, ma c’era un armadio con libri vari. E io li leggevo. Un infermiere una volta mi portò in regalo un pacco di riviste. Ne ero ghiotto. Mi piaceva lo sport, tifavo Venezia perché c’erano Loik e Valentino Mazzola. Poi il mio cuore lasciò posto al Grande Torino, dove giocavano i miei eroi. Di Superga seppi dalla radio e fu un dolore acuto, inconsolabile. Un giorno vennero a dirmi che sarei uscito, avrei avuto un appartamento con altri al quartiere Ottavia. Stavo al Santa Maria della Pietà dal 1947 e ora eravamo nel 1990, la città fremeva per i mondiali. Ero entrato bambino e ora avevo quasi sessant’anni. Non sapevo cosa ci fosse fuori, in fondo stavo bene lì, tutti mi volevano bene. Quasi mi dispiaceva uscire. Quando nel quartiere seppero che stavamo per venire a vivere qui ci fu una rivolta, non ci volevano. “Questi arrivano dal manicomio, saranno pericolosi”. Hanno fatto pure manifestazioni. Poi, piano piano... Per me era un’esperienza nuova. Solo quando ero piccolo avevo dormito da solo a casa. Dopo ero sempre in camerate insieme agli altri. Ora avevo una stanza tutta per me e una casa da condividere con altri come me. Avevo un po’ paura. In manicomio ci ho lasciato un po’ di vita, tanta, e un po’ di cuore, tanto. Ho tanti ricordi. Per esempio quando, attorno al 1968, vennero dei ragazzi a manifestare perché si aprissero le porte del manicomio. Avevano cartelli, bandiere, i capelli lunghi, esponevano le loro idee, idee di libertà. Parlavano di un professore che si chiamava Basaglia. Occuparono un padiglione. La polizia voleva mandarli via ma loro resistettero. Misero uno striscione con scritto “Centro sociale”. Ci facevano andare per corsi di ceramica, di lavorazione del cuoio. C’era anche un laboratorio di scrittura, che frequentai con passione. Ed è lì che forse io, Alberto Paolini, ho finalmente imparato a parlare, a parlare con gli altri”. Roma. Niente posti nella Rems: 90mila euro al mese per piantonare un detenuto di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 14 febbraio 2021 Malato psichiatrico assolto al processo è sorvegliato al policlinico Tor Vergata. La spesa per lo Stato è di 2.900 euro al giorno, ma così fra l’altro non viene curato. Nella città che lamenta un deficit di agenti della polizia penitenziaria ce ne sono almeno due che, in questo momento, si stanno domandando: “Che ci faccio io qui?” Qui è la sorvegliatissima stanza del servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell’ospedale di Tor Vergata dove, dai primi di ottobre, è alloggiato un ragazzo di trent’anni, assolto dall’accusa di tentato omicidio nel maggio del 2020 in quanto malato psichiatrico e rimbalzato dal carcere di Regina Coeli alla camera-cella del policlinico di Roma Sud. Il ragazzo, che chiameremo Sebastiano per tutelarne la privacy, è in attesa di un posto in una Rems, residenza sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza, dove però i posti sembrano esauriti. Il suo caso non prevede una soluzione a breve: il nome di Sebastiano compare in una lista d’attesa nella speranza che si liberi un posto in una Rems in tempi ragionevoli. Fra un anno. Un anno e mezzo. Forse di più. Nel frattempo il ragazzo, né paziente né detenuto ma un po’ di tutti e due, viene piantonato notte e giorno per il timore che possa dare in escandescenze. Due agenti si occupano di lui 24 ore su 24, con turni di sei ore ciascuno. Otto agenti ogni giorno dunque. A guardia di una persona che in realtà dovrebbe seguire una terapia psichiatrica in un centro specializzato, interagendo con altri pazienti e con la possibilità di uscire pur nel solo perimetro residenziale. Sebastiano, invece, non può vedere nessuno a eccezione dei suoi medici e del suo avvocato (ma anche quest’ultimo subisce le restrizioni dell’epoca Covid) e come è ovvio non può uscire dalla sua stanza per nessuna ragione. Questo piantonamento permanente ha naturalmente dei costi che gli addetti alla sorveglianza hanno quantificato in 1.200 euro al giorno per il servizio della penitenziaria più 1.700 euro, sempre al giorno, per il pernottamento nella camera di sicurezza ospedaliera. Si arriva così a 2.900 euro giornalieri che superano la retta quotidiana di una Rems. E alla cifra di circa 90 mila euro mensili, totale che batte largamente le somme spese per un detenuto comune. Lo si moltiplichi per un anno e si vedrà che il costo della misura supera di molto quanto occorrerebbe per aggiungere nuovi posti alla rete delle Rems laziali. Sulla vicenda interviene il garante capitolino dei detenuti, Gabriella Stramaccioni: “Non tutte le storie hanno la medesima gravità, occorre un filtro che permetta di accedere alle strutture chi ne ha diritto. È il solo modo di prevenire abusi”. Il riferimento è al fatto che quei detenuti ai quali il giudice ha aperto la porta della residenza sanitaria in realtà continuano a restare in carcere per mancanza di posti nelle Rems. “Altre regioni - aggiunge la Stramaccioni - hanno dato il via a delle strutture per pazienti meno gravi dove la custodia è attenuata. Bisogna cominciare a ragionarci su anche nel Lazio”. Venezia. Va in un Covid hotel l’ex detenuto di S. Maria Maggiore La Nuova Venezia, 14 febbraio 2021 È stata trovata una stanza in un Covid hotel per il detenuto 43enne che - a fine pena - rischiava di uscire da Santa Maria Maggiore, dopo aver contratto il virus in cella, senza avere un’abitazione dove andare. “Ringrazio la direzione del carcere e in particolare l’ufficio matricola, per essersi impegnati per trovare una soluzione ad un caso difficile, ma che, purtroppo, non è unico nel panorama carcerario”, commenta l’avvocato Marco Zanchi, che aveva lanciato il messaggio di allerta sul rischio che l’uomo uscisse, senza avere un luogo dove stare in quarantena, non potendo tornare da “positivo” a casa dei genitori ottantenni. La direzione del carcere si è attivata e, in extremis, è riuscita a trovare una stanza libera in un covid-hotel. Roma. Nel carcere di Rebibbia si fa il Caffè Galeotto legacoop.coop, 14 febbraio 2021 Pochi sanno che all’interno della casa circondariale di Rebibbia c’è una torrefazione in cui lavorano i detenuti e che porta il nome di Caffè Galeotto. Un luogo di vera trasformazione, sia dei chicchi di caffè che delle persone. Come è nato il Caffè Galeotto - L’idea è stata di Mauro Pellegrini, il fondatore della cooperativa sociale Panta Coop, un uomo che ha dedicato la sua intera vita alla rieducazione delle persone che sono in carcere attraverso diversi progetti, tra cui quello del Caffè Galeotto. Grazie ai fondi tutti provenienti esclusivamente da donatori privati, è nata la torrefazione che ad oggi ha 15 dipendenti. Formare i detenuti e farli lavorare in una torrefazione permette loro di riacquistare dignità, di concretizzare la voglia di ricominciare e di farlo imparando un mestiere richiesto sul mercato del lavoro, che sarà la chiave per il reinserimento nella società una volta scontata la pena. All’interno del penitenziario di Rebibbia Mauro ha avuto in concessione uno spazio in cui da una parte si miscela, si tosta, si macina il caffè e si producono le cialde e dall’altra si fa manutenzione e si riparano le macchine espresso che vengono date in dotazione ai clienti in comodato d’uso. Oltre all’attività artigianale dentro le mura del carcere, Mauro ha realizzato un piccolo negozio aperto al pubblico dove vengono venduti tutti i prodotti del Caffè Galeotto e che si trova all’ingresso del Nuovo Complesso della casa circondariale. Ferdinando lavora nel negozio del Caffè Galeotto, gli occhi scuri e profondi, occhi buoni e consapevoli. È in carcere da 11 anni e ne deve ancora scontare 4. Il negozio della torrefazione è un posto aperto a tutti, Ferdinando può lavorarci perché beneficia dell’articolo 21 che gli dà la possibilità di uscire dalla mattina alla sera. “Sono molto fortunato ad aver avuto questa possibilità, mi è stata data fiducia e questa è la cosa fondamentale da fare con chi ha sbagliato”. Ferdinando è un uomo trasformato e il lavoro al caffè Galeotto lo ha decisamente aiutato nel cambiamento. “In carcere si può cambiare ma si deve seguire un percorso”. Parla forte e chiaro, occhi negli occhi, le sue parole si animano: “Il carcere deve servire per capire dove hai sbagliato. Devi viverlo, non dormire tutto il giorno per farti passare il tempo. Devi fare un percorso che ti porti a non commettere più gli stessi errori. Lavorare è fondamentale per intraprendere questo processo, aiuta a ricostruire se stessi e il proprio futuro, anche se purtroppo una volta liberi si è comunque condannati al pregiudizio, un vero e proprio ergastolo”. Al Caffè Galeotto si fa musica e cultura - Oltre ad essersi iscritto all’università ed essere prossimo alla laurea, Ferdinando è un eccellente musicista, il suo strumento è la fisarmonica. Nel minuscolo magazzino del negozio suona e compone, sul muro ha scritto “Musica è evasione”. Presto inciderà un disco con musicisti famosi. Lo vanno a trovare molti amici e il caffè Galeotto è diventato anche un centro di incontro in cui non solo si vende il caffè ma si fa anche arte e cultura. Spesso Ferdinando suona insieme a Paolo, il suo professore di inglese che lo accompagna alla chitarra. Paolo insegna in carcere da più di 25 anni ed è fortemente convinto che la scuola in carcere sia fondamentale tanto quanto il lavoro. Paolo ha spiegato che “La scuola è bistrattata e non è messa al centro del processo di recupero di queste persone che hanno una forte volontà di rimettersi in gioco, magari di riprendere passioni o interessi che sono stati accantonati come la musica per Ferdinando. La scuola andrebbe valorizzata. Spesso ci troviamo davanti a persone che vogliono fortemente cambiare”. Il Covid: pena su pena - Se già la vita in carcere è durissima e disumanizzante, si è aggiunta la pandemia a renderla ancora più complicata. Sono mesi che i detenuti non possono vedere e riabbracciare la propria famiglia e i propri congiunti. Questo per un’ordinanza che vieta i colloqui, una misura che vuole proteggere da una potenziale “bomba epidemiologica” da Covid chi è dentro i penitenziari ma che non è bastata. Nel frattempo infatti il personale carcerario entra ed esce dalle case circondariali e nonostante le attenzioni a Rebibbia un focolaio ha colpito almeno 110 detenuti. “La paura è molta, non tanto per i giovani quanto per tantissimi detenuti con patologie pregresse anche gravi che qui dentro non ci si dovrebbero proprio trovare” dice Ferdinando. La situazione è particolarmente allarmante anche perché sembra che le mascherine distribuite siano poche e pochi giorni fa è anche mancata l’acqua per un’intera giornata. Tutto questo rende ancora più difficile la missione di Mauro Pellegrini ma il caffè Galeotto tiene duro e si va avanti giorno per giorno. Carugate (Mi). Una cella in oratorio per far vivere l’esperienza del carcere primalamartesana.it, 14 febbraio 2021 Progetto curato dalla Caritas e dai detenuti della casa circondariale di Bollate. Si chiama “Extrema Ratio” l’iniziativa educativa che verrà inaugurata mercoledì 6 novembre all’oratorio San Giovanni Bosco di Carugate e che proseguirà fino al 13 novembre. Per sette minuti (dopo essere stati sottoposti alla fase dell’identificazione con tanto di impronte digitali) si potrà vivere l’esperienza da carcerato, chiusi per 7 minuti dentro una riproduzione in dimensioni reali di una cella (allestita proprio dentro l’oratorio) del tutto simile per arredi e oggettistica a quelle di molte carceri italiane. “L’esperienza di detenzione temporanea è sufficiente per poter vivere sulla propria pelle la condizione di sovraffollamento dei nostri penitenziari - spiegano gli organizzatori del progetto - Sarà occasione per interrogarsi sull’efficacia della pena carceraria e per chiedersi se può essere strumento educativo e di integrazione sociale o se non sia da considerarsi come extrema ratio”. L’installazione sarà presente nell’oratorio di Carugate da mercoledì 6 a mercoledì 13 novembre. Da lunedì a venerdì sarà aperta dalle 17.30 alle 22.30, nei weekend dalle 15.30 alle 22.30. È necessario iscriversi sul sito Internet della parrocchia (parrocchiacarugate.it) o presso la segreteria dell’oratorio. Per informazioni: salgio.carugate@gmail.com. La partecipazione al percorso (dai 16 anni in poi) è gratuita e avrà una durata complessiva di circa 50 minuti, compresa di percorso di preparazione e di rilettura e analisi dell’esperienza assieme ad alcuni operatori. Castelfranco Emilia (Mo). Dalla prigione all’altare di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 14 febbraio 2021 Nella Casa di reclusione, con il supporto del cardinale Zuppi, è nato un ostificio. Chissà se gli ospiti di Castelfranco Emilia hanno nel cuore lo stesso desiderio che nutriva Gabriela Caballero poco più di sette anni fa quando, da detenuta nell’unità 47 del Penitenziario San Martín, vicino a Buenos Aires, pensò di inviare al Papa un pacco contenente ostie che lei stessa preparava nel laboratorio del carcere. Di lì a pochi giorni Francesco celebrò la messa con alcune di quelle ostie e scrisse di suo pugno una breve lettera di ringraziamento che Gabriela lesse con grande commozione, commentando così la missiva: “Sono felice di sapere che da un carcere si può arrivare in Vaticano”. Nella casa di reclusione situata a pochi chilometri da Modena, sono in tanti a sperare che avvenga lo stesso anche se ringraziamenti e attestati di stima continuano ad arrivare da tante parrocchie. Qui, infatti, grazie all’iniziativa della direttrice, Maria Martone, e al supporto dell’arcivescovo di Bologna, cardinale Matteo Maria Zuppi, è nato un ostificio all’interno del quale lavorano detenuti ed internati. “L’iniziativa nasce grazie ad un gruppo di volontari - spiega il porporato - e l’obiettivo è quello di offrire opportunità di lavoro a persone che hanno già scontato la loro pena ma che, per diversi motivi, continuano a vivere in istituto”. Castelfranco, infatti, è una casa di reclusione a custodia attenuata e casa di lavoro che ospita soggetti sottoposti a misura di sicurezza, spesso privi di riferimenti sul territorio, destinati a permanere per lunghi periodi all’interno della struttura. “Sono persone con molte fragilità, incapaci di relazionarsi. Occuparli è fondamentale, per questo cercheremo di potenziare le attività”, continua il cardinale Zuppi sottolineando che “il carcere è per la riabilitazione, deve guardare e preparare al futuro, cercare sempre l’integrazione e il lavoro è, ovviamente, una delle condizioni fondamentali. Il pregio di proposte come queste sta nel fatto che si offre un’opportunità a chi non ne ha, e ricorda che dalle case di reclusione può nascere qualcosa di buono. In più, nello specifico, ha anche una valenza spirituale. Parlano di carcere, senza però parlare di carcere”. Gli istituti di pena oggi sono concentrati sul ruolo della trasformazione degli individui. Allo stesso tempo sono la ragione principale dell’esclusione sociale. Il sistema di detenzione spesso supera la tolleranza dei diritti umani, cosa che rappresenta un enorme problema politico e sociale. Qual è l’alternativa alla cultura della pena? “Parlerei più di alternativa alla cultura della vendetta”, precisa l’arcivescovo di Bologna. “Detenzione non vuol dire chiudiamoli dentro e buttiamo la chiave. Darebbe un senso di sicurezza sbagliato, perché il più delle volte, quando si esce senza aver preventivamente costruito una strada diversa, si rientra peggio di prima. Noi dobbiamo pensare esattamente il contrario. È statisticamente provato che i detenuti che lavorano in istituto, una volta fuori non commettono gli errori del passato. Al contrario, chi non ha fatto nulla, molto facilmente torna a delinquere perché non ha motivazioni e capacità di affrontare ciò che c’è al di là del muro. Quello che sta avvenendo qui a Castelfranco è un gesto di grande speranza. E insisto sul senso spirituale: alcuni fratelli più piccoli permettono di consacrare il corpo di Gesù. Sono due aspetti che dobbiamo amare, eucaristia e ragazzi”. Una giustizia veramente a misura d’uomo comporta lo sviluppo della personalità del detenuto pur nella necessità di una giusta pena. E il compito dei volontari in questo percorso è determinante. “Senza di loro questa opportunità non ci sarebbe stata”, continua il porporato. “Rappresentano il collegamento fra il mondo dentro e il mondo fuori. In questo caso costituiscono lo snodo attraverso il quale si crea occupazione. Nell’enciclica Fratelli tutti, Papa Francesco ci dice che l’elemosina è importante per tamponare l’emergenza, ma poi devo darmi da fare per rimuovere la causa che l’ha generata”. Sulla stessa linea di pensiero dell’arcivescovo di Bologna, la direttrice dell’istituto, Maria Martone: “Si tratta di un progetto molto particolare perché coniuga l’aspetto della religiosità, che è molto sentito tra i detenuti, con quello del lavoro. Entrambi rappresentano per l’ordinamento penitenziario elementi importanti nel percorso rieducativo”. Nel descrivere il carcere di Castelfranco, la direttrice rivela che la maggior parte degli internati è priva di riferimenti familiari, alloggiativi, sociali. “Molti di loro hanno anche problematiche psichiche e queste sono tutte condizioni che nel loro insieme rendono difficile avviare un percorso di reinserimento esterno. Ci sono ospiti che vivono qui da venti anni. Questa attività è proprio per loro, perché non richiede competenze specifiche”. Martone è convinta che “non è possibile pensare ad un percorso educativo efficace se non si investe in formazione professionale e in lavoro. Questi sono soggetti che sicuramente hanno sbagliato e sono stati condannati. Ma va riconosciuta loro la possibilità di riscatto, una prospettiva di cambiamento. Il carcere nell’immaginario collettivo è sempre visto come un luogo di punizione e di chiusura. Iniziative di questo tipo consentono di offrire un quadro diverso perché l’istituto di pena può essere anche luogo di produzione, di formazione professionale, uno spazio in cui si possono generare competenze professionali, ci si può aprire al mercato esterno e all’imprenditoria. A chi mi chiede se si può investire nelle potenzialità di un carcere, rispondo che non solo è possibile, ma è anche agevole se la proposta viene accompagnata da motivazioni forti. Il reinserimento e il riscatto sono sicuramente tra queste”. Ferrara. Teatro e carcere ai tempi del Covid-19 ferraraitalia.it, 14 febbraio 2021 Le Magnifiche Utopie in dialogo di Teatro Nucleo. In dialogo tra teatro e carcere per aprire una finestra sul futuro. Tra vita, studi ed esperienze la stagione Le Magnifiche Utopie di Teatro Nucleo propone un incontro interattivo aperto alle domande del pubblico. L’incontro interattivo on line Le Magnifiche Utopie in dialogo promosso da Teatro Nucleo e dedicato alla necessità del teatro in carcere anche ai tempi del Covid-19 intreccerà esperienze di vita, pratiche e studi mercoledì 17 febbraio alle ore 18 dalla pagina Facebook di Teatro Nucleo. Diverse le prospettive che troveranno espressione nell’incontro: quella della vita, con l’intervista ad Alcide Bravi, che ha partecipato al percorso di teatro in carcere che Teatro Nucleo realizza all’interno della Casa Circondariale C. Satta di Ferrara; quella giuridica, con la Prof.ssa Stefania Carnevale, docente di diritto processuale penale dell’Università di Ferrara; quella artistica, con la presenza tra i relatori del critico teatrale Massimo Marino, studioso e autore di numerose ricerche incentrate sul rapporto tra teatro e carcere in Italia; da Ferrara si passerà all’Europa grazie all’intervento di Horacio Czertok, co-fondatore di Teatro Nucleo e del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna nonché ambasciatore per l’educazione in carcere di Epale, la piattaforma elettronica per l’apprendimento degli adulti in Europa; infine, la testimonianza del regista di Teatro Nucleo Marco Luciano si focalizzerà sulle forme del teatro in carcere nell’attuale contesto pandemico a partire dalla webserie Album di Famiglia. Il dialogo, moderato da Pietro Perelli, sarà aperto alle domande del pubblico. Una delle poche realtà in Italia che sta realizzando laboratori di teatro in carcere anche in questi mesi, Teatro Nucleo ha infatti trasformato il linguaggio attraverso cui portare all’esterno delle mura il percorso e, in attesa della riapertura dei teatri, ha scelto la forma del video breve con una web serie in dieci episodi trasmessi dalla pagina Facebook della storica Compagnia di base a Ferrara. Album di Famiglia è giunta alla metà del suo percorso - che andrà avanti fino al 18 marzo ogni giovedì alle ore 18 - e sta alimentando una grande attenzione sul carcere sia negli spettatori che nei media a diversi livelli. I temi trattati sono parte del percorso “Padri e figli”, comune a tutte le Compagnie del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna e, a partire dalle riscritture contemporanee di Amleto, esplorano con rielaborazioni biografiche dei detenuti-attori l’eredità familiare, la colpa e il perdono. Una finestra aperta sul futuro delle persone detenute e della società che li attende alla fine della pena. Le Magnifiche Utopie è il nome che Teatro Nucleo, a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, ha dato alla propria progettualità inerente al teatro negli spazi aperti. “Aperti” sono tutti quegli spazi fisici e spirituali, privati o istituzionali, emotivi e immaginari che sentono la necessità di aprirsi alla bellezza, alla poesia, all’arte e quindi al teatro: non solo le piazze, le strade o i luoghi pubblici. Tutti quei “luoghi” che hanno urgenza di trasformarsi in qualcosa di ancora irrealizzato, e trovano con il teatro la strada per farlo. Il lavoro teatrale in carcere, che Teatro Nucleo porta avanti incessantemente dal 2005 nella Casa Circondariale C. Satta di Ferrara, si pone esattamente in questa direttrice di lavoro e di pensiero. Così, la web serie di corti video-teatrali Album di Famiglia diventa il terzo appuntamento della stagione teatrale Le Magnifiche Utopie, pensata e organizzata da Teatro Nucleo per prendersi cura degli spettatori e del teatro Julio Cortàzar, continuando a tenerlo idealmente aperto anche durante l’impossibilità di percorrerne materialmente gli spazi. La prima parte della stagione, dopo l’apertura del 25 novembre 2020 con la trasposizione video di Kashimashi di e con Natasha Czertok, è proseguita il 19 dicembre 2020 con Chenditrì, spettacolo per ragazzi di Teatro Nucleo dedicato ai temi dell’ecologia e della biodiversità e con il dialogo con Fabio Fioravanti e Natasha Czertok del 29 dicembre. Dopo l’appuntamento con Album di Famiglia il percorso proseguirà secondo modalità di fruizione - in presenza o in altre forme - di volta in volta definite e comunicate in base alle disposizioni vigenti. “Ci piacerebbe che la parola chiusura potesse essere sostituita dalla parola cura. È necessaria la “cura” per superare una crisi. Per quel che possiamo, vogliamo continuare ad avere cura del nostro lavoro, del nostro teatro, tenendolo aperto e rendendolo un luogo in cui sentirsi sicuri, trovare nuovi riferimenti capaci di rafforzare il senso d’appartenenza ad una comunità, favorire l’incontro”. Perché il Teatro è la Polis e la polis è aperta, in continua trasformazione, e avanza sempre come la vita. Il cardinal Martini e la giustizia dell’incontro di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Corriere della Sera, 14 febbraio 2021 “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione”, di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti, Ed. Bompiani, Milano, pagg. 128, € 10. Che cos’è il genio? Fantasia, intuizione, decisione e velocità di esecuzione, direbbe il Perozzi di “Amici miei”. Ma anche, diremmo, si parva licet, noi: profondità di analisi, visione profetica, sguardo oltre l’ermo colle. E il cardinale Carlo Maria Martini che emerge dalle penne di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti è una persona geniale, capace di “pensieri impensabili che erano in attesa di essere pensati” anche in materia di giustizia penale. Pensieri ancora oggi all’avanguardia, che costituiscono certo un faro per il nuovo ministro della Giustizia, che in tali riflessioni si è immersa, ma che ancora faticano a trovare accoglienza nel dibattito pubblico. In un agile libro che segue una lezione a due voci in Bicocca, i due giuristi compiono un viaggio negli scritti di Martini sulla giustizia, sul senso della pena e sulle carceri. Emerge un pensiero alto, che si nutre della cultura del grande biblista ma al contempo è frutto di conoscenza diretta. Martini, ricordano gli autori, iniziò la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio San Vittore. Ed è l’esperienza ripetuta del visitare il carcere la sorgente del suo pensiero così carico di idee nuove e spiazzanti. Ciò si coglie nella sua concezione della dignità dell’uomo: non un individuo astratto ma persone incontrate, reali, sfaccettate e dunque mai congelate in eterno nel reato commesso. Con le parole di Martini stesso “l’errore e il crimine [...] indeboliscono e deturpano la personalità dell’individuo, ma non la negano, non la distruggono, non la declassano al regno animale, inferiore all’umano. Perciò le leggi hanno senso se operano in funzione dell’affermazione, dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona” e il tempo della pena è concepito come un cammino graduale, aperto, flessibile e soprattutto individuale di ciascun detenuto. E così già negli anni 90, il cardinale che tanto ha affascinato anche i non credenti e spesso irritato i movimenti cattolici più oltranzisti, iniziava a ragionare su una giustizia non solo punitiva ma riparativa, capace di rimarginare le ferite delle vittime e della società. Inaugurava così quell’esperimento della “giustizia dell’incontro” tra terroristi e familiari delle vittime che ebbe tra i protagonisti proprio Adolfo Ceretti. Una giustizia che vedeva nel riconoscimento della colpa e non nella crudeltà della vendetta la via per ricomporre i conflitti di società ferite, come avvenuto in Sudafrica dopo l’apartheid o in Colombia in anni più recenti. Non si tratta di un ingenuo sentimento di compassione e perdono per i rei ma semmai di un ragionare illuministico, della elaborazione di un modello teso a salvare insieme l’assassino e la città. Martini ha sempre una duplice attenzione, per i colpevoli e per le vittime, per la dignità di ciascuno e per le esigenze collettive di sicurezza e pace sociale. Di più: vi è l’ambizione di indicare una via per un sistema veramente efficace dal punto di vista della tutela dei cittadini e del ripristino dell’armonia dei rapporti sociali. Una via che si colloca pienamente nel solco della Costituzione ma che ancora oggi attira critiche feroci dai molti che concepiscono la pena come solo retributiva o, peggio come mera esclusione dalla società. In questo senso, Martini culturalmente non si può dire abbia vinto. Ha permesso, però, di pensare nuove e più coraggiose forme di giustizia penale, di uscire dai porti per cercare vie nuove. E questa lezione, con un altro genio che tante volte ha spiegato in musica come giustizia debba far rima con pietà, è uno dei fragili vascelli su cui imbarcarsi per affrontar del mondo la burrasca. L’impresa del bene e le sue buone pratiche sono argini contro la crisi di Gian Paolo Gualaccini* Corriere della Sera, 14 febbraio 2021 La pandemia ha fatto crescere i bisogni. Ma le reti di solidarietà del Terzo settore hanno un ruolo cruciale. Per il futuro, occorre intervenire sulla fiscalità e raddoppiare il 5xmille. La crisi dovuta alla pandemia ha sicuramente portato una crescita esponenziale della povertà e in generale delle disuguaglianze nel nostro Paese: anche la situazione del mondo del lavoro è “esplosiva” ha detto il Presidente del Cnel, Tiziano Treu. L’Italia è di fatto dentro una situazione di disastro sociale, economico ed umano. In questi ultimi mesi si è però evidenziato il lavoro del Terzo settore, delle sue reti di solidarietà in prima linea nel rispondere a nuovi e crescenti bisogni di milioni di cittadini, comunicando, oltre alle risposte, anche speranza e fiducia. In questo quadro il Governo appena dimesso aveva risposto con misure di varia natura per oltre 110 miliardi di euro ma se le lunghe code di gente in fila per un pasto caldo a Milano (e non solo, come ha raccontato anche questo inserto “Buone Notizie”) permangono, vuol dire che qualcosa non ha funzionato: vuol dire che quelle risorse sono state investite malamente, perché hanno inciso molto poco mentre il numero dei bisognosi cresce ogni giorno. La politica e il Terzo settore - Cosi si è riacceso il dibattito sul ruolo del Terzo settore e autorevoli personalità hanno addirittura proposto che, vista la miseria e l’incapacità dell’attuale classe politica, gli esponenti del Terzo settore che da sempre si occupano di bene comune scelgano di occuparsi direttamente di politica (quella con la P maiuscola) che è oggi debolissima. Ma qual è la situazione del non profit italiano che oggi appare stremato nel tentativo, di aiutare e rispondere a bisogni crescenti di tutte le categorie sociali? Stremato anche perché non considerato minimamente dalla politica e anzi sempre costretto in difesa per evitare norme e disposizioni irragionevoli e dannose puntualmente proposte dall’ attuale pessima politica (vedasi quanto contenuto nell’ ultima Legge di bilancio, art. 108 e non solo): il tutto in un quadro che ha visto il governo Conte incapace di portare a termine i decreti attuativi della Riforma del Terzo settore iniziata nel 2016. Ma quel che è peggio è l’atteggiamento di diffidenza di certa parte della nostra peggiore politica: “Questa disattenzione, al limite della sciatteria - scriveva Ferruccio de Bortoli su Buone Notizie del primo settembre parlando delle “false promesse all’impresa del bene” - mette in luce una quantità di pregiudizi nei confronti del privato sociale”. La sentenza della Corte Costituzionale n. 131 del 2020 - In fondo, siccome il principio di sussidiarietà difende il mondo del non profit dall’invadenza della politica, si finisce per affermare che l’unico soggetto titolare del bene comune è lo Stato! Certo basterebbe citare la recente sentenza (n.131 del 2020) della Corte Costituzionale che stabilisce che l’Amministrazione pubblica non è più il solo titolare del bene comune, che si realizza invece, mediante la collaborazione con i soggetti del Terzo settore in una logica di co-progettazione e non più di appalto! Come procedere - Ma allora se questa è la situazione come procedere? Innanzitutto occorre realismo, cioè distinguere quello che si può fare subito da quello che oggi non è possibile. Per esempio, una norma politica di sussidiarietà fiscale che raddoppi il 5x1000 sarebbe possibile subito! Osservo inoltre che molti esponenti del nostro mondo, vista la debolezza dello Stato, insistono a pensare, secondo me a ragione, che occorra cambiare approccio come suggerito implicitamente dalla sentenza della Corte Costituzionale sopra citata ed esplicitamente dalla Commissione Europea (ma anche dall’Oil, dall’Ocse, e dalle Nazioni Unite) che considera la “social economy” un fattore decisivo per la ripresa economica e sta lavorando ad un “Action plan for Social Economy”. Le sei macro-missioni del Pnrr - Se si leggono le sei macro-missioni e le 16 componenti funzionali del nostro Pnrr (il Piano nazionale di ripresa e resilienza) si intuisce tutta la potenzialità del Terzo settore in questi ambiti perché il Terzo settore non riguarda solo il sociale ma “un modo di fare economia in qualunque ambito”. Andando a guardare nello specifico alcuni singoli aspetti del Pnrr potrebbero essere gli enti di Terzo settore i soggetti erogatori di parte dei fondi e non le amministrazioni pubbliche: imprese sociali, fondazioni, ong ed altri Ets sono sicuramente in grado di essere assegnatari di fondi diretti. Siccome il Pnrr l’Italia dovrà presentarlo a breve, se non vuole perdere 209 miliardi, questa è la battaglia principale da fare adesso, sperando di avere nel nuovo Governo un interlocutore più attento. Contro la crisi servono un mare di buone pratiche, che già esistono e serve il desiderio di un bene comune che non lasci indietro nessuno. Tocca a noi, prima che alla politica, fare la differenza. *Consigliere Cnel-capo delegazione Terzo settore - Non profit L’Europa riconosca il vaccino come “bene comune globale” di Mauro Magatti Corriere della Sera, 14 febbraio 2021 Medici prestigiosi di tutto il mondo e l’Oms invitano tutti i Paesi membri a costruire un fronte unico contro la pandemia. Nell’ultima riunione dell’executive board, il direttore generale dell’Oms ha richiamato tutti i Paesi membri a costruire un fronte comune per superare i moltissimi “ostacoli scientifici, legali, logistici, regolativi” che sbarrano la strada all’efficacia della campagna vaccinale. E che non si tratti di un’impresa facile lo stiamo scoprendo anche qui in Italia: un conto sono gli annunci - che continuano a parlare di traguardi ambiziosi - un conto è la realtà. Dove si avanza tra ritardi e difficoltà. Sta di fatto che, al ritmo con cui si è proceduto in questo primo mese, l’obiettivo di arrivare al prossimo autunno con una immunità generalizzata è, ad oggi, molto incerto. E non ce lo possiamo permettere. Nelle ultime settimane, esponenti autorevoli del mondo sanitario - in Italia Garattini, Mantovani, Vaia - sono intervenuti per invitare le autorità politiche a non ripetere gli errori di un anno fa, a inizio pandemia. Quando ciascuno si è mosso in una logica particolaristica. Di fronte a una calamità che sta devastando l’intero pianeta, il vaccino va pensato come “bene comune globale”. Ci sono diversi ordini di ragione per andare in questa direzione. Il primo è etico. Gli effetti negativi delle politiche vaccinali sono ampiamente documentati dal decorso delle patologie infettive più recenti (Hiv/Aids, malaria, polmonite, epatite C). Troppo alto è il costo umano che si è fin qui scaricato sulle popolazioni dei Paesi poveri. L’accessibilità universale al vaccino per il Covid 19 rimane un obiettivo centrale, che non può essere messo tra parentesi. Il secondo ordine di ragioni è di tipo sanitario. Il tempo, nella lotta contro il virus, è una variabile cruciale. Quanto più esso circola (al di là di ogni confine nazionale) tanto più sono probabili mutazioni pericolose verso un “supervirus”, come dimostrano le vicende delle ultime settimane. L’insufficiente disponibilità di vaccini, o il loro costo eccessivo, è una minaccia per tutti semplicemente perché prolunga la pandemia e le sue possibili trasformazioni. Ci sono poi le ragioni economiche. Le speranze di una ripresa sono strettamente legate al successo della campagna vaccinale. Ci si trova quindi davanti a un caso in cui il vantaggio di pochi (le case farmaceutiche) rischia di prodursi a danno di molti. L’interconnessione mondiale costituisce un vincolo sempre più stringente per la prosperità economica di tutti. Infine, le ragioni politiche. Le diverse potenze si stanno muovendo nella logica della “diplomazia del vaccino”. Usando la disponibilità del siero per allargare la loro sfera di influenza, senza badare troppo alla qualità vaccinale. La Cina, il cui vaccino ha un grado di copertura relativamente basso, è attivissima soprattutto in Africa; la Russia, che dispone di un vaccino efficace, si sta muovendo soprattutto nell’Est Europa. La Ue, dopo aver saggiamente deciso la centralizzazione degli acquisti, non è, al momento, in grado di giocare un ruolo internazionale. Anche se, dopo la crisi delle forniture delle settimane scorse, l’attenzione di Bruxelles su queste questioni sta crescendo. Si possono percorrere varie strade. Negli anni 50, Jonas Salk rinunciò al brevetto sul vaccino per la poliomielite affermando: “Si può forse brevettare il sole?”. Erano altri tempi. Ma questa scelta indica comunque una direzione di senso. Gli strumenti legali (a partire dalla licenza obbligatoria) si possono trovare, tenuto conto che negli accordi Trips sui diritti della proprietà intellettuale è prevista la possibilità di derogare alla protezione brevettuale per circostanze eccezionali e periodi temporali definiti. Ed è difficile contestare che la pandemia del coronavirus rientri in questa fattispecie. È ben chiaro che gli investimenti privati nella ricerca vanno tutelati e adeguatamente remunerati. Ma la realtà è che il colossale sforzo della ricerca che ha portato in pochi mesi al vaccino è stato sostenuto con imponenti contributi pubblici e grazie alla circolazione delle informazioni tra l’intera comunità scientifica mondiale. La posta in gioco è far sì che la pandemia Covid 19 diventi un catalizzatore per un cambiamento sistemico nella gestione di crisi globali che, come sappiamo, sono destinate a ripetersi nei prossimi anni per effetto dell’interconnessione planetaria (che include l’interfaccia tra esseri umani, animali ed ecosistemi), ormai diventata strutturale. Ciò di cui abbiamo bisogno è il rafforzamento degli strumenti per la prevenzione e la protezione non solo dalle pandemie ma dai tanti possibili shock globali a cui siamo esposti (in primis quelli ambientali). La capacità di rispondere efficacemente a situazioni di emergenza deve essere vista come un investimento collettivo nella sicurezza e nel benessere comuni. La sostenibilità di cui tutti parlano si costruisce concretamente sviluppando strumenti di collaborazione e coordinamento, nella consapevolezza che né Stato né mercato - da soli - bastano per affrontare problemi di complessità e portata mai viste. La campagna vaccinale Covid 19 costituisce un difficile banco di prova per gettare le basi di nuovi modelli di governance che ci serviranno per affrontare le prossime crisi globali. Nell’ultimo anno, l’Europa si è candidata a essere leader nella costruzione di un pianeta sostenibile. Una presa di posizione della Ue sul vaccino Covid 19 come bene comune globale darebbe sostanza e credibilità a tali dichiarazioni. Web, le lobby all’attacco delle nuove regole sulla privacy di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 14 febbraio 2021 A rischio gli avanzatissimi diritti raccolti nel Gdpr, il regolamento generale per la protezione dei dati, varato dall’Europa nel 2016. Domande e risposte per capire. Fra un po’ - diciamo fra un anno, se rispettano i loro tempi - cosa bisognerà fare se vorrai impedire che il tuo profilo sia tracciato? E cosa per evitare che i tuoi dati vadano ad arricchire le Big Tech? Basterà un’oretta di operazioni ogni volta che accedi alla rete - incontrando magari una cinquantina di schermate con domande del tipo: permetti questo, sì o no? - e forse avrai risolto il problema. A meno che, comunque, i tuoi dati non siano utili “alla crescita” di nuovi servizi. Oppure: vorresti eliminare i cookie, quei file-biscottino che certo ti permettono di ricordarti le password ma che consentono, sempre agli stessi attori, di sapere quali siti hai visitato? Anche qui, potrai disfartene con un’altra cinquantina di operazioni, sapendo però che alcune pagine Web avranno il potere di rifiutarti l’accesso se li elimini. Non entri senza cookie, e sarà un loro “diritto”. Si potrebbe continuare a lungo ma bastano questi esempi per capire che la sterminata trattativa europea sulle nuove regole per la privacy (la chiamano: e-privacy) è finita nel peggiore dei modi. Per essere precisi, sta finendo nel peggiore dei modi: perché per ora c’è un testo - la cui stesura è cominciata nel 2017, otto presidenze e due parlamenti europei fa - approvato martedì dai governi. Ma l’iter è, fortunatamente, solo all’inizio: dovranno ancora esserci le trattative fra il Consiglio, la Commissione, il Parlamento. Poi il voto. Un anno, almeno. Certo di norme, di nuove norme in un settore così delicato c’è bisogno, ovviamente, anche se sono molti a sperare che stavolta l’Europa vada per le lunghe. Perché il testo base - quello approvato pochi giorni fa dai rappresentanti dei governi - è davvero preoccupante. Del resto tutta la vicenda di questa e-privacy europea è una brutta storia. Che addirittura rischia di compromettere gli avanzatissimi diritti raccolti nel Gdpr, il regolamento generale per la protezione dei dati, varato dall’Europa nel 2016. Questo nuovo testo, invece, fa capire che chi si è sentito penalizzato da quella direttiva, non ha disarmato. Una brutta storia, si diceva. Cominciata quattro anni fa con un documento che in qualche modo sembrava venir incontro all’esigenza di rafforzare la protezione degli utenti. Per un motivo o per l’altro, la sua approvazione però fu rinviata. Soprattutto per la dichiarata la contrarietà della Francia: il documento iniziale prevedeva troppi “vincoli”. Da quel momento è partita la più grande campagna lobbistica “mai vista dall’Europa”. Con un particolare in più: che in questo caso i contrasti dei quali si favoleggiava fra le multinazionali digitali e gli editori tradizionali sulla direttiva per il copyright, sono sembrati appianarsi. Tutti insieme, dalla Confindustria europea delle imprese tecnologiche, Digital Europe, alle associazioni delle società di telecomunicazioni (Etno e Gsma), ai raggruppamenti degli editori dei giornali (Emma / Enpa). Tutti insieme appassionatamente per impedire che il regolamento vietasse il tracciamento degli utenti (una piccola annotazione a margine che magari potrebbe servire da insegnamento ad una parte della stampa italiana: uno dei più autorevoli siti di informazione sulle vicende del vecchio continente, “politico.eu”, scrivendo delle vergognose pressioni lobbistiche sulle istituzioni, non si è fatto remore a nominare fra queste anche quelle esercitate da Axel Springer; che appunto è co-proprietario ed editore del sito). Comunque sia, passata la stagione di Jean-Claude Juncker, il Parlamento è stato rinnovato. Ma il testo non è riuscito ugualmente a fare passi in avanti. Anche qui, l’impasse è stata imposto dalla Francia. Ma anche un po’ dalla Germania. Imposto da Parigi che voleva misure più “flessibili” per gli editori: per esempio il ripristino dei cookie, che - a detta dei lobbisti - sarebbero indispensabili per vendere la pubblicità sui siti di informazione. Ma il veto è venuto pure da Berlino. Anche se sarebbe più esatto parlare di veti dalla Germania, al plurale. Col ministero dell’economia, saldamente in mano Cdu, a chiedere un ammorbidimento delle norme e un dicastero, quello della Giustizia, assegnato ai socialdemocratici, un pochino più attento alla protezione dei dati. Si è andati avanti così, anche quando durante la presidenza finlandese, sembrava essere ad un passo dal traguardo. Ma poi, le lobbies hanno costretto tutti a fare l’ennesima marcia indietro. Fino all’inizio di questa settimana, quando il ministro delle Infrastrutture portoghese Pedro Nuno Santos ha annunciato l’intesa fra i governi. Che è stata peggiorata, sempre su pressione francese, proprio all’ultimo secondo. Una brutta intesa, va ripetuto. Il possesso, la conservazione dei metadati - anche se formalmente vietata nell’introduzione - viene di fatto concessa con mille deroghe. È stata cancellato nel testo l’obbligo dell’”impostazione predefinita” nei browser. Così, lo si diceva prima, chi non vuole che i suoi dati siano utilizzati per la profilazione dovrà rispondere a una sterminata serie di domande su cosa consente e cosa no. Più o meno per ogni sito visitato. Il tutto, accompagnato comunque dalla precisazione che l’uso dei dati sarà legittimo se lo scopo sarà il miglioramento del servizio. Di più: se inconsapevolmente si dà il consenso, retrocedere sarà praticamente impossibile. E poi, dietro front anche sui coockie, che saranno consentiti “per determinati fornitori”. Così come la conservazione dei dati, per i quali l’e-privacy varata l’altro giorno non fissa rigidi limiti di tempo. Senza considerare la crittografia. Perché - sempre nell’introduzione - si spiega che sarà vietato qualsiasi monitoraggio: “tranne nei casi permessi”. Da definire più in là. Ce n’è abbastanza, insomma, perché Estelle Massé di Access Now racconti così questi quattro anni di trattativa: “C’era una parte che voleva proteggere la privacy, mentre un’altra parte voleva trasformare la riforma della e-privacy in un kit di strumenti di sorveglianza. I secondi hanno ottenuto quel che volevano. Ora il testo ha più buchi di una groviera”. È finita, allora? La socialdemocratica ed eurodeputata tedesca Birgit Sippel - che ha seguito le trattative - dice che per ora è evidente che “i tentativi dell’industria di erodere le regole hanno dato i loro frutti”. Ma adesso potrebbe cominciare la vera partita: quel testo va cambiato, aggiunge. Molto cambiato. “E noi, assieme a tanti, non accetteremo una corsa al ribasso”. Vedremo. Diritti umani e rapporti tra Stati, se finisce l’era dei compromessi di Sergio Romano Corriere della Sera, 14 febbraio 2021 I diritti umani e civili sono sempre più frequentemente temi caldi delle relazioni interstatali. La morte di Giulio Regeni, vittima di un brutale interrogatorio della polizia egiziana, e le disavventure di Aleksej Navalny, protagonista di una delle più imbrogliate vicende russe degli scorsi anni, sono ormai delicati casi di politica internazionale. In altri tempi i governi dell’Egitto e della Russia avrebbero invocato i privilegi della sovranità nazionale, avvolto la vicenda in un velo di silenzio e atteso pazientemente che i giornali si stancassero di parlarne. Oggi questo non è più possibile. Nel caso Regeni molti chiedono l’interruzione dei rapporti diplomatici con l’Egitto. Il governo cerca di fare capire ai suoi cittadini che l’Egitto è un Paese amico con cui l’Italia ha interessi comuni da conservare e coltivare e che la morte terribile di Regeni coincide con una fase in cui quel Paese era minacciato da sanguinosi attentati dei movimenti islamisti (anche se questo non giustifica il comportamento del Cairo). L’Italia può e deve chiedere all’Egitto maggiori chiarimenti, ma senza pregiudicare del tutto i rapporti tra i due Paesi. Le stesse considerazioni valgono per il caso Navalny. In altri tempi sarebbe stato un problema esclusivamente russo. Oggi le democrazie si credono autorizzate a dare lezioni di libertà e ad applicare sanzioni che nuocciono a chi le impone non meno di quanto facciano male allo Stato “punito”. In altri tempi i Paesi avrebbero fatto ricorso alle loro ambasciate per trovare compromessi che avrebbero smussato gli angoli e dato qualche soddisfazione a ciascuno dei due litiganti. Ma nel caso Navalny le ambasciate di Polonia, Svezia e Germania hanno deciso di riconoscere i dimostranti partecipando alle loro manifestazioni. Quando la Russia ha annunciato che i diplomatici coinvolti nella vicenda sarebbero stati restituiti al loro Paese, il gesto è parso offensivo. Ma perché Mosca avrebbe dovuto continuare a ospitare persone che avevano preferito manifestare piuttosto che interloquire pacatamente con le autorità locali? I tre Paesi hanno sostenuto che i funzionari volevano soltanto documentarsi, ma la scusa non mi è sembrata convincente. Sappiamo che il rispetto dei diritti umani e civili hanno oggi, nella società internazionale, una maggiore importanza di quanta ne avessero quando ogni Stato faceva una politica strettamente nazionale. Sappiamo quanto utile sia stato, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il lavoro dell’Onu, del Consiglio d’Europa (dove è nata la Convenzione Europea dei Diritti Umani) e di altre organizzazioni dedicate alla promozione di una maggiore amicizia fra i popoli. Ma se certe forme dogmatiche di internazionalismo umanitario finiscono per avvelenare i rapporti fra gli Stati, sarebbe meglio tornare a un maggiore rispetto delle reciproche sovranità. Forse correremmo meno rischi. Colombia. Sette mesi di silenzi sul caso di Mario Paciolla di Simone Scaffidi e Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 14 febbraio 2021 “Hola soy Mario, soy italiano, soy de Napoles. Un abrazooo”, sono le poche frasi pronunciate da Mario Paciolla in un video condiviso dal Comitato informale Giustizia per Mario Paciolla. Mario seduto al tavolino di un bar con amici, in una piazza, sorridente. Un frammento di vita quotidiana, che permette di avvicinarsi a lui non solo attraverso le sue parole e i suoi articoli ma anche attraverso i suoi gesti e il suo corpo. Sono passati sette mesi dalla notte in cui Mario, lavoratore della Missione di Verifica degli Accordi di Pace in Colombia, è stato ritrovato impiccato nella sua casa di San Vicente del Caguan. Mesi di contraddizioni, depistaggi, teorie e silenzi. Silenzi che, nonostante il dolore e le ambiguità che portano con sé, potrebbero da una parte rappresentare il preludio alla verità e alla giustizia sul caso ma dall’altra anche la volontà di nascondere qualcosa, come ha fatto intendere la famiglia. I familiari e i legali hanno deciso di mantenere un profilo basso rispetto alla divulgazione di informazioni relative alle indagini per non compromettere i lavori in corso e far sì che le informazioni sensibili non vengano strumentalizzate dalla stampa. Anna Motta, la madre di Mario Paciolla, pur non entrando nel merito delle inchieste giudiziarie, ha tuttavia condannato pubblicamente quel silenzio che assume le sembianze di omertà e ostacola la ricerca della verità. Si è rivolta a coloro che hanno informazioni su quanto è successo a suo figlio ma che per una serie di ragioni o pressioni hanno deciso, per ora, di non parlare e in una recente intervista ha ribadito che si è trattato di omicidio: “Per ora noi non abbiamo ancora nessuna verità. Mario è stato ucciso quattro ore dopo aver fatto un biglietto di ritorno in Italia. Lui stava scappando dalla Colombia perché probabilmente è stato testimone di qualcosa che non andava bene”. Le Nazioni Unite hanno voluto fin da subito mantenere riserbo sul caso, catalogando nei propri archivi la morte di Mario Paciolla sotto la voce “suicidio” ma dichiarando di star svolgendo un’indagine interna per chiarire l’accaduto. Il 14 gennaio 2021 il portavoce del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Stéphane Dujarric, sollecitato da La Voce di New York in merito a questa indagine interna, ha commentato il caso con queste parole: “L’Onu sta lavorando con le relative autorità in Colombia e in Italia, che hanno la responsabilità principale dell’indagine criminale. Noi stiamo continuando a lavorare per rendere loro disponibili le informazioni. Questo è quello che posso dire”. Alla commemorazione di Mario Paciolla, avvenuta a Napoli, quindici giorni dopo la sua morte, alte cariche politiche italiane, il Ministro degli Esteri Luigi di Maio e il Presidente della Camera Roberto Fico, accompagnate dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris e dal senatore Sandro Ruotolo, si sono impegnate a lavorare affinché si raggiunga la verità sul caso. Luigi Di Maio il 23 luglio 2020, aveva risposto all’interrogazione parlamentare del senatore del Movimento Cinque Stelle Gianluca Ferrara, dichiarando: “Ci è stato confermato che è stata avviata un’indagine interna che vede per il momento impiegate capacità investigative della stessa Missione Onu. Abbiamo chiesto e ottenuto che sia condotta in maniera rapida e approfondita, gli esiti saranno tempestivamente condivisi con la nostra ambasciata a Bogotà e con la rappresentanza a New York”, e aggiungendo: “Il nostro lavoro come Farnesina sarà quello di garantire il massimo coordinamento tra le attività delle autorità coinvolte e su questo vi assicuro la massima tempestività e il massimo impegno”. Da quei giorni non ci sono state esternazioni pubbliche sul caso da parte del Ministero o da rappresentanti dello stato. Da più di un mese proviamo a richiedere telefonicamente e via mail dichiarazioni e interviste, ma senza successo, nonostante ci sia stato ribadito che il ministro degli Esteri Luigi di Maio ha a cuore la vicenda e la vuole gestire in prima persona. Il silenzio è protagonista anche dall’altro lato dell’oceano, dove le autorità colombiane non hanno rilasciato dichiarazioni e non sono stati forniti ulteriori dettagli all’indomani dell’autopsia, eseguita pochi giorni dopo la morte di Mario Paciolla e il cui responso propende per l’ipotesi del suicidio. Nel frattempo in Colombia la tensione continua ad aumentare, dall’inizio dell’anno sono stati compiuti 11 massacri e 21 leader politici, sindacali, contadini, afro-discendenti e indigeni sono stati assassinati. Il primo omicidio di un ex combattente delle Farc del 2021 è avvenuto nel Caqueta, la regione dove Mario lavorava con la Missione di Pace dell’Onu, dove Duvan Galindez Nadia è stato freddato con colpi d’arma da fuoco in un ristorante di Cartagena del Chairá. L’impunità di questi crimini in Colombia è quasi totale: tra l’86% e il 94% degli omicidi rimane impune, percentuale che sale al 95% se si considerano i 310 omicidi di leader sociali del 2020. In Colombia si uccide chi si batte a favore dei diritti umani, della pace e della giustizia sociale senza che questo comporti sanzioni o pene per gli esecutori e i mandanti politici. Continuare a cercare la verità riguardo la morte di Mario Paciolla significa anche scalfire il muro di omertà e impunità che avvolge il regime di Ivan Duque in Colombia e accendere un riflettore sul massacro di attivisti che cercano giustizia nel contesto di un conflitto militare che non è mai cessato e, anzi, vive una delle fasi più violente degli ultimi anni. Francia. Carcere e Covid, il rischio di una doppia pena di Charles de Pechpeyrou osservatoreromano.va, 14 febbraio 2021 “Una sorta di doppia pena”, che crea e alimenta numerose paure tra i detenuti, il cui accompagnamento medico e spirituale si è rivelato tanto più fondamentale in questi ultimi mesi: è quanto ha osservato in questi tempi di pandemia suor Anne Lécu, teologa domenicana, da più di vent’anni medico nel carcere di Fleury-Mérogis, a sud di Parigi, il più grande d’Europa. La religiosa, autrice di numerose opere tra cui Hai coperto la mia vergogna e Il senso delle lacrime, spiega a “L’Osservatore Romano” come detenuti, personale curante e cappellani hanno dovuto affrontare situazioni inedite, dimostrando a volte una grande creatività per continuare a rimanere in contatto in tempi di confinamento, nonostante i numerosi divieti imposti per motivi sanitari. In reazione al “caos” provocato dalla crisi sanitaria, suor Anne segnala un aggravamento delle condizioni delle persone che soffrono di depressione e di disturbi alimentari. E ricorda quanto sia necessaria la “tenerezza divina”, fatta di contatti, amicizia, affetto e convivialità. Dall’inizio della pandemia, come si è adattato il sistema carcerario francese alla situazione? Quali sono state le priorità? Come tutti, abbiamo dovuto adattarci e cercare di organizzarci in un arco di tempo molto limitato. Misure di lockdown, riduzione dell’attività ambulatoriale per favorire la sorveglianza delle persone vulnerabili, isolamento delle persone sospette, poi test quando ne avevamo a disposizione. Questo corrisponde alla nostra missione: infermieri penitenziari, in Francia siamo sotto la supervisione del ministero della salute. Le persone nelle mani della giustizia devono ricevere le stesse cure di coloro che non sono incarcerati. È in ogni caso lo spirito della legge del 1994 che ci ha collegati al ministero della salute, 26 anni fa. Inoltre, abbiamo rilasciato molti certificati medici per facilitare la liberazione anticipata speciale dei detenuti vulnerabili, e i giudici hanno fatto di tutto per agevolare queste scarcerazioni. Il carcere è per definizione un luogo di isolamento: come vivono i detenuti questa crisi sanitaria? Sono psicologicamente più “preparati” ad affrontare questa pandemia? Come giudicano il comportamento delle persone “al di fuori”? Ovviamente si tratta in un certo senso di una pena doppia per i detenuti, soprattutto durante il primo lockdown, molto severo, durante il quale le sale delle visite sono state chiuse e ogni attività è stata interrotta. Fortunatamente, approfittando della bella stagione, la direzione carceraria del mio istituto ha organizzato anche iniziative all’aria aperta. Inoltre, il governo aveva già deciso di installare un telefono in ogni cella e l’istituto femminile in cui mi trovo ha avuto la possibilità di disporre del telefono fin dall’inizio del blocco, il che ha addolcito un po’ le cose. In ogni caso ovviamente non si può dire che i detenuti siano preparati meglio degli altri ad affrontare una pandemia. Nessuno è preparato per questo. D’altronde erano molto preoccupati, consapevoli che la propagazione dell’epidemia in carcere poteva provenire dal personale infermieristico o carcerario. Ecco perché si sono sentiti rassicurati quando hanno tutti ottenuto le mascherine. Viceversa, la promiscuità forzata significa più rischio di contagio, in particolare nei centri carcerari sovraffollati... Certo, la promiscuità è un fattore aggravante. L’abbiamo visto soprattutto durante il secondo lock-down, perché lì non era previsto un massiccio sconto di pena come durante il primo, e in alcuni istituti, il ritardo nell’isolare i detenuti venuti in contatto con le persone contagiate ha permesso all’epidemia di progredire. Quali sfide etiche pone questa pandemia per l’ambiente carcerario? Quali sono i detenuti più a rischio? Questa epidemia provoca il caos e il caos a volte può ribaltare le situazioni. Occorre quindi sia cogliere le opportunità che si presentano per curare meglio la salute delle persone detenute, sia al tempo stesso fare attenzione a non essere indotti ad accettare alcune disfunzioni che poi rischiano di diventare permanenti. Siamo attualmente sotto forte pressione da parte delle prefetture che chiedono al personale curante di effettuare test molecolari al fine di facilitare le espulsioni dal territorio nazionale dei detenuti che hanno avuto come sanzione il divieto di soggiorno in Francia. Tuttavia, noi medici non dipendiamo dal ministero della giustizia o dell’interno. E praticare un test per l’espulsione a una persona per la quale, tre giorni prima, abbiamo fatto un attestato affinché rimanga nel territorio per gravi motivi di salute ci mette in una posizione impossibile. Come si è svolta la cura pastorale dei detenuti, considerando che i cappellani non erano autorizzati ad entrare nelle carceri? È stato molto complicato ma si è assistito a iniziative speciali, come la creazione di un “numero verde” gratuito per permettere ai detenuti di telefonare a un cappellano che si rendeva disponibile in una determinata fascia oraria. Il feedback è stato molto interessante. Purtroppo non è stato possibile rendere questo progetto definitivo. I cappellani hanno enormi sfide da superare: in particolare, dopo essere stati via per mesi, come possono riprendere la loro missione? A quale riflessione teologica ha portato la sua esperienza di questi mesi? Credo che sia essenziale riflettere sulla “presenza reale”. Alcune cose - le più importanti nella vita - si possono fare solo concretamente: coprire colui che ha freddo, guarire, consolare. Ci sarebbe anche una riflessione da fare sulla celebrazione eucaristica di cui spesso siamo stati privati, e sul posto che occupa la Parola di Dio in questo tempo. Chi si è preso la responsabilità di uscire per incontrare i più deboli (penso ad esempio alla pastorale dei funerali: alcuni hanno organizzato cerimonie all’aperto, nel loro giardino), sta meglio psicologicamente di chi ha non ha trovato il modo di incontrare gli altri. È anche una linea di riflessione interessante in termini di etica. Cosa può insegnarci questa pandemia nel nostro rapporto con il corpo? Credo si capisca meglio che il corpo non è virtuale. Esplorare la questione dell’incarnazione è auspicabile. Mi sembra che uno degli effetti collaterali molto gravi della pandemia si esprime attraverso il numero elevato di persone che soffrono di depressione, disturbi alimentari (per i più piccoli in particolare) e dall’aggravamento delle patologie psichiatriche. Per vivere, come diceva così giustamente il teologo e filosofo Maurice Bellet, abbiamo bisogno di mangiare, bere, respirare, dormire, e soprattutto forse di “tenerezza divina”: contatti, amicizia, affetto, abbracci, convivialità... E potremmo prolungare l’elenco: dobbiamo arricchire noi stessi attraverso il teatro, il cinema, la musica, tutto ciò che condividiamo con gli altri e che cementa la nostra vita. In una visione cristiana, il più spirituale è sempre il più incarnato. Brasile. Occorre riformare il sistema detentivo di Francesco Ricupero L’Osservatore Romano, 14 febbraio 2021 Nel 2020 oltre ai morti per il coronavirus sono nettamente aumentati gli episodi di violenza, i casi di tortura e le violazioni dei diritti umani nelle carceri brasiliane. È quanto emerge dall’ultimo rapporto sugli istituti di pena pubblicato dalla pastorale carceraria che illustra le difficili condizioni dei circa 800.000 detenuti, costante preoccupazione per la Chiesa e le organizzazioni caritative cattoliche. “Abbiamo ricevuto attraverso vari canali - conferma al nostro giornale il missionario della Consolata padre Gianfranco Graziola, membro del Coordinamento nazionale della pastorale carceraria brasiliana - numerose denunce di episodi di tortura all’interno degli istituti di pena”. I casi denunciati nel 2020 sono cresciuti di quasi il doppio rispetto a quelli registrati nel 2019. Tra il 15 marzo e il 31 ottobre del 2020, la pastorale carceraria, che pubblica il rapporto dal 2010, ha ricevuto 90 denunce di casi di tortura, contro le 53 dello stesso periodo del 2019. Padre Graziola non ha dubbi nell’affermare che “per sua natura il sistema carcerario è tortura, le forme coercitive sono le più svariate e non si limitano alla semplice violenza fisica, ma hanno a che vedere con la violazione dei diritti essenziali dell’individuo, come l’ora d’aria, l’acqua, i prodotti per la pulizia personale, il cibo, nonché il diritto all’incontro con i familiari, che in teoria, vista l’emergenza sanitaria, dovrebbe avvenire in video, ma che in molti casi non è stato fatto o se si è svolto - rimarca il missionario della Consolata - con un controllo da lager da parte degli agenti penitenziari per impedire che circolassero notizie all’esterno sulla reale situazione pandemica”. Le violazioni avvengono nella quasi totale indifferenza delle istituzioni. La maggior parte delle denunce inoltrate alle autorità non hanno avuto seguito. Spesso lo Stato si rifiuta persino di indagare sulle denunce. “Purtroppo - prosegue il sacerdote - i numeri che le segreterie diffondono sulla questione penitenziaria sappiamo non essere attendibili e sono ben al di sotto della realtà della pandemia che, se è letale in un ambiente normale, immaginiamo nei luoghi dove le condizioni igienico-sanitarie sono pessime e il sovraffollamento non consente di mantenere le distanze richieste dagli organismi sanitari”. In Brasile l’impatto della pandemia, infatti, è stato particolarmente drammatico nelle carceri. Il Paese sudamericano, infatti, con 800.000 detenuti e detenute, è al terzo posto nel mondo per popolazione carceraria, dopo Cina e Stati Uniti. Secondo il rapporto, solo tra maggio e giugno, durante il primo picco della pandemia, nelle carceri si è registrato un aumento del 100 per cento dei morti, mentre nello stesso periodo i contagi sono cresciuti dell’800 per cento. L’unica vera soluzione percorribile, secondo Graziola, “è la riforma delle carceri con la trasformazione del sistema penale da punitivo e vendicativo a un tipo di giustizia riparativa, che aiuti e si preoccupi realmente del bene della persona. Credo che i temi dell’ecologia integrale e del rispetto della casa comune - conclude il responsabile - siano fondamentali per la costruzione di “un mondo senza prigioni” che i popoli nativi hanno elaborato e sintetizzato nel “ben vivere” e “nella terra senza mali” o, come direbbe san Paolo VI, nella “civiltà dell’amore” rielaborata e attualizzata da Francesco in Fratelli tutti”. Costa d’Avorio. Gli otto bambini che sfidano le multinazionali del cioccolato di Riccardo Liberatore open.online, 14 febbraio 2021 Parte la causa per aver lavorato come schiavi nelle piantagioni di cacao. Sono stati reclutati nel Mali quando erano ancora piccoli e costretti a lavorare senza alcuna retribuzione nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio. Gli hanno persino tolto i documenti per evitare che fuggissero. Adesso che non sono più bambini ma giovani adulti, otto di loro hanno deciso di fare causa ad alcune delle multinazionali più importanti nel settore - Nestlé, Cargill, Barry Callebaut, Mars, Olam, Hershey e Mondel?z - accusandole di sfruttare la manodopera di migliaia di minorenni trattati come schiavi per coltivare e raccogliere la materia prima usata per produrre i cioccolatini, tra cui quelli che verranno consumati a quintali proprio a San Valentino. La condizioni di lavoro - Come racconta il Guardian, uno di questi bambini è stato reclutato a soli 11 anni nella sua città natale di Kouroussandougou, nel Mali, con la promessa di un lavoro in Costa d’Avorio e un stipendio di 34 sterline al mese. Dopo due anni passati a lavorare nei campi in cui è stato costretto a svolgere mansioni logoranti e pericolose, come applicare pesticidi ed erbicidi senza le protezioni necessarie, neanche quelle 34 sterline si sono mai materializzate. Anche un altro bambino, che riportava tagli sulle braccia e sulle mani a causa di incidenti sul lavoro con un machete, dopo anni non ha mai visto una sola sterlina. Molti dei querelanti citati nei documenti del tribunale riferiscono di essere stati nutriti poco e di aver lavorato giornate lunghissime. Spesso affermano di essere stati isolati o separati da bambini che parlavano altri dialetti. L’accusa - Una delle accuse centrali della class action indetta per conto di questi bambini dall’ International Rights Advocates (Ira) a Washington D.C., la prima del suo genere negli Stati Uniti, è che gli imputati, pur non possedendo le coltivazioni di cacao in questione “hanno approfittato consapevolmente” del lavoro illegale dei bambini nel Paese che, stando ai dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), viene produce il 32% del cacao al mondo. Secondo l’accusa, le aziende erano in grado di fornire prezzi di molto inferiori rispetto a quelli che avrebbero realizzato assumendo degli adulti e non dei bambini per lavorare nei campi e utilizzando le protezioni necessarie. Inoltre, le società sono anche accusate di aver ingannato attivamente il pubblico impegnandosi nel 2001 ad “eliminare gradualmente” il lavoro minorile, un obiettivo che doveva essere raggiunto nel 2005 (secondo il protocollo Harkin-Engel), ma che non si è mai avverato. Interpellate dal Guardian, diverse aziende hanno preferito non commentare. La Nestlé ha affermato che la causa “non promuove l’obiettivo comune di porre fine al lavoro minorile nell’industria del cacao” aggiungendo che “il lavoro minorile è inaccettabile e va contro tutto ciò che sosteniamo”. Nel frattempo, stando a quanto deciso dalla World Cocoa Foundation, un ente industriale a cui appartengono tutti gli imputati, la scadenza per eliminare il lavoro minorile dalle proprie filiere è slittata al 2025. Ecco perché in Myanmar c’è stato il golpe militare di Fabio Polese Il Giornale, 14 febbraio 2021 Risultati elettorali annullati e arresti di massa solo per timore che i generali perdessero potere e privilegi. Il primo febbraio il Tatmadaw l’esercito del Myanmar ha preso il potere con un colpo di Stato, proprio nel giorno in cui i vincitori delle ultime elezioni del National League for Democracy (Nld) di Aung San Suu Kyi si sarebbero dovuti riunire nella capitale Naypyidaw per l’inaugurazione del nuovo Parlamento. Min Aung Hlaing, il numero uno delle forze armate, ha preso il controllo del Paese e ha nominato l’ex generale Myint Swe presidente ad interim. In simultanea con il golpe militare, diversi esponenti di spicco del movimento per la democrazia, compresa la stessa Suu Kyi, sono stati arrestati. Nei giorni successivi sono iniziate le proteste di piazza in molte città del Paese, che hanno visto centinaia di migliaia di persone chiedere la liberazione dei detenuti politici e il rispetto dei risultati elettorali del novembre scorso, che hanno visto la vittoria schiacciante del Nld. Nelle settimane prima del golpe, i militari avevano denunciato irregolarità nelle votazioni, affermando “di aver identificato milioni di casi di frode” minacciando di “passare all’azione” se le accuse di brogli non fossero state considerate dal governo. Secondo Zachary Abuza, docente al National War College di Washington ed esperto di Sud-Est asiatico, “il golpe era prevedibile perché l’esercito aveva la legittima preoccupazione che con l’83% dei voti, la Suu Kyi potesse spingere per emendamenti costituzionali che li avrebbero indeboliti. Con un forza elettorale così schiacciante, infatti, la leader del Nld, al contrario del primo mandato, dove sostanzialmente non ha fatto nulla per provare a cambiare la situazione, avrebbe anche potuto non fare dei compromessi con loro”. Nonostante si sia spesso parlato di un nuovo corso del Myanmar verso la democrazia, facendo di fatto aprire il Paese agli interessi occidentali, i militari hanno continuato ad avere un enorme potere, controllando la vita politica, economica e sociale della ex Birmania. “Credo che l’Occidente sia stato troppo frettoloso nel definire la Birmania una democrazia e allentare le pressioni in questi anni. Dal 2015, nel migliore dei casi, si è trattato di un regime ibrido o una quasi democrazia. È chiaro che dopo cinque decenni di dittatura militare, gli ultimi sviluppi politici sono stati promettenti”, sostiene Abuza. “L’esercito ha sempre mantenuto un potere incredibile. Basti pensare che il 25% del parlamento è riservato a loro indipendentemente dall’esito delle elezioni e controllano anche il ministero degli Interni, quello della Difesa e quello per gli Affari di confine, oltre a gestire vaste fasce di risorse naturali, che anche grazie alla guerra costante nelle zone etniche, gli garantisce privilegi unici”, spiega l’analista. Ma non solo: la vecchia giunta militare che ha comandato e insanguinato il Myanmar per decenni, è parte del Consiglio per la difesa e la sicurezza nazionale, che in qualsiasi momento gli avrebbe permesso di modificare le leggi considerate pericolose per l’unità e la sicurezza della Nazione. Min Aung Hlaing è il numero uno delle forze armate birmane dal 2011, proprio in concomitanza con l’inizio della transizione democratica del Myanmar. Da soldato taciturno si è trasformato in un politico molto attivo e in poco tempo è diventato l’uomo più potente del Paese. Nominato a capo delle forze armate al posto del generale Than Shwe, padre-padrone del Paese dal 1992 al 2011 e tuttora “padrino” del Tatmadaw, è stato considerato l’uomo giusto per garantire la continuità delle pressioni militari nella vita politica birmana, anche se ha ricevuto condanne e sanzioni internazionali per il suo ruolo nelle atroci violenze contro la minoranza musulmana Rohingya. Nel 2018, infatti, una missione indipendente istituita dal Consiglio dei diritti umani dell’ONU aveva accusato proprio Min Aung Hlaing e diversi alti funzionari militari di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Nonostante il controllo costante dell’esercito nel Paese, durante questi ultimi anni le sanzioni internazionali sono state revocate e il denaro degli investitori stranieri, delle istituzioni finanziarie internazionali e delle agenzie di aiuto si è riversato in Myanmar, facendo ingrassare i portafogli dei vecchi generali del Tatmadaw. “Le riforme non sono mai state intese a realizzare la storia di successo democratico in cui il mondo era così disposto a credere”, spiega Yadanar Maung, portavoce di Justice for Myanmar (Jfm). Ma “erano semplicemente la fase successiva di un piano diverso e più oscuro per espandere la ricchezza dell’élite militare. La fase precedente era quella di stabilire una rete di canali in tutte le parti dell’economia per garantire che i benefici del boom economico della Nazione fluissero direttamente ai vertici delle forze armate”. Il futuro della ex Birmania è incerto, ma sicuramente i militari non lasceranno il potere facilmente. Secondo il decente del National War College di Washington, “sebbene l’esercito abbia annunciato di mantenere il controllo per un anno e voler poi tenere nuove elezioni, ci troveremo di fronte a una situazione molto simile a quella che stiamo vedendo in Tailandia, dove lo stato di emergenza è stato esteso. Penso che studieranno ciò che il premier Prayut Chan-o-cha ha fatto nel suo Paese: partiti politici esautorati, potere consolidato nelle mani di organismi non eletti e controllati dai militari”. Non a caso, infatti, nei giorni scorsi Min Aung Hlaing ha inviato una lunga lettera al leader thailandese spiegando i motivi del golpe e chiedendogli supporto.