Case di Lavoro, un “carcere” senza processo di Giovanni Monaco cr.piemonte.it, 13 febbraio 2021 È necessario “rivedere e riconsiderare l’istituto delle misure di sicurezza, che per come oggi sono svolte all’interno delle cosiddette Case lavoro, rappresentano un rudere, un fossile vivente”, come ha spiegato l’organizzatore del seminario Bruno Mellano, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà del Consiglio regionale del Piemonte. Secondo Franco Corleone Garante della Regione Toscana, si tratta addirittura di “una vera e propria truffa. Perché non è accettabile che in Italia ci siano 330 persone rinchiuse in posti che fanno a pugni con la definizione di “Casa lavoro”. Una denominazione che rimanda a un concetto buono, lontano dal luogo carcerario. Però abbiamo praticamente solo ex prigioni o ex ospedali psichiatrici giudiziari, quindi non sono case e non c’è il lavoro”. L’occasione per una sensibilizzazione sul tema è stato un incontro in videoconferenza, intitolato “Senza Casa, senza Lavoro: gli internati in misura di sicurezza e il caso Piemonte”, organizzato dal garante piemontese. La nostra regione, del resto, “con 53 internati nella sede di Biella, è sul podio per numero di soggetti interessati. 78 sono in Abruzzo, 54 in Emilia Romagna, 35 in Sicilia, 23 in Sardegna eccetera”, ha ricordato Mellano, chiarendo che “la situazione subalpina è ancora più difficile, perché al momento si definisce Casa-Lavoro una sezione del carcere di Biella, con la prospettiva incerta di spostare gli internati suddividendoli fra Alba ed Alessandria. Sempre rigorosamente in ambito penitenziario”. Nelle Case lavoro vanno le persone considerate socialmente pericolose, non condannate, né processate e molti interventi hanno messo in luce l’aleatorietà della definizione che talvolta può avere questa decisione. Per Alessandro Prandi, Garante della Città di Alba, “gli internati non sono colpevoli, non sono innocenti, sono considerati pericolosi. Vengono privati della libertà sino a che questa condizione non cambia. Si tratta di persone che spesso non hanno nemmeno avuto un processo. Oggi le case lavoro hanno celle, sbarre e agenti. Sono popolate da disperati, malati di mente, tossicodipendenti, infermi, stranieri senza documenti, persone fragili”. Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della Libertà, ha portato un saluto iniziale, ricordando che “l’attuale casa lavoro ha poco di dissimile rispetto alla detenzione e nel caso di rilascio le persone si ritrovano a tornare nel loro contesto, ma senza casa e senza lavoro”. D’accordo anche Sonia Caronni esperta di esecuzione penale, Garante della Città di Biella, ha ricordato che “si tratta di percorsi di reclusione lunghissimi, che alienano totalmente dalla vita esterna le persone che passano anni e anni all’interno di queste strutture. È risultato quasi impossibile il reinserimento nella società, quando abbiamo provato”. Per Francesco Maisto Garante detenuti Milano, “il concetto di pericolosità sociale ha un’inconsistenza scientifica. La domanda a questo punto è: assimilando di fatto la pena e la misura detentiva a queste misure restrittive, non è fondato porre una questione di costituzionalità su questo punto?” Katia Poneti, esperta giuridica presso il Garante della Toscana, ha sottolineato che “i reclusi non sono persone con una carriera criminale, ma molto spesso soggetti con gravi problemi personali”. Per Marco Pellissero, Docente di Diritto Penale dell’Università di Torino, “le misure di sicurezza per i soggetti imputabili sono anche una palese truffa delle etichette, specie quando l’esecuzione della misura si identifica sostanzialmente con l’esecuzione della pena”. Stefano Anastasia, Portavoce nazionale dei Garanti regionali e territoriali, ha concluso i lavori sostenendo “che le necessità di contenere la marginalità è frutto di una cultura penalistica e giuridica del secolo scorso, che io considero incompatibile con i principi costituzionali. Oggi è decontestualizzata rispetto a quella casa di lavoro che si pensava di realizzare e quindi dovremmo semplicemente e radicalmente cancellarla”. Sono intervenuti anche Valeria Quaregna responsabile degli educatori del carcere di Biella, che ha confermato le gravi problematiche gestionali degli internati e il Provveditore della Amministrazione Penitenziaria del Piemonte Liguria e Valled’Aosta, Pierpaolo D’Andria, che ha assicurato l’attenzione del Ministero di Giustizia alla delicata questione, annunciando che si è in una fase di riflessione sulle decisioni da assumere. Più attività sportive in carcere, firmato protocollo tra Dap e “Sport e Salute” spa di Maria Gabriella Romano gnewsonline.it, 13 febbraio 2021 Si è svolta ieri a Roma, al Parco del Foro Italico, la cerimonia di sottoscrizione di un Protocollo d’Intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) e Sport e Salute S.p.a, la struttura che per conto dello Stato si occupa di rendere funzionali e realizzabili i progetti del movimento sportivo italiano su tutto il territorio nazionale. Il documento è stato sottoscritto dal Vice Capo del Dipartimento Roberto Tartaglia e del Presidente della Sport e Salute S.p.a. Vito Cozzoli che, prima della cerimonia della firma, hanno illustrato i punti salienti dell’accordo che permetterà inoltre al Dap di ottenere importanti finanziamenti per migliorare le condizioni delle strutture sportive interne agli istituti penitenziari, tanto quelle in uso alla popolazione detenuta, quanto quelle utilizzate dal personale del Corpo di Polizia Penitenziaria. “La sinergia che si è creata con Sport e Salute, frutto di reciproca stima con il suo Presidente, ha permesso di conseguire questo primo, importante risultato - ha dichiarato al termine della cerimonia il Vice Capo del Dap Tartaglia. Sport e Salute contribuirà corposamente in primo luogo alla realizzazione degli obiettivi di recupero sociale dei condannati negli istituti penitenziari ma, ancor di più, ad avviare alle attività sportive il personale dell’Amministrazione e del Corpo di Polizia Penitenziaria. La sistemazione delle strutture sportive in uso allo stesso personale ci permetterà anche di valorizzare il capitale umano attivo nella cosiddetta ‘prima linea’, per le non comuni capacità e senso di attaccamento al dovere che non scopriamo certo oggi”. “Siamo felici di aver realizzato questo accordo con il Dipartimento - sono le parole del Presidente di Sport e Salute Cozzoli -. Ho presieduto la Commissione Giustizia della Camera in precedenti legislature e comprendo la delicata missione dell’Amministrazione Penitenziaria e lo straordinario sforzo di inclusione per il recupero dei detenuti. Ringrazio il Dap, il Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre e la Polizia Penitenziaria per quanto abbiamo fatto oggi”. L’accordo permetterà di realizzare all’interno degli istituti penitenziari numerosi progetti finalizzati all’avvio della pratica sportiva di base in molteplici discipline. Con l’intesa, il Dap si impegna a favorire sia il benessere del personale dell’Amministrazione penitenziaria, appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria e al Comparto delle funzioni centrali, sia a implementare sensibilmente l’offerta trattamentale diretta alla popolazione detenuta attraverso la pratica delle attività sportive. La pianificazione degli interventi progettuali avverrà con l’ausilio del personale tecnico del Gruppo Sportivo delle Fiamme Azzurre e di quello delle Federazioni Sportive Nazionali. Alla cerimonia hanno preso parte alcuni atleti del Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre del Corpo di Polizia Penitenziaria, fra cui il pugile Clemente Russo, vincitore della medaglia d’argento olimpica, Eleonora Giorgi, vice campione del mondo nella marcia 50 chilometri e Annalisa Minetti, atleta paralimpica accompagnata dall’atleta guida Stefano Ciallella, sovrintendente di Polizia Penitenziaria. Marta Cartabia alla Giustizia: una vita da giurista tra l’Italia e il mondo di Liana Milella La Repubblica, 13 febbraio 2021 Docente di diritto, ha presieduto la Corte costituzionale fra il dicembre 2019 e il settembre 2020. Si sa tutto di Marta Cartabia, classe 1963, fino alla sua elezione plebiscitaria, l’11 dicembre 2019, al vertice della Consulta, prima donna a ricoprire quell’incarico dopo 45 presidenti al maschile. È noto come abbia mescolato la sua vita di accademica, con un’attenzione specifica al diritto costituzionale europeo, con quella di moglie e di madre di tre figli. Sappiamo che è anche una sportiva, corre tutte le volte che può e ama la montagna, anche se alla fine del suo mandato alla Corte ha scelto di riposare per una settimana a Favignana. L’inglese è la sua seconda lingua. Ha vissuto negli Usa e lì è nato il rapporto con un “professorone” come Joseph Weiler che di lei vanta “la straordinaria erudizione” e al contempo “l’originalità e creatività”. Sappiamo altresì che ha scritto di giustizia, con Luciano Violante, il saggio “Giustizia e mito” nel 2018 (Il Mulino) e ancora, appena l’anno scorso, con Adolfo Ceretti, un volume con un titolo che di sicuro piace ai garantisti, “Un’altra storia inizia qui, storie di giustizia riparativa” (Bompiani). Ed è la giurista che sulla giustizia, a Repubblica, appena eletta presidente della Corte costituzionale dice: “La giustizia deve sempre esprimere un volto umano: ciò significa anzitutto, come dice l’articolo 27 della Costituzione, che la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità, ma che la giustizia deve essere capace di bilanciare le esigenze di tutti”. “Una cura che salvi insieme assassino e città”, come diceva il cardinale Martini. Ma c’è la Cartabia di questo ultimo anno, quella post Consulta, che definisce i dettagli del suo ritratto. Eccola, il 18 agosto dell’anno scorso, mentre tiene una lectio su Alcide De Gasperi nel paese in cui nacque, Pieve Tesino. Lei ragiona su “Costituzione e ricostruzione”, giusto mentre a Rimini, al Meeting di Comunione e liberazione, c’è Mario Draghi che cita a sua volta lo statista democristiano. È cattolica Cartabia, certo, non ne ha mai fatto mistero, ma i laici la stimano, tanto da conferirle nell’agosto 2020, il premio Spadolini per i suoi studi sull’Italia in Europa. Alla Consulta, tutti sottolineano la sua capacità di ascolto e di attenzione alle posizioni degli altri, senza pregiudizi, anche sui temi più delicati. È una giurista che dedica molta attenzione alla scuola e all’università, al futuro dei giovani, dei quali parla a Pisa, quando il Collegio Sant’Anna le assegna il dottorato honoris causa e lei tiene una prolusione dal titolo indicativo, “Per l’alto mare aperto: l’università al tempo della grande incertezza” e dice: “I giovani devono tornare a essere la priorità tra tutte le priorità di questo inaspettato presente e devono essere preservati come bene essenziale perché qui si gioca una partita decisiva anche per la società e la democrazia di domani”. Era il 9 dicembre, ma è impossibile non cogliere la consonanza con le parole appena pronunciate da Draghi sul rilancio della scuola. Chiuso il lungo novennato alla Consulta Cartabia torna al suo mondo, l’università. Lei, che ha insegnato a Milano Bicocca prima di diventare giudice costituzionale nel 2011, passa alla Bocconi. In inglese, agli studenti del quarto anno, tiene il corso di Costitutional justice ed è soddisfatta perché, come dice, “erano tutti motivatissimi e partecipativi e nonostante la didattica a distanza rispondevano benissimo”. Alla fine, agli esami, hanno preso anche ottimi voti. Il diritto è la sua vita, da sempre. Nel 2017 la chiamano a far parte della Venice Commission, la commissione del Consiglio d’Europa che dà pareri tecnici del tutto indipendenti su questioni di diritto costituzionale ai paesi che ne facciano richiesta. In passato, aveva già fatto parte, come esperto indipendente, dell’Agenzia dei diritti fondamentali che ha sede a Vienna. Il 25 gennaio ha presentato il report dell’Agenzia con il direttore Michael O’ Flaherty. Un testo che evidenzia come l’Italia, insieme ad altri quattro paesi della Ue, non ha una National Human Rights Institution pur richiesta dalle Nazioni unite sin dal 1993. Ma quando Cartabia parla dei suoi incarichi ci tiene a sottolineare che hanno tutti “una caratura tecnica, e mai politica”. È il suo profilo, quello di una giurista. È lei che ha fondato, nel 2009, la prima rivista di diritto costituzionale in lingua inglese, l’Italian Journal of Public Law, assieme a Giacinto della Cananea. Da luglio prossimo sarà co-presidente dell’International Society of Public Law, l’associazione che riunisce gli accademici del diritto pubblico a livello mondiale. Infine, il diritto e le donne, un tema che la appassiona soprattutto da quando è arrivata alla Corte costituzionale, unica donna con 14 uomini. Proprio alle donne ha dedicato numerose puntate su Rai Storia e ci ha tenuto a raccontare la vicenda della prima donna divenuta prefetto - si chiamava Rosa Oliva - proprio grazie a una storica sentenza della Corte. Basta sentire quello che dice a Reggio Emilia, il 4 dicembre dell’anno scorso, quando con Violante commemora la figura di Nilde Iotti: “Quel suo richiamo a misurarsi nella vita delle istituzioni è innanzitutto un richiamo rivolto alle donne; un richiamo a non ritrarsi davanti alle responsabilità: con stile, con classe, ma anche con tenacia come la sua esperienza personale testimonia anche agli uomini e alle donne di oggi”. Marta Cartabia riporterà il ministero della Giustizia sui binari del Diritto di Davide Varì Il Dubbio, 13 febbraio 2021 Governo Draghi, l’ex presidente della Consulta Marta Cartabia alla guida di Via Arenula. La nomina era nell’aria da tempo e del resto il nome è così autorevole e convincente che non poteva che essere accolto con favore anche dal nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi. Naturalmente parliamo della nomina dell’ex presidente della Consulta, Marta Cartabia, al ministero della Giustizia. Il nome, nei giorni più caldi della crisi del governo Conte, era addirittura stato accostato a Palazzo Chigi. E non è un segreto che molti parlamentari la vedano come candidata ideale per il Colle del dopo Mattarella. Ma per questo c’è tempo. Per il momento la presidente Cartabia dovrà gestire uno dei ministeri più difficili e delicati. Non solo per la delicatezza delle questioni che qualsiasi guardasigilli di ogni governo deve affrontare, ma anche per la particolarità della nuova maggioranza. Sulla giustizia Forza Italia e Movimento 5Stelle hanno idee agli antipodi. Per non parlare di Renzi, col quale i grillini pensano ancora di avere un conto da saldare. Insomma, la presidente Cartabia ha avuto un gran coraggio ad accettare un dicastero così divisivo per la maggioranza di governo. Ma quello che può sembrare un limite, un punto di debolezza, può forse diventare un punto di forza. La distanza tra i partiti è tale che sulla Giustizia si rischia la paralisi assoluta. Per questo motivo i vari Renzi, Bonafede e Berlusconi non potranno far altro che affidarle i dossier più caldi sapendo di poter condizionare le sue scelte solo in minima parte. È chiaro a tutti, inoltre, che Marta Cartabia sia considerata “fuori dalla mischia”, lontana anni luce dal “teatrino della politica” e dalle beghe di Palazzo. Marta Cartabia, ne siamo certi, sarà guidata dal faro della Carta Costituzionale e porterà il ministero di Via Arenula dentro i binari del diritto, quello con la “D” maiuscola. Cartabia, la cattolica che zittì Salvini di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 13 febbraio 2021 La nuova ministra della giustizia è stata la prima donna presidente della Corte costituzionale. Vicina a Comunione e liberazione, sulle carceri criticò la propaganda leghista. “Sentenza indegna, mi sale la pressione, ma che testa hanno questi giudici? Ma che cazzo di paese stiamo diventando?”. La reazione di Salvini alla decisione della Corte costituzionale di porre dei limiti all’ergastolo ostativo fu terribilmente aggressiva, persino per i suoi standard. Il leghista era da poco passato all’opposizione e in quei giorni Marta Cartabia veniva scelta dai giudici costituzionali per guidare la Consulta. La prima donna presidente, nella sua prima conferenza stampa decise di rispondere colpo su colpo. Imputando alla propaganda della Lega sui presunti mafiosi in libertà “allarmi del tutto ingiustificati, menzogne che non aiutano a capire”. Cattolica di Comunione e Liberazione, Marta Cartabia ha il pregio di non nascondersi dietro le parole. Prima presidente (per nove mesi) della Corte, assai vicina al capo dello stato Mattarella, è stata però nominata da Napolitano nel 2011, terza giudice donna nella storia della Consulta. Così come sarà la terza ministra della giustizia della Repubblica. La sua difesa della sentenza sulle carceri contro Salvini non fu solo d’ufficio, negli anni alla Corte Cartabia ha dimostrato grande attenzione al tema dell’esecuzione penale. Sempre con un approccio, da cattolica, sensibile ai diritti delle persone private della libertà e alla dignità dei detenuti. In via Arenula potrebbe dare una spinta alla riforma dell’ordinamento penitenziario, immaginata ma poi abbandonata dal centrosinistra nel 2018. Neanche il tempo di giurare e già la settimana prossima le toccherà la prima grana, con gli emendamenti sulla prescrizione al decreto milleproroghe che sono sopravvissuti alla seconda scrematura di ieri e che andranno in votazione in settimana, dividendo i 5 Stelle e forse anche il Pd dal resto della maggioranza. A sostituire il capo delegazione dei 5 Stelle, l’ex ministro Bonafede che ha retto il ministero attraverso due governi - prima con la Lega e poi con il Pd - senza cambiare la sua impronta sostanzialista, Cartabia arriva dopo essere stata candidata praticamente a tutto, dal Quirinale a palazzo Chigi. Seduta su una delle poltrone tradizionalmente più scomode del governo, mette in gioco la definizione di “riserva della Repubblica” che l’accompagna da quando, a soli 57 anni, cessò il suo novennato alla Consulta. Professoressa ordinaria di diritto Costituzionale all’Università di Milano Bicocca, allieva di un altro ex presidente della Corte costituzionale, Valerio Onida, Cartabia si è occupata molto del diritto costituzionale europeo e internazionale. Ma anche della protezione dei diritti fondamentali e del rapporto tra lo stato e le confessioni religiose. Ospite abituale del Meeting di Cl, in passato ha spostato le posizioni cattoliche tradizionali, ad esempio contro il matrimonio omosessuale e per il crocifisso negli edifici pubblici. La sua nomina, ieri sera, preoccupava per questo la comunità Lgbt+. Potrebbe stupire. La battaglia necessaria sullo strapotere delle toghe di Carlo Nordio Il Messaggero, 13 febbraio 2021 Non sappiamo quale sia il programma del nuovo governo sulla giustizia. Sappiamo che Draghi la considera una priorità - ed in effetti lo è - perché la lentezza dei processi e l’incertezza del diritto incidono gravemente sull’economia che rappresenta oggi, assieme alla salute, l’emergenza maggiore. Abbiamo anche scritto, e lo ripetiamo, che proprio per questo occorre intervenire, prima di tutto, sulla giustizia civile, i cui ritardi compromettono gli investimenti e lo sviluppo, e contemporaneamente su quei settori che paralizzano la pubblica amministrazione. L’abolizione del reato di abuso di ufficio e la limitazione dei ricorsi al Tar ridarebbero vitalità a sindaci e assessori oggi paralizzati dalla minaccia delle inchieste. Sarebbero riforme a costo zero e, quel che più conta, abbastanza condivise. Soprattutto l’accelerazione delle cause civili troverebbe - riteniamo - un ampio consenso parlamentare. Detto ciò, aggiungiamo che questa potrebbe essere l’occasione per una strategia di più ampio respiro. Il governo Draghi ha tre punti di forza: l’impronta genetica del Presidente della Repubblica, l’avallo dell’Europa e la conseguente fiducia dei mercati e, ultima ma non ultima, la certezza che la sua caduta comporterebbe lo scioglimento delle Camere e il ritorno a casa di molti soggetti che passerebbero dal congruo emolumento parlamentare al più modesto reddito di cittadinanza. Con questo viatico favorevole, non è utopistico pensare che, almeno in seconda battuta, il nuovo premier possa proporsi di riscrivere la pergamena marcita della nostra giustizia. I tarli che l’hanno corrosa sono molti. Il codice di procedura penale è un’arlecchinata di cui nessuno capisce più nulla. Nato con il nobile intento di sostituire il fascistissimo codice Rocco con quello anglosassone (detto appunto alla Perry Mason) di impronta liberale e garantista, è stato snaturato e stravolto dal legislatore, dalla Corte Costituzionale (dove sedeva, ironia della sorte, il suo stesso autore, professor Giuliano Vassalli) e dall’interpretazione giurisprudenziale. L’abominio della modifica della prescrizione, voluta da Bonafede, ha posto il sigillo finale del giustizialismo più ottuso e giacobino. Per il resto c’è solo l’imbarazzo della scelta: l’uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni, la loro oculata selezione con la diffusione pilotata attraverso giornalisti compiacenti, l’azione penale diventata arbitraria e quasi capricciosa, l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa, lo snaturamento dell’informazione di garanzia diventata grimaldello di estromissione degli avversari politici, e più in generale la sottomissione umiliante e servile della politica davanti alle iniziative giudiziarie più sconsiderate. Su questo fallimento si innesta il progressivo - e per noi doloroso - discredito della magistratura dopo lo scandalo Palamara: il mercimonio delle cariche, lo strapotere delle correnti, le contiguità opache tra toghe e partiti, insomma la più bassa baratteria clientelare mercanteggiata al ristorante o nelle case dei magistrati. Il trojan inserito nel cellulare di Palamara ha rivelato solo in parte questo sistema disgustoso, peraltro ben noto da anni a tutti i magistrati. Per di più, come ha detto lo stesso intercettato, nelle conversazioni pubblicate “c’è di tutto, ma non c’è tutto”. Aspettiamo il seguito. Infine il sospetto più grave: che la giustizia sia stata piegata a fini politici da chi la amministrava, per eliminare protagonisti sgraditi. L’intercettazione su Salvini è su questo significativa: se così fosse, più che un reato sarebbe un sacrilegio. Si tratta, come direbbe De Gaulle, di un vasto programma; ma di incerta realizzazione, per due ragioni. La prima, che non sarebbe facile ottenere in Parlamento una maggioranza disposta ad approvare riforme così radicali, ancorché indispensabili. L’ala cosiddetta giustizialista del Pd e dei grillini potrebbe porvi il veto, anche a rischio di perdere il seggio e lo stipendio. La seconda, connessa alla prima, sarebbe l’ostilità della parte più politicizzata della magistratura. Nessuno pensa che reagirebbe con iscrizioni sul registro degli indagati, spedizioni di informazioni di garanzia, intercettazioni sapientemente diffuse, e magari qualche buon arresto cautelare. Sarebbe un’ignominia alla quale non vogliamo nemmeno pensare. Ma certamente reagirebbe, come ha sempre fatto, con quella “moral suasion”, ora lamentosa ora arcigna, dei convegni, degli appelli, delle petizioni culminanti nella stucchevole litania del depotenziamento della lotta alla mafia, agli evasori fiscali e, naturalmente, ai politici corrotti. Una pressione fortissima cui sarebbe difficile resistere. L’altro giorno, nell’indirizzare il nostro rispettoso augurio al nuovo premier incaricato, citammo le doti che Gibbon attribuisce al grande statista: la mente per comprendere, il cuore per risolversi, il braccio per eseguire. Quest’ultimo non dipende da Draghi, perché spetta al potere legislativo. Ma se Draghi, con la sua indiscussa autorevolezza, dimostrasse il cuore per progettare una simile riforma, sarebbe già un significativo passo avanti verso il ripristino di una civiltà giuridica decrepita e moribonda. Anche se non avesse successo, sarebbe un bel messaggio: in fondo la battaglia più nobile è quella che sappiamo perduta in partenza. E, poi, non si sa mai, potrebbe anche essere vinta. Caro Draghi, una cosa ti chiedo: togli l’Italia dalle mani dei pm di Valerio Spigarelli Il Riformista, 13 febbraio 2021 L’affaire Palamara, non meno delle dichiarazioni del Procuratore Gratteri, hanno marcato gli ultimi tempi sul fronte della questione giustizia. Due vicende che apparentemente non hanno punti contatto, e che sembrano lontane dall’agenda politica del nuovo governo, ma in realtà non è così. Partiamo dalla prima, già nota ma rilanciata dalla pubblicazione del libro intervista “Il sistema”. Al riguardo va subito sgomberato il campo da un equivoco: chi prende spunto dai fatti narrati da Palamara a Salisti non per questo deve darli tutti per assodati, visto che i chiamati in causa, e sono molti, hanno tutto il diritto di sottolineare che la versione di Palamara non è il verbo. Allo stesso tempo, però, vale anche il contrario: francobollare il libro come “una memoria difensiva”, e per ciò stesso non solo come un contributo di parte. come è ovvio, ma anche di per sé sospetto di falsità perché viene da un accusato, dimostra una (in)cultura, assai diffusa, per la quale non solo un indagato è un presunto colpevole ma quel che dice falso per definizione. Tra gli alfieri della seconda opinione si ritrova l’associazione sindacale della magistratura, che ha bollato con “sdegno” il contenuto del libro, per una volta in compagnia, e questo è invece sorprendente, anche di voci dell’avvocatura che, con l’aria di saperla lunga, hanno ritenuto sbagliato persino farlo parlare. lo ritengo che di fronte alla straordinaria gravità di alcuni di quei fatti - quelli riguardanti lo sviamento della giurisdizione e l’alterazione dei suoi esiti, a parte il funzionamento del Csm - l’unica reazione legittima sarebbe quella di accertarli. Del resto, assistendo al dibattito, capita spesso di registrare affermazioni un po’ surreali come il paragone tra Palamara e Buscetta che viene avanzato sia dai suoi supporter che dai suoi avversari. Il succo sarebbe che Palamara è un pentito e che, quindi, le sue parole valgono quel che valgono: per gli estimatori sono oro colato perché vengono dall’interno della magistratura; per gli avversari, oltre che messaggi di dubbia natura, sono sospette perché servono a guadagnare l’immunità in vista di un futuro ingresso in politica. Il bello è che tra quelli che sostengono il verbo palamaresco “a prescindere” si ritrovano alcuni che sui pentiti hanno sempre avuto una visione critica, mentre tra quelli che lo avversano dandogli icasticamente del “pentito” si ritrova quella fetta di magistratura che sulle parole dei collaboratori di giustizia ha costruito camere, o tentato di riscrivere la storia di Italia, non sempre con esiti giudiziari confortanti. Paradossi del Bel Paese, dove la coerenza è la virtù degli imbecilli e il trasformismo una dote di governo. Ora, che il libello di Sallusti e Palamara abbia diversi punti di caduta a me pare evidente, soprattutto quando, attraverso una visione che pone al centro sé stesso e i suoi consoni della magistratura, l’ex leader dell’Anni legge diversi episodi solo dal buco della serratura del Sistema facendo torto a figure come Napoli - tano o D’Ambrosio; oppure quando mette sullo sfondo protagonisti centrali, come Ferri e la sua corrente di Magistratura Indipendente; o ancora quando relega la promiscuità opaca con il sistema dei partiti alla sola sinistra giudiziaria. Tutte cose che chi segue la vita del Csm non può che ritenere discutibili. Per non parlare della beatificazione di Ingoia e De Magistris e Di Matteo, le cui vicende semmai dimostrano che il mitico Sistema, come un orologio rotto due volte al giorno, ogni tanto c’azzecca. Ancora più discutibile, assai discuti bile, pare poi circoscrivere la predisposizione della magistratura ad un utilizzo orientato del potere di azione, come se fosse un attributo esclusivo della sinistra giudiziaria. Palamara all’epoca andava al liceo ma se avesse interpellato protagonisti politici degli anni settanta o ottanta avrebbe scoperto che la storia viene da lontano. Come viene da lontano la concezione proprietaria della giustizia che l’Ordine Giudiziario riafferma da decenni e che, tanto per fare un esempio, ha finito per identificare persino un sindacato, cioè l’Anm stessa, con il Potere Giudiziario ovvero permesso diktat al parlamento sulle leggi sgradite. Per informazioni basta chiedere a Boato. questo il punto centrale che il libro racconta e che, al di là degli episodi, costituisce il nodo della vicenda, che non può essere liquidato, con sdegno o con degnazione, dalla magistratura. La quale, sia detto senza recare offesa ai molti, moltissimi, magistrati che lavorano sodo e non fanno la questua correntizia anche per tino strapuntino in qualche ufficio periferico, deve riconoscersi perlomeno responsabile di aver mantenuto in vita un sistema di potere intenso che, molto più dei condizionamenti esterni, ha posto in pericolo il requisito della indipendenza dei singoli magistrati. Insomma, non è possibile liquidare la vicenda come il racconto di un Bel Arti che scala i vertici di un potere giudiziario illibato ed adamantino in cui la platea degli elettori, in perfetta buona fede e senza neppure sospettare conte sarebbe stato svolto, affidava lo sporco lavoro del clientelismo ai rappresentanti delle correnti. Come dire che gli italiani che hanno votato per cinquanta anni Dc ignoravano il sistema clientelare sul quale quel partito prosperava. Chi cerca di accreditare questa versione, quella del “Palamara colpevole Magistratura inconsapevole” fa torto prima di tutto alla intelligenza dei magistrati italiani. Anche perché, a dire il vero, il pamphlet del nostro segue altre pubblicazioni, come “Ultracasta”, di Stefano Livadiotti - firma dell’Espresso non sospetta di collusioni berlusconiane pubblicato nel 2010, oppure le analisi di Giuseppe di Federico, che quel sistema lo avevano già descritto anche nelle sue miserie. Come negli stessi termini, e dal di dentro, nel libro Toga Rossa, molti anni fa, Francesco Misiani rivelava anche l’altro corno del problema, quello più importante a mio modo di vedere: lo strapotere delle Procure all’interno della magistratura, nel processo e in definitiva nel Paese. Perché questo è il tema vero che pone oggi il libro di Palamara, anche se la sua è una versione interessata e segnata dalla sua attuale condizione. Su questo il suo racconto combacia con la denuncia che altri fanno da tempo - l’avvocatura penale italiana, tanto per dire, lo dice da decenni - e serve a poco gridare dagli all’untore. Il che porta anche all’altro fatto che ha tenuto banco nei giorni passati, cioè le dichiarazioni del pm Gratteri sulle quali, al di là di una difesa di categoria fatta in automatico dal Presidente di Anni, ci si attendeva una riflessione da parte del parlamentino dell’associazione, che invece è mancata. Una riflessione incentrata, ovviamente, sul ruolo che Procure e Procuratori hanno assunto nel dibattito pubblico, tanto sulle singole vicende giudiziarie che sui temi di politica giudiziaria. Un molo che esonda dall’alveo segnato nella Costituzione a proposito della magistratura inquirente, e che, non a caso - da ancor prima di tangentopoli - si fonda sul rapporto diretto ed esclusivo cori gli organi di informazione alla ricerca di un consenso ed tra sostegno popolare all’esercizio dell’azione penale che è la negazione del Giusto Processo. Ciò anche perché passa per l’innaturale propaganda delle attività delle Procure, di cui l’esibizione sui media, come selvaggina catturata, degli indagati raggiunti dalle ordinanze di custodia cautelare - con corredo di illegittima ed anticipata pubblicazione di atti, intercettazioni, e persino foto segnaletiche senza alcuna necessità - è l’iconica raffigurazione della inciviltà del sistema. Ecco, questo è uno dei temi su cui la politica italiana, nel momento in cui affronta un passaggio epocale, dovrebbe interrogarsi. L’Europa non guarda all’Italia solo come il paese dai processi interminabili e dalle carceri incivili che relega la presunzione di non colpevolezza negli armadi della storia, ma anche come un paese ove i pm sono più potenti dei giudici. Un paese che erige monumenti di credibilità a procuratori il cui carnet registra più sconfitte che affermazioni e che spenderà un bel po’ di quattrini per l’ingiusta detenzione anche nei prossimi anni, visto che negli ultimi venticinque ha pagato molte centinaia di milioni per Io stesso motivo a cittadini privati della libertà poi riconosciuti innocenti, in molti casi previa cannibalizzazione a mezzo stampa dalle veline giudiziarie. Spesso poveri cristi, sovente personaggi pubblici. Non c’era bisogno di Palamara per sapere che nel corso delle indagini i pm comandano la giurisdizione, da lui abbiamo avuto notizia di come la possono condizionare anche dopo. Sebbene nessuno dotato di buon senso pensi che al governo Draghi si possa addossare il peso insopportabile della “questione giustizia’ ciò non toglie che fin da subito un segnale debba essere dato. La questione giustizia non può essere messa sotto il tappeto in quanto “divisiva”, come già avvenuto in passato e come sta accadendo in questi giorni. Nessuno pretende che Draghi metta nel programma la riforma costituzionale che dovrebbe riequilibrare il sistema incidendo sui temi più significativi, come la reale terzietà del giudice, l’obbligatorietà dell’azione penale, la conformazione del Csm, ma qualcosa si, questo è necessario, altrimenti finirà per accorgersi sulla sua pelle che i poteri più forti, in Italia, stanno nelle Procure. Sulle sabbie di quel deserto culturale in tema di giustizia penale che avvolge la nostra classe dirigente, da ultimo denunciato da Giovanni Fiandaca, i nuovi diano tua segnale: congelino la riforma stalla prescrizione; vietino le conferenze stampa trionfalistiche dei pm; limitino l’applicazione della custodia cautelare in carcere a pochi, selezionati, casi; cancellino la dissennata decisione di estendere l’utilizzo del trojan e tornino per legge a limitare la circolazione probatoria delle intercettazioni come stabilito in una sentenza dalle Sezioni Unite liquidata da una legge pretesa dalle Procure; dissotterrino la riforma dell’ordinamento penitenziario. Si ampli e si rafforzi il diritto di tribuna nei consigli giudiziari, spezzando lo scudo autoreferenziale che protegge le questioni interne; si inseriscano manager per i grandi uffici giudiziari; si pensi ad una scuola della magistratura sottratta alle correnti. Poi facciano una amnistia ed un indulto, visto che ora i numeri paradossali che la politica si è autoimposta si potrebbero raggiungere. So che quest’ultima proposta sembra una follia impraticabile ma, almeno su questo, l’orgia retorica sulla ricostruzione post Covid potrebbe prendere esempio dalla ricostruzione vera, quella del dopoguerra. “Più attenzione al diritto di difesa”. La Corte dei Conti impallina i ddl sul processo di Simona Musco Il Dubbio, 13 febbraio 2021 Le audizioni in commissione Giustizia al Senato, dove è incardinata la riforma del processo civile, sono terminate. E il termine di presentazione degli emendamenti, fissato al 10 febbraio, è superato dalla crisi di governo che, di fatto, ha congelato ogni cosa. Ma ora si potrebbe ripartire da capo, con un nuovo piano per il Recovery che, di fatto, implicherebbe anche una nuova riforma per il processo civile, da scrivere necessariamente entro 60 giorni per rispettare il cronoprogramma europeo. Anche perché la bocciatura che arriva dalle audizioni al Senato, da Corte dei Conti, Bankitalia e authority, è sonora. Il piano, dunque, è tutto da rifare. E ciò consentirebbe di “aggiornare” le riforme della giustizia civile e penale all’epoca post-covid magari con qualche risorsa in più - dal momento che per entrambi i disegni di legge è trascorso circa un anno dalla presentazione al Parlamento, risultando, come spiega al Dubbio il leghista Emanuele Pellegrini, componente della commissione Giustizia di Palazzo Madama, “già fuori dal tempo”. Quel che è certo, al momento, è che anche a causa delle fortissime pressioni che arrivano dall’Europa tutte le luci sono puntate sul processo civile. Così gli iter delle due riforme, pur essendo partiti contemporaneamente alla Camera e al Senato, nelle rispettive commissioni Giustizia, hanno seguito un percorso diverso, e ora è sul civile che si spingerà l’acceleratore affinché il testo vada in porto quanto prima. Una riforma non a costo zero, e che dunque impone il ricorso ai finanziamenti del Recovery Fund (2,3 miliardi, ai quali si somma un miliardo e 10 milioni stanziati nella legge di Bilancio). Il tema principale è accorciare i tempi della giustizia, che in Italia, nel campo civile, arrivano fino a 1.750 giorni, contro i 600 della media europea, portando il debito per irragionevole durata del processo alla cifra di 327 milioni di euro al 2019. Ma in commissione i partiti di maggioranza si sono scontrati con la Lega, che mal digeriva l’idea di non velocizzare i tempi anche per il penale. E su questo la Corte dei Conti, audita nei giorni scorsi al Senato, sembra dare ragione al partito guidato da Matteo Salvini. Aggiungendo alle riforme necessarie anche quelle sull’edilizia giudiziaria, sintomo dell’efficacia del sistema penale e della funzione rieducativa della pena, che porterebbe giovamento anche all’economia. “Quanto all’effetto volano delle riforme normative in corso in materia di procedura civile e penale - si legge nella relazione depositata a Palazzo Madama - si rimarca la necessità di perseguire al contempo la qualità del giudizio, anche in termini di tutela dei diritti di difesa e di effettivo contraddittorio delle parti e di tutte le correlate garanzie costituzionali. Dato tale presupposto, appare chiara la necessità di una rapida definizione del nuovo quadro procedurale in entrambi i settori, proprio alla luce dei tempi stretti concessi per il pieno avvalimento dei fondi Next Generation in funzione proattiva per il rilancio del Paese”. Tradotto: puntare sui diritti, non solo sui tecnicismi, e in fretta, o si rischia di perdere il treno del Recovery. Un rischio che l’Italia non può permettersi. Ed è per questo che pensare di lasciare indietro il penale risulterebbe un grandissimo errore. Le riforme, secondo la Corte dei Conti, se portate a compimento assieme ad un aumento delle piante organiche di magistratura e personale amministrativo, “appaiono poter rispondere all’istanza di miglioramento della celerità e dell’efficienza del settore giustizia tanto rimarcata ai fini della ripresa economica del Paese anche in tempi antecedenti alla pandemia”. Ed è quindi opportuno anche ragionare sui tempi - problematici - del procedimento di selezione del personale: “Da una corretta e tempestiva gestione dei tempi delle selezioni - affermano i giudici contabili - dipende in buona parte la possibilità del raggiungimento degli obiettivi”. Altrimenti, scaduto il termine del 2026 per la realizzazione del Piano, il Paese potrebbe trovarsi di fronte agli oneri restitutori senza aver efficientato la giustizia. Ma come anticipato, secondo la relazione mancano interventi per l’edilizia penitenziaria, scelta non in conformità alle Linee guida delle Commissioni Riunite per l’adozione del Piano, “che avevano sottolineato l’emergenza di interventi edilizi per le carceri, al fine del superamento del problema ormai annoso del sovraffollamento, peraltro accentuato dalla situazione di oggettiva crisi emersa nel contesto pandemico del 2020, limitando le risorse destinate a tali fini agli stanziamenti a copertura nazionale in legge di Bilancio 2021”. E qui l’ammonimento della Corte: “La spesa per edilizia penitenziaria attiene ad una corretta gestione della fase dell’esecuzione della pena ed è essenziale per quei fini educativi che dovrebbero portare ad immettere personalità capaci di affrontare la vita civile in modo non delinquenziale una volta scontata la reclusione, con conseguenze virtuose per la creazione di un contesto di sicurezza sociale utile ed incentivare l’economia e gli investimenti”. Tornando al civile, secondo Pellegrini riscrivere la riforma sarebbe la cosa più giusta: abbracciando le critiche mosse nel corso delle audizioni dagli esponenti del mondo dell’avvocatura, della magistratura e del mondo accademico, la Lega ha invocato una riforma che non puntasse sulla revisione delle procedure, ma partisse, in primo luogo, dalla carenza di personale. “Bisognerebbe ripartire da zero - sottolinea - dando prevalenza alle richieste di avvocatura e magistratura, che però andrebbero sentite prima. La Lega punterà sicuramente su assunzioni di personale amministrativo, per fornire “manovalanza” alla giustizia affinché i fascicoli possano essere smaltiti, e sulla responsabilizzazione dei professionisti che lavorano all’interno del comparto giustizia, con una riorganizzazione delle competenze”. Prescrizione, la giustizia non è uguale per tutti di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 13 febbraio 2021 I nostri processi durano un’eternità e l’appello rappresenta un collo di bottiglia che da solo “brucia” il 48% della durata totale del processo. Caro direttore, con la prescrizione il reato si estingue per decorso del tempo, non è più procedibile. Accade in tutti i Paesi, ma solo da noi fa litigare così tanto. Ciò avviene per due principali motivi. Primo - I nostri processi durano un’eternità, il che causa centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno. Per cui quel che altrove funziona come rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a concludere, da noi si è strutturato come fenomeno patologico. Difatti la percentuale italiana di prescrizioni è del 10/11 %, contro quella dello 0,1/0,2% degli altri paesi europei. Un vero disastro. Favorito dal fatto che solo in Italia (prima della riforma del 1° gennaio 2020) non erano previsti casi in cui la prescrizione si interrompesse definitivamente; c’erano solo sospensioni temporanee. Secondo - La prescrizione intacca persino il principio di eguaglianza. Per “colpa” della prescrizione, infatti, coesistono nel nostro sistema due distinti codici. Uno per i “galantuomini” (le persone che appaiono, in base al censo o alla collocazione politico-sociale, “per bene” a prescindere...); l’altro per i cittadini “comuni”. I “galantuomini” possono contare su difese costose e agguerrite, in grado di sfruttare le eccezioni d’ogni tipo generosamente offerte da una procedura malandata. Così, il processo può ridursi all’attesa che il tempo si sostituisca al giudice finché la prescrizione non riuscirà ad ingoiare tutto. Mentre per i cittadini “comuni”, nonostante la durata biblica, il processo riesce più spesso a concludersi, segnando vita, interessi e relazioni delle persone coinvolte. Una asimmetria incostituzionale, fonte di ingiustizia e disuguaglianze. Un “doppio” processo al quale ha dato un forte contributo proprio la prescrizione “infinita” (senza mai uno stop definitivo), in quanto incentivo a far durare all’infinito certi processi, di modo che i “galantuomini” non paghino dazio. Il che consente di ritenere che non sono gli aspetti tecnici, ma l’importanza di certi interessi in gioco a scatenare la bagarre sulla prescrizione. Le cose sono cambiate il 1° gennaio 2020, con la norma (inserita nella cosiddetta “spazza-corrotti”) secondo cui la prescrizione si interrompe con la sentenza di primo grado (anche di assoluzione) fino alla sentenza definitiva. Impossibile calcolare gli effetti della riforma dopo un solo anno, anche perché nel 2020 il Covid ha stravolto tutto, causando una pesante contrazione del numero dei processi trattati. Del tutto impossibile quindi stabilire se la riforma sia riuscita ad impattare in qualche modo sulla iniquità del “doppio” processo. Così pure è impossibile dire se avessero ragione (e in che misura) coloro che preconizzano effetti nefasti perché dopo la sentenza di primo grado si aprirebbe la prospettiva di una pendenza perpetua dei processi, non essendo più previsto un termine entro cui debbano essere conclusi, con grave pregiudizio per tutte le parti in causa. Com’è impossibile verificare sul campo la tesi (ragionevole) secondo cui, se è vero che con la riforma alcuni processi potrebbero restare pendenti in appello per un tempo relativamente più lungo, è altrettanto vero che il rischio riguarderebbe alcuni casi soltanto e non “tutti” i processi. E sarebbe in ogni caso un rischio bilanciato dall’azzeramento dei casi in cui - con la prescrizione - la giustizia deve riconoscere il suo fallimento, negando all’innocente l’assoluzione o regalando al colpevole l’impunità. E ciò con riferimento ai processi che sono passati al vaglio del tribunale, di regola quelli di maggior rilievo, per i quali si pone con più intensità il problema di evitare un default dello stato. La vera questione è che (in attesa della generale riforma del processo) andrebbe fatto funzionare meglio l’appello, che da sempre è il collo di bottiglia del sistema, al punto che da solo “brucia” il 48% della durata totale del processo. Comunque sia, in base alla situazione obiettivamente data (anche per effetto del blocco Covid), a me sembra di poter concludere che la fretta e la voglia di tornare all’antico - senza possibilità di valutare in concreto il nuovo - sembrano basate su schemi ideologici precostituiti, piuttosto che su analisi concrete. Un buon motivo per dubitare della loro opportunità. Tutto quello che vi dicono sulla prescrizione è falso di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 13 febbraio 2021 Impunità legittimata? La riforma Bonafede è giustificata da un alto tasso di prescrizione dei reati? Falso! In Italia vigono termini di prescrizione dei reati molto alti. Qualche esempio. Corruzione:18 anni. Associazione mafiosa: da 40 anni e 6 mesi a 68 anni. Omicidio stradale: da 20 anni e 8 mesi a 33 anni. Si avvicina il voto in Parlamento su alcuni emendamenti al Mille Proroghe che, ove approvati, sospenderebbero o addirittura abrogherebbero la sciagurata riforma Bonafede della prescrizione. Visto che tira una brutta aria per i tifosi di quell’obbrobrio sgrammaticato, ora la parola d’ordine è quella di “evitare i temi divisivi”. Come si dice a Roma, la buttano in caciara. Perciò credo sia opportuno mettere a disposizione di chiunque possa e voglia farne uso, una breve guida pratica, con alcune essenziali informazioni utili almeno a mettere a nudo le bufale travaglio-davigo-caselliane che già tornano in circolazione senza freni. Mi limito alle questioni più evidenti, e di immediata comprensione anche per i non addetti ai lavori, lasciando volutamente da parte ogni polemica ideologica o culturale tra garantismo e giustizialismo. Vediamo chi è che racconta balle in questa storia, e perché. 1. La riforma Bonafede è giustificata da un alto tasso di prescrizione dei reati, una anomalia tutta italiana che legittima l’impunità e mortifica le aspettative di giustizia delle vittime del reato. Vero o falso? Penosamente falso. In Italia, ormai da molti anni, vigono termini di prescrizione dei reati molto alti, e non di rado indecentemente alti. Qualche esempio: la corruzione si prescrive in 18 anni; l’associazione mafiosa da un minimo di 40 anni e 6 mesi a 68 anni; l’omicidio stradale da 20 anni e 8 mesi a 33 anni; la violenza sessuale non aggravata in 28 anni; il riciclaggio semplice in 18 anni; l’omicidio volontario non aggravato in 33 anni; la bancarotta fraudolenta non aggravata in 15 anni e 6 mesi; furti in abitazione o pluriaggravati e scippi aggravati in 15 anni e 6 mesi; rapine ed estorsioni da 15 anni e 6 mesi a 28 anni; e potremmo continuare. Sostenere perciò che termini del genere non siano sufficienti, e che Giustizia vuole che - per rimanere ad uno degli esempi - un processo per omicidio stradale possa e debba essere definito anche oltre i 33 anni dal fatto, segnala o mala fede, o patologie di tipo psicotico ossessivo di gravità medio-alta. 2. La Riforma Bonafede accorcerà i tempi del processo, perché la interruzione del termine dopo la sentenza di primo grado rende inutili appelli e ricorsi in Cassazione finalizzati solo a far maturare la prescrizione. Vero o falso? Questa è una menzogna più esattamente ascrivibile alla macro-area delle idiozie. Come anche un sasso saprebbe comprendere, un appello si propone dopo la sentenza di primo grado, e contro di essa. Le costanti statistiche del Ministero di Giustizia ci confermano da decenni che in quel momento, cioè al deposito della sentenza di primo grado, sono già maturate tra il 70-75% delle prescrizioni (oltre il 60% addirittura prima dell’udienza preliminare). Inoltre, i ricorsi per Cassazione puramente defatigatori, perciò dichiarati inammissibili, fanno retrocedere il calcolo della prescrizione alla data della sentenza di appello. Dunque lo stesso sasso di cui sopra è anche in grado di comprendere che ben oltre 1’85 per cento del “problema prescrizione” ha a che fare con le impugnazioni come il cavolo con la merenda. Perciò non solo è falso che la riforma Bonafede sia destinata a ridurre i tempi del processo, ma è invece drammaticamente vero il contrario. Come ogni magistrato italiano sa bene, tranne Davigo, le Corti di Appello celebrano con grande fatica un numero elevatissimo di processi ogni giorno sotto minaccia della data di prescrizione del reato, stampigliata in grande evidenza in alto a destra su ciascun fascicolo. Eliminata quella data, perché mai si dovrebbe continuare con quei ritmi forsennati? 3. Gli avvocati ben pagati fanno durare a lungo i processi. Vero o falso? Spudoratamente falso. Per lo meno da vent’anni non c’è più modo, per avvocati ed imputati, di far valere un impedimento o di richiedere un rinvio che sia uno senza che il decorso della prescrizione si interrompa. Dovrebbe esserci un limite alla indecenza di queste bufale. 4. La prescrizione esiste solo in Italia. Vero o falso? I reati si prescrivono, in proporzione alla gravità, anche in Francia, in Spagna, in Germania, ovunque. Nei paesi anglosassoni si prescrive non il reato tua l’azione, cioè il processo, in tempi imparagonabilmente più brevi dei nostri. Paragonare le mele con le pere è il metodo tipico di chi argomenta per pura polemica, fingendo soprattutto di ignorare che l’unica vera esclusiva italiana è quella della durata irragionevole delle indagini e dell’inizio sistemicamente tardivo dei processi. Una anomalia incivile che rende l’imputato prigioniero di una inefficienza a lui per di più non imputabile. Una vergogna. Facciamola finita, che è giunta l’ora. *Presidente dell’Unione camere penali italiane Libero Pasquale Zagaria, la sua “scarcerazione” per Covid fece scandalo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 febbraio 2021 La Cassazione ricalcola la pena. Per la sua scarcerazione, lo scorso anno ad aprile, erano saltati tutti i vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap): dal numero uno Francesco Basentini, al direttore generale della Direzione detenuti Giulio Romano. Oggi, invece, si scopre che Pasquale Zagaria, fratello del capoclan Michele e attualmente detenuto nel carcere milanese di Opera al regime del 41bis, aveva di fatto già scontato la pena e può, quindi, tornare in libertà. La Corte di Cassazione, accogliendo nei giorni scorsi il ricorso presentato dai difensori dell’ex esponente del clan dei Casalesi, soprannominato “Bin Laden”, Andrea Imperato, Angelo Raucci e Sergio Cola, ha disposto la sua immediata scarcerazione, dopo averne ricalcolato la pena dagli iniziali 22 in 19 anni. Quando venne scarcerato la prima volta Zagaria era detenuto a Bancali a Sassari. La vicenda è nota. Il giudice del Tribunale di Sorveglianza di Sassari, Riccardo De Vito, essendo stati tutti i penitenziari della Sardegna trasformati in strutture Covid, aveva chiesto al Dap di individuare una sede alternativa dove Pasquale Zagaria potesse curare la patologia tumorale di cui era affetto. Zagaria, scrisse De Vito nell’ordinanza, avendo un tumore, avrebbe dovuto sottoporsi al previsto “follow-up diagnostico e terapeutico”. Al carcere di Bancali, però, a causa dell’emergenza sanitaria in atto, tali operazioni non sarebbero state garantite. Ma non solo: la patologia di Zagaria era tra quelle “che lo espone maggiormente al rischio di infezione”. Il giudice nel suo provvedimento aveva sottolineato poi di avere inviato una richiesta al Dap per capire “se fosse possibile individuare un’altra struttura penitenziaria dove effettuare il “follow-up”, ma non sarebbe pervenuta nessuna risposta, neppure interlocutoria. Un addetto della cancelleria del Tribunale di Sassari, si scoprì a posteriori, aveva sbagliato l’indirizzo mail del Dap e, pertanto, la comunicazione non era mai arrivata a destinazione. Di conseguenza l’amministrazione penitenziaria non aveva potuto rispondere e De Vito aveva dunque disposto la scarcerazione. Ad aprile dello scorso anno Zagaria aveva lasciato il carcere di Bancali ed era stato trasferito a Pontevico, vicino Brescia dove era stato programmato il piano terapeutico Per tale detenzione domiciliare era stata individuata l’abitazione di un familiare. Le polemiche per tale scarcerazione furono feroci: oltre ad una accesa campagna mediatica, numerose erano state le interrogazioni parlamentari che avevamo messo in pericolo la poltrona dello stesso Guardasigilli Alfonso Bonafede. Arresto nel giugno del 2007, Pasquale Zagaria venne considerato dagli inquirenti la mente economica del clan casertano, avendo spostato nelle costruzioni il settore di maggior interesse criminale dei Casalesi, concentrando le attività nel Nord Italia grazie ad appalti a ditte compiacenti. Nel 2019 il magistrato di sorveglianza di Cuneo aveva ridotto di 210 giorni la sua pena, accogliendo l’istanza dei suoi difensori per aver subito un trattamento inumano nei periodi di detenzione trascorsi a Poggioreale, Cuneo, Lecce e Nuoro. Tornado, infine, alla sua iniziale scarcerazione, il ministro della Giustizia Bonafede, dopo aver “dimissionato” tutti i vertici dell’Amministrazione penitenziaria, decise di affidare il Dap a due pm: il pg di Reggio Calabria Dino Petralia e il sostituto palermitano Roberto Tartaglia. Dana Lauriola, rigettata la richiesta della direttrice del carcere di censurarle la posta di Mauro Ravarino Il Manifesto, 13 febbraio 2021 La richiesta della direttrice della Casa circondariale di Torino, Rosaria Marino, è stata rigettata per mancanza di fatti aderenti. Censura della posta per evitare una possibile propaganda all’interno del carcere. È successo a Dana Lauriola, attivista No Tav attualmente detenuta alle Vallette di Torino. “Un grave tentativo punitivo”, denuncia il movimento valsusino, fortunatamente, poi, scongiurato dal magistrato di sorveglianza che ha rigettato, per mancanza di fatti aderenti, la richiesta della direttrice della casa circondariale, Rosaria Marino. Come ha raccontato la stessa Dana, in una precisa lettera inviata al movimento, la direttrice aveva, infatti, chiesto “l’emissione di un provvedimento restrittivo, tipico dell’alta sorveglianza (articolo 18 ter ordinamento penitenziario), ossia la richiesta di controllo (e selezione) della mia corrispondenza epistolare e telegrafica, la cosiddetta censura”. Tutto è successo a margine dello sciopero della fame di Dana e di altre tre detenute, a fine gennaio, per chiedere, il ripristino delle ore di colloquio, anche in videochiamata, ingiustamente dimezzate e l’inserimento dei detenuti nella campagna vaccinale Covid, da cui erano esclusi. Protesta che non è stata vana, “anzi i risultati si sono dimostrati da subito concreti e tutte noi stiamo finalmente godendo dei nostri pieni diritti per quanto riguarda i contatti con i nostri familiari”, racconta la No Tav. Ma, forse, ha toccato alcuni nervi scoperti. “Si è trattato di un vano ma preoccupante tentativo - sostiene l’avvocata Valentina Colletta, uno dei due difensori di Lauriola - di comprimere diritti costituzionalmente garantiti in capo a soggetti già ampiamente deprivati, ma ai quali non può né deve essere negato anche il diritto alla libera manifestazione del pensiero e ad una quantomeno minima agibilità politica”. “Mi chiedo se sia finita qui oppure siano vere le voci che circolano circa un mio futuro trasferimento” si chiede, infine, nella lettera Dana Lauriola, che deve scontare una pena di due anni di detenzione per un episodio avvenuto nel 2012 durante un’azione dimostrativa pacifica sulla A32, quando al megafono spiegava le ragioni della manifestazione. Una condanna sproporzionata come sottolineato da Amnesty International. Sulla tentata censura delle lettere dell’attivista No Tav è intervenuto Marco Grimaldi, capogruppo di Liberi Verdi e Uguali in consiglio regionale: “Riteniamo quella richiesta un atto gravissimo. Negare un diritto fondamentale di una donna è molto grave, farlo in assenza di fatti aderenti, come ha stabilito il giudice, è viltà”. Anastasia è salva! Bonafede nega la sua estradizione in Russia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2021 Il provvedimento del ministro ha tenuto conto anche delle condizioni di salute di Anastasia, difesa dagli avvocati Fabio Varone e Pina Di Credito. Finisce l’incubo per Anastasia Chekaeva. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede non concede l’estradizione richiesta dalle autorità russe. “Considerato, infatti - si legge nell’atto del ministero - che dalla già citata documentazione risulta che il padre lavora e vive stabilmente in Svizzera, sicché la consegna estradizionale lascerebbe la minore sostanzialmente priva di una qualsiasi tutela genitoriale”. Il ministro prosegue: “Dato atto, inoltre, che risulta che Chekaeva Anastasiia è affetta da una forma di asma di tipo allergico, sicché le sue condizioni di salute paiono difficilmente compatibili con una carcerazione preventiva, vieppiù in ragione dell’attuale situazione di emergenza epidemiologica, che rende concreto il rischio di un serio pregiudizio alla salute dell’estradanda”. Per questi motivi, il ministro revoca il decreto di sospensione e “rifiuta l’estradizione delle cittadina russa”. Una grande vittoria, soprattutto grazie alla tenacia degli avvocati Fabio Varone del foro di Nuoro e Pina Di Credito del foro di Reggio Emilia. Così come è stato importante l’interessamento da parte di Rita Bernardini del Partito Radicale e Roberto Giachetti di Italia Viva. Si dà atto che il ministro della Giustizia ha potuto leggere con accuratezza le carte, per questo c’è stato il dietro front. Anastasia avrebbe rischiato di finire nel buco nero della giustizia russa, per un rimborso di alcuni biglietti non andati a buon fine che le è costata una richiesta di condanna a 10 anni di carcere. A questo punto vale la pensa ripercorrere nuovamente la sua vicenda. Tutto ha avuto inizio tre anni fa, quando Anastasia vive e lavora a Voronezh, in Russia, insieme al compagno (ora marito), titolare dell’agenzia di viaggi dove lei è impiegata. L’agenzia si trova all’interno del centro commerciale Galleria Chizhov, il cui legale rappresentante è Klimentov Andry Vladimirovich, vicepresidente della Commissione per il Lavoro e la Protezione Sociale della popolazione, e il cui fondatore è Chizhov Sergey Viktorovich, dal 2007 deputato della Duma di Stato della Russia - entrambi noti esponenti politici del partito “Russia Unita”, il cui leader è Vladimir Putin. Un tour operator cancella una serie di viaggi che l’agenzia aveva venduto, ma Anastasia e il compagno, pur non essendo responsabili delle cancellazioni, si trovano costretti a prendersi carico dei rimborsi. A questo punto inizia una campagna di diffamazione nei loro confronti, per cui la coppia decide di fare ritorno in Italia - dove vive legalmente dal gennaio 2018, e dove la loro bambina inizia a frequentare le scuole elementari. Seppure la vicenda amministrativa sia conclusa, Chizhov e Vladimirovich decidono di avviare un procedimento penale nei confronti di Anastasiia, a detta loro giustificato per vendicarsi della “cattiva pubblicità” causata dall’agenzia situata nella loro galleria. Ottengono - grazie alla loro posizione politica - che venga emessa domanda di estradizione all’Italia, quando in realtà il rappresentante legale dell’agenzia di viaggi è il marito della Chekaeva e cittadino italiano, che non avrebbe potuto essere estradato in Russia. A lui viene diretta una forte campagna di intimidazione e minacce, iniziata immediatamente e motivo principale per cui la coppia torna in Italia - per assicurarsi l’incolumità della famiglia. Gli avvocati Fabio Varone e Pina Di Credico si sono subito attivati, soprattutto dal momento in cui il governo italiano non ha considerato nessuno di questi elementi, non opponendosi minimamente al processo di estradizione. Venerdì 22 gennaio, quando Anastasia viene prelevata e reclusa nel carcere di Sassari in attesa del trasferimento in Russia. La vicenda portata alla luce dal Dubbio - Ma ecco che, in attesa di leggere nuova documentazione, il ministero della Giustizia ha deciso di sospendere l’estradizione. Nel frattempo, in seguito a questa disposizione, la corte d’Appello di Sassari ha revocato la misura della custodia cautelare in carcere, disponendo per la donna l’obbligo di dimora nel comune di Arzachena. Fino però ad arrivare ai giorni nostri, ovvero ieri, quando il ministro ha revocato l’estradizione. Un sospiro di sollievo per una vicenda che Il Dubbio ha portato alla luce grazie alla segnalazione dei difensori di Anastasia, gli avvocati Fabio Varone e Pina Di Credito. Di fatto, la donna è sottoposta ad atti persecutori dall’autorità Russa e ha rischiato una estradizione che non assicura il rispetto dei diritti fondamentali, in violazione della convenzione dei diritti dell’uomo e della nostra costituzione che garantiscono il rispetto della libertà personale, il diritto alla difesa e a un giusto processo per Anastasia. Ora però l’incubo è finito. Un atto, uno degli ultimi del ministro della Giustizia uscente, che merita di essere accolto con plauso e riconoscenza. Ha affermato lo stato di diritto del nostro Paese, quello che è carente nel Paese di Putin. Larino (Cb). Covid: dimesso da Malattie Infettive, detenuto muore 2 ore dopo in carcere primonumero.it, 13 febbraio 2021 L’uomo aveva 58 anni ed era originario dell’Albania. Era stato dimesso nella tarda mattinata di ieri 11 febbraio dal reparto di Malattie infettive dell’ospedale Cardarelli di Campobasso. Ma dopo un paio d’ore, appena rientrato nel carcere di Larino, è morto. Una prima diagnosi parla di arresto cardiocircolatorio, ma per far luce sulle cause del decesso di un detenuto 58enne del Penitenziario di Larino è stata disposta l’autopsia. Si cercherà quindi di chiarire le effettive condizioni di salute dell’uomo, albanese residente in Italia da tempo, al momento delle dimissioni dall’ospedale dove era stato assistito per infezione da Covid-19. Il caso riporta alla luce le condizioni dei detenuti del carcere di Larino dove già in autunno era scoppiato un grosso focolaio con decine di contagi. Purtroppo nelle ultime settimane ci sono stati nuovi casi all’interno della Casa circondariale frentana con circa 15 persone risultate positive al Sars-Cov2. Sulla vicenda è intervenuto Aldo di Giacomo. L’esponente del Sindacato Polizia Penitenziaria ha puntato i riflettori sul caso del 58enne deceduto e ha chiesto nuovamente che ai detenuti e agli agenti penitenziari venga somministrato uno dei due vaccini precedentemente autorizzati dall’Aifa, vale a dire Pfizer o Moderna e non quello di AstraZeneca. Di Giacomo contesta infatti la decisione del Governo di far somministrare ai detenuti, ma anche alle forze dell’ordine e agli insegnanti, il vaccino AstraZeneca che al momento sembra essere meno efficace per persone che hanno superato i 55 anni d’età e con patologie accertate. Dubbi che sono legati anche all’efficacia contro le varianti del virus che stanno emergendo negli ultimi mesi anche se al momento anche il terzo vaccino approvato in Italia è considerato affidabile e sicuro contro la variante inglese del virus. Chieti. Covid: salgono i positivi in carcere, la sezione femminile si trasferisce a Rebibbia chietitoday.it, 13 febbraio 2021 Si moltiplicano i contagi nella Casa circondariale di Madonna del Freddo dove anche gli agenti sono positivi. L’associazione Voci di dentro condanna la decisione di trasferire le detenute. Salgono i contagi nella casa circondariale di Madonna del Freddo a Chieti: sono 55, ad oggi, i detenuti risultati positivi al coronavirus (su un centinaio) unitamente a 5 agenti di polizia penitenziaria. “Un dato gravissimo” afferma il giornalista Francesco Lo Piccolo, direttore di Voci di dentro, il mensile dell’omonima associazione di volontariato che opera nelle carceri abruzzesi. “Mentre in Italia in questo ultimo anno tutto è cambiato - commenta - le carceri hanno continuato a funzionare al solito modo: come discarica di problemi sociali. In questi mesi sono state incarcerate persone con pene minime o con residui di pena per reati vecchi di cinque o dieci anni. Il carcere di Chieti ha celle piccole e fatiscenti: era normale che il contagio si diffondesse in questo modo. Ecco il risultato di un sistema penale che vede solo la punizione del carcere, quando le alternative c’erano e ci sono: arresti domiciliari, braccialetto e affidamenti in comunità. Come Voci di dentro lo chiediamo da sempre”. Il direttore di Voci di dentro contesta anche la decisione di trasferire le detenute della sezione femminile di Chieti nel carcere di Rebibbia, maturata dall’amministrazione penitenziaria in accordo con la direzione del carcere teatino proprio per trovare nuovi spazi dove sistemare i positivi dell’istituto. Una trentina le donne trasferite, molte sono dentro per piccoli reati o residui di pena e ci sono anche malate oncologiche. “In una fase di emergenza come quella di questi mesi invece che trasferirle dovevano essere mandate a casa ai domiciliari. E andava fatto per tempo” osserva ancora il direttore di Voci di dentro che parla ormai di “situazione ingestibile”. “Direzione del carcere e polizia penitenziaria si trovano in prima linea, a rischio di contagio, costretti, e davvero lo fanno con dedizione, a lavorare in condizioni estreme, in pochi e abbandonati da una politica che non ha saputo fare prevenzione. Una politica penale giudiziaria assolutamente sbagliata che ignora i propri doveri e le proprie responsabilità - conclude Lo Piccolo - facendo pagare tutto ciò alla polizia penitenziaria oltre che ai detenuti”. Napoli. “Secondigliano, ha il Covid da 50 giorni ma non gli somministrano terapie” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2021 L’Associazione Yairaiha Onlus ha segnalato il caso alle autorità competenti. C’è un detenuto al carcere di Secondigliano che denuncia di non ricevere adeguate cure, nonostante sia positivo al Covid 19 e con sintomi. È l’associazione Yairaiha Onlus che ha raccolto questa denuncia e l’ha segnalata alle autorità competenti. Si tratta di A.C., detenuto in S2 con i sintomi da Covid 19 già dal 23 dicembre del 2020; il primo tampone è stato effettuato il 10 gennaio ed è risultato positivo, il secondo tampone è stato eseguito in data 28 gennaio ed è ancora positivo. “La cosa più grave - segnala Yairaiha - è che non gli è stata somministrata nessuna terapia né altri accertamenti; solo negli ultimi giorni è stato spostato dal 2° al 5° piano sempre senza nessuna terapia specifica”. L’associazione condivide la preoccupazione della moglie di A.C. “sia per la superficialità con cui si sta trattando un caso Covid, ormai infetto da oltre un mese e sia la modalità di svolgimento delle videochiamate che avvengono con diversi detenuti in attesa nello stesso stanzone, utilizzando lo stesso telefono senza che l’apparecchio venga igienizzato nel passaggio da una persona all’altra”. Yairaiha sottolinea che i familiari e i detenuti stanno facendo enormi sacrifici ad accettare la sospensione dei colloqui, ormai da un anno, proprio per limitare il rischio di veicolare il virus all’interno della prigione. “Purtroppo - osserva sempre l’associazione -, come era ampiamente prevedibile, e come si è dimostrato, il carcere non è un luogo impermeabile al Covid. Né si possono chiedere ai familiari che risiedono fuori regione ulteriori sacrifici vietandogli di poter effettuare colloquio con i propri congiunti. Riteniamo quest’ultima una discriminazione vera e propria che lede unicamente il diritto all’affettività e senza alcuna utilità ai fini del contenimento dei contagi”. Per questo l’associazione chiede di intervenire prontamente affinché innanzitutto il detenuto venga adeguatamente curato e, successivamente, gli venga garantito il diritto di far colloquio con i propri familiari al pari degli altri detenuti residenti in regione Campania. Salerno. Detenute senza fissa dimora, a inaugurata una casa d’accoglienza di Rossella Grasso Il Riformista, 13 febbraio 2021 C’è una nuova possibilità per le donne detenute senza fissa dimora. Nel Quartiere Matierno, nella periferia di Salerno è stata inaugurata la Casa Alloggio “San Paolo” un luogo destinato ad accogliere detenute che potranno accedere al progetto “per i senza fissa dimora” finanziato dalla Cassa delle Ammende e promosso dalla Regione Campania in accordo con l’ufficio del Garante dei detenuti, il Prap e l’Uepe. Tale progetto è destinato a coloro che hanno una condanna inferiore a 18 mesi e possono quindi beneficiare della misura di detenzione domiciliare ma non hanno un domicilio. La struttura che ospiterà 4 detenute si erge su di un piano, vi è una cucina laboratorio ed una camera da letto con servizi igienici. Inoltre uno spazio adibito al servizio di segretariato sociale al fine di dare sostegno e supporto al territorio. “Casa San Paolo nasce da un impegno costante è radicato nel Quartiere Matierno da 10 anni, la struttura è stata ristrutturata grazie all’ impegno della fondazione Johnson & Johnson” così esordisce Roberto Romano, responsabile della Cooperativa San Paolo. Attualmente in Regione Campania, sono 11 le persone senza fissa dimora ospitate presso le strutture accreditate. In Campania abbiamo una popolazione detenuta di 6417 persone, 322 donne e 6095 uomini di cui 859 stranieri. “Tali strutture rappresenterebbero un vero progetto di inclusione e non di “trattamento” si trattano i fiori le piante le cose e non gli esseri umani. Sono grato a queste 8 strutture che nella nostra Regione accoglieranno 47 tra detenuti e detenute senza fissa dimora”, ha detto Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania. All’evento di inaugurazione erano presenti Rocco Alfano Procuratore aggiunto di Salerno, Antonio Maria Pagano Responsabile della sanità penitenziaria di Salerno e provincia, Adriana Intilla Responsabile funzionario giuridico pedagogico della Casa Circondariale di Pozzuoli, Giuseppe Mancino Circolo lega ambiente, Antonietta Scafuti Presidente della Cooperativa San Paolo, Padre Tommaso Luongo e don Giacomo Palo e diverse realtà del terzo settore locale. Per il Procuratore Rocco Alfano: “Questa struttura è utile e necessaria soprattutto in questo momento storico colpito dalla pandemia per tutti i detenuti in particolare per quelli più deboli e fragili anche in caso di arresti domiciliari”. Brescia. Un nuovo Centro diurno nel carcere di Canton Mombello quibrescia.it, 13 febbraio 2021 Il Covid ha dato un duro colpo alle numerose attività interne agli istituti di pena bresciani. Da febbraio 2020 le misure di precauzione sanitaria hanno limitato l’accesso ai moltissimi professionisti e volontari che quotidianamente varcavano i cancelli del carcere per prestare la loro opera con le persone recluse. Attività che, oltre a rispondere al chiaro dettato costituzionale della “rieducazione del condannato”, contribuivano a rendere più umano il carcere, più sopportabile la privazione della libertà, meno angosciante la sensazione di solitudine che spesso le persone recluse soffrono e che rende più gravoso il lavoro del personale penitenziario. E, se ancora oggi le cautele sanitarie non consentono la ripresa di molte attività interne, la direzione degli istituti penitenziari bresciani, di concerto con l’area sanitaria dell’Asst Spedali Civili, gli educatori, la comandante e le cooperative sociali di Bessimo e Comunità Fraternità, hanno deciso di inaugurare un nuovo centro diurno interno alla casa circondariale Nerio Fischione di Canton Mombello rivolto principalmente ai detenuti più fragili che, questa mancanza di iniziative, la soffrono maggiormente. La nuova opportunità era stata già programmata prima dell’esplosione della pandemia grazie al progetto regionale finanziato con fondi Cassa Ammende (un fondo alimentato dalle ammende degli stessi detenuti) che oltre alle diverse attività prevedeva l’offerta di uno spazio di riflessione e decompressione dalla vita in “sezione” per giovani reclusi gravati da problematiche psichiche o di dipendenza nella casa circondariale Nerio Fischione. Uno spazio, appositamente arredato e dotato di moderni strumenti tecnologici, pensato per offrire alti livelli di soddisfazione personale ai partecipanti e non come ulteriore elemento di emarginazione dal resto della popolazione detenuta. Dall’8 febbraio 2021, prevedendo il massimo grado di cautele possibili per un’attività in presenza, per 4 pomeriggi a settimana si alterneranno laboratori di arte-terapia, di musicoterapia, con lavori di approfondimento sull’attualità e sulle opportunità territoriali da cogliere una volta terminata la pena. Laboratori tenuti da riconosciuti professionisti che prestano la loro opera con successo all’esterno e ora tenteranno di raggiungere gli stessi risultati anche all’interno del carcere di Brescia con i primi otto detenuti selezionati. Ogni persona privata della libertà, presto o tardi, tornerà a vivere fuori dal carcere. Come sapranno affrontare il loro futuro dipende anche da come viene vissuto il presente detentivo. In questo solco il centro diurno vuole lavorare: far vivere con maggior consapevolezza la reclusione, offrire strumenti di analisi e di lettura di sé, al fine di migliorare lo stare in carcere nell’immediato e le opportunità di reinserimento una volta terminata la pena. Una sfida importante e che in altri territori ha già dato frutti inaspettati. Da lunedì 8 febbraio anche a Brescia è iniziata la sperimentazione, nonostante il coronavirus, perché non si deve smettere di innovare soprattutto in ambienti come il carcere che continuano a essere considerati marginali quando invece dovrebbero essere centrali nella promozione di una società democratica. Per maggiori informazioni sul progetto “Incubatori di comunità: la possibilità di un’alternativa”. Messina. L’Ufficio di Servizio Sociale per i minorenni e “La comunità da Fare” di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 13 febbraio 2021 L’Ufficio di Servizio Sociale per i minorenni di Messina ha ideato e realizzato, in partenariato con l’Ufficio locale dell’esecuzione penale esterna di Messina, il progetto “Osmosi”. Tale progetto, frutto del lavoro congiunto dei funzionari Maria Baronello, Danila Caristi, Carmela Lavina, Toscano Paola, coordinati da Maria Palella, Direttore dell’USSM di Messina, ha rappresentato la traduzione operativa dei contenuti appresi in occasione del percorso laboratoriale formativo “La Comunità da Fare”, che ha contribuito a sviluppare un diverso approccio al lavoro di Comunità nei funzionari coinvolti, fornendo degli input per l’avvio di processi di cooperazione con gli stakeholder del territorio coinvolto, con esiti soddisfacenti. Il piano progettuale è stato realizzato dall’Associazione Bios di Messina che ha prodotto un ricco ed esaustivo report conclusivo che ben ha rappresentato lo sviluppo delle fasi realizzate e gli obiettivi raggiunti come dal video-documentario dell’azione “Peer education” e dalla mappa interattiva. La condizione pandemica ha costretto a modificare le azioni rivolte ai destinatari diretti e indiretti del progetto, portando quindi alla realizzazione di “prodotti smart”, mappa interattiva delle risorse destinate ai giovani presenti nel territorio individuato nel progetto e video rappresentativo della peer education. Airola (Bn). “Botte a un detenuto”, indagati sei poliziotti penitenziari di Enzo Spiezia ottopagine.it, 13 febbraio 2021 Chiusa l’inchiesta del pm Tillo su vicenda del 2019 che sarebbe accaduta, nell’Istituto di Airola. Una brutta storia che racconta presunte botte e violenze ad un detenuto. È finita al centro di una inchiesta del sostituto procuratore Assunta Tillo, che ora l’ha conclusa, chiamando in causa, a vario titolo, per le ipotesi di reato di violenza privata, falso e concussione, sei uomini e donne della polizia penitenziaria in servizio presso l’Istituto penale minorile di Airola. La lente investigativa si è allungata su fatti che si sarebbero verificati a cavallo tra il 26 marzo ed il 1 aprile del 2019 all’interno della struttura, successivamente al rinvenimento ed al sequestro, da parte degli agenti, di due cellulari nella stanza di un ospite, napoletano. Secondo gli inquirenti, durante l’interrogatorio al quale sarebbe stato sottoposto il 26 aprile, il giovane, che si era assunto la responsabilità del possesso dei due apparecchi, sarebbe stato costretto a rivelare i nomi di ulteriori responsabili dell’introduzione dei telefonini nel carcere. Mentre era seduto, sarebbe stato colpito ripetutamente; poi, quando aveva tentato di fuggire, sarebbe stato inseguito lungo il corridoio, messo in un angolo, aggredito e picchiato. Nel mirino, inoltre, quanto sarebbe avvenuto a distanza di qualche giorno: il 1 aprile, quando al recluso sarebbe stato intimato di non riferire ciò che gli sarebbe capitato, altrimenti avrebbe rischiato una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale. Nella stessa circostanza - sostiene l’accusa - gli sarebbe stato detto che se li avesse un po’ aiutati, loro avrebbero fatto altrettanto: il tutto per costringerlo a presentare una dichiarazione orale di rinuncia al diritto di querela. Attenzione puntata, infine, su due relazioni nelle quali era stato descritto l’episodio del 26 aprile, di cui sarebbe stata fornita, a detta del Pm, una falsa rappresentazione. Difesi, tra gli altri, dagli avvocati Gianluca Grasso, Antonio Leone e Vittorio Fucci, gli indagati hanno adesso venti giorni a disposizione per chiedere di essere interrogati e produrre memorie; esaurita questa fase, il Pm procederà alle eventuali richiesta di rinvio a giudizio. Torino. Vita da clochard tra code e attese al gelo: “Ci saranno altri morti” di Filippo Femia La Stampa, 13 febbraio 2021 L’ondata siberiana minaccia chi non ha una casa: “Ora abbiamo paura”. Un senzatetto: “Vivo in tenda, più volte mi sono svegliato senza respiro”. Tutti in coda, battendo i denti sotto la mascherina. Alle 14.30 davanti al Cenacolo eucaristico della trasfigurazione, in via Belfiore 12, c’è una lunga fila: “Qualcuno non ha ancora pranzato, altri invece ritirano già la cena”, spiega don Adriano Gennari. Le persone in attesa non hanno molta voglia di parlare. Quasi tutti sanno del clochard romeno morto nella notte in corso Taranto e chi riceve la notizia per la prima volta non è sorpreso: “Con questo freddo, non sarà l’ultimo. Poco ma sicuro”, sussurra un uomo sulla cinquantina. Ion, romeno di 36 anni, ha appena ritirato la busta con i pasti caldi insieme a un amico che stanotte gli offrirà un tetto: “Fortunatamente ho incontrato lui, oggi mi ospiterà a casa sua - racconta - Ma i giorni scorsi ho dormito in strada anche io, a Porta Palazzo”. Non era la prima volta: da quando ha perso il lavoro, due anni fa, gli accade spesso. Ma l’ondata di gelo, dice, non lo spaventa: “Mi fa più paura la fame. Se trovassi un lavoro non sarei più obbligato a venire qui per poter mangiare”, aggiunge. In attesa del proprio turno allo sportello della mensa si sorseggia una caffè caldo. Una donna ha recuperato una vecchia sedia vicino a un cassonetto e la utilizza per riposarsi. Via Belfiore 12 è una casella sulla mappa del pellegrinaggio che i disperati intraprendono ogni giorno: una giornata in coda, in attesa del cibo o che una doccia si liberi. Si comincia dall’alba, per la colazione, fino all’ingresso nei dormitori per i più fortunati. Gli altri tornano alle loro case con le pareti di cartone. La pandemia ha sconvolto le loro abitudini, spazzando via tasselli importanti di normalità. “Prima molti trovavano tregua dal freddo per qualche ora nelle biblioteche o in altri centri, che ora sono chiusi a causa del Covid”, racconta una suora da anni al fianco dei senzatetto. Il 49enne Gianni si definisce artista di strada e cartomante. Dorme quasi sempre ai Giardini Reali. “Tranne quando arriva il reddito di cittadinanza e posso permettermi qualche notte in hotel - racconta. Ma di solito sono nella mia tenda sul prato”, racconta. A volte, per scaldarsi, le cinque coperte che utilizza non bastano ed è costretto ad accendere un piccolo fuoco. “Un paio di volte mi sono svegliato nel cuore della notte, pioveva e mi mancava il respiro per il freddo. Mi spiace per il clochard morto, lo avevo incrociato un paio di volte. Non si può negare: abbiamo paura di questo gelo”. Qualche metro più in là c’è Alì, un ragazzone algerino di 27 anni. È arrivato a Torino a dicembre dopo un’odissea di 7 mesi a piedi: dalla Turchia attraverso i Balcani fino all’Austria. “Mi ritengo fortunato, dormo insieme ad altre 60 persone in una struttura della Croce rossa - racconta - Ma non so fino a quando potrò fermarmi in quel dormitorio”. La maggior parte di chi frequenta il Cenacolo eucaristico della trasfigurazione vive in strada. Con loro hanno borsoni e zaini, dove stipano tutta la loro vita. “Ognuna di loro ha un dramma alle spalle - spiega don Adriano, che grazie all’aiuto di 15 volontari e Banco alimentare serve 250 pasti ogni giorno. Non vogliono solo cibo, cercano anche il calore di un sorriso o una parola di conforto. E sono molto riconoscenti”, sorride mostrando una confezione di chewing gum che gli ha regalato un clochard. Firenze. Detenuto scrive poesia al rettore dell’Università: “Grazie per lo studio in carcere” redattoresociale.it, 13 febbraio 2021 Il recluso racconta anche la sua difficile storia e la sua difficile infanzia: “Quando sono nato la mia mamma aveva 15 anni e mio padre 18, sono cresciuto con i miei nonni giovani, frequentai le scuole fino a 12 anni, poi ho lavorato, di giorno nei campi, di pomeriggio nei cantieri edili. Un detenuto nel carcere di Firenze scrive al Rettore dell’Università dedicandogli una poesia e ringraziandolo per la possibilità di frequentare la facoltà di agraria a distanza proprio da dentro l’istituto penitenziario. La lettera rivolta al rettore inizia così: “Mi perdoni la mia calligrafia, scrittura carica di nevrosi gratuita. Sono iscritto ad agraria, volevo ufficializzare la mia riconoscenza, e poter dire a tutti voi un grande grazie”. Poi racconta la sua difficile storia e la sua difficile infanzia: “Quando sono nato la mia mamma aveva 15 anni e mio padre 18, sono cresciuto con i miei nonni giovani, frequentai le scuole fino a 12 anni, poi ho lavorato, di giorno nei campi, di pomeriggio nei cantieri edili, e la sera studiavo per il diploma delle medie”. Poi la poesia, dal titolo “La pioggia”, che riportiamo integralmente qui di seguito: La pioggia. Aurora splendente come la vita, nubi a raccolta oscura della vita. dolce è la discesa; faticosa e a raccolta la salita. La pioggia. Armoniosa è in rivolta, essa è la pioggia Che dolcemente scende. Essa ha potere di pulire anche l’umana mente. La pioggia. Di acqua per dar vita, ha il potere di pulire ogni vita, con l’ascesa e la salita: Essa è la pioggia della rinnovata vita. La pioggia. In vapor amorosa sale, è IN dolce vita, per il potere suo, dare la vita. La pioggia. Milano. Musica nel carcere minorile Beccaria, il progetto di Franco Mussida di Filippo M. Capra fanpage.it, 13 febbraio 2021 “I detenuti scoprono la propria libertà”. “Vogliamo fare in modo che il sé emotivo di questi ragazzi cominci piano piano a mostrarsi chiaro, e lo facciamo tramite l’utilizzo di musica priva di liriche, cosicché le melodie possano ispirargli immagini o altre forme d’arte”. Così Franco Mussida, musicista della Premiata Forneria Marconi (Pfm), nel descrivere a Fanpage.it “Swimmer”, il nuovo progetto musicale per i detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano. “Vogliamo fare in modo che il sé emotivo di questi ragazzi cominci piano piano a mostrarsi chiaro, e lo facciamo tramite l’utilizzo di musica priva di liriche, cosicché le melodie possano ispirargli immagini o altre forme d’arte”. Questo il mantra di Franco Mussida, musicista della Premiata Forneria Marconi (Pfm), nel descrivere “Swimmer”, il nuovo progetto musicale, promosso insieme alla onlus Suonisonori e alla dirigente Cosima Buccoliero, nel carcere minorile Beccaria di Milano. Fanpage.it lo ha raggiunto telefonicamente per approfondire l’idea del progetto. Franco, come nasce l’idea? È una costola di un progetto portato avanti dal 2013 al 2016, “CO2”, nel quale utilizzavamo audioteche divise per stati d’animo prevalenti per musica solo strumentale pensata per gli ascoltatori che vivono il carcere. L’ascolto delle melodie doveva essere momento di ristoro interiore e di silenzio, un’occasione per lavorare senza l’uso delle parole e della voce, perché la musica modifica lo stato d’animo delle persone. Perché proprio il carcere minorile Beccaria? Swimmer consente ai ragazzi di cominciare a valutare che l’energia emotiva è quella che orienta la loro vita di relazione e il loro reagire al mondo. Rendersi consapevoli che hanno un mondo interiore e vivo di cui hanno responsabilità. Attraverso la musica riescono a far emergere queste propensioni emotive ciascuno per il suo carattere così da rendere disponibile questo lavoro che la musica fa. Permette ai detenuti di vivere una sensazione del loro sé emotivo molto più evidente e consapevole. La sua frequentazione delle carceri è ben radicata nel tempo... Sì, la prima esperienza risale al 1988. Non entro nelle galere per maturare crediti con il Padre Eterno ma per vivere insieme ai detenuti determinate cose. Dal motore emotivo parte la loro vita e bisogna cominciare dai ragazzi. Per me entrare al Beccaria con la dirigente Buccoliero, Suonisonori e Cpm è importante perché vogliamo fare in modo che il sé emotivo di questi ragazzi cominci piano piano a mostrarsi chiaro. A 30 anni di distanza dalla prima esperienza, cosa le direbbe il suo “Amico fragile” Faber, sempre attento ai diritti degli emarginati? Una volta Fabrizio mi disse una cosa che mi riempì d’affetto: “Franco, sei l’unico vero comunista che ho conosciuto nella mia vita”. Non appresi subito il significato della sua frase, anche perché avevo sì una educazione cattocomunista, essendo cresciuto in una famiglia che votava Pc nonostante trascorressi le mie giornate all’oratorio, e seppur non mi riconoscevo in quell’ideologia, ci riflettei molto. Arrivai dunque a capire che De André, nel vedere la mia attenzione per le cose in modo del tutto naturale, mi disse così non guardando al senso politico ma umano, di condivisione e di rispetto verso l’altro. Se oggi fosse ancora noi, Faber mi chiederebbe di organizzare al più presto un incontro con i ragazzi detenuti. Cosa le piacerebbe per il futuro? Avere sempre persone che reagiscono con meno istintività agli stimoli della vita e del mercato. Noi viviamo nella società dell’immagine e poi vediamo che invece la comunicazione dell’emozione arriva dal suono. Ci stiamo perdendo il senso della libertà dei ragazzi sempre meno portati ad assimilare prodotti sonori e sempre più a produrli. Così possono ritrovare la loro vera libertà. Cosa le ha insegnato il carcere in questo trentennio? A non giudicare nessuno, è tempo perso ed è inutile. Ho visto un film per cui “la giustizia può diventare una macchina per uccidere” di Francesca de Carolis ultimavoce.it, 13 febbraio 2021 Ho visto in questi giorni un film che non conoscevo. “Due contro la città”. Film degli anni Settanta. José Giovanni il regista. Protagonisti un anziano rieducatore, Germain (Jean Gabin), che si occupa di reinserimento di ex detenuti e un ex rapinatore, Gino (Alain Delon). Grazie anche all’attento aiuto di Germain, Gino riesce a reinserirsi nella società, la turbolenta vita passata sembra alle spalle, ma sempre è inseguito, come da un’ombra molesta, da un ispettore, una sorta di Javert contemporaneo (ricordate I Miserabili?), che diffida del suo cambiamento, convinto che il posto di Gino sia il carcere, e controlla e indaga con metodi diciamo poco ortodossi, al limite della persecuzione. Tutto precipita quando Gino sorprende il poliziotto ricattare la sua compagna, e lo uccide nella colluttazione che ne segue. Nel processo i giudici non daranno ascolto alle testimonianze a favore di Gino, a proposito della nuova vita di uomo ravveduto che stava costruendo, come ignoreranno la denuncia di Germain a proposito del comportamento dell’ispettore. Gino viene condannato a morte. Ghigliottina (la pena di morte è stata abrogata in Francia solo nel 1981, praticamente ieri). Il film si chiude con una sconfortante considerazione del vecchio Germain che, ripensando al suo convinto impegno di rieducatore: “Da quel giorno capii che anche la giustizia può diventare solo una macchina per uccidere”. Un film, è stato detto a suo tempo da molta critica, schematico. E forse lo è… esattamente come i meccanismi, purtroppo veri, entro i quali anche noi a volte imbrigliamo la vita delle persone. Come accade quando pensiamo al carcere e a chi per un motivo o per l’altro vi è condannato e… “sicuramente” persone che lo meritano, “sicuramente” incorreggibili, “sicuramente” meglio che stiano lontani dalla parte “sana” della società. E che peste li colga! E così, quando nel marzo dello scorso anno in alcune carceri sono scoppiate rivolte, reazione più che altro alle confuse notizie a proposito di questa “peste” del 2000, alla mancanza di informazione, al pensiero che per via del Covid sarebbero stati interrotti i colloqui con i parenti, sarebbero stati sospesi i permessi, con tutto il panico, lo smarrimento che questo ha comportato… Il racconto immediato, mainstream, che ne è nato ha seguito lo schema di sempre, quasi noioso nella sua prevedibilità: delinquenti, drogati… hanno approfittato della situazione, tutto organizzato dalla mafia e da gruppi anarchici (singolare alleanza!?!). E quando è “tornata la calma” e si sono contati i morti… 13 persone morte… sono state liquidate, quelle persone, come una “drammatica conseguenza”, e i morti colpevoli di essersela procurata, quella morte, con un’overdose di farmaci, erano persone drogate d’altra parte… Tutto molto semplice, molto schematico… Peccato, o meglio per fortuna, che i primi a farsi e fare domande sono stati il Garante nazionale delle persone private della libertà, le associazioni che si occupano di diritti dei detenuti… poi sono iniziate ad arrivare le denunce… di pestaggi, di punizioni collettive “postume”, di torture. E ce ne sarà voluto di coraggio per presentare quelle denunce, per raccontare. Così, oltre a garanti e associazioni, ne hanno ampiamente parlato giornali nazionali, abbiamo sentito la voce dei testimoni in una coraggiosa puntata di Report. Per i pestaggi nel carcere di S. Maria Capua Vetere sono indagati 57 agenti penitenziari, vengono contestati loro i reati di tortura (e finalmente dopo l’approvazione della legge che ne introduce il reato possiamo anche noi pronunciare questo nome), violenza privata, abuso di autorità. Le procure indagano anche su quello che è accaduto a Modena, a Foggia. Vedremo. Magari si spezzerà anche qualche automatismo della nostra mente. Intanto, a leggere delle denunce, dei maltrattamenti e delle violenze su cui si indaga (e non solo di quelle in occasione delle rivolte), viene da ripercorrere all’indietro la nostra storia, seguendo un filo rosso che parte da non molto lontano. A questo proposito, penso a un libro di cui ho seguito la nascita, “Le Cayenne italiane” (edito da Sensibili alle Foglie), una raccolta di testimonianze curata da Pasquale De Feo (attualmente detenuto ad Oristano) sull’esperienza del 41bis nelle sezioni Agrippa di Pianosa e Fornelli dell’Asinara, nei primi anni 90, in piena “emergenza mafia”. Sono testimoniate vessazioni, violenze, pestaggi. Ci furono “pentimenti”, suicidi. Un quadro che, si riporta nel libro, il magistrato di sorveglianza di Livorno, Merani, definì “non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose”. Ed espresse seri dubbi sul fatto che fosse questo un modo per contrastare credibilmente la criminalità organizzata. Ma “l’emergenza” sembra giustificare tutto. Alla fine degli anni ‘90 quelle sezioni furono chiuse, e mai si è parlato davvero di quel che accadde. Ma credo bisogna andare a rileggere, perché quello che non si ricorda può sempre ripetersi. Se “l’emergenza” tutto sembra giustificare. Indecenze a noi ancora più vicine. Quel filo rosso che parte da Pianosa e dall’Asinara passa, ci avete pensato?, attraverso quel che venti anni fa accadde al G8 di Genova. Le inaudite violenze della caserma Bolzaneto, trasformata in un vero e proprio lager dagli agenti del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria. Dunque, è difficile pensare ad azioni di “mele marce”, definizione con cui si giustificano singoli atti di violenza che qua e là pure compaiono nella vita del carcere. E per quei fatti la Corte Europea ha condannato l’Italia: fu tortura. Quei fatti, gravissimi nella storia della nostra democrazia, sembra siano stati troppo presto dimenticati. E rimangono, a minarne lo spirito, come cosa non metabolizzata. Così è ancora possibile che cose simili accadano ancora oggi, al riparo anche del buio degli “automatismi” che ci accecano. Perché interrogarsi su quel che accade nelle nostre carceri? “Sicuramente” chi è dentro se lo merita, “sicuramente” si tratta di persone incorreggibili, “sicuramente” meglio che stiano lontani e ben separati dalla parte “sana” della società. E cosa importa se il carcere, se addirittura la giustizia “può diventare una macchina per uccidere”. E non c’è bisogno di essere manganellati o torturati. Basta semplicemente non essere considerati, o tenuti o ributtati in carcere anche se malati, come non solo in questi tempi di Covid per qualcuno, sempre troppi, ancora accade. Gli immigrati nella “trappola” della pandemia, il nuovo libro del Centro Astalli di Iacopo Scaramuzzi La Stampa, 13 febbraio 2021 Il coronavirus non ci ha trovato tutti uguali, non ci ha resi tali, e ha rappresentato anzi una “trappola” per le persone che vivono ai margini, gli invisibili, gli immigrati. È incentrata su questa considerazione un nuovo libro del Centro Astalli, la branca italiana del Jesuit Refugee Service. Durante la presentazione il cardinale Gualtiero Bassetti ha sottolineato che gli stranieri, emarginati da anni di diffusa cultura individualista, con la pandemia sono “spariti dai radar”; il direttore de La Stampa Massimo Giannini ha però rilevato segnali positivi, con l’arrivo di Mario Draghi e la conversione europeista, pur da prendere con cautela, della Lega di Matteo Salvini; e intanto l’ex pm Gherardo Colombo progetta una nave per salvare i naufraghi nel Mediterraneo. “La trappola del virus. Diritti, emarginazione e migranti ai tempi della pandemia”, da oggi in libreria e online sul sito di Edizioni Terra Santa, è un dialogo a due voci, tra padre Camillo Ripamonti, direttore del Centro Astalli, e la politologa Chiara Tintori, che prova a immaginare un modo per fare uscire gli immigrati dalla trappola, in futuro, tenendo presente il passato recente, a partire dalla visita di Papa Francesco a Lampedusa. L’emergenza e le misure di contenimento della pandemia da Covid-19, è il filo rosso del volume, per noi “cittadini” hanno portato alla limitazione dell’esercizio di alcuni diritti, ma per coloro che la nostra società relega ai margini, i diritti inviolabili dell’uomo, sanciti anche dalla nostra Costituzione, non hanno ancora trovato una tutela adeguata. “La rabbia sociale e la caccia agli untori che in più occasioni si sono manifestate”, ha detto il cardinale Bassetti nel corso della tavola rotonda virtuale di presentazione del volume, “sono da un lato tipiche reazioni prodotte nel corso della storia in occasione di ogni epidemia, ma dall’altro lato sono conseguenze della nostra cultura individualista che si era ormai già affermata in società negli ultimi decenni: mi riferisco a sviluppo ipertrofico della cultura dell’io, del “prima io” che, ben prima di ogni manifestazione politica, era ben presente nelle relazioni interpersonale e nei media: “prima i nostri”, “prima i connazionali”, “prima i vicini”… in questo brodo culturale c’è realmente poco spazio per lo sviluppo di cultura dell’incontro con chi è altro da me, ed è sufficiente ricordare come si è sviluppato dibattito su migranti nell’opinione pubblica mondiale”. Già emarginati nel corso degli anni, con l’arrivo della pandemia, secondo Bassetti, gli immigrati “sono scomparsi dai radar dell’informazione e della polemica politica, ma non è scomparsa tuttavia la necessità di dar vita alla cultura dell’incontro per la quale il Papa si batte spendendoci la vita e rimettendoci la salute”. Il direttore de La Stampa Massimo Giannini ha proseguito il ragionamento rilevando, a sua volta, che “oggi stiamo pagando una semina infame di troppi anni trascorsi all’insegna della cultura dell’io, di un individualismo esasperato che poi, tradotto in politica, è diventato “prima io”, “prima gli italiani”, “prima chi sta bene”, “prima chi ha più soldi”“, ma ha altresì calato il discorso nell’attualità politica di questi giorni. E registrando, in particolare, “alcuni cambiamenti politici che potrebbero spingerci a aprire qualche spiraglio alla speranza”, a partire dall’europeismo professato dalla Lega in vista di un ingresso nel Governo di Mario Draghi. E se la “conversione” europeista di Matteo Salvini, addirittura sul tema dei migranti, “non credo sia stata così profonda, ma risponde all’esigenza di rispondere a una fase nuova”, ha detto Giannini, tuttavia, “dobbiamo chiedere conto a chi ora si professa europeista e solidale dopo essere stato per anni intollerante xenofobo e egoista”. Sperando che l’Italia, con Draghi, possa comportarsi come fece la cancelliera tedesca Angela Merkel nel 2015 di fronte all’arrivo di sei milioni di siriani, “Wir schaffen das”, ce la possiamo fare, siamo un grande paese democratico. “Io spererei di arrivare a una libera circolazione delle persone, mi rendo conto che ce ne vorrà del tempo, pensiamo ad accontentarci di qualcosa di meno al momento”, ha detto da parte sua Gherardo Colombo, ex magistrato e oggi presidente onorario di ResQ - People Saving People, che sta progettando di mettere in mare una nave per salvare migranti naufraghi. “Già il fatto di evitare che le persone muoiano annegate attraversando il Mediterraneo è un primo obiettivo”. Padre Ripamonti ha concluso l’incontro online ricordando tre verbi necessari per fare uscite i migranti dalla “trappola” della pandemia, accompagnare, servire e difendere: “Li avevamo già portati in una situazione di marginalità, il virus ha costituito per loro una trappola, ora bisogna accompagnarli fuori da quella trappola, creare le condizioni per farli uscire da quell’angolo. Bisogna poi servire, cioè non servirci dei migranti che ci pagano le pensioni, risolvono i nostri problemi demografici, sono mano d’opera a nostra disposizione, ma tentare di capire ciò di cui loro hanno bisogno. E difendere, cioè non difenderci dai migranti, da chi arriva in Europa, abbandonandoli in mare, facendo accordi con la Turchia e con la Libia che li hanno relegati fuori dai nostri confini, non difenderci da loro ma difendere loro: e la pandemia ci riconsegna questo mandato oggi che molte più persone sono ai margini, sono all’angolo”. In trappola. Nascita dell’America, la nazione-carcere che inghiotte i neri di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 13 febbraio 2021 Gli Stati Uniti vantano il 5% della popolazione mondiale e il 25% di quella carceraria. In pratica un detenuto su quattro del pianeta vive dietro le sbarre di una prigione americana. Il cupo ritratto dell’universo carcerario statunitense mostrato dal docu-film Netflix “XIII Emendamento” è racchiuso tutto in queste raggelanti cifre. Ci sono più detenuti negli Usa che in qualsiasi altra nazione, il doppio della Cina che ha un miliardo e mezzo di abitanti e non proprio un sistema giuridico fondato sulle garanzie e il diritto. Molti di più di qualsiasi Stato autoritario o dittatura, sia in termini assoluti che in percentuale. Qual è stata dunque la genesi di questa enome nazione-carcere e quali sono le sue vittime designate? Sono le domande che ripercorre “XII Emendamento”, individuando come punto di svolta la fine della schiavitù al termine della Guerra civile. Una svolta che avrebbe dovuto consegnare la comunità afroamericana alla piena cittadinanza ma che di fatto ha segnato il passaggio dallo schiavismo alla carcerazione di massa. Centinaia di migliaia sono stati i neri arrestati nei mesi successivi alla guerra per reati risibili come il vagabondaggio. Nelle carceri servivano da mano d’opera al comparto industriale degli Stati del sud, che in questo modo compensarono la perdita dei preziosi schiavi. Tutto questo fu possibile anche per la cultura profondamente razzista di cui milioni di bianchi erano imbevuti. Il mito del negro criminale e stupratore, pericoloso come una belva, nasce con la liberazione degli schiavi e con oltre 5 milioni di afroamericani a “piede libero”, un mito che persiste nei decenni successivi. Rappresentato plasticamente in “Birth of a Nation”, il lungometraggio di David Wark Griffith ambientato durante la guerra di secessione, elogio della nazione bianca e dei cappucci del Ku Klux Klan, dipinto come un’avanguardia di patrioti e giustizieri dei neri feroco e predatori. La pellicola del 1915 ebbe un successo vastissimo, salutata come un capolavoro ridiede forza e vigore al Klan che all’epoca era caduto in disgrazia. Nel corso degli anni quel razzismo manifesto e sfrontato è stato progressivamente emarginato nella società americana, o meglio è stato sostituito da un linguaggio più burocratico e da una diffusa forma di controllo sociale e repressione dei neri. Il perno di questo sistema naturalmente è il carcere. Dopo la stagione dei diritti civili, da Rosa Parks a Martin Luther King, negli anni 70 comincia l’impressionante ipertrofia dell’universo carcerario Usa, in poco più di trent’anni i detenuti passano da 500mila a oltre 3 milioni, un fiume di detenuti che riempiono le carceri, in gran parte afro e ispanici, grazie alle nuove durissime leggi contro la criminalità. Non più i “negri”, ma i “criminali super predatori”, e gli “spacciatori” che di fatto sono la stessa cosa. Da Nixon a Reagan, da Bush senior a Clinton, da Bush jr a Trump, passando per Obama tutte le amministrazioni hanno gonfiato il numero di carcerati. Decisivo in questo intreccio tra cultura giustizialista e interessi economici è stato il ruolo dell’Alec, una società di consulenza giuridica finanziata dai grandi gruppi industriali, tra cui la Cca, la maggiore azienda privata per la gestione delle prigioni che da almeno trent’anni influenza la legislazione sulle carceri. Le leggi restrittive approvate dall’amministrazione Clinton, in particolare il “tre colpi e sei fuori” (ergastolo al terzo reato) e l’aumento delle pene minime sono state praticamente fotocopiate dai “suggerimenti” dell’Alec. Anni dopo Bill Clinton in persona si scusò pubblicamente per quelle leggi, ammettendo che furono un grave errore. Ma il circolo vizioso che porta la Cca a generare profitti per ogni nuovo detenuto che entra nei suoi circuiti penitenziari, non si è mai interrotto. Di fatto le prigioni piene sono un business troppo lauto perché la politica possa svuotare le celle. Negli ultimi quattro anni la Cca ha gestito i centri di detenzione per immigrati che durante l’amministrazione Trump sono spuntati come funghi sul territorio statunitense, E per il futuro l’Alec già sta architettando progetti di legge da mettere sul tavolo degli amministratori per la video- sorveglianza, per il controllo della libertà condizionata e per l’ottimizzazione del lavoro dei detenuti all’interno delle carceri, un altro fiorente business che fa gola alle imprese. Proprio come duecento anni fa. Sui migranti la politica non cambia, ma c’è l’incognita Salvini di Carlo Lania Il Manifesto, 13 febbraio 2021 Luciana Lamorgese confermata al ministero dell’Interno. Attenzione ai diritti umani e ai vantaggi per l’economia. Ma la Lega già scalpita. Da ex banchiere Mario Draghi ha un approccio all’immigrazione, almeno quella regolare, prevalentemente collegato all’economia e ai benefici che possono derivare dalla presenza nel nostro Paese di lavoratori stranieri. Anche guardando al futuro. “La popolazione in età da lavoro diminuirà gradualmente nella prossima decade” spiegò nel 2016 intervenendo da presidente della Bce al Brussels economic forum. Sottolineando come l’integrazione dei migranti se non proprio risolto, avrebbe comunque aiutato a frenare il calo demografico che da anni affligge l’Italia (nel 2019, secondo uno studio della Fondazione Leone Moressa, a fronte di 6,5 bambini ogni mille abitanti nati da coppie italiane, se ne sono registrati 12,6 da coppie di origine straniera). Senza contare, nello stesso anno, i benefici per le casse dello Stato derivanti dalla presenza di 5,3 milioni di stranieri regolari, il 48% dei quali risulta occupato. Complessivamente la ricchezza prodotta da chi ha scelto di vivere nel nostro Paese è stata di 147 miliardi di euro, pari al 9,5% del Pil, un tesoretto di cui fanno parte 26,6 miliardi di euro di entrate fiscali (13,9 sono i contributi previdenziali e sociali pagati dagli stranieri, sempre secondo lo studio della Fondazione Moressa). Tutti numeri che il premier conosce bene, e che potrebbero avere un peso anche per quanto riguarda i futuri arrivi, tanto più adesso che il decreto immigrazione varato dal governo Conte 2 non prevede più un tetto massimo annuale all’ingresso dei lavoratori stranieri nel decreto flussi. Diverso il discorso se si parla di immigrazione irregolare. Quale sarà la politica del governo di fronte agli arrivi di migranti sulle nostre coste? La riconferma al ministero dell’Interno di Luciana Lamorgese, la ministra che ha messo fine alla politica dei porti chiusi di Matteo Salvini e accelerato le procedure di sbarco dalle navi delle ong, risponde già in parte alla domanda, anche se non in maniera definitiva. Contrariamente infatti a quanto accadeva solo fino a qualche settimana fa, l’immigrazione sembra essere sparita dall’agenda politica del Paese. Non se ne è praticamente parlato neanche durante le consultazioni avute da Draghi con le delegazioni dei partiti e chi ha provato ad accennarne non avrebbe ricevuto risposta. Il che, naturalmente, non significa che il premier non conosca bene i drammi che si ripetono ogni giorno nel Mediterraneo centrale e che quanto accaduto pochi giorni fa con la nave Ocean Viking, che ha salvato 422 migranti sbarcandoli poi ad Augusta, non possa ripetersi presto (la Open Arms è in mare e la prossima settimana anche la Sea Watch 3 dovrebbe arrivare nel Canale di Sicilia). Dunque? “L’uomo è per il rispetto delle regole in qualsiasi campo, e l’immigrazione non fa eccezione”, spiega un senatore che ha incontrato Draghi durante le consultazioni. Stando così le cose allora è probabile che i porti continueranno a restare aperti. Ben tre convenzioni internazionali, quella della Nazioni unite sul diritto del mare del 1982, quella per la sicurezza della vita in mare del 1974 e quella sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979, sanciscono infatti non solo l’obbligo per gli Stati di soccorrere quanti si trovano in pericolo di vita in mare, ma anche quello di far arrivare i naufraghi in un porto sicuro escludendo i Paesi nei quali “la loro vita e la loro libertà sarebbero minacciate”. Un esempio per tutti, la Libia. Sul fronte europeo è quasi scontato che il nuovo premier dovrà, con la ministra Lamorgese, spingere perché si rimetta mano al Piano su immigrazione e asilo presentato dalla Commissione Ue in cui, dietro il paravento di una presunta solidarietà europea, si continua a lasciare tutto il peso dell’immigrazione ai Paesi di primo approdo. Il parlamento europeo ha appena cominciato a discutere una riforma del regolamento di Dublino, ma nonostante le pressioni a fare in fretta da parte della Commissione passeranno mesi prima che si possano raggiungere dei risultati. Che comunque dovranno passare per il Consiglio Ue dove oggi basta l’opposizione di pochi, come è successo in passato, per far saltare tutto. Difficile, infine, non registrare l’incognita Salvini. Pur di far parte del governo Draghi il leader della Lega si è limitato a chiedere il rispetto delle norme europee per quanto riguarda l’immigrazione, riferendosi ai maggiori controlli delle frontiere esterne. Ma cosa farà se le navi delle ong dovessero intensificare le azioni di soccorso? Piuttosto di apparire agli occhi dei suoi elettori come esponente di una maggioranza che non ferma gli sbarchi, lasciando questo ruolo a Fratelli d’Italia, alla fine potrebbe decidere di mettersi di traverso. Ieri Salvini ha già lanciato i primi segnali di inquietudine. Non era passata neanche un’ora da quando Draghi aveva letto la lista dei ministri e in televisione ha avvertito: “Su alcuni temi serve discontinuità: Lamorgese e Speranza o cambiano marcia o avranno bisogno di aiuto e sostegno, mettiamola così”. Migranti. Caso Asso Ventinove, gli eritrei respinti denunciano il governo italiano di Sarita Fratini Il Manifesto, 13 febbraio 2021 Cinque cittadini eritrei intentano una causa civile contro il governo Conte I e a nave privata Asso Ventinove: il 2 luglio 2018 li riportò in Libia coordinandosi con la Marina militare italiana. Alla base dell’azione legale testimonianze dei sopravvissuti, i tracciati e i documenti della stessa compagnia. Dopo due anni di ricerca della verità, anni in cui i governi italiani Conte I e Conte II hanno respinto gli accessi civici alle comunicazioni in mare nella notte tra il primo e il 2 luglio 2018 e mai risposto a un’interrogazione parlamentare sulla vicenda, cinque cittadini eritrei avviano un’azione legale presso il Tribunale civile di Roma. E la verità viene fuori. Un respingimento collettivo gigantesco in Libia (276 persone secondo i libici, 262 secondo gli italiani) sarebbe stato disposto e coordinato dalla autorità italiane nell’ambito di un evento SAR tenuto segreto. I fatti che seguono sono stati ricostruiti a partire dalle testimonianze dei sopravvissuti, i tracciati di navigazione della nave privata italiana che ha materialmente operato il respingimento, la Asso Ventinove della Augusta Offshore, ma soprattutto sulla base dei documenti presentati dalla stessa compagnia nelle fasi preliminari dell’azione legale: il diario di bordo della nave e la relazione del comandante Corrado Pagani, inviata al Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto (Mrcc). Ciò che manca, invece, sono le comunicazioni tra i militari italiani nelle ore precedenti al coinvolgimento della Asso Ventinove. Il 1 luglio 2018, dopo 20 ore di navigazione, tre gommoni in fuga dalla Libia sono in difficoltà in un punto non ancora precisato del mar Mediterraneo. “Abbiamo telefonato ai soccorsi italiani - ci raccontano i passeggeri di una delle imbarcazioni, partita il giorno prima da Khoms - e in seguito siamo stati sorvolati da alcuni aerei”. Dopo molte ore, alle 19, arriva sul posto la motovedetta libica Zwara. Uno dei tre gommoni è già affondato, la metà dei passeggeri affogata. I libici recuperano i sopravvissuti di questo e delle altre due imbarcazioni: “276 migranti in tutto”, scrivono sul loro account Facebook. Con troppe persone a bordo e il mare grosso, la Zwara procede a rilento verso sud. Alle 22.10 la base della Marina militare italiana a Tripoli chiama la nave privata Asso Ventinove, in servizio alla piattaforma della Melitah Oil and Gas (una partecipata di Eni), e le dà istruzioni per una operazione SAR: il soccorso alla motovedetta Zwara. All’una di notte la Asso Ventinove arriva sul posto e trova già lì, fermo, non si sa da quanto tempo, il cacciatorpediniere lanciamissili della Marina militare italiana Caio Duilio, un enorme pattugliatore (150 metri di lunghezza) già impiegato nell’operazione “Mare Sicuro”. Da quel momento saranno i militari italiani sulla Duilio a dare istruzioni alla Asso Ventinove. I naufraghi vengono trasferiti dalla Zwara sulla Asso Ventinove. Alcune donne, tra cui Dahia, incinta all’ottavo mese, parlano con l’equipaggio italiano, dichiarano di essere eritree e di voler chiedere asilo all’Italia. L’equipaggio risponde: “Vi portiamo in Italia. Adesso dormite”. La nave riparte. Al mattino, invece dell’Italia, compare il porto di Tripoli. I sopravvissuti al naufragio vengono rinchiusi nei lager di Tarek al Mattar e Triq al Sikka. Tra di loro ci sono 29 donne, almeno una incinta, e 54 minorenni. Persone respinte in segreto in Libia, gettate sul pavimento dei lager e lì dimenticate. Almeno due morte, di fame e malattia. Invisibili. La storia del respingimento collettivo del 2 luglio 2018? Occultata. Nelle primavera del 2019 cercammo le vittime del caso Asso Ventotto (altro respingimento operato da nave italiana, per cui oggi c’è un processo penale a Napoli, prima udienza il 26 febbraio). Ma in un lager libico trovammo Ato, Cris, Kissa e tanti altri che ci raccontarono una nuova storia, la loro. Due anni di indagini. All’inizio soli, poi con il collettivo appositamente fondato, Josi&Loni Project (dal nome di due dei respinti: Josi, morto sul pavimento del lager di Zintan, e Loni, nato nel lager di Triq al Sikka), poi con il supporto degli avvocati di Asgi e l’aiuto di tantissime altre realtà e associazioni. Martedì 16 febbraio alle ore 18, sulla pagina Facebook del JLProject, il collettivo ripercorrerà tutti i passi di questa lunga ricerca della verità. Oggi cinque cittadini eritrei, miracolosamente sfuggiti all’inferno libico in cui sono stati illegalmente ricacciati, intentano causa civile contro il consiglio dei ministri e tre ministeri (retti da Conte, Salvini, Toninelli e Trenta), contro il comandante della nave Asso Ventinove Corrado Pagani e contro la compagnia Augusta Offshore. Tra i ricorrenti ci sono Ato, respinto ancora minorenne, e Loni, il più piccolo, che sulla Asso Ventinove era ancora nella pancia della madre. Per ora i ricorrenti sono solo cinque perché non si possono rappresentare le vittime che sono ancora in Libia. “Prendere la procura legale di un rifugiato in Libia - ci spiega l’avvocata di Asgi Lucia Gennari - è impossibile”. Tra le numerose violazioni dei diritti umani e civili subite dai migranti, c’è anche il mancato diritto a un avvocato. Testimoni ci raccontano che persino nel tribunale ordinario di Tripoli i processi per il reato di immigrazione clandestina (pena: detenzione a tempo indeterminato con lavori forzati, secondo la legge libica 19/2010) sono celebrati senza la presenza di un difensore. Già due, tra i rifugiati illegalmente respinti il 2 luglio 2018, sono morti e altri potrebbero subire la stessa sorte. “L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e Unhcr hanno tracciato e conosciuto la storia di queste persone - denuncia l’avvocata Giulia Crescini durante la conferenza stampa di ieri sul respingimento del 2 luglio - ma poi hanno coperto e affiancato l’attività delle autorità italiane”. Racconta che sul molo, al momento dello sbarco a Tripoli, il personale di Oim era presente e identificò tutti i respinti. Tuttora, continua Crescini, Oim non risponde alle richieste di accesso agli atti presentate a nome dei ricorrenti. Anche Unhcr intervistò tutte le vittime finora rintracciate e ascoltò la loro storia. Ma nelle schede che ha fornito ai ricorrenti non c’è traccia degli eventi del luglio 2018. “Perché Unhcr e Oim non hanno mai denunciato il fatto?”, si chiede l’avvocato di Asgi Salvatore Fachile. Abbiamo chiesto l’opinione di Oim e Unhcr in Libia. Dai primi non abbiamo ricevuto risposta, mentre Unhcr, attraverso la portavoce Gluck, specifica: “La nostra posizione è chiara: la Libia non è un porto sicuro e nessuno dovrebbe essere riportato in Libia dopo essere stato soccorso o intercettato a meno che non ci siano alternative. Unhcr e Oim sono spesso presenti nei porti libici per fornire aiuto, la nostra priorità è assicurare assistenza salva-vita. Se veniamo a conoscenza di casi di respingimento, li solleviamo alle autorità competenti” I dubbi sul ruolo dell’Italia nei respingimenti che avvengono quotidianamente nel Mediterraneo sono tanti. Le operazioni SAR sono coperte da segreto militare e ai cittadini è negato il diritto di appurare se la direzione italiana dei respingimenti operati dai libici sia un caso isolato o la prassi. Dietro questo segreto militare potrebbero celarsi altri respingimenti collettivi, illegali per le leggi europee e italiane, e che potrebbero esporre il nostro paese a decenni di cause e sanzioni. “Stavi cercando me?”, esclamò Kissa, piena di stupore, quando la ritrovammo nella cella delle donne di Triq al Sikka. “Sì, stavo cercando te”. Questo caso è importante anche perché dimostra che nessuno è invisibile e che tutti i reati contro i diritti umani possono essere scoperti e denunciati. Migranti. La storia di Gedi: somalo, ex detenuto, lavoratore integrato, che ora verrà espulso di Vladimiro Polchi La Repubblica, 13 febbraio 2021 La vicenda di un giovane ex detenuto nel carcere della città campana che, a pena scontata, ha fatto poi un percorso di integrazione di 10 anni. Ma non è bastato. Riportiamo la testimonianza raccolta da Sale della Terra, una Rete di Economia civile che conta 11 cooperative consorziate, 257 dipendenti e ospitano persone fragili, oltre che un Albergo Diffuso, undici Sprar-Siproimi - Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati - in altrettanti Piccoli Comuni chiamati “del Welcome” “Neanche gli animali sono trattati così, i letti sono tutti attaccati e senza spazio, merda e urine ovunque e una puzza di stalla umana”: si chiama Hassan Gedi Abtidon, è di nazionalità somala, ma a Benevento è conosciuto e amato da tutti come Gedi. Adesso, però, Gedi a Benevento non c’è più. È nel Centro per i Rimpatri di Bari e parla sconvolto, dice che vuole raccontare a tutti quello che succede in una Struttura della Repubblica Italiana che dovrebbe semplicemente ospitare persone. È una storia che poteva e doveva essere di integrazione, di successo. Una di quelle a lieto fine per una persona e per una intera comunità che lo aveva accolto. L’encomio ricevuto per la sua condotta. Gedi è arrivato nella Casa Circondariale di Benevento nel 2012 e lì il Centro Ascolto Carcere promosso dalla Caritas Diocesana di Benevento ha accolto da subito le sue richieste di beni di prima necessità, perché Gedi era privo di qualunque aiuto materiale. Grazie alla Caritas e grazie alla mediazione degli educatori del carcere, Gedi ha ricevuto l’attenzione e la considerazione che gli hanno consentito di ritrovare sé stesso in quanto uomo e non detenuto. Nel Carcere di Benevento Gedi si è impegnato, ha lavorato, ha persino avuto un encomio “per il particolare impegno e senso di responsabilità” mostrati durante le attività lavorative. L’esperienza da bracciante agricolo. Dopo i primi permessi premio, la stima verso Gedi è cresciuta fino a fargli guadagnare la possibilità di muoversi liberamente sul territorio. Un passaggio importante, reso possibile dall’atteggiamento responsabile e di ravvedimento mostrato da Gedi che, così rinforzandosi, ha apprezzato con pazienza e tenacia le piccole evoluzioni della sua “lotta per la libertà”. Anche per le autorità, dunque, Gedi era pronto a reintegrarsi e far ritorno nella società prima del suo fine pena definitivo. E così prende a casa nel centro storico di Benevento, lavora con un contratto come bracciante nell’agricoltura della Rete “Sale della Terra”, al Bistrot “Alimenta”, nel progetto S.I.P.L.A. Sud - “Sistema Integrato di Protezione per i Lavoratori Agricoli”, nel Centro Aziendale “Gioosto” E alla fine, il decreto di espulsione. Ma è all’Orto di Casa Betania” che Gedi viene conosciuto e amato da tutta la città di Benevento. Ne diventa il simbolo e il punto di riferimento, l’animatore e il tutor. Gedi e l’Orto sono l’identificazione dell’accoglienza, della coesione sociale e della possibilità di riscatto che la Costituzione Italiana prevede dopo un percorso di detenzione. Gedi ha scontato la pena. Tutta. Ma per la legge italiana non basta scontare la pena, non bastano i contratti di lavoro, non basta essere il punto di riferimento di una comunità, non basta essere una persona amata, “restituita” alla bellezza e alla umanità, non basta essere accolti e voluti, non basta amare quella che si considera la propria città. La pena ha fatto di lui una persona rieducata, ma non basta. A Gedi, richiedente asilo, è stato notificato decreto di espulsione. Non sono bastati dieci anni di vita integrata perfettamente. Non è bastato nulla. L’appello e la raccolta di firme dei beneventani. E mentre lo trasferivano a Bari, la comunità “Sale della Terra” si è attivata, lo ha raggiunto a Bari, lo ha incontrato e gli ha promesso che questo legame non si spezzerà. Intanto la città si sta interrogando e si sta mobilitando e, nell’appello per la raccolta delle firme si legge, tra l’altro, anche che “Gedi ama Benevento e non l’avrebbe mai lasciata. Benevento è una città piccola e Gedi fa parte di Benevento, fa parte delle nostre famiglie. Gedi parla con tutti, gioca con i bambini, si confronta con gli amici beneventani sulla sua vita e su quello che vorrebbe fare. Gedi è amico, è zio, è nipote, è fratello di tutti quelli che lo conoscono. Questo è stato possibile solo per merito suo. I bambini lo aspettano nell’area giostrine dell’”Orto di Casa Betania”. Gedi guarda al futuro con speranza. Rispetta questa città che gli ha dimostrato che un’altra vita è possibile. Gedi deve rientrare nella sua città, perché è giusto così. Restituitecelo. È una cosa giusta”. Dalla Bbc ai social media, quando regimi e autocrati spengono le voci libere di Carlo Pizzati La Stampa, 13 febbraio 2021 Dalla Bbc ai social media, quando regimi e autocrati spengono le voci libere. Pechino bandisce la tv inglese, l’India minaccia Twitter, a Varsavia e Mosca leggi anti-Facebook. Sempre più governi nel mondo temono il dissenso e oscurano vecchi e nuovi mezzi d’informazione. In questo momento si sta combattendo una battaglia planetaria per il controllo dell’informazione tra Stati autoritari (ma anche qualcuno di più democratico) e social media (e anche qualche network tv). È uno scontro per stabilire chi ha il diritto di controllare le informazioni ed entro quali limiti. Da una parte troviamo interventi di censura in Cina, India, Birmania, Polonia, Ungheria e Russia, ma anche nel Regno Unito. Dall’altra parte, Facebook, Twitter e Instagram, spalleggiati da Google e Amazon. La notizia più immediata è che la Bbc è stata bandita dalla Cina. I firewall dell’Internet cinese rendono già difficile vedere i programmi dell’emittente britannica nelle case dei cinesi, ma da oggi nemmeno nel milione di stanze d’albergo e di quartieri per stranieri ci si potrà sintonizzare sulla Bbc. La motivazione ufficiale è l’aver trasmesso un reportage sulle donne di etnia uigura che denunciavano stupri di massa nei grandi campi di “rieducazione”. La Bbc, secondo l’Amministrazione nazionale per la radio e la televisione cinese, è “faziosa e imprecisa nel suo giornalismo che danneggia il senso di unità etnica della Cina”. In realtà, si tratta di una ritorsione. Una settimana fa, la Ofcom britannica, ente che regola le trasmissioni tv e radio, aveva ritirato la licenza dell’emittente di Stato China Global Television Network perché è controllata dal Partito comunista cinese. E, secondo il regolamento britannico, le tv che trasmettono nel Regno Unito non possono essere controllate dai partiti. Si tratta, in verità, di una presa di posizione aggressiva contro Pechino da parte del governo di Boris Johnson, che si schiera con la linea americana. L’ex presidente Donald Trump, difatti, un anno fa aveva limitato il numero di reporter cinesi negli uffici di corrispondenza americani delle cinque emittenti statali di Pechino. In risposta, la Cina aveva fatto espellere dozzine di corrispondenti del Wall Street Journal, Washington Post e New York Times. Ma la vera guerra, ora, non si combatte nel censurare i reciproci mezzi di informazione tradizionali, bensì nel controllare il flusso di comunicazione dei social media. Il governo indiano, che blocca spesso tutti i collegamenti Internet nelle zone delle proteste come il Kashmir o l’Assam, ha già vinto una battaglia minacciando i dirigenti di Twitter a Delhi di arresto e reclusione fino a sette anni se non avessero bloccato centinaia di account degli agricoltori che scioperano alle porte della capitale. Twitter si è dovuta adeguare, violando i propri standard. Il motivo principale del contendere è chi debba detenere l’autorità di censurare i post sui social. I generali golpisti della Birmania hanno subito chiarito che Facebook, utilizzato dalla metà dei suoi 53 milioni di abitanti anche per commercio e affari, deve adeguarsi alle normative dei militari, che hanno avanzato una proposta di legge per decidere loro quali post limitare su Facebook, Instagram, Messenger e addirittura controllare l’utilizzo di WhatsApp. Immediate le proteste dell’Asia Internet Coalition, che raggruppa Facebook, Google, Amazon e Apple: “Una minaccia significativa alla libertà d’espressione che rappresenta un passo repressivo dopo anni di progressi”. Ma il punto è: chi ha diritto di censurare i post? I proprietari dei social o i governi? Ancora più preoccupante la sfida che si svolge in Europa. In Ungheria, il governo conservatore propone una legge con multe salate contro Facebook perché censura i post della destra. Il premier Viktor Orban teme infatti di venire bandito dai social come l’amico Trump, cosa che potrebbe pregiudicare la sua ri-elezione. Così si è mosso d’anticipo. Judith Varga, ministra della Giustizia, accusa Facebook di “limitare la visibilità delle opinioni cristiane, conservatrici e di destra”. E in Polonia, Sebastian Kaleta, viceministro della Giustizia, ha proposto una legge con multe fino a undici milioni di euro per i social che non rimettono online i post di destra censurati “per proteggere le idee della sinistra”. Intanto in Russia, dove la protesta contro l’arresto del leader dell’opposizione Aleksey Navalny si è mobilitata grazie ai social, Vladimir Putin ordina al governo di preparare nuove leggi che limitino il potere di Facebook, Twitter e Instagram, compreso l’obbligo per le ditte di Silicon Valley di avere degli uffici a Mosca, così da monitorare le scelte sui post da censurare. E far pagare le conseguenze a manager e dipendenti. È una battaglia importante, che determinerà il futuro di una delle basi del concetto di democrazia, quello della libertà d’espressione. Per questo l’Unione europea, che ieri ha denunciato l’oscuramento della Bbc in Cina, sta cercando di convincere sia Silicon Valley sia gli Stati membri ad aderire a normative comuni: ma potrebbe essere troppo tardi, perché i social media, in diversi fronti globali, si trovano già a dover proteggere il proprio diritto al controllo dei post da molte spallate dei governi. Bielorussia. “Letti di ferro, torture e condizioni igieniche disumane” di Cristian Cappelletti open.online, 13 febbraio 2021 Parlano i prigionieri delle carceri di Lukashenko in. Tre manifestanti hanno raccontato a Open il periodo di detenzione: “L’obiettivo del regime? Farci crollare”. Le loro storie. Sei mesi di proteste, migliaia di arresti, e le accuse di torture contro i manifestanti. Dopo le elezioni dello scorso 9 agosto, la Bielorussia di Aleksandr Lukashenko si è trasformata in un quotidiano campo di battaglia. Ma per il presidente, rieletto in agosto, con un risultato dietro cui per molti osservatori si nascondono brogli elettorali, le proteste degli ultimi mesi sono state “una guerra lampo”. Le rivendicazioni democratiche sono state frutto di tensioni “create artificialmente da forze esterne”, ha detto Lukashenko intervenendo l’11 febbraio a un’assemblea davanti a funzionari civili e militari. A parlare di resistenza, in un’interpretazione ribaltata della realtà, è proprio il presidente bielorusso in carica dal 1994: “Dobbiamo resistere a tutti i costi e il 2021, quest’anno, sarà decisivo”. Nel tentativo di rimanere in carica, il presidente ha cosi annunciato che una bozza di riforma costituzionale sarà presentata entro la fine di quest’anno e “sottoposta a referendum” all’inizio del 2022. “Dalle 6 alle 22 ci era proibito toccare letti” - Ma mentre Lukashenko cerca di consolidare il suo potere, nelle strade del Paese protestare continua a essere illegale. “Sono stato arrestato per la prima volta il 10 ottobre”, racconta a Open Tim Suladze, 41 anni, detenuto per un totale di 28 giorni nelle carceri bielorusse. Artista di strada, Saladze si mantiene con la sua musica. “Quel giorno stavo suonando la tromba quando la polizia mi ha presto, caricato su un blindato, e portato in questura”. Un processo di cinque minuti via Skype e poi la condanna a 15 giorni di reclusione per aver partecipato alle proteste contro Lukashenko. Uscito di prigione 23 ottobre, Suladze, cittadino bielorusso, con un passaporto georgiano e russo, è stato arrestato nuovamente il 4 novembre. “Per otto giorni non è stato possibile fare una doccia. Dalle 6 del mattino alle dieci sera ci era proibito toccare letti, potevamo solo sederci per terra, o su panchine di 60 cm”. Un divieto che è continuato anche quando Suladze si è ammalato: “Dormivo per terra e usavo la mia giacca come cuscino”. Una volta uscito il 41enne ha scoperto che la famiglia gli aveva inviato dei medicinali in carcere ma “le autorità li avevano requisiti”. Durante il periodo in carcere i detenuti sono inoltre obbligati ad ascoltare musica di propaganda: “Ci facevano calpestare la bandiera bianco rossa”, simbolo delle proteste pro-democrazia. Una volta uscito, Suladze è riuscito a rifugiarsi in Lituania: “Ho ottenuto asilo politico, ma sono riuscito ad attraversare il confine solo grazie al mio passaporto russo”. Il confine tra Mosca e Minsk è infatti chiuso, e per i bielorussi non è possibile lasciare il Paese, a meno che non dimostrino di doversi spostare per motivi di studio o lavoro. Calci e spray urticante - Aleksander è invece stato arrestato lo scorso 20 novembre da un gruppo di uomini in borghese: “Si erano mescolati tra la folla. Ma addosso avevano manganelli e coltelli”. Dopo essere stato perso a calci, “mi è stato anche spruzzato dello spray urticante negli occhi”, racconta Aleksandr. “Mi hanno fatto spogliare in mutande per perquisirmi, cercavano simboli del movimento di protesta”. Una volta arrivato nel carcere di Baranovichi, a circa 160 chilometri dalla capitale Minks, anche uno spazzolino diventa prezioso. La carta igienica è rara e le celle sono sovraffollate. “Ci facevano correre per il cortile senza lacci alle scarpe, volevano vederci disperati e afflitti. Ci chiedevano “perché continuate a manifestare?”. Secondo il centro sui diritti umani Viasna, sono almeno 873 le persone che nel mese di gennaio sono state detenute per aver partecipato alle proteste. E ogni gesto di resistenza è diventato motivo di arresto. È successo ad Arianna (nome di fantasia per proteggere la sua identità, ndr), 31 anni, arrestata per aver confezionato e venduto braccialetti bianchi, indossati come segno di riconoscimento da chi, lo scorso agosto, non ha votato per Lukashenko. “Sapevo mi avrebbero fermata”, dice Arianna a Open che rileva di essere stata avvicinata anche dal Kgb: “Mi hanno chiesto di fare la spia, ma quando ho rifiutato mi hanno mandato una settimana in cella cosi che “potessi avere tempo per pensarci”. “Candeggina nelle celle per non farci respirare” - La destinazione per Arianna è stata quella della prigione di Okrestina. “Vivevamo in condizioni disumane, i letti erano fatti di ferro e non avevamo materassi, né lenzuola o coperte”, racconta Arianna. “Era una tortura. Ho cercato di dormire sul tavolo, o per terra. Ma faceva molto freddo”. Dopo la notizia degli arresti, i familiari provano di solito a inviare dei pacchi ai detenuti. “Ma vengono puntualmente requisiti. Se riesci ad avere un cambio di biancheria allora sei fortunata, altrimenti devi rimanere per tutta la durata della detenzione con gli stessi indumenti e le stesse mutande, era terribile”. Gli unici prodotti di igiene che si riescono a trovare nel carcere di Okrestina sono la carta igienica e il sapone. “Nelle celle progettate per cinque persone eravamo in realtà in dodici. Era impossibile respirare perché non si poteva aprire la finestra”, dice Arianna che racconta anche dell’atteggiamento delle autorità. “Dopo aver protestato per diversi giorni ci hanno finalmente portato fuori. Ma visto che c’erano -20 gradi, ci hanno tenuto all’aperto per ripicca per due ore. Una volta rientrate - aggiunge - abbiamo trovato la candeggina su tutto il pavimento della cella, cosi era impossibile respirare”. L’obiettivo del regime di Lukashenko è solo uno: “Vogliono spezzare il nostro spirito, farci crollare psicologicamente. Ma continueremo la nostra resistenza, in carcere ho trovato molta solidarietà. Molti mi consigliano di lasciare il Paese - conclude Arianna - ma non lo farò, questo non è il momento”. Tareq Alaows, la voce dei profughi siriani di Paolo Lepri Corriere della Sera, 13 febbraio 2021 Dalla fuga in gommone nel Mediterraneo per “poter vivere in sicurezza e con dignità” alla candidatura per entrare nel parlamento tedesco. La “rotta dei Balcani” ha come ultima tappa il Palazzo del Reichstag. Questa, almeno, è la speranza di Tareq Alaows, il primo rifugiato siriano che si propone di entrare nel Parlamento tedesco dall’ingresso per i deputati. L’appuntamento è per il 26 settembre, il giorno in cui i cittadini dovranno decidere come andare avanti senza Angela Merkel, la donna che ha aperto la Germania, cinque anni fa, a tanti uomini e tante donne che hanno condiviso le sofferenze di questo trentunenne che oggi li vuole rappresentare. “Voglio essere la voce - dice - di tutti quelli come me e voglio lottare per una società equa e diversa”. Certo, non è detto che Alaows “ce la faccia”, se vogliamo citare la famosa frase pronunciata nell’agosto 2015 dalla cancelliera. La sua intenzione è quella di correre con i Verdi nel collegio di Oberhausen. Perché proprio con loro? Lo ha spiegato a Deutsche Welle. “La crisi climatica - ha sostenuto - aggraverà ulteriormente la situazione delle popolazioni del Sud del mondo: questa è la ragione per cui una giusta politica nei confronti dell’ambiente deve avere al centro la questione delle migrazioni”. Va anche aggiunto che circa il 15% di tutti i deputati dei Grünen ha radici nel mondo dell’emigrazione in Germania, quasi il doppio di quanto accade nel totale del Parlamento. In un Paese, non dimentichiamolo, dove circa un quarto degli abitanti ha origini straniere. Molto critico (forse anche troppo) sulla gestione dell’accoglienza da parte del governo di Berlino, Tarek Aleows ha messo a frutto gli studi di giurisprudenza compiuti ad Aleppo per dedicarsi dopo il suo arrivo a Dortmund (avvenuto nel 2015, quando insieme a lui varcarono i confini della Germania un milione di migranti) alla tutela legale dei profughi che ne hanno bisogno. La sua è una di quelle storie personali che spesso vengono messe da parte, come se fossero normali: le proteste contro il sanguinario regime di Assad, l’impegno nelle organizzazioni di assistenza durante la guerra civile, la fuga in gommone nel Mediterraneo per “poter vivere in sicurezza e con dignità”, la marcia attraverso terre spesso ostili. Il suo primo passaporto ha i timbri dell’inferno. Il secondo si augura di riceverlo in tempo per potersi candidare.