Sovraffollamento in carcere, finito l’effetto del decreto Ristori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 febbraio 2021 Nell’ultimo mese il sovraffollamento carcerario è diminuito di 35 unità, mentre la diffusione del Covid resta stabile. Esaurito l’effetto delle misure deflattive varate dal decreto Ristori. Nel decreto di gennaio, sono usciti solo 35 detenuti. Al 31 dicembre del 2020, erano presenti 53.364 ristretti, mentre nell’aggiornamento al 31 gennaio ne risultano 53.329. L’unico dato positivo è che, sempre rispetto al mese precedente, risultano quattro bimbi dietro le sbarre in meno. La diffusione del contagio, invece, rimane stabile. Sono 495 detenuti e 597 agenti penitenziari positivi al Covid 19. Numeri stazionari, ma non sono riassicuranti visto che i focolai all’interno delle carceri vanno e vengono. Tanto da costare la vita a un altro agente della Polizia penitenziaria. Si chiamava Antonio Maiello, in servizio nel carcere di Carinola, in provincia di Caserta, è deceduto qualche giorno fa dopo essere stato contagiato dal Covid. È uno dei 17 agenti che erano rimasti infettati nei giorni scorsi, quando è emersa l’esistenza di un focolaio Covid nella struttura del Casertano. Maiello, 52 anni, era sposato e aveva dei figli, viveva a Cellole (Caserta) ed era ricoverato da tre giorni in terapia Intensiva. La scoperta della positività dei 17 agenti aveva portato l’amministrazione a disporre uno screening tra il personale della struttura e tra la popolazione carceraria; effettuati centinaia di tamponi, ma non sarebbero emersi casi di contagio tra i detenuti. La denuncia del sindacato Uspp - Il sindacato Uspp, Unione sindacati di Polizia Penitenziaria, con una nota firmata dal presidente nazionale Giuseppe Moretti ha espresso “vicinanza alla famiglia del povero collega e le più sentite condoglianze”, per poi denunciare che “non è la prima volta che un collega ci lascia per aver contratto il Covid-19 - si legge - ci risulta che altri colleghi in servizio al carcere di Carinola siano ricoverati per la stessa causa. Chiediamo, pertanto, un’accelerazione del piano operativo vaccinale che prevede, nella fase 3, la somministrazione del vaccino anche per la Polizia Penitenziaria. In seguito alle rassicurazioni ricevute dalla Segreteria nazionale a Roma dal Commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri sulla priorità della somministrazione dei vaccini al personale che lavora nelle carceri, chiediamo di sollecitare le Regioni e in particolare la Regione Campania, affinché si avvii con urgenza la somministrazione dei vaccini innanzitutto al personale di polizia Penitenziaria, che è in servizio h24 negli istituti penitenziari, al fine di scongiurare il rischio drammatico di ulteriori morti”. Prime dosi di vaccino agli agenti de L’Aquila - In effetti in alcune regioni hanno dato il via al piano vaccinazione al personale della polizia penitenziaria. C’è il caso del carcere abruzzese de L’Aquila. Con l’arrivo delle dosi targate AstraZeneca, infatti, sono iniziate le vaccinazioni anche per le forze dell’ordine. Le prime dosi di vaccino sono state somministrate sia agli agenti della Polizia sia a quelli in servizio presso il penitenziario aquilano. Soddisfatti i rappresentanti sindacali di Cgil L’Aquila, Fp Cgil L’Aquila e Fp Cgil Abruzzo Molise, rispettivamente Francesco Marrelli, Anthony Pasqualone e Giuseppe Merola, che si appellano affinché si proceda anche per tutti i territori della Provincia e della Regione, coinvolgendo tutti i protagonisti (lavoratori di ogni ordine e popolazione detenuta). “Le carceri - spiegano i rappresentanti sindacali - stanno attraversando una fase molto delicata, riconoscendo le già ataviche problematiche che insistono e quindi riteniamo giusta l’attenzione dimostrata dalle Istituzioni, ricordando anche le preoccupanti questioni che hanno interessato diversi Istituti penitenziari ed evidenziando l’acuirsi, in questi ultimi giorni, della pandemia con le diverse varianti in gran parte del Paese”. Ma sempre rimanendo in Abruzzo, c’è molta inquietudine tra detenuti. Ad esempio c’è un piccolo focolaio nel carcere di Chieti che ha creato malessere, vist le condizioni fatiscenti della struttura. A denunciarlo è l’associazione “Voci di Dentro”. “La preoccupazione è molta: la casa circondariale di Chieti - denuncia l’associazione - è vecchia e fatiscente, ci sono celle anche da sei persone, alcune hanno ancora la turca. La promiscuità, l’impossibilità di mantenere le distanze stanno rischiando di mandare in tilt tutto l’istituto di Madonna del Freddo dove sono rinchiuse un centinaio di persone, molte delle quali malate. Nessuna notizia sullo stato di salute del personale, agenti, impiegati, personale della direzione. Una situazione preoccupante: non ci sono celle per la quarantena, non ci sono stanze dove mettere le persone risultate positive. Una delle ipotesi in via di definizione è lo spostamento di tutti i positivi nella sezione femminile. Al momento la direzione del carcere ha sospeso tutte le attività dei volontari (molto poche a dire il vero) che fino a sabato si tenevano unicamente via Skype”. Per “Voci di Dentro”, il rischio di focolai potrebbe essere ovviato con un’organizzazione diversa. “Nel carcere di Chieti, ma succede in tante carceri in Italia, si continuano a portare in cella persone con una pena di pochi mesi o persone che devono scontare carcerazioni per reati compiuti anche dieci anni fa. Uno tra tanti il caso di un detenuto che è stato ristretto in carcere a Chieti per una pena di pochi mesi, si è fatto la quarantena, poi è stato messo fuori. È normale tutto ciò? Per noi la risposta è no. E le conseguenze oggi si vedono: sovraffollamento, poca sicurezza, e adesso anche il contagio di una decina di persone che potrebbero finire in ospedale e intasare ancora di più il sistema sanitario con ospedali ormai al completo”. “L’amnistia diminuirebbe il carico che ingolfa i nostri tribunali” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 febbraio 2021 Parla Rita Bernardini. “Accolgo con favore la proposta del Pd di riforma dell’ordinamento penitenziario, avevamo un dialogo aperto con l’allora guardasigilli Andrea Orlando. Mi chiedo perché abbiano dovuto aspettare Draghi”. Uno dei nodi principali del nuovo governo che Mario Draghi si sta prestando a comporre è quello relativo alla giustizia. Sì, perché se la parola d’ordine è far ripartire l’economia, la giustizia (non solo civile) è strettamente correlata. Non solo dal punto di vista repressivo, ma anche quello relativo all’esecuzione penale. Più è efficiente e tutela i diritti fondamentali, e meno si hanno ricadute disastrose nel nostro tessuto economico. Tra le proposte del Pd al premier incaricato Mario Draghi c’è anche il compimento della riforma dell’ordinamento penitenziario. Se c’è un politico che si batte da decenni per una giustizia giusta e un’esecuzione penale che metta al centro la nostra costituzione, è senz’altro Rita Bernardini del Partito Radicale. Ha da poco interrotto lo sciopero della fame, grazie anche a un accorato appello firmato da decine di parlamentari di diversa estrazione politica. Dalla Lega, al Pd, passando anche per il M5s. Perché l’ha commossa questo appello? Non solo perché è un omaggio all’iniziativa non violenta, ma anche perché dicono una cosa ragionevole sul fatto che ci voglia un governo in piena funzione e che quindi abbia ottenuto la fiducia dalle camere. Questo per avere un interlocutore nella pienezza dei suoi poteri. Ma attenzione, quando aggiungono “per dare le risposte necessarie alla sempre più stressata comunità penitenziaria”, allora hanno fatto una importante ammissione: ovvero che le risposte necessarie finora non ci sono state. Tale ammissione diventa ancora più significativa dal momento in cui il primo firmatario dell’appello è il deputato del M5S Mario Perantoni, in veste di presidente della commissione Giustizia. Quindi lei lo vede come un segnale di cambiamento, non dico radicale, ma almeno di attenzione alla problematica penitenziaria? Non radicale sicuro, ma nemmeno adatto al tipo di governo uscente. Quello che si sta formando ha come missione la ripartenza del nostro Paese e quindi inevitabilmente deve intervenire dove ci sono evidenti violazioni dei diritti umani. Chiaramente parliamo, di fatto, di un governo tecnico e quindi non di visioni politiche. Per questo, non credo che sia possibile pretendere una riforma epocale della giustizia. Ma nello stesso tempo, se pensiamo alla prescrizione, mi sembra che ci sia - tranne il Movimento 5Stelle - un discorso unanime. Ovvero quella di mandare in soffitta la norma voluta da Bonafede. Il governo Draghi sarà sicuramente concentrato sul tema dell’economia per far ripartire l’Italia. Ma lei pensa che la questione della giustizia penale sia correlata? Certo che c’entra. Io non escludo che prenda in considerazione anche l’ipotesi amnistia. Siamo chiari sul punto. Il governo, per far ripartire l’Italia, non può fare discorsi a lungo termine, perché durerà - se durerà - altri due anni, a fine legislatura. La giustizia ingolfata da milioni di procedimenti non potrà ripartire con l’aumento del personale perché richiederebbero tempi lunghissimi. Ma anche se dovessero fare in modo di implementare la pianta organica, ripartirebbero comunque da una mole di arretrato improponibile. Quindi l’amnistia cancellerebbe tutti quei reati, dipende poi dal tipo che vorranno varare, che ingolfano i tribunali. Pensiamo a quei reati edittali, inferiori a una pena di due anni, che sono almeno un milione. Ecco, quello sì che sarebbe un ristoro alla giustizia che consentirebbe di concentrarsi su reati più importanti. Ma anche risolvere le problematiche penitenziarie è utile all’economia? Certo. Pensiamo al sovraffollamento. Calpesta i diritti umani e comporta il trattamento disumano e degradante. Non penso solo ai soldi che lo Stato deve giustamente sborsare nel caso dei ricorsi vinti, ma anche sul fatto che il sovraffollamento non permette una adeguata assistenza sanitaria, l’igiene e l’opera trattamentale. Quest’ultima fondamentale per il discorso della rieducazione ed evitare la recidiva, quindi utile alla sicurezza e non danneggia l’economia del Paese. Pensiamo anche alla questione del lavoro. Nel libro “Vendetta pubblica” di Marcello Bortolato ci sono dati interessanti. Uno di quelli dimostra che quando dentro il carcere c’è la possibilità di studio e di lavoro, la recidiva si riduce all’uno percento. In mancanza del lavoro qualificante per impari un mestiere, è molto più facile che una persona ritorni nuovamente a delinquere per necessità. Il Pd ha messo sul tavolo anche la riforma dell’ordinamento penitenziario... Mi chiedo perché abbiano dovuto aspettare Draghi per farla. Detto questo, l’accolgo con favore visto che noi del Partito Radicale, attraverso l’azione non violenta, abbiamo instaurato un dialogo con l’allora guardasigilli Andrea Orlando affinché la portasse a termine. Poi sappiamo come purtroppo è andata. La riforma è incompleta, mancano tutti i punti per incentivare e sostenere il sistema di esecuzione penale esterna, delle pene alternative e della giustizia riparativa. Nel contempo, però, è urgente fare interventi immediati per sfoltire le carceri sovraffollate. Ritorniamo al governo Draghi, chi si aspetta come ministro della Giustizia? Io tifo per la giurista e già presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia. Non solo perché ha conosciuto il carcere partecipando, da membro della Consulta, al famoso viaggio nei penitenziari per conoscere da vicino la sofferenza di chi è ristretto, ma perché da presidente ha dimostrato di quanto ha a cuore la nostra Costituzione. Noi, in fondo, stiamo da sempre parlando di questo. Il rispetto dei diritti fondamentali. Nel caso avremmo finalmente una persona che non solo ci capisce di giustizia, ma sa quali sono i principi cardine di una giustizia amministrata secondo i precetti costituzionali. Cartabia è una garanzia da questo punto di vista. In attesa di avere un interlocutore al governo, un’ora al giorno lei fa una passeggiata sotto il ministero a Via Arenula... È una iniziativa che chiamiamo “Memento” e sta a significare che, a prescindere da chi sarà fra qualche giorno il ministro della Giustizia, io sarò lì a vigilare, insieme a chiunque voglia sposare la nostra azione non violenta. Tante sono le personalità che hanno deciso di farmi compagnia. Ieri è stata la volta di Totò Cuffaro che, come tutti sanno, è un ex detenuto. Ha scontato l’intera sua pena consegnandosi nel carcere di Rebibbia. Non solo ha scontato il carcere con grande dignità, ma ha anche aiutato i compagni di cella a presentare le istanze. Il giorno prima, invece, sotto il ministero è venuta l’attrice e scrittrice Francesca Daloja. Mi ha fatto piacere parlare con lei del suo libro intitolato “Corpi Speciali”. Uno pensa subito all’esercito o cose del genere, invece riguarda proprio il corpo umano. Lei sostiene la tesi, alla quale io credo, che il nostro copro in un certo senso decide chi siamo. Per cui il pensiero è andato proprio ai corpi “reclusi”, quelli privati della libertà. Emerge sempre con più forza l’assurdità delle regole non scritte in carcere. Pensiamo proprio al corpo. Faccio l’esempio del caso di un detenuto che, al colloquio, non può dare direttamente lui il regalo al proprio figlio piccolo. Quel gesto non deve essere suo, ma deve essere fatto per mano dell’agente penitenziario. Una regola non scritta, ma senza alcun senso. Un sistema demenziale che crea inutile sofferenza. Sia al padre, che al figlio. Ma è solo uno dei tanti esempi che rendono l’idea di come vivono i corpi reclusi. Programma di educazione alla pace per i detenuti: siglato un protocollo d’intesa di Paola Federico ondanews.it, 11 febbraio 2021 Siglato fra Ministero della Giustizia-Dap e l’Associazione Percorsi, un protocollo di intesa per la diffusione, all’interno degli istituti penitenziari, del Programma di educazione alla pace, ideato dalla The Prem Rawat Foundation. All’interno delle carceri saranno trasmessi video-corsi, composti da dieci sessioni, sui temi, fra gli altri, della pace, della dignità, della capacità di scegliere, cui seguiranno momenti di riflessione individuale e di discussione con il coordinamento dell’Associazione Percorsi. Si tratta di un Programma già utilizzato con successo a livello internazionale come strumento di riabilitazione nelle strutture carcerarie di diversi paesi nel mondo. Il Ministro della Giustizia ha riconosciuto l’importanza del Programma, affermando che verso i detenuti viene attivato “un percorso di ripensamento sui propri comportamenti, di assunzione di responsabilità e acquisizione di nuova consapevolezza, in funzione del rientro in società, che, come tale, può diventare un’esperienza educativa capace di formare cittadini consapevoli e aperti alla speranza di una vita migliore”. Secondo il senatore M5S Lomuti, membro della Commissione Giustizia, rieducare i detenuti rappresenta un interesse di tutta la società e la rieducazione all’interno degli istituti di pena “permette di correggere la propensione antisociale, oltre che di adeguare il comportamento alle regole della convivenza civile, favorendone il reinserimento nella società”. Il fine ultimo del programma oggetto del protocollo d’intesa è quello di una diminuzione importante del tasso di recidiva dei soggetti detenuti una volta riacquistata la libertà. Lomuti ha annunciato che si darà inizio al Programma negli Istituti di pena italiani non appena lo consentirà l’attuale pandemia. La giustizia è un Vietnam. Draghi pronto a lasciarla a partiti e Parlamento di Errico Novi Il Dubbio, 11 febbraio 2021 Prescrizione, Csm, carcere: temi troppo divisivi, maggioranza già instabile. Mario Draghi è concentrato sul Recovery. Priorità doverosa, ma necessaria anche politicamente. Certo il futuro premier non può pretendere di riconciliare i partiti sulla giustizia. Non su prescrizione, Csm, separazione delle carriere o carcere. Così la nuova fase politica che nelle prossime ore potrebbe entrare nel vivo con la scelta dei ministri, rischia di essere “segregata” in due comparti separati. Da una parte il superamento dell’emergenza e il piano per la ripresa. Dall’altra le questioni sulle quali la coesione sarà impossibile. La giustizia penale rischia dunque di essere materia esclusiva del Parlamento. Che può riacquistare centralità. Ma anche ridursi a una sorta di fight club. Forse si capisce tutto se ci si affaccia un attimo nella commissione d’inchiesta sulle banche. Scena di ieri: c’è l’audizione di Ignazio Visco, successore di Mario Draghi al vertice di Bankitalia. “Se i tempi della nostra giustizia civile fossero allineati a quelli europei, non staremmo qui a discutere”. Tradotto: signori miei, qua sono le procedure per il recupero dei crediti che vanno aggiustate, altro che riforma penale e prescrizione. Chi come Draghi e Visco viene da via Nazionale ragiona così: certezze a investitori e imprese, tutto il resto è relativo. Va detto che sulla riforma del processo civile le convergenze non saranno impossibili. Certo nulla di trascendentale in confronto alla guerra fra giustizialisti e garantisti più o meno autentici. Tanto che Draghi è prontissimo a lasciare aperto in Parlamento un vero e proprio fight club sulla giustizia penale. Si assicurerà di avere a via Arenula una figura dal profilo più alto possibile, quasi certamente Marta Cartabia. Dopodiché lascerà il ring, cioè il Parlamento, a disposizione dei partiti. Sarà una scena strana: da una parte il passo marziale del premier su Recovery e gestione della pandemia, dall’altra le battaglie rusticane su prescrizione e carcere. Certo, vuol dire che il Parlamento potrà ritrovare centralità. Meno decreti blindati, meno fiducie, meno leggi- maxiemendamento illeggibili. È il passo avanti auspicato per anni al Quirinale, prima da Giorgio Napolitano e poi da Sergio Mattarella. Ma c’è il rischio che, sulla giustizia penale, le contraddizioni dell’inedita alleanza si rivelino insostenibili. Una geografia del conflitto? Eccola. Sulla prescrizione è già stato detto tutto, su queste pagine. Tra una settimana andranno al voto il lodo Annibali (di Italia viva) e i suoi fratelli dalle svariate paternità - i deputati Costa (Azione), Sisto e Zanettin (FI), Gagliardi (Cambiamo), Magi (+ Europa), oltre alla Lega in blocco. Gli emendanti sono incistati nel Milleproroghe, un decreto che non può scadere. Se si vuol cogliere il potenziale distruttivo della questione si deve sentire il sopracitato Enrico Costa: “In commissione Affari costituzionali la Maginot Pd- M5s dovrebbe reggere: siamo 24 a 24. Ma nessuno può impedirmi di ottenere che il mio emendamento, sospensivo della norma Bonafede, venga rivotato in Aula. Dove lo scrutinio può essere segreto. Vediamo se non si trovano 6 o 7 deputati del Pd che votano contro la prescrizione grillina”. Immaginarsi la scena successiva: i 5 stelle che vedono in frantumi la loro norma simbolo. Sarebbe il Vietnam. Ovviamente non è finita qui: contrasti fortissimi ci saranno pure sulla riforma del Csm. Su un aspetto, in particolare, che vede di nuovo Pd e pentastellati contro il resto del mondo: il sorteggio per eleggere i togati. Lo propone l’azzurro Pierantonio Zanettin, ex laico a Palazzo dei Marescialli: centrodestra tutto d’accordo, Italia viva tentata eccome. Sarebbe un meccanismo “temperato”: l’estrazione a sorte delimita una rosa di un centinaio di magistrati tra i quali individuare i candidati al Csm. Ovvio che così le correnti potrebbero trovarsi sguarnite di rappresentanti. Ma i dem vogliono preservare l’associazionismo giudiziario e i 5 stelle non hanno voglia di reggere un vessillo su cui c’è scritto “legge voluta dal centrodestra”. Ancora: il voto segreto dell’aula concede più di una chance alla separazione delle carriere, invisa ai pentastellati ma gradita da diversi deputati Pd. In una lettera al Foglio pubblicata ieri, il capogruppo democratico in commissione Giustizia Alfredo Bazoli chiede di cogliere l’occasione offerta da “un governo di emergenza a base politica larga e di profilo istituzionale” per “abbassare le tensioni” sulla giustizia, e concentrarsi sul processo civile. Nei giorni scorsi i pontieri del Nazareno si sono rivolti a Costa e ad altri firmatari dei lodi anti- Bonafede: “Perché non li ritirate?”. Tentativi di sminare il campo. Il Pd sa che rischierebbe di trovarsi nella situazione politicamente più imbarazzante. A dire la verità ieri ha indossato il casco blu del peacekeeping anche il deputato di Italia viva Cosimo Ferri, ex sottosegretario a via Arenula: “La giustizia non sarà terreno di scontro per il nuovo governo, Draghi ha correttamente indicato nelle consultazioni il tema della giustizia civile, che può e deve costituire un volano per la nostra economia”. Ferri è un magistrato prestato alla politica e ragiona da mediatore, con un occhio ai rischi per la categoria di provenienza. La realtà però è ben diversa. Si pensi al carcere: lì il Pd è pronto a smarcarsi dai grillini, vuol rilanciare la riforma Orlando, l’ha detto a Draghi, gliel’ha messo per iscritto e al 90 per cento potrà contare su una guardasigilli come Marta Cartabia, teorica della speranza da concedere a qualsiasi detenuto. Ma se pure i 5s facessero buon viso a cattivo (per loro) gioco, ci penserà Giorgia Meloni, dall’opposizione di destra: ieri la leader di FdI ha accusato Bonafede per la proroga delle norme sui domiciliari anti covid: “Un ignobile svuota- carceri mascherato”. Le ha dovuto rispondere un pentastellato come Mario Perantoni, incredibilmente costretto a respingere l’accusa di eccessivo garantismo: “Meloni dice sciocchezze, quelle misure sono escluse per gli autori dei reati più gravi”. Serve altro? Forse un po’ di realismo. Merce rara. Prova a offrirne Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali: “Si intervenga su quelle misure patrimoniali che anziché colpire solo la mafia travolgono l’economia di intere aree del Paese”. Servirebbe a rilanciare il tessuto produttivo. In astratto è d’accordo pure Draghi. Ma c’è da giurare che se solo leggesse, in una proposta sulle misure di prevenzione, le parole “codice penale”, se ne terrebbe rigorosamente alla larga. Vittorio Manes: “La prescrizione è civiltà giuridica, la spazza-corrotti ne è la negazione” di Simona Musco Il Dubbio, 11 febbraio 2021 Impossibile pensare di rilanciare il Paese relegando ad un fatto secondario la giustizia penale. A dirlo è Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, che al Dubbio ricorda come non sia solo la giustizia civile ad incidere sull’economia e la ripresa dell’Italia: “La giustizia penale - spiega - coinvolge e travolge diritti fondamentali, dei singoli, e spesso ha conseguenze incapacitanti ed esiziali anche per le imprese”. E sulla prescrizione ricorda: “È un istituto di civiltà giuridica che garantisce un preciso equilibrio nei rapporti tra cittadino e Stato”. Professore, quale strada deve seguire il governo Draghi per la giustizia? Penso che tra le priorità dovrebbe essere inserita - e se ne discute da tempo - la giustizia penale, che investe i diritti dei cittadini e rappresenta il sismografo dello Stato di diritto: bisognerebbe prendere atto che la giustizia penale è una risorsa scarsa, che va impiegata con parsimonia. Oggi si punisce moltissimo in astratto e si persegue moltissimo in concreto, con un gap spesso eccessivo tra processi instaurati e sentenze di condanna, ed un costo elevatissimo per i soggetti che comunque vengono coinvolti e travolti nel procedimento, oltre che una complessiva perdita di autorevolezza e di fiducia nell’amministrazione della giustizia. Servono misure di sistema che assicurino una forte riduzione dell’attuale ipertrofia punitiva, prendendo sul serio il principio di extrema ratio e l’idea- forza che vincoli rigorosamente la privazione della libertà personale al “minimo sacrificio necessario”: dunque, una radicale depenalizzazione, non limitata ad ipotesi di reato che hanno poca o nessuna incidenza nella prassi; potenziamento degli istituti sostanziali e processuali che consentano di filtrare condotte “bagatellari” o caratterizzate - in concreto - da disvalore trascurabile (anche ampliando istituti come la non punibilità per particolare tenuità del fatto o la messa alla prova, ma anche l’estinzione del reato per condotte riparatoria, tutti ancora molto asfittici e poco appetibili per l’indagato); potenziamento dell’udienza preliminare come fondamentale momento di filtro sulle “imputazioni azzardate”; incremento dei riti alternativi al dibattimento, con incentivi che davvero ne assicurino la funzionalità; tempi contingentati per il processo. Al momento il penale sembra essere escluso dai programmi, puntando più sul civile e collegandolo all’urgenza si risollevare l’economia. Si rischia di perdere un’occasione? Mi pare evidente che il problema della giustizia penale non possa apparire secondario. Sono ben comprensibili le conseguenze che le inefficienze della giustizia civile produce sull’economia, ma la giustizia penale non può essere un posterius, né sul piano logico né su quello assiologico: coinvolge e travolge diritti fondamentali, dei singoli, e spesso ha conseguenze incapacitanti ed esiziali anche per le imprese, se solo si pensa ai tempi irragionevoli in cui vengono mantenuti sequestri cautelari per somme spesso elevatissime, con conseguenze drammatiche in termini finanziari ed economici che spesso conducono al fallimento di pur floride realtà imprenditoriali. Sembrano già essere in atto scontri sul tema prescrizione. Crede che l’anima garantista della maggior parte dei partiti che hanno dichiarato di voler sostenere Draghi riusciranno a spuntarla sull’anima giustizialista del M5S? L’istituto secolare della prescrizione del reato è stato modificato - o, meglio, neutralizzato - con una stupefacente insensibilità per le garanzie e i diritti fondamentali che ad esso sono riconnessi, e con notevole miopia per le ricadute conseguenziali, specie sul piano pratico, che tra qualche anno si manifesteranno - verosimilmente - subissando le Corti d’Appello con un carico di lavoro insostenibile. Questo istituto è stato l’idolo polemico dietro al quale nascondere le molte inefficienze dell’apparato punitivo statale, un totem da abbattere - come in effetti poi avvenuto - dietro al quale si nascondeva il tabù delle riforme processuali da intraprendere per garantire un processo giusto in tempi ragionevoli. L’Unione delle Camere penali ha avuto il merito di stimolare una sensibilità più diffusa ed informata su questo istituto, facendone comprendere il profondo significato di garanzia, ed alimentando una consapevolezza che poi ha trovato adesioni crescenti anche nel mondo della politica: spero che ora sulle battaglie ideologiche prevalga la ragionevolezza e il buon senso, ed una forma di “ravvedimento operoso” che conduca a rivedere le scelte compiute in una prospettiva attenta ai principi costituzionali. Ciò che è certo è che un regime di prescrizione definito e dal perimetro limitato va ripristinato con urgenza, trovando un adeguato bilanciamento tra esigenze contrapposte: da un lato, nessuno lo nega, l’esigenza di assicurare l’effettività dell’azione di accertamento dei reati entro tempi ragionevoli; dall’altro, con un peso evidentemente diverso e mai trascurabile, i diritti e le garanzie fondamentali dell’imputato che, lo ricordiamo, si presume innocente sino alla condanna definitiva, e che dunque non può restare in balìa del potere punitivo statale senza fine. La prescrizione - che oggi è stata “sterilizzata” dopo la sentenza di primo grado (anche di assoluzione) - assicurava un termine massimo di protrazione del processo, e quindi in qualche modo garantiva - pur indirettamente - che la sua durata non arrivasse, come spesso capita, ad una durata irragionevole - purtroppo molto frequente nella prassi - ma assi- curava anche il diritto di difesa, la funzione rieducativa della pena, e tanti altri valori primordiali in una società civile. L’idea che il potere punitivo dello Stato sul cittadino non sia illimitato ma debba avere un termine garantisce, prima e più in alto, un preciso equilibrio nei rapporti tra cittadino e Stato, perché il cittadino - al cospetto di un potere punitivo senza limiti - diventa un suddito in balìa del Leviatano. È un problema di civiltà giuridica, che a mio giudizio merita di essere considerato una priorità e che deve essere affrontato superando la disciplina attuale, del tutto irragionevole sia sul piano dei valori che sul piano delle conseguenze pratiche. Sul Fatto Quotidiano, il dottor Davigo ha messo in guardia i partiti “europeisti” che vogliono cancellare la norma Bonafede sulla prescrizione, richiamando una sentenza della Corte di Giustizia secondo cui la precedente versione sarebbe in contrasto con il Trattato sul funzionamento dell’Ue. È davvero così? Stupisce, francamente, che per rilanciare la “battaglia” sulla prescrizione, e difendere la improvvida scelta compiuta con la c. d. “legge Spazza-corrotti” che di fatto ha sterilizzato questo istituto di civiltà nel nostro ordinamento, si invochi la sentenza Taricco della Corte di Giustizia: una delle decisioni maggiormente criticate dalla comunità dei penalisti con voce sostanzialmente unanime. Quella decisione, anzitutto, è stata resa muovendo da un problema settoriale e circoscritto, riferibile alla adeguatezza delle misure di tutela intraprese nei singoli Stati a protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea, investendo un profilo - quello specificamente concernente i presidi punitivi - peraltro di dubbia competenza dell’Unione; ed in ogni caso non era certo riferibile in via generale all’istituto della prescrizione, con valenza di sistema. Ciò premesso, una valenza di sistema quella decisione l’ha comunque avuta, visto che ha innescato un “dialogo” - o più esattamente un “braccio di ferro” - con la Corte costituzionale, che alla sentenza Taricco ha reagito prima con una ordinanza di ulteriore rinvio alla Corte di Giustizia, poi - dopo l’intervento di questa - con una sentenza che rappresenta una delle più fulgide e perentorie decisioni della Consulta in materia penale, nella quale si sono evidenziati non solo i molti principi costituzionali che all’applicazione della “regola Taricco” si opponevano e si oppongono, ma anche e soprattutto - andando persino oltre la singola questione - una serie di ulteriori affermazioni connotate da alto profilo garantistico, e riferibili all’assetto costituzionale, come la sottoposizione del giudice alla legge, la riserva di legge e la tassatività dell’incriminazione, l’impossibilità di affidare al giudice obiettivi di politica- criminale che spettano al legislatore, e il ripudio del giudice di scopo; così “sbarrando la strada senza eccezioni” - per usare le parole della Corte costituzionale - alle richieste della Corte di Giustizia. Come accennavo, il tema della prescrizione è una questione di carattere generale, che ha profonde radici costituzionali, ed evoca una questione di civiltà giuridica: e un problema simile non mi pare proprio che possa essere condizionato dalla questione specifica e settoriale evocata, al centro di una criticatissima sentenza letteralmente demolita dalla Corte costituzionale, men che meno paventando procedure di infrazione da parte dell’Ue che paiono, francamente, tutte da verificare nella loro plausibilità e fondatezza. Il Cnf ricorda che al centro dei programmi per la giustizia deve comunque esserci la persona. È questa la strada? Condivido pienamente. La persona, prima e più in alto di tutto, e nella medesima prospettiva l’imputato, che si presume innocente, devono essere posti al riparo dal rischio - sempre dietro l’angolo - di possibili errori giudiziari, rischio da scongiurare con tutti i presidi di garanzia possibili. Un sistema di giustizia penale che metta al riparo i “galantuomini” - come li definiva Carrara - dalla vessazione del potere punitivo statale, e che tuteli l’innocente con ogni cautela, non è solo un bene in sé, ma garantisce anche la fiducia nei cittadini nella giustizia, e quindi la legittimazione della magistratura stessa. La magistratura è inquinata ma nessuno fa nulla e il sistema affonda di Alberto Cisterna Il Riformista, 11 febbraio 2021 È forse giunto il tempo di distogliere lo sguardo dalle miserie umane e istituzionali compendiate nel noto libro di Palamara e tornare a una discussione meno intralciata da singoli destini e minute controversie al limite, qualche volte, del pettegolezzo. La virata non è né facile, né si può negare che si presti a qualche sospetto da parte dei girondini di turno ora a caccia di scalpi. Tra l’altro, l’azione di bonifica è appena iniziata sia in sede disciplinare (Csm) che deontologica (Anm) e ci vuole pazienza, ma è innegabile che già se ne intuiscono gli inevitabili limiti. Per carità, non è poca roba. Ma non si può fare a meno di constatare che - salvo un paio di casi, uno dei quali connesso a una scabrosa, quanto controversa vicenda personale - a rotolare nel canestro sembrano destinate poche teste coronate e molte terze e quarte file della magistratura italiana. I clientes, per intendersi, quelli più adusi alle lusinghe dei potenti e, ora, più esposti alla minuziosa rilettura di grappoli di chat. Mentre i boss stanno in disparte, si godono posti di prestigio lucrati, spesso, senza passare dall’infido Whatsapp del reprobo e attendono furbescamente, come giunchi sulle rive del fiume agitato, che passi la piena. Certo sovviene alla mente il fatto che già da tempo i più avveduti complottisti prediligessero Telegram e non si può escludere che risalenti origini e oblique propensioni abbiano indotto altri persino ad adoperare i più tradizionali pizzini. Quale che siano state le mille forme delle interlocuzioni clientelari è del tutto evidente che solo una parte del fondale fangoso è stata smossa e che troppi “scampati” attendono che l’acqua torni limpida e meno perigliosa per riprendere a dipanare le proprie trame. Un’operazione di risanamento, quella in corso su vari fronti, inevitabilmente destinata a un drenaggio incompleto delle scorie venute a galla e che pone l’urgenza di comprendere se quanto accaduto sia il frutto di un’occasionale inquinamento delle pure e limpide acque dell’associazionismo togato, ovvero se a essere contaminate siano state le falde più profonde dell’ordine, le sorgenti stesse della vita associativa e, con esse, purtroppo, le fonti della giurisdizione. Perché, a ben guardare, resta una cifra oscura in tutta questa vicenda: sinora chat e conversazioni sono state prese in esame volgendo lo sguardo in modo pressoché esclusivo alle carriere e alle connesse faide. Il J’accuse di Palamara, nello stesso titolo del libro (Il Sistema), è uno squarcio nel drappo pesante che celava la costruzione e la gestione di queste carriere. Ma non è ancora chiaro quale riflesso tutta questa convulsa azione clientelare abbia potuto avere nella gestione di indagini e processi. In fondo, ma non troppo, ai cittadini potrebbe anche non interessar nulla di come Caio sia divenuto procuratore o Tizio presidente, purché siano resi sicuri che i protocolli delle nomine non abbiano avuto e non avranno alcuna incidenza sui loro processi e sulle loro vicende. Non sarà certo la magistratura l’unico ramo di quel lago opaco che è la pubblica amministrazione italiana in cui troppi dirigenti e capibastone hanno provenienze improbabili di origine politica, massonica o legate a consorterie varie. Di questo profilo ovvero dell’inquinamento della giurisdizione, in queste settimane, si discute poco o nulla. Certo si è scoperto che esistono cordate di pubblici ministeri, appartenenti alla polizia giudiziaria e giornalisti che prendono in carico i propri nemici, interni ed esterni, per abbatterli. Fatto inquietante - noto a tutti da anni con tanto di nomi e cognomi - rispetto al quale però nessun provvedimento legislativo o organizzativo è stato mai seriamente messo in campo, perché il Cerbero ha tre teste tutte capaci di azzannare e far male a chiunque. Ma non basta. A sprazzi, e con molta cautela, emergono nel racconto del ripudiato Palamara anche le interferenze di certi magistrati su certi processi, la costruzione artefatta delle fonti di prova, le manipolazioni investigative, le complicità poliziesche. Il tutto pare giustificato da una sorta di stato di belligeranza della corporazione con settori della politica che, ahimè, costringeva quelle toghe a una certa disinvoltura. Ma come stare tranquilli che i solerti regicidi e tirannicidi non fossero disposti anche a tagliar gole a qualsiasi altro malcapitato non è ben chiaro. Messo da parte l’intento nobile che ispirava i novelli Bruto, resta forte l’impressione di un uso improprio della giurisdizione, di una confidenza disinvolta con l’obliquità, della giustificazione postuma di un atto non consentito. Dopo l’assassinio Bruto tessé un discorso di grande rilievo: “Preferireste voi Cesare vivo e noi tutti morire come schiavi, oppur Cesare morto, e tutti liberi? Ma fu troppo ambizioso, ed io l’ho ucciso. Lacrime pel suo amore, compiacimento per la sua fortuna, onore al suo valore, ma morte alla sua sete di potere!” (W. Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena II). Sappiamo com’è andata a finire dopo il discorso di Antonio e quanto lieve peccato sia stata considerata l’ambizione di Cesare. Parimenti nessuna abiezione politica o morale può giustificare l’esercizio improprio della giurisdizione. Ci saranno pur altre storie, altre vite, altre vittime che hanno pagato la stessa colpa di Cesare. Ma non è lecito attendersi che il racconto del magistrato vada oltre. Ha già troppi impicci perché sia lecito pretendere che ammetta fatti di reato ancora nascosti di cui potrebbe essere stato parte o che potrebbe aver subito e non denunciato. Troppo poco perché possa trovare una risposta tranquillizzante la domanda “ma se hanno liquidato Mevio o Sempronio perché non dovrebbero averlo fatto altre volte?”. La questione resta lì sul tappeto, in tutta la propria inquietante dimensione etica e giuridica, ma inesplorata. Eppure questo interessa, eccome, i consociati i quali avrebbero il diritto di sapere se - sia pure occasionalmente e sia pure a macchia di leopardo - quella separazione tra coniugi, quella causa di risarcimento, quella lite condominiale, quella denuncia o quel fallimento abbiano visto agire la consorteria clientelare venuta a galla in queste settimane o altre omologhe. La linea di galleggiamento del sistema giudiziario è alle soglie dell’affondamento, a dispetto delle centinaia di toghe oneste, capaci e laboriose che, comprensibilmente, vorrebbero che tutto questo passasse in fretta per tornare a lavorare e rendersi utili al paese. Ma il corpo morale della magistratura è inscindibile dal suo corpo istituzionale perché interamente costruito sulla fiducia dei cittadini e sul credibile esercizio di una enorme autonomia e dell’indipendenza. Se il corpo morale imputridisce per una cancrena circoscritta, ma non sanata, anche il corpo istituzionale rischia di soccombere. Ma di questo discuteremo un’altra volta abusando della pazienza di queste pagine. Sentenze sessiste, le donne in ostaggio dei vecchi stereotipi di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 11 febbraio 2021 Oggi il raptus di gelosia di cui ci capita di sentir parlare sui media o nei tribunali, in occasione di un femminicidio, è un retaggio di una cultura arcaica che pone di fatto un’attenuante culturale. Pregiudizi. Stereotipi. Molto diffusi nella nostra società. Non sempre li riconosciamo, eppure spesso li trasmettiamo. La verità è che non sono eliminabili. Ognuno di noi può esserne veicolo, anche inconsapevole. Ma possono causare danni gravi, perché riproducono ingiustizia e discriminazione, si trasformano in catene culturali nefaste, limitano percorsi di libertà. E allora dobbiamo porvi attenzione. Ancora di più se lavoriamo e agiamo in contesti cruciali come aule dei tribunali, scuole o mass media. C’è un’unica strada per prendersi cura degli stereotipi: esserne consapevoli, imparare a riconoscerli e a prevenirli, perché ci sono alcuni più di altri che possono pagarne le conseguenze come le donne, le persone Lgbt e tutte le minoranze, etniche, religiose e non. Voglio ricordare due date, il 19 maggio 1975 e il 5 agosto 1981. Vi chiederete il perché. Il 1975 è l’anno del nuovo diritto di famiglia. Con quella legge, una pietra miliare della nostra legislazione, si abroga il “diritto” ad avere rapporti sessuali con la propria compagna anche se non consenziente. Fino a quel momento in Italia vigeva formalmente la cultura del possesso e non quella del rispetto. E, in fondo, non è un tempo poi così lontano. Fino al 1981, invece, esisteva un articolo del codice penale che puniva con il carcere da 3 a 7 anni chi uccideva la propria moglie o la propria compagna a seguito di un adulterio, e la ragione di una pena così mite era il riconoscimento dello “stato d’ira” determinato dall’offesa all’”onore”. Oggi il raptus di gelosia di cui ci capita di sentir parlare sui media o nei tribunali, in occasione di un femminicidio, è un retaggio di una cultura arcaica che pone di fatto un’attenuante culturale. Corte di Cassazione e Corte Costituzionale nelle loro sentenze hanno più volte messo in guardia dai retaggi di cultura arcaica presenti nel nostro Paese. È importante comprendere che la battaglia dei diritti è prima di tutto una battaglia culturale. Se non cambia la cultura, i diritti rimangono formali e non diventano sostanziali, non vivono nella quotidianità e ostacolano il raggiungimento dell’uguaglianza. L’articolo 3 della Costituzione è proprio lì ad indirizzarci. Per questo è essenziale la consapevolezza di ognuno di noi, per evitare di essere un anello nella catena di trasmissione di pregiudizi che limitano la libertà e l’inviolabilità delle donne, e di tutte le minoranze. Per questo è urgente che si sviluppi una educazione ai diritti, alla parità, alla cultura del rispetto che è diametralmente opposta a quella del possesso, all’autonomia finanziaria, alla cura, alla corretta gestione delle relazioni, fin dalla più tenera età, nelle famiglie e nella scuola. Aggiungo un ultimo dato su cui riflettere. Esiste una regola nel nostro sistema giuridico secondo la quale si può condannare una persona avendo solo come prova la testimonianza della vittima, e sulla base di un vaglio adeguato e di una valutazione del giudice, qualunque sia il reato. Viene usata nei casi di rapine, di furti, di spaccio di droga. Eppure, quando si arriva alla violenza contro le donne, soprattutto se l’abusante e il maltrattante è suo marito, questa norma vale molto meno. Chiediamoci il perché. Le parole dei giudici che fanno trasparire i pregiudizi di Maria Novella De Luca La Repubblica, 11 febbraio 2021 Dalla “gelosia morbosa” all’impulso sessuale “irrefrenabile”. Una bara bianca e un cuscino di roselline rosa. Roberta Siragusa, 17 anni, è stata sepolta così, nel cimitero di Caccamo, in Sicilia. Pietro Morreale, 19 anni, il suo assassino, è in carcere. Nell’ordinanza che ha portato all’arresto di questo giovanissimo e spietato killer, c’è scritto più volte che sarebbe stato mosso “da una fortissima gelosia”. E per gelosia dunque Morreale l’avrebbe bruciata viva e buttato il suo corpo in una scarpata quella gelida notte tra il 24 e il 25 gennaio. Parole che pesano. Soprattutto se scritte in un atto giudiziario che costituirà poi l’ossatura di tutta la vicenda processuale di questo femminicidio. Come se la gelosia, parola che in questo inizio del 2021 già insanguinato dall’omicidio di cinque donne da parte dei loro partner o ex, viene citata dietro ognuna di queste vite spezzate, potesse costituire un movente, o addirittura un’attenuante per gli autori di questi delitti. Perché “gelosia” (spesso seguita da aggettivi come incontenibile, morbosa, patologica) è una parola-spia di quanto nelle nostre aule dei tribunali, resistano pregiudizi e stereotipi contro le donne. Uccise non da lucidi killer, ma da maschi “accecati” ora dalla gelosia, ora dalla rabbia, in re-azione a un loro comportamento: una separazione, una nuova relazione. “La nostra cultura è intrisa di sessismo e anche una parte della giustizia, di conseguenza, lo è”, denuncia Paola Di Nicola, magistrata, che a questo disvelamento ha dedicato un libro fondamentale, “La mia parola contro la sua”. “Il pregiudizio contro le donne porta spesso i giudici ad attenuare le condanne perché la violenza viene letta non come pura sopraffazione, ma come reazione a un comportamento della vittima. Il famoso “raptus” ad esempio. O l’impulso sessuale. Uno studio del Ministero della Giustizia rileva che nel 70% delle sentenze dei femminicidi vengono concesse le attenuanti, è davvero un dato che fa riflettere”. Infatti. Nella lotta che sembra a volte perduta contro la violenza maschile, analizzare cosa accade nei tribunali è diventato, oggi, un punto centrale. Può aiutarci a capire la resistenza delle donne italiane nel denunciare. Secondo il report della Polizia di Stato “Questo non è amore” del 2019 nel nostro paese ogni giorno 88 donne sono vittime di violenza. Ma di questa persecuzione soltanto poco più del 10% dei casi si trasforma in una denuncia”. La commissione d’inchiesta sul femminicidio del Senato sta ultimando un’indagine su oltre 200 sentenze per comprendere le cause dei femminicidi. E sono recentissimi i dati di una ricerca dell’università della Tuscia, in collaborazione con “Differenza Donna” che ha dimostrato come nella rappresentazione giuridica della violenza di genere ci siano tre “pregiudizi” ricorrenti: la lite familiare, la gelosia e il raptus. Per spiegare in che cosa consista il sessismo giudiziario, Paola Di Nicola fa l’esempio di alcune sentenze. La prima riguarda un femminicidio avvenuto a Genova nel 2018, in una coppia dell’Ecuador. La difesa afferma che l’uomo non avrebbe “agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a sé stesso, ma come reazione al comportamento della donna, che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo, con la promessa di un futuro insieme. Tale contesto, giustifica, la concessione delle attenuanti generiche”. Dunque, in sostanza, sottolinea Paola Di Nicola, “questo femminicidio è stato in un certo senso provocato dalla vittima stessa”. È incredibile ma è così. Un secondo caso riguarda il processo a due stupratori di Viterbo, esponenti del gruppo neofascista di Casapound, Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, che nel 2019 picchiarono e violentarono per ore una ragazza conosciuta in un pub. Nella sentenza vennero applicate le attenuanti generiche. Semplicemente perché i due ventenni “avevano riaccompagnato a casa la ragazza” e per i giudici questa sarebbe stata “conferma della loro inconsapevolezza del rilievo penale della loro condotta... non determinata da dispregio della persona, ma da impulsi esclusivamente sessuali”. “Qui, addirittura - dice Di Nicola - ci troviamo di fronte a due aggressori inconsapevoli di compiere uno stupro”. La terza sentenza riguarda un caso di maltrattamenti. Nonostante 9 referti di pronto soccorso il tribunale di Torino, nel 2017, assolve un uomo che picchiava e terrorizzava la moglie, affermando che in più occasioni questa si era difesa, quindi, evidentemente “non era in stato di prostrazione fisica e morale”. Conclude Paola Di Nicola: “La violenza sulle donne bisogna saperla leggere. È fondamentale che tutti coloro che operano in questo settore siano formati, altrimenti nei tribunali continuerà ad agire lo stereotipo culturale per cui quello stupro, quelle botte sono la reazione a un comportamento della vittima. Gli aggressori vengono condannati, certo, ma ridimensionando la violenza e quindi la pena. O addirittura, in certi casi assolti. Ma c’è anche una parte importante della magistratura impegnata ogni giorno a disvelare nelle aule questi limiti per superarli”. Quattro poliziotti condannati per il pestaggio del cronista di Marco Lignana La Repubblica, 11 febbraio 2021 Due anni fa a Genova l’aggressione a un giornalista di Repubblica durante una manifestazione. Il giudice decide una pena soft: 40 giorni. “Ma adesso risarciscano i danni alla vittima”. Lui: “Mi aspettavo di più”. La mano ancora non è posto. Non lo sarà mai. Impossibile compiere i gesti quotidiani più banali, aprire una bottiglia, tenersi alla maniglia sul bus. Faticoso lavorare, battere le dita operate due volte sulla tastiera del pc. Poi c’è la tensione nervosa, lo stress accumulato in un anno e mezzo. Soprattutto dopo le udienze, quando “sembrava che il colpevole fossi diventato io. Colpevole di aver fatto il mio lavoro, di essere dove deve stare un giornalista”. Invece un giudice ha messo un primo punto fermo sulla brutale aggressione del cronista di Repubblica Stefano Origone da parte di quattro agenti del Reparto Mobile di Bolzaneto, il 23 maggio 2019 durante una manifestazione di piazza contro un comizio di Casa Pound. Tutti e quattro i poliziotti rinviati a giudizio sono stati condannati dal giudice per le udienze preliminari Silvia Carpanini. Le pene sono molto distanti da quanto chiesto dal pm Gabriella Dotto: non un anno e quattro mesi, ma quaranta giorni. Per il giudice gli agenti erano legittimati a usare la forza durante gli scontri di piazza in un momento di tensione, e hanno percepito Origone come un pericoloso manifestante. Ma infierendo sul suo corpo a terra hanno abusato del proprio potere: non più un reato doloso, ma colposo. Quanto scritto, di fatto, nella relazione della Squadra Mobile, organo di polizia chiamato a indagare sulla stessa polizia. Fra attenuanti generiche e riduzione della pena per la scelta del rito abbreviato, ecco spiegate le lievissime condanne: “Certo mi aspettavo di più, non mi vergogno a dire che in quei momenti ho avuto paura di morire, gridavo sono un giornalista ma nessuno smetteva di picchiare - dice Origone, rappresentato dall’avvocato Cesare Manzitti - ma è stata riconosciuta la responsabilità di un pestaggio e di questo non posso che essere soddisfatto. I poliziotti in quel momento stavano fermando un manifestante e un cronista non può che seguire da vicino un evento del genere”. Soltanto l’intervento di un altro poliziotto che conosceva personalmente Origone, il vicequestore Giampiero Bove, aveva interrotto il pestaggio, i calci e le manganellate: il referto del pronto soccorso diceva due dita spappolate, lesioni alla testa e alla schiena. Non è finita qui, l’appello è scontato: “Leggeremo le motivazioni e ci riserviamo di impugnare la sentenza. La tesi della Procura è ben diversa da quella sposata dal giudice”, premette il procuratore aggiunto Francesco Pinto. Mentre Rachele De Stefanis la legale che difende due degli agenti condannati, parla di “una sentenza pilatesca e non coraggiosa, il comportamento dei miei assistiti è stato impeccabile, l’uso della forza in quel frangente era pienamente legittimo e rispondeva ad esigenze di ordine pubblico condivise dallo stesso pm nelle sue controrepliche”. Il Gup ha stabilito anche il risarcimento dei danni morali subiti da Origone, una partita che si giocherà in sede civile. Per ora, i quattro condannati dovranno pagare 5mila euro di provvisionali. Per ordine dei giornalisti e Fnsi “si conferma che il lavoro dei giornalisti non è mai esente da rischi, ma l’esigenza di raccontare, documentare un fatto non è temeraria o imprudente, bensì fondamentale per soddisfare il diritto dei cittadini ad essere informati”. “Omar è malato e in carcere non ci sarebbe mai dovuto entrare”: lo stabilisce la Cassazione di Rossella Grasso Il Riformista, 11 febbraio 2021 La salute prevale sulla detenzione: lo afferma la Cassazione accogliendo il ricorso presentato dall’avvocato di Omar, 47 anni, detenuto nel carcere di Avellino. Omar soffre di varie patologie: diabete mellito, ipertensione, cardiopatia, apnee notturne e necessita di un respiratore per sopravvivere. È stato arrestato ma le sue condizioni sin dall’inizio non erano buone. Dopo i primi mesi di carcere la famiglia di Omar, sostenuta dall’avvocato Danilo Iacobacci, ha iniziato una vera e propria battaglia per riportarlo a casa, agli arresti domiciliari, in modo da poterlo assistere al meglio. “Da un mese Omar è tornato a casa e solo successivamente è arrivato il pronunciamento della Cassazione che ci dava ragione: Omar è malato e in carcere non ci doveva proprio andare”, ha detto l’avvocato Iacobacci. “Non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di persona affetta da malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere”, recita infatti la sentenza. Omar ha 47 anni, è un grande obeso, ha un’insufficienza respiratoria cronica, è iperteso, cardiopatico e diabetico e di notte soffre di apnee a causa delle quali spesso perde i sensi. La situazione è aggravata da una pesante depressione ansiosa e dalla sua dipendenza da alcol e sostanze stupefacenti. In carcere Omar sarebbe potuto morire nel sonno nell’indifferenza di tutti senza il respiratore di cui ha bisogno per vivere. Un respiratore che in carcere ha chiesto a lungo ma che non gli è mai stato dato e che comunque non avrebbe potuto salvargli la vita nelle condizioni in cui si trova attualmente, nemmeno se glielo avessero portato i familiari, come richiesto dal magistrato. Per vivere Omar aveva bisogno di stare a casa sottoposte a cure che in carcere nessuno gli avrebbe potuto garantire. Il suo papà nei mesi scorsi non ha mai chiesto che fossero fatti sconti di legge a suo figlio, solo che non morisse in carcere di carcere. Adesso Omar continuerà a scontare la sua pena a casa agli arresti domiciliari ma non dovrà pagare con la vita per i suoi reati. Campania. Più scarcerazioni e domiciliari, ma le carceri restano un inferno di Andrea Esposito Il Riformista, 11 febbraio 2021 Più di 150 persone in detenzione domiciliare con o senza braccialetto elettronico, più di 330 condannati ma destinatari di permessi premio, quasi cento ai quali è stato consentito di curarsi a casa. Numeri di un certo rilievo che, tuttavia, non bastano a svuotare le carceri della Campania dove, al 31 gennaio, si registrano 365 ospiti in più rispetto alla capienza regolamentare. Segno che la guerra contro il vecchio nemico del sovraffollamento è ancora lontana dall’essere vinta e che l’approvazione di un grande piano di giustizia sociale, che parta proprio dalle prigioni, non è più rinviabile. È la fotografia restituita dai dati diffusi dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello sulle misure premiali ed eccezionali concesse ai reclusi sulla base del decreto Cura Italia e del decreto Ristori tra il 27 ottobre 2020 e il 31 gennaio 2021. Le statistiche parlano di 58 persone alle quali rimanevano da scontare meno di 18 mesi di reclusione e che, in base alla norma approvata per decongestionare le carceri, hanno beneficiato della detenzione domiciliare con applicazione del braccialetto elettronico. Sono 108, invece, i condannati con fine pena detentiva non superiore a 18 mesi ai quali è stata concessa la detenzione domiciliare senza braccialetto elettronico. Qui spiccano i penitenziari di Aversa e Carinola, dai quali sono usciti complessivamente 34 e 32 detenuti, mentre sono soltanto nove i reclusi che hanno lasciato Poggioreale, il carcere più affollato d’Italia, per scontare a casa i rispettivi residui di pena. Si può fare di più? Certamente sì, almeno secondo Ciambriello: “Basterebbe prevedere la detenzione domiciliare con braccialetto elettronico per chi ha da scontare fino a due anni di reclusione e senza braccialetto elettronico per le persone che hanno un residuo di pena non superiore a un anno, anche se condannate per reati ostativi: non possiamo permettere che norme ciniche e costituzionalmente illegittime sacrifichino il diritto alla salute dei detenuti che, mai come in questo periodo, è a rischio causa Covid”. Per il resto, il dossier stilato dal garante parla di 330 persone alle quali, anche alla luce del dilagare del virus in cella, sono stati concessi permessi premio che hanno consentito loro di trascorrere diverse settimane a casa. Sono 91, invece, i detenuti malati che hanno avuto la possibilità di curarsi a casa a prescindere dalle norme che prevedono la detenzione domiciliare per chi debba scontare meno di 18 mesi di reclusione e si trovi in condizioni di salute precarie. Nove, infine, sono i reclusi senza fissa dimora che hanno lasciato i penitenziari. Anche quest’ultimo dato, per quanto incoraggiante, può e dev’essere migliorato se si pensa che in Campania sono 47 i posti in strutture destinate a detenuti senza casa e famiglia: “Serve più impegno da parte delle direzioni e delle aree educative dei penitenziari - osserva Ciambriello - nel segnalare i casi di reclusi senza fissa dimora”. Insomma, i dati sono il risultato delle decisioni di magistrati che hanno adottato provvedimenti utili a decongestionare le carceri in tutti i casi in cui la legge lo permette alla luce della pandemia in atto in tutta Italia. A questo si aggiunge un uso “più parsimonioso” della custodia cautelare da parte di pm e gip, in linea con quanto auspicato dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Eppure non basta. In Campania, infatti, restano 365 detenuti “di troppo”, a riprova che il sovraffollamento ancora c’è e, in mancanza di interventi strutturali, difficilmente sarà cancellato. Chi dovrà farsene carico? Il nascente governo Draghi, in cui il posto di guardasigilli finora occupato dal giustizialista pentastellato Alfonso Bonafede dovrebbe essere assegna to a una convinta garantista come l’ex presidente della Consulta Marta Cartabia. A lei (o, in ogni caso, al prossimo ministro della Giustizia) il compito di mettere nero su bianco un piano che riduca almeno del 50% la popolazione carceraria. Questione di umanità e di buon senso, prima ancora che di giustizia. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Ciambriello: “Il carcere militare è a misura d’uomo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 febbraio 2021 Il giudizio del Garante campano dopo la visita alla struttura. Il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello ha fatto visita al carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, dove ha avuto dei colloqui con alcuni dei detenuti ivi ristretti. Il Garante, accompagnato dal tenente colonnello Rosario del Prete, comandante/ direttore del carcere ha visitato le celle (singole, doppie o triple) con bagni dotati di doccia, la mensa collettiva e i vari laboratori di bricolage, pittura, ceramica. “Ho trovato una struttura a misura d’uomo, nella quale le persone “diversamente libere” vivono la privazione della libertà nel rispetto della dignità umana, sia negli spazi (singoli e comuni), che sono funzionali al trattamento, alla rieducazione e al rispetto delle norme di sicurezza. Ho potuto visitare l’area verde, che consente ai detenuti di svolgere attività di giardinaggio, una palestra, la sala colloqui, che è un ambiente familiare e confortevole”, così Samuele Ciambriello all’uscita dal carcere sammaritano. Attualmente in Istituto sono ristrette 52 persone ex appartenenti alle Forze armate che scontano pene detentive a seguito di condanne per reati propri e comuni. Fino al 2005 esistevano diverse carceri militari, oggi è rimasto solo quello di Santa Maria Capua Vetere. Si trovavano a Gaeta, Pescheria del Garda, Forte Boccea, Cagliari, Sora, Palermo, Bari, Torino e Pizzighettone. A dispetto di tutti gli altri istituti penitenziari ordinari, quello militare risulta un carcere modello e ha un numero esiguo di ristretti. Molto al di sotto della capienza regolamentare. Il carcere militare può essere posto ad esempio: ha un elevatissimo standard delle condizioni di detenzione, è una struttura considerata di assoluta eccellenza dal punto di vista delle condizioni sanitarie, infrastrutturali e per l’elevato livello tecnologico. Di detenuti militari ce ne sono pochi, paradossalmente la maggior parte sono poliziotti e carabinieri. “Parliamo di un carcere - come conferma anche il garante regionale - dove non esiste un clima di distacco che solitamente avviene nei penitenziari italiani “civili”. Pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Si lavora, esiste la possibilità di coltivare, partecipare a laboratori di cucina e falegnameria. La riabilitazione funziona. Più volte si è detto di sopprimerlo, ma forse, viste le gravi criticità degli istituti penitenziari, bisognerebbe estenderlo e replicarlo anche ai “civili”. Gorizia. Carcere e Covid: la necessità di creare un ambiente sicuro di Selina Trevisan voceisontina.eu, 11 febbraio 2021 Intervista a Paolo Zuttion, cappellano della Casa circondariale di Gorizia. “Si sente la mancanza di tutte le attività; io sento il peso di non avere accanto il prezioso aiuto dei volontari, sia dal punto di vista dell’animazione liturgica che della distribuzione di vestiario e dei materiali. Speriamo che presto si possa, un po’ alla volta, ripartire” Questa pandemia, con la quale ancora siamo alle prese, ha modificato le abitudini, le attività e le relazioni di tutti. C’è una realtà però della quale non si parla molto spesso, se non quando succedono fatti tali da portarla “sotto ai riflettori”. Si tratta della realtà carceraria che, come ogni ambiente, ha anche dovuto fare i conti con l’epidemia, prendendo misure di tutela restrittive che hanno cambiato il modo di vivere la quotidianità tanto dei detenuti, quanto di coloro che vi operano all’interno. Abbiamo incontrato don Paolo Zuttion, cappellano della Casa circondariale di Gorizia, il quale ci ha raccontato dei giorni del primo lockdown, quello più inaspettato e “duro”, quando i detenuti non potevano vedere i familiari ma anche di come la loro percezione, forzata dalla reclusione e dalla mancanza di contatti con l’esterno, fosse radicalmente diversa da quella di chi la viveva “fuori”. Don Paolo, il Covid ha modificato la quotidianità di tutti. Cos’ha comportato quindi per la vita all’interno del carcere? Quali le attività che hanno dovuto essere sospese? Subito, da marzo, con i primi giorni di lockdown, sono state sospese tutte le attività, in particolar modo quelle che implicavano il coinvolgimento di persone esterne alla struttura carceraria, ossia tutti coloro che non facessero parte del corpo di Polizia Penitenziaria, che non fossero membri dello staff sanitario o che non fossero il cappellano. Questo ovviamente per cercare di scongiurare il più possibile l’ingresso del virus all’interno del carcere. Tutto ciò ha avuto come conseguenza la mancanza, per tutto il periodo, di attività per i detenuti (appena ora sta riprendendo qualcosa, come il laboratorio teatrale). Questo ha portato a un radicale cambiamento del modo di vivere all’interno del carcere, ma devo anche dire che i detenuti non ne hanno particolarmente risentito, nel senso che non ci sono mai stati malumori o tensioni legati a questa mancanza: hanno accettato questa “nuova” realtà, hanno capito che era indispensabile per salvaguardare la salute di tutti e che bisognava impegnare le giornate diversamente. La ripresa ora, come accennavo, c’è ma è molto lenta perché la situazione - come vediamo - non si è ancora stabilizzata. Tirando le somme, l’interno del carcere è stato particolarmente toccato - come il resto della società d’altronde - da questa pandemia ma non ci sono state tensioni eccessive. Non potendo entrare nessuno all’interno della struttura, immagino che anche le visite dei familiari fossero sospese… Sì, ora sono riprese ma i detenuti, per un lungo periodo, non hanno potuto incontrare i propri famigliari, un fattore pesante a livello psicologico. Questa mancanza però è stata supplita dando una maggiore possibilità - vista appunto l’impossibilità di incontri in presenza - di poter effettuare videochiamate. A mio avviso questa soluzione, resa disponibile praticamente da subito, ha quietato parecchio gli animi e ha fatto sì che non si creassero tensioni. Ovviamente i detenuti non hanno a disposizione un cellulare personale (nemmeno io, i volontari e gli operatori dei laboratori possiamo portarlo all’interno della struttura): le videochiamate venivano realizzate con un cellulare del carcere; ogni detenuto poteva passare anche un’ora - un arco di tempo più lungo del consueto, vista proprio la situazione - al telefono con i propri famigliari, una volta alla settimana. Il fatto di vedere i volti, parlare con loro a lungo, informarsi sulla loro salute, ha aiutato tantissimo a mantenere un ottimo livello delle condizioni all’interno della struttura goriziana, sia per quanto riguarda l’aspetto psicologico che per quanto riguarda l’aspetto della sicurezza, mantenendo gli “animi” tranquilli. Che ambiente è quindi il carcere di Gorizia in questo momento? Ossia, dal punto di vista sanitario gli operatori e i detenuti si sentono di essere in sicurezza? Nel penitenziario di Gorizia possiamo davvero dire ci sia stato un estremo rigore nel rispettare le normative anti Covid e i regolamenti interni. Ci sono stati dei casi, pochi e asintomatici, ma comunque delle positività prontamente isolate. Inoltre, in questo periodo segnato dalla pandemia, quando un detenuto entra nella struttura viene sottoposto ad isolamento per la quarantena e sottoposto test prima di essere portato nelle sezioni, a contatto con gli altri. Gli operatori sanitari sono stati molto bravi nella gestione della situazione, tant’è vero che, rispetto ad altri carceri anche della nostra regione, non è dilagata. Tutti (detenuti, operatori, personale medico…) sono sottoposti regolarmente, ogni 10 giorni, a tampone, proprio per garantire un monitoraggio costante ed impedire che si creino focolai, nonché per dare tranquillità a chi lì dentro si trova a passare un periodo. Pertanto possiamo dire che l’ambiente è sicuro, sia per i detenuti, che per il personale che ci lavora, sia per chi, come me, opera arrivando dall’esterno. Cos’è cambiato, in questo periodo di pandemia, nel suo operato all’interno della struttura? A livello ecclesiale abbiamo subito parecchio questa chiusura “all’esterno”. Per esempio, tutti i volontari di Rinnovamento nello Spirito Santo che venivano ad animare le liturgie e, una volta alla settimana, a svolgere catechesi e attività all’interno del carcere, tuttora non possono far ingresso nella struttura. Potevo e posso entrare solo io, occupandomi di svolgere le Sante Messe, ma anche sostituendo i volontari nella distribuzione dei vestiti - funzione questa indirizzata in particolare a chi arriva in carcere e non ha ricambi, un servizio solitamente svolto, in tempi di normalità, dall’associazione “La zattera”. Devo poi dire che, durante il tempo del lockdown quando tutto era chiuso ed essendo le attività parrocchiali ridotte al lumicino, avevo più tempo da dedicare al carcere, pertanto parlavo di più all’interno delle sezioni, potevo soffermarmi maggiormente con i detenuti. È stato - nel male - un momento che ha favorito una mia presenza maggiore all’interno del carcere; questo ha favorito la relazione, il rapporto, che si è sentito anche a livello di celebrazioni: la domenica, per esempio, le presenze erano più numerose rispetto ai periodi precedenti, proprio perché c’era una maggiore condivisione anche durante la settimana. Per quanto riguarda il mio compito, nel periodo in cui il lockdown era più “duro”, mi occupavo anche di mantenere un collegamento con le famiglie, recapitando ad esempio pacchi contenenti ricambi di abiti o qualche bene alimentare. Inoltre va ricordato che quando un detenuto fa il suo ingresso nel penitenziario, non può da subito parlare con la famiglia ma deve essere il giudice a dare il nulla osta per le telefonate e a volte passano diversi giorni o anche settimane. Nel periodo di lockdown il mio ruolo di “collegamento” con le famiglie - quindi di contattarle, di far sapere qualcosa sul detenuto, sulla sua salute…- era aumentato, accentuato. Come hanno vissuto e stanno vivendo i detenuti questa pandemia? Che percezione ne hanno? Penso soprattutto a quelli che, al momento dell’avvio del primo lockdown, si trovavano già all’interno della struttura e non vedevano quindi che cosa stava accadendo nel mondo e poi nel nostro Paese… Diciamo che la situazione che vivono in carcere li tiene un po’ come dentro ad una “bolla”, pertanto non si rendevano in quel momento pienamente conto di quale fosse la situazione all’esterno. Chiedevano anche a me informazioni, perché un conto è vedere le notizie al telegiornale, un conto è vivere la realtà, come abbiamo provato tutti noi che eravamo “fuori”. Personalmente cercavo di spiegare loro che cosa stesse succedendo a tutti, che la gente non poteva muoversi, non poteva uscire e che in qualche modo, in quei giorni, quei mesi, stava provando un po’ quello che loro vivono lì dentro. Mancando appunto la cognizione di come vivesse la gente “fuori”, il mio ruolo era anche quello di riportare, di illustrare gli stati d’animo delle persone nel periodo di lockdown, spiegare loro che molti non potevano lavorare o avevano addirittura perso il lavoro, che i ragazzi non potevano andare a scuola… Ed è in quei momenti che ci si rende veramente conto di come, per capire appieno una situazione, non basta il “virtuale” o la televisione. Come paure, devo dire che non ne avevano sviluppate molte; sicuramente c’era più paura fuori che dentro il carcere. Anche l’aspetto della solitudine, credo sia stato più pesante per le persone chiuse in casa che nel penitenziario, perché alla fine lì un po’ di socialità, l’incontro con altri detenuti, non è mai venuto a mancare. C’è sempre ed ovviamente una solitudine che definirei esistenziale, ma si è sempre in relazione con gli altri - cosa che in quel periodo la gente “fuori”, soprattutto gli anziani, invece non poteva avere. Del personale carcerario non si parla mai molto. Come ha vissuto - e sta tuttora vivendo - tutta questa complicata situazione? Si è da subito percepito un forte senso di responsabilità, soprattutto da parte del personale sanitario nonché da parte dei dirigenti, nel tenere fuori dalle mura del carcere questo virus. Guardavano con grande apprensione le notizie che arrivavano dagli altri penitenziari, come ad esempio quello di Tolmezzo, fortemente colpito dal Covid - 19 e che purtroppo ha contato anche diverse vittime. Sicuramente c’era una certa apprensione e uno stato di ansia, si sentiva la presenza di una certa tensione. C’è però da dire che tutto questo è avvenuto in un momento che definirei favorevole: c’è stato, poco prima dell’inizio della pandemia, un cambio generazionale con l’arrivo di nuovo personale giovane tra la Polizia Penitenziaria. Questo ha portato una “ventata nuova” all’interno del carcere: nelle relazioni con i detenuti vedo che sono molto affabili, molto attenti alle loro esigenze. Inoltre il numero dei detenuti è passato in pochissimi mesi - con la fine dei lavori di sistemazione della struttura - da 20 a 60. Oltre ad esserci stato appunto il ricambio generazionale, è anche aumentato il numero di agenti di polizia, pertanto ora c’è la possibilità di realizzare turnazioni più “umane”, gli operatori fanno meno straordinari e lavorano con una maggiore tranquillità. Le loro condizioni di lavoro sono molto migliorate. Si è creato, secondo me, un clima molto positivo all’interno del carcere goriziano. Certo si sente la mancanza di tutte le attività; io sento il peso di non avere accanto il prezioso aiuto dei volontari, sia dal punto di vista dell’animazione liturgica che della distribuzione di vestiario e dei materiali. Speriamo che presto si possa, un po’ alla volta, ripartire. Salerno. Covid in carcere, parla la direttrice: “A Fuorni, situazione sotto controllo” salernotoday.it, 11 febbraio 2021 “Siamo stati fortunati ma anche bravi nella gestione - dice Rita Romano. Ci sono stati tre detenuti contagiati. Il personale, invece, ha pagato dazio. Anche io ho fatto i miei due mesi di calvario ma sono riuscita per fortuna a scongiurare il ricorso alla terapia intensiva”. “Percorsi differenziati, isolamento a scopo prudenziale per chi è sospettato di Covid, poi lo smistamento nei singoli reparti”. Rita Romano, direttrice della casa circondariale di Fuorni, ha incontrato stamattina i giornalisti, in occasione della consegna dei pacchi alimentari riservati ai detenuti poveri. Negli ultimi giorni, il Allarme Covid nelle carceri campane: tre detenuti contagiati a Salerno garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, e il segretario provinciale dell’Udc, Mario Polichetti, hanno chiesto screening ogni 20 giorni e maggiore presenza di medici. “Situazione sotto controllo”, ha ribadito ieri la direttrice. “Salerno si può definire un’isola felice per quanto riguarda la gestione del Covid. Siamo stati fortunati ma anche bravi nella gestione - dice Rita Romano. Ci sono stati tre detenuti contagiati. Il personale, invece, ha pagato dazio. Anche io ho fatto i miei due mesi di calvario ma sono riuscita per fortuna a scongiurare il ricorso alla terapia intensiva. L’organizzazione interna ci ha posto al riparo dei contagi: abbiamo creato percorsi per i detenuti che provengono dalla libertà e per i nuovi arrivati, provenienti da altri istituti. Svolgono, infatti, un percorso di isolamento fiduciario per quindici giorni e al decimo giorno effettuano il tampone, prima di essere smistati nelle sezioni di destinazione. In un’altra sezione collochiamo i detenuti che presentano situazioni di sospetto contagio. In questo momento è giunto un detenuto positivo al Coronavirus”. Vigevano (Pv). In carcere 103 contagiati dal Covid nell’ultimo mese, detenuti trasferiti di Sandro Barberis La Provincia Pavese, 11 febbraio 2021 Carcere, sale a 103 la conta dei detenuti Covid positivo. “Dall’8 gennaio ad oggi - conferma Davide Pisapia, direttore del carcere di Vigevano - abbiamo registrato 103 positività: i detenuti positivi non sono a Vigevano ma sono stati trasferiti nelle strutture hub del milanese indicate da Regione Lombardia, come il carcere di San Vittore e quello di Bollate”. Il focolaio all’interno del penitenziario dei Piccolini era esploso appunto lo scorso 8 gennaio, quando venne somministrato un tampone rapido ad un detenuto sintomatico. Risultato positivo, il direttore comprò subito altri test rapidi identificando quindi tutti i casi sospetti, che un mese fa erano 17. “Molti dei detenuti trasferiti ad inizio gennaio - conclude Pisapia - sono già tornati a Vigevano”. “Quello di Vigevano - dice Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato polizia penitenziaria - sembra essere uno dei cluster più importanti registrati durante l’intero periodo di Covid. Bisogna evitare che situazioni come quella di Vigevano possa ripetersi in altri istituti di pena, iniziando quanto prima il piano di vaccinazioni per i poliziotti penitenziari e i detenuti dando priorità ai detenuti ultra ottantenni e con patologie severe”. Il grande problema, se così lo si può definire, è che nel penitenziario dei Piccolini non ci sono spazi per aree o celle di isolamento, misura indispensabile in caso appunto di positività al Coronavirus. “Occorre evitare il più possibile i contatti dei detenuti con il mondo esterno - conclude Di Giacomo - garantendo ai poliziotti l’utilizzo di tutti i presidi che servono per evitare il diffondersi del virus nelle carceri”. Il Covid ha aumentato disparità tra ricchi e poveri del mondo: il vaccino sia consentito a tutti di Astolfo Di Amato Il Riformista, 11 febbraio 2021 Uno dei capisaldi dell’economia capitalistica è costituito dalla attribuzione di un diritto di esclusiva sulle invenzioni. Il ragionamento alla base è semplice e, per certi versi, semplicistico: la messa a punto di nuovi prodotti destinati ad aumentare il benessere degli individui richiede un impegno costante ed investimenti, che non vi sarebbero se agli stessi, nel caso di successo, non fosse riconosciuta una adeguata remunerazione. Questa è assicurata attraverso l’attribuzione di un diritto di brevetto, idoneo a conferire sia il diritto morale ad essere riconosciuto autore dell’invenzione e sia il diritto patrimoniale a sfruttare la stessa in sede produttiva e commerciale. Si tratta di principi che permeano il sistema costituito dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto): qualsiasi paese che voglia entrare a farne parte deve, come condizione essenziale e preliminare, adattare ad essi la propria legislazione interna. Inutile dire che si tratta di un sistema idoneo a determinare una sudditanza del sud del mondo ai paesi più sviluppati, pari a quella conseguente alle catene imposte durante il periodo coloniale. Sono vincoli impalpabili, perché immateriali, ma che hanno conseguenze materiali pesantissime: attraverso di essi sono spostate ricchezze enormi, sono introdotti limiti allo sviluppo, sono condizionati gli equilibri economico-finanziari e, perciò, anche quelli politici dei paesi sottosviluppati. Se a tutto questo si aggiunge che il sistema descritto riguarda anche i farmaci, occorre registrare che esso è capace di determinare enormi disparità nella popolazione mondiale in ordine ad un tema delicatissimo quale quello della salute. L’argomento era già emerso, in tutta la sua drammaticità, con riferimento alla lotta all’Aids. Oggi torna di prepotente attualità rispetto ai vaccini Covid19. La distribuzione di questi vaccini, sviluppati esclusivamente nei paesi più evoluti, sta dando luogo ad una duplice disparità, così accentuando le disuguaglianze. Da un lato, la vaccinazione procede a ritmi apprezzabili nei paesi occidentali, cui si è aggiunta l’Arabia Saudita, mentre è pressoché ferma nei paesi più poveri. Dall’altro, si è innescato un mercato dei vaccini con prezzi differenziati a seconda dell’acquirente. Alcune delle grandi imprese farmaceutiche praticano prezzi diversi: contenuti se si tratta di un paese occidentale, la cui pubblica opinione può influenzare le condizioni della loro esistenza, maggiorati se si tratta di paesi, come quelli africani, irrilevanti sotto questo aspetto. Così, la distribuzione del vaccino nel mondo avviene non sulla base di criteri medici, di utilità collettiva, ma sulla base di criteri legati al Pil. E coloro che si sono fatti sentire dopo l’incauta affermazione in questo senso di Letizia Moratti, tacciono di fronte ai criteri che stanno guidando la distribuzione a livello planetario. A questa prima considerazione se ne aggiunge un’altra: la pandemia da Covid19 è idonea a favorire il conseguimento di profitti stellari. Ad esempio, alcuni calcoli indicano che l’americana Pfizer, che ha prodotto il vaccino insieme alla tedesca Biontech, a fronte di costi per circa due miliardi di dollari avrà ricavi per circa 15 miliardi di dollari! Le leggi del mercato, perciò, in presenza di una pandemia continuano ad avere inesorabile applicazione. Ma è bene ricordare che non sono leggi naturali, bensì leggi umane, che, come tali, sono contingenti e dipendono dalla volontà degli uomini. Non possono, perciò, essere considerate un inappellabile dato di fatto. Anzi, di fronte ad una emergenza sanitaria che sta producendo milioni di morti ed una emergenza economica e sociale senza precedenti nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, diventa necessario chiedersi se quelle regole vadano mantenute. Al riguardo occorre sfatare una falsa premessa. Non è affatto vero che le invenzioni che hanno rivoluzionato la vita dell’umanità siano necessariamente passate attraverso i diritti di brevetto. Senza ricordare quel passaggio fondamentale che è stato nella preistoria l’introduzione della ruota, più di recente internet non è il frutto di una evoluzione determinata dalla logica del profitto. A questo si deve aggiungere che tutta la ricerca di base è portata avanti dalle strutture pubbliche in tutti i paesi del mondo. Tanto per fare un esempio, pertinente con il Covid19, la ricerca sugli anticorpi monoclonali vede il genetista Giuseppe Novelli, già rettore dell’Università di Tor Vergata, uno dei protagonisti a livello mondiale in questo settore. E si tratta di ricerca svolta nell’ambito delle strutture pubbliche. Sotto altro profilo, poi, la pandemia da Covid19 ha offerto una ulteriore conferma che problemi del genere sono globali e non possono trovare soluzione nel rafforzamento dei confini nazionali. Il nazionalismo vaccinale non promette risultati duraturi. Si è osservato, difatti, che far evolvere il virus in alcuni bacini abbandonati a sé stessi significa creare le condizioni affinché vi sia una moltiplicazione delle varianti, con conseguenze negative, ed anche molto negative, sulla efficacia dei vaccini esistenti. L’effetto è quello di far perdere l’immunità anche a quei paesi che, chiusisi nelle loro frontiere, siano riuscite ad eseguire la vaccinazione di massa. Gli accordi internazionali prevedono che, in casi come questo, operi un meccanismo di solidarietà denominato Covax e che si possa ricorrere a licenze obbligatorie. Il primo strumento, destinato a fornire vaccini gratis ai paesi più poveri, è, tuttavia, insufficiente quando si debba improvvisamente vaccinare una intera popolazione. Anche il secondo strumento è insufficiente, ove si consideri che la produzione di questi vaccini richiede il possesso di una tecnologia evoluta, che i paesi meno sviluppati non hanno. Ed allora occorre chiedersi se la soluzione non vada ricercata in quelli che sono in generale i principi della legislazione in materia monopolistica. Laddove il monopolio sia inevitabile, al monopolista è imposto di far accedere tutti ed allo stesso prezzo alle sue prestazioni. La congruità del prezzo è controllata dalla mano pubblica, per evitare ingiusti approfittamenti. In questo caso il potere potrebbe essere attribuito, considerata la dimensione globale della questione, all’Organizzazione mondiale della sanità. Contro il web tossico scende in campo l’Agcom di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 11 febbraio 2021 Con la scusa della comunicazione senza limiti Big Tech sorveglia i comportamenti individuali e orienta quelli collettivi. Ma se il dibattito pubblico sul valore di app, social e web è ancora nella sua infanzia, le cose potrebbero cambiare. Il 9 febbraio si è celebrata la giornata mondiale dedicata alla sensibilizzazione dell’uso sicuro e responsabile di Internet da parte dei minori, il Safer Internet Day. Le aziende di cybersecurity hanno fatto a gara a inviare comunicati densi di consigli, ma la riposta dei media è stata per lo più modesta. Radio, tv e giornali non hanno abbastanza esperti, fondi, e spazio per parlarne, ma è anche il riflesso di una forte resistenza cognitiva a valutare gli aspetti negativi dell’uso delle piattaforme Web, delle app di messaggistica e dei social media. A squarciare il velo d’ipocrisia della comunicazione “social” ci ha pensato il nostro Garante privacy quando ha chiesto e ottenuto dall’app di video-sharing TikTok di vigilare sull’accesso dei minori alla piattaforma perché i suoi utenti non sempre hanno la maturità necessaria per valutarne i rischi. Ma non esiste solo TikTok. I giovani usano le chat dei videogame e la maggior parte di loro usa Discord e Snapchat, lasciando Facebook, Twitter e LinkedIn agli adulti. E Facebook, nonostante la pessima reputazione dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, secondo il Digital Forensic Lab del Consiglio Atlantico, continua a ospitare spie, mestatori e bufalari: e a raccogliere dati sui nostri comportamenti in rete, anche attraverso le sue controllate come WhatsApp. Twitter combatte ogni giorno con terrapiattisti, Qscemi e novax ma le starlette della politica-spettacolo l’hanno eletto a luogo di baruffe quotidiane, mentre LinkedIn analizza la rete di relazioni che costruisci per offrirti anche lavori non pagati. Che esempio stiamo dando ai nostri figli? Complice la retorica della comunicazione di tutti verso tutti, la paura di essere tagliati fuori dal discorso pubblico, la disperata ricerca di relazioni, i primi difensori di questo web tossico sono proprio gli adulti che aspirano a un barlume di notorietà, che giustificano la loro presenza con motivi di business e che, con la loro ignoranza della grammatica della sicurezza, aprono le porte all’hate speech, ai cyberbulli, a stalker e hacker criminali. Invece di insegnare il valore della libertà di espressione che Internet promuove, la rovesciano nel suo contrario, silenziando le voci più gentili e gli utenti più fragili dati in pasto a haters e scansafatiche. Dietro questi comportamenti c’è una resistenza psicologica a volere rendere le piattaforme digitali responsabili degli algoritmi che premiano il conflitto in rete, la distribuzione di fake news, la profilazione dei comportamenti a fini commerciali, ma soprattutto c’è la stolida sottovalutazione del valore della propria privacy. Ce l’hanno dimostrato in questi giorni gli adulti che si sono catapultati dentro ClubHouse, il social audio dove si entra per invito per chiacchierate da twittare al proprio “pubblico”, come fosse una notizia. Clubhouse con la sua privacy policy all’acqua di rose sarà il nuovo incubo dei Garanti Privacy, quando se ne accorgeranno. Per questo è da accogliere con sollievo la decisione del Garante per le comunicazioni, Agcom, che ha avviato una mappatura di tutti i servizi attualmente offerti sulle piattaforme online facendone emergere, accanto ai vantaggi individuali e collettivi, anche i rischi e le problematiche: dai comportamenti illeciti che mettono in pericolo le piccole e medie imprese, all’hate speech e più in generale alle violazioni dei diritti fondamentali “capaci di compromettere l’integrità dei processi democratici, l’autonomia decisionale degli individui, la tenuta del tessuto sociale, il pluralismo informativo e la tutela dei minori”. L’Ungheria spegne l’ultima radio libera. E la Polonia tassa i media di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 11 febbraio 2021 I governi nazionalisti stringono la presa da Varsavia a Budapest, dove da anni il pluralismo dell’informazione è sotto scacco. Durante la Guerra fredda a nessuno sfuggiva la potenza di fuoco delle onde corte e le voci dell’Occidente libero sorvolavano la Cortina di ferro su frequenze puntualmente disturbate dai sovietici. Poi venne il 1989, i regimi si sbriciolarono e nel Centro-Est Europa l’onda democratica generò forze liberali e nuove radio. A Budapest il giovane Viktor Orbán si fece strada nel partito anti-comunista Fidesz, accanto a giovani entusiasti che anni dopo avrebbero fondato Klubrádió, una Radio Radicale magiara che sul canale 92,9 ancora ospita accesi dibattiti critici del governo. Oggi Orbán è il premier che ha fatto della democrazia illiberale una bandiera, e domenica 14 febbraio a mezzanotte Klubrádió, ultima voce libera d’Ungheria, spegnerà i microfoni. I giudici hanno respinto il ricorso dell’emittente contro la decisione dell’Autorità nazionale dei Media, che lo scorso settembre ha bloccato il rinnovo della licenza. Il potente Consiglio, fondato nel 2010 (l’anno della prima elezione di Orbán) e composto da 5 membri di nomina parlamentare, nel 2013 aveva già revocato alla radio il permesso di trasmettere fuori dalla capitale. Ora lo stop, per un ritardo amministrativo. Klubrádió trasloca online, chiede una nuova frequenza, si rivolge alla Corte Suprema. La Commissione Ue contatta le autorità “per accertare il pieno rispetto delle norme comunitarie e consentire alla radio di continuare a lavorare”. Ma da anni in Ungheria il pluralismo dell’informazione è sotto scacco, progressivamente eroso dalle leggi sui media del 2010, da passaggi di proprietà e accorpamenti editoriali. Nel 2018 cinquecento tra giornali e stazioni radio-televisive che coprono circa il 40% dei ricavi dei media nazionali sono stati trasferiti a un maxi conglomerato controllato dal governo. Lo Stato è il primo inserzionista, in un panorama dove la concorrenza è azzerata e chi investe in pubblicità dribbla i pochi organi di stampa liberali rimasti, per evitare ritorsioni. “Spegnendo Klubrádió l’egemonia delle emittenti filo-governative arriverà al 100% - avverte l’Associazione nazionale dei giornalisti. Un fatto senza precedenti in Europa”. Sui 180 Paesi dell’International Press Freedom Index nel 2020 l’Ungheria si piazzava all’89esimo posto. Nel 2006 era al sesto. Stesso vento in Polonia, dove giornali ed emittenti sono in agitazione contro una nuova “tassa di solidarietà” proposta dal governo nazional-conservatore per sostenere le finanze pubbliche al tempo dell’emergenza pandemica e, nelle parole del premier Mateusz Morawiecki, per costringere i giganti tech come Google, Apple, Facebook ed Amazon a fare la loro parte. Il sito del quotidiano Gazeta Wyborcza si vela di nero, come TVN24 ed altri canali tv che al pubblico lasciano poche parole: “I vostri programmi dovevano andare in onda qui”. Stati Uniti. Basta muri, via agli aiuti il piano Biden per i migranti di Francesco Semprini La Stampa, 11 febbraio 2021 La Casa Bianca pronta a stanziare 4 miliardi per sostenere Guatemala, El Salvador e Honduras. La strategia dovrebbe diminuire gli arrivi dall’America latina e stroncare gli affari dei trafficanti. Un piano Marshall da quattro miliardi di dollari per l’America centrale col quale contrastare alla fonte il problema dei migranti economici. E questa la strategia con la quale l’amministrazione di Joe Biden punta a fermare i flussi in entrata dal confine meridionale smantellando al contempo la rigida architettura della tolleranza zero messa in piedi da Donald Trump. Già con i primi tre decreti esecutivi il 46° presidente degli Stati Uniti ha dato seguito alle promesse fatte in campagna elettorale modulando politiche più morbide sul tema. Biden ha fatto ammenda per la politica di separazione delle famiglie adottata da Trump istituendo una task force dedicata a riunire 545 bambini ai loro genitori. Ha inoltre ordinato una revisione della regola che limitava le opportunità di entrata nel Paese a coloro che avrebbero dovuto fare affidamento sull’assistenza del governo. “Non stiamo solo cancellando le politiche di Trump, ma stiamo andando oltre a ciò che già aveva realizzato l’amministrazione Obama”, spiega Thomas Saenz, presidente del Fondo per la difesa legale e l’educazione messicana in America. La nuova strategia Biden pone infatti un focus particolare sul “Triangolo del Nord”, ovvero Guatemala, Honduras ed El Salvador, i Paesi più a settentrione dell’America centrale, considerate il serbatoio dei flussi in arrivo dal Sud. È stata pertanto ribattezzata strategia delle “radici profonde” ad intendere come il nodo immigrazione debba essere risolto andando ad agire laddove sorgono i problemi. Una versione della tanto contestata formula “aiutiamoli a casa loro” declinata in maniera meno ruvida. I quattro miliardi di dollari che l’amministrazione Biden è pronta a stanziare saranno impiegati su tre direttrici rafforzare la democrazia, combattere la violenza delle gang che rappresenta una drammatica piaga con appendici negli stessi Usa. Infine, rilanciare le economie locali attraverso alleanze strategiche tra le piccole e medie imprese e le aziende grandi dimensioni. Un modello che ha evocato il precedente dell’Alliance for Progress, il programma di assistenza per l’America Latina, lanciato nel 1961 dal presidente John F. Kennedy. Il progetto ambisce ad avere un approccio di lungo termine più realistico e più conveniente rispetto alle recenti misure di sicurezza dei confini. “Avviare un piano Marshall per l’America centrale è più economico che costruire un muro o assumere funzionari dell’immigrazione. Può fornire posti di lavoro e sicurezza in America centrale chiudendo i rubinetti per i rifugiati che arrivano negli Stati Uniti”, sostiene Domingo Garcia, presidente della League of United Latin American Citizens. Il tema è stato oggetto di conversazione nella prima telefonata da presidente di Biden col collega messicano, Andrés Manuel López Obrador, il quale è stato rassicurato sui migranti in transito rimasti bloccati al di là del confine per l’inasprimento delle politiche trumpiane. Biden, assieme al congelamento del muro, ha sospeso infatti il contestato programma per il quale più di 60 mila richiedenti asilo sono stati rispediti in Messico in attesa del loro processo. Nella speranza di raccogliere i frutti del suo piano Marshall già dal prossimo anno, Biden deve però fare i conti con alcuni problemi di brevissimo termine. Il primo dei quali è rappresentato dalle masse che si stanno avvicinando agli Usa incentivati dall’allentamento dei controlli, fenomeno strettamente connesso al rischio pandemia. A questi si aggiungono le nuove rotte marittime, barchini e barconi che tentato lo sbarco in California per aggirare gli impedimenti di confine col rischio di ecatombi nel Pacifico. C’è infine il problema dei proprietari di confine, i quali hanno visto i propri terreni confiscati da Trump per realizzarvi il muro, ed ora col suo congelamento non solo non ne sono tornati in possesso ma non vedono nemmeno gli indennizzi promessi per gli espropri, formando così una sorta di girone di frontiera di coloro che sono sospesi. Arabia Saudita. Loujain Al Hathloul, l’attivista scarcerata dopo 1.001 giorni di Viviana Mazza Corriere della Sera, 11 febbraio 2021 Svolta legata alle pressioni di Biden. Condannata per reati di terrorismo non potrà viaggiare per 5 anni. Aveva denunciato abusi e torture. “Loujain è a casa!” “A casa dopo 1.001 giorni di prigione”. La sorella Lina, che vive a Bruxelles, dà la notizia via Twitter, pubblicando la foto della sua faccia felice. Ora si trova a casa dei genitori in Arabia Saudita. Ciocche di capelli bianchi le striano la lunga chioma nera. Loujain Al Hathloul, 31 anni, sorride dopo 1.001 giorni “di isolamento, scioperi della fame, torture e aggressioni sessuali”. A dicembre era stata condannata a cinque anni e otto mesi di carcere per reati di terrorismo, ma l’esecuzione di parte della sentenza era stata sospesa. Il suo rilascio era dunque atteso ed è visto come il risultato della vittoria di Joe Biden a Washington. Il nuovo presidente ha promesso di “riesaminare” il rapporto con i sauditi lamentando che dar loro carta bianca, come ha fatto Trump, ha portato a “politiche disastrose”. Sono passati sei anni dal giorno d’inverno in cui la venticinquenne saudita Loujain Al-Hathloul, studi in Canada, laurea in letteratura francese, si coprì i capelli neri con il velo, infilò gli occhiali da sole e, dopo aver annunciato le sue intenzioni ai 228.000 follower su Twitter, si mise al volante partendo da Abu Dhabi con una regolare patente ottenuta negli Emirati. La sua missione: entrare in Arabia Saudita guidando l’auto, per chiedere di concedere finalmente questo diritto alle donne. Al Hathloul passò 73 giorni in detenzione, un’esperienza che aumentò la sua determinazione di attivista femminista. Ma quel che ha fatto più scalpore è stato che sia di nuovo finita in manette nel 2018 mentre il potente principe Mohammad Bin Salman, suo coetaneo, concedeva finalmente la guida dell’auto alle donne. Avvenne alcuni mesi prima dell’assassinio di Jamal Khashoggi, e fu uno dei primi segnali evidenti del doppio volto della nuova Arabia: riforme sociali da una parte, repressione di ogni dissenso dall’altra. Nel 2018 Al Hathloul aveva parlato a Ginevra davanti alla Commissione per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne. A marzo l’hanno arrestata negli Emirati: “Bendata, costretta a salire su un aereo e portata in Arabia Saudita - ci raccontò la sorella Lina - un rapimento”. Loujain e altre due attiviste hanno denunciato d’essere state torturate con scariche elettriche, “waterboarding”, molestate e minacciate di stupro da uomini che le interrogavano a volto coperto. Nel 2019 le avevano proposto di rimangiarsi quelle accuse in cambio del rilascio, ma ha rifiutato. Un ambasciatore europeo ha detto al Guardian che il caso era chiuso già da un anno ma i suoi avvocati non erano pronti a firmare un accordo in cui si impegnava al silenzio. Fino all’ultimo la corte ha negato le torture. Altri 16 attivisti (quasi tutte donne) furono arrestati con lei con l’accusa di minare la stabilità del Regno con l’assistenza economica di entità straniere. Diversi di loro sono stati rilasciati, ma restano sotto sorveglianza: vietato usare i social e rilasciare interviste. Lei non potrà viaggiare per 5 anni. Per questo la famiglia sottolinea che “non è libera”.