La Cassazione ribadisce il no alla custodia cautelare in carcere per i reati entro i tre anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 febbraio 2021 Per la Cassazione la custodia cautelare in carcere va sostituita da misura meno afflittiva non solo in fase applicativa, ma anche nell’esecuzione. La Cassazione, disponendo l’immediata scarcerazione di un detenuto immigrato accusato di piccoli reati, ha evidenziato che la custodia cautelare in carcere va sostituita da misura meno afflittiva non solo in fase applicativa, quando il giudice prognostica come infratriennale la futura condanna, ma anche quando durante l’esecuzione intervenga condanna - anche non definitiva - inferiore a tre anni. Parliamo della sentenza n. 4948 del 2021, relativa al ricorso del detenuto contro l’ordinanza del 10 ottobre scorso del tribunale del riesame de L’Aquila. Questa ordinanza ha confermato quella del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Chieti che aveva applicato al ragazzo la misura della custodia cautelare in carcere per più episodi di tentato furto aggravato di autovetture. La Cassazione ha posto rimedio alle diverse interpretazioni dovute alla lacuna normativa - Com’è detto, il ricorso non solo è dichiarato fondato, ma per l’effetto, l’ordinanza impugnata viene annullata senza rinvio quanto all’applicazione della custodia cautelare in carcere, con conseguente scarcerazione del ricorrente se non detenuto in carcere per altra causa e collocazione del medesimo agli arresti domiciliari. La Cassazione, quindi, ha posto rimedio alle diverse interpretazioni dovute alla lacuna normativa che espressamente esclude - per le esigenze cautelari - l’applicazione della misura maggiormente afflittiva del carcere solo nella fase applicativa, cioè quando la prognosi del giudice sulla futura condanna si assesti entro i tre anni. La vicenda prende le mosse da due errori dei giudici di merito in questo caso. Il primo l’assenza di tale giudizio prognostico che non può assolutamente mai mancare al fine di applicare o escludere la misura cautelare. Il secondo la non presa in considerazione dell’intervenuta condanna, non superiore a tre anni, per quanto non definitiva. Spiega, infatti, la Cassazione che se è vero che il comma 2 bis dell’articolo 275 del Codice penale prescrive esplicitamente tale obbligo prognostico da parte del giudice solo al momento di decidere, ciò non azzera la previsione dell’articolo 299 dello stesso Codice, che impone al giudice di valutare adeguatezza e proporzionalità delle misure restrittive della libertà personale, anche nelle fasi successive all’irrogazione. Quindi anche nella seconda fase, cioè dopo l’applicazione, che la Cassazione definisce “dinamica”, si impone appunto di provvedere a sostituire con misura meno afflittiva del carcere il rispetto delle esigenze cautelari, nel caso in cui sia intervenuta condanna inferiore a tre anni anche se non ancora definitiva. Quindi si rafforza un importante principio. Ovvero che il carcere va sostituito con misure cautelari meno afflittive per condanne inferiori ai tre anni. Carceri femminili in Italia: tra stereotipi e discriminazioni di Evelyn Novello donnemagazine.it, 10 febbraio 2021 Le donne in carcere sono il 4% della totalità dei detenuti: tra stereotipi e discriminazioni, cosa subiscono le detenute italiane? Il parlare di carceri femminili porta con sé l’esigenza di affrontare svariati temi collegati. I bambini, ad esempio, che devono crescere o senza la figura materna o anch’essi dietro le sbarre. Senza dimenticare poi gli abusi, le violenze e il sessismo che le detenute devono sopportare ogni giorno. Iniziamo con qualche dato. Secondo i dati forniti dall’Associazione Antigone, che si occupa di tutela dei diritti nel sistema penale, nel 2018 su un totale di 58.163 detenuti presenti nelle carceri italiane, le donne erano 2402, circa il 4,12%. I numeri sono stabili dagli anni 90, con piccoli oscillamenti che vanno da un massimo del 5,43% nel 1992 a un minimo del 3,83% nel 1998. Sostanzialmente i reati per cui sono detenute le donne sono soprattutto quelli contro il patrimonio, contro la persona e riguardo al traffico di stupefacenti, a seguire ci sono poi i reati contro l’amministrazione della giustizia e pubblica amministrazione. Per quanto concerne invece il grado di giudizio, sempre secondo i dati del 2018, sulla totalità dei detenuti, il 34% del totale non ha mai ricevuto una condanna definitiva e questa percentuale cresce se guardiamo i dati riferiti alle donne straniere: su 904 donne straniere in carcere, 381 sono solo imputate, circa il 42,14%. Ma le disparità nell’utilizzo della custodia cautelare non sono le uniche rilevabili. Le norme sull’ordinamento penitenziario recano pochissime disposizioni sulla detenzione femminile, forse perché numericamente le donne sono sempre state una minoranza. Gli istituti di esclusiva detenzione femminile in Italia sono appena cinque: Empoli, Pozzuoli, Roma “Rebibbia”, Trani, Venezia “Giudecca”, invece, nel resto d’Italia, la loro detenzione è affidata a reparti ad hoc, 52 in tutto, all’interno di carceri maschili. Nelle carceri esclusivamente femminili, chiaramente, alle donne sono riservate condizioni di vita più attente alle loro esigenze, ma, anche in questi casi, si sono presentate problematiche relative al sovraffollamento, alla carenza del personale e alla mancanza di mediatori culturali per le straniere. Nei reparti femminili degli altri istituti carcerari però, la situazione si complica, in particolar modo per le donne con figli. Secondo i dati forniti dalla sezione statistica del Dap, al 2014 erano presenti negli istituti penitenziari italiani in tutto 58 madri con 70 bambini, quasi equamente distribuite tra italiane (27 con 34 figli al seguito) e straniere (31 con 36 figli). La legge 62 del 2011 ha creato strutture concepite proprio per ospitare le detenute con i loro figli, per offrire loro una condizione di vita più “normale”, così che anche i piccoli non soffrissero né la separazione dalla mamma né la detenzione di un carcere. Il primo Icam, Istituti a Custodia Attenuata per Madri, era stato costruito in via sperimentale nel 2007 a Milano e altri Icam sono stati recentemente aperti a Venezia e a Torino, ma il loro numero, così come quello degli asili nido all’interno delle sezioni femminili, è ancora altamente insufficiente. Permangono, inoltre, problematiche tutte femminili nelle carceri italiane come quella che riguarda l’igiene. Soprattutto nel periodo delle mestruazioni le donne hanno una maggiore necessità di pulizia personale ma molte carceri non offrono neppure il bidet alle detenute e, spesso, nemmeno la possibilità di una doccia calda. A questo proposito va poi detto che l’amenorrea, ovvero l’assenza di mestruo, è uno dei primi sintomi delle detenute. A queste difficoltà pratiche si aggiungono, come spesso accade quando si parla di donne, problemi culturali legati a stereotipi diffusi da tempo. Vige ancora l’associazione della donna detenuta a quella di una prostituta, di una cattiva madre e moglie che deve restare in carcere per essere “rieducata” ai ruoli legati alla famiglia. Stupri e violenze sessuali poi non mancano, sia in Italia che nel resto del mondo. Metà delle detenute americane avrebbe dichiarato di esser stata abusata sessualmente e nel 2019 Amnesty International ha denunciato casi di stupri su donne e minori da parte di agenti di sicurezza e altri detenuti nelle strutture penitenziarie di alta sicurezza nello stato del Borno, in Nigeria. Questo nonostante le norme minime standard dell’Onu per il trattamento dei detenuti adottate nel 1955 stabiliscano che uomini e donne debbano essere tenuti separati e che il personale delle carceri femminili non possa essere maschile. Non vede i figli da 12 anni, ha ottenuto l’estradizione in Spagna: ma è tutto fermo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 febbraio 2021 È il caso, sollevato dall’associazione Yairaha Onlus, di un italiano con residenza in Spagna che ha presentato la richiesta di estradizione nel 2008. Un detenuto italiano, M.A., ha chiesto l’estradizione in Spagna, dove ha la residenza, soprattutto perché ha due figli che non lo vedono da 12 anni. Dopo un lungo iter burocratico, nel 2018 la sua richiesta è stata finalmente accolta, ma è tuttora ristretto nel carcere di Nuoro. Le autorità spagnole ancora non hanno dato esecuzione all’estradizione. Il caso è sollevato dall’ associazione Yairaha Onlus che ha sollecitato lo stesso ministero della Giustizia spagnolo e, per conoscenza, al nostro Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Yairaha si rivolge al ministero spagnolo perché contattati dai familiari di M.A. residente in Spagna in merito alla richiesta di estradizione proposta già nel 2008. Con nota del 6 aprile 2009, le autorità del Regno di Spagna hanno chiesto all’interessato di riproporre la richiesta di trasferimento non appena le sentenze sarebbero diventate definitive L’accoglimento dell’istanza è stato notificato a maggio del 2020 - Le sentenze sono divenute definitive nel 2018 e l’istanza di estradizione è stata accolta: con nota notificata all’interessato il 18/5/2020 la Procura generale presso la Corte d’Appello di Napoli ha comunicato l’accoglimento della stessa previo invio delle diverse sentenze definitive di condanna da eseguirsi presso il Regno di Spagna in conformità alla decisione quadro 2008/909/Gai del Consiglio d’Europa del 27 novembre 2008. A fine settembre del 2020 la dottoressa Mozzetta, responsabile dell’ufficio ministeriale, ha completato l’invio della documentazione necessaria al ministero de Justicia per accogliere M.A. nelle proprie strutture penitenziarie per l’esecuzione della pena. Ad oggi, però, non ha ancora ricevuto nessuna comunicazione in merito all’estradizione né è stato dato seguito a quanto stabilito dalle autorità competenti. Il sistema carcerario spagnolo è migliore del nostro - “Si rammenta - sottolinea l’associazione Yairaha - che il detenuto è padre di due ragazzi che vivono nel Regno di Spagna e che gli stessi non vedono il proprio genitore da ben 12 anni”. Per questo invita le autorità a voler intervenire al più presto affinché i diritti di A.M. e dei suoi figli siano tutelati. Sicuramente, a differenza di altri Paesi, la Spagna non ha problemi riguardante lo stato di diritto. Anzi, il sistema penitenziario è migliore del nostro. Com’è noto, l’ordinamento carcerario spagnolo si ispira sostanzialmente alla legge italiana n. 354/75 (la riforma penitenziaria) ma con delle modifiche sostanziali che hanno reso il carcere più vivibile con minori problemi di sorveglianza e di gestione. Innanzitutto gli spagnoli hanno pensato, coerentemente, che se la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, la custodia deve essere affidata a persone dotate di cultura del diritto. In Spagna nelle carceri più recenti la vigilanza di 2 sezioni (moduli), pari a 240/250 persone, viene assicurata da tre agenti e quattro nelle carceri più vecchie, considerando che i detenuti sono fuori dalle celle e che tutti i pasti vengono serviti in refettorio. In Spagna esistono per i detenuti tre tipi di colloquio - In Spagna sono vigenti tre tipi di colloquio: normale, familiare e intimo. In Italia questo non è purtroppo ancora pensabile a causa si resistenze culturali e mancanza di spazi. In Spagna, oltre al colloquio normale, si può effettuare un colloquio familiare in una stanza per 4 ore e un colloquio intimo per rapporti sessuali in una stanza da letto. Questo avviene malgrado il problema del sovraffollamento sia presente anche in Spagna, dove una cella progettata per una persona viene occupata da due. Inoltre, tutte le celle sono dotate di doccia con acqua calda. In Spagna si è autorizzati a fare 5 telefonate alla settimana, senza limiti di tempo ad un massimo di 10 numeri telefonici preventivamente autorizzati dalla Direzione. Si telefona da 2 cabine telefoniche presso ogni sezione, previa digitazione del numero di identificazione (Nis) che automaticamente dà il via libera verso i numeri di telefono autorizzati e con una scheda telefonica acquistata al negozio del sopravvitto. In Spagna le figure istituzionali sono presenti tutti i giorni nella sezione e sono disponibili senza bisogno di domandine o richieste: è sufficiente prenotarsi dal funzionario tutti i giorni alle ore 18.00. In Italia, inutile dirlo, anche la prenotazione di visita medica presso il Sanitario del carcere può diventare un problema. Ritornando al caso sollevato dall’associazione Yairaha, forse è un bene che il detenuto vada nelle carceri spagnole, sicuramente l’esecuzione penale tenderà alla rieducazione più della nostra. Milleproroghe, la mina prescrizione. Sui processi confronto con le Camere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2021 Che sia tecnico o politico di certo il prossimo ministro della Giustizia dovrà sminare da subito il cammino del nuovo Governo sulla strada tradizionalmente impervia della prescrizione. Perché il “tema dei temi” che già ha contribuito ad accentuare le divisioni nella vecchia maggioranza è senza dubbio tra i più divisivi anche nella nuova e dalla prossima settimana tornerà con prepotenza di attualità. Al decreto legge Milleproroghe, infatti, in discussione davanti alla commissione Affari costituzionali della Camera, è stata presentata una serie di emendamenti di varia provenienza (Azione, Italia Viva, Forza Italia), tutti accomunati dal contenuto, il congelamento almeno per un anno della riforma Bonafede, in attesa di arrivare all’approvazione di un pacchetto significativo di misure per accelerare il processo penale. Questione incandescente, dalla quale è prevedibile che il nuovo premier vorrà stare alla larga, ma che in qualche modo andrà affrontata. Anche perché, di fronte alla già pervenute prime sollecitazioni, soprattutto da fonte Pd, per una pausa di riflessione, con il ritiro degli emendamenti, la risposta è stata negativa. Sulla prescrizione, infatti, come ha spiegato ieri uno dei proponenti, Enrico Costa (Azione) è piuttosto il Pd a dover cambiare opinione, prendendo atto del fatto che ormai nella nuova coalizione che sosterrà Draghi “a pensarla come me sulla prescrizione ci sono Salvini, Berlusconi e Renzi”. Impossibile però che i 5Stelle, già alle prese con un quantomeno problematico assenso al nuovo Esecutivo, possano digerire l’immediata sospensione di una delle riforme più identitarie, insieme con il reddito di cittadinanza, di questa legislatura. Da vedere come si muoverà il nuovo ministro, se avrà cioè statura e capacità per non sottrarsi a un confronto, ancora più complicato perché alla Camera in commissione Giustizia è ormai arrivata l’ora per l’esame degli emendamenti al disegno di legge delega sul processo penale, dopo una lunga serie di audizioni. Testo nel quale è stato collocato anche il compromesso più avanzato trovato dalla vecchia maggioranza sulla prescrizione, centrato sulla distinzione tra assolti e condannati in primo grado. Alla nuova amministrazione il compito di valutare se e come portare avanti un intervento di riforma che già di padre incerto in precedenza (lo stesso relatore, Franco Vazio, Pd, aveva preannunciato importanti aggiustamenti) ora rischia di non averne più nessuno. Un po’ come potrebbe avvenire sull’altro fronte, altrettanto delicato seppure meno appetibile mediaticamente, del processo civile, dove, al Senato, la discussione langue da mesi ormai e in calendario c’è solo l’avvio della discussione generale. Le larghe intese sulla giustizia sono un assist per la crescita Alfredo Bazoli* Il Foglio, 10 febbraio 2021 La giustizia rappresenta un banco di prova decisivo per il nuovo governo: l’unione europea valuterà le misure del Recovery Plan anche alla luce delle riforme di sistema, tra cui quella della giustizia che rappresenta da sempre, per le istituzioni europee, una priorità. E se ne comprende bene il motivo, dal momento che in tutte le statistiche internazionali la giustizia italiana brilla per essere una lumaca, con un prezzo alto pagato sul fronte della crescita della nostra economia e della fiducia nel nostro paese. In Italia però si fatica ad affrontare in modo serio il tema, per obiettivi concreti e perseguibili, anche per il fatto che da quasi trent’anni a questa parte la giustizia è diventato un terreno di scontro politico che ha impedito, salvo rari casi, di individuare soluzioni di riforma condivise. Un governo di emergenza a base politica larga e di profilo istituzionale può rappresentare una occasione per abbassare le tensioni, sminare il terreno dalle strumentalizzazioni politiche, restituire dignità a termini come “garantismo”, usato da tempo come randello da dare in testa agli avversari politici. Non siamo all’anno zero, non tutte le scelte in questi anni sono state sbagliate. La giustizia civile ha fatto grandi progressi, con l’introduzione del processo civile telematico e lo smaltimento di un enorme mole di arretrato, il debito pubblico della giustizia che grava sui tempi di definizione delle controversie, calato in dieci anni da quasi 6 milioni a poco più di 3 milioni di pendenze. A partire dalle scelte di Orlando si è riaperta una politica di assunzioni di giudici e personale amministrativo che sta cominciando a dare i primi frutti, con l’immissione di nuove risorse indispensabili per garantire agli uffici di funzionare a ranghi completi e non ridotti all’osso, e che produrrà buoni effetti a medio termine. Tutto questo non basta, i tempi dei processi si riducono in modo discontinuo, vi sono ancora differenze spesso ingiustificabili tra le performance degli uffici giudiziari. Ora occorre accelerare. Nel piano presentato dal governo Conte alle Camere c’è già una traccia interessante su cui lavorare, l’impiego di oltre 2 miliardi di Euro per rafforzare gli uffici e aiutarli a smaltire entro il 2026 l’intero arretrato che pesa come un macigno sui tempi dei processi. Ma l’orizzonte della legislatura, e il diverso clima che il nuovo governo può favorire, ci consente anche di lavorare ad altri temi rilevanti che possono aiutare a completare un positivo quadro di riforme. Anche qui, provando a ripartire dal lungo lavoro svolto in questi mesi alle camere sui disegni di legge di iniziativa governativa, che offrono una base di partenza su cui lavorare nel modo più possibile condiviso. Penso alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, alla riforma del processo civile, ma anche alla riforma del processo penale, su cui si registrano larghe convergenze quanto a obiettivi e criteri ispiratori, ancorché vi siano divergenze sulle soluzioni tecniche per conseguirli. Dentro questo quadro, io penso possano trovare soluzione anche i temi che più di altri sono diventati oggetto di battaglia politica, a partire dalla questione della prescrizione, che come noto anche il Pd ha considerato definita in modo non soddisfacente e compiuto nella riforma Bonafede, ma che può trovare una sua più puntuale e convincente disciplina in una riforma complessiva del processo. In definitiva, proprio sulla capacità di trovare intese larghe per realizzare efficaci riforme nel campo della giustizia, abbandonando bandiere ideologiche e forzature, si misurerà la reale volontà delle forze politiche nel concorrere al successo del nuovo governo. Il Pd certamente lavorerà in quella direzione. *Deputato del Pd La prescrizione non piace all’Ue di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2021 Avviso ai neo-europeisti. Molti di coloro che vorrebbero il ritorno alla prescrizione che continua a decorrere anche dopo una condanna in primo grado si dichiarano europeisti, ma evidentemente ignorano la ben diversa posizione dell’Unione europea sulla questione. La Corte di giustizia dell’Unione europea (grande sezione), con sentenza 8 settembre 2015, aveva ritenuto che la previgente prescrizione italiana fosse in contrasto con l’art. 325 del ‘Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue). La normativa italiana prevede un termine di prescrizione il cui decorso può essere interrotto dal compimento di determinati atti processuali. Dopo l’interruzione il termine ricomincia a decorrere, ma complessivamente non può superare un quarto del termine massimo. Ad esempio, se un reato è punito con una pena non inferiore a sei anni di reclusione, la prescrizione è di sei anni che decorrono dalla commissione del reato. Se viene compiuto un atto interruttivo (ad esempio l’interrogatorio dell’imputato) i sei anni ricominciano a decorrere da tale ultimo anno, ma il termine complessivo non può superare sette anni e sei mesi. La Corte di giustizia Ue aveva deciso che un sistema simile pregiudicava la possibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea come in materia di imposta sul valore aggiunto (Iva). Di conseguenza con la sentenza citata (chiamata Taricco) la Corte Ue aveva stabilito che i giudici nazionali dovessero disapplicare la normativa nazionale nella parte in cui poneva un limite di un quarto alla proroga del termine di prescrizione. In alcuni casi i giudici nazionali disapplicarono tale limite, condannando anche quando, in applicazione del limite di cui all’art. 160 e 161 del codice penale, era maturata la prescrizione. Altri giudici si posero il problema che la disapplicazione loro demandata dalla Corte Ue strideva con alcuni vincoli costituzionali (divieto di retroattività di norme sfavorevoli in materia penale, riserva di legge nella stessa materia, indeterminatezza del concetto di gravi frodi) e sollevarono questioni di legittimità costituzionale. La Corte costituzionale con ordinanza n. 24 del 2017 sollevò questione di pregiudizialità comunitaria innanzi alla Corte di giustizia Ue segnalando la possibilità di contro limiti quali la prevedibilità delle decisioni, la non retroattività e la natura sostanziale (e non processuale) della prescrizione italiana, la riserva di legge. La Corte Ue (Grande sezione) con sentenza 5 dicembre 2017 ribadiva il contenuto della sentenza Taricco (punti 29-39), ma rilevava che - sino all’adozione della direttiva (Ue) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio - il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di Iva non era oggetto di armonizzazione da parte del legislatore Ue (punto 44), conia conseguenza che la Repubblica italiana era libera, “a tale data”, di assoggettare il regime della prescrizione “al principio di legalità dei reati e delle pene” (punto 45). Affermava poi che “il principio di legalità dei reati e delle pene, nei suoi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile”, riflette le “tradizioni comuni agli Stati membri” e ha identica portata rispetto al corrispondente diritto garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (punti 51-55). Spetta perciò al giudice nazionale il compito di verificare se il riferimento operato nella sentenza Taricco (punto 58) a “un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile”. Ove incertezza fosse rilevata dal giudice nazionale, essa “contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile”, con la conseguenza che “il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare le disposizioni del codice penale in questione” (punto 59). In ogni caso il divieto di retroattività vigente in materia penale impone di escludere che possano essere disapplicate le norme sul regime di prescrizione “interno” per i fatti commessi prima della pronuncia Taricco; altrimenti, gli accusati potrebbero essere “retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato” (punto 60). Detto questo l’ordinanza di rinvio della Corte costituzionale richiamava la responsabilità del legislatore e la Corte di giustizia ha stabilito che “spetta, in prima battuta, al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’articolo 325 Tfue”. Questo significa che il ritorno puro e semplice al precedente sistema di prescrizione, invocato da alcune forze politiche anche in occasione della recente crisi di governo, porterebbe all’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia per violazione di tali obblighi. Nordio: “Via la legge Severino e i reati di abuso d’ufficio. Così usciremo dalla crisi” di Simona Musco Il Dubbio, 10 febbraio 2021 La ricetta per la giustizia secondo Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia. Prendere spunto dal codice di procedura civile tedesco. Sburocratizzare i concorsi e ridurre il potere dei Tar. E poi eliminare i reati di abuso d’ufficio e legge Severino. È questa, secondo Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia, la ricetta per la giustizia. Un compito attualmente in mano al presidente incaricato Mario Draghi, che si trova ora a dover scegliere la sua squadra. Ma per Nordio, come spiega al Dubbio, non è importante il nome: l’importante è che il Parlamento agisca per trovare le soluzioni, un compito non difficile se si punta sui temi fondamentali per risollevare l’economia, tralasciando, per il momento, i temi divisivi. Procuratore, qual è la ricetta per la giustizia? Data la situazione di emergenza, oggi dobbiamo affrontare quelle che sono le urgenze che ci affliggono, la salute e soprattutto l’economia. Ho avuto l’onore di partecipare al coordinamento, per alcuni anni, dello studio dell’Ambrosetti House sui danni che provoca in Italia la lentezza della nostra giustizia civile. E la conclusione è che nessuno investe tranquillamente in un Paese dove vige una incertezza assoluta sulla esecuzione dei contratti e sull’adempimento delle obbligazioni e dove, in caso di contestazione, i processi durano mediamente il doppio o il triplo di quanto durino per il resto dei Paesi europei. Monetizzando concretamente questa lentezza, la stessa impatta negativamente all’incirca per due punti di Pil, una cifra enorme. Da cosa dipende? Sfatiamo intanto le fake news, come quella che i magistrati sono pochi: in realtà, mettendo insieme togati e onorari, ne mancano molti, ma non abbastanza da giustificare la lentezza della giustizia. E non è vero nemmeno che i magistrati lavorino poco: il nostro studio ha dimostrato che la produttività dei magistrati italiani è la più alta in tutta Europa. È vero, invece, che vi è una assoluta carenza di personale amministrativo: abbiamo ruoli che sono vecchi di 20 anni, coperti circa al 60- 70 per cento. Poiché un’ora di lavoro di un magistrato è come un’ora di volo di un pilota di guerra, che necessita di ore e ore di manutenzione del velivolo, un magistrato deve avere attorno a sé tutta una serie di attività collaterali per produrre che mancano. La seconda ragione è la complessità delle procedure. La modifica del codice di procedura civile ha portato a una normativa estremamente farraginosa, complessa, bizantina e quindi lenta. Hanno provato a rimediare con l’introduzione della telematica, a razionalizzare in modo manageriale la conduzione di alcuni uffici e ciò ha fatto alzare la produttività, ma siamo ancora un fanalino di coda per la complessità delle procedure. Quale può essere la terapia? Basterebbe riempire gli organici e magari aumentarli. Ma soprattutto vanno sburocratizzati i concorsi. Se per assumere un magistrato passano cinque anni dal momento del concorso, per assumere un cancelliere ne passano non molti di meno. Quindi servono percorsi molto meno burocratici e soprattutto regionali, per evitare poi la diaspora dei ricongiungimenti familiari. In meno di un anno avremmo grandissimi benefici, dando un segnale all’Italia e all’Europa di aver intrapreso una via virtuosa. E se la intraprendessimo, nell’arco di tre- quattro anni potremmo allinearci ai Paesi più rapidi. Come si può, invece, semplificare la procedura civile? Basta copiare il codice tedesco, che è molto più efficace, snello e duttile e i processi durano meno della metà che non da noi. Del codice tedesco mi sono piaciute soprattutto molte possibilità di riti alternativi, che da noi non ci sono, e poi la duttilità che hanno i giudici nel fissare le udienze a breve in modo orale, tralasciando la forma scritta, e grandi possibilità di conciliazione. In questo i tedeschi si sono dimostrati molto più organizzati, pragmatici e fantasiosi di noi. Una buona fetta della giustizia civile è amministrata dai giudici onorari. Si può intervenire anche qui? I Got vengono pagati a cottimo, causa per causa, senza garanzie, una situazione indegna, che andrebbe risolta. Il Cnf, per deflazionare la giustizia civile, ha proposto al governo di aumentare i sistemi alternativi della volontaria giurisdizione. Può essere una strada? L’idea è buona, ma noi abbiamo la capacità di complicare tutto e basti l’esempio, anche se nel penale, del rito abbreviato. È vero che dobbiamo affidarci a tutti i riti alternativi e alle forme di conciliazione, per esempio, o di giurisdizione volontaria, purché lo facciamo in modo molto pragmatico e quindi in modo molto rapido. Passando al penale, attualmente sembra fuori agenda... Il penale, da un punto di vista politico- filosofico, è sicuramente più importante, perché influisce sulla libertà e l’onore dei cittadini. E la situazione, attualmente, è catastrofica, molto peggio che nel civile. Il codice Vassalli è stato sfasciato, nessuno capisce più cosa sia e va rifatto da cima a fondo. C’è tutta una serie di abusi e di violazioni dei diritti individuali. Penso ad esempio al metodo di intercettazione, un vero abominio, alla custodia cautelare, che molto spesso viene abusata, e all’uso strumentale dell’informazione di garanzia o a riforme ancora più grandi, come la separazione delle carriere e la discrezionalità dell’azione penale che presumono, però, una riforma globale del codice e addirittura della Costituzione. Però ci vuole tempo e in questo momento il tempo non c’è. E quindi cosa fare? La parte penale che ha, in questo momento, maggiore incidenza sulla stasi della nostra economia e che può essere in pochissimo tempo modificata è quella relativa all’abuso d’ufficio e al traffico di influenze. Soprattutto l’abuso di ufficio, perché non c’è amministratore che non abbia paura di incappare, un domani, in una denuncia. I tempi si triplicano, nel migliore dei casi: si chiama amministrazione difensiva. Ma il risultato è la paralisi delle amministrazioni, che sono l’alter ego delle imprese. Sono anche favorevole, sempre nell’interesse degli amministratori, all’eliminazione immediata della legge Severino, che non serve assolutamente a nulla e confligge con la presunzione di innocenza che è prevista dalla Costituzione. Qualora il governo dovesse durare, potrebbe riformare in senso liberale tutto questo pasticcio che è il nostro codice di procedura penale e magari anche tirando fuori dal cassetto il codice penale della commissione presieduta da me, immeritatamente chiamato codice Nordio. Un buon codice, molto moderno e avveniristico, perché non considera più il carcere come elemento fondante della punizione. Cambierebbe anche la giustizia amministrativa? Ha lo stesso impatto negativo nei confronti dell’economia di quella civile: le amministrazioni sono paralizzate perché ogni atto amministrativo può essere impugnato davanti al Tar, il quale molto spesso indugia oppure concede una sospensiva e la sentenza arriva tempo dopo. Il risultato è un’assoluta incertezza. Ed è anche irrazionale e irragionevole che tre i giudici che hanno vinto un concorso interferiscano in scelte di alto valore politico. Qual è il rimedio? I Tar non vanno annullati, ma vanno resi tassativi gli atti amministrativi per i quali è ammissibile un ricorso. Quindi il ricorso al Tar, invece di essere la regola, come oggi, diventerebbe l’eccezione e dovrebbe essere riservata agli atti più importanti, ma non certo a quelli che per esempio esprimono una legittima valutazione politica come i Dpcm. Posso dire, personalmente, che li ritengo in gran parte illegittimi, perché solo una legge può limitare i diritti costituzionali. Ma eravamo in piena emergenza. L’ex ministro Severino, assieme alla giudice Cartabia, è tra i nomi più accreditati per via Arenula. Quale sarebbe per lei la figura migliore? Molto spesso viene enfatizzata troppo la figura del ministro della Giustizia, come se potesse essere il risolutore dei problemi. In realtà può complicarli molto, come ha fatto Bonafede, ma non può risolverli da solo. Un ministro della Giustizia può fare molti danni in poco tempo, ma in poco tempo non può risolvere da solo molte situazioni. Senza una convinzione politica non c’è ministro che tenga. Se si segue la traccia che mi sono permesso di indicare, le difficoltà non saranno molte. “Caro Giletti, i processi non si fanno in Tv ma nelle aule di tribunale” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 febbraio 2021 Luca Andrea Brezigar (Camere penali): “Il quarto potere ha preso il sopravvento. Ne è un esempio la trasmissione condotta da Massimo Giletti Non è l’arena. L’incredibile distorsione qui è rappresentata dall’ascoltare in quella arena i testimoni del fatto. In altri casi è addirittura capitato che venissero sentiti prima di andare a colloquio con il pubblico ministero”. Al centro della cronaca nera attualmente c’è il caso di Alberto Genovese, noto imprenditore arrestato a Milano con l’accusa di aver violentato una ragazza di 18 anni durante un festino. Benché siamo ancora nelle fasi iniziali delle indagini, è iniziato già il processo mediatico: nel frattempo si sono aggiunte altre presunte vittime e tutte vanno addirittura in tv a raccontare le presunte violenze. Usiamo “presunte” perché, ca va sans dire, il processo non è nemmeno iniziato. Ne discutiamo con l’avvocato Luca Andrea Brezigar co-responsabile, insieme al giornalista Alessandro Barbano, dell’Osservatorio informazione giudiziaria, Media e processo penale dell’Unione Camere Penali. Avvocato, che idea si è fatto della narrazione mediatica del caso Genovese? Il quarto potere, soprattutto in questo periodo di Covid in cui siamo chiusi a casa costretti quasi davanti alla tv e ai social, ha preso il sopravvento. Ne è un esempio la trasmissione condotta da Massimo Giletti Non è l’arena, che in realtà si è trasformata in un’arena vera e propria. L’incredibile distorsione qui è rappresentata dall’ascoltare in quella arena i testimoni del fatto. In altri casi è addirittura capitato che venissero sentiti prima di andare a colloquio con il pubblico ministero. Questo modo di agire significa affossare il processo: non va dimenticato che la prova si forma nel dibattimento, non in uno studio televisivo. Avvocato attenzione perché potremmo essere accusati di fare victim blaming, ossia colpevolizzare le vittime... Ma assolutamente no, non è questo il caso. Semplicemente credo fortemente da avvocato nel rispetto delle regole del giusto processo e qui ci troviamo dinanzi ad una chiara violazione. Anche perché mentre le due presunte vittime di Alberto Genovese raccontavano la loro storia nella puntata dell’8 febbraio, è comparsa la scritta “Parlano le ragazze violentate da Genovese”, come se già fosse stata emessa una sentenza definitiva... Purtroppo siamo abituati a certi tipi di titolazioni. In questo caso dovrebbe arrivare in soccorso un codice deontologico comune che riguardi i giornalisti e tutti gli operatori coinvolti nel circuito mediatico. Bisogna aggiungere che quando si parla di reati sessuali, c’è la predisposizione a dare comunque ragione alla vittima... Sarà il giusto processo a determinare come si sono svolti gli accadimenti. Io ovviamente non posso entrare nel merito del caso Genovese. Posso dire che se con le riforme richieste dall’Europa introduciamo nel codice tutele per il soggetto debole, è chiaro che esso diviene meritevole di una maggiore garanzia. Ciò significa che il processo deve svolgersi con particolari cautele ma anche evitare che lo stesso soggetto debole sia sottoposto a delle pressioni o distorca la propria versione, raccontando qualcosa che crede di aver vissuto. Ricordate il presunto stupro consumato nel 2019 nella circumvesuviana di San Giorgio a Cremano? Una ragazza aveva accusato di violenza brutale di gruppo quattro ragazzi ma poi grazie alle telecamere si scoprì che non era vero nulla. Soggetto debole non significa necessariamente soggetto credibile. La verginità cognitiva del giudice può essere inficiata da queste trasmissioni? I giudici sanno che non devono lasciarsi influenzare, hanno gli strumenti per resistere all’impatto del processo mediatico. Poi ci sono processi di grande rilevanza pubblica, dove si formano dei veri schieramenti di opinione, e dove molti cercano di costituirsi parti civili: tutto ciò potrebbe minare la serenità del dibattimento. Più parti civili significa più rapporti con la stampa. Posso dunque immaginare un giudice soffocato da questo tipo di situazione. Come si può coniugare la libertà di stampa con il rispetto dei diritti degli indagati/imputati? Come Osservatorio stiamo lavorando a delle soluzioni che vadano ad implementare il quadro già esistente. È chiaro che il processo mediatico esiste e non lo si può far sparire; è altrettanto vero che le distorsioni del processo mediatico si possono limitare. C’è una difficile convivenza tra la necessità di segretezza della giustizia penale e l’inviolabile diritto all’informazione. Sul segreto istruttorio noi abbiamo un impianto normativo che fa un po’ acqua da tutte le parti: se lei istiga un pubblico ufficiale per avere una notizia viola il segreto, se invece la notizia gliela passano dalla Procura è tutto lecito. Poi c’è il problema della pubblicazione degli atti non coperti da segreto istruttorio, come l’ordinanza di custodia cautelare: è una pubblicazione che inquina il processo. Dovrebbe essere reso pubblico solo l’esito non tutta l’ordinanza come se fosse un inserto da distribuire in edicola. Tornando al caso Genovese e guardando proprio la trasmissione di Giletti, come Osservatorio stiamo osservando che i pubblici ministeri non stanno facendo quello che potrebbero fare: ossia vietare al testimone, come previsto dal nostro codice, di andare a riferire in televisione quello che già hanno dichiarato nelle sedi opportune. Per riformare il Csm aboliamo le correnti di Bruno Ferraro* Libero, 10 febbraio 2021 Una rapida scorsa dei 334 nominativi di personaggi menzionati a vario titolo nel libro-intervista curato da Alessandro Sallusti con (l’ex) magistrato Luca Palamara, mi ha procurato amarezza, curiosità e sorpresa. L’amarezza perché, dopo aver trascorso 45 anni nell’esercizio delle funzioni giudiziarie ai più diversi livelli, appartenendo a una generazione che aveva scelto la giustizia per vocazione, devo constatare il profondo degrado successivamente maturato. La curiosità è per aver ritrovato nomi di colleghi che hanno avuto momenti di grande visibilità o hanno scalato posizioni senza meriti oggettivi ma sfruttando aderenze e collegamenti incompatibili con la funzione svolta. Confesso perciò che il non ritrovare il mio nominativo nel libro mi procura soddisfazione e orgoglio. La sorpresa è per i commenti rimbalzati da molti colleghi, che hanno scoperto con decenni di ritardo origine ed entità della degenerazione, che in verità risale agli anni 80-90, anche se solo negli ultimi venti anni ha assunto forme e consistenza decisamente intollerabili. Sulle colonne di questo giornale e in numerosi interventi e scritti precedenti (non ultimo in un libro del 2015 dal titolo significativo “Rincorrendo la giustizia”), mi sono frequentemente intrattenuto sui non pochi aspetti di una non rinviabile riforma della giustizia quali, citando i più importanti: la degenerazione correntizia, che ho sempre definito come il cancro della giustizia quando andava invece di moda considerare le correnti una linfa vitale; la separazione delle carriere, con una magistratura giudicante per principio autonoma e indipendente e una magistratura requirente (le Procure) chiamata a operare come “parte imparziale” (parole di Giovanni Leone) anziché come parte irresponsabile; sul CSM di cui la natura di organo costituzionale e la presidenza affidata al Capo dello Stato avrebbero richiesto e richiedono una riforma dei criteri di scelta dei componenti (sorteggio come unico modo per impedire lo strapotere delle correnti) e assoluta trasparenza delle decisioni e soprattutto del loro percorso; sui rapporti tra CSM e ministro della Giustizia da sempre viziati da opacità e caratterizzati dallo svuotamento della potestà disciplinare; sulla politicizzazione della magistratura, inevitabile se si consente il libero passaggio da un’aula di tribunale all’esercizio di una funzione politica con un paradossale viaggio di andata e ritorno e non di sola andata (cosiddette porte girevoli). Credo ancora, basandomi sulla Costituzione, in un giudice soggetto “soltanto alla legge” quindi insindacabile nell’esercizio della funzione di jus licere: indipendenza tuttavia non vuole né può dire irresponsabilità, perché il giudice non è detentore di un potere sovrano e deve considerare tutti i giudicandi uguali di fronte alla legge. Carrierismo, consociazione, commistione con la politica sono estranei al disegno costituzionale. Per questo, ancora una volta, auspico che Parlamento, governo e Presidenza della Repubblica inseriscano in agenda, prioritariamente, la riforma del CSM, la separazione delle carriere e l’abbattimento del “sistema” delle correnti. Il caso Palamara è solo la punta dell’iceberg e la lezione che deriva dalla lettura del libro obbliga a non voltare lo sguardo dall’altra parte fingendo di non vedere il male che è sotto gli occhi di tutti. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Palamara: “La filosofia del partito dei pm” di Dimitri Buffa L’Opinione, 10 febbraio 2021 “Se cerco il martirio? No di certo. Io voglio che sul mio caso venga fuori la verità, non solo la vulgata che la circonda”. E poi: “Se mi sarei mai immaginato di entrare nella commissione Giustizia del Partito Radicale? No di certo, ma adesso ho capito che c’è una cosa che ci ha sempre accomunato: battersi per una cosa giusta”. Luca Palamara - ex magistrato dopo che la casta in toga si è affrettata a radiarlo con un processo disciplinare che si può definire più che sommario, autore insieme al direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, di un libro che è già un bestseller (“Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura”, ndr) - risponde così alle prime due curiosità che fanno da prologo a questa intervista. Per il resto, come potrete leggere non si tiene le proprie idee per sé a proposito delle scomposte reazioni di quella parte della politica e della magistratura, oggi definita come un partito invincibile che tiene in mano i destini di un’intera nazione, da “Mani pulite” ai nostri giorni. Qualcuno l’ha etichettata come un pentito. Lei si sente come Tommaso Buscetta, che ha scardinato il sistema Cosa Nostra dall’interno o come Joe Valachi, che venne fatto passare per pazzo prima di venire ucciso? Oppure come una persona che, esercitando il potere, da quello stesso potere è stata poi stritolata? “Io mi sento come una persona che ha vissuto in un sistema di potere e che ha deciso di raccontarlo. Posso dire che adesso, quando un giornalista mi chiede di registrare l’intervista che mi sta facendo, gli rispondo faccia pure, tanto ci sono abituato”. Cosa potrebbe scrivere oggi Leonardo Sciascia, ispirandosi alla sua non breve avventura nella magistratura inquirente, associata e consiliare? “Penso che oggi Sciascia potrebbe in qualche modo rieditare “Il contesto” attualizzandolo a quello che la mia vicenda ha rappresentato”. Lei sembra essere stato processato e cacciato, mediante un uso esageratamente punitivo del processo disciplinare, per essere stato uno che parla troppo dei colleghi e con i colleghi. Sentendo anche qualche “voce dal sen fuggita” nei vari interventi al Consiglio superiore della magistratura, sembra che l’onta promani soprattutto dai pettegolezzi contenuti in chat e intercettazioni. Forse le viene rimproverato, magari inconsciamente, di aver usato in maniera imprudente e infantile lo smartphone? “L’articolo 15 della Costituzione, in realtà, garantisce la segretezza delle comunicazioni. Mai mi sarei aspettato che tanto gli incarichi direttivi, quanto le valutazioni di professionalità o i procedimenti disciplinari, venissero basati su una lettura parziale delle mie chat”. Quale è la concezione esistenziale e filosofica del cosiddetto partito delle procure. O meglio, di alcuni procuratori? “Non parlerei di concezione filosofica. In realtà, dalla riforma del 2007 il potere del procuratore della Repubblica è aumentato a dismisura. Con la polizia giudiziaria e una stampa di riferimento, nonché con un rapporto privilegiato con il giudice del processo, il “contesto” si è trasformato in una vera centrale di suddetto potere”. Alcuni magistrati si sentono in missione per conto di Dio? “Il tema, tanto per rievocare Sciascia, è come evitare che il lavoro del Pubblico ministero, anziché procedere alla ricerca della verità giudiziaria, si trasformi in una missione salvifica”. E quale è l’espediente auto-assolutorio per applicare una consolidata giurisprudenza e giurisdizione domestica, sia penale verso alcuni referenti politici, sia disciplinare per chi sta dalla parte giusta all’interno di questo sistema autoreferente? “Tutto passa per la cosiddetta degenerazione del meccanismo correntizio, allorquando scatta un istinto di autoprotezione che, inevitabilmente, finisce per trasformare la magistratura in una casta”. Quale sarebbe l’obiettivo politico ultimo di chi crede che questo sia il giusto atteggiamento che la magistratura associata, e requirente, deve tenere verso la politica. E, in genere, verso “il resto del mondo”? “Io direi che in certi momenti storici si è assistito ad una commistione di ruoli, dovuta anche alla debolezza della politica iniziata con la eliminazione dell’autorizzazione a procedere, avvenuta nel 1993. Da quel momento non ci sono state più linee di confine tra l’azione della magistratura e la politica”. Chi può fare la riforma della giustizia e chi invece, secondo il sistema, sarebbe autorizzato a farla? “Diciamo che dall’interno della magistratura scatta una sorta di concezione proprietaria della magistratura stessa, si ritiene che si debba procedere ad una auto-riforma che però, nei fatti, alla fine non avviene mai”. Perché quando si parla dei processi penali, civili e amministrativi il dibattito si incanta nel disco rotto della “velocizzazione” - come se si trattasse di una catena di montaggio automobilistica - e pochi sentono il dovere di porsi il problema anche del raggiungimento di una qualità giuridica impeccabile, secondo i canoni dello Stato di diritto? “Questo è un altro grande tema. Spesso il problema della qualità dei processi è quasi dimenticato, invece rimane ancora oggi uno dei principi fondamentali, soprattutto quando nell’articolo 111 della Costituzione è stato inserito il principio del giusto processo”. Cosa è lo Stato di diritto per chi ha portato la magistratura a specchiarsi, volente o nolente, nel libro che lei ha scritto con Sallusti? “Lo Stato diritto, per rievocare Montesquieu, è lo Stato in cui si realizza un corretto equilibrio tra i poteri dello Stato. Ma spesso la ricerca di questo equilibrio non è facile da realizzare”. Perché i magistrati al loro interno tendono a non denunciare - anche se donne - abusi sessuali dei superiori? Roba di altri tempi. Temono le donne di subire il calvario che, a suo tempo, hanno subito tante vittime di stupro nei processi dei primi anni Settanta, a cominciare dalle vittime del cosiddetto “massacro del Circeo”? “La magistratura è un corpo composto da circa 10mila magistrati e riflette le umane debolezze della nostra società, anche quando entrano in campo vicende che attengono alla sfera sessuale”. C’è un ambiente o una prassi neo-patriarcale? “È indubbio che ci siano correnti, soprattutto quelle ideologizzate, che tendono ad affermare una sorta di egemonia culturale, dalla quale però le nuove generazioni vogliono in qualche modo liberarsi”. E il Csm come tratta questo tipo di delicati problemi? Un caso recente non sembra essere stato un esempio di metodo nel condurre l’azione disciplinare… sembra che sia la vittima a rimetterci. “Nell’attuale sistema il Csm, inevitabilmente, finisce per rimanere imprigionato nel meccanismo delle correnti e non riesce ad avere una sua autonomia decisionale”. C’è “una luce” al fondo di questo tunnel - che comprende anche la gestione disastrosa delle carceri di cui moltissimi magistrati, a volte persino di sorveglianza, sembrano spesso disinteressarsi - oppure quella luce è solo il treno che sta arrivando sui binari, pronto a investire ogni ostacolo che si pone sulla sua strada? “Bisogna riconoscere il grande merito dei magistrati di sorveglianza che, con abnegazione e impegno, trattano un argomento delicato come quello della detenzione carceraria. Rappresenta un esempio per tutti coloro che si avvicinano a questo tema”. Patto con i colletti bianchi: ecco come la ‘ndrangheta è diventata una holding di Giuseppe Legato La Stampa, 10 febbraio 2021 Avvocati, commercialisti e imprenditori stringono rapporti con la criminalità calabrese. De Raho nella relazione annuale della Dna: “Non più mafia in senso stretto, ma azienda innovatrice”. Ha “nuove frontiere affaristico-imprenditoriali”, si presenta adesso “come mafia innovatrice capace di modificare le regole basilari della tradizione criminale per affrontare le sfide del futuro dotandosi finanche di una struttura occulta e riservata formata da una componente elitaria che assicura alla organizzazione l’attuazione dei programmi criminosi anche negli ambiti strategici della politica, dell’economia e delle istituzioni”. Non è più mafia in senso stretto, “è azienda che ha sempre più la connotazione, le caratteristiche e le dimensioni dell’impresa multinazionale, della quale sono stati assimilati gli scopi, l’organizzazione e la visione globale degli interessi”. Parola di Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia che cosi tratteggia la nuova ‘ndrangheta italiana nella relazione annuale della Dna sul crimine (organizzato) nel nostro Paese. Un’azienda dunque “che tende a conformarsi al modello delle imprese commerciali e a seguirne le medesime tendenze: specializzazione, crescita, espansione nei mercati internazionali - scrive De Raho - e rapporti con altre realtà economiche”. Tutto merito delle opportunità offerte dall’internazionalizzazione dei mercati commerciali e finanziari e dai progressi scientifici e tecnologici “che hanno permesso alle ‘ndrine di proiettare la loro influenza su aree territoriali sempre più vaste”. De Raho: “La mafia foggiana primo nemico dello Stato” - Con un cambio di approccio nell’aggressione ai mercati. Dice De Raho: “che la mafia calabrese non si limita soltanto a svolgere una funzione vessatoria e parassitaria sulle imprese e sull’economia legale, ma è essa stessa impresa in grado di condizionare il mercato garantendo l’erogazione dei servizi richiesti dai mercati legali in maniera estremamente vantaggiosa”. Aggiunge: “La notevole forza corruttiva ha trasformato l’organizzazione in una holding economico-finanziaria”. Quali siano poi gli strumenti che hanno permesso questo salto generazionale e fattuale che ha sancito la supremazia della ‘ndrangheta su tutte le altre mafie tradizionali è presto detto: “Il controllo di buona parte del consenso, sociale prima, politico poi - spiega De Raho nella relazione - costituisce la forza principale dell’associazione criminale ormai non solo più in Calabria, ma anche in diversi territori del Nord: Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e valle d’Aosta”. E se cambia la ‘ndrangheta cambiano - al pari - gli approcci investigativi: “Che più che seguire le orme degli affiliati al sodalizio, sono attratte dai flussi di denaro, dall’analisi delle numerose attività economiche sorte dal nulla e dalle figure professionali od imprenditoriali che li movimentano” precisa il Procuratore. Ecco spuntare dunque i professionisti, avvocati, commercialisti, imprenditori. De Raho cita tre indagini. Quella di Nicola Gratteri e Antonio De Bernardo che ha portato in carcere - e oggi a giudizio nella Maxi aula bunker di Lamezia Terme “alcuni professionisti, in particolare avvocati, che hanno dato un notevolissimo apporto alle attività dei sodalizi, tanto da esserne stati ritenuti concorrenti esterni ed in alcuni casi addirittura partecipi”. È il caso di Giancarlo Pittelli, ex senatore della Repubblica i cui contatti e supporti al potente clan dei Mancuso di Vibo Valentia hanno riempito le pagine dell’inchiesta Rinascita Scott. C’è ancora il caso di Fabio Pompetti “avvocato e faccendiere, referente dei Bellocco in Argentina, a Buenos Aires, il quale - si legge nella relazione della Dna - ha svolto un ruolo importante con riguardo all’acquisto di un carico di cocaina, ma si è anche prodigato per la necessità di far giungere con urgenza in Uruguay almeno 50 mila euro, per far scarcerare, anche corrompendo pubblici ufficiali, Rocco Morabito, detto “Tamunga”, arrestato nel settembre 2017 dopo essersi sottratto per oltre 20 anni alla giustizia italiana ma, guarda caso facilmente evaso, nel giugno 2019, dal carcere di Montevideo”. Infine “va menzionata l’applicazione della misura interdittiva ad un legale del foro di Torino che, dietro compenso, aveva avvisato i principali associati dell’esistenza del procedimento e delle attività di intercettazione in atto” scrive la Dna. “Dalle indagini è emerso come un professionista mantenesse ottimi rapporti con apparati istituzionali ed esponenti della Polizia Giudiziaria, e come dunque fungesse da tramite rispetto al sodalizio. Il suo ruolo veniva avallato anche da Antonio Agresta (ritenuto tra i capi assoluti della ‘ndrangheta in Piemonte ndr), che - informato dal figlio in merito ai rapporti con il legale - sottolineava la necessità di mantenerli”. Emilia Romagna. Reinserimento per i detenuti, la Regione approva 22 progetti formativi piacenzasera.it, 10 febbraio 2021 Interventi di orientamento e formazione che possano aiutare le persone in esecuzione penale a un reinserimento sociale fondato sul lavoro e, a partire dall’acquisizione e qualificazione di un profilo professionale, consentano loro di acquisire autonomia e rafforzarsi rispetto a possibili recidive e reiterazioni delle azioni che li hanno portati in carcere. Sono 22 i progetti formativi approvati dalla Regione e finanziati con 1,1 milioni di euro di risorse del Fondo sociale europeo, che hanno l’obiettivo di rendere disponibili politiche formative, di orientamento e di accompagnamento al lavoro per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale da parte dell’Autorità giudiziaria. “Il Piano regionale degli interventi orientativi e formativi per l’inclusione socio-lavorativa delle persone in esecuzione penale, nel suo complesso e nei singoli interventi che vengono programmati, ha un valore preventivo - spiega l’assessore regionale alla Formazione e Lavoro, Vincenzo Colla. Con queste azioni intendiamo sostenere l’inclusione sociale, in particolare nella fase delicata del ritorno alla vita in libertà, cercando di rendere questo momento particolarmente significativo per una reale integrazione nella società”. Gli interventi, definiti in condivisione con la Commissione regionale per l’area dell’esecuzione penale degli adulti, tengono conto dell’importanza che la rete dei servizi formativi e sociali, pubblici e del privato sociale, delle imprese profit e no profit e dei servizi dell’Amministrazione penitenziaria rivestono nella costruzione di un percorso riabilitativo per il reinserimento sociale e la riqualificazione lavorativa. I 22 progetti permetteranno di costruire percorsi personalizzati tramite orientamento, formazione permanente e delle qualifiche, tirocini. Torino. Detenzione al femminile tra problemi e speranze di una vita migliore di Federico D’Agostino comune.torino.it, 10 febbraio 2021 È durato sei giorni lo sciopero della fame di alcune detenute del “Lorusso e Cutugno” di Torino. La protesta, iniziata il 20 gennaio, si è conclusa anche grazie all’intervento della Garante per i diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo, che ha incontrato le donne nel carcere torinese, dopo aver appreso la notizia. Tutto era nato dall’impossibilità di ottenere colloqui con i familiari nel periodo in cui il Piemonte era considerata zona arancione, per l’emergenza sanitaria. Il Dpcm, infatti, non contempla, tra le visite ai familiari, gli incontri di congiunti residenti in un comune diverso da quello nel quale si trova l’istituto di pena. La vicenda, che si è aggravata anche per l’impossibilità di effettuare videochiamate a causa dell’usura di smartphone e tablet molto utilizzati nel primo lockdown, si è in parte risolta con la sostituzione di nuove apparecchiature e si è normalizzata con il ritorno della Regione in zona gialla. La questione è stata illustrata, ieri mattina, dalla stessa Garante nel corso della riunione congiunta delle Commissioni Contrasto fenomeni di intolleranza e razzismo e Pari opportunità, sotto la presidenza di Daniela Albano. L’incontro in carcere, ha sottolineato la Garante, è stata l’occasione per fare il punto sulla condizione femminile nella struttura. Ha sottolineato come le istanze emerse siano state immediate inoltrate alla direzione dell’istituto. Le maggiori criticità riguardano situazioni, alcune in realtà già note: la presenza di blatte e topi, la mancanza di acqua calda nelle celle, le griglie fitte oltre le sbarre che, se da un lato impediscono il lancio di oggetti, dall’altro non lasciano filtrare la luce, umidità delle pareti in caso di pioggia. Ma vengono segnalate anche questioni di tipo organizzativo, come la concomitanza dell’ora d’aria con visite mediche o con la doccia, o l’assenza di personale di sorveglianza per un periodo prolungato, in occasione dei cambi turno. Situazioni per alcune delle quali l’amministrazione carceraria ha già posto rimedio mentre su altre vi sono posizioni contrastanti per le quali la Garante stessa svolgerà ulteriori approfondimenti. Ma c’è chi pensa ovviamente al dopo. Di qui la preoccupazione per la scarsità di progetti di reinserimento. Si sente infine la mancanza di un regolamento dell’istituto. Sarebbe utile, ha sostenuto la Garante, per far conoscere i diritti dei detenuti ma anche le regole da seguire in una struttura che oggi ospita 1.400 persone. A questo proposito, la stessa Garante ha creato un rapporto di collaborazione tra l’università e la direzione del carcere per la stesura del regolamento. Napoli. Covid, proteste nel carcere di Secondigliano ma la situazione contagi è sotto controllo di Rossella Grasso Il Riformista, 10 febbraio 2021 Alta tensione e proteste nel carcere di Secondigliano: ma la situazione contagi è sotto controllo. Nel carcere di Secondigliano la situazione dei contagi è sotto controllo. A preoccupare non sono tanto il numero dei positivi ma la tensione che si sta spargendo tra i detenuti e soprattutto tra i loro familiari. Preoccupano le voci che circolano e i colloqui diradati per la pandemia rendono ancora più difficile le comunicazioni. Così è aumentata l’apprensione tra i familiari e all’interno dello stesso carcere. “Si stanno susseguendo sempre più spesso delle battiture e proteste - racconta il garante dei detenuti del comune di Napoli Pietro Ioia - ma la situazione dei contagi a Secondigliano è abbastanza sotto controllo”. A rendere tesa l’atmosfera è l’insofferenza di alcuni detenuti che magari hanno contratto il Covid o che hanno avuto contatti con persone positive e che sono sottoposte a isolamento in attesa di guarigione o precauzionale. Non è certamente cosa semplice sopravvivere reclusi in celle anguste dovendo rinunciare anche ai pochi momenti d’aria e questo sta creando qualche disagio. Da qualche giorno circola sui social un video in cui si vede Salvatore Basile, detenuto a Secondigliano. Durante una videochiamata con la famiglia denuncia le pessime condizioni in cui stanno vivendo i detenuti. “Quindici giorni fa c’è stata una persona con il Covid e ci tengono chiusi in stanza. Dicono che è per prevenzione del Covid. Ma siamo stati tutti insieme eppure chiudono in stanza solo noi della quarta sezione”, dice. “Uno dei poliziotti penitenziari ci ha minacciati dicendo che dobbiamo stare in stanza senza protestare”. Poi gira lo smartphone e mostra i corridoi del penitenziario dell’ala dove si trova recluso. “Vi faccio vedere la sezione - dice - casini non ce ne sono, ci minacciano inutilmente. Noi abbiamo sbagliato e siamo qui per pagare ma non vogliamo farlo con la dignità che è la cosa più importante per un uomo”. “Spero che Mattarella o il ministro della Giustizia vengano a vedere come siamo messi in questi carceri - continua il video - Dicono che le prigioni sono come alberghi ma non è così”. E mostra la sua cella e soprattutto il bagno, senza finestra e con l’aeratore che dice di essere rotto. “Dal 17 novembre che ho contratto il virus non sono più uscito da questa cella. Spero che il mio appello possa arrivare lontano”, conclude. Dal carcere di Secondigliano confermano che la situazione dei contagi è sotto controllo proprio grazie all’applicazione di tutte le misure tra cui l’isolamento precauzionale e sanitario che ha permesso di abbassare nettamente il numero dei contagi. Vengono fatti screening ordinari ed è posta molta attenzione nel far rispettare le norme anti contagio. Dal bollettino diramato dal Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, a Secondigliano risultano 20 contagiati tra i detenuti e 23 tra gli agenti. Chieti. Focolaio di Covid-19 nel carcere, almeno 10 i detenuti risultati positivi al virus chietitoday.it, 10 febbraio 2021 L’Associazione “Voci di dentro” chiede misure alternative per evitare i contagi. Sono almeno 10 i detenuti risultati positivi al virus in questi giorni a Madonna del Freddo. Situazione preoccupante nel carcere teatino di Madonna del Freddo, dove almeno 10 detenuti sono risultati positivi al Coronavirus. Lo segnala l’associazione Voci di dentro, che ha ricevuto la notizia dai alcuni parenti. “La preoccupazione è molta: la casa circondariale di Chieti - denuncia l’associazione - è vecchia e fatiscente, ci sono celle anche da sei persone, alcune hanno ancora la turca. La promiscuità, l’impossibilità di mantenere le distanze stanno rischiando di mandare in tilt tutto l’istituto di Madonna del Freddo dove sono rinchiuse un centinaio di persone, molte delle quali malate. Nessuna notizia sullo stato di salute del personale, agenti, impiegati, personale della direzione. Una situazione preoccupante: non ci sono celle per la quarantena, non ci sono stanze dove mettere le persone risultate positive. Una delle ipotesi in via di definizione è lo spostamento di tutti i positivi nella sezione femminile. Al momento la direzione del carcere ha sospeso tutte le attività dei volontari (molto poche a dire il vero) che fino a sabato si tenevano unicamente via Skype”. Per “Voci di dentro Onlus”, il rischio di focolai potrebbe essere ovviato con un’organizzazione diversa. “Nel carcere di Chieti, ma succede in tanti carceri in Italia, si continuano a portare in cella persone con una pena di pochi mesi o persone che devono scontare carcerazioni per reati compiuti anche dieci anni fa. Uno tra tanti il caso di un detenuto che è stato portato in carcere a Chieti per una pena di pochi mesi, si è fatto la quarantena, poi è stato messo fuori. È normale tutto ciò? Per noi la risposta è no. E le conseguenze oggi si vedono: sovraffollamento, poca sicurezza, e adesso anche il contagio di una decina di persone che potrebbero finire in ospedale e intasare ancora di più il sistema sanitario con ospedali ormai al completo”. Voci di dentro chiede soluzioni alternative, come la messa in prova, i lavori di pubblica utilità i domiciliari per tutte le persone con pene sotto i tre anni, così come tutti coloro che hanno più di 70 anni, i malati, le donne (qualche migliaio dentro per reati spesso minori), le persone con dipendenze gravi, i bambini. Palermo. Carcere Pagliarelli, quattro contagi per Covid in un altro padiglione di Roberto Puglisi livesicilia.it, 10 febbraio 2021 Ci sono quattro contagi nell’altro padiglione del carcere Pagliarelli a Palermo. Cioè in una zona dell’istituto che finora era rimasta indenne dal Covid. È una notizia di oggi e proviene dal monitoraggio che si fa della situazione per via dell’attenzione quotidiana con cui il garante dei detenuti, il professore Giovanni Fiandaca, segue la vicenda. Il carcere è un microcosmo che prevede, per la sua stessa natura, stati d’animo diversi da quelli della vita normale. Sono sentimenti umani ovviamente esasperati dalla reclusione. Un’esperienza straordinaria come il Covid viene percepita con maggiore pesantezza. Il dato è aggiornato a oggi e la prima parte rappresenta una buona notizia: del vecchio focolaio di positivi ci sono 48 casi da 58 che erano, tra le persone detenute. Rimane sempre intorno alla decina il numero di personale contagiato. Ma, appunto, in una diversa porzione dell’istituto sono saltati fuori quattro positivi. E questo rappresenta un naturale elemento di preoccupazione. Vale sempre l’invito all’equilibrio del garante: “La consapevolezza del problema esiste. Ai detenuti vorrei dire che non sono abbandonati, che si segue la vicenda con attenzione e sensibilità, costantemente. Per cui, pur comprendendo il momento, consiglierei di avere un po’ di pazienza e di evitare di assumere atteggiamenti di protesta che potrebbero pregiudicare anche il calendario della vaccinazione”. Roma. Carcere di Rebibbia senza acqua in piena pandemia di Cecilia Capanna ildigitale.it, 10 febbraio 2021 Il carcere di Rebibbia senza acqua per tutta la giornata di ieri mentre all’interno del penitenziario è attivo un focolaio di Covid. È successo ieri. Per tutta la giornata il carcere di Rebibbia senz’acqua mentre continua a diffondersi il Covid all’interno delle mura della Casa circondariale di Roma. I detenuti in protesta. Perché Rebibbia senza acqua - La rottura di una conduttura sulla Tiburtina avrebbe causato la mancata erogazione del servizio Acea lasciando il carcere di Rebibbia senza acqua, oltre che una parte della zona di Ponte Mammolo. I tecnici hanno lavorato per ore e sono riusciti a ripristinare il servizio solamente alle 22 di ieri sera. L’acqua però sarebbe uscita marrone per parecchio tempo e i detenuti non hanno potuto lavarsi per tutto il giorno di ieri fino a stamattina. La protesta dei detenuti - Per tutta la giornata i detenuti di Rebibbia senza acqua hanno protestato per non potersi lavare e per la compromissione dell’igiene di tutto il carcere dovuta alla mancanza di acqua in piena pandemia. Nel carcere infatti è scoppiato un focolaio di Covid ormai da una decina di giorni e l’igiene personale e degli ambienti è quanto mai fondamentale. La rabbia e la paura si aggiungono alla frustrazione di non poter vedere i propri congiunti, infatti a causa della pandemia tutti i colloqui nelle carceri sono stati sospesi. Fino a qualche giorno fa erano 110 i contagiati da Covid-19 all’interno della casa circondariale di Rebibbia, 5 gli ospedalizzati e probabilmente il numero è salito. Sono aumentate infatti le sezioni che sono state chiuse. I detenuti hanno l’obbligo di indossare le mascherine quando si spostano da una sezione all’altra ma sembra che possano toglierle all’interno della propria sezione. E mentre si rende urgente e prioritaria la vaccinazione della popolazione carceraria, sembra che le mascherine fornite dall’amministrazione del carcere non siano sufficienti e che i detenuti non possano cambiarle per più giorni. Le condizioni di vita in carcere - Il fatto di Rebibbia senza acqua si somma ai moltissimi disagi della vita in carcere. Restare chiusi all’interno di un penitenziario è una delle esperienze più traumatiche che un essere umano possa vivere. Il detenuto viene disumanizzato, la sensibilità delle persone viene violata continuamente fino a paralizzarsi, lasciando il posto a rabbia e depressione. Il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero e invece è il luogo principe della violenza, quella fisica, quella verbale, quella psicologica. La mortificazione e la frustrazione accompagnano le giornate di persone che hanno sbagliato ma a cui non viene data l’opportunità di imparare dai propri errori. la domanda è sempre la stessa: quanto tempo ancora dovrà passare perché la società e le istituzioni mettano veramente in pratica il concetto di rieducazione? L’Aquila. Partito il piano vaccinale alla Polizia penitenziaria, prime dosi già somministrate agenpress.it, 10 febbraio 2021 “La buona e tanto attesa notizia è delle ultime ore: somministrate le prime dosi di vaccino AstraZeneca ai poliziotti penitenziari della Casa Circondariale dell’Aquila”. Così Francesco Marrelli, Cgil L’Aquila, Anthony Pasqualone, Fp Cgil L’Aquila, e Giuseppe Merola, Fp Cgil Abruzzo Molise, esprimono soddisfazione e si appellano affinché si proceda per tutti i territori della Provincia e della Regione, coinvolgendo tutti i protagonisti, lavoratori di ogni ordine e popolazione detenuta. “Le carceri - spiegano - stanno attraversando una fase molto delicata, riconoscendo le già ataviche problematiche che insistono e quindi riteniamo giusta l’attenzione dimostrata dalle Istituzioni, ricordando anche le preoccupanti questioni che hanno interessato diversi Istituti Penitenziari ed evidenziando l’acuirsi, in questi ultimi giorni, della pandemia con le diverse varianti in gran parte del Paese”. “Come Organizzazione Sindacale abbiamo più volte coinvolto Amministrazione Penitenziaria, Istituzioni ed Organi sia sanitari che politici, affinché venisse avviata una campagna vaccinale nelle carceri - concludono - perché siamo fermamente convinti che il mondo penitenziario debba avere una certa priorità in questo protocollo, onde arginare eventuali ripercussioni sulla collettività pubblica e cluster nelle carceri come avvenuto per le Rsa”. Reggio Calabria. Condannato per associazione mafiosa, studia in carcere e diventa infermiere di Simone Gussoni nursetimes.org, 10 febbraio 2021 Il neo-dottore sta scontando una pena detentiva di dodici anni nella casa circondariale “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria. Ha sostenuto tutti gli esami a distanza. Un giovane detenuto, recluso nella casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria, ha coronato il sogno di conseguire la laurea in Infermieristica. Il neolaureato, 25enne, si chiama Francesco Leone e sta scontando una pena detentiva della durata di 12 anni per associazione mafiosa. La laurea è stata rilasciata dal dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università di Messina. L’uomo ha potuto usufruire dell’opportunità concessa ai detenuti che decidono di seguire un corso universitario. Grazie al supporto di educatori e del personale della polizia penitenziaria, ha potuto portare a termine l’intero percorso didattico. Ha sostenuto tutti gli esami a distanza con un sistema di videoconferenza in collegamento con la commissione esaminatrice. La sua tesi è intitolata L’infermiere e la prevenzione delle infezioni correlate all’assistenza. Importante l’aiuto della professoressa Maria Caruso, relatrice dell’elaborato. “Ho il dovere di ringraziare - ha dichiarato il neo-dottore - la direttrice della casa circondariale “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria, Carmela Longo, gli educatori e l’intero corpo di polizia penitenziaria, che mi hanno dato la possibilità di raggiungere questo importantissimo obiettivo, fondamentale per il mio futuro una volta che avrò pagato il mio debito con la giustizia. Un altro grazie va ai miei genitori, che nonostante tutto mi hanno dato ancora una volta fiducia, sostenendomi e accompagnandomi in questa straordinaria avventura, in attesa del giudizio di appello iniziato proprio il 28 marzo”. Bologna. “Un ponte di storie” per raccontare emozioni dentro e fuori il carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 10 febbraio 2021 Fiabe, poesie, storie di vita raccontate da persone di differente provenienza, ceto, cultura, nazionalità, età compongono Un ponte di storie. Antologia di narrazioni dentro e fuori dal carcere. La raccolta, risultato di un progetto che ha visto coinvolti gli studenti del corso serale dell’Istituto Tecnico Commerciale Statale ‘Gaetano Salvemini’ di Casalecchio di Reno in collaborazione con il Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti e il carcere di Bologna è stata realizzata sull’idea di creare un parallelismo tra persone libere e persone in carcere. Nell’introduzione Roberto Lolli, presidente Associazione Volontari del Carcere (A.Vo.C), scrive che ciò che dell’iniziativa l’ha entusiasmato maggiormente è stato il “raccogliere le storie della nostra infanzia, che poi si sarebbero in alcuni casi trasformate in letture di storie di vita, con la stessa proposta a gruppi di lavoro nella società ‘libera’ e nella società ‘ristretta’ gruppi disomogenei in tutto e per tutto”- Sono stati i volontari dell’A.Vo.C. a tenere in carcere il laboratorio di scrittura “Ponte di storie”, coordinato dalla giornalista Maria Caterina Bombarda. Tra paesaggi d’infanzia idealizzati e fiabe antiche, si affaccia spesso anche la realtà. Come nella “Storia per la vita” raccontata a voce da Dunia che non sa leggere e scrivere in nessuna lingua, nei “Lupi Cattivi” sulla separazione da genitori emigrati in Svizzera e come in “Ho imparato troppo, non ho imparato niente” ricordo di uno scherzo infantile dalle conseguenze crudeli. “Quando proponevamo le favole - scrive Maria Luisa Pozzi, una delle volontarie che hanno seguito il laboratorio alla Dozza - accadeva che i detenuti stessi si costruivano degli archetipi, cioè il proprio mito attraverso cui raccontarsi e narrare la loro storia di vita. C’era chi si raccontava come ‘il giovane” o ‘il monello’, qualcun altro come ‘il saggio’ e ‘il pacificatore”, chi come ‘il giramondo’, ‘il manager’ o ‘il mentore”, chi altro come ‘il filosofo’ o ‘il mistico’… Non gli servivano perciò le fiabe, quanto invece ricostruire se stessi, riconfermare il proprio Io da portare in giro per il mondo”. Il volume “Un ponte di storie” può essere scaricato dal sito dell’Itcs Gaetano Salvemini. Milano. Al carcere minorile Beccaria progetto di educazione con la musica milanotoday.it, 10 febbraio 2021 Un progetto culturale sperimentale rivolto ai giovani del carcere minorile Beccaria di Milano per avvicinarsi alla musica intesa come linguaggio non verbale e, attraverso di lei, al mondo delle emozioni: si chiama “Swimmer” ed è stato pensato dal Cpm Music Institute e da Suoni Sonori col sostegno di Fondazione Cariplo. “L’iniziativa - si legge in una nota - mette al centro dell’attenzione ciò che per ogni giovane adolescente si può paragonare all’acqua per le piante: la musica da sentire”. L’obiettivo è favorire “il passaggio da un ascoltatore distratto ad un sentire più vivo”. Il lavoro verrà svolto da educatori e operatori in sinergia con le attività di tipo culturale e artistico già presenti nel carcere. “Swimmer - spiega Franco Muffida del Cpm - è un progetto culturale educativo basato sull’ascolto. Mette al centro il ruolo della musica e del suono, oltre il suo consueto uso espressivo o ricreativo. È frutto di un lavoro di una decina di anni, durante i quali si è osservato il rapporto tra la sensibilità degli ascoltatori e ciò che di emotivo veniva trasmesso dalla comunicazione non verbale, ovvero i contenuti e le intenzioni emotive della musica strumentale di ogni genere e stile”. I primi laboratori che sperimentavano i poteri emotivi dell’intervallo musicale risalgono al 1988: per la prima volta in Italia nel carcere di San Vittore si videro formazioni corali e chitarre nelle celle. La musica non è più quindi solo intesa come elemento espressivo legato alla parola, utilizzata per manifestare rabbia o disagio, ma come nutrimento intimo. Ai giovani detenuti verranno fatti ascoltare brani di musica strumentale di tutti i generi e stili, suddivisi a seconda degli stati d’animo, raccolti in una audioteca chiamata Co2, un progetto già collaudato nelle carceri per adulti a partire dal 2013 e realizzato con l’Università di Pavia, la Siae e il Ministero della Giustizia. Modena. “Teatro in Carcere. Scambi di pratiche per nuovi approdi” di Kristina Gulyayeva bandieragialla.it, 10 febbraio 2021 Incontro online di Teatro dei Venti. Martedì 16 febbraio alle ore 19.00 si terrà l’incontro “Teatro in Carcere. Scambi di pratiche per nuovi approdi. Spettatori attivi e operatori” online su piattaforma Zoom e in diretta Facebook sulla pagina Freeway Project. Nell’ambito del progetto europeo “Freeway - Free man waking - theater as a tool for detainees’ integration” sostenuto da Creative Europe e finalizzato alla creazione artistica, alla formazione e allo scambio di buone pratiche di Teatro in Carcere a livello europeo. Un incontro tra spettatori e operatori teatrali in Carcere, un’occasione per conoscere il lavoro delle quattro realtà promotrici del progetto, che lavorano negli Istituti Penitenziari dei rispettivi Paesi: Teatro dei Venti (Italia), aufBruch Kunst Gefängnis Stadt (Germania), Fundacja Jubilo (Polonia) e Upsda (Bulgaria). All’incontro sono invitati anche rappresentanti delle Istituzioni civili e penitenziarie, volontari, associazioni e soggetti che lavorano in Carcere, per un ascolto allargato e una conoscenza reciproca dei contesti. Per partecipare all’evento su Zoom è possibile iscriversi e ottenere il link inviando una mail all’indirizzo info@freewayproject.eu. L’incontro sarà trasmesso in streaming sulla pagina www.facebook.com/FreewayProject.eu. I lavori si svolgeranno in lingua inglese. Website: www.freewayproject.eu. L’obiettivo generale del progetto Freeway è il rafforzamento e miglioramento delle capacità di tutti gli operatori culturali che svolgono attività teatrali in carcere, in particolare attraverso l’apprendimento e lo scambio di conoscenze. Il progetto prevede infatti attività di scambio e formazione, coinvolgendo direttamente quattro categorie di soggetti diversi: operatori / registi delle realtà partner, attori detenuti, operatori in formazione, pubblico attivo/cittadinanza, e implementando la realizzazione, ma anche la creazione, la produzione e la circuitazione di spettacoli teatrali con un tema comune. Nell’ambito di questo progetto il Teatro dei Venti ha prodotto il film “Odissea Web”, di Raffaele Manco e Stefano Tè, realizzato nel corso del periodo di prove da remoto durante il lockdown (marzo-giugno 2020). Il lavoro del Teatro dei Venti in relazione al Carcere prosegue quotidianamente, con i percorsi formativi negli Istituti di Modena e di Castelfranco Emilia, con incontri e momenti di formazione per il pubblico e per gli operatori teatrali, e con l’apertura verso progettualità internazionali finalizzate allo scambio di buone pratiche. Potenza. Teatro in carcere: al via un percorso di formazione e approfondimenti online sassilive.it, 10 febbraio 2021 Si chiama “Teatro Oltre i Limiti” ed è la terza edizione della rassegna di promozione del teatro in carcere organizzata dalla Compagnia Teatrale Petra nella città di Potenza, con il contributo di Otto per Mille della Chiesa Valdese, il partenariato della Casa Circondariale di Potenza e del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. Alla base del progetto ToiL, diretto da Antonella Iallorenzi, c’è l’assunto del teatro come linguaggio capace di superare il concetto stesso di limite, nel luogo a cui viene automaticamente abbinato dall’immaginario collettivo, ribaltando la concezione detentiva e favorendo una nuova visione: da luogo di vergogna a luogo di cultura. Il progetto, avviato già da ottobre dello scorso anno all’interno della Casa Circondariale di Potenza con il laboratorio teatrale dedicato ai detenuti, entra nel vivo con le iniziative focus utili a creare un ponte tra il dentro e il fuori, tra società civile e detenuti. Petra risponde alla limitazione della presenza dovuta all’emergenza in corso con una formazione per operatori e diversi approfondimenti, tutti online, allargando così il parterre degli ospiti nazionali, soggetti e voci che negli anni la compagnia lucana ha incontrato nel suo lavoro di teatro in carcere. Il percorso di formazione, destinato a tutti coloro che già operano nel sociale, con particolare riguardo a quanti hanno una formazione nelle discipline artistiche, teatrali, psicologiche, sociali e umanistiche, è riservato agli iscritti e verrà garantito tramite prenotazione sulla piattaforma Zoom. Dopo la formazione gli operatori potranno entrare a far parte dello staff di Petra, affiancando con un tirocinio i tutor nelle lezioni del laboratorio teatrale con i detenuti, nella realizzazione della performance finale del laboratorio e nei workshop per il periodo che va da aprile a giugno 2021. Le candidature vanno inviate tramite la compilazione di un google form (https://forms.gle/heaswKFne1JpaHA9A) entro e non oltre il 21 febbraio. Sviluppati in 4 appuntamenti settimanali, dal 25 febbraio al 19 marzo, il percorso formativo è affiancato da un ciclo di incontri pubblico, i “varchi”, con protagonisti esperti e artisti del panorama nazionale che come succede con i varchi creeranno delle fessure, delle possibilità di accesso attraverso parole e riflessioni in un ambito che solitamente ostacola. Tra gli ospiti Stefano Tè, regista e direttore artistico de Il Teatro dei Venti di Modena, Vito Minoia, Presidente del Coordinamento nazionale teatro in carcere, Simona Bertozzi e Silvia Gribaudi, performers ospiti nella precedente edizione della rassegna, gli operatori della Casa Circondariale di Potenza. Per prendere parte agli incontri, in diretta sulla piattaforma online Zoom, è necessario inviare una e-mail di interesse all’indirizzo info@compagniateatralepetra.com per ricevere il link di partecipazione. Durante l’incontro di apertura, del 25 febbraio, la compagnia Petra regala al pubblico l’esperienza della precedente edizione con la proiezione del documentario inTIME, un racconto nato in sostituzione della performance finale annullata a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19 nel quale confluiscono tutte le riflessioni dell’intero percorso, le voci di tutti i protagonisti. Livorno. La storia delle Pecore Nere, la squadra dei detenuti del carcere “Le Sughere” lionsamarantorugby.it, 10 febbraio 2021 Da un anno, la palla ovale non rotola all’interno dell’istituto carcerario livornese de Le Sughere. Da dodici mesi non si disputano partite con protagonisti gli atleti delle Pecore Nere e, ovviamente, non si vive il simpatico rito dell’apprezzato terzo tempo offerto alle squadre ospiti, per una ‘merenda’, ben poco indicata dai dietologi, a base di arancini, hot dog, bomboloni alla crema e bibite gassate. Per le ben note restrizioni legate alla pandemia, da tempo non sono consentiti neppure i classici allenamenti. L’ultima gara disputata dalle Pecore Nere risale allo scorso sabato 1 febbraio, alla vittoria, per tre mete a una, sui Ribolliti Firenze. In tutto, nell’arco della stagione agonistica 2019/20, quattro le gare di campionato giocate dalla rappresentativa dei detenuti dell’istituto penitenziario labronico. Una squadra tutt’ora imbattuta in gare ufficiali: all’attivo di questa formazione del tutto speciale, tre successi, un pareggio e nessuna sconfitta. Il progetto di un pallone da rugby da far viaggiare all’interno del carcere livornese prende corpo sabato 27 settembre 2014, quando 22 giocatori dei Lions Livorno, accompagnati dal presidente della stessa società amaranto Mauro Fraddanni, dall’allenatore Manrico Soriani (il vero promotore delle lodevoli iniziative rugbistiche svoltesi nell’istituto penitenziario livornese) e dai rappresentanti del comitato toscano della FIR, Marco Bertocchi e Claudia Cavalieri, danno vita, sul terreno di gioco in sintetico de ‘Le Sugherè, ad un allenamento piuttosto sostenuto, con tanto di partitella in famiglia. Durante la seduta, lunga circa 60 minuti, si sviluppano varie fasi di gioco e vengono mostrati i fondamentali dello sport della palla ovale. Un centinaio di detenuti, presente all’allenamento, mostra entusiasmo e grande partecipazione emotiva. Ecco l’elenco degli atleti Lions protagonisti di quella seduta-esibizione: Marco Lorenzoni, Dario Testi, Bryan Barresi, Leonardo Ciandri, Leonardo Demiri, Matteo Magni, Alessio Margelli, Andrea Filippi, Maurizio Sarno, Antonio Baselice, Davide Mantovani, Gabriele Saviozzi, Luca Baroni, Carlo Cantini, Andrea Bigongiali, Alessandro Lampugnale, Vittorio Abbiuso, Paolo Ciandri, Stefano Vestri, Andrea Caputo, Fabio Ciliegi e Claudio Morreale. Da quel giorno, grazie al lavoro dei Lions (ed in particolare grazie all’impagabile attività svolta dallo stesso Soriani e dai suoi colleghi-allenatori Michele Niccolai e Mario Lenzi) e al concreto appoggio dell’Associazione Amatori Rugby, scattano veri allenamenti per i detenuti. Ben presto è allestita una squadra del tutto particolare, composta, appunto, da atleti reclusi nella casa circondariale livornese La formazione, con grande autoironia, viene battezzata, dagli stessi detenuti, Pecore Nere. Tali giocatori, tutti con pene piuttosto lunghe, iniziano ad effettuare, una volta alla settimana (la domenica mattina), sul campo sportivo del carcere, sedute piuttosto intense. Grazie alla stretta collaborazione e alla grande sensibilità della direzione e del personale della casa circondariale stessa, l’intenzione di far disputare anche alcune gare amichevoli si trasforma in realtà. Varie squadre federali si presentano all’interno dell’istituto carcerario, per giocare partite ricche di significato. Belle gare, nelle quali la formazione dei detenuti palesano buone qualità. Un’importantissima svolta nel percorso di crescita del progetto si registra martedì 24 settembre 2019, quando, nel corso della conferenza stampa svoltasi nella sala riunioni dell’istituto penitenziario di Livorno, viene ufficialmente annunciata una novità di portata ‘storica’ per il movimento rugbistico toscano, con una notizia che va decisamente oltre l’aspetto tecnico. “Grazie all’interessamento del Comitato Toscano della FIR - emerge - la rappresentativa delle Pecore Nere, la formazione composta da detenuti nel carcere labronico de Le Sughere, ha acquisito il diritto di partecipare all’imminente campionato toscano Old, girone 2”. All’incontro con i giornalisti, oltre ai tecnici delle Pecore Nere Manrico Soriani e Michele Niccolai, partecipano, tra gli altri, il direttore dello stesso istituto penitenziario Carlo Alberto Mazzerbo, il delegato provinciale del Coni Giovanni Giannone, il presidente del comitato toscano della FIR, Riccardo Bonaccorsi, il consigliere dello stesso comitato Luca Sardelli, l’assessore al sociale del comune di Livorno Andrea Raspanti e il garante dei detenuti Giovanni De Peppo. Presenti anche Arienno Marconi dell’Associazione Amatori Rugby Toscana e, per i Lions Amaranto Livorno, il consigliere Fabio Bizzi e l’addetto stampa Fabio Giorgi. Nel campionato Old potrebbero militare solo atleti che hanno già compiuto 35 anni: prevista, per alcuni elementi della squadra dei detenuti, una deroga. Ovviamente tutte gli incontri delle Pecore Nere si disputano sul sintetico posto all’interno dell’istituto. I giocatori delle Pecore Nere, tesserati Associazione Amatori Rugby Toscana, mettono in evidenza qualità notevoli. Le loro partite, viste le dimensioni del campo, piuttosto ridotte, si giocano con soli 13 elementi, senza flankers. Le Pecore Nere, nel proprio primo impegno ufficiale, con punti in palio, pareggiano con gli Allupins Prato, per poi sconfiggere, nei tre successivi incontri, le rappresentative dei Sorci Verdi Prato, degli Zoo Vasari Arezzo e dei Ribolliti Firenze. Poi l’emergenza della pandemia del Covid-19 costringe la FIR a sospendere e annullare tutti i campionati federali. Saltato, sul sintetico de Le Sughere, anche l’atteso derby cittadino con la rappresentativa di categoria dei Lions (i Rinocerotti), inizialmente previsto per sabato 4 aprile. Il 5 luglio 2020 ecco la notizia più brutta: ad appena 55 anni Manrico Soriani ci lascia. ‘Chico’, promotore e allenatore delle Pecore Nere (nonché capitano dei Rinocerotti) passa l’ovale. Con lui, scompare un rugbista dalla rara generosità. Significative, per ricordare Soriani, le parole di Riccardo Bonaccorsi, presidente del Comitato Toscano della FIR: “Persona unica, degna di stima e amicizia, ha lavorato sempre per il mondo del rugby con passione e dedizione, donando a tutti il suo tempo e il suo impegno. L’ultimo suo progetto con le carceri ha dato frutti insperati tra quei ragazzi, che hanno ricevuto da lui molta più attenzione e passione di quanto la vita avesse dato loro fino ad allora. Ci mancherà”. La squadra delle Pecore Nere, anche per onorare la sua memoria, riprende, dopo alcune settimane, gli allenamenti. A guidare le sedute, oltre a Niccolai e Lenzi, anche Vincenzo Limone, altro allenatore Lions che si è aggiunto nello staff tecnico. La loro opera viene appoggiata dai preziosissimi nuovi dirigenti Maurizio Berti e Massimo Soriani (fratello di Manrico). Poi la seconda ondata ed i nuovi contagi del Covid-19, ‘impongono’ determinati protocolli e l’attività si ferma. Si spera, magari tra qualche settimana - dopo le visite mediche per gli atleti - di rivedere il pallone ovale su quel terreno di gioco, posto all’interno dell’istituto de Le Sughere. Un terreno di gioco che potrebbe essere ben presto intitolato a Manrico Soriani. Fondi europei per la lotta ai femminicidi di Carlo Rimini Corriere della Sera, 10 febbraio 2021 I fatti dimostrano che la legge del 2019 sulla violenza domestica non funziona. Occorre ben altro e ben altri investimenti. Quando è stata approvata la legge del 2019 sulla violenza domestica, su queste colonne avevamo previsto che non avrebbe funzionato. I fatti di questi giorni dimostrano che la legge non ha neppure attenuato i numeri di un dramma. L’entusiasmo è passato alla svelta. Una scia di sangue da una donna all’altra. Per commuoversi basta leggere le storie di ogni signora uccisa. Per ragionare si deve invece partire dai dati. Mentre gli omicidi volontari complessivi nei primi sette mesi del 2020 (durante il primo lockdown) sono diminuiti rispetto all’anno precedente (da 161 a 131), il numero di donne assassinate è aumentato (da 56 a 59). È impressionante l’aumento della percentuale delle donne uccise dal compagno attuale o passato: nel 2014 erano il 54,7%, nel 2019 il 61,3%. Sbagliano quindi coloro che pensano che si tratti di un fenomeno che c’è sempre stato, ma se ne parlava di meno. È invece una piaga e va sempre peggio. Peggio degli altri Stati europei? No, siamo allineati con la media. In Europa, nel 2018 l’incidenza dei femminicidi è stata di 0,25 ogni 100.000 donne; in Italia 0,24. Peggio di noi, Finlandia, Svezia, Germania, Malta. Meglio Spagna, Croazia, Slovacchia; come noi Francia, Olanda e Belgio. Cosa si deve fare? Servono fondi per garantire una risposta efficiente alle donne che chiedono aiuto. Servono pool (come quelli anti mafia) nei quali lavorino pubblici ministeri e polizia giudiziaria specializzati, in grado di individuare nel mare delle denunce i casi di persone in pericolo. Occorrono risorse, competenze e formazione per proteggerle; per fare sentire i loro persecutori braccati. Tutto ciò non si fa con i proclami ma con le strutture e con il denaro, tanto denaro. Un’idea potrebbe essere finanziare un progetto con i denari del Recovery fund. È stata proprio la Fundamental Right Agency (della Ue), nel suo studio del 2014, ad affermare che l’Unione dovrebbe finanziare programmi volti a combattere la violenza in famiglia. Dispersione scolastica, emergenza nell’emergenza di Marco Impagliazzo* Corriere della Sera, 10 febbraio 2021 Il fenomeno si sta allargando a causa della pandemia: coinvolti anche molti alunni delle elementari e delle medie. È compito del governo intervenire. Caro direttore, i nostri figli, ce ne siamo accorti ormai da tempo, vivono un dramma nel dramma della pandemia. Hanno avuto poca scuola negli ultimi mesi e subiscono una pressione psicologica senza precedenti. Vari segnali mostrano un disagio crescente, come le risse in piazza, mentre si registra un allarmante aumento degli atti di autolesionismo. Tutte conseguenze dell’isolamento forzato e della maggiore difficoltà di frequentare i coetanei. Vorrei qui soffermarmi sugli alunni di elementari e medie, di cui si parla meno rispetto ai liceali. Eppure agli Uffici scolastici regionali e al ministero dell’Istruzione giungono crescenti segnalazioni di minori che non frequentano più la scuola (primaria o secondaria di I grado) o che perdono, nelle maglie larghe della didattica a distanza, quella continuità d’insegnamento e di relazione che è la maggiore garanzia di un successo formativo. Una battaglia che l’Italia conduce da tempo, quella contro la dispersione scolastica - che aveva visto di recente qualche timido progresso - ora rischia, a causa della pandemia, di arretrare nuovamente. Gli ultimi dati diffusi dalla Commissione Europea (“Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione per il 2020”) ci ricordano l’entità del problema. I minori che abbandonano precocemente l’istruzione o la formazione sono il 13,5% del totale. L’Italia purtroppo è tra gli ultimi Paesi europei in questa classifica. Parliamo di cifre relative al 2019, prima della diffusione dell’epidemia. Ma il fenomeno si allarga - come mostra un’inchiesta della Comunità di Sant’Egidio - ed è più alto ancora al Sud, nelle periferie delle grandi città e tra i ragazzi di origine straniera, rischiando di vanificare la spinta all’integrazione. Tutto ciò riempie di preoccupazione. Parliamo di bambini e adolescenti che avrebbero diritto a qualcosa di diverso dalla scuola della strada o da una formazione incompleta, un danno secco alla crescita civile, culturale ed economica del Paese. Siamo in presenza di un’emergenza vera e propria, da vivere come il primo dei problemi. Perché da don Milani sappiamo che “la scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde”. In Lettera a una professoressa, i ragazzi del piccolo borgo di Barbiana, erano allora molto netti nei giudizi: voi (insegnanti) dovreste lottare “per il bambino che ha più bisogno”, andare “a cercarlo a casa sua se non torna”; non darvi “pace, perché la scuola che perde Gianni non è degna d’essere chiamata scuola”. La dispersione scolastica è fenomeno complesso, dipendente da vari fattori. Non si può pensare di contrastarlo solo con l’abnegazione dei docenti, perché la scuola non riguarda solo gli insegnanti, o i genitori. La ferita dobbiamo sentirla tutti. Ciò di cui si ha bisogno è un’azione sinergica che non lasci sola la scuola, con idee, investimenti, e implementazione delle best practicesgià avviate. Per andare “a cercare a casa” i tanti Gianni che se ne sono allontanati perché non istituire una nuova figura, quella del “facilitator” scolastico, per andare - anche fisicamente - a cercare chi si è perso per strada e reinserirlo in un percorso educativo e di istruzione? Far rispettare l’obbligo scolastico non è solo una questione giuridica. È sotto gli occhi di tutti che la didattica a distanza, soprattutto in certe situazioni marginali, non ha funzionato e forse non può funzionare. Così come non si può estendere all’infinito l’istituto dell’istruzione parentale, laddove le famiglie non sono in grado di supportare i figli. E poi occorrerà recuperare nei prossimi mesi, fino all’estate, le tante ore di studio che si sono perse lasciando aperte le scuole fino a quando servirà. Sarà il compito del nuovo governo. Il presidente del Consiglio incaricato ha già parlato, nel suo breve discorso di accettazione, di “uno sguardo attento al futuro delle giovani generazioni”. È davvero lo spirito con cui muoversi nelle settimane e nei mesi che verranno. Il disagio psicologico e la crisi formativa di tanti bambini e adolescenti ci ricordano che la sfida non è solo economica. Parliamo tanto di un piano “Next Generation”. Che la scuola, e non la strada o un cellulare, siano l’oggi e il domani di tanti bambini e ragazzi, il loro “Recovery plan”. *Presidente della Comunità di Sant’Egidio Migranti, guardiamo al modello tedesco di Karima Moual La Stampa, 10 febbraio 2021 Pare che l’arrivo di Mario Draghi porti con sé non solo un nuovo Salvini “europista”, ma anche “realista” sul tema immigrazione. In pausa dunque il cavallo di battaglia del carroccio che negli anni - in barba ad ogni buon senso, in maniera cinica e spregiudicata - ha fatto dei migranti la carne da macello, con gli sbarchi di un’umanità diversificata di disperati, usati come il mostro da colpire, il male assoluto e la causa di tutti i mali, per giustificare le paure, deficienze e mancanze degli italiani. Dentro, neanche i migranti residenti potevano trovare pace, con la morbosa ricerca dei piccoli criminali di origine straniera trasformati in caso nazionale e il marchio a fuoco per sfregiare tutta la categoria di “immigrati”. Chiuso il sipario con il Papeete, lasciato il tema immigrazione senza un account social, grazie alla Lamorgese al Viminale, le immagini degli sbarchi sono tornati a coprire il loro posto, secondario e non centrale fino all’epilogo di un nuovo sbarco della ong Ocean Viking, e un nuovo e sorprendente Matteo Salvini che invece dei “porti chiusi” ha dichiarato di voler seguire la Germania sul tema, la legislazione europea! E allora, benvenuto tra noi Matteo Salvini, perché questo bagno di realtà è una buona notizia per chi da anni si occupa di immigrazione e come tale non può che essere accolta con un sospiro di sollievo e un applauso, dato che al centro ci sono vite umane, ma anche il nostro stesso futuro. Salvini che vuole seguire il modello Germania è un Salvini che fa autocritica e cancella le sue politiche del passato, che umiliavano e privavano di strumenti chi credeva nell’integrazione con tutto ciò che questa parola significa e porta con sé nella cifra di quel capitale umano, fatto di una macchina complessa che negli anni si è strutturata per far sì che quei corpi sbarcati sulle nostre coste possano diventare, volti, nomi, storie da curare, integrare e ambire a diventare nostri concittadini. La Germania, che oggi Matteo Salvini porta a modello, è quella della Merkel, che non sarà propriamente “buonista” ma sapeva leggere e mettere insieme i dati sul mercato del lavoro e quelli del declino demografico di cui soffre tutta l’Europa, scegliendo di mettere al centro l’integrazione, accogliendo (solo di siriani 1 milione e 200) e investendo nella lingua, assistenza sociale, psicologica, legale e infine formazione e inserimento nel mondo del lavoro. Tutti calcoli che Salvini invece di mettere in pratica, li usava da contrasto con quel “Prima gli italiani” che di fatto ha lasciato “ultimi immigrati e italiani”. Oggi mentre noi arranchiamo, con una crescita di irregolari e mercato del lavoro nero, rispetto alla legalità che farebbe bene anche alle casse dello Stato, in Germania il 49% del milione e mezzo di migranti accolti nel 2015, ha un lavoro e paga le tasse. Il 75% si è trasferito dai centri di accoglienza a case private e paga l’affitto. I bambini frequentano le scuole, parlano correntemente il tedesco, e certamente saranno vicini anche all’acquisizione della cittadinanza tedesca, mentre noi non siamo riusciti nemmeno a dotarci di una nuova legge sulla cittadinanza per chi nasce e cresce nel nostro paese. E se la Germania ha agito per un preciso calcolo economico, in Italia si è continuato a fare il solo calcolo elettorale che non solo in tasca non ci porta nulla, ma ci posiziona tra i paesi meno competitivi. Dal 2015 a oggi il governo tedesco ha speso circa 87 miliardi per l’integrazione e siccome i tedeschi quando fanno un passo, lo fanno con uno sguardo a lungo termine, secondo gli economisti tedeschi il costo sarà azzerato tra poco, nel 2025, grazie alle entrate fiscali di questi “nuovi lavoratori”. Ecco, se a Salvini non piace essere buonista, che almeno cerchi di essere più realista, guardandosi intorno, perché il bene del paese è la via della legalità, che significa da una parte riconoscere cittadinanza a chi vive e paga le tasse da anni nel nostro paese, dall’altra trovare alleati in Europa per dare un’opportunità a chi sbarca sulle nostre coste lasciandosi l’inferno alle spalle, e far sì che diventi un’opportunità anche per il nostro paese. Questo è fare politica alta. Non deve inventarsi niente. C’è chi ci ha già provato e ci è riuscito. Basta copiare. Droghe. Cauti progressi nella strategia dell’Unione europea di Susanna Ronconi Il Manifesto, 10 febbraio 2021 Pubblicata la Strategia europea sulle droghe 2021-2025. Linee guida generali che necessitano di un Piano d’azione che sarà elaborato sotto la presidenza portoghese, paese che ha un approccio meno criminalizzante alle sostanze. Approvata nel dicembre 2020 dal Consiglio dell’Unione europea, è stata pubblicata la Strategia europea sulle droghe 2021-2025. Come sempre, si tratta di linee guida generali e non vincolanti per gli stati membri (SM), che hanno bisogno di un dettagliato Piano d’azione (PA) - pure questo per altro non vincolante, a volte nel bene ma più spesso nel male, si pensi a tutto il blocco iperpunizionista dell’Est - per poter essere motore di qualche spostamento nelle politiche comunitarie e nazionali. Il PA - con i suoi obiettivi concreti e relativi indicatori di monitoraggio - verrà si dice a breve, a cura della presidenza portoghese, dato non del tutto superfluo, se si pensa all’approccio più bilanciato della media europea adottato da quel paese. Non superfluo anche se si pensa al ruolo avuto dalla presidenza tedesca nel rigettare la bozza della Strategia elaborata dalla Commissione, che aveva enfatizzato linguaggio e approccio law & order, a favore di un testo più equilibrato, sollecitato anche dal Forum della società civile (Csfd). Cosa è cambiato? Non l’impianto generale, che ruota, con consueta inerzia, attorno alla coppia riduzione dell’offerta-riduzione della domanda. E tuttavia, si è inserito un “terzo attore”, dal momento che la Riduzione del danno (RdD), da insieme di interventi incardinato nella riduzione della domanda, è diventata un capitolo a sé, con questo valorizzandone la portata politica e strategica. È la prima volta, ed è in linea sia con l’agenzia europea delle droghe, Emcdda, che costruisce nello stesso modo i suoi report annuali, sia con una precisa richiesta del Csfd, che indica come la RdD, vista come politica e non solo come servizi, non serva solo o tanto a ridurre la domanda, quanto appunto a governare i fenomeni. Dunque, non solo si devono offrire servizi di RdD (questo lo dicevano anche le Strategie precedenti), ma si deve avere una politica di RdD. Questo capitolo include anche il ricorso allargato alle pene alternative e, in un testo che pure non vuole e non può per ora invitare alla decriminalizzazione, si invitano gli Stati Membri a ispirarsi a quelle nazioni che hanno scelto di non fare delle condotte correlate all’uso personale un reato. Un altro aspetto rilevante, nella parte della domanda, riguarda contenuti e linguaggio relativi alle persone che usano droghe: mentre si invita a potenziare il peer work, riconoscendone le competenze, si indica la necessità di lavorare contro lo stigma e, in tema di cure e servizi, si sottolinea che l’accesso deve essere per tutti/e e volontario (anche qui, importante soprattutto per i paesi dell’Est, ma non solo). Sul piano della ricerca e della valutazione, si invita a un lavoro proattivo e non reattivo, all’adozione di piste di ricerca orientate al futuro e innovative, allargando la platea degli attori coinvolti, associazioni incluse, e delle risorse. Riguardo allo scenario internazionale dentro cui questa Strategia va a incardinarsi: senza mettere in discussione l’assetto globale Onu, rivendicando nuovamente l’approccio bilanciato europeo, il documento enfatizza il ruolo dei testi internazionali più avanzati, tra cui l’Outcome document di UNGASS 2016, e soprattutto la UN system common position, che coinvolge diverse agenzie Onu e sottrae almeno in parte l’esclusiva regìa allo UNODC, centrata sull’approccio repressivo; e si invita poi a includere le politiche sulle droghe nella prospettiva dell’agenda 2030 (Sustainable Development Goals). Infine, con l’indicazione delle International Guidelines on Human Rights and Drug Policy come testo di riferimento delle politiche europee, entrano in scena, in maniera meno retorica e vaga, i diritti umani come ingrediente della strategia comunitaria. Approfondimenti e documenti su www.fuoriluogo.it/europa2125 Francia. Bavaglio contro chi protesta contro la legge sulla sicurezza globale di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 febbraio 2021 “Le persone che protestano contro il pericoloso disegno di legge sulla sicurezza globale sono state arrestate e vengono detenute su basi pretestuose. La mano pesante con cui la polizia francese ha gestito queste proteste non fa altro che sottolineare perché sia così necessario tenere sotto osservazione l’operato della polizia. Questa legge potrebbe impedire ai giornalisti di raccontare eventuali violenze della polizia, creando un precedente estremamente pericoloso”. Questo è quanto ha dichiarato Amnesty International sulle tattiche illegali cui fanno ricorso le autorità francesi per reprimere le proteste e mettere a tacere chi critica la proposta di una Legge sulla sicurezza globale che sarà votata a marzo dal Senato di Parigi, dopo l’approvazione dell’Assemblea nazionale del 24 novembre scorso. La proposta di legge limiterebbe la possibilità delle persone di far circolare immagini relative a violenze della polizia, e allo stesso tempo, aumenterebbe i poteri di sorveglianza della polizia attraverso l’utilizzo di sistemi di monitoraggio a circuito chiuso e droni. Decine di migliaia di persone, tra cui anche molti giornalisti, sono scese in strada in Francia dal novembre del 2020 per opporsi alla proposta di legge. Il 12 dicembre solo a Parigi sono state arrestate 142 persone. Molti di questi manifestanti sono stati arrestati per reati non violenti definiti in maniera poco chiara dal diritto francese, tra i quali il reato di oltraggio a pubblico ufficiale e partecipazione a un gruppo con lo scopo di predisporre atti violenti. Alla fine, circa l’80 per cento di questi manifestanti non ha subito alcun procedimento giudiziario. Amnesty International aveva manifestato preoccupazioni simili in merito agli arresti arbitrari collegati alle proteste dei “gilet gialli” iniziate nel 2018 contro le riforme delle pensioni e anche durante le manifestazioni seguite al lockdown del 2020. Myanmar. Mano pesante dei golpisti contro le proteste di Emanuele Giordana Il Manifesto, 10 febbraio 2021 Oggi è il quinto giorno di protesta. Una donna sarebbe stata uccisa da un proiettile che l’ha colpita alla testa mentre un altro manifestante ha preso il colpo in pieno petto e versa in gravi condizioni. Il quarto giorno di proteste di piazza in Myanmar preannunci quello di oggi, il quinto, con un movimento esteso oltre ogni aspettativa nel tempo e nello spazio in ogni angolo del Paese. Ma c’è anche un primo tragico bilancio. Una donna sarebbe stata uccisa da un proiettile che l’ha colpita alla testa mentre un altro manifestante ha preso il colpo in pieno petto e versa in gravi condizioni. Sono tra le sette persone colpite da proiettili (a quanto pare di metallo) sparati ad altezza d’uomo. Sparati per uccidere. Per ora la notizia non è stata confermata. Succede a Naypyidaw, la capitale politica voluta anni fa proprio dai generali, uno degli epicentri della protesta che con Yangon e Mandalay sono sotto i riflettori della cronaca di un movimento che comincia a spaventare i golpisti del 1 febbraio. Che hanno affrontato i raduni di oggi (forse un po’ meno numerosi rispetto a ieri ma forse più diffusi in periferia) mandando avanti la polizia, spalleggiata da un esercito in stato di allerta. Idranti, lacrimogeni, spari in aria per disperdere la folla ma poi qualche agente più solerte abbassa l’arma e tira sulla gente. È un episodio isolato ma gravido di nubi e che si è comunque accompagnato a pestaggi e arresti di decine e decine di manifestanti tra cui personaggi pubblici che ancora non erano in manette: per esempio U Ye Lwin sindaco di Mandalay, seconda città del Paese, arrestato - si dice - per aver scritto sui social parole indigeste sul golpe mentre molti dipartimenti del comune chiudevano i battenti per consentire ai dipendenti di partecipare alla protesta. Una protesta così diffusa che ha coinvolto anche le forze di polizia: la più nota è la foto di un agente sul tetto di una macchina che solidarizza ma dal Myanmar raccontano anche di intere pattuglie schieratesi coi dimostranti. Episodi rari e numericamente poco importanti ma significativi. È attraverso i circuiti Vpn che riusciamo a comunicare con il Myanmar mentre Internet va a singhiozzo. Ed è in una di queste conversazioni che ci confermano la prima uccisione dopo una ridda di voci durante la giornata di più vittime della brutalità poliziesca. Tutto sommato però la giornata si chiude con un bilancio, dicono i testimoni, più positivo del previsto dopo la decisione dell’altro sul giro di vite. Intanto continua la pressione della comunità internazionale e, secondo fonti locali, agli americani sarebbe stato opposto un rifiuto alla richiesta di vedere Aung San Suu Kyi che dovrebbe apparire in tribunale il prossimo 15 febbraio. E se per gli americani è l’ennesimo sgarbo, c’è chi pensa che anche i cinesi, che alla fine hanno attenuato all’Onu la loro opposizione alla condanna del golpe, non siano troppo contenti di come vanno le cose. Frastuono che ha già fatto lasciare il Paese ad alcuni imprenditori tra cui persino un’azienda di Singapore che aveva accordi con un conglomerato in mano ai militari. Brutto segno per i salvatori della patria e i difensori dello sviluppo. Arabia Saudita. Loujain lascia il carcere ma la strada per la libertà è lunga di Michele Giorgio Il Manifesto, 10 febbraio 2021 L’attivista dei diritti delle donne, in carcere dal 2018, dovrebbe essere rilasciata oggi secondo la sorella. Ma vivrà in libertà vigilata. Gli Usa chiedono il rispetto dei diritti umani a Riyadh ma le pressioni non dureranno a lungo. Non è facile valutare quanto il rilascio dell’attivista saudita dei diritti delle donne Loujain al Hathloul, atteso per domani, in anticipo di qualche settimana sui tempi annunciati, dopo 1.002 giorni di carcere duro, sia legato a pressioni statunitensi. “Gli Usa si aspettano che l’Arabia saudita rilasci i prigionieri politici e migliori la situazione sui diritti umani”, aveva detto qualche giorno fa la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki. Fatto sta che la sorella dell’attivista, Alia al Hathloul, ha scritto in alcuni tweet in arabo che la scarcerazione è imminente ma che Loujain sarà in libertà vigilata e non potrà viaggiare all’estero in attesa processo di appello. Se domani le porte della prigione si apriranno, per Loujain avrà fine il calvario cominciato all’inizio dell’estate del 2018. L’attivista in questi due anni e mezzo ha denunciato sevizie, torture e persino violenze sessuali da parte dei carcerieri senza che ciò abbia spinto i giudici a ordinare indagini. Il ritorno a casa non si accompagnerà alla libertà di parola e di espressione, gravemente limitata in Arabia saudita. Loujain vivrà in libertà vigilata e rischierà di tornare subito in prigione se aprirà bocca per raccontare la sua vicenda o per condannare crimini contro i diritti umani. Lo scorso dicembre un tribunale speciale per l’antiterrorismo l’ha condannata a cinque anni e otto mesi di prigione per sovversione, attacco alla monarchia, perseguimento di un’agenda straniera e l’utilizzo di Internet allo scopo di turbare l’ordine pubblico. Allo stesso tempo le autorità saudite, impegnate a inviare messaggi di amicizia e collaborazione all’Amministrazione Usa, difficilmente stringeranno la morsa su dissidenti, attivisti dei diritti umani e oppositori politici. Almeno non lo faranno in questo periodo. Il potente principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS) dopo aver goduto per quattro anni della protezione di Donald Trump, sa che deve conquistare la fiducia di Joe Biden. Non è sfuggito il rilascio, la scorsa settimana, su cauzione di due attivisti con cittadinanza statunitense in attesa del processo, il giornalista Bader al Ibrahim e il commentatore politico Salah al Haidar. Domenica sono state commutate a dieci anni di carcere le condanne a morte di tre giovani di fede sciita - Dawood al Marhun, Ali al Nimr e Abdullah al Zaher - arrestati nove anni fa quando erano minorenni con l’accusa di terrorismo e partecipazione a manifestazioni non autorizzate. Il loro rilascio è previsto tra quest’anno e il 2022. MbS deve compiacere ma fino a un certo punto l’alleato nordamericano. I rapporti tra i due paesi erano e restano solidi, l’alleanza è più forte che mai nonostante la Casa Bianca abbia congelato la vendita di armi a Riyadh e sospeso il suo appoggio all’offensiva saudita in Yemen. E per quanto riguarda i diritti umani Washington, si sa, chiude un occhio, spesso tutti e due, quando a violarli è un paese alleato. Lo stesso Biden ha inviato un messaggio molto rassicurante agli alleati sauditi e israeliani affermando che non revocherà le sanzioni imposte dagli Usa all’Iran sino a quando Tehran non tornerà a rispettare l’accordo internazionale del 2015 sul suo programma nucleare, sebbene a mandare in frantumi l’intesa sia stato il suo predecessore Trump. Israele comunque mette le mani avanti. Ieri il premier Netanyahu ha detto perentorio che le Alture del Golan, un territorio siriano che lo Stato ebraico occupa dal 1967, “resteranno per sempre parte di Israele”, così come aveva riconosciuto Trump. Poche ore prima Blinken pur riaffermando che Washington appoggia l’occupazione israeliana del Golan, aveva avvertito che le cose potrebbero cambiare in futuro.