Cartabia, l’opzione che può sciogliere il nodo del carcere di Errico Novi Il Dubbio, 12 febbraio 2021 L’umanità della pena è tra i suoi pilastri, e nella futura alleanza di governo può essere l’unico ponte fra garantisti e giustizialisti. Aleggia un serio rischio sulla giustizia. Una dicotomia paradossale. Ci sarà la riforma del processo civile improvvisamente messa sui binari dell’alta velocità: ora giace semi inerte al Senato, per le incertezze della vecchia maggioranza, con Draghi premier viaggerà spedita verso l’approdo sollecitato dall’Ue. Ci sarà poi tutto il resto: penale, carcere, Csm, separazione delle carriere. Nodi sui quali, come segnalato ieri su queste pagine, si rischia la paralisi da conflitto. Il Parlamento sarà un terreno di scontro fra le forze della futura maggioranza, divise su tutto quanto riguardi il duello giustizialisti-garantisti. Il nome del guardasigilli è dunque legato a un’incognita: cosa potrà fare? Quanto potrà muoversi? A parte il dossier sul civile, come farà a evitare il rischio che l’esecutivo potenzialmente più produttivo della Repubblica sconti proprio sulla giustizia una clamorosa afasia? Tutte incognite che potrebbero a breve complicare il sonno di Marta Cartabia. È lei la candidata più forte per il dicastero di via Arenula. È anzi l’unica che viene data per quasi certa nella lista di Mario Draghi. Ha diversi punti a favore: la levatura di giurista e intellettuale, l’assenza di relazioni con i partiti a fronte di un prestigiosissimo curriculum istituzionale dapprima presidente donna della Consulta, la specificità di cattolica attenta a temi “progressisti”, dalle pari opportunità ai migranti. E naturalmente, il privilegio di essere diventata, nel 2011, giudice costituzionale su indicazione del Colle. Di Giorgio Napolitano, per l’esattezza. Ma non ci sono riserve sulla considerazione che ha di lei anche Sergio Mattarella. Il che, per un esecutivo del presidente, non è requisito marginale. Eppure, la forza dell’ipotesi Cartabia deve fare i conti con le difficoltà che in ogni caso un futuro guardasigilli finirà per avere. Ma c’è un particolare profilo che potrebbe aiutare la presidente emerita della Consulta, qualora nelle prossime ore fosse effettivamente lei a giurare da ministro della Giustizia: l’attenzione per il carcere, l’impegno di giurista e intellettuale cattolica sull’idea di una pena aperta alla speranza per qualsiasi detenuto. Idea di cui si ha un manifesto nel suo recente libro, “Un’altra storia inizia qui”, scritto con Adolfo Ceretti e centrato sulla lezione di Carlo Maria Martini. Perché mai il carcere dovrebbe salvare Cartabia? Perché, sembrerà strano, ma proprio il carcere può essere il solo ponte in grado di mettere in comunicazione, sulla giustizia, la vecchia maggioranza di Conte col resto del mondo. O meglio: Pd e Movimento 5 Stelle con Italia viva e Forza Italia. È così, soprattutto considerato lo sforzo politico messo in campo dal Pd durante le consultazioni, e già nei tentativi per il Conte ter, in vista di un rilancio della riforma penitenziaria. La riforma Orlando, per intenderci. Quella che Nicola Zingaretti ha indicato a Draghi fra le priorità del Nazareno per la giustizia. L’attuale vice di Zingaretti, Orlando appunto, aveva elaborato la riforma penitenziaria con gli Stati generali dell’esecuzione penale quando era guardasigilli. Poi la lasciò senza il sigillo finale alla vigilia delle Politiche 2018, per i timori renziani di perdere voti tra l’elettorato forcaiolo. Alfonso Bonafede ha tenuto il cuore di quella riforma in un cassetto chiuso a chiave. E il cuore riguardava l’eliminazione delle preclusioni rigide nell’accesso ai benefici penitenziari. Il dato politico nuovo è che nelle difficili e infruttuose trattative per il Conte ter, il Movimento 5 Stelle aveva accordato a Orlando e Zingaretti un nulla osta per il rilancio della riforma penitenziaria. È di ieri la notizia (di cui si dà conto anche in altro servizio, ndr) data da Rita Bernardini a proposito dell’appello che l’ha convinta a interrompere lo sciopero della fame per le carceri: il primo firmatario di quell’appello è stato Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia di Montecitorio e deputato del Movimento 5 Stelle. Cartabia può dare senso, contenuto, valore ideale e priorità all’unica riforma di ambito penalistico che potrebbe regalare sorprese. Anche per questo è un candidato difficilmente contendibile per via Arenula. Vale la pena di citare un passaggio della sua “Martini Lecture”, pronunciata lo scorso 16 ottobre alla Bicocca: “La dignità va intesa come incomprimibile possibilità di recupero, di riscatto, qualunque cosa sia accaduta prima, qualunque fatto sia stato commesso: qui è la dignità della persona”. È il senso della storica sentenza con cui la Corte costituzionale nel 2019 ha dichiarato illegittimo il vincolo che consentiva, per i detenuti “ostativi”, l’accesso ai permessi premio solo a condizione che si pentissero. C’è dell’altro. Processo civile a parte, le residue materie sono talmente conflittuali che per farne oggetto di una qualche riforma serviranno straordinari sforzi di fantasia. E anche qui potrebbe aiutare il profilo di una costituzionalista bocconiana come Cartabia. A suggerirlo è un consigliere laico del Csm come Alessio Lanzi, a sua volta accademico proveniente da un altro ateneo milanese, la Bicocca: “La nomina di Cartabia a via Arenula sarebbe una fortuna: un costituzionalista”, dice Lanzi al Dubbio, “sa cogliere i problemi nella loro possibile soluzione alla luce dei principi della Carta. Vuol dire poter interpretare dove altri si fermano, avere una visione complessiva che suggerisce strade diverse e originali”. Uno spiraglio nello scenario difficile della futura maggioranza. Tra molti spunti che incoraggiano un incarico a Cartabia c’è però, a proposito di Csm, una notizia curiosa: ieri il plenum di Palazzo dei Marescialli doveva scegliere un nuovo componente laico per il Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura. In gara c’era anche una docente della Bicocca, Elisabetta Lamarque, che era stata assistente di Cartabia. Ha perso: il Csm le ha preferito una professoressa dell’università di Catania, Maria Rosaria Maugeri. Capita. Se non altro Palazzo dei Marescialli non ha cercato di blandire il probabile futuro ministro. Autonomia e indipendenza nel senso letterale dell’espressione: fosse sempre così, l’Italia sarebbe l’eden della magistratura. Sulla riforma penitenziaria è Salvini che rischia di trovarsi isolato di Errico Novi Il Dubbio, 12 febbraio 2021 Ci sono due frasi che possono fare la differenza sulla giustizia. Una è di Rita Bernardini. Ieri la dirigente radicale, in un’intervista al Dubbio, ha detto di essersi “commossa” quando ha scorso l’appello rivoltole da decine di parlamentari affinché interrompesse lo sciopero della fame. Soprattutto quando ha letto il nome del primo firmatario: Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia e, soprattutto deputato del Movimento 5 Stelle. Trovarlo dalla parte di chi, come Bernardini, si batte per riportare la dignità nelle carceri anche con misure che ne deflazionino gli ingressi, è in effetti sorprendente. L’altra frase chiave è di Matteo Salvini. “Penso che su alcuni temi caldi come tasse, giustizia, garantismo, in Parlamento ci sarà una maggioranza più orientata al centrodestra, perché”, ha detto il leader della Lega ieri sera a “Porta a porta”, “se al centrodestra attuale sommi alcune forze che attualmente sono dall’altra parte e che su quei temi la pensano come noi, siamo maggioranza”. Salvini dice che i garantisti stanno soprattutto a destra, e che nella scomparsa alleanza del Conte bis si trovano avamposti. Ma è davvero così? Perantoni è un avvocato penalista di Sassari. Persino in Italia viva, forza che punta a mettere il suo partito in minoranza proprio nella commissione da lui presieduta, gli si riconosce correttezza, disponibilità al confronto, sui nodi della giustizia penale, pur a fronte di alcune posizioni rigide, come sulla prescrizione. Ma Perantoni non è un caso isolato nei Cinque Stelle. Una linea trasversale, assai meno connotata in senso “general- preventivo” rispetto per esempio a Nicola Morra, esiste. E soprattutto si farà vedere sul carcere. Un po’ perché si tratta di un impegno assunto col Pd, nelle ore convulse in cui si è tentato di far nascere il Conte ter. Un po’ perché lo stesso Alfonso Bonafde si è trovato ad affermare i principi della Costituzione, dell’articolo 27, contro una variegata schiera di ultra- rigoristi. Soprattutto all’epoca delle prime misure anti Covid introdotte per il sistema penitenziario, quando Nino Di Matteo guidò l’attacco a via Arenula per il presunto cedimento dei domiciliari concessi a detenuti di mafia. Liberi dalla responsabilità del ministero della Giustizia, non è escluso che segmenti Cinque Stelle si trovino in realtà su un lato della barricata diverso da quello nel quale sembra relegarli Salvini. E anzi, sarà il Capitano leghista a essere in difficoltà per l’intransigenza, su umanità della pena e deflazione delle carceri, esibita da Fratelli d’Italia, comodamente appostata all’opposizione. A proposito: due giorni fa proprio Giorgia Meloni ha accusato ancora Bonafede per aver prorogato al 30 aprile i domiciliari anti Covid, cioè le misure introdotte dal primo lockdown per ridurre l’affollamento negli istituti, e giudicate del tutto insufficienti da Bernardini. A rintuzzare la leader della destra è stato proprio Perantoni. Che le ha ricordato sì l’esclusione, da quei provvedimenti, dei detenuti per i reati più gravi. Ma anche che la norma sui domiciliari (con braccialetto, quasi mai disponibile) è stata approvata “per far fronte all’emergenza sanitaria anche all’interno delle carceri: o Meloni pensa che non sia importante?”, si è chiesto. Vediamo se davvero il carcere vedrà i solati i 5S. O se non sarà piuttosto il cul de sac del presunto garantista Salvini. Non puoi sfogarti né desiderare. Anche pensare è proibito al 41bis di Maria Brucale Il Riformista, 12 febbraio 2021 In quasi trent’anni il “carcere duro” è diventato sempre più espressione di una esasperazione punitiva, che vuol silenziare la mente e le coscienze. Sono passati quasi trent’anni da quando la feroce uccisione dei Giudici Falcone e Borsellino portò una società stordita dalla violenza di quelle morti ad accettare una legislazione di emergenza che si annunciava già palesemente incostituzionale l’introduzione del regime “41bis”, una carcerazione sostanzialmente sottratta alla tensione rieducativa della pena per chi fosse accusato di essere al vertice di un sodalizio mafioso. Con una riforma del 2002 l’emergenza si è tradotta in immanenza in un solco sempre più profondo di insicurezza sociale e di giustizialismo e quella norma che impedisce alla carcerazione di proiettare il ristretto alla restituzione in società è entrata definitivamente nel nostro ordinamento. Dal 2009, poi, il 41bis ha subito una ulteriore stretta con una modifica che individua nel tribunale di sorveglianza di Roma il solo giudice deputato a decidere sui reclami avverso la detenzione di rigore. Una violazione vistosa del criterio di prossimità connaturato all’esistenza stessa della figura del magistrato di sorveglianza, vicino al detenuto, che ne conosce il percorso e le progressioni ma, soprattutto, la creazione di un monolite giurisprudenziale attestato sulla pressoché fideistica approvazione dei decreti ministeriali. Così ci sono persone che dal 1992 si trovano diuturnamente in 41bis. Alcune ci sono morte. Quasi trent’anni, appunto, di “carcere duro” che si fa sempre più espressione di una spinta esasperatamente punitiva. Numerosi i segnali della giurisprudenza di merito e di legittimità di una carcerazione che vuole i ristretti non più uomini. Con una recentissima pronuncia la Corte di Cassazione ha ritenuto legittima la sanzione di 15 giorni di isolamento inflitta a un detenuto in 41bis per avere affermato, in una sua lettera, di essere stato deportato in un lager (il carcere in cui si trova) dove molti elementari diritti vengono negati. La Cassazione rileva “l’atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari o di altre persone che accedono nell’istituto per ragioni del loro ufficio o per visita. Non può essere revocato in dubbio - secondo i giudici di legittimità - senza che possa invocarsi il diritto alla manifestazione del pensiero, che la definizione del carcere di Rebibbia come lager ove si sarebbe ristretti per “deportazione”, implica giocoforza una offesa alla professionalità di quanti in quella struttura operano, perché il loro lavoro e il loro impegno viene automaticamente oltraggiato con la riconduzione al ruolo di aguzzini e torturatori”. Eppure la censura della corrispondenza dovrebbe essere ammessa soltanto per impedire la veicolazione di messaggi potenzialmente criminogeni. Non è lecito utilizzarla per menomare un recluso della possibilità di sfogare, in una comunicazione che resta privata (seppure letta dal censore) il proprio strazio, la propria sofferenza, anche con toni accesi, iperbolici, perfino rabbiosi. Ancora, dalla suprema Corte: il detenuto non può comunicare ad altro ristretto, con cui è in contatto epistolare, il suo trasferimento in altro istituto di pena. Viola le disposizioni di sicurezza del regime. Non può condividere con altri reclusi un modello di reclamo avverso provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Ciò lo porrebbe, secondo i giudici di legittimità, in un rapporto di supremazia e gli darebbe una indebita autorevolezza. Contro ogni logica, contro ogni umanità, lo si priva del conforto di una corrispondenza soggetta a censura e gli si impedisce di condividere la propria esperienza e di offrire aiuto arma persona che si trova nella sua stessa condizione. Dalla magistratura di sorveglianza, invece, arrivano provvedimenti di divieto di acquistare libri, pur di alto contenuto fondativo, a firma della Presidente emerita della Corte Costituzionale, Marta Cartabia e del Prof Adolfo Ceretti, perché, dice il pm: “il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti e aumenterebbe il carisma criminale” e, conferma il giudice: “il possesso del libro determinerebbe una posizione di privilegio rispetto agli altri detenuti”. Conoscere, migliorarsi, dunque, determina supremazia Ancora. Trattenuta dal magistrato di sorveglianza la lettera di un avvocato al proprio assistito perché contiene un’ordinanza relativa ad altro ristretto, il cui nome è omissato, utile alla sua difesa perché “attraverso eventuali interpolazioni del testo, potrebbe veicolare messaggi illeciti”. Insomma si ipotizza che l’avvocato abbia manipolato il provvedimento per trasmettere al detenuto contenuti criminogeni. La suggestione esplicita, dunque, che il difensore sia correo o, quantomeno, favoreggiatore del clan e la palese violazione di legge perpetrata nel bloccare la corrispondenza, peraltro con il difensore, in virtù di una vaga, inconcludente e calunniosa ipotesi di sospetto. Divieto di pensare, di conoscere, di migliorarsi. Per l’amministrazione penitenziaria anche di desiderare. Vietata la fantasia sessuale. No alle riviste pomo, un mero interesse del ristretto, secondo il Dap non un diritto per poter dare vita almeno nel sogno, nell’astrazione, nel totale isolamento di una condizione di totale privazione, all’istinto che appartiene a tutti, che è connaturato alla persona, che non può essere soppresso, pena la mutilazione della essenza di uomo. Ma sembra ormai tutto lecito per i dannati di quel mondo, il 41bis, di sterile agonia, di silenzio della mente, delle coscienze. Il carcere come luogo di anime e non di soli corpi. Intervista a Rita Bernardini di Oriana Mariotti interris.it, 12 febbraio 2021 Sulla situazione delle carceri italiane durante la pandemia da Covid-19, intervista di Interris.it a Rita Bernardini, politica italiana, membro del Consiglio Generale del Partito Radicale ed ex deputata, che con l’iniziativa non violenta “Memento” chiede un modello di riforma della Giustizia democraticamente scelto dai cittadini. Quando è scoppiata la pandemia nel febbraio del 2020, esattamente un anno fa, le carceri italiane erano già sovraffollate con circa 61mila detenuti a fronte di 50mila posti regolari disponibili con un tasso di affollamento ufficiale del 120%. L’emergenza Covid non ha solo emarginato ancora di più personale e detenuti ma li ha anche resi tutti più vulnerabili. Benché durante l’anno passato la Magistratura di sorveglianza abbia cercato di risolvere in parte il problema del sovraffollamento permettendo al più alto numero possibile di persone di trascorrere gli ultimi mesi di detenzione presso il proprio domicilio, durante l’estate le carceri si sono riempite di nuovo permettendo al virus di insinuarsi con più vigore nelle strutture carenti di servizi e di personale e di mietere vittime, anche tra gli operatori del settore. La situazione contagi aggiornata al 28 gennaio scorso dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria registra un totale di 660 infettati tra il personale e 576 detenuti. Non sono solo i contagi però ad allarmare, ma anche l’isolamento nell’isolamento. Come se le persone che scontano la loro pena in carcere debbano scontare anche un ulteriore castigo dovuto all’impossibilità di ricevere le visite dei propri cari. Spesso gli istituti di correzione non sono digitalizzati e preparati per sostituire gli incontri in presenza con quelli in video conferenza. Le carceri vanno ristrutturate e le infrastrutture tecnologiche modernizzate investendo anche nel personale sia penitenziario che civile per aumentare la possibilità che davvero il carcere sia un luogo di riabilitazione umana e non di martirio. Rita Bernardini che da sempre si occupa dei grandi temi sociali, con impegno sempre più pressante sul versante dei diritti civili e politici, ha dato vita all’iniziativa non violenta “Memento” per richiamare all’attenzione della politica italiana il problema delle carceri sotto la pandemia da Covid-19. Come nasce l’iniziativa “Memento” e perché? “È maturata in uno degli ultimi scioperi della fame. Mi sono detta, perché non andare sotto il Ministero della Giustizia per ricordare al ministro quali sono i suoi obblighi nei confronti della popolazione detenuta. Ogni giorno vado lì e faccio un’ora d’aria camminando e conversando in diretta con Radio Radicale con un interlocutore che il carcere lo conosce. E così sono stati con me Luigi Manconi, lo scrittore Sandro Veronesi, il garante della Campania Samuele Ciambriello, la giornalista Flavia Fratello e tanti altri. Al termine dell’ora attacchiamo un post-it gigante sul muro del Ministero. Oggi era con me Totò Cuffaro che ha lasciato questo memento: le carceri non sono storie di corpi ma di anime”. Che cosa chiederà al nuovo governo e che cosa si aspetta di diverso dal precedente? “Di diverso mi aspetto tutto quello che non è accaduto con i governi precedenti. Come quando si doveva attuare la riforma dell’ordinamento penitenziario, con Gentiloni e Orlando ma all’ultimo momento si è risolta in un nulla di fatto per la paura di perdere voti. Quindi chiederò, con il Partito Radicale e con l’associazione Nessuno Tocchi Caino, che l’esecuzione penale divenga aderente ai principi costituzionali e mi auguro che ci sia attenzione al metodo nonviolento che ricerca dialogo e impegno”. Quali le priorità dell’emergenza Covid-19 nelle carceri e quelle di una nuova riforma della giustizia? “La prima cosa da fare è ridurre immediatamente la popolazione detenuta per farla rientrare in parametri legali e costituzionali. Noi abbiamo le nostre proposte: amnistia, indulto, liberazione anticipata speciale, riforma dell’ordinamento penitenziario così come scaturita dagli Stati Generali dell’esecuzione penale. Ne hanno altre altrettanto efficaci? Le nostre capacità di ascolto sono elevatissime, ma il risultato va raggiunto rapidamente perché oggi le nostre istituzioni continuano a comportarsi senza rispetto nei confronti delle persone che, se condannate, dovrebbero essere… rieducate. Quanto alla riforma della giustizia io credo che il Partito Radicale l’abbia scritta nero su bianco con i suoi referendum storici. Dobbiamo tornare a riproporli perché non credo che Parlamenti e Governi siano in grado di adottarla, meglio che decidano i cittadini”. Sulla riforma della giustizia: che cosa poteva essere salvato della riforma Bonafede e che cosa no assolutamente? “Purtroppo nulla, perché non ha alcunché di sistemico, soprattutto se facciamo riferimento all’equilibrio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. È una controriforma dell’ordine democratico. Il governo è caduto per questa riforma. Nel Paese più condannato in sede europea per l’irragionevole durata dei processi, si è pensato di abolire la prescrizione, cioè l’unico antidoto per cercare di mitigare l’eccessiva lunghezza dei procedimenti contrastata dall’art. 111 della nostra Costituzione e dall’art 6 della Convenzione Edu. Una persona non può rimanere appesa a vita al processo che è di per sé una condanna, anche se alla fine si è assolti. “. Lei ha interrotto lo sciopero della fame dopo l’appello dei parlamentari. Lo riprenderà o c’è speranza di arrivare prima a un tavolo di ascolto? “Ho voluto ringraziare pubblicamente i 35 parlamentari di tutti i gruppi politici che mi hanno chiesto di sospendere lo sciopero della fame in attesa della formazione del nuovo governo e dell’insediamento del nuovo ministro della giustizia. Io mi auguro che non sia necessario riprenderlo. Credo che chi non ha mai fatto uno sciopero della fame non sia in grado di apprezzare fino in fondo quanto sia bello mangiare. Un pezzo di pane ha un valore immenso”. Perché sarebbe opportuna la riforma della giustizia di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 12 febbraio 2021 Il tema è da affrontare perché la fiducia dei cittadini nella legge e nello Stato di diritto è ai minimi termini. Una delle questioni che probabilmente verranno tra le prime nell’agenda del nuovo governo sarà quella della giustizia. Dalla sua soluzione dipendono infatti molte cose certamente importanti - la rapidità nell’attribuzione degli appalti nonché dell’esecuzione dei lavori pubblici, la ripresa degli investimenti stranieri, la durata dei processi in virtù della regolamentazione dell’istituto della prescrizione - ma una più importante di tutte: la fiducia dei cittadini nella legge e nello Stato di diritto. Una fiducia da anni ridotta ai minimi termini non solo a causa dell’andamento della giustizia penale, con la spaventosa durata della carcerazione preventiva spesso destinata a concludersi con un’assoluzione, ma specialmente del contrasto permanente tra magistratura e politica con il reciproco effetto di reciproca delegittimazione che ciò comporta. Il punto cruciale è proprio questo contrasto permanente: anche perché alla fine l’assetto della giustizia dipende in ultim’analisi dalle leggi che regolano la materia, e le leggi come è noto le fa la politica. Considerati in termini di puri rapporti di forza l’attuale rapporto tra magistrati e politici non è un rapporto tra eguali. Infatti i primi hanno in ogni momento il potere di mettere sotto accusa questo o quel politico per una delle migliaia di possibili infrazioni alla miriade di leggi esistenti nel nostro Paese. E in questo modo di distruggere (nel caso migliore di interrompere) la sua carriera, mentre i politici non godono ovviamente di alcun potere analogo. Sta qui la ragione per cui è soprattutto la magistratura inquirente e l’insieme dei suoi poteri il nodo permanente del conflitto. Proprio per riequilibrare in qualche modo tale disparità gli autori della nostra Costituzione (la cui saggezza viene esaltata acriticamente solo quando fa comodo), pur lasciando libera la magistratura di agire contro i titolari di tutte le altre e minori cariche pubbliche, stabilirono che per mettere sotto inchiesta giudiziaria un parlamentare fosse necessaria invece l’autorizzazione del Parlamento stesso. Ma da quando nel 1993 questa disposizione fu cancellata sotto l’infuriare della demagogia scatenata dalle inchieste di Mani Pulite, si è venuto indiscutibilmente a creare un deciso squilibrio di potere a favore dei magistrati nei confronti della politica. Ciò che oltre a molti altri pone anche il problema di come possa esistere nella pratica un’effettiva divisione dei poteri tra poteri dalla forza così diseguale. Né si dica che però la politica ha il potere di fare le leggi alle quali anche i magistrati debbono sottostare. Perché quel potere ce l’avrà certamente la politica, ma è assai meno certo che invece ce l’abbiano i politici, consapevolissimi dei pericoli a cui si espongono se concepiscono e tanto più approvano leggi sgradite ai magistrati. Ad accrescere il vantaggio a favore della magistratura c’è poi il fatto che mentre i politici facendo le leggi agiscono permanentemente divisi tra di loro a seconda dei diversi partiti, i magistrati invece, nel difendere l’ampiezza delle proprie prerogative si presentano con una voce sola e per giunta di natura altamente istituzionale quale è il Consiglio superiore della magistratura. Sta qui, mi sembra, il punto decisivo del problema. Stabilendo l’esistenza del Csm i costituenti vollero evidentemente porre un organo a presidio e dell’indipendenza dei magistrati e quindi degli interessi della giustizia. Non si resero conto però che nella pratica, come è fatale che avvenga in tutte le istituzioni rappresentative a base corporativa, quella loro creatura era esposta al pericolo fatale di divenire soprattutto il presidio degli interessi dei magistrati stessi, della supremazia del loro punto di vista su ogni questione, della loro carriera, della loro virtuale intoccabilità. Cioè del loro potere in generale. Come difatti è avvenuto in una misura e con modalità strabilianti. Recenti rivelazioni legate al caso Palamara hanno illustrato bene quella che ha finito per diventare la realtà del Csm: feroci lotte interne tra le correnti, spartizione spregiudicata degli uffici in base alle simpatie politiche dei candidati, predeterminazione perlomeno tentata dell’esito di alcuni procedimenti giudiziari, corse a piccoli e meno piccoli privilegi di casta (dalla vacanza nell’hotel di lusso al posto allo stadio), collusioni abituali con tutti i poteri della Repubblica. Una realtà di scontri e di piccole miserie umane celata dietro una ferrea difesa degli interessi corporativi opportunamente travestiti sempre da interessi della giustizia. Se ne può trarre una sola conclusione: è assai difficile che l’Italia riesca ad avere una degna e rinnovata amministrazione della giustizia senza spezzare il circuito infernale del conflitto politica/magistratura, ed è difficile che ciò possa avvenire se non si attua una radicale riforma del Csm. Che però solo la politica può mettere in cantiere. Sembrerebbe un circolo vizioso se la Costituzione - questa volta molto opportunamente - non avesse previsto un terzo attore, il presidente della Repubblica, che tra i suoi compiti ha anche quello di presiedere proprio il Consiglio superiore della magistratura. È una circostanza importante. Certo, da un lato può indurre a chiedersi come mai nei lunghi anni passati nessun capo dello Stato sia mai intervenuto a richiamare quell’organo alle sue vere funzioni. Ma detto questo, è una circostanza che oggi offre al presidente Mattarella la possibilità di aggiungere al merito per la soluzione della recente crisi politica, anche quello di dare la spinta decisiva per una riforma del Csm. Riforma ormai improcrastinabile ma assai difficile, per tutte le ragioni dette sopra, se essa venisse proposta da una parte politica. Invece, alle eventuali indicazioni e sollecitazioni del capo dello Stato, magari appropriatamente espresse in un messaggio alle Camere - questo strumento così importante della “moral suasion” propria della funzione presidenziale, eppure così inspiegabilmente dimenticato da sempre - alle indicazioni e sollecitazioni del capo dello Stato, dicevo, è difficile che possano essere in molti a dire di no. E l’avvio a soluzione di un problema come quello della giustizia, inutile dirlo, sarebbe un oggettivo e formidabile aiuto al cammino del governo Draghi. Nel Paese sembra essersi aperta tra le forze politiche una fase nuova, non di unità (che sarebbe cosa innaturale e malsana), ma diciamo così di buona volontà: mi sembrerebbe il caso di approfittarne. Migliorare la giustizia si può, l’importante è mettere bene a fuoco gli obiettivi di Giovanni Pitruzzella Il Foglio, 12 febbraio 2021 La riforma della giustizia è da tanto tempo ritenuta condizione abilitante della crescita ma è stata anche un terreno di scontri partigiani. Perciò è bene che si cominci dalla giustizia civile, dove minori sono i conflitti ideologici e la cui funzionalità è indispensabile per garantire l’adempimento dei contratti e la tutela dei diritti economici, cioè il buon funzionamento dell’economia di mercato. Ma quale deve essere l’obiettivo della riforma? La risposta che campeggia nel dibattito pubblico consiste nella riduzione dei tempi della giustizia civile. Obiettivo sacrosanto visto che mediamente per avere una decisione definitiva ci vogliono circa quattro anni e che certi processi, specie quelli di grande rilevanza economica, durano molto di più. Ma concentrare l’attenzione su questo aspetto porta a tralasciare un altro aspetto non meno rilevante della questione giustizia, e cioè quello della “qualità” delle decisioni giudiziarie. Aspetto che coinvolge due esigenze basilari dello Stato di diritto: la certezza e prevedibilità del diritto e la legittimazione degli organi giurisdizionali, ossia la loro indipendenza. Lo Stato di diritto richiede la sottoposizione sia dello Stato che dei privati alla legge, cioè a una regola di condotta che sia previamente fissata e conosciuta (e quindi che non sia retroattiva). Il governo della legge garantisce insieme la libertà, perché la sfera di libertà dei privati non dipende dai capricci e dalle passioni di chi esercita i poteri pubblici, e il mercato, perché rende possibile il calcolo economico degli imprenditori. Questi ultimi accettano il rischio legato all’incertezza degli esiti delle loro iniziative, ma non possono sottostare all’incertezza sulle conseguenze giuridiche del loro agire. L’economia di mercato, l’efficienza delle transazioni economiche, la possibilità di investire richiedono un quadro di regole preventivamente conosciute e la possibilità di ottenere una tutela effettiva dei diritti che ne derivano. Di contro, oggi in Italia gli operatori economici, quando si confrontano con le regole fiscali, con le regole ambientali o urbanistiche, con il diritto del lavoro, persino con il diritto penale, hanno l’impressione che il diritto sia divenuto “inconoscibile”. Per affrontare questo nodo bisogno risalire al modo come viene prodotto il diritto nelle liberal-democrazie. In esse coesitono due circuiti: il circuito della politica, basato sulla legittimazione democratica proveniente dalle elezioni e dai partiti, e il circuito della giurisdizione, fondato sulla competenza tecnica e l’indipendenza dei giudici. Il primo produce la legge e le altre fonti del diritto, il secondo applica le norme al caso concreto. Il diritto e la sua certezza dipendono dal modo in cui interagiscono i due circuiti. Se le disposizioni legislative si accavallano senza un disegno e sono scritte in maniera incomprensibile, è difficile avere certezza del diritto. Quindi la riforma della giustizia deve andare di pari passo con la razionalizzazione delle fonti del diritto. Poi però ci sono i giudici, che sono molto lontani dalla stilizzazione proto-liberale di “bocca della legge”, perché l’interpretazione è un’attività creativa. La discrezionalità del giudice è ineliminabile ed è anche necessaria per adeguare il diritto legale al caso e alle rapide trasformazioni sociali ed economiche che il legislatore non poteva prevedere. Come ha scritto Aharon Barak, “la domanda fondamentale non è se debba esistere la discrezionalità, ma: dove una società democratica che sia retta dal diritto debba porre i limiti appropriati alla discrezionalità”. Limiti che non possono consistere nei gusti e nelle tendenze politiche del singolo ma in standard oggettivi, tratti dalla Costituzione e dal diritto europeo con l’accento che essi pongono sulla libertà del singolo e delle formazioni sociali, sulla ragionevolezza e la proporzionalità, sul giusto processo. Limiti che per funzionare postulano un contesto istituzionale che garantisca la piena indipendenza dei giudici e che perciò affidi la loro selezione per gli incarichi più importanti esclusivamente alla competenza tecnica. Approfittando del clima di pacificazione nazionale, su questi temi sarebbe utile avviare riflessioni e confronti costruttivi tra tutti gli attori coinvolti. Ministro della Giustizia, la Severino non è il nome giusto di Franco Corleone Il Riformista, 12 febbraio 2021 La crisi della politica e della cultura, binomio inscindibile, è precipitata in un burrone terrificante e terrorizzante. Questo scenario desolante ha spinto il presidente Mattarella a chiedere al prof. Mario Draghi, la personalità più autorevole in campo, di formare un governo di alto profilo e quindi con la presenza di personalità di valore indiscusso e indiscutibile. La discussione si sta avviluppando sulla natura del governo, politico o tecnico, rendendo ancora più plastica la povertà concettuale dei contendenti. Il compito di Draghi non è facile, ma forse avendo presente l’esempio di Ciampi la soluzione non è impossibile. Mi piace ricordare un dialogo che ebbi con Pietro Bucalossi, fondatore dell’Istituto dei Tumori e sindaco di Milano che mi disse che non avrebbe mai accettato di fare il ministro della Sanità per molte ragioni. Così lui medico divenne un eccezionale ministro del Lavori pubblici e ancora si parla della legge Bucalossi sulle concessioni edilizie e il diritto di edificazione come un modello. In seguito fu presidente della commissione Giustizia alla Camera dei deputati e fu determinante per l’approvazione del diritto di famiglia. È la dimostrazione che il tratto determinante risiede nella capacità di capire i nodi delle questioni e di decidere. Ogni decisione è inevitabilmente politica e se una persona è per esperienza abile a sciogliere i nodi lo può fare forse meglio in un campo dove non è condizionato da interessi corporativi o da pregiudizi. Una questione dirimente oggi è condizione della giustizia, penale e civile, e la situazione delle carceri e delle leggi criminogene che alimentano il sovraffollamento. Cominciano a circolare nomi per il ministero delle Giustizia e si fa anche quello di Paola Severino che ha già ricoperto tale funzione nel governo Monti. A futura memoria riporto integralmente quanto avevo scritto nell’Introduzione del volume “Volti e maschere della pena”, curato con il costituzionalista Andrea Pugiotto e pubblicato nel 2013 dalle edizioni Ediesse per la collana della Società della Ragione. “In occasione della discussione al Senato sulla legge anticorruzione, in sede di replica il Guardasigilli Severino (ministro della Repubblica nata dalla Resistenza, come si diceva un tempo) non ha avuto remore nell’elogiare il codice penale vigente e il suo autore, Alfredo Rocco: “[ne] sono personalmente orgogliosa, perché è stato redatto da chi, essendo un tecnico e vivendo in un periodo estremamente negativo nella sua significatività, ha saputo mantenere la barra del timone dritta e costruire un codice valido tecnicamente, tant’è che ancora oggi, a decenni di distanza, è in vigore”. Alfredo Rocco fu certamente un insigne giurista. Ma è stato anche un politico, direttore della rivista intitolata proprio Politica, esponente del movimento nazionalista prima di aderire al fascismo, di cui divenne uno dei più influenti esponenti. Il codice penale che porta il suo nome ha posto le fondamenta giuridiche su cui edificare lo Stato etico e la dittatura: basterebbe la lettura della biografia di Benito Mussolini, scritta da Renzo de Felice, per comprenderne il ruolo nel Regime. Oppure rileggere le parole di Piero Gobetti, che nel suo libro “Rivoluzione Liberale” dipinge Alfredo Rocco come un “candido giurista inesperto di storia” e lo irride come teorico del sindacalismo nazionalista: “I sindacati di Rocco sono un’invenzione di carattere professionale, sono un semenzaio dei nuovi clienti”. Ancora più grave è che un ministro della Giustizia dimentichi (o ignori) che proprio ad Alfredo Rocco si deve il regolamento carcerario del 1931, che tracciò l’impronta teorica sulla funzione della pena propria del fascismo, e in cui abbandonava le raffinatezze dello studioso per assumere le vesti del crudele torturatore. Sarebbe davvero paradossale che a novanta anni dall’entrata in vigore del Codice Rocco, invece di mettere nell’agenda della politica l’approvazione di un nuovo codice, utilizzando i lavori delle tante Commissioni che hanno negli anni prodotto testi riformatori (Pagliaro, Grosso, Nordio, Pisapia) si insediasse in via Arenula una tifosa dell’ideologo dello stato totalitario. Per fortuna nella scelta dei ministri il ruolo del presidente della Repubblica è decisivo come indica la Costituzione e quindi Mattarella fornirà tutti gli elementi per una scelta saggia. D’altronde i nomi di garantisti, uomini e donne, sono ben presenti e in campo. Draghi e la mina giustizia: il Parlamento resta diviso di Luca Fazzo Il Giornale, 12 febbraio 2021 Difficile mettere d’accordo Fi e M5s su una riforma. Verso un’ordinaria amministrazione di “alto livello”. E se alla fine sul tema cruciale della Giustizia il nascente governo Draghi dovesse rifugiarsi nell’unica riforma in grado di non scontentare nessuno, ovvero nessuna riforma? È questo l’interrogativo che nelle ultime ore sta prendendo piede tra gli addetti ai lavori, man mano che il cammino dell’esecutivo tecnico dell’ex governatore di Bankitalia sembra avviarsi al successo. È vero che la linea del “non fare” appare difficilmente compatibile con il profilo di Draghi. Ma è altrettanto sicuro che per il neopremier riuscire a convogliare su un progetto comune le molte anime della sua maggioranza appare impossibile: perché su nessun tema le linee dei partiti pronti a votare la fiducia divergono quanto sul tema della giustizia. Draghi lo sa, e sa anche che proprio sul tema della giustizia si sono inabissati una sfilza di governi. Così potrebbe convincersi che l’unica strada sia lasciare al suo governo la gestione dell’ordinaria amministrazione: una routine di alto profilo, soprattutto se al ministero dovesse approdare Marta Cartabia; e comunque un compito arduo, perché il disastro è tale che anche garantire il decoroso funzionamento di tutti i tribunali grandi e piccoli del Paese sarebbe un successo epocale. Ma che lascerebbe irrisolto il tema delle riforme strutturali senza le quali la giustizia continuerà a essere una palla al piede della modernizzazione del Paese. Sul fonte del processo civile, che sta particolarmente a cuore a Draghi, quanto nel settore penale. La linea che il presidente incaricato starebbe elaborando non rinnega la necessità di queste riforme, ma ne lascia la responsabilità al Parlamento. Sarà lì che le forze politiche dovranno trovare l’intesa intorno a interventi in grado di rimettere in sesto il settore. E se non ci riusciranno saranno loro a prendersene le responsabilità. Se apparentemente questa strategia non fa una piega, in concreto rischia di avere conseguenze spiacevoli. Prima che si possa formare alle Camere una maggioranza su progetti di intervento radicale sulla giustizia rischia infatti di passare del tempo. E nel frattempo si manifesteranno in tutta la loro gravità le conseguenze della “riforma Bonafede” della prescrizione, la misura-simbolo che il ministro uscente ha imposto ai suoi alleati (prima la Lega, poi il Pd) e che è entrata in vigore nonostante le critiche esplicite di tutti i costituzionalisti italiani. La riforma è in vigore, e tutti i reati commessi dall’inizio di quest’anno sono destinati a non prescriversi praticamente mai. Per scongiurare questo scenario, sono state avanzate due proposte: il “lodo Annibali”, dal nome della senatrice di Italia viva che lo ha avanzato, che prevede il rinvio per un anno della riforma Bonafede e il “lodo Conte” (da Federico Conte, di Leu) che ne attutisce gli effetti, con un sistema complicato che distingue tra assoluzioni e condanne. Il Pd l’anno scorso per non litigare con i grillini ha fatto affossare il “lodo Annibali”. Italia viva ha reagito minacciando di votare la proposta d Forza Italia che cancellerebbe la riforma di Bonafede. In questo caos (e con i grillini arroccati a difesa del loro successo) difficile ipotizzare che qualcosa si sblocchi. Più facile che sia la Corte costituzionale, già investita da più ricorsi, a rimettere le cose a posto. A rasserenare il clima non contribuisce certo l’impatto sul mondo giudiziario del “caso Palamara”. Nei giorni scorsi la commissione Antimafia ha deciso di convocare l’ex pm per analizzare le sue accuse: ieri il presidente dell’Antimafia, il grillino Nicola Morra apprende di essere indagato a Cosenza per le frasi (indifendibili) dedicate alla defunta governatrice Jole Santelli. “Sarà certamente un caso”, commenta amaro Morra. Guido Alpa: “Rodotà mi ha insegnato che i diritti vanno conquistati giorno per giorno” di Giacomo Losi Il Dubbio, 12 febbraio 2021 È iniziato ieri pomeriggio il corso organizzato dal Consiglio nazionale forense, indirizzato ad avvocate e avvocati a cui saranno riconosciuti 18 crediti formativi, sull’inclusività delle persone Lgbti che sono a rischio di discriminazione per motivi di orientamento sessuale, identità di genere e razziali nella società e nelle relazioni professionali. Il progetto formativo, al quale si sono iscritti oltre 500 legali, si articola in nove lezioni per un totale di venti ore di formazione sulle pratiche di inclusione a favore dei soggetti a rischio di discriminazione, modulate in tre mesi, fino al 29 aprile. La prima lezione è stata introdotta dalla presidente facente funzioni del Cnf Maria Masi, a cui sono seguiti una “lectio magistralis” del presidente emerito del Cnf Guido Alpa e un dibattito sul ruolo dell’avvocatura nella difesa dei diritti fondamentali con il consigliere nazionale Francesco Caia, coordinatore della commissione Diritti umani, Stefania Stefanelli, professoressa associata dell’università di Perugia, Vincenzo Miri, presidente di Avvocatura per i diritti Lgbti Rete Lenford e Hilarry Sedu, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Napoli. “Il corso del Cnf - afferma la presidente Masi - è la prima esperienza di attività integrata, per le pari opportunità, nell’accezione più ampia e in questo caso con riferimento ai diritti umani. Come avvocati reputiamo fondamentale apportare il nostro contributo al tema dell’inclusione e della diversità attraverso non solo la difesa dei diritti ma anche con la promozione degli stessi nella società e nelle relazioni professionali. Il tema dell’inclusione è da considerarsi, soprattutto oggi, in cui il rischio di affievolimento dei diritti soggettivi è maggiore, un imperativo categorico nell’assolvimento della funzione sociale della avvocatura. Le notizie di cronaca anche recente, purtroppo, - conclude la presidente del Cnf - rinviano a fatti ed avvenimenti non solo non giustificabili nell’ambito della comunità sul piano etico ma gravemente lesivi della dignità umana”. Il tema è poi stato ripreso dal consigliere Francesco Caia - da sempre attentissimo ai temi dei diritti umani - che ha inserito l’iniziativa all’interno di una lunga battaglia del Cnf: “Questo corso - ha infatti spiegato Caia - non poteva che iniziare sul tema dei diritti fondamentali e il ruolo dell’avvocatura. Un ruolo che deve essere valorizzato ed evidenziato, soprattutto ora. Il Cnf da sempre è impegnato nella difesa dei diritti fondamentali. Un tema centrale al livello anche europeo e noi avvocati siamo i difensori naturali dei diritti”. Anche il presidente emerito del Cnf Guido Alpa ha iniziato la sua lectio magistralis sottolineando la continuità dell’impegno, da parte della massima istituzione forense, sul tema dei diritti umani. “Già nel 2010 ha ricordato - il Cnf promosse iniziative che muovevano dai diritti della donna e dei migranti e altre vicende che riguardavano la storia della nostra professione, la storia del Cnf e quelle degli Ordini locali. Mi riferisco alle iniziative assunte nel periodo delle discriminazioni razziali e alla consapevolezza, da parte del Cnf, che quell’epoca storica era costata a molti avvocati la possibilità di esercitare la professione, a volte le libertà e, talvolta, la vita stessa”. “Ecco - ha spiegato Alpa - il Cnf ha preso contatti con le comunità israelitiche, e grazie al lavoro della memoria ha riabilitato tutti coloro che erano stati danneggiati per ridare loro la dignità perduta. E mi piace ricordare - ha continuato Alpa - che l’Ordine di Rovereto per primo ha deliberato di riammettere all’albo un avvocato ebreo che ne era stato cancellato”. “Quando si pone il problema della tutela dei diritti fondamentali legati al ruolo dell’avvocato, nascono problemi di carattere lessicale”, ha spiegato Alpa. “Così dobbiamo procedere con delle convenzioni linguistiche per definire esattamente l’area dei diritti di cui parliamo, e che sono oggetto della tutela. Perché dal punto di vista sostanziale queste posizioni soggettive che riguardano la persona possono essere definite in diversi modi. Possono essere qualificate come diritti umani, come diritti fondamentali e come diritti costituzionalmente garantiti. Divergono invece dal punto di vista processuale, ed è molto importante per l’avvocato che si pone il problema di difendere questi diritti. E a proposito della difesa di questi diritti, si parla di una difesa multilivello perché a seconda della loro qualificazione cambiano le loro forme di tutela e cambia la competenza del giudice che deve pronunciarsi. Tutte le volte che parliamo di diritti fondamentali e umani, se partiamo da una prospettiva processuale, dobbiamo distinguere le diverse categorie e le competenze del giudice”. Poi il lungo e approfondito excursus storico: “I diritti umani hanno una storia secolare: nella Dichiarazione di diritti della Rivoluzione francese si parlava di diritti dell’uomo e del cittadino, e nell’ambito dei diritti dell’uomo si individuavano soprattutto le libertà e la proprietà. Così è avvenuto nelle Costituzioni moderne che collocavano al loro interno o in epigrafe o nel corpo del testo una sorta di elenco dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciuti all’uomo in quanto tale. In altre esperienze abbiamo, per esempio in Germania, la costituzione di Weimar che nel 1919 ha inserito i diritti umani all’interno della Costituzione nelle disposizioni successive, quelle che dipingevano l’organizzazione dello Stato. Le nuove Costituzioni, quelle del secondo dopoguerra, si aprono con le libertà fondamentali. Mi riferisco alle Costituzioni italiana, tedesca, a quella portoghese e spagnola che sono le più recenti. Nell’ambito di questa categoria ci sono anche le libertà economiche, e tra libertà fondamentali c’è il diritto al lavoro, la tutela delle professioni e la libertà di impresa. E poi tutti quei diritti sociali che riguardano i rapporti di lavoro, i diritti previdenziali e quelle forme di cooperazione e sostegno che lo Stato dà all’individuo in base al principio di solidarietà”, ha ricordato ancora il professor Alpa. “Quando si parla di diritti umani e diritti fondamentali, ci si preoccupa anche della lotta alla discriminazione, tanto è vero che in alcuni testi più recenti - per esempio la Convenzione europea dei diritti umani del 50 - contengono un articolo intitolato “Divieto di discriminazioni”, in cui si indicano le ragioni per cui le persone socialmente deboli per religione, orientamento sessuale o per le loro idee possono essere oggetto di discriminazione, quindi di attività che ledono i loro diritti. A questo proposito si parla di minoranze: cioè di gruppi con particolari caratteristiche che appaiono disomogenee rispetto alla maggioranza e dalla maggioranza sono vessati. Dobbiamo quindi considerare questi diritti non solo come diritti individuali ma come diritti vantati da gruppi, e tutto ciò comporta un bilanciamento dei diritti. Nella nostra tradizione costituzionale questi valori sono tra loro posti in correlazione e tra loro bilanciati. In altri termini il principio di uguaglianza viene osservato dal punto di vista formale e sostanziale: vi possono essere trattamenti differenziati ma sempre che siano giustificati da ragioni particolari e sulla base di questo bilanciamento”. “L’unica Costituzione che non accetta il bilanciamento degli interessi è quella tedesca - ha spiegato Alpa - perché la dignità umana, diritto fondante di tutti diritti della persona, non è bilanciabile con altri, non è negoziabile né deve essere posto in correlazione con altri diritti. È un diritto assoluto e immodificabile e irrinunciabile; la dignità umana nella Carta costituzionale tedesca è il diritto cardine che non può essere limitato o contenuto rispetto ad altri diritti. Nella nostra tradizione la dignità è considerata bilanciabile con gli altri diritti fondamentali”. “Non dobbiamo pensare, e questo è un insegnamento che mi ha lasciato il mio maestro Stefano Rodotà del quale vorrei consigliare a tutti il suo libro straordinariamente coraggioso “Il Diritto di avere diritti”, ecco, dicevo, non dobbiamo pensare che una volta che i diritti siano scritti e riconosciuti non richiedano più un’attività di difesa. Si tratta di diritti che si devono riconquistare giorno per giorno perché la struttura sociale, gli orientamenti politici che cambiano possono mettere in gioco e farli retrocedere in un cono di penombra e di minore protezione. Pensiamo al discorso d’odio, all’hate speech, una forma di manifestazione della discriminazione attraverso i mass media e i social media. E qui gli avvocati avrebbero molto da fare, perché sui media e sui social si susseguono migliaia di documenti anche falsi e questo fenomeno dà la misura della tutela dei diritti di una società in un determinato contesto storico. Ci siamo chiesti se possiamo intervenire per contenere i fenomeni di discriminazione razziali o che emarginano chi ha un diverso orientamento politico, religioso e sessuale. E la risposta è diversa a seconda dei diversi ordinamenti. Nel nostro la difesa è garantita perché sono diritti costituzionalmente garantiti. Ma in altri ordinamenti, penso a quello americano, la libertà di espressione prevale e quindi la tendenza è quella di consentire la circolazione di queste fake news”, ha chiuso il professo Alpa. La guerra tra toghe continua: cento magistrati contro un procuratore di Nello Trocchia Il Domani, 12 febbraio 2021 Cento magistrati contro Giovanni Salvi che guida la procura generale della Cassazione, procura che, a metà dicembre, ha incassato anche una sconfitta davanti al tribunale amministrativo per un ricorso presentato dall’ex giudice Esposito. Giovanni Salvi, oggi, è al vertice della magistratura italiana, è il procuratore generale della corte di Cassazione. A gennaio, insieme al capo dello Stato Sergio Mattarella, ha inaugurato l’anno giudiziario. Salvi ha una lunga carriera alle spalle, pubblica accusa in processi importanti, è stato procuratore a Catania, poi procuratore generale a Roma prima di diventare procuratore generale in Cassazione. Proprio il suo ufficio promuove il giudizio disciplinare contro i magistrati protagonisti delle chat con Palamara, ma ora Salvi è al centro di uno scontro tra toghe. Non ci sono solo gli episodi raccontati da Palamara e che hanno scatenato la reazione di alcuni magistrati, che fanno parte del movimento Articolo 101, ma c’è anche un’altra contesa aperta dal giudice, oggi in pensione, Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato, nel 2013, Silvio Berlusconi. A metà dicembre il tribunale amministrativo regionale del Lazio ha bocciato la condotta della procura generale che aveva negato l’accesso agli atti all’ex giudice Esposito. La vicenda inizia nel 2014 quando Amedeo Franco, relatore della sentenza che condanna Silvio Berlusconi, firma un’altra sentenza che sconfesserebbe, a detta di Franco, quella sull’ex cavaliere. Franco, proprio nel 2014, incontra Berlusconi che aveva condannato un anno prima. La presidenza della corte di Cassazione smentisce le affermazioni del Franco ritenendo che i due casi non erano affatto analoghi ed evidenziando che “alcune espressioni erano palesemente superflue rispetto al tema della decisione”. Esposito presenta un esposto contro Franco. Anni dopo, quando giornali e tv citano la sentenza Franco per denunciare la presunta parzialità del collegio che ha condannato Berlusconi, Esposito chiede alla procura generale l’accesso agli atti per conoscere l’esito dell’esposto presentato per mettere al corrente la corte Europea dei diritti dell’uomo dove pende il ricorso berlusconiano e dare corpo alle denunce presentate anche in sede penale per diffamazione. Quella richiesta di accesso agli atti diventa un caso perché ha aperto uno scontro a colpi di ricorsi che non si è ancora chiuso. La procura generale deve consegnare gli atti, in nome della trasparenza, oppure mantenerli riservati visto che riguardano un procedimento disciplinare? Nel luglio 2020, Luigi Salvato, procuratore generale aggiunto, firma il diniego: il ricorrente Esposito non può accedere alle carte relative all’esposto che ha presentato, ma soltanto conoscere che è stato definito. Definito come? Non è dato sapere. Per motivare questa decisione la procura generale fa riferimento a diverse sentenze della giurisprudenza amministrativa che negherebbero l’accesso agli atti relativi al procedimento disciplinare. L’avvocato di Esposito, Alessandro Biamonte, presenta un ricorso che viene accolto dal tribunale amministrativo. “Le pronunce del Consiglio di Stato che la difesa erariale (la procura generale, ndr) invoca a sostegno della legittimità del diniego in questa sede impugnato depongono in senso esattamente contrario”, scrivono i magistrati amministrativi lo scorso dicembre, insomma la procura generale ha letto le sentenze della giustizia amministrativa, ma senza coglierne la sostanza. Per il tribunale l’istanza di Esposito non ha natura conoscitiva, ma si basa su esigenze difensive. Alla fine gli atti sono stati concessi a Esposito, si tratta di un pronunciamento di poche pagine nel quale la procura generale archivia il caso Franco, senza neanche aprire il procedimento disciplinare, perché ormai, passati alcuni mesi dalla presentazione dell’esposto, Franco era andato in pensione. Contro la sentenza del tribunale amministrativo, la procura generale ha presentato ricorso al consiglio di Stato per tornare a un regime di ‘riservatezza’ su questi atti visto che secondo la procura le sentenze della giustizia amministrativa confermano il vincolo della segretezza. Al tema il procuratore Salvi ha dedicato anche una parte del suo intervento durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Un altro aspetto che merita esame è costituito dalla segretezza della fase predisciplinare, segretezza che comprende anche gli esiti delle valutazioni. Per superare questo regime, almeno in termini generali, e per consentire la piena trasparenza delle attività dell’Ufficio, si è prevista la pubblicazione sul sito della procura generale delle massime dei decreti di archiviazione più significativi, così da consentire ai magistrati e all’opinione pubblica di conoscere le ragioni delle azioni in sede predisciplinare”, si legge nell’intervento. L’altro fronte aperto che riguarda Salvi è il libro di Palamara: l’ex magistrato menziona presunti incontri, uno su una terrazza romana, con l’attuale procuratore generale della corte di Cassazione per parlare proprio del futuro di Salvi. A proposito delle chat inviate dalla procura di Perugia riguardante il caso Palamara e le raccomandazioni di diversi magistrati, lo scorso giugno, il procuratore Salvi, firma una circolare nella quale viene trattata la materia degli illeciti disciplinari escludendo i comportamenti finalizzati all’autopromozione “anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali”. A fine gennaio, 97 magistrati firmano una lettera indirizzata al procuratore Giovanni Salvi e al consigliere del Csm Giuseppe Casini, anche quest’ultimo al centro dei racconti di Palamara. “Secondo quanto riportato nel libro, l’attuale procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, in almeno due occasioni avrebbe incontrato in privato e su sua richiesta il Luca Palamara, all’epoca componente del Csm, per caldeggiare la propria nomina a importantissimo incarico pubblico (…) Ove veri, gettano un’ombra inquietante sia sui loro asseriti protagonisti che sulla sorprendente circolare dello stesso Procuratore Generale che assolve per principio chi raccomanda se stesso per incarichi pubblici e chi quella raccomandazione accetta”, scrivono i magistrati chiedendo a Salvi di smentire i fatti o dimettersi dalle cariche ricoperte. “Chi, come Salvi, occupa un ufficio pubblico di rilevantissima importanza (si tratta di uno dei due soli titolari - insieme al ministro della Giustizia - del potere di azione disciplinare nei confronti di tutti i magistrati) non può rimanere in silenzio dinanzi a una accusa del genere”, dice Felice Lima, sostituto procuratore generale a Messina, e firmatario della lettera. “Quando l’organo disciplinare è monocratico e ha un potere di “cestinazione” delle notizie costituenti illeciti disciplinari deve avere una condotta irreprensibile. Proprio l’organo di vertice avrebbe adottato, secondo quanto emerso dal libro di Palamara, condotte da un punto di vista deontologico censurabili. Noi già sapevamo della presenza di pacchetti di nomine, di giochi falsificati, alla luce di tutto questo è inaccettabile che l’ufficio di procura generale, in una circolare, assolva quelli che si raccomandano. E anche l’Anm (associazione nazionale magistrati, ndr), che tace su questa vicenda, rischia di comportarsi come un sindacato giallo”, dice Andrea Reale, giudice delle indagini preliminari a Ragusa, componente del comitato direttivo centrale dell’Anm. Il procuratore generale Giovanni Salvi, contattato dal Domani, sulle questioni riportate, non ha voluto commentare. Stavolta tocca alla politica indagare sulle magagne della magistratura di Matilde Siracusano* Il Riformista, 12 febbraio 2021 Mi stupisce osservare che lo scandalo Palamara, esploso con l’uscita del libro-bomba di Alessandro Sallusti, stia giorno dopo giorno sfumando i suoi contorni. L’attenzione mediatica sembra adesso si stia concentrando sul problema relativo alle ingiustizie subite dai magistrati in contrasto con le correnti e sugli effetti nefasti del disallineamento ai partiti del Csm, che ha compromesso la carriera di molti giudici che oggi si sentono legittimati alla ribellione collettiva contro il sistema malato del quale fanno parte. Si tratta di dinamiche e retroscena deprecabili, soprattutto perché il concetto di indipendenza della magistratura dovrebbe essere una precondizione assoluta, ma ciò che dovrebbe suscitare vero terrore è l’ingerenza politica nel Csm e soprattutto l’ingerenza della magistratura nella politica. Come si coniuga questa commistione di interessi con l’attività giurisdizionale, con le sentenze e con le inchieste eclatanti? Com’è possibile che non siano stati aperti fascicoli per indagare su questi fatti dettagliati nelle dichiarazioni rese da Palamara, che hanno tutte le sembianze delle confessioni di un pentito? Come si fa a non vedere chiaramente che in certi casi la legge non è uguale per tutti? Se le rivelazioni di Palamara avessero investito politici o imprenditori ci sarebbe stata una maxi inchiesta con titoloni da Colossal americano e con centinaia di interviste pop di Pm sullo sfondo di trailer editati con effetti cinematografici. Da giorni osservo trasmissioni televisive che ospitano Palamara ed altri magistrati i quali denunciano gli inciuci torrentizi che hanno compromesso le loro carriere, ma che glissano totalmente sulla questione centrale: quanti innocenti sono stati coinvolti ingiustamente in procedimenti viziati da logiche ben lontane dalla ricerca della verità e della giustizia? Quanti leader politici sono stati perseguitati perché ritenuti nemici del sistema? Se è realistico che “un procuratore della Repubblica con un paio di aggiunti svegli ed un ufficiale di polizia giudiziaria bravo e ammanicato con i servizi segreti insieme ad un paio di giornalisti amici hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo”, allora l’indignazione collettiva non è affatto sufficiente. Serve un’operazione verità che rivoluzioni un sistema di potere smisurato che ha fatto e continua a fare a pezzi la nostra democrazia ed occorre urgentemente una commissione parlamentare d’inchiesta perché chi rappresenta le istituzioni democratiche ha il dovere di intervenire per preservarle. In fondo, non sarebbe peccato mortale se per una volta fosse la politica ad indagare sulla magistratura ma forse lo strumento idoneo all’assoluzione affinché la degenerazione del potere giudiziario non diventi il peccato originale. *Deputata di Forza Italia Clementina Forleo: “Dopo 13 anni il libro di Palamara mi dà ragione” di Angela Stella Il Riformista, 12 febbraio 2021 La dottoressa Clementina Forleo è una delle tante vittime dei meccanismi di strapotere delle correnti della magistratura: nel libro di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, Il Sistema, (Rizzoli) il suo nome è citato undici volte a partire dal capitolo “Chi tocca la sinistra è fuori”. E infatti, come è noto, contro Forleo, ex gip al Tribunale di Milano, ora in servizio in quello di Roma, fu emanato un vero e proprio anatema perché osò sfidare, come sostiene Palamara nel libro, sia la procura di Milano, considerata un “monolite, un fortino delle correnti di sinistra, non espugnabile”, “sia la sinistra, nella primavera 2007 al governo”. Clementina Forleo nel luglio 2008 fu addirittura trasferita da Milano a Cremona a seguito di una decisione del plenum del Csm che rilevò una sua incompatibilità ambientale per le dichiarazioni rese alla trasmissione di Michele Santoro Annozero sui “poteri forti” i quali, anche per il tramite di “soggetti istituzionali”, avrebbero interferito nelle sue funzioni, proprio mentre da gip si stava occupando dell’inchiesta Bnl-Unipol. Il Tar prima e il Consiglio di Stato poi accolsero i ricorsi di Forleo che fu reintegrata a Milano. Prima ancora era stata assolta dalla sezione disciplinare del Csm dall’accusa di aver violato i suoi doveri per i contenuti dell’ordinanza con la quale, nel luglio del 2007, chiese alle Camere l’autorizzazione all’uso di intercettazioni che riguardavano alcuni parlamentari, tra cui D’Alema, Fassino e Latorre nell’ambito della stessa vicenda. Insieme ad oltre cento colleghi, Forleo ha firmato qualche giorno fa una lettera in cui si chiede al Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e al togato del Csm Giuseppe Cascini, di “smentire in modo convincente” il racconto di Luca Palamara che li ha chiamati in causa direttamente. In questa intervista ci tiene non tanto a fare la diagnosi del male che ha infettato la magistratura quanto a proporre una cura in un dialogo con la politica. Dottoressa Forleo, Palamara nel suo libro l’ha definita “l’eretica” che ha osato sfidare certi poteri. Alla luce di quanto venuto fuori in questo ultimo anno e mezzo cosa si sente di dire? Non ho sfidato nessuno, semmai è stato qualcun altro a sfidare me, o meglio il mio operato e con esso l’autonomia e indipendenza della magistratura, senza evidentemente immaginare che a distanza di anni e grazie a un trojan inoculato nel cellulare di uno dei protagonisti di quella e di altre vicende, si potesse pervenire ad una confessione su quanto realmente accaduto. Io ho fatto quello che avrei fatto con qualunque altro potenziale indagato, mettendo inevitabilmente nero su bianco che l’autorizzazione a utilizzare le conversazioni intercettate era necessaria anche per consentire l’iscrizione nel registro degli indagati di taluni parlamentari che all’evidenza risultavano complici dei reati contestati, dato che l’unico elemento a loro carico era costituito da quelle conversazioni. È evidente che l’iscrizione avrebbe dovuto farla l’Ufficio del pm, come è altrettanto evidente che si sarebbe trattato di atto dovuto per il principio di obbligatorietà dell’azione penale, e ciò a prescindere dallo sviluppo successivo del procedimento. Tanto poi non è accaduto, nonostante il Parlamento avesse dato il via libera all’iscrizione, ma io ormai ero stata spedita a Cremona per “deficit di equilibrio”: così si giunse a scrivere in quella vergognosa pagina della magistratura italiana. Ora il dottor Palamara ci fa comprendere senza mezzi termini perché dunque costituivo un “pericolo” e che era necessario spostarmi “di peso” in altra sede. Non mi rimane che ringraziare il tempo, che è sempre galantuomo. Fabrizio Cicchitto ha dichiarato che la sua vicenda, come quella di altri suoi colleghi, mette in evidenza “che nel sistema non c’era solo una sistematica intesa fra le correnti per l’assegnazione dei vari incarichi nella magistratura ma anche almeno dal 1992-1994 fino al 2013 uno scientifico uso politico della giustizia che scientificamente privilegiava la sinistra sia sul terreno dell’attacco sia sul terreno della difesa”. È d’accordo? Posso solo dire che mentre negli anni novanta l’attacco al magistrato libero proveniva solo dall’esterno, ossia dal potere politico, dal 2007 in poi i veri attacchi sono arrivati dall’interno della magistratura associata. Che poi tali attacchi abbiano colpito chi si stava occupando di certe forze politiche “vicine” a certa parte della magistratura, è storia. In altri termini, è saltato il principio costituzionale sancito nell’art.101 anche per volere di alcuni vertici dell’ordine giudiziario. Il professor Vittorio Manes da queste pagine ha detto: “Bisognerebbe prendere atto che l’amministrazione della giustizia è un “servizio”, una “public utility” dove i magistrati sono “civil servant” e i cittadini gli utenti; e che, specie in materia penale, un obiettivo minimo di civiltà impone di assicurare uniformità e parità di trattamento”. Quanto siamo distanti da ciò in questo momento? Nonostante l’impegno dei tantissimi colleghi che amministrano la giustizia nell’unico interesse di rendere un servizio al cittadino, quanto è accaduto a seguito dell’attivazione di quel trojan e a seguito della pubblicazione degli innumerevoli messaggi rinvenuti sul telefono del dottor Palamara ci porta a concludere che siamo lontani anni luce da quel modello di cui parla il professor Manes. Qualcuno vuole ridurre Palamara a capro espiatorio. Lei cosa ne pensa? Spero che si faccia chiarezza al più presto su quello che è emerso dall’indagine di Perugia e che il dottor Palamara non sia il solo a pagare, rappresentando all’evidenza uno dei tanti anelli di quella che altri colleghi anche su queste pagine, hanno definito “cupola”. La parola chiave dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata “credibilità”. La magistratura è davvero pronta ad intraprendere il cammino di redenzione o sono solo messaggi di facciata? A suo parere, come si può sconfiggere il “sistema”? Proprio per il carattere diffuso delle patologie emerse, che hanno investito anche i vertici del potere giudiziario (alcuni dei quali com’è noto, sono stati costretti a dimettersi), ritengo che la cura non possa che provenire dall’esterno. Penso ad una commissione parlamentare d’inchiesta ma penso soprattutto ad una riforma che sottragga l’organo di autogoverno al potere delle correnti, che da centri di confronto culturale si sono via via trasformati in centri di spartizione clientelare del potere, giungendo ad essere complici dell’isolamento del magistrato che osava ed osa pensarla diversamente. Per riacquistare credibilità e per avere la garanzia di magistrati davvero autonomi e indipendenti, io ed altri sempre più numerosi colleghi chiediamo quindi che i componenti del Csm siano eletti in base a candidature non controllate dalle correnti, ma costituite da magistrati estratti a sorte in base a dei criteri prestabiliti, escludendo ad esempio i magistrati più giovani e quelli con censure disciplinari. Ancora, e mi riferisco alle proposte del movimento “Articolo 101”, penso anche a un sistema di rotazione degli incarichi direttivi tra i più anziani del singolo ufficio. Era il 2008 quando dicevo che se non si è “sostenuti” da una corrente non si può aspirare a nessuna nomina, a nessun incarico: già allora ero l’”eretica”, la “donna dai facili applausi” come qualche signore della magistratura associata mi definì con toni, a mio avviso, misogini. A distanza di oltre dieci anni, la nuda realtà emersa dalla messaggistica del telefono del dottor Palamara, oltre che dalle sue stesse parole, mi conferma che non avevo vaneggiato. Nessuna riforma è possibile senza la volontà politica: secondo Lei avrà finalmente questo coraggio? Penso che sia venuto il momento che anche la classe politica tutta “prenda coraggio”, anche nel suo stesso interesse, onde evitare che - come si è visto anche in noti messaggi sempre estratti dal telefono del dottor Palamara e concernenti l’allora Ministro dell’Interno - alcune forze politiche possano essere danneggiate dalla “vicinanza” di taluni vertici del potere giudiziario a forze politiche di segno opposto. Lei in passato, parlando della sua vicenda, ha detto: “Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti”. Crede che adesso ci sarà più solidarietà tra voi colleghi danneggiati o il sistema fa ancora paura e nessuno si esporrà? Ora come allora mi fa paura il “silenzio degli onesti”, ossia dei tantissimi magistrati perbene che per i più vari motivi non osano mettersi contro il “sistema”. Capisco i più giovani e i loro timori, ma mi rimane incomprensibile il silenzio di chi non ha nulla da temere. Qualcuno ci accusa di fare il gioco del “nemico” e di contribuire a gettare fango sulla categoria: mi chiedo, ironicamente, a quale “nemico” e a quale “tipo” di fango ci si riferisca. Concluderei lanciando un messaggio ai giovani colleghi e citando una famosa frase di Indro Montanelli: “Non esitate a lottare per quello in cui credete. Perderete, come ho perso io, tutte le battaglie. Ma solo una potrete vincerne: quella che ingaggerete ogni mattina di fronte al vostro specchio”. Viaggio nella quarta mafia, la più feroce e violenta d’Italia di Giuseppe Legato La Stampa, 12 febbraio 2021 È la criminalità quasi pastorale ma che ha stretto rapporti con la politica e che si estende tra il Foggiano e il Barese, nella zona del Gargano. Stragi e omicidi si susseguono con una crudeltà inaudita. Il magma. È la metafora utilizzata dalla Dna per raccontare in una decina di pagine della relazione annuale la “Quarta mafia”, quella pugliese (diversa dalla Sacra Corona Unita), rinnegata fino a poco tempo fa “la cui gravità delle manifestazioni violente - scrivono i magistrati - era stata generata da faide pastorali”. dalla sottovalutazione a una nuova consapevolezza il passo è stato breve. Probabilmente imposta dalla ferocia pubblica che l’organizzazione attiva nel Gargano e nella provincia di Bari, ha portato sulla scena - e sulle cronache nazionali degli ultimi anni con vere e proprie mattanze. “Questo ritardo cognitivo - si legge agli atti della disamina della Dna - ha costituito, purtroppo, un vantaggio per i sodalizi criminali che hanno potuto radicarsi, evolversi, espandersi, infiltrarsi nelle attività economiche e politico-amministrative”. La Quarta Mafia non ha pentiti, non ha strutture verticistiche e si snoda su due versanti: quello di Bari e quello di Foggia. A differenza di altre mafie - governate da una “cupola” e capaci, quanto meno nei momenti di criticità o per comuni interessi, di rispettare gerarchie interne ed esterne; di creare alleanze stabili; di seguire strategie concordate - la mafia pugliese “appare fatta di sostanza magmatica, mutevole e sempre incandescente: muta la composizione e la potenza dei sodalizi a causa di eventi contingenti quali affiliazioni, carcerazioni, crearsi e disfarsi di alleanze, scissioni interne o inglobamento di piccole realtà criminali locali o di fuoriusciti di altri clan con cicliche e imprevedibili esplosioni di sanguinose “guerre”. È questa, per i magistrati della Dna “l’inevitabile conseguenza dell’assenza di un vertice aggregante, capace di imporre regole, di elaborare strategie, di dirimere contrasti, di creare solide alleanze e, soprattutto, di trasmettere un senso identitario”. Ne discende che “il senso degli affari e l’interesse personale sono gli unici motori per affiliarsi a un clan così come per fuoriuscirne; ed è sempre questo spiccato senso di opportunismo a condurre il fuoriuscito ad affiliarsi ad altro clan o a collaborare con la Giustizia”. Ne discende che “ogni alterazione dei fragili e temporanei equilibri e, più in genere, qualsivoglia intralcio al più spregiudicato affarismo criminale viene sbrigativamente risolta con fatti omicidiari”. Non è un caso che - come ammette la stessa Dna - nell’ultimo anno, il capoluogo pugliese è stato funestato da numerosi fatti di sangue, sintomatici sicuramente di tensioni “le cui inquietanti modalità (agguati sotto casa, gambizzazioni, inseguimenti tra la folla in pieno giorno), unitamente a improvvise riorganizzazioni degli assetti gerarchici dei clan, sono sintomatici del dinamismo e dell’ingestibilità delle nuove leve, impazienti di scalare le gerarchie e disposte a tutto pur di ricoprire ruoli apicali”. La chiamano la “gomorra di cui nessuno parla”. Perché ha ucciso innocenti, carabinieri e rivali senza guadagnarsi per molto tempo la ribalta mediatica e all’allarme dell’opinione pubblica. Lo ha fatto con una ferocia che richiama altre epoche di questo paese. Eppure “lo spaccato più drammatico della realtà malavitosa foggiano- garganica è la commistione tra affari criminali e politico-amministrativi”. Ne nasce un mix di Dna potenzialmente micidiale per l’economia e la democrazia di interi territori. “Una mafia - scrive la Dna - che sa essere insieme rozza, ma anche affaristicamente moderna, capace di continuare ad uccidere vendicando torti subiti decenni addietro e di porsi come interlocutore e partner di politici e pubblici amministratori”. Allo scioglimento dei Comuni di Monte Sant’Angelo (2015) e Mattinata (2018) è seguito quello recentissimo, nell’ottobre 2019, dei Comuni di Cerignola e Manfredonia. “Il terreno su cui la mafia e la cosa pubblica si sono incontrate - si legge agli atti della relazione della Dna - è quello delle feste e incontri conviviali, delle inaugurazioni di esercizi commerciali, partite di calcio. L’opacità e l’ambigua disponibilità degli apparati amministrativi si è concretizzata in atti di assunzione per parenti di mafiosi, rilascio di certificazioni utili per partecipare a pubbliche gare e favori di ogni genere”. Il pericoloso abbraccio si innesta su “una certa “timidezza” - tra comunità civile e le istituzioni in un territorio - in cui l’assenza pressoché totale di collaboratori di giustizia dovrebbe essere sopperita dall’ impegno della comunità civile a “vedere”, denunciare, rifiutare le lusinghe di un welfare illegale”. La risposta dello Stato con arresti e della società civile con marce per reclamare a gran voce legalità “non bastano”. Serve “un processo di crescita culturale e di riscatto sociale nel quale la società civile - essenzialmente sana, ma sfiduciata - dovrà essere supportata da tutte le istituzioni e dalla percezione di uno Stato presente e vicino ai bisogni del territorio, primo tra tutti quello del lavoro”. Se la sentenza accerta la tenuità del fatto non può contenere le statuizioni civili di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2021 La decisione sulle domande delle parti civili presuppone l’esistenza di una formale condanna a eccezione di amnistia e prescrizione. Il proscioglimento impedisce di statuire sulle richieste delle parti civili. A tal fine deve, infatti, sempre sussistere una formale condanna per il reato commesso. E anche il giudice di secondo grado che prosciolga - per qualsiasi motivo - l’imputato non può confermare le statuizioni civili contenute nella condanna di primo grado. Ciò vale anche nel caso venga accertata la ricorrenza della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Unica eccezione a tale regola è quella dell’articolo 578 del Cpp che consente la decisione in merito alle domande delle parti civili quando scatti in secondo grado o in Cassazione il proscioglimento per l’intervenuta amnistia o prescrizione. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 5433/2021, ha annullato senza rinvio la sentenza di secondo grado, che aveva riconosciuto la causa di non punibilità, ma aveva confermato la condanna alla rifusione delle spese di giudizio alla parte civile costituita. Ma come spiegano le sezioni Unite penali ampiamente citate dalla sentenza si tratta di statuizione illegittima anche quando la condanna di tenore civile è generica, come nel caso concreto. L’illegittimità deriva, appunto, dal proscioglimento: cioè dall’assenza di una formale condanna per il fatto-reato anche se questo è stato accertato. Unica eccezione prevista, che consente quindi il mantenimento delle decisioni civili, è quella del proscioglimento per amnistia o per prescrizione, come esplicitamente previsto dall’articolo 578 del Codice di procedura penale. Napoli. Poggioreale, moltissimi detenuti ma anche tante misure anti Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 febbraio 2021 Che il carcere di Poggioreale sia ad alta complessità sanitaria è un dato di fatto. Così come è un dato di fatto che l’emergenza Covid 19 ha messo a nudo quanto sia difficile la gestione sanitaria visto l’evidente sovraffollamento. Come in altri penitenziari, Poggioreale ha avuto periodi nei quali il contagio si era diffuso tra la popolazione penitenziaria tanto da raggiungere nel mese di novembre un totale di 180 casi. Importante l’intervento del garante locale Pietro Ioia e di quello regionale, Samuele Ciambriello, nel denunciare le problematiche emerse e, soprattutto, nel sensibilizzare la magistratura di sorveglianza e le procure, affinché si impegnino per limitare gli ingressi in carcere. Interventi decisivi anche per gli agenti penitenziari che si ritrovano ad affrontare le difficoltà denunciate anche dai sindacati, tra i quali il Sappe. Il carcere di Poggioreale, d’altronde, costruito agli inizi del secolo scorso risente quindi della corrispondenza del complesso architettonico a un modello di esecuzione della pena meramente custodiale: per questo è del tutto diverso da quello che si vorrebbe attuato in base all’Ordinamento penitenziario. Nonostante i lavori e l’apertura di nuovi padiglioni, rimane difficile la sua compatibilità con le esigenze trattamentali. A questo, aggiungiamo il fatto che, nonostante sulla carta sia una casa circondariale, destinata quindi alle persone in attesa di giudizio con pene inferiori ai 5 anni, ci sia un numero cospicuo di detenuti con una sentenza definitiva o mista. Un fattore destabilizzante che anche il Sappe denuncia. Ma ritornando all’emergenza sanitaria, nonostante le evidenti difficoltà strutturali, la direzione del carcere di Poggioreale, in sintonia con la Asl, ha gestito in maniera efficiente le criticità. Ed è stato proprio il garante del comune di Napoli Pietro Ioia a metterlo nero su bianco nel dossier annuale. Nel paragrafo relativo all’emergenza epidemiologica da Covid-19, sono state enunciate tutte le misure adottate dalle Amministrazioni penitenziarie napoletane - quella di Poggioreale compresa per fronteggiare la possibilità di contagi negli istituti. Leggiamo, infatti, che con il diffondersi del virus, l’assetto organizzativo delle carceri napoletani ha risposto all’emergenza epidemiologica su più fronti. Il personale penitenziario e i detenuti sono stati forniti di dispositivi di protezione individuale e sono stati sanificati gli spazi (camere di detenzione, aree comuni e del personale). È stata implementata la presenza degli operatori sanitari: tre psicologi in più a Poggioreale e uno a Secondigliano, mentre a Nisida sono stati aggiunti due Operatori socio-sanitari de è stata ampliata la copertura oraria della guardia medica e infermieristica. Si legge sempre nel dossier del garante Pietro Ioia, che a marzo la Protezione Civile ha provveduto al montaggio delle tensostrutture presso gli Istituti di Poggioreale, Secondigliano e Nisida, installate all’ingresso per permettere lo svolgimento dei controlli sui detenuti “nuovi giunti”, sugli arrestati e su quelli provenienti da altre carceri. Il protocollo per questi detenuti prevede tuttora la quarantena cautelativa di 14 giorni; questa viene effettuata nei reparti Venezia e Firenze a Poggioreale e nel reparto semiliberi di Secondigliano, adattati per fronteggiare adeguatamente l’emergenza. Gli istituti hanno previsto anche l’installazione di termo-scanner e l’uso di termometri a infrarossi per il triage di ingresso di tutto il personale penitenziario (tra cui polizia, personale medico, giuridico- pedagogico e amministrativo, avvocati, magistrati, volontari, garanti e loro collaboratori). Anche i familiari dalla data di ripresa dei colloqui con i detenuti, a maggio, si sottopongono al triage di ingresso in carcere; si sottolinea che nei parlatori tra i ristretti e i loro cari c’è un mezzo divisorio tale da coprire il viso delle persone a colloquio e non permettere contatti fisici interpersonali. A marzo nelle carceri sono iniziati i primi test sierologici e i tamponi mononucleari. Cassino (Fr). I detenuti riparano le buche in città: ecco il programma di Katia Valente ciociariaoggi.it, 12 febbraio 2021 Saranno loro, i detenuti, a collaborare ai fini del reinserimento sociale alla riparazione delle buche in città. Ieri, nel palazzo, l’incontro per dare il “la” alla fase operativa e dettagliare interventi e mezzi. Ma c’è anche un altro piano, squisitamente municipale, per le maggiori criticità. La novità? Una App dove i cassinati potranno segnalare marciapiedi rotti e lampioni spenti direttamente al settore manutenzione. Ieri mattina nella sala Giunta c’erano il dottor Leandro Zapparato, responsabile traffico e viabilità di Autostrade e l’ingegner Luigi Iazzetta, capo della manutenzione della stessa società che hanno concordato un programma di interventi per l’eliminazione delle buche nelle strade, la sistemazione dei marciapiedi, la segnaletica orizzontale e verticale, la sistemazione dell’area esterna della casa circondariale ed altro. Per l’amministrazione di piazza De Gasperi era presente il sindaco, Enzo Salera, gli assessori Venturi e Carlino, il consigliere Terranova mentre ha partecipato anche il funzionario della manutenzione, Giuseppe Vecchio. Non è stato altro che lo step operativo del protocollo d’intesa siglato nell’autunno scorso per la promozione di lavori di pubblica utilità dal direttore della casa circondariale San Domenico, dottor Francesco Cocco, dal direttore del VI Tronco della società autostrade, dottor Costantino Ivoi, e dal sindaco Enzo Salera. Un progetto per il quale ha la vorato molto anche l’assessore al personale Barbara Alifuoco. Si inizierà dal prossimo mese di marzo fino a ottobre, con due “puntate” settimanali. Verranno utilizzati giovani dell’associazione Ethica group, percettori del reddito di cittadinanza e i detenuti. Naturalmente dopo una adeguata formazione. E sui detenuti, il sindaco ha precisato che “l’iniziativa ha una importante funzione sociale, utile alla collettività ma anche ai detenuti che parteciperanno a titolo volontaristico e gratuito”. Gli interventi riguarderanno anche la pulizia di caditoie, la sistemazione di sedi stradali a basso scorrimento, il ripristino del decoro in spazi pubblici, la pulizia di aree imbrattate, il ritiro di segnali ammalorati o non conformi, la predisposizione di stalli per parcheggi, strisce pedonali ecc. La società Autostrade metterà a disposizione personale specializzato con compiti formativi, mezzi (termo-container, rullo piccolo per interventi in città, una piccola fresa ecc.), materiale di provenienza dai propri impianti tradizionali. Ma c’è anche un programma municipale, indipendente rispetto al protocollo, a carico dell’ente e del settore manutenzione. Ma veniamo alla domanda cardine. Sindaco, ma perché Cassino è una groviera? “Non è una novità risponde Salera lo è sempre stata. La situazione di strade e marciapiedi di Cassino è talmente compromessa, dopo decenni di mancati interventi, che se volessimo rifarli completamente penso che non basterebbero 20 milioni di euro”. Allora torniamo a quello che si può fare... “Interventi sulle situazioni più critiche. Attualmente, con tre mesi di pioggia, la situazione è peggiorata ma come Comune abbiamo messo in programma un intervento massiccio con il settore manutenzione. Ma dipenderà molto dal tempo, altrimenti sarà lavoro sprecato. Ci stiamo attrezzando per intervenire su situazione critiche, mirate. Lo faremo, lo faremo per davvero. È un piano nostro, indipendentemente da quello con autostrade e stiamo lavorando a un App dove i cittadini ci segnaleranno buche e lampioni spenti con la loro posizione. Sarà tutto inviato immediatamente dalla manutenzione per un pronto intervento”. Roma. Rebibbia, pochi sanno che in carcere si fa il Caffè Galeotto di Cecilia Capanna ildigitale.it, 12 febbraio 2021 Ferdinando, un detenuto di Rebibbia, racconta come la torrefazione all’interno del carcere e il negozio del Caffè Galeotto gli abbiano cambiato la vita. Pochi sanno che all’interno della casa circondariale di Rebibbia c’è una torrefazione in cui lavorano i detenuti e che porta il nome di Caffè Galeotto. Un luogo di vera trasformazione, sia dei chicchi di caffè che delle persone. L’idea è stata di Mauro Pellegrini, il fondatore della cooperativa sociale Panta Coop, un uomo che ha dedicato la sua intera vita alla rieducazione delle persone che sono in carcere attraverso diversi progetti, tra cui quello del Caffè Galeotto. Grazie ai fondi tutti provenienti esclusivamente da donatori privati, è nata la torrefazione che ad oggi ha 15 dipendenti. Formare i detenuti e farli lavorare in una torrefazione permette loro di riacquistare dignità, di concretizzare la voglia di ricominciare e di farlo imparando un mestiere richiesto sul mercato del lavoro, che sarà la chiave per il reinserimento nella società una volta scontata la pena. All’interno del penitenziario di Rebibbia Mauro ha avuto in concessione uno spazio in cui da una parte si miscela, si tosta, si macina il caffè e si producono le cialde e dall’altra si fa manutenzione e si riparano le macchine espresso che vengono date in dotazione ai clienti in comodato d’uso. Oltre all’attività artigianale dentro le mura del carcere, Mauro ha realizzato un piccolo negozio aperto al pubblico dove vengono venduti tutti i prodotti del Caffè Galeotto e che si trova all’ingresso del Nuovo Complesso della casa circondariale. Ferdinando lavora nel negozio del Caffè Galeotto, gli occhi scuri e profondi, occhi buoni e consapevoli. È in carcere da 11 anni e ne deve ancora scontare 4. Il negozio della torrefazione è un posto aperto a tutti, Ferdinando può lavorarci perché beneficia dell’articolo 21 che gli dà la possibilità di uscire dalla mattina alla sera. “Sono molto fortunato ad aver avuto questa possibilità, mi è stata data fiducia e questa è la cosa fondamentale da fare con chi ha sbagliato”. Ferdinando è un uomo trasformato e il lavoro al caffè Galeotto lo ha decisamente aiutato nel cambiamento. “In carcere si può cambiare ma si deve seguire un percorso”. Parla forte e chiaro, occhi negli occhi, le sue parole si animano: “Il carcere deve servire per capire dove hai sbagliato. Devi viverlo, non dormire tutto il giorno per farti passare il tempo. Devi fare un percorso che ti porti a non commettere più gli stessi errori. Lavorare è fondamentale per intraprendere questo processo, aiuta a ricostruire se stessi e il proprio futuro, anche se purtroppo una volta liberi si è comunque condannati al pregiudizio, un vero e proprio ergastolo”. Oltre ad essersi iscritto all’università ed essere prossimo alla laurea, Ferdinando è un eccellente musicista, il suo strumento è la fisarmonica. Nel minuscolo magazzino del negozio suona e compone, sul muro ha scritto “Musica è evasione”. Presto inciderà un disco con musicisti famosi. Lo vanno a trovare molti amici e il caffè Galeotto è diventato anche un centro di incontro in cui non solo si vende il caffè ma si fa anche arte e cultura. Spesso Ferdinando suona insieme a Paolo, il suo professore di inglese che lo accompagna alla chitarra. Paolo insegna in carcere da più di 25 anni ed è fortemente convinto che la scuola in carcere sia fondamentale tanto quanto il lavoro. Paolo ha spiegato che “La scuola è bistrattata e non è messa al centro del processo di recupero di queste persone che hanno una forte volontà di rimettersi in gioco, magari di riprendere passioni o interessi che sono stati accantonati come la musica per Ferdinando. La scuola andrebbe valorizzata. Spesso ci troviamo davanti a persone che vogliono fortemente cambiare”. Se già la vita in carcere è durissima e disumanizzante, si è aggiunta la pandemia a renderla ancora più complicata. Sono mesi che i detenuti non possono vedere e riabbracciare la propria famiglia e i propri congiunti. Questo per un’ordinanza che vieta i colloqui, una misura che vuole proteggere da una potenziale “bomba epidemiologica” da Covid chi è dentro i penitenziari ma che non è bastata. Nel frattempo infatti il personale carcerario entra ed esce dalle case circondariali e nonostante le attenzioni a Rebibbia un focolaio ha colpito almeno 110 detenuti. “La paura è molta, non tanto per i giovani quanto per tantissimi detenuti con patologie pregresse anche gravi che qui dentro non ci si dovrebbero proprio trovare” dice Ferdinando. La situazione è particolarmente allarmante anche perché sembra che le mascherine distribuite siano poche e pochi giorni fa è anche mancata l’acqua per un’intera giornata. Tutto questo rende ancora più difficile la missione di Mauro Pellegrini ma il caffè Galeotto tiene duro e si va avanti giorno per giorno. La torrefazione può ospitare pochi dipendenti rispetto alla popolazione carceraria di Rebibbia che conta 1200 detenuti. Ferdinando è un esempio di come potrebbero trasformarsi tutti e 1200 se il carcere fosse veramente un luogo di recupero e di rieducazione come lo immagina Mauro Pellegrini e come lo avevano immaginato i padri della Costituzione italiana. Sappiamo bene che purtroppo non è così e che il Diritto Penitenziario è fragile. Ferdinando e gli altri dipendenti della torrefazione hanno capito i loro errori e sono cambiati. Le istituzioni sono disposte a capire gli errori e a cambiare? Intanto che aspettiamo l’urgente riforma carceraria e la vaccinazione prioritaria in tutte le case circondariali italiane, bere il caffè Galeotto è il gesto minimo da fare per dire ai detenuti: io non vi dimentico. Massa Carrara. Promuovere la lettura fra i detenuti, accordo con Comune e biblioteca La Stampa, 12 febbraio 2021 Firmata convenzione triennale con la Casa di reclusione. L’assessore Marnica: “Ottimo. per l’inclusione e la cultura”. Per favorire la promozione della lettura tra i detenuti, il Comune di Massa, la biblioteca civica Giampaoli e la Casa di reclusione di Massa hanno sottoscritto un’apposita convenzione della durata di 3 anni rinnovabile con cadenza sempre triennale. L’Ordinamento penitenziario stabilisce, infatti, che presso ogni istituto penitenziario debba essere presente un servizio di biblioteca come risorsa significativa per la realizzazione del trattamento dei detenuti e che tale servizio sia arricchito e potenziato anche attraverso intese con biblioteche e centri di lettura pubblici presenti nel luogo dove è situato l’istituto; e che gli stessi detenuti siano favoriti quanto più possibile nella fruizione di tale servizio. Così, da questo febbraio, ogni mese, gli operatori della biblioteca potranno accedere alla Casa di reclusione rendendo fruibili i libri e consentendo il prestito di materiale cartaceo o multimediale del patrimonio della biblioteca civica ai detenuti che ne facciano richiesta. Gli operatori autorizzati, inoltre, si occuperanno di fornire consulenza. “L’amministrazione è da sempre impegnata a sostenere iniziative di promozione alla lettura e a rafforzare il ruolo di polo culturale della biblioteca anche attraverso una rete di relazioni con enti, istituti ed associazioni del territorio - dichiara l’assessore Nadia Marnica, con delega alla Cultura -. Questa è un’iniziativa lodevole sia dal punto di vista culturale sia di inclusione sociale alla quale non potevamo non aderire considerata la nostra particolare attenzione nei confronti dei soggetti svantaggiati della nostra comunità”. Scopo dell’iniziativa vuol essere proprio quello di favorire l’accesso dei detenuti alle pubblicazioni della biblioteca dell’istituto, ma anche del territorio. Un’apposita convenzione prevedrà poi lo svolgimento di attività lavorative extra-murarie volontarie e gratuite presso la biblioteca Giampaoli da parte di soggetti in stato di detenzione; attività che non richiedono specifiche competenze. Povertà educativa, il futuro della collaborazione tra pubblico e privato nel contrastarla di Carlo Ciavoni La Repubblica, 12 febbraio 2021 Presentato oggi il rapporto all’interno di una giornata di studio dedicata all’argomento. Il progetto React per sviluppare legami collaborativi tra gli attori della comunità educante. Contrastare la povertà educativa in diversi territori italiani lavorando su due livelli: da una parte rafforzando gli adolescenti, soprattutto quelli più vulnerabili; dall’altro, potenziando i soggetti che rappresentano, a vario titolo, le risorse educative sul territorio e facilitando le loro relazioni. È un po’ questo l’obiettivo che WeWorld - organizzazione italiana che difende da 50 anni i diritti di donne e bambini in 27 Paesi del mondo inclusa l’Italia - mira a raggiungere attraverso l’istituzione della figura del Community Worker, nata all’interno del progetto React (Reti per educare gli adolescenti attraverso la comunità e il territorio), selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, attivo in diversi territori italiani a rischio di dispersione scolastica, dai quartieri Bicocca-Niguarda di Milano, ai quartieri di Santa Teresa-Pirri e Sant’Elia a Cagliari, da San Basilio a Roma, al quartiere Borgo Vecchio di Palermo. Il welfare di comunità. È una scelta per rigenerare legami sociali e costruire nuove opportunità per tutti: il Community Worker (CW) rappresenta infatti un facilitatore comunitario che sviluppa legami collaborativi tra gli attori della comunità educante, ponendosi come un ponte tra insegnanti e operatori sociali da un lato e famiglie, volontari e cittadini dall’altro, affinché diventino una risorsa per rispondere ai bisogni dei giovani. Si tratta di una figura che lavora per creare una rete capillare e coesa di adulti che saranno un riferimento positivo nel percorso di crescita degli adolescenti, coinvolgendo le famiglie e rafforzandole nelle competenze genitoriali, promuovendo occasioni di supporto, cura, animazione e socializzazione nel territorio. Una figura presente in 10 territori. La figura del Community Worker è presente in ciascuno dei 10 territori coinvolti nel progetto React, con il compito di facilitare le relazioni e attivare processi e strategie che portino alla costruzione di una comunità educante, in cui i cittadini che abitano il territorio possano diventare soggetti attivi del cambiamento. “Il lavoro del Community Worker vuole andare ad incidere sulle persone e sui gruppi che costituiscono la comunità educante di un territorio, in vista di un cambiamento sociale che possa produrre maggiore partecipazione ai processi. Le molteplici dimensioni. Le dimensioni da prendere in considerazione sono quindi molteplici, a cominciare da un approccio di fondo che cerchi di indagare e descrivere la visione di società, i valori e le credenze che sono alla base della vita sociale dei territori in cui si articolano gli interventi del progetto”, ha spiegato Elena Caneva, coordinatrice del Centro Studi di WeWorld - “Il Community Worker tenta di individuare e creare delle alleanze in primo luogo tra quei soggetti e che si dichiarino interessati ad un autentico percorso a garanzia e sostegno di una maggiore giustizia sociale.” Armi, una coalizione chiede di mettere al bando i “robot killer” di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 12 febbraio 2021 Le macchine che possono uccidere senza il comando umano. Il richiamo di Human Rights Watch. Al momento, non esiste una legislazione internazionale. La Coalizione per fermarli ha raggiunto in pochi anni il supporto di 172 Ong in 65 Paesi. Si chiamano Laws (Lethal Autonomous Weapons), “armi autonome letali”, e sono dispositivi in grado di selezionare e colpire un bersaglio senza controllo o indicazione umana. Per questo si dicono “completamente autonome”, ed è ciò che le differenzia da tutte le armi attualmente esistenti. Le Laws sono in fase di sviluppo avanzato in Cina, Israele, Corea del Sud, Stati Uniti e Regno Unito e sollevano molti dubbi di tipo etico e pratico. Al momento, non esiste una legislazione internazionale che regoli la produzione e l’utilizzo di questi dispositivi: un grande movimento globale, guidato dalla Campagna per bandire i robot killer (Campaign to stop robot killer), chiede il bando preventivo di sviluppo, produzione e uso delle Laws. La macchina che decide vita o morte. Tra le motivazioni di chi si oppone c’è innanzitutto la questione morale: una macchina non può “decidere” della vita e la morte di un essere umano, in particolare nelle situazioni che richiedono un discernimento basato sull’analisi del contesto e spesso su compassione e umanità. Emergono numerosi dubbi sulla capacità di tali armi di rispettare alcune regole di guerra come la proporzionalità dell’attacco, la necessità militare, il discernimento. I possibili attacchi degli hacker. Migliaia di esperti e centinaia di compagnie del settore tecnologico hanno sollevato pesanti dubbi circa l’affidabilità di queste macchine: ad esempio, sarebbero soggette ad attacchi hacker, a malfunzionamenti e interazioni imprevedibili con l’ambiente. Da qui sorgono domande sulla responsabilità: in caso di azioni illecite o di un malfunzionamento, chi sarebbe imputabile? Il programmatore, il produttore, il comandante? La giustizia per le vittime potrebbe diventare ancora più difficile da raggiungere. L’utilizzo non solo in guerra: esempio, alle frontiere. Inoltre, automatizzare le truppe militari potrebbe rendere ancora più semplice entrare in guerra, e i civili sarebbero gli unici a pagare lo scotto della violenza. C’è il rischio di una corsa agli armamenti: se gli eserciti più potenti del mondo iniziassero a dotarsi di queste tecnologie, sarebbe difficile fare marcia indietro. Per questo, sostiene il fronte dell’opposizione, è importante il bando preventivo. Un’altra preoccupazione riguarda il possibile utilizzo delle armi automatizzate in contesti non di guerra: si pensi al controllo delle frontiere, alla sorveglianza o al possibile utilizzo da parte di regimi autoritari. Ma c’è un fronte dei pro. I sostenitori delle Laws, al contrario, assicurano una maggiore efficienza sul campo di battaglia. Le macchine sarebbero capaci di operare in ambienti difficili e di assicurare un’estrema precisione. Grazie alle Laws, sarebbero risparmiate molte vite umane, quelle dei soldati, e infine agirebbero da deterrente. In realtà, sappiamo che in passato molte armi semi-automatiche sono state presentate come rivoluzionarie secondo queste stesse argomentazioni: le bombe a grappolo, le mine antiuomo, le armi nucleari. Sono armi che hanno ucciso centinaia di migliaia di persone prima di essere bandite per motivi umanitari. In definitiva, i pochi potenziali vantaggi sono oscurati dai molti pericoli che imporrebbero alla sicurezza e alla vita di molti e molte. La Campagna per bandire i robot killer. La Campagna per bandire i robot killer è una coalizione in rapida crescita: nata nel 2012, oggi conta 172 organizzazioni non governative in 65 Paesi, e lavora per sensibilizzare le società civili e i governi sul pericolo posto dalle Laws. Gli obiettivi: proibire lo sviluppo, la produzione e l’uso delle armi completamente autonome attraverso leggi nazionali e trattati internazionali, cui tutti i Paesi dovrebbero aderire. Inoltre, chiede alle compagnie del settore tecnologico e agli individui impegnati nello sviluppo di intelligenze artificiali di rifiutare ogni contributo allo sviluppo delle Laws. In Italia, sono parte della Campagna l’Unione degli Scienziati Per Il Disarmo Onlus, la Rete Italiana Pace e Disarmo, l’Istituto Di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (Iriad/Archivio Disarmo). Laws, il sondaggio. Secondo un sondaggio condotto da Ipsos lo scorso dicembre, più di tre persone su cinque in 28 Paesi diversi si sono dichiarate contrarie all’uso delle Laws. Quanti hanno preso parte alla rilevazione compongono una rete diplomatica che discute la messa al bando delle armi autonome. Tuttavia, il dibattito ha raggiunto un punto morto nel novembre 2020, data in cui la Convenzione su certe armi convenzionali (Ccw) non è riuscita ad approvare il programma di lavoro per il 2021. Il sondaggio ha rappresentato un’ulteriore dimostrazione della necessità di agire: “L’avversione della società civile per le armi autonome non è diminuita”, afferma Mary Wareham, direttrice della divisione armi a Human Rights Watch e coordinatrice della Campagna per bandire i robot killer. “È il momento di smetterla con l’inazione diplomatica, dobbiamo implementare misure preventive che siano davvero efficaci”. Il Generale Inverno, arma contro i migranti di Roberto Saviano Sette - Corriere della Sera, 12 febbraio 2021 Mi ha stupito - mi racconta il fotoreporter Alessio Paduano - incontrare persone in difficoltà estrema, affamate, ma davvero affamate, che non si strappano il cibo di mano né lo nascondono agli altri ma lo smezzano. In queste condizioni di assoluta miseria esiste quel che non vi è nel benessere: solidarietà, assistenza reciproca. E la neve? Nonostante peggiori la loro vita ne riescono incredibilmente ancora a cogliere la bellezza. C’è una grande differenza tra vivere la miseria al caldo e subirla al freddo. La disperazione muta completamente a seconda del clima in cui la si sconta. Il freddo ti impedisce di contare sul sonno, di provare a sopportare la mancanza della casa sostituendo le stanze con il vagabondare tra marciapiedi e androni, panchine e giardini. La miseria al freddo è una pena doppia, il gelo rende nemico tutto ciò che è fuori da un perimetro con i muri e un tetto. È il caldo, il clima mite, l’unico accesso all’esterno, l’unica possibilità per non sentire l’aria una rivale che ti porta catarro e insonnia, costringendoti a muoverti, a bere alcol, a tenere le mani così vicine alla brace da piagare la pelle. Questa foto ritrae un migrante nella neve vicino a una fabbrica abbandonata a Bihac, Bosnia ed Erzegovina, ed è stata scattata poche settimane fa. Migliaia di migranti da mesi sono stipati in tende squarciate, senz’acqua, senza fogne. Il fuoco è difficile da accendere e proteggere, troppo vento, legna bagnata, e poi il fuoco è stato il grande nemico. Il campo di Lipa, che ospitava 1.200 migranti, è stato incendiato: non la solita scintilla partita da qualche fornello a gas, ma un incendio voluto, un atto di ribellione in quel campo ormai invivibile, deposito, fogna, agglomerato e non luogo per persone. Le autorità bosniache non avevano attrezzato il campo per l’inverno, il freddo come strumento di ricatto è stata la scelta politica per provare a minacciare i profughi e costringere l’Europa a prendersi la carne umana indesiderata. Alessio Paduano, il fotoreporter autore di questo scatto, mi racconta: “Quello che mi ha stupito è stato il medesimo comportamento che mi colpisce tutte le volte che incontro migranti: persone in difficoltà estrema, affamate, ma davvero affamate, che non si strappano il cibo di mano né Io nascondono quando lo raggiungono, ma lo smezzano. Ogni volta apprendo che in queste condizioni di assoluta miseria esiste quello che non c’è nel benessere: solidarietà, soccorso, assistenza reciproca”. Ma la neve - gli domando - questa neve che non smette? “Non la maledicono - mi risponde Alessio - nonostante siano in ciabatte con i piedi gelati, nonostante li ricopra, la vedono come una magia; forse perché sono giovanissimi, ragazzini, ma ne vedono la bellezza”. Ora, ricordate le storie della Grande Armata di Napoleone in Russia? Le truppe dello zar, che attendono l’invasione, fanno terra bruciata, tolgono rifugio, cibo, legno alle truppe napoleoniche entrate nei loro confini. Attendono che arrivi il Generale Inverno a fare piazza pulita dei seicentomila uomini dell’imperatore giacobino. Qui bosniaci, croati e l’Europa tutta stanno usando il Generale Inverno contro i profughi, stanno sfruttando l’artiglieria del gelo per comunicare un messaggio chiaro: chi viene qui avrà la neve contro e nessuna speranza di transito. Ormai, da noi, storie così non provocano più reazioni, per molti sapere che migliaia di esseri umani in cerca di una vita migliore stanno al freddo da mesi è un evento ordinario. Alla stregua di un incidente d’auto, un infarto, una disavventura che pare possibile nel novero dell’esperienza del vivere. Nella mia terra, a Napoli, c’è un’espressione meravigliosamente drammatica: “puzzarsi dal freddo”. Ha un significato profondissimo ed eloquente, declinabile in due grandi macro-storie. La prima: il freddo, quando lo vivi per strada e sei mal coperto, ti prende soprattutto allo stomaco, lo senti lì, e tutto ciò che hai dentro non lo trattieni, va giù nei pantaloni, ti cachi addosso, e puzzi. La seconda è quella dei bassi napoletani, le abitazioni al piano terra che danno sul marciapiede: un tempo, d’inverno, nei bracieri spesso non c’era nulla da ardere, né legno né carbone, quindi a letto ci si urinava addosso per scaldarsi, e questo ti faceva puzzare. L’intera Europa, il governo bosniaco e quello croato stanno puzzando per il proprio comportamento, un puzzo assai peggiore del puzzare dal freddo, perché il loro puzzo è morale, politico, un puzzo che solo la barbarie sa emanare. Migranti. L’appello: “Basta respingimenti e violenze alle frontiere europee” di Giansandro Merli Il Manifesto, 12 febbraio 2021 L’Organizzazione internazionale per le migrazioni chiede a Ue e stati membri di cambiare rotta. Migliaia gli abusi documentati. Frontex sotto accusa. L’Unione europea e gli stati membri devono mettere fine a respingimenti, espulsioni collettive e violenze contro migranti e rifugiati che continuano a ripetersi lungo le frontiere esterne. Lo ha chiesto ieri l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) con un appello che nasce dai tanti casi pratiche illegali e abusi realizzati dalle stesse autorità. Hanno interessato 12.654 persone quelli documentati nelle 1.500 pagine del “Libro nero dei respingimenti”, redatto dall’organizzazione Border Violence Monitoring Network e presentato a dicembre scorso al parlamento europeo dai partiti raccolti nel gruppo The Left. “La sovranità degli Stati, compresa la competenza a mantenere l’integrità dei loro confini, deve allinearsi agli obblighi indicati dal diritto internazionale e rispettare diritti umani e libertà fondamentali di tutti”, afferma Eugenio Ambrosi, capo di gabinetto Oim a Ginevra. L’Oim accoglie con favore le recenti indagini su respingimenti e violenze e si augura che il Patto europeo su immigrazione e asilo istituisca un meccanismo indipendente di monitoraggio delle frontiere. Tra le righe si legge una critica a Frontex, l’agenzia europea finita sotto accusa per i respingimenti nell’Egeo. A gennaio, in seguito all’audizione a Bruxelles del direttore Fabrice Leggeri, The Left ha creato un gruppo di lavoro per controllarne l’operato. “Leggeri ha mentito due volte in Parlamento e se ne deve andare - afferma l’eurodeputata Sira Rego (Izquierda Unida), membro del “Frontex Scrutiny Working Group” - Ma le dimissioni di Leggeri non bastano. Il problema è Frontex stesso e le sue continue violazioni dei diritti umani nei confini dell’Europa. Il problema sono le politiche dell’Europa Fortezza”. Grecia. La polizia nei campus, studenti in rivolta: “Colpo alla democrazia” di Letizia Tortello La Stampa, 12 febbraio 2021 Il governo cancella la legge che teneva gli agenti fuori dagli atenei dal 1982: “Basta spaccio e aggressioni, ripristiniamo l’ordine”. Le bandiere rosse degli studenti greci avanzano decise in piazza Syntagma, sotto il monumento del milite ignoto. “La legge contro il diritto di asilo universitario non passerà”, gridano migliaia di giovani mascherati per la pandemia. Provano a rompere il cordone degli agenti in tenuta antisommossa. Il centro di Atene si trasforma in un campo di battaglia, con lanci di pietre, molotov e altri oggetti. Risposta lampo delle forze dell’ordine: idranti e spray urticanti contro la folla. La capitale, Salonicco, Tessalonica sono in rivolta per la riforma di una norma che riporta il Paese alla pagina più buia degli ultimi cinquant’anni. Il governo di centrodestra vuole reintrodurre la polizia dentro le università, abrogando una legge che fu una conquista del 1982, nove anni dopo la carneficina operata dai militari al Politecnico, che uccisero decine di studenti in protesta. Quella ferita del passato non si è mai chiusa. Riesplode ora per le strade, con scontri e nuovi arresti, perché il parlamento vota il disegno di legge voluto dal premier Mitsotakis. Una patata bollente politica che vede contrapposti i conservatori e la sinistra di Syriza guidata dall’ex primo ministro Tsipras, al fianco degli studenti. Questi ultimi sfilano da settimane. Accusano l’esecutivo di voler abolire i diritti democratici acquisiti con la fine del regime dei colonnelli (1967-74). “I consigli di disciplina e i corpi speciali di polizia - spiegano i leader della protesta - soffocheranno la libertà di espressione e di insegnamento. Così uccidete la democrazia”. La memoria del Paese corre alla notte del 17 novembre 1973, quando i militari mandarono i carri armati a sfondare le porte dell’università scientifica di Atene, per disperdere le massicce rivolte anti-regime. All’epoca, grandi manifestazioni di piazza, fomentate da organizzazioni segrete nelle quali gli studenti ebbero un ruolo fondamentale, sfidarono apertamente i colonnelli. Seguirono violenze, dentro e fuori il campus, vennero uccise ventiquattro persone. Da allora, gli atenei greci sono rimasti luoghi in cui vive e si esprime una forte anima politica. Sono 24 le università nel Paese, contano 600 mila iscritti. Secondo il governo, che ha deciso per il pugno duro, negli ultimi anni si sono trasformate anche in “covi di illegalità”. “Il diritto di asilo universitario è uno scudo per criminalità e degrado - denuncia il premier Mitsotakis. Dentro i nostri atenei si verificano traffici di droga, aggressioni sessuali, gruppi di anarchici e anti-establishment occupano gli spazi sottratti a studenti e docenti”. L’accusa è anche che nelle aule si fabbricano molotov da lanciare alle manifestazioni. Da qui, l’esigenza di intervenire, come spiega Niki Kerameus, 40enne ministra dell’Istruzione con studi ad Harvard, che vuole il rilancio: “Abbiamo un enorme potenziale. Ora basta impunità”. Con la riforma verrà anche posto un tetto massimo agli anni di frequenza, per arginare il fenomeno degli “studenti eterni”: il 40% dei laureati continua gli studi fino alla mezza età. Finora, per consentire l’ingresso della polizia nei campus era necessaria l’autorizzazione del rettore. Per i manifestanti, rompere il tabù è un salto ai tempi neri della dittatura. La legge era già stata rivista nel 2011, quando la Grecia era sotto l’austerità imposta da Bruxelles, ripristinata da Tsipras nel 2017. “Stiamo assistendo a un conflitto tra due fazioni della società greca - commenta al Guardian Kevin Featherstone, docente di Studi greci contemporanei alla London School of Economics. La prima ha sguardo internazionale. L’altra è isolata, paurosa. È una guerra culturale”. Polonia. Incriminata leader della protesta pro aborto: rischia 8 anni di Andrea Tarquini La Repubblica, 12 febbraio 2021 Marta Lempart guida la protesta di piazza per i diritti. È accusata di aver insultato la polizia e di aver appoggiato gli assalti alle chiese. Marta Lempart, co-leader insieme a Klementyna Suchanow del movimento delle donne polacche Ogolnopolski Strajk Kobiet (sciopero nazionale delle donne) rischia otto anni di prigione. È accusata di aver offeso la polizia, con gesti ostili e sputi contro agenti, di aver appoggiato “gli assalti alle Chiese”, ovvero i casi in cui senza violenza le dimostranti sono entrate in luoghi di culto affiggendovi bandiere Lgbt, il loro simbolo e poster di protesta. E, accusa forse piú grave, di aver favorito la diffusione della pandemia con le massicce e ripetute dimostrazioni tenutesi nelle settimane scorse in tutto il paese contro il divieto quasi totale di interruzione di gravidanza. Il governo di destra sovranista-clericale eletto al potere nell’autunno 2015 nel più grande paese orientale dell’Unione europea e della Nato, vicinissimo al carismatico premier sovranista magiaro Viktor Orbán, e il cui vero leader è il capo storico del PiS (Diritto e Giustizia, partito-guida della coalizione), vicepremier e responsabile della sicurezza nazionale Jaroslaw Kaczynski, sembra quindi deciso al massimo possibile di risposta dura alle proteste della società civile. Formalmente si parla qui di decisioni del potere giudiziario. Ma negli ultimi anni con una serie di riforme su ruolo diritti e doveri dei giudici e poteri del ministero della Giustizia, guidato dal “falco” Zbigniew Ziobro, nonché con le nuove nomine alla Corte costituzionale, la separazione tra potere esecutivo e potere giudiziario è stata seriamente intaccata e limitata in Polonia, come affermano anche critiche e prese di posizione dell’Unione europea. Con abili argomentazioni giuridiche che poggiano su accuse di reati comuni, tornano di fatto processi politici nell´Europa di mezzo. Ciò avviene all´indomani della giornata di sciopero-blackout con cui tutti i media liberi e indipendenti hanno protestato contro il progetto di tassa sulla pubblicità che secondo loro farebbe fallire e metterebbe a tacere ogni testata cartacea, radiotelevisiva od online non governativa. Le accuse contro Marta Lempart sono state annunciate oggi giovedì a Varsavia dalla portavoce della Procura della capitale, Aleksandra Skrzyniarz. Secondo la quale l’indagata “ha insultato agenti delle forze dell’ordine facendo il gesto di sputare loro in faccia e profferendo contro di loro parole volgari”, e inoltre organizzando i cortei “ha favorito la diffusione del coronavirus causando molti contagi”. Altra accusa è aver elogiato “attacchi alle chiese e atti di vandalismo contro le chiese” e aver dichiarato in un dibattito pubblico che la gente “ne ha abbastanza delle istituzioni della Chiesa cattolica e vorrebbe pisciar loro sopra”. E anche che il movimento “è in guerra contro questo governo nemico dei diritti delle donne, autoritario e omofobo, per cui torneremo pacificamente in piazza”. La conferenza episcopale polacca, schierata in maggioranza su posizioni estremamente conservatrici ben lontane da Papa Francesco, omofobe e intransigenti sul tema aborto, appoggia pienamente la legge con cui il governo del premier Mateusz Morawiecki (ma guidato di fatto da Kaczynski) ha accolto la sentenza dell’autunno scorso emanata della Corte costituzionale, composta in maggioranza da giudici favorevoli al PiS. La Consulta ha deliberato su una richiesta di dichiarare anticostituzionale l’aborto nella quasi totalità dei casi. La sentenza affermò che l’interruzione di gravidanza è tollerata solo in caso di stupro, incesto o pericolo di vita per la madre. È invece vietata - questo è il punto critico - anche se il nascituro è colpito da malformazioni letali incurabili e tale da portare alla morte prima o dopo il parto. Il verdetto è stato pubblicato poche settimane fa dalla Gazzetta ufficiale polacca e immediatamente tradotto in legge in vigore. I media critici, Strajk Kobiet e le voci europeiste della società civile fanno notare che Marta Lempart indossava una mascherina quando avrebbe sputato sui poliziotti. Aggiungono che i massicci, pacifici cortei si sono sempre svolti con distanziamento e con tutte e tutti i dimostranti con mascherina. Recentemente Jaroslaw Kaczynski aveva condannato le proteste delle donne come “violenta insurrezione mirante a distruggere la Polonia”. Aveva aggiunto: “Sicuramente queste dimostrazioni causeranno molte vittime”, riferendosi ai contagi. “Chi li organizza crea gravi pericoli e commette un serio crimine. Le autorità hanno non solo il diritto, bensì l’obbligo di opporsi a simili eventi”. Birmania. “Occidente, aiutaci contro i generali: ecco come combattiamo dopo il golpe” di Khin Aye* La Repubblica, 12 febbraio 2021 Le riunioni di hacker improvvisati per aggirare i blocchi imposti alla rete, la distribuzione dei pasti ai manifestanti, il coraggio dei più giovani e le paure delle famiglie. Una giornalista birmana racconta in prima persona la battaglia della società civile per riportare in libertà Aung San Suu Kyi e il sogno di democrazia. Se mi presento con un altro nome non è per vigliaccheria. Certo, ho paura come tutti, perché i militari del mio paese hanno già dimostrato di essere pronti a uccidere anche stavolta, e una ragazza sta ancora lottando tra la vita e la morte nella nuova capitale Naypyidaw dove è stata colpita alla testa da un proiettile. Ma le mie ragioni sono altre. La mia famiglia ha sofferto già troppo durante gli anni della dittatura che noi chiamiamo l’Era Oscura, e non voglio dare altro dolore ai miei genitori, a mio padre che ha passato sette anni in prigione sotto inaudite torture psicologiche e fisiche per conquistare lo sprazzo di libertà che ha permesso alla Lega della democrazia e a Daw Aung San Suu Kyi di conquistare decine di milioni di voti. E a me di diventare una giornalista, oltre che un’attivista dei diritti umani. La mattina del golpe, quando i colleghi hanno preso a chiamarmi per dirmi quello che era successo, sono andata a casa dei miei col cuore in gola e vedendo la loro disperazione ho promesso di stare attenta, anche se non mi hanno chiesto niente. In questi ultimi cinque anni di governo avevamo più volte parlato a casa del modo poco trasparente e coerente con il quale Amay (madre) Suu sembrava distorcere la sua stessa idea di democrazia. Ma da 11 giorni giro in lungo e largo Yangon per documentare uno straordinario e - sinceramente - per me inaspettato movimento che qui chiamiamo in sigla Cdm, della disobbedienza civile, una rivolta vera e propria che sta ormai dilagando ovunque. E mi sono detta: chi sono io per giudicare il loro modo di amare il paese e l’idea di libertà per quanto imperfetta che ha trasmesso la nostra leader oggi di nuovo agli arresti? È come se avessi scoperto solo adesso che Daw Suu Kyi non avrà lasciato eredi della sua politica con nome e cognome, ma queste miriadi di persone hanno la forza d’animo e la determinazione di dire in suo onore e una volta per tutte basta alla dittatura dei militari. È un pubblico ben più vasto dell’élite di intellettuali alla quale bene o male io stessa appartengo. Il primo giorno, non sapevo che fare. Cercavo di connettermi e di connettere tra loro colleghi e altri attivisti ma molte linee erano tagliate. Ci siano incontrati in ufficio e cercato di fare dei piani, e quando a mezzogiorno Internet è tornato quelli più tecnologicamente avanzati tra noi ci hanno insegnato come usare il Vpn e scegliere il migliore. Aiutandoci l’un l’altro abbiamo capito che la stessa cosa stava succedendo inevitabilmente in tutto il paese. E infatti come d’incanto si sono tutti organizzati, hanno portato acqua e cibo ai manifestanti, distribuito fiocchi rossi simboli della Lega, una cosa incredibile da immaginare solo poche ore prima. Ho visto e parlato con uomini, donne e soprattutto ragazzi che se ne fregano delle opinioni dei media internazionali e delle mie stesse idee critiche verso quel silenzio che ha accompagnato nel mio paese le persecuzioni dei Rohingya e di altre minoranze etniche, vittime delle stesse logiche di appropriazione delle terre e dei diritti dei 60 lunghi anni di dittatura. Ieri per esempio era il giorno di festa nazionale del popolo Karen e al mattino presto sono andata al Padonmar Park nel quartiere di Myaynigone perché avevano segnalato al mio giornale un raduno del cosiddetto movimento delle nazionalità etniche contro la dittatura. C’erano Karen, ma anche Bamar, cioè birmani come me, assieme a Kachin, Mon, Rakhine, Kachin, Shan, Wa, Naga, Ta’ang. Per decenni sono rimasti divisi per tante ragioni sociali e culturali, ma erano tutti lì, sotto la bandiera dei Karen che sventolava e gridavano tutti la stessa cosa: “Liberate Amay Suu”, “Abbasso i dittatori tadmadaw”, che è il nome dei soldati birmani guidati dal comandante golpista delle forze armate Min Aung Hlaing. Da lì mi sono spostata su Pyidaungsu Road, dove una grande folla ha sfilato davanti all’ambasciata della Cina, accusata di sostenere il regime. Da giorni circolavano notizie di cinque aerei carichi di tecnici informatici cinesi atterrati a Yangon per aiutare i militari ad applicare una nuova legge di “sicurezza informatica” dei dittatori, che intendono impedire alla gente di comunicare e organizzare la miriade di manifestazioni che continuano a tenersi in tutto il paese. A poco è servita la smentita ufficiale cinese, secondo la quale gli unici voli erano stati regolari cargo di merci come frutti di mare. “Non sostenete i dittatori, sostenete il Myanmar” dicevano molti dei cartelli che erano scritti anche in inglese. Negli slogan c’era il sarcasmo e l’ironia in qualche modo influenzata da quella dei giovani studenti thailandesi che ora, chissà forse entusiasmati dal coraggio dei coetanei birmani, hanno ripreso a sfilare a Bangkok contro i loro despoti. Come loro anche i nostri giovani e perfino gli anziani sfilano con le tre dita di Hunger games alzate. “Non ci date frutti di mare - diceva un altro slogan davanti all’ambasciata - ridateci Amay Suu”. Non so sinceramente che cosa stia davvero pensando la leadership comunista di fronte a tutto questo, se convenga a Pechino sostenere un regime militare che sta riportando nel paese tra i tanti fantasmi quello di un’ondata anti-cinese che nei decenni passati si manifestò violentemente lasciando dietro una scia di rancori mai sopiti. Penso che anche Xi Jinping sia di fronte a un bivio, considerando che in questi ultimi 5 anni ha più volte incontrato e trattato amichevolmente con Daw Suu. Certo se toglierà il supporto ai golpisti deviando dalla loro politica di non interferenza, il regime di Min Aung Hlaing avrà vita breve. Chi può escluderlo? Ma quante persone dovranno sacrificare la loro vita? C’è qualcosa altro che ferisce la mia gente quanto il timore di un nuovo supporto cinese ai generali. È la mancanza di azioni concrete degli altri paesi, non solo quelli asiatici poco democratici come il nostro, ma anche quelli occidentali. “È vero che solo la Nuova Zelanda ha ufficialmente rotto ogni rapporto diplomatico con il Myanmar?”, mi chiedeva un giovane studente, uno di quei cinque milioni di primi votanti che sono la base di questo movimento di disobbedienza civile. Mai come in questi 11 giorni ho parlato con tante persone sulla direzione presa dal precedente governo nella letale convivenza coi militari imposta dalla costituzione. Alle mie domande di scettica tutti mi hanno invitato a essere realista: adesso ci sono molte più infrastrutture di prima, strade dirette per destinazioni difficili da raggiungere in passato, molte nuove scuole, un servizio sanitario più efficiente, un più alto livello di istruzione. Il mio animo di attivista un po’ si ribella conoscendo aspetti di corruzione e di speculazione del sistema, ma tutti attorno a me sembrano considerare ogni ostacolo e mela marcia una cosa secondaria rispetto alla libertà conquistata. “Ora li possiamo criticare, e non ci mettono in prigione”, mi ripetono. Qualcuno mi ha perfino detto che i parlamentari della Lega “sono amichevoli”. Ai miei amici e colleghi che mi domandano se sono pentita di essere stata critica fino ad ora, rispondo di no, ho fatto la cosa giusta. Ma specialmente in momenti come questi, come giornalista e come attivista devo seguire ciò che sente la pubblica opinione. Non amo la Commissione elettorale accusata di frode dai militari, ma anche se non funziona non posso credere al partito dei militari Usdp che parla di frode, conoscendo ciò che l’esercito ha tentato di fare nei seggi senza successo. Per questo, indecisa fino all’ultimo anche io ho votato Nld, e come me quell’oceano di persone che oggi vogliono indietro Suu Kyi e non smetteranno di scendere in strada. Nonostante i pericoli e gli altri feriti delle ultime ore, c’è un clima di festa, “liberi dalla paura” come direbbe Daw Suu. Molti avranno visto le immagini delle ragazze vestite da principesse di Disney. Che dire? I giovani di Bangkok indossavano gli abiti di Harry Potter, qui l’immaginazione popolare è più semplice. A me questi ragazzi sembrano trasportati dallo stesso vento di vera democrazia dal basso che spira a Hong Kong e Bangkok, e che forse vedremo anche altrove. Ma intanto qui, nelle strade della mia Yangon, ho un flash che mi riporta indietro a quando ero ragazza anche io, e le strade venivano scarsamente illuminate, e i poliziotti del palazzo segnavano chiunque entrava dal cancello bussando alle porte di notte per controllare. Non sono la sola a voler tornare indietro e non mi sento vigliacca per non espormi come fanno altri nelle strade. È meglio che in questo momento lavori grazie alle mie nuove insospettabili abilità di hacker per la causa di tutti. Anche per i poliziotti costretti a seguire gli ordini che stanno abbandonando in numero consistente le loro caserme. Ma prima di chiudere un diario che non avrei mai voluto aprire, devo dire un’altra cosa importante a chi mi legge all’estero. In questo momento non possiamo essere sicuri se la Cina sta davvero sostenendo i militari o meno. Però l’Occidente non può fare finta di niente. In Myanmar è stato commesso un crimine punibile dal Tribunale internazionale di giustizia, perché è stata violata la stessa Costituzione scritta dai generali 13 anni fa. C’era scritto che solo il presidente può dichiarare lo stato di emergenza. Ma loro hanno arrestato il presidente, l’uomo scelto da Daw Suu, e ci hanno messo un soldato. Ora sparano sulla gente che aveva votato un partito che non gli piaceva. Forse non è un caso se anche i perseguitati Rohingya ci hanno mostrato solidarietà. Devo confessare una cosa. Ho scritto a una mia amica Rohingya e le ho chiesto perdono. “Ora sappiamo almeno un poco di ciò che avete sofferto voi”. *Testo raccolto da Raimondo Bultrini Birmania. Ironia social e TikTok, la resistenza in nome di Mya Thwe di Sara Perria La Stampa, 12 febbraio 2021 L’attivista 20enne colpita da un proiettile durante le manifestazioni è in fin di vita. Il suo sacrificio sta mobilitando ancora di più i giovani: “Non torneremo al passato”. Continuano gli arresti di politici e attivisti. I medici in sciopero. Sta diventando una rivoluzione come nessun’altra vista finora, quella contro il colpo di Stato dei militari in Birmania. In questo Paese di 54 milioni di abitanti e molte etnie, ogni piccola parte della società è determinata a esprimere il suo dissenso qualunque sia il costo, tragedia o satira. La tragedia è il colpo di pistola che ha colpito Mya Thwe Thwe Khaing alla testa due giorni prima dei suoi vent’anni. La ragazza aveva preso parte a una delle tante manifestazioni pacifiche nel Paese e la foto del poliziotto che ha sparato è subito girata sui social. Portata in terapia intensiva all’ospedale della capitale Naypitaw, le sue condizioni sono poi scivolate verso la morte cerebrale. Non diventerà una martire perché è un concetto estraneo alla cultura birmana, ma il suo volto si è aggiunto alla lista di donne cadute sotto i colpi di un regime che in passato non ha esitato a reprimere violentemente le proteste. Questa volta, però, i generali sanno di dover cambiare strategia e la repressione è finora stata contenuta, al di là di alcuni incidenti gravi nelle zone etniche e l’utilizzo dei cannoni ad acqua. La protesta è diventata invece una immensa performance teatrale a cui stanno prendendo parte milioni di persone, intente a realizzare marce, quadri, travestimenti e cartelli. Il volto di Mya Thwe Thwe Khaing con gli occhi chiusi, raccolto dagli amici, è diventato il soggetto di una delle tante opere artistiche di una protesta contro il ritorno della dittatura che ha spodestato Aung San Suu Kyi, amata nel Paese al limite della venerazione. “Sentiamo che questa volta non sarà lo stesso”, dice l’attivista A.R. a Yangon. Quasi nessuna delle persone sentite al telefono da “La Stampa” vuole comparire con il proprio nome, ora che la campagna di arresti si sta ampliando, colpendo politici, attivisti e anche un cartomante che aveva predetto un futuro sfavorevole per i militari. “Questa volta c’è Internet. Possiamo raccontare quello che vogliamo, far sapere cosa sta succedendo al mondo”, dice ancora A.R. “E i generali non possono pensare di chiudere Internet per sempre, perché il Web serve anche a loro per governare il Paese”. Non è un caso che sia la generazione Z a guidare le proteste, quella più tecnologica in un Paese giovanissimo dove Facebook lo usano tutti. E Mya Thwe Thwe Khaing era proprio una di questi giovanissimi cresciuti negli anni della agognata transizione democratica, senza alcuna voglia di tornare indietro al mondo isolato dei propri genitori. Così è un profluvio di ironia e decisa sfida ai militari, presi in giro in ogni forma possibile. Dalle orecchie di coniglio sulla faccia del nuovo dittatore del Paese, ai video di Tik Tok dove a ritmo di rap si canta “è diventato matto, è andato nella casa dei matti”. Un gruppo di muscolosi ragazzi ha scatenato gli applausi presentandosi per le vie della capitale commerciale Yangon a torso nudo, chiedendo di liberare Aung San Suu Kyi. Sui social è una gara al cartello da più condivisioni: “Voglio solo un fidanzato, non la dittatura”, è fra i più gettonati. Ma ci sono anche i richiami alla tradizione in questa protesta birmana: le piccole barche dei pescatori del lago Inle, meta prediletta dai turisti, si sono radunate in una straordinaria coreografia in cui faceva capolino lo stesso messaggio visto ovunque: “No alla dittatura, liberate i prigionieri”. Un gruppo di donne a Bagan, la città dei templi, ha offerto ceste di frutta ai tradizionali spiriti Nat chiedendo di porre fine al colpo di Stato. Il grattacapo maggiore per i militari sono le proteste dei dipendenti pubblici. Si parla di primi arresti fra medici e infermieri che hanno lanciato la sfida di disobbedienza civile, mentre a scioperare ci pensa anche il personale dell’aeroporto di Yangon. E non solo: si sono visti poliziotti rispondere al saluto pro-democrazia delle tre dita adottato in queste proteste birmane. In alcuni Stati etnici, intere file di poliziotti sono passate dall’altra parte. Fino a qualche giorno fa, la tv birmana mostrava scene di tranquillità. Ma lunedì il generale Aung Ming Hlar si è rivolto alla nazione e alla comunità internazionale promettendo un regime diverso, una “democrazia vera e disciplinata”, aperta ai soldi stranieri. Il presidente Usa Biden ha risposto con l’annuncio di sanzioni mirate ai militari. La Cina, comunque firmataria di una rara dichiarazione congiunta del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha invece mandato una delegazione a Yangon e i birmani non hanno gradito. “Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile da parte della comunità internazionale. Dovete aiutarci”, dice Soe, l’imprenditore che ha chiesto al suo personale di non andare a lavorare e distribuire invece 473 uova sode ai manifestanti affamati.