Invisibili. Il carcere che non si vuole vedere di Marcello Bortolato volerelaluna.it, 9 dicembre 2021 Partiamo da un film: “Ariaferma”, diretto da Leonardo di Costanzo e interpretato da Toni Servillo, Silvio Orlando e Salvatore Striano (attore ex-detenuto, Bruto nel film Cesare deve morire dei fratelli Taviani), in questi mesi sugli schermi italiani. Nel filmare sapientemente l’ordinaria vita del carcere il regista descrive una realtà che non vediamo abitualmente: la noia infinita, l’ozio forzoso di una condizione che dovrebbe rieducare ma invece sopprime umanità, i ritmi estenuanti, l’orribile architettura, il sapore del cibo precotto e l’odore nauseante delle celle (par di sentirlo uscire dallo schermo). Questo è, in poche parole, il carcere oggi in Italia. Forse per la prima volta al cinema, la galera viene raccontata non come ciascuno di noi se la immagina, ma per come è veramente. Il film smonta molti luoghi comuni, quelli di un racconto sociale che del carcere comunemente si fa: “in carcere si vive meglio che fuori”, “alla fine in carcere non ci va nessuno”, “bella vita: vitto e alloggio gratis e tutto il giorno davanti alla TV”. Il carcere che vi si vede, invece, è quello che è in realtà: una galera che esaurisce in sé solo la funzione retributiva della pena, quella meramente afflittiva, cioè l’antitesi del modello costituzionale che vuole la pena da un lato non disumana e dall’altro indirizzata al reinserimento. È di oggi il progressivo scollamento tra la rappresentazione ufficiale del carcere e la realtà di esso: il carcere rischia sempre di tornare a chiudersi in se stesso e in esso l’uomo, con la sua dignità, scompare diventando, appunto, invisibile. Il carcere omologa, annulla le individualità ma talvolta esse emergono con indomabile forza, come nel film, quando un soffio di vita irrompe da una situazione imprevedibile e anomala: una comunione tanto fragile quanto inaspettata si crea tra agenti e detenuti. Il carcere è anche violento, inutile nasconderlo. Sono nate numerose inchieste su fatti di violenza (San Gimignano, Santa Maria Capua Vetere, Modena). In molti casi la denuncia è partita da un gruppo di detenuti che hanno assistito ai fatti, vincendo il clima di omertà che vige in carcere. Un nuovo messaggio dunque si sta facendo strada nel mondo penitenziario: denunciare si può. Anzi, denunciare si deve: il caso Cucchi in particolare ha detto all’Italia intera che la detenzione non è un luogo di assenza dei diritti, dove ogni abuso su chi è in custodia è permesso, non è il luogo dell’impunità di fatto e, soprattutto, non può essere il luogo dell’indifferenza. Purtroppo, peraltro, la violenza in carcere esiste e quando persiste è un elemento di sistema. Solo la fermezza e la netta condanna di ogni episodio di violenza in carcere da parte dell’amministrazione penitenziaria e della magistratura potrà portare a un cambiamento. Quindi tutt’altro del “si vive meglio che fuori”. Che il carcere sia un problema sociale, oltreché morale e politico, che pone sotto gli occhi di tutti il tema della sua compatibilità con la tutela della dignità umana, è un fatto: si potranno mettere in atto tutte le misure possibili per alleviare le sofferenze e rendere sopportabile la condizione carceraria, ma non si potrà mai eliminare l’amputazione del primo diritto dell’essere umano: il diritto al proprio tempo. Nel nudo concetto del carcere percepiamo, con turbamento, una mutilazione di umanità. Allorché il comune cittadino passa davanti a un carcere (evento ormai sempre più raro poiché le carceri sono state trasferite quasi tutte in orrende periferie quando non in lande desolate) percepisce un mondo che scorre chiuso al suo interno, immutabile, invisibile, fermo, mentre tutto il resto scorre. La visione di un carcere provoca nell’uomo la frustrazione di dover giustificare uno strumento che, per quanto possa essere sottoposto a garanzie, conserva sempre “un’intrinseca brutalità che ne rende problematica e incerta la legittimità morale e politica” (Ferrajoli). 2. Il problema della pena è complesso perché è impossibile individuare una risposta definitiva ed è incerto il futuro su una soluzione alternativa meno disumana, che ancora non si intravede. Nel punire c’è l’essenza dello Stato che ha il monopolio della forza legittima e sostenere l’abolizione della pena significherebbe minare le fondamenta dello Stato. Ciò non toglie che la questione umanitaria, in tempi di detenzione in condizioni degradanti, abbia posto prepotentemente il problema della “fuga dal carcere”, a riprova che per venire incontro a ciò che la dignità implica bisogna uscire dal carcere. Lì si confinano il più delle volte le nostre paure, il senso di insicurezza e l’inaccettabilità del voler assistere alla sofferenza altrui: quindi da esso si rifugge, come si rifugge dal male. La funzione retributiva, che pure ha in sé una sua legittimità anche morale, soddisfa solo la reazione emotiva e immediata alla commissione del reato. Ma la retribuzione, sempre più vista come un modo per privare la libertà e infliggere sofferenza al reo, ha una sua legittimità solamente in una cornice di legalità e ragionevolezza. Questo significa “pena certa” e non altro. Soprattutto essa non può voler dire solo “certezza del carcere”. La retribuzione ha senso solo se è innanzitutto proporzionata al reato commesso, e non solo a ciò che “vuole la gente”, altro inaccettabile luogo comune. Ma come nasce il male? E come si risponde ad esso? Vi sono studi criminologici che hanno passato in rassegna il genocidio in Ruanda, i suicidi e gli assassini di massa dei membri di diverse sette religiose, gli orrori dei campi di concentramento nazisti, la tortura praticata dalla polizia militare e civile e la violenza sessuale perpetrata su parrocchiani da sacerdoti cattolici. E si ricorda il cosiddetto “Esperimento carcerario di Stanford”: nel 1971 vennero reclutati con un annuncio su un giornale alcuni studenti “sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento”. L’esperimento doveva durare due settimane e coinvolgere i soggetti, suddivisi casualmente tra un gruppo di guardie e uno di detenuti, in una simulazione di vita carceraria, allo scopo di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti. Dopo soli cinque giorni, i lavori furono però interrotti: gli studenti che rivestivano il ruolo delle guardie si erano inaspettatamente trasformati in spietati aguzzini. È l’”effetto Lucifero”: la possibilità, cioè, che alcune particolari situazioni siano in grado di indurre persone ordinarie a compiere i peggiori crimini. Certamente emergono situazioni difficili e per molti aspetti inquietanti ed esistono delitti efferati rispetto ai quali non sembra esservi alcuna pena idonea a compensare il male che hanno provocato. Si tratta, tuttavia, di situazioni che vanno restituite alla loro complessità, alle loro caratteristiche reali e, soprattutto, alla loro effettiva possibilità di evoluzione. “Qui entra l’uomo, il reato sta fuori”, così sta scritto all’entrata del vecchio carcere ottocentesco di Pianosa, vale a dire che l’uomo è ciò che è non il reato che ha commesso. Herman Hesse diceva: “nessun uomo è tutto nel gesto che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare il tempo”. Bisogna per questo affermare che la pena non può che essere ricondotta alla funzione indicata dall’articolo 27 della Costituzione: un’utilità rieducativa inserita in un disegno più grande di reinserimento sociale. Classicamente, nella storia, la pena ha avuto diverse funzioni: retributiva, special-preventiva, di prevenzione generale e di mera funzione custodiale. La nostra Carta, pur non prendendo posizione sulle funzioni storiche della pena, impone che, qualunque essa sia, deve tendere al reinserimento sociale. Questo è il punto di partenza. Per la nostra Costituzione nessuno è irrecuperabile: nemmeno la pena dell’ergastolo - che tendenzialmente è in contraddizione con il principio rieducativo - può essere esclusa da una finalità di reinserimento sociale. Se è vero che il carcere è nato come una forma di monopolio della vendetta, limitando quella privata delle vittime nei confronti del reo, nel corso del tempo si è spesso trasformato in una vendetta di Stato. La Costituzione invece, nonostante i desideri di molta parte dell’opinione pubblica, ci obbliga a immaginare una funzione che non si riduca a una semplice catena di sofferenze e dolore. Esprimere una detenzione che sia solamente una privazione dei diritti fondamentali non consente al condannato di uscire dal carcere, come tutti vorremmo, come una persona diversa da quella che vi è entrata. Non è utile a nessuno un carcere che sia solo una “vendetta pubblica”. La strada da percorrere in coerenza con i principi costituzionali è certamente difficile, ma da praticare e svelare di caso in caso, anche se questo è certamente meno appagante della punizione esemplare, che è invece l’atteggiamento che caratterizza l’approccio odierno alle questioni carcerarie. Eppure la realtà italiana oggi ci restituisce un carcere in cui le condizioni peggiorano di giorno in giorno e la pandemia ha acuito le difficoltà. Le cause sono note a tutti e ormai ci si stanca di ripeterle: tassi di carcerizzazione elevati dovuti a politiche criminali dettate dal populismo penale di molte, troppe, leggi “carcerogene” (una fra tutte: quella in materia di stupefacenti), opera di politiche che non intervengono sui problemi da cui il disagio dell’insicurezza sociale è prodotto; scarso sviluppo delle misure alternative alla detenzione; una gestione penitenziaria per troppi anni fallimentare e talvolta distratta se non indifferente; infine, scarsa attenzione alla fase esecutiva della pena (che, a livello giudiziario, si concentra solo sul processo mentre ci si vergogna del carcere, figlio “illegittimo” cui si dedica solo qualche disattento sguardo, tanto che a occuparsi di carcere nel sistema giudiziario italiano vi è solo una sparuta compagine di poco più di 200 magistrati di sorveglianza). 3. Ci sono tuttavia degli spiragli nuovi: il territorio inesplorato della “giustizia riparativa” ha fatto capolino nella recente legge delega n. 134/21 voluta dalla Ministra Cartabia. Si tratta di un passaggio ulteriore anche rispetto al modello rieducativo. La giustizia riparativa è un paradigma di giustizia alternativa o, se si vuole, complementare, a quello classico per il quale la risposta al reato non deve essere solamente la pena detentiva. Il reato non può essere considerato solo come violazione di una norma astratta, ma deve essere concepito come una ferita, una lacerazione sociale. E come si può porre rimedio a questa lacerazione? Con i processi di mediazione tra vittima e colpevole ad esempio, oppure con le opere di riconciliazione sociale fatte in Sudafrica dopo l’apartheid, in cui lo Stato rinuncia in tutto o in parte alla sua pretesa punitiva purché il condannato sia sollecitato, su un presupposto di verità, a realizzare forme di riparazione che possono spaziare dalle scuse formali al risarcimento del danno, oppure a forme di lavoro gratuito a favore della collettività. Questo paradigma non è applicabile a tutti i tipi di reato e a tutti i livelli di pericolosità, ma sicuramente è uno sguardo possibile nel tentativo di superare anche il modello rieducativo, attualmente in grande sofferenza. Nuovi orizzonti, dunque, si affacciano. L’auspicio è che, imboccate strade diverse o complementari che ampliano e non riducono la risposta al crimine, anche il volto tradizionale del carcere possa cambiare. Cartabia: “C’è troppo carcere, cosa ci fa in cella un malato mentale?” Il Riformista, 9 dicembre 2021 “C’è troppo carcere: il malato mentale cosa ci fa in cella?”. Lo chiede, sperando che si arrivi presto a una soluzione concreta (perché di parola ne sono già state spese tante), la ministra della Giustizia Marta Cartabia che torna ad affrontare il delicato tema del sovraffollamento dei penitenziari in Italia. “Visitando le carceri mi sono resa conto che è un universo molto vario” e che “c’è bisogno di risposte diverse”. La presenza in carcere del malato mentale “destabilizza il clima ed è un problema per gli agenti del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria”, anche se “ci sono le Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ndr) da potenziare”, così come “più si dà la possibilità di reinserimento, minore è il rischio della recidiva”. Nel corso del suo intervento ad Atreju, la convention di Fratelli d’Italia oggi (8 dicembre) a Roma, la ministra si sofferma sul tema del sovraffollamento considerato sempre più “crescente” perché “siamo a oltre 54.500 detenuti su una capienza regolamentare di 43mila. È un problema molto serio. Bisogna aggredire questo problema su una pluralità di fronti”. Uno di questi è relativo ai carcerati di nazionalità straniera. In quest’ottica “ha ragione Meloni quando ha posto la questione degli stranieri - ha sottolineato Cartabia - Il 30% dei detenuti sono stranieri. Noi stiamo cercando di potenziare accordi ad esempio, con l’Albania: abbiamo aiutato a costruire delle carceri là perché possano tornare nella loro patria per espiare la pena”. Altra strada indicata per sgonfiare le carceri è quella relativa alla pena alternativa: “Un piccolo furto - osserva la Ministra - non è uguale a un reato di mafia” e “si deve affrontare anche con le sanzioni alternative”. Problema, cronico, da risolvere è anche quello dell’edilizia carceraria “perché ci sono degli istituti davvero vergognosi”. I penalisti: “Basta pm al capo del Dap, non puntano sulla rieducazione” di Viviana Lanza Il Riformista, 9 dicembre 2021 Immaginate il Dap, cioè quell’articolazione del ministero della Giustizia che si occupa di carcere e di tutto ciò che gli ruota attorno, come una grande azienda. Gli uffici ministeriali romani sarebbero la sede centrale, gli undici provveditorati regionali sarebbero le filiali sul territorio e i duecento istituti di pena del Paese sarebbero gli stabilimenti. Avrebbe una forza lavoro composta da circa sessantamila persone, i detenuti. “Potrebbe essere la più grande azienda d’Italia - suggerisce l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere penale italiane - Ci vuole un manager che possa mettere al servizio delle città, e non solo dei detenuti, le persone che vogliono lavorare. Continuamente - aggiunge - si sente parlare solo di mancanza di risorse, ma perché non si fanno lavorare i detenuti a questo punto? Perché i laboratori delle carceri non possono prendere commesse esterne? L’amministrazione penitenziaria riuscirebbe a mantenersi da sola”. Ma il manager chiamato a gestire questa grande azienda dovrebbe essere una persona con competenze e sensibilità varie e vaste, sensibile anche e soprattutto allo scopo rieducativo che la pena deve avere, e non perché lo dicono i garantisti ma perché lo dice la Costituzione. E quindi viene da dire che la vera rivoluzione da operare non dev’essere solo quella culturale, mirata all’opinione pubblica. Ci vorrebbe anche una rivoluzione all’interno del Dap. A partire dalla scelta dei capi. “Dei 14 capi che si sono alternati alla guida del Dap, 12 provenivano dalla Procura e la maggior parte dalla Dda. Questo - sottolinea l’avvocato Polidoro - per dire che la politica pensa solo alla sicurezza, non pensa all’articolo 27 della Costituzione e ritiene che l’unica cosa importante sia la sicurezza, anche per la verità un falso concetto di sicurezza. La soluzione che prospettiamo, quindi, è che l’indirizzo debba cambiare”. Il Dap, dunque, non dovrebbe più essere appannaggio della sola magistratura. Un tema, questo, che è stato tra gli argomenti al centro di una lunga giornata di tavole rotonde che si sono svolte ieri, organizzate dal garante campano Samuele Ciambriello, d’intesa con la Conferenza nazionale dei garanti territoriali. “Scegliere la libertà? Carcere, misure alternative e magistratura di Sorveglianza” è stata la traccia attorno alle quale si sono confrontati garanti, docenti universitari, giuristi, magistrati di Sorveglianza, penalisti. Per il professor Giovanni Fiandaca, giurista e docente universitario, è necessario riformare il sistema penitenziario collocando ai suoi vertici “personalità votate alla prospettiva rieducativa”. “Un’esigenza che da tempo immemorabile condivido - aggiunge - Da decenni a capo del Dap non si scelgono soggetti votati alla prospettiva rieducativa”. Ma poi cosa si intende davvero per rieducazione all’interno del sistema penitenziario? L’argomento è più complesso di quel che appare. Le riflessioni fluttuano tra il dovere amministrativo-politico e il diritto sociale. Il concetto di rieducazione è un campo vasto, in cui le pronunce della magistratura di Sorveglianza spaziano dal ravvedimento maturo alle implicazioni moralistiche, da valutazioni sul carattere pentitistico o perdonistico a considerazioni su eventuali atti di riparazione del danno. “Occorrerebbe invece individuare delle linee comuni”, sottolinea Fiandaca puntando l’accento anche sulle misure alternative: “Più che come misure di decarcerizzazione andrebbero viste come misure rieducative”. In tutto questo discorso un ruolo centrale lo ricopre la magistratura di Sorveglianza, un settore della magistratura su cui, secondo Maria Antonia Vertaldi, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, andrebbero concentrate più risorse e di cui andrebbero meglio definiti i compiti e i ruoli. “Siamo figli di un dio minore, ultimi perché ci occupiamo degli ultimi - afferma intervenendo alla tavola rotonda a Napoli - lontano da passerelle, da persone che vogliono arrivare e fanno processi mediatici e portano avanti idee per le quali la politica deve essere securitaria e non la politica del rilancio e della tutela del diritto del detenuto”. La pandemia non ha fatto altro che acuire cronici problemi. “Ci siamo dovuti confrontare con misure gattopardesche e rimaneggiate, già presenti nel nostro ordinamento, e che ad oggi non considerano affatto le difficoltà degli uffici di Sorveglianza”, sottolinea il garante Ciambriello. Per Carmelo Cantone, provveditore ad interim della Campania oltre che provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Molise e Abruzzo, “il carcere come contenitore non ce la può fare e deve dimagrire, che piaccia o meno”. “Ora - aggiunge - non c’è da pensare a grandi riforme ma qualche totem bisognerebbe abbatterlo. Bisognerebbe ragionare, in particolare, sul totem del 4 bis soprattutto in relazione ai reati di seconda fascia, perché ci sono persone con un fine pena vicino che potrebbero essere preparate alle dimissioni e invece non possono esserlo in quanto hanno questo bollino del 4 bis”. Il carcere minorile non è rieducazione: ora aboliamolo di Simona Giannetti Il Dubbio, 9 dicembre 2021 La battaglia del Partito Radicale che farà visita ai detenuti dei 17 Istituti penitenziari minorili nei giorni che anticipano il Natale. Sarebbe legittima secondo Costituzione la limitazione all’accesso dei minorenni detenuti alle misure alternative. Lo ha annunciato la Corte Costituzionale nel comunicato del 2 dicembre scorso, osservando che “non sono fondate le censure alle norme sui limiti massimi di pena previsti per consentire ai condannati minorenni di accedere alle misure di comunità dell’affidamento in prova ai servizi sociali e della detenzione domiciliare”. La ratio starebbe dunque nel fatto che, non essendo previsti automatismi nei limiti di accesso, per il minore resterebbe garantita l’individualizzazione del trattamento penitenziario e la salvaguardia dei principi costituzionali di protezione dell’infanzia e della gioventù oltre che di finalizzazione rieducativa della pena. Censurati, davanti alla Corte da parte del Tribunale per i Minorenni di Brescia, sono stati gli articoli 4 e 6 del decreto legislativo 121 del 2018, che prevedono l’affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare: la Consulta ha stabilito la loro non contrarietà ai principi costituzionali rispetto agli articoli 3, 27 e 76 della Costituzione. Non solo, per la Corte neanche sussisterebbe irragionevolezza nella scelta del legislatore, in quanto la stessa sarebbe il risultato di una ponderazione tra gli interessi coinvolti. È da dire che però le norme in questione limitano al minore detenuto di poter accedere all’affidamento e alla detenzione domiciliare solo a un certo punto dell’esecuzione, quando cioè la pena residua da espiare sia al di sotto della soglia rispettivamente di 4 anni e 3 anni di reclusione. Ebbene a questo proposito la Consulta argomenta che la decisione tiene in conto delle fondamentali esigenze di tutela connesse alle condotte criminose che siano state ritenute meritevoli di sanzioni penali elevate; ciò considerato, osserva sempre sul punto la Corte, che il limite di pena realizzerebbe una ponderazione che non contrasterebbe con i diritti fondamentali per il condannato minorenne. In soldoni siccome i limiti di accesso non sono correlati al tipo di reato, ma alla soglia di pena da espiare, non si creerebbe alcun automatismo. Tuttavia di illegittimità attenta all’automatismo, la Corte si è occupata con la sentenza 263 del 5 novembre 2019, quando diede un colpo di spugna alla disciplina dell’ostatività dell’art 4 bis c. 1, stabilendo che la stessa non dovesse applicarsi nel caso di concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio ai minorenni condannati. Seguendo di pochi giorni la sentenza 253 del 2019 - che invece aveva censurato la preclusione assoluta all’acceso ai permessi premio dei non collaboranti laddove fossero emersi in concreto elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata-, la Corte con riguardo ai condannati minorenni con la successiva sentenza 263 eliminava del tutto la collaborazione, come preclusione automatica per i reati del 4 bis. Si trattava del caso di un minore condannato alla pena di 5 anni di reclusione per art. 416 bis cp e con un residuo da espiare di circa un anno e mezzo: in mancanza di collaborazione, come prevede l’art 4 bis comma 1 che appunto il d.lgl. 121/218 non aveva risparmiato neanche per i minorenni, la misura alternativa non era accessibile. La Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità del 4 bis, ricordava al legislatore che la sua disciplina non fosse coerente con gli approdi evolutivi che aveva offerto con le sue pronunce, negli anni volte a modellare la fase esecutiva in chiave sempre più costituzionalmente orientata. Fu infatti del 1994 la sentenza 168, che dichiarava incostituzionale l’ergastolo per i minorenni, e fu del 2017 la sentenza 90, che dichiarava l’illegittimità del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione per certi reati ostativi. Sembra che la Corte Costituzionale negli ultimi anni abbia quindi cercato di tracciare le linee di una esecuzione della pena da parte del minorenne sempre più lontana dalle mura del carcere: tuttavia, con la pronuncia di qualche giorno fa, si può dire che potrebbe aver perso l’occasione per aprire le porte ad una effettiva finalità rieducativa della pena, eliminando del tutto ogni limite di accesso anche per soglia di pena alle misure extra murarie. Considerare le misure alternative non come se fossero un premio, ma come strumento di effettiva esecuzione, dando alle prime pari dignità di una pena eseguita in carcere, potrebbe essere la via per tutelare la sicurezza ma anche per garantire a pieno la dignità del minore, rafforzandone il senso di responsabilizzazione e di appartenenza alla collettività. L’esperienza carceraria nel minore ha dimostrato che il suo isolamento lo allontana dal senso di appartenenza nella società, al contrario incentivando la costruzione di identità false sul convincimento, che le condotte devianti siano quelle che conferiscono visibilità tra i consociati. Abolire il carcere per i minorenni e incentivare come unica via quella delle misure alternative o penali di comunità ben sembra l’obiettivo più coerente con il senso costituzionalmente direzionato dell’esecuzione della pena da parte del minore. Della battaglia se ne sta occupando il Partito Radicale, con l’obiettivo di abolire il carcere per i minorenni, come reso manifesto in occasione del Congresso di Napoli del novembre 2019, a ridosso del trentesimo anniversario della Convenzione Onu approvata dall’Assemblea Generale il 20 novembre 1989 sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Per continuare sul solco tracciato verso l’abolizione del carcere per i minorenni, il Partito Radicale farà visita ai giovanissimi detenuti dei 17 Istituti penitenziari minorili nei giorni che anticipano il Natale, per rammentare alle Istituzioni di farsi loro carico, anche e soprattutto in ragione di quanto previsto dalla nostra Costituzione e dalle Convenzioni internazionali. I diritti umani siano la guida anche dell’architettura penitenziaria di Domenico Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 9 dicembre 2021 In coda all’importante convegno organizzato a Roma sabato 4 dicembre dalle Camere Penali sul tema della “Riforma penitenziaria, dove eravamo rimasti”, non so che tipo di carcere ideale abbia visitato uno dei relatori invitati sabato scorso, consulente da anni per l’architettura penitenziaria del Dap. Con la stessa disinvoltura con la quale Ennio Flaiano narra il paradosso nel suo libro Un marziano a Roma, quasi a lamentarsi del fatto, senza alcun imbarazzo l’oratore ha ammesso che “il carcere di oggi non fa più paura a nessuno”. Non si è capito dal tono della voce se fosse seccato o deluso di ciò. Secondo l’architetto, ormai nessuno teme più la reclusione. Per questa affermazione un vento gelido è passato dalla platea al tavolo dei conferenzieri, tra i quali il sottosegretario alla Giustizia, avvocato Francesco Paolo Sisto, il Garante nazionale professor Mauro Palma. Certamente il ghiaccio si è posato sull’avvocato Francesco Petrelli che ha sentito il dovere, in quella fase come chairman del convegno, di commentare quanto detto dall’architetto in chiusura del suo intervento, sostenendo che “la paura non può essere il metro corretto per misurare la validità del sistema penitenziario”, avendo fin troppo presente cosa rappresentino alcune carceri italiane come quello di Santa Maria Capua a Vetere. Ma alla domanda posta dal presidente dell’Unione Camere penali italiane, avvocato Gian Domenico Caiazza, del perché la questione penitenziaria in Italia sia ferma al palo da anni viene il dubbio che, ferme restando le responsabilità della politica che stenta a promuovere una riforma ragionata e seria sulla questione dell’esecuzione penale, ci sia anche una certa inerzia culturale nell’apparato amministrativo fatto di consuetudini e rapporti consolidati che vanno al di là, talvolta, dall’effettiva motivazione politica e culturale umanitaria. Quest’ultima, in quanto non secondaria fonte per meglio comprendere l’articolo 27 della Costituzione, rappresenta anche per l’architettura il riferimento umanitario per proporre adeguate soluzioni tecniche e non ridondanti esercizi stilistici modello Nola. Dopo i fatti orribili successi a Santa Maria Capua a Vetere, per i quali solo grazie ai sistemi di videosorveglianza si è potuto fare luce sulla brutalità del carcere, chi ancora lamenti che oggi “purtroppo” nessuno abbia più paura della detenzione dovrebbe stare lui stesso lontano dai problemi del carcere per il rispetto della Costituzione e di chi suo malgrado è ristretto. Il concetto infelice rappresentato in quella sede prestigiosa si configura di fatto sinonimo del giustizialismo, interpretando ancora il carcere con l’inevitabile paura di esso come il necessario strumento e fine dell’esecuzione penale. Una opportuna riflessione in proposito non è più rinviabile. Occorre che finalmente in Italia si affermi quell’auspicato processo virtuoso dove non prevalgano solo generiche disquisizioni di architettura di fatto inutili esercizi retorici privi della necessaria motivazione e cultura umanitaria. Anche per gli architetti quello dei diritti umani è un attributo non accessorio che dovrebbe essere la garanzia di un rispettoso procedere quando si lavora per la giustizia e per l’esecuzione penale. *Vice Presidente Centro Europeo Studi Penitenziari Ansa Zanzami, suicida in carcere. La Corte europea dei diritti dell’uomo ci bacchetta di Giulio Cavalli Il Riformista, 9 dicembre 2021 I fatti risalgono al 2015, quando il ventinovenne marocchino venne arrestato e nonostante i problemi psichiatrici fu abbandonato in cella. Gli avvocati Anselmo e Mascia hanno presentato ricorso. La Corte europea ancora una volta ha sottolineato l’inadempienza della giustizia italiana nei confronti di un detenuto nelle carceri italiane. Era il 15 aprile del 2015 quando Anas Zanzami, 29 enne marocchino, viene arrestato dai carabinieri di Urbania, Pesaro, per una condanna a un anno e sei mesi per resistenza a pubblico ufficiale e per aver fornito generalità false. Anas avrebbe potuto chiedere misure alternative alla detenzione entro 30 giorni evitando il carcere. Ma, come spiega l’avvocato Fabio Ansehno, che insieme all’avvocata Antonella Mascia e all’associazione Antigone hanno presentato il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, “il provvedimento viene tuttavia notificato, il 13/11/2013, a un avvocato del foro di Roma il cui nome non risulta indicato. La sospensione viene quindi revocata e Anas, ignaro, viene portato nel carcere di Pesaro. Interviene allora un avvocato pesarese che chiede al Tribunale di sorveglianza di Ancona di poter ottenere, per Anas Zenzami, il beneficio della detenzione domiciliare. Viene fissata l’udienza per il 21 ottobre 2015. La pena è esigua e i reati di modesta gravità. Anas ne ha diritto. L’esito è scontato ma il ragazzo marocchino deve attendere che la burocrazia faccia il suo corso. 1115 aprile, dunque, fa ingresso in carcere”. Il detenuto nel carcere pesarese di Villa Fastiggi però non sta bene, le sue condizioni di salute mentale sono incompatibili con il carcere, vengono prescritte infatti “in maniera perentoria e continuativa un regime di grande sorveglianza” e “la necessità di un ricovero in un ambiente idoneo alla valutazione e alle cure”, nonché il “trasferimento in tempi brevi in un centro di osservazione Psichiatrica” e viene di nuovo “raccomandata un’attenta sorveglianza”. Anas Zanzami è uno di quelli che ce l’ha scritto addosso che dal carcere potrebbe non uscire mai vivo e nonostante bastino poco più di 4 mesi per uscire e riottenere la libertà il suo stato mentale non gli permette di rendersene conto. Iniziano da qui numerosi episodi di autolesionismo. Zanzami rifiuti le cure, rifiuta il cibo, rifiuta l’acqua. Come racconta l’avvocato Anselmo “vengono osservati in lui stati di delirio e agitazione psicomotoria. Nell’agosto dello stesso anno viene ricoverato per tre volte all’ospedale di Pesaro “a causa di un forte stato di anoressia, disidratazione e steatosi epatica”. Il 5 settembre tenta il suicidio in carcere provando ad impiccarsi. Gli viene diagnosticata una grave psicosi paranoide. Viene allora trasferito all’istituto di osservazione psichiatrica di Ascoli Piceno dove vi rimane ricoverato una ventina di giorni per poi essere dimesso come “guarito”“. Il 24 novembre viene rispedito nel carcere di Pesaro. Per guarire però non basta una certificazione e nonostante venga disposta una massima sorveglianza a intervalli di 15 minuti Anas Zanzami viene trovato nella sua cella impiccato. Il caso, come troppo spesso accade, viene considerato dalla Procura come “un evento letale non previsto, non prevedibile ed inevitabile”. Il Tribunale però non è d’accordo e così inizia un interminabile balletto di richieste di archiviazioni (ben tre) tutte respinte prima dell’archiviazione finale. L’avvocato Anselmo insieme all’avvocata Mascia e Antigone presentano ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: “Ci crediamo - scrive Fabio Anselmo. Lo facciamo perché gli è stato negato il sacrosanto diritto alla vita e gli sono pure stati inflitti trattamenti disumani e degradanti. Quelli che per la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo vengono qualificati come tortura. Lo facciamo per la sorella di quel povero ragazzo, per Vania Borsetti di Antigone che tanto si è impegnata coi suoi ragazzi”. Ora la Corte Europea chiede all’Italia se il detenuto “è stato sottoposto ad un trattamento inumano e degradante in violazione all’articolo 3 della Convenzione” e se “le autorità responsabili hanno disatteso il loro obbligo di assicurare che la salute del fratello fosse adeguatamente garantita, fra le altre cose, fornendogli un’assistenza medica appropriata ed efficace”. La palla passa ora alla ministra alla Giustizia Cartabia: un suicidio a pochi giorni dalla liberazione merita risposte. Csm, ecco le nuove regole per il voto e le nomine di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2021 Oggi il confronto tra ministra Cartabia e maggioranza sulla riforma già presentata all’Anm. Le proposte diventeranno emendamenti al ddl in discussione alla Camera. Nessun aumento del numero dei consiglieri; sistema elettorale maggioritario e binominale; possibilità di sorteggio in caso di candidature insufficienti e per assicurare la parità di genere; vincoli sull’assegnazione degli incarichi direttivi e sulle valutazioni di professionalità; riduzione del numero delle toghe fuori ruolo; riforma della disciplina del rapporto tra magistrati e politica con rigorosa disciplina del rientro in magistratura. E poi concorso per l’accesso in magistratura possibile subito dopo la laurea con tre scritti e riduzione delle materie orali; controllo su ritardi e pendenze affidati a chi ricopre incarichi semidirettivi, con specifica responsabilità disciplinare per chi omette la segnalazione. Ecco i contenuti della riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario ormai in corso di avanzata elaborazione al ministero della Giustizia. Le proposte che saranno tradotte in emendamenti al disegno di legge in discussione alla Camera, sono state già presentate all’Anm e oggi saranno oggetto di confronto tra la ministra Marta Cartabia e le forze di maggioranza. La riforma, da ultimo sollecitata dallo stesso Capo dello Stato, Sergio Mattarella, passa anche per un nuovo meccanismo elettorale perla scelta dei consiglieri del Csm. Detto che il numero dei consiglieri togati dovrebbe restare quello attuale, cioè 16, il sistema individuato, che dovrebbe limitare l’influenza dei gruppi organizzati nella scelta delle candidature, prevede la costituzione di 7 collegi nazionali (uno di legittimità, due per i pubblici ministeri, quattro per i giudici). La preferenza sarebbe unica e a essere eletti sarebbero i primi due candidati più votati. Gli ulteriori due consiglieri sarebbero scelti come migliori terzi classificati in percentuale sui voti effettivamente espressi. Per assicurare un numero di candidature sufficiente, un po’ come già previsto dal disegno di legge Bonafede, e per garantire la parità di genere sarebbe introdotta anche una forma di sorteggio, pescando per esempio tra candidate che non hanno espresso indisponibilità all’elezione. Per quanto riguarda un altro tema assai delicato, quello delle nomine agli incarichi direttivi, la proposta invia di ultima definizione formalizza la prassi “antipacchetti”, con l’obbligo di trattazione delle pratiche secondo l’ordine cronologico di vacanza, obbliga all’audizione i candidati che già hanno superato una prima selezione, prevede che siano ascoltati anche magistrati, avvocati e personale amministrativo della sede di lavoro del candidato. Il criterio di anzianità resta residuale per evitare di perdere per strada il migliore candidato per ragioni solo anagrafiche. Tra un direttivo e l’altro potrebbe poi essere prevista una pausa per evitare la corsa da un incarico all’altro. Sarebbero poi 4 i gradi di valutazione: idoneo, discreto, buono e ottimo, con quest’ultimo assegnato solo all’unanimità. Per la selezione dei magistrati di Cassazione, trai criteri ci sarà anche la tenuta, nei passaggi successivi, dei provvedimenti emessi. Intervento tanto più urgente dopo l’esplodere del caso Maresca (leader del centrodestra nel consiglio comunale a Napoli e giudice in Corte d’Appello a Campobasso), la riforma punta a stringere le maglie sul ritorno in magistratura di chi è stato eletto o anche solo candidato, evitando per 5 anni il rientro dove si era lavorato, la preclusione alle funzioni di Gip, Gup, Pm, di ricoprire incarichi direttivi e semidirettivi e di presidenza di un collegio. Andrà poi ridotto il numero delle toghe fuori ruolo dalle 200 attuali con puntualizzazione degli incarichi e distinzioni dalle aspettative. La piccola riforma del Csm presentata ai partiti di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 9 dicembre 2021 Legge elettorale per il Csm solo ritoccata: resta il maggioritario. Limiti, ma non muri tra le toghe e gli incarichi politici. Oggi la ministra riceve i rappresentanti della maggioranza. Uno alla volta. Incontri bilaterali: la ministra della giustizia e il suo staff ricevono un partito alla volta i (tanti) rappresentanti della maggioranza. A partire da questa mattina alle otto, in via Arenula. La formula dice bene a quale punto del lungo cammino della riforma del Consiglio superiore della magistratura siamo. Non al punto finale. La ministra presenterà gli emendamenti con i quali intende riscrivere il vecchio testo Bonafede - martedì ai magistrati dell’Anm non ha consegnato un testo, limitandosi a un riassunto -, per trovare la sintesi politica servirà altro tempo. Del resto, ha detto Marta Cartabia ieri sera alla festa invernale di Fratelli d’Italia (“è l’unico invito di partito che ho accettato perché è importante dialogare con l’unica opposizione”), “dalle forze politiche ho ricevuto solo indicazioni in negativo, su cosa non avrei dovuto fare”. La riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm è il terzo tempo degli interventi sulla giustizia. Una riforma strutturale che, come nel caso dei nuovi codici di procedura penale e civile, è affidata in buona parte a una delega al governo. Ma c’è anche una parte urgente, lo ha ricordato spesso Mattarella, sulle nuove norme del Consiglio. Nel capo IV del vecchio testo Bonafede c’è la nuova legge elettorale per la componente togata del Consiglio, di immediata applicazione. E siamo già in ritardo, visto che il Consiglio in carica scade a settembre e le elezioni sono in programma a luglio. Tenerle con le vecchie regole è impossibile, tanto che si sta già ipotizzando uno slittamento delle urne a inizio settembre. Questo perché la nuova legge elettorale dovrebbe dare un taglio a quello che è universalmente indicato come il difetto numero uno del sistema attuale: il peso delle correnti della magistratura associata. Vero o falso che sia, c’è però da dubitare che il sistema che la ministra si avvia a proporre possa essere efficace. Le novità infatti sono assai limitate. Sistema elettorale maggioritario quello attuale - presentato anche questo dal governo Berlusconi quasi vent’anni fa come uno strumento anti correnti -, sistema elettorale maggioritario quello proposto. Con una novità nei collegi, che da tre passerebbero a otto, ognuno dei quali con due posti in palio. Un sistema fatto apposta per un bipolarismo giudiziario, non a caso il preferito della corrente della magistratura che ha il vento in poppa, avendo appena vinto le elezioni per il rinnovo delle giunte esecutive di sezione. Ed è proprio la corrente più coinvolta dallo scandalo Palamara: la destra di Magistratura indipendente. Cartabia dunque ha abbandonato l’opzione per un sistema proporzionale che era contenuta nelle proposte della commissione da lei insediata, guidata dal costituzionalista Luciani. Mossa simile a quella già vista nel caso della riforma del processo penale, necessaria per trovare un punto di incontro nella sua composita maggioranza, con destra e 5 Stelle a tirare in direzione opposta e il Pd nel mezzo. Infatti la ministra già dice: “È la riforma percorribile, non la mia riforma ideale”. A conti fatti, se il numero dei magistrati nel Csm salirà da 16 a 20, per la quota proporzionale alle terze forze (se non a quelle fuori dalle correnti) resteranno appena quattro posti da recuperare con i migliori terzi classificati. Se l’esito sarà questo, modesto, certamente avrà pesato il fatto che l’Anm non si è presentata all’appuntamento con una posizione condivisa, non mancando neanche le toghe che ancora insistono a proporre l’incostituzionale sorteggio. Una cosa la ministra l’ha detta ieri sera: con la riforma casi come quello di Maresca, l’ex pg candidato sindaco a Napoli che resterà in consiglio comunale rientrando nelle funzioni alla Corte d’appello di Campobasso, non si potranno ripetere. Basterà recepire le proposte della commissione Luciani, che prevede infatti l’incompatibilità oltre che l’ineleggibilità nel distretto e il divieto di tornare nel ruolo in sedi anche solo limitrofe. Una stretta importante rispetto alla situazione di oggi, anche se non è quel muro tra magistratura e incarichi politici che avrebbe voluto alzare Bonafede. L’altolà di Cartabia “Alla politica dico: mai più casi Maresca” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 dicembre 2021 La Guardasigilli dura sulla toga eletta in consiglio comunale e reintegrata dal Csm. L’indipendenza della magistratura è “la stella polare”, avverte la ministra. Che dice basta alle “porte girevoli” tra toghe-politica. “Alle forze politiche proporrò che un caso come quello Maresca non possa più ripetersi: l’indipendenza della magistratura deve essere non solo pratica ma anche percepita”. Parola della ministra Marta Cartabia, commentando ieri la notizia, a cui è stato dato grande spazio, che Catello Maresca, ex pm anticamorra a Napoli e poi candidato bocciato alle recenti elezioni come sindaco del capoluogo campano, era stato destinato, a sua domanda, alla Corte d’Appello di Campobasso. Il Dubbio, però, oltre due mesi fa aveva pubblicato un articolo in cui prefigurava questo scenario: la mattina magistrato, il pomeriggio consigliere comunale a Palazzo San Giacomo. L’unica incertezza era il luogo dove Maresca avrebbe nuovamente indossato la toga. L’ex pm si era messo in aspettativa per tutta la durata della campagna elettorale. In una dichiarazione a caldo all’indomani della sconfitta, Maresca aveva fatto sapere che non si sarebbe dimesso e che avrebbe continuato il proprio impegno politico dai banchi dell’opposizione. Una decisione sicuramente presa per rispetto degli elettori napoletani che avevano creduto nella sua candidatura e molto diversa da quella di altri candidati che, sconfitti alle elezioni, il giorno seguente il voto avevano presentato le proprie dimissioni con la scusa di improcrastinabili impegni lavorativi. Vedasi Enrico Michetti a Roma. Un “sacrificio” che non si poteva chiedere a Maresca era quello di rinunciare per i prossimi cinque anni allo stipendio da magistrato della Repubblica che, come è noto, è il più elevato fra tutti quelli della Pubblica amministrazione. Anche partecipando a tutte le sedute consiliari, i gettoni di presenza non avrebbero superato i 25 mila euro annui. Poca cosa, quindi, rispetto all’emolumento da magistrato. Senza contare che il gettone non vale ai fini contributivi. Inoltre un buco di cinque anni nel curriculum avrebbe potuto essere penalizzante ai fini di una domanda per un incarico direttivo. Non sappiamo se il ragionamento di Maresca sia stato proprio in questi termini, il dato certo è che il 12 ottobre scorso il magistrato presentava domanda per tornare subito in servizio. L’aspetto sorprendente della vicenda Maresca è che era stato il centro destra a candidarlo. Una candidatura che strideva con quanto dichiarato da Forza Italia, da sempre contraria alle porte girevoli fra toghe e politica. Probabilmente il centro destra candidando nel 2021 un magistrato pensava di aver maggior appeal sull’elettorato. Ed infatti anche a Roma, come vice sindaco, aveva candidato un altro magistrato, la giudice Simonetta Matone. La dottoressa Matone, però, avendo già maturato l’anzianità necessaria era andata in pensione venti giorni prima del voto. L’affaire Maresca ha servito un assist a porta vuota alla sinistra giudiziaria, fucina negli anni passati di toghe in politica, consentendo a Giuseppe Cascini di affermare che è “inaccettabile” il doppio ruolo dell’ex pm. Maresca, per la cronaca, aveva fatto domanda per le Procure generali di Bologna, Firenze e Bari. Non essendoci posti aveva optato per una terna di giudicanti: Corte d’Appello di Campobasso, Corte d’Appello e Tribunale di Salerno. Al momento del voto il Csm si è spaccato: 11 voti a 10. Ma la legge era dalla parte di Maresca. Il Csm avrebbe forse potuto valutare per una destinazione che scoraggiasse il doppio ruolo di Maresca. Ingroia, come si ricorderà, da Palermo venne spedito ad Aosta. Quanto accaduto ha messo in luce la relativa facilità di come si possa transitare da pm a giudice e viceversa. Maresca, che in vita sua ha fatto solo il pm e non ha mai scritto una sentenza, sarà adesso chiamato a decidere le impugnazioni su quelle di primo grado. E tutto senza soluzione di continuità, non essendo previsto un periodo da dedicare alla formazione specifica. Ma torniamo alla legge che dovrebbe regolare il rapporto fra toghe e politica e che la ministra dice di aver già pronta. Presentata la prima volta nel 2001, venne approvata alla Camera per poi arenarsi in Senato. Il testo venne ripresentato, senza successo, nel 2005 e nel 2011. Nel 2014, relatori i senatori Pierantonio Zanettin (FI) e Felice Casson, magistrato ed esponente del Pd, arrivò il voto all’unanimità di Palazzo Madama. Trasmesso alla Camera, il testo rimase fermo per ben tre anni prima di essere discusso. Essendo stato modificato in radice, tornò in Senato per l’approvazione definitiva che, causa fine della legislatura, non avvenne mai. Eppure si erano create tutte le condizioni affinché il Parlamento regolamentasse la materia. Il Csm aveva votato nel 2015 all’unanimità un parere per inasprire il rientro delle toghe dopo l’esperienza politica, prevedendo il loro collocamento in altri ruoli della pubblica amministrazione. E così l’Associazione nazionale magistrati. Il Greco, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, aveva “invitato”, sempre in quell’anno, l’Italia ad introdurre leggi che ponessero limiti più stringenti alla partecipazione dei magistrati alla vita politica, mettendo fine alla ‘ possibilità per i giudici di mantenere il loro incarico in caso di elezione o nomina negli enti locali’. Proprio il caso di Maresca. Caso Maresca, l’Ircocervo della giustizia di Carlo Bonini La Repubblica, 9 dicembre 2021 Prima ancora che venga fissato da una legge dello Stato, dovrebbe essere un principio condiviso da ciascun appartenente all’ordine giudiziario che i primi difensori dell’indipendenza della magistratura dovrebbero essere i magistrati. Con i loro comportamenti. Con le loro scelte e nell’esercizio dei loro diritti costituzionali. Stremati da un trentennale discorso pubblico sulla giustizia tenuto in ostaggio da convenienze, macroscopici conflitti di interesse, livore ideologico, ipocrisia, ci ritroviamo a contemplarne esterrefatti la parabola. Che nella sua coda ci regala ora una figura inedita. Un Ircocervo della Giustizia. Metà giudice, metà politico. Ora l’uno, ora l’altro. Vestale dell’imparzialità e insieme campione eletto della partigianeria. Parliamo del magistrato napoletano Catello Maresca, la cui storia molto, o forse tutto, racconta della notte in cui è sprofondata la cultura della giurisdizione nel nostro Paese, il senso della misura di chi appartiene all’ordine giudiziario, e l’ignavia di Parlamenti incapaci di legiferare in difesa di un principio sacro delle democrazie come quello della tripartizione dei poteri e della loro separazione. Catello Maresca è un magistrato napoletano di 49 anni che, per 14 anni, si distingue come Procuratore antimafia impegnato, tra gli altri, nelle inchieste sui Casalesi. Finché la mezza età non lo convince che altro debba essere il suo destino: la politica. È una scelta legittima. Di più: un diritto costituzionale incomprimibile. Naturalmente, il senso della misura, un’idea anche solo abbozzata del principio del conflitto di interesse, e a maggior ragione una legge dello Stato, dovrebbero impedirgli di correre nello stesso distretto dove ha amministrato giustizia. Ma mancano sia l’uno che l’altra. E così, il dottor Catello Maresca si candida per il centro-destra - portabandiera da trent’anni di una battaglia dai toni messianici sulla separazione tra politica e giustizia - a sindaco di Napoli, esattamente la città dove per tre lustri è stato pubblico ministero. Il 26 maggio scorso il dottor Maresca chiede e ottiene dal Csm l’aspettativa per una campagna elettorale che lo vedrà travolto nelle elezioni di ottobre. E dunque, all’esito del voto, tutti lo immaginano di fronte a un bivio. Acconciarsi a una consiliatura da capo dell’opposizione a Napoli. O pronto a un precoce addio alla politica per un altrettanto precoce rientro in magistratura. Almeno così suggerisce la decenza. Almeno così dovrebbe imporre una legge dello Stato. Ma - di nuovo - mancano sia l’una che l’altra. Maresca chiede infatti al Csm di rientrare in magistratura conservando la sua carica di consigliere comunale e capo dell’opposizione. E il Csm, martedì scorso, dà semaforo verde destinandolo alla Corte di appello di Campobasso, a 150 chilometri da Napoli, sede non troppo disagiata. Dove godrà di permessi retribuiti ogni qual volta dovrà assentarsi per le sedute del consiglio comunale, che a loro volta gli saranno retribuite con un gettone di presenza. Dove non avrà obbligo di risiedere proprio perché consigliere comunale a Napoli. L’assenza di una legge - chiesta insistentemente dallo stesso Csm da almeno sei anni a questa parte - che impedisca a un magistrato di esercitare contemporaneamente la funzione giurisdizionale (in questo caso per giunta giudicante) e quella politica propria di una carica elettiva convince ben 11 consiglieri su 21 a non battere ciglio. Nulla da eccepire per la corrente di destra Magistratura Indipendente, per quella centrista di Unicost, per i due magistrati antimafia Di Matteo (il pm del processo trattativa Stato-Mafia) e Ardita, per i 2 consiglieri in quota Lega, per l’avvocato penalista napoletano Cerabona, rappresentante eletto dalle camere penali. Dice ora la ministra della Giustizia Cartabia “mai più casi Maresca”, impegnandosi a proporre alla maggioranza di governo, in coincidenza con l’illustrazione della riforma del Csm, norme che impediscano il ripetersi di enormità come questa. E a lei si accoda in un’intervista al nostro giornale il vicepresidente del Csm Ermini. Il che è una buona notizia. Che, tuttavia, non aiuta a scrollarsi di dosso il senso di disfacimento che questa storia trasmette. Prima ancora che venga fissato da una legge dello Stato dovrebbe essere un principio condiviso e introiettato da ciascun appartenente all’ordine giudiziario che i primi difensori dell’indipendenza della magistratura dovrebbero essere i magistrati. Con i loro comportamenti. Con le loro scelte e nell’esercizio dei loro diritti costituzionali. Perché non basta essere indipendenti. È necessario anche essere percepiti come tali. Chi spiegherà a un cittadino del distretto di Campobasso, che avrà la ventura di chiedere giustizia al collegio giudicante in cui siederà il dottor Maresca, che dovrà avere fiducia nell’indipendenza e imparzialità del suo giudizio? E dove troverà il tempo il dottor Maresca di tenere dietro alle udienze che dovrà celebrare, alle sentenze che dovrà scrivere, nel suo avanti e indietro con Napoli, città la cui cura politica da capo dell’opposizione non richiederà esattamente l’impegno che si dedica a un dopo-lavoro a un circolo del tennis? Se il Parlamento e la magistratura non hanno perso il senso della misura, ci liberino dai giudici Ircocervi. Senza farsi scudo ipocrita della Costituzione. Caso Maresca, Ermini: “Va cambiata la legge per fermare le porte girevoli tra politica e giustizia” di Liana Milella La Repubblica, 9 dicembre 2021 Intervista al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: “Noi dovevamo applicare le norme Ma si rischia così di opacizzare l’immagine della magistratura e non ce n’è proprio bisogno”. Il caso Maresca? “Serve subito una nuova legge”. Il Csm non può fare nulla? “Deve rispettare la legge che c’è, ma la situazione presenta evidenti anomalie e rischia di opacizzare l’immagine della magistratura... cosa di cui non c’è veramente bisogno”. All’indomani della decisione su Maresca parla con Repubblica il vicepresidente del Csm David Ermini. Catello Maresca, consigliere comunale a Napoli e giudice a Campobasso. Ma è mai possibile? “Non è certo il primo caso. Ce ne sono diverse in Italia di situazioni simili. Si è sempre parlato delle porte girevoli dal Parlamento agli uffici giudiziari, ma non si è mai affrontato il tema, ben più diffuso, dei giudici impegnati nella politica locale”. Forse perché non fanno notizia... “Evidentemente dev’essere così. Però la percezione che il cittadino ha dell’autonomia e dell’indipendenza del magistrato in un Comune può essere molto maggiore di quella che riguarda un parlamentare. Ma è chiaro che il legislatore deve intervenire sia a livello nazionale che locale”. Il caso Maresca non si può liquidare come “locale”. Napoli è Napoli, e lì si è svolta una grande battaglia politica... “Il Consiglio ha semplicemente applicato la legge in vigore, per la quale bisogna contemperare due diritti del magistrato, quello di rientrare nella propria funzione giudiziaria e quello di svolgere il proprio ruolo politico. Ma proprio su queste due esigenze deve intervenire il legislatore”. Sia pure, ma intanto la vicenda Maresca agita la stessa destra e ovviamente la sinistra... “Questo caso tocca il centrodestra, altri casi il centrosinistra, e poi c’è il pianeta delle liste civiche...”. Quindi ci sono molti casi? “I casi ci sono, anche se non fanno notizia”. E il Csm non può farsi carico dei timori di un cittadino che non vuole essere giudicato da chi ha già un’opinione politica? “Il Csm non può violare le leggi in vigore. Può tuttavia segnalare al Parlamento, come peraltro ha già fatto, una situazione che presenta evidenti anomalie e rischia di opacizzare l’immagine della magistratura... cosa di cui non c’è veramente bisogno. Segnalo che il Consiglio invoca la necessità di un riassetto legislativo della materia almeno sin dalla metà degli anni ‘90, evidenziando la complessità del problema con un’ampia e approfondita risoluzione del 2010 alla quale hanno fatto seguito numerose delibere rimaste tutte inascoltate”. Senta, ma Maresca non si è mostrato sensibile a questi problemi? “Io con lui non ho mai parlato, mi risulta solo che abbia avuto i rapporti formali con la struttura consiliare”. La sede da giudice a Campobasso è stata una sua richiesta o una vostra proposta? “Da quello che mi risulta è stata proprio una sua richiesta”. Il plenum non poteva mandarlo più lontano? “Non era possibile, perché non si può impedire a un consigliere comunale di svolgere il suo compito. In assenza di una specifica regolazione della materia, che spetta al legislatore, opera nella sua massima estensione il precetto contenuto nell’articolo 51 della Costituzione che assicura in via generale il diritto all’elettorato passivo: i provvedimenti del Consiglio non possono impedirne concretamente l’esercizio”. Destinarlo a Bolzano o ad Aosta? “Sarebbe stato come negargli di esercitare un suo diritto costituzionalmente garantito”. In Italia c’è un’attenzione esasperata sull’indipendenza dei giudici. Un consigliere del centrodestra appare indipendente se veste i panni del giudice? “Tale e quale come se fosse un consigliere del centrosinistra. Il problema non sta nei colori politici, ma nella sostanza. Glielo spiego: un parlamentare lavora a tempo pieno e ha un cospicuo stipendio per farlo. Invece un consigliere comunale viene pagato soltanto con i gettoni di presenza, quindi non può rinunciare al suo lavoro”. Non può mettersi in aspettativa? “No, perché fare il consigliere non porta con sé uno stipendio. Per questo il legislatore deve intervenire in modo complessivo su tutta la questione”. Cartabia oggi illustra la sua proposta sul Csm e sulle porte girevoli. Che consiglio le darebbe? “Premesso che non mi permetto di dare consigli all’ex presidente della Corte costituzionale, tuttavia la mia esperienza al Csm mi fa dire che è indispensabile mettere mano definitivamente al tema delle porte girevoli perché mai come adesso la magistratura ha bisogno di tutelare se stessa e la sua immagine”. Che mi dice della legge elettorale che si sta ipotizzando... “La fermo perché su questo, ufficialmente, non so ancora niente e quindi non posso fare alcun commento”. Presunzione d’innocenza, Cantone emana una direttiva per l’accesso agli atti di Valentina Stella Il Dubbio, 9 dicembre 2021 Il procuratore della Repubblica di Perugia Raffaele Cantone, in vista dell’entrata in vigore il 14 dicembre della nuova normativa sulla presunzione di innocenza, si è mosso in anticipo e ha emanato una direttiva, indirizzata al Questore e ai comandanti provinciali dei carabinieri e della guardia di finanza, sulle “modalità con cui vanno comunicate ai mass media le informazioni sui procedimenti penali e sugli atti d’indagine”. Ricorda che le informazioni sui procedimenti penali sono di “esclusiva competenza del Procuratore” che sarà l’unico organo “legittimato a fornire informazioni” o tramite sintetico comunicato stampa o tramite conferenza stampa, specificando che i “provvedimenti, se adottati in fase di indagine, non implicano alcuna responsabilità dei soggetti sottoposti ad indagini. I nomi delle persone raggiunte da misure cautelari personali e reali saranno contenuti nel documento solo quando tale dato si renderà necessario per garantire una effettiva completezza delle informazioni”. Poi un passaggio importante che viene letteralmente sottolineato nel documento: “Al di fuori di queste informazioni fornite ufficialmente non è consentito ad alcuno, né ai magistrati né agli appartenenti alla polizia giudiziaria, di dare ulteriori notizie ai mezzi di informazione”. Un tentativo di scongiurare il mercato nero delle notizie. “Si è consapevoli che le norme così rigorose potranno limitare il diritto degli operatori dell’informazione all’accesso alle notizie e persino, per una non voluta eterogenesi dei fini, incentivare la ricerca di esse attraverso canali diversi, non ufficiali o persino non legittimi. Per sterilizzare questo effetto negativo della riforma, si anticipa che sarà emanato un provvedimento per regolamentare l’accesso diretto dei giornalisti agli atti di indagine non più coperti da segreto”. In ultimo si invitano i destinatari della circolare a segnalare “le eventuali violazioni rilevate”. Per l’onorevole di Azione Enrico Costa, “è importante che un procuratore della Repubblica abbia deciso di stilare questa direttiva. Apprezzo particolarmente la parte che riguarda la comunicazione della polizia giudiziaria, tenuta a chiedere sempre l’autorizzazione alla Procura, e limitata ai soli atti posti in essere prima dell’iscrizione della notizia di reato nel registro. Tuttavia, credo che sia stata data una interpretazione troppo estensiva della norma quando si dice che l’interesse pubblico coincide con quello delle persone ad essere informate. L’articolo 21 della Costituzione deve sempre bilanciarsi con l’articolo 27”. Cantone: “Norme così rigorose potranno limitare il diritto dei giornalisti ad accedere alle notizie” di Liana Milella La Repubblica, 9 dicembre 2021 La direttiva del procuratore di Perugia a polizia, carabinieri e Gdf: il 14 dicembre entra in vigore la legge che vieta di dare i nomi alle inchieste e conferenze stampa, obbliga pm e gip a usare sempre la definizione di presunto innocente. Ma l’ex presidente dell’Anac è pronto a dare l’accesso alla stampa su tutti gli atti non più coperti da segreto. Entra in vigore, il 14 dicembre, la legge sulla presunzione d’innocenza - tecnicamente è un decreto legislativo - e rappresenterà uno “spartiacque” per magistrati e giornalisti sul piano della comunicazione. Le implicazioni sono molto importanti e non passano inosservate a Raffaele Cantone, oggi capo della procura di Perugia dopo gli anni al vertice dell’Anac e prim’ancora a Napoli come pm anti-camorra. Perché procure e polizie non potranno tenere sempre, quando vogliono come adesso, conferenze stampa su operazioni importanti, ma ci vorranno “ragioni di interesse pubblico” per poterle fare. Anche le polizie dovranno essere autorizzate. Non si potranno più dare nomi alle inchieste. L’indagato dovrà essere sempre descritto come un “presunto innocente”, pena il rischio di rettifiche. Una legge che alcuni procuratori condividono, mentre altri la ritengono decisamente dannosa. Certo Cantone non può essere inserito nel primo elenco, anche se i suoi toni, pur fermi, sono assertivi. Nella direttiva di 5 pagine che Cantone indirizza alle tre polizie per scandire i futuri passi della comunicazione - pubblicata integralmente dalla rivista Sistema penale, diretta da Gian Luigi Gatta, docente di diritto penale alla Statale di Milano e oggi uno dei più stretti collaboratori della ministra Marta Cartabia - Cantone afferma testualmente: “Si è consapevoli che norme così rigorose potranno limitare il diritto degli operatori dell’informazione all’accesso alle notizie e persino, per una non voluta eterogenesi dei fini, incentivare la ricerca di esse attraverso canali diversi, non ufficiali o perfino non legittimi”. Cantone, innanzitutto, interpreta i criteri indicati dalla direttiva per fare comunque comunicazione. E cioè le due condizioni, che le notizie siano ‘strettamente necessarie per la prosecuzione delle indagini’ e che ricorrano ‘altre specifiche ragioni di interesse pubblico’. E quindi, secondo il procuratore che sta indagando sul caso Amara, “tra le informazioni di interesse pubblico vanno comprese l’esecuzione di provvedimenti cautelari personali e reali, l’esecuzione di provvedimenti definitivi, ritenuti di particolare rilevanza, le richieste di rinvio a giudizio zio e di archiviazione”. Quanto ai nomi delle persone coinvolte nell’indagine, essi saranno resi noti solo quando “ciò si renderà necessario per garantire un’effettiva completezza dell’informazione”. Anche la polizia dovrà dare le informazioni però “facendo attenzione a non attribuire ai soggetti indagati la consapevolezza per i fatti in corso di accertamento”. Né i magistrati né la polizia potranno dare i nomi alle inchieste. E se lo faranno ugualmente non potranno comunicarlo all’esterno. Cantone avverte il peso di una stretta che potrebbe anche avere conseguenze negative e annuncia che farà a breve un’altra direttiva, “per sterilizzare l’effetto della riforma”. E in questo testo Cantone parlerà “del diritto all’informazione che dev’essere pieno e completo”. Per questo il procuratore emanerà un provvedimento destinato a regolare “l’accesso diretto dei giornalisti agli atti delle indagini che non sono più coperte dal segreto (sfruttando quanto scrive l’ex articolo 116 del codice di procedura penale). Una battaglia quella di Cantone destinata a incrociare la campagna opposta di Enrico Costa, il deputato di Azione, che ha trasformato la presunzione d’innocenza in una vera crociata. Tant’è che sta preparato degli appositi formulari da distribuire ai cittadini con cui chi vuole potrà denunciare un’avvenuta violazione della preclusione d’innocenza. Il 14 terrà una conferenza stampa alla Camera per annunciare la prima diffusione. Prescrizione sospesa durante il rinvio solo se alla richiesta della parte civile aderisce la difesa di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2021 Lo stop dei termini è connesso solo all’istanza espressa della difesa e solo per il legittimo impedimento dell’imputato o del difensore. Il rinvio che accorda il giudice alla parte civile non sospende il decorso della prescrizione perché la difesa dell’imputato non vi ha aderito. Assenso necessario non solo quando il giudice accorda un rinvio cosiddetto “di cortesia”, ma anche quando la richiesta della parte civile è motivata per legittimo impedimento. L’orientamento - La Corte di cassazione - con la sentenza n. 45126/2021 - ha espressamente ribadito che non sospende il corso della prescrizione il rinvio dibattimentale chiesto dalla parte civile (anche se per legittimo impedimento) e accordato dal giudice in assenza di espressa adesione della difesa dell’imputato in vista della sospensione dei termini. Affermazione con la quale la sentenza espressamente si allinea a uno degli orientamenti espressi in materia che avevano determinato un conflitto di giurisprudenza. Legittimo impedimento - Quindi il legittimo impedimento che sospende il decorso del termine di prescrizione del reato è solo quello relativo all’imputato o al suo difensore e per cui è richiesto il rinvio del dibattimento. Per cui sia che si tratti di rinvio di cortesia o per legittimo impedimento concesso su richiesta della parte civile questo non è causa di sospensione dei termini di prescrizione anche se la difesa non si oppone al differimento. L’assenso deve essere espresso e non può, infatti, desumersi per facta concludentia. Lazio. Dalla Regione arrivano 180mila euro per gli studi dei detenuti rietilife.com, 9 dicembre 2021 Approvata in giunta la delibera con cui vengono stanziati 180.000,00 euro da destinare alle Università per agevolare e promuovere gli studi universitari e la diffusione dell’istruzione universitaria tra i detenuti. Le risorse sono destinate a iniziative di sostegno del diritto allo studio e alla creazione di poli universitari, nonché all’ampliamento dell’offerta didattica digitale. Destinatari della misura sono le Università che hanno sottoscritto un Protocollo d’intesa con il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziari. Ad oggi hanno sottoscritto il protocollo l’Università degli Studi Roma Tre, l’Università degli Studi Tor Vergata, l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale e l’Università degli Studi della Tuscia. “La delibera di oggi si somma ad altri due interventi già approvati che ho presentato nelle scorse settimane, lo stanziamento di 170.000 euro per iniziative che daranno nuove competenze digitali a supporto dei percorsi trattamentali, in un’ottica di reinserimento sociale dei detenuti, e allo stanziamento dei 550.000 euro destinati alla riqualificazione degli spazi, a interventi di digitalizzazione e di adeguamento tecnologico per il miglioramento delle condizioni dei detenuti. Sono misure queste finalizzate al miglioramento delle condizioni della popolazione detenuta della nostra regione. Favorire e promuovere gli studi, in particolare, significa offrire nuovi stimoli e contrastare l’immobilità mentale, implementare il bagaglio culturale e quindi dare strumenti di formazione e istruzione capaci di incentivare la riflessione ma anche agevolare l’instaurazione di relazioni umane. Il carcere non è un luogo altro rispetto alla società, anzi ne è parte integrante, per questo devono essere pensate linee di azione che garantiscano ai detenuti la riabilitazione e la rieducazione in vista del reinserimento nella società”. Lo ha dichiarato la proponente della proposta Valentina Corrado, Assessore al Turismo, Enti Locali, Sicurezza Urbana, Polizia Locale e Semplificazione Amministrativa. Ascoli. Detenuto si uccide in carcere, era nella sezione Alta Sicurezza di Francesco Prestia Quotidiano del Sud, 9 dicembre 2021 Un uomo di 45 anni originario della Calabria si è ucciso oggi nel carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno dove era detenuto nella sezione “alta sicurezza”. Si chiamava Roberto Franzè ed era originario della provincia di Vibo Valentia e ritenuto vicino alla cosca Romano. Ha approfittato dell’assenza dei compagni di cella, usciti per l’ora d’aria, e si è impiccato alle sbarre, usando le lenzuola. Quando gli altri detenuti sono rientrati hanno dato l’allarme, ma gli agenti di polizia penitenziaria subito intervenuti non hanno potuto far nulla per salvargli la vita. L’uomo stava scontando una condanna definitiva per reati legati alla criminalità organizzata, con fine pena prevista nel 2023. Già in passato aveva minacciato il suicidio e nelle sue lettere inviate dal carcere scriveva “non ce la faccio più, non posso continuare così” L’uomo viveva a Pumenengo (Bergamo) e aveva una serie di precedenti alle spalle. Era in carcere perché accusato di aver prestato decine di migliaia di euro a imprenditori in difficoltà, salvo poi farseli restituire sotto minaccia e in maniera violenta a interessi usurai. Il suo “è stato un suicidio annunciato”, spiegano i difensori di Roberto Franzè, gli avvocati Gianbattista Scalvi e Anna Marinelli. Franzè aveva riferito di essere ridotto a 50 chili di peso, di vomitare ogni giorno oltre ad essere sofferente di patologie psichiche documentate. Aveva detto di non farcela più e di non poter attendere la sciatteria degli enti pubblici nel ritrovare una comunità che potesse ospitarlo per le proprie patologie. Aveva cercato di dimostrare la propria innocenza per le accuse delle quali era indagato o imputato e aveva chiesto di poterlo fare da persona libera o con una misura cautelare che gli consentisse di stare con la propria moglie e la propria famiglia anche per le proprie gravi condizioni di salute. Padova. “I dolci in carcere poi le pizze così ho superato la reclusione” di Giulia Tasca Il Mattino di Padova, 9 dicembre 2021 Apre oggi la pasticceria Giotto in corso Milano che vende i prodotti realizzati al Due Palazzi. La storia di Davor: “Lavorare ci permette di immaginare un futuro una volta scontata la pena”. Ingredienti scelti per una ricetta decisamente ben riuscita. “Sono entrato in carcere nel 2000, poi a settembre 2005, quando il giudice ha confermato definitivamente la mia pena, è stato deciso che sarei stato trasferito nella casa circondariale Due Palazzi di Padova. Avevo chiesto di poter lavorare, per me è sempre stato fondamentale, e fortunatamente la mia richiesta è stata esaudita”. Davor è un cinquantenne di origine croata e, nelle sue “ore di semilibertà” fa il pizzaiolo nella pizzeria “Adalta” nel quartiere Forcellini. È una delle attività di ristorazione dalla cooperativa sociale Work Crossing, la stessa che, proprio nel 2005, ha dato vita al laboratorio di pasticceria professionale Giotto in carcere. “Ho sempre amato cucinare e nel corso dei miei primi anni in Italia ho lavorato in molti ristoranti, ma non avevo mai avuto l’opportunità di specializzarmi e imparare davvero un mestiere. A gennaio del 2006, dopo aver superato una piccola prova, sono entrato a far parte della squadra di apprendisti pasticceri del laboratorio interno al carcere: una sfida che, fin dal primo giorno, mi ha dato quella spinta mentale ed emotiva di cui avevo bisogno per andare avanti”. Ma sentirsi utili, fattore d’imprescindibile importanza per chi deve trascorrere le sue giornate in isolamento, non è l’unico motivo che porta i detenuti a chiedere di poter lavorare: “Molti hanno una famiglia, spesso dei figli da mantenere e, si sa, per vivere bisogna guadagnare” spiega Davor. Rispetto alle mansioni retribuite offerte da altri penitenziari, il laboratorio di pasticceria possiede un valore aggiunto che fa una sostanziale differenza: getta “da dentro” le fondamenta necessarie per costruirsi una vita onesta oltre le sbarre. “C’è anche chi aiuta con le pulizie, o con i lavori di manutenzione di vario genere, ma questi lavori difficilmente saranno dei deterrenti per impedire agli ex detenuti di tornare a svolgere fuori le stesse attività che li hanno portati dentro, dove, auto-condannandosi a un ciclo vizioso infinito, molto probabilmente torneranno”. Ad oggi i dipendenti assunti regolarmente dalla cooperativa sociale Work Crossing sono 46: quasi il 10% del totale dei detenuti del Due Palazzi (circa 500 persone). “Purtroppo non tutti i carcerati hanno l’opportunità di fare un’esperienza come la mia, ed è un vero peccato sotto vari punti di vista. Spero che, anche grazie all’apertura di una pasticceria esterna per “gli interni”, tutte le case di reclusione possano prendere esempio da questo progetto. Permettere ai detenuti di imparare un mestiere ha il duplice effetto di sostenere il singolo nel presente, di beneficiare la collettività nella prospettiva di un suo futuro ritorno nel mondo reale”. Dopo la gelateria di via Roma, i dolci realizzati dai detenuti saranno venduti anche al civico 105 di corso Milano dove questa mattina verrà inaugurato il nuovo bar-pasticceria Giotto. Milano. “Ero un naufrago, mi sono rimesso in piedi (grazie al vostro aiuto)” di Andrea Galli Corriere della Sera, 9 dicembre 2021 Johnny, caduta e riscatto di un clochard. Un mese fa Johnny chiedeva l’elemosina sulla Darsena di Milano. Gara di solidarietà tra i lettori del “Corriere”: la Fondazione Casa dello spirito e delle arti ha raccolto le donazioni. Il 31enne è stato accolto in una comunità di don Mazzi e fa il magazziniere in un’azienda piemontese. “Carico gli scatoloni all’alba, al freddo: sgobbo e sono felice” “Ho realizzato una prima volta che non ero più un naufrago quando stavamo in macchina verso l’hotel. M’intendi? Sudavo. Per il caldo. Sudare per il caldo, incredibile... Il giubbotto imbottito, il maglione, l’aria riscaldata…”. Una seconda volta? “La doccia. Cioè, il ritorno in doccia. Avevo iniziato a cronometrare. Poi mi ero perso. Saranno state tre ore. Avevo passato mesi a pulirmi con le salviette umidificate per i neonati”. C’è una terza volta? “Lunedì. Alle cinque del mattino caricavo scatoloni sul furgone. Buio, freddo. E io ero felice. Sgobbavo e ridevo. Giuro”. Un mese da quando il Corriere incrociò davanti al distributore automatico di sigarette sulla Darsena il 31enne clochard Johnny, italiano, senza lavoro né alloggio. Campava elemosinando le monete di resto. Ne son successe, di cose, da allora. Arnoldo Mosca Mondadori presiede la Fondazione “Casa dello spirito e delle arti”. Un uomo di cultura e insieme del sociale. Di quelli che camminano nelle pozzanghere e non vi badano. La Fondazione ha raccolto le donazioni dei nostri lettori e avviato un percorso servendosi di quel denaro. Non si esce dalla strada in un niente. Johnny è ospite di una comunità di don Antonio Mazzi. Non perché debba sconfiggere la dipendenza dalla droga ma perché, dopo una settimana in albergo e in attesa d’avviare il nuovo mestiere da un’imprenditrice, necessita di una logistica strutturata che si prenda cura di lui e lo aiuti nel pieno recupero. Quello formato dalla scansione delle giornate, dal ritorno all’appartenenza fisica a un gruppo e dunque alle regole di una comunità. A Johnny avevano rubato la busta della spesa che fungeva da borsellino. Dentro, c’erano carta di identità e green-pass. Riavere i documenti ha richiesto molteplici tentativi, necessari anche per comprare una Sim del telefonino (che non possedeva), necessaria per colloquiare con l’imprenditrice. L’azienda è in Piemonte e c’è un posto da magazziniere: Johnny, che ha un passato per lo più da manovale, in comunità si sta impratichendo proprio sulle mansioni in magazzino. Muscoli e fiato non gli mancano, “del resto non sarei sopravvissuto. Le settimane di pioggia, all’aperto, sono peggio del gelo polare, l’acqua ti entra dentro e marcisci. Pure se ti cambi indumenti, ammesso che riesca a farlo. Tiravo su nei centri d’aiuto quel che c’era. Scarpe piccole, pantaloni che ballavano. Ma basta pensarci, voglio farmi trovare pronto dall’imprenditrice”. Una donna che ha avuto nel circuito degli affetti una persona anch’essa scivolata. Vedremo più avanti, quando daremo conto del prossimo passaggio. Finora, non è stata solo un’azione di sostegno economico dei nostri lettori bensì un’adesione collettiva a un salvataggio. Mosca Mondadori non ne è stupito: “Nell’ampiezza dei tragici effetti collaterali della pandemia, vedo una luce. Un ritorno all’essenziale. Ci si spoglia degli oggetti, si aderisce ai progetti per il prossimo”. Nell’elenco dei sostenitori di Johnny bisogna inserire chi ha inviato fotografie del guardaroba invitando a scegliere i capi, bonifici di 20 euro in base alle personali risorse, altri lettori che hanno creato raccolte di fondi, email dall’America nelle quali si poneva una domanda: “Come posso dare una mano?”. Ma attenzione: quella di Johnny non è una semplice storia a lieto fine. Intanto è una storia in itinere che ha registrato fasi critiche, quando voleva mollare (“Lasciatemi al mio marciapiede, almeno non sono in debito con nessuno se fallisco...”). Dopodiché, dipenderà dalle sue capacità, dalla sua forza. Certo, pare lo stesso già una rivoluzione. Dopo quell’incontro d’esordio, l’8 novembre, di sera, siccome aveva fame optò per il posto più vicino. Il McDonald’s. Si consumava all’esterno. Ci guidò fino all’ultimo tavolo. “Vedi le grate? Se ti posizioni giusto, senti il beneficio sulle caviglie dell’aria calda”. Divorando panini, attento a non disperdere le briciole, salutava gli amici. Venditori di rose, rider. “Mi hanno davvero tenuto in piedi. Brioche, pizze, denaro. Quando ripasserò sulla Darsena ben vestito e profumato, li andrò a ringraziare. Uno a uno. Non devo mollare: per me e per loro. Fiducia, fratelli cari”. Milano. Dal carcere di Opera i presepi fatti con i legni dei barconi naufragati di Antonella Barone gnewsonline.it, 9 dicembre 2021 Bastano alcuni frammenti, riconoscibili nei presepi costruiti da detenuti del carcere di Milano Opera con i resti delle imbarcazioni che portavano migranti, a far comprendere il valore simbolico dell’iniziativa realizzata nella casa di reclusione milanese. Il manto della Madonna è ricavato dalla vernice azzurra di uno scafo, il tetto della capanna è coperto di brandelli di reti e le travi conservano tracce dei colori che rallegravano un barcone, molto tempo prima che divenisse un relitto. Si tratta di piccole Natività, composte dai personaggi essenziali, figurine stilizzate che evocano semplicità e tenerezza perché “per amare questo tipo di presepi bisogna conservare uno sguardo da bambini” spiega Francesco Tuccio, il falegname di Lampedusa che con i rottami del grande naufragio del 2009 realizzò una croce poi donata a Papa Ratzinger. Da allora l’artigiano continua a raccogliere personalmente sulla spiaggia dell’isola i materiali riconsegnati dal mare e a trarne oggetti che espone in mostre ed eventi. Tuccio si è recato a Milano per introdurre i detenuti all’arte di restituire significato a quelli che non sono solo rifiuti corrosi dalla salsedine. “Sono legni - dice il direttore del carcere Silvio Di Gregorio - che hanno assistito alla morte di tante persone. Attraverso la trasformazione in Natività, da parte di chi in questo momento sta portando una croce, certamente meritata perché se si trova in carcere vuol dire che ha commesso un reato, trasmettono un messaggio di speranza”. L’iniziativa si deve alla fondazione “Casa dello spirito e delle arti”, che all’interno della stessa casa di reclusione finanzia i laboratori per la costruzione di violini e per la produzione di ostie. Il primo dei presepi realizzato è stato donato a Papa Francesco, che ha ringraziato in un video i detenuti e la Fondazione che li ha messi all’opera. Il ricavato della vendita delle Natività andrà a sostegno di famiglie bisognose. “E’ un’iniziativa che ricorda che il reato e le sue conseguenze, sempre disastrose per la vittima e il carnefice, possono non rendere vana l’offesa cagionata a condizione che la pena sia occasione di cambiamento radicale e riscatto del reo - commenta Silvio Di Gregorio - Per questo sarebbe auspicabile che il Ministero dell’Interno possa mettere a disposizione due o tre barconi sequestrati a Lampedusa per proseguire, anche presso altri istituti, la costruzione di altri ‘oggetti’ della speranza così carichi di simbolismo”. Milano. Il teatro in carcere, dialogando con Vittorio Mantovani di Adelaide Cacace mentinfuga.com, 9 dicembre 2021 All’interno della casa di reclusione Milano Opera vive la compagnia teatrale Opera Liquida costituita da detenuti ed ex detenuti che una volta usciti dal carcere hanno deciso di continuare a far parte della compagnia. In 10 anni sono stati già 8 gli spettacoli che la compagnia ha prodotto a partire dagli scritti dei detenuti su temi di rilevanza sociale. Il giorno 16 dicembre andrà in scena nel grande teatro di 400 posti realizzato in un’ala della casa circondariale “Noi guerra! Le meraviglie del nulla” con la regia di Ivana Trettel e le opere di Giovanni Anceschi. Nei giorni che precedono la serata tra le prove dello spettacolo e il disbrigo delle pratiche burocratiche indispensabili per consentire l’accesso a ciascuno spettatore abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Vittorio Mantovani, ex detenuto che ha deciso, una volta scontata la sua pena, di rimanere all’interno del progetto come attore e drammaturgo. Vittorio ti faccio una domanda semplicissima: chi è Vittorio Mantovani adesso e chi eri prima di entrare in carcere, come il carcere ti ha trasformato? Adesso ormai sono un pensionato, sono nato nel 1952 a Venezia, ma ho sempre vissuto in provincia di Milano, sono il primo di 7 fratelli di una famiglia povera, sono rimasto orfano di padre da bambino e da quel momento mia madre ha iniziato a lavorare. Sono riuscito a completare gli studi superiori lavorando e studiando, ho praticato il ciclismo a livello agonistico da giovane senza però conseguire grandi successi. Nel mondo del lavoro mi sono inserito nell’ambito bancario finanziario e per un periodo anche nel settore edile con un mio fratello. Per una serie di illeciti che potremmo definire amministrazione finanziaria disinvolta sono stato arrestato è condotto al carcere di San Vittore nel marzo del 2009, un carcere pessimo che non auguro a nessuno, ambiente stretto, fatiscente, umido, eravamo in 9 detenuti in 16 metri quadrati sono stato poi trasferito al carcere di Opera per oltre 3 anni e poi ho finito di scontare la mia condanna al carcere di Bollate. L’esperienza carceraria ti ha cambiato come uomo? In che modo? Ci sono persone che fanno 20 anni di carcere e non cambiano di una virgola e poi ci sono uomini a cui basta un attimo in galera per capire che è meglio non finirci più in queste situazioni, ci si rende conto delle stupidaggini che si sono compiute nella vita. Vittorio oltre che attore sei uno dei drammaturghi che ha scritto l’impianto dello spettacolo che vedremo il 16 dicembre “Noi guerra! Le meraviglie del nulla” hai sempre scritto? Io penso che ognuno di noi ha dentro alcuni talenti a livello embrionale. Entrato in carcere ricordavo spesso quando da bambino andavo a giocare a pallone con le michette in tasca e mangiavo anche le briciole, ecco io in carcere mi sono nutrito di quei ricordi lì, di quelle briciole. Ogni tanto da ragazzo scrivevo qualcosa, mi è sempre piaciuto scrivere e leggere, il seme di questa passione esisteva da sempre anche se non aveva avuto l’opportunità di germogliare. Poi in carcere ho iniziato a frequentare un laboratorio di poesia, e a seguire quello di teatro, una cosa che avrei sempre desiderato fare sin da bambino, ma che fino al mio ingresso in carcere non avevo avuto l’opportunità di coltivare. Ivana Trettel mi ha visto ed ho iniziato recitare, mi sembrava naturale interpretare emozioni e sentimenti sul palco è stata una bellissima esperienza che poi ho capitalizzato anche nel mio lavoro infatti una volta terminata la detenzione carceraria sono andato a lavorare come operatore in una RSA con anziani affetti da Alzheimer e malattie neurodegenerative e li utilizzando le parole senza significato ma accompagnandole da suoni, versi, movimenti grazie alla capacità espressiva che avevo acquisito con la compagnia teatrale riuscivo ad entrare in sintonia attraverso una comunicazione non ortodossa, ma creativa. Ho continuato la mia collaborazione con il carcere in seno al progetto “Stai all’occhio” per sensibilizzare i ragazzi delle scuole sull’importanza della legalità, i ragazzi si confrontano con noi che abbiamo vissuto la forte esperienza del carcere, fanno tante domande, sono curiosi. Con “Opera Liquida”, la compagnia teatrale del carcere di Opera, ho poi proseguito un rapporto di collaborazione lavorativa, oltre ad essere attore e drammaturgo per la compagnia mi occupo di seguirla da un punto di vista burocratico amministrativo facciamo parte del terzo settore e abbiamo in essere diversi progetti con finanziamenti sia regionali che nazionali che europei. Quante persone tra detenuti e persone non più detenute sono coinvolte nel progetto teatrale del carcere di Opera? Attualmente nel progetto “Per aspera ad astra” sostenuto da Acri, associazione casse di risparmio, che riunisce alcune delle maggiori carceri d’Italia e associazioni che lavorano nelle carceri ci siamo noi per Milano poi c’è a Volterra Armando Punzo con la sua associazione teatrale, poi ci sono Catania, Palermo insomma siamo in tanti. Al laboratorio teatrale di Opera attualmente sono iscritti una dozzina di detenuti interni al carcere, a fianco del laboratorio teatrale abbiamo anche un laboratorio di costumi teatrali ed uno di scenografia e audio-video in totale una ventina di persone tutte detenute distribuite su queste tre attività oltre a collaboratori esterni che entrano due o tre volte a settimana per le prove. Oltre alla sua esperienza personale ritieni che ci sia in ogni caso un beneficio per gli altri detenuti in termini di capacità di gestire la propria detenzione grazie a questo laboratorio teatrale? Assolutamente sì, i laboratori teatrali sono benefici per tutti. Il vantaggio è duplice: fare qualcosa di bello e poi attraverso l’esperienza del teatro del carcere si può iniziare a intravedere un po’ prima la libertà, non nel senso che si esca prima dalla prigione, ma si può uscire come capitato anche a me che durante la detenzione ho partecipato ad una manifestazione letteraria e si può uscire anche per fare degli spettacoli e queste piccole cose sono molto molto importanti per i detenuti che sono in detenzione magari da un decennio è un beneficio impagabile. A questo punto non vediamo l’ora di poter assistere al vostro spettacolo del 16 dicembre dal titolo “Noi guerra le meraviglie del nulla” avrete poi la possibilità di fare delle repliche in seguito Faremo lo spettacolo il 16 dicembre e ricordiamo che poter per poter accedere alla casa di reclusione in occasione dello spettacolo è necessario inviare una richiesta entro le 8:30 del 13 dicembre seguendo le istruzioni sul sito www.operaliquida.org poi sicuramente cercheremo di fare delle repliche ad inizio del nuovo anno anche se siamo in un periodo in cui organizzare molto difficile. Saluto Vittorio Mantovani, poeta attore e drammaturgo che ci lascia con i versi tratti dalla sua poesia Proteggimi: “Eccomi vestito solo di vita autentica un libro settanta volte letto prigioniero di un’anima pura non voglio un cuore nuovo dammi mille cuori pulsanti dammi mille occhi che fissano il sole per scrutare le profondità delle tenebre”. Milano. “Così in carcere il teatro mi ha cambiato la vita” di Marianna Vazzana Il Giorno, 9 dicembre 2021 L’ex rapinatore Davide Mesfun, detenuto in semilibertà a Opera, tiene corsi alla Bicocca. “Dal palco vedevo una finestra senza sbarre”. “Se prima vedevo una Porsche, mi scattava il desiderio di possederla. Ora ne ammiro la bellezza. Mi sposto a piedi e sono felice”. Davide Mesfun, 46 anni, originario di Napoli, oggi alle 14.30 si esibirà nello spettacolo teatrale “Sguardi a confronto”, da lui scritto, su un palco speciale: quello dell’aula Giulio Regeni all’università Bicocca nell’ambito di “CuriosaMente”, appuntamenti culturali in biblioteca. “Farò un’incursione durante una lezione di Diritto penale della professoressa Claudia Pecorella”. Non usa un verbo a caso: ha iniziato a delinquere da minorenne, specializzandosi in rapine e spaccio di droga. “Mi sono allontanato dalla famiglia dopo la morte di mia nonna, che era il “collante” degli affetti. Ho lasciato il liceo artistico e il canottaggio e ho seguito cattive compagnie. Avevo 15 anni. Non mi bastava mai, andavo sempre oltre. Finché la Giustizia mi ha presentato il conto: 24 anni di carcere per cumulo pene. Volevo togliermi la vita. Ma sono rinato, grazie al teatro: dal palco vedevo una finestra senza sbarre”. Adesso è un detenuto del carcere di Opera (dal 2012) in regime di semilibertà. “Alla Bicocca tengo corsi di teatro esperienziale, volontariamente, nell’ambito del progetto “MiLiberiSe”, con il supporto Dipartimento di Sociologia. La sera lavoro come cuoco in un ristorante a Porta Venezia. In più mi alleno: anche lo sport è un grande aiuto”. L’ultima rapina risale al 2007. Era definito il “rapinatore galante” perché dopo i colpi regalava sempre un mazzo di fiori alla fidanzata. Puntava le casse degli alberghi, spendeva in droga e affitti degli appartamenti-nascondiglio. Aveva 32 anni quando la polizia gli ha messo le manette l’ultima volta, a Milano. “In 20 anni ho “visitato” le galere di tutta Italia”. È rimasto dietro le sbarre ininterrottamente per nove anni, dal 2007 al 2016, “tranne un’uscita, scortato, per un laboratorio teatrale nel 2014. Non dimenticherò mai il primo permesso da uomo libero, il 1° marzo 2016”. Quelle 12 ore gli hanno ispirato un monologo teatrale: “Ho visto una Milano tutta diversa, nuovi palazzi, gente che sui mezzi guardava solo lo smartphone (in carcere non avevo cellulare né internet, il massimo della tecnologia era una radiolina). Già nel parcheggio ero disorientato, guardando una distesa di campi e non un muro. L’asfalto sotto i piedi mi sembrava morbido, ero abituato al cemento. Trovavo strani anche i leggins delle donne”. E la fidanzata? “È diventata mia moglie. Mentre ero recluso non abbiamo mai smesso di scriverci, ma una volta fuori non è durata: dopo anni di lontananza, eravamo come due estranei”. Ha recuperato invece il rapporto con la famiglia. “Dopo 20 anni ho rivisto mia sorella. Ha un bimbo, l’ha chiamato come me”. A Natale incontrerà suo padre, dopo 18 anni: “Solo a pensarci, mi commuovo”. Per informazioni sullo spettacolo: www.biblio.unimib.it. Roma. I libri che ci hanno liberato: a “Più libri, più liberi” i minorenni detenuti raccontano di Elisabetta Colla noidonne.org, 9 dicembre 2021 Tra le tante iniziative, l’incontro tra lo scrittore Gianrico Carofiglio, l’attore ed ex detenuto Salvatore Striano ed i ragazzi ospiti degli Istituti Penali per i Minorenni, in collegamento audio, sul tema dei libri e della libertà. La Fiera nazionale della Piccola e Media Editoria, “Più libri, più liberi”, ospitata a Roma dal 4 all’8 dicembre nella bella cornice della Nuvola di Fuksas, compie 20 anni. Un anniversario importante per una Fiera che ogni anno di più si pone come autorevole momento culturale della Capitale, raccogliendo un ampio pubblico di tutte le età, anche per l’ampio ventaglio di offerte editoriali che propone. Un evento di eccezione, fra i tanti pure interessanti che si sono susseguiti, è la ‘Cerimonia di consegna dei libri donati dagli ospiti della Fiera’, preceduto da un bellissimo incontro fra i giovani detenuti di alcuni (Acireale, Caltanissetta, Bari, Napoli, Bologna) fra i 17 Istituti Penali per i Minorenni della Giustizia Minorile e di Comunità italiani, collegati in streaming dalla Fiera, con lo scrittore Gianrico Carofiglio e l’attore ed ex detenuto Salvatore Striano, momento di grande importanza per l’abbattimento dei muri, reali e metaforici, tra la cittadinanza e i ragazzi del carcere minorile. Il tema di partenza ‘qual è il libro che è stato fondamentale nella tua vita’ è stato affrontato alla luce del concetto di libertà. I ragazzi degli Ipm hanno scritto e riportato le loro riflessioni sul significato di libertà e lo scambio umano e culturale è risultato profondo, convincente ed emozionante. A ritirare simbolicamente i libri che verranno consegnati ai ragazzi, alla presenza di numerosi Direttori degli Istituti Penali, è intervenuta Gemma Tuccillo, Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità (Ministero della Giustizia) che, insieme a Cira Stefanelli, dirigente dell’area trattamentale del Dgmc ed a Daniela de Robert, Garante dei detenuti privati della libertà (ed anche portavoce del progetto sulla scuola in carcere di Rai per il sociale), hanno fortemente voluto la realizzazione di questa iniziativa. L’incontro è stato moderato dalla giornalista Alessandra Sardoni. Il libro scelto da Gianrico Carofiglio, come libro che lo ha ‘liberato’ è stato Zanna bianca di Jack London. “La lettura è una procedura interminata e interminabile di progressive liberazioni - ha affermato lo scrittore - di cambiamenti di dimensione, che ci aiuta a vedere mondi e a vedere le cose con occhi diversi, con occhi nuovi (come dice Proust a proposito del viaggio di scoperta). I libri sono tutte tappe della liberazione: quello che forse mi ha liberato più di tutti è stato Zanna Bianca di Jack London: ero un bambino piccolo con problemi e paure ma con quel libro ho scoperto la lettura come avventura, coraggio, paure, possibilità che le cose non finiscano bene sempre; la lettura come qualche cosa che, quando ci prende, fa perdere d’interesse a tutto il resto e crea una sospensione temporale rispetto alla quale nient’altro conta. <…> Il processo di liberazione è soprattutto un processo interiore, che ha a che fare col riconoscimento di sé stessi nell’attività che si compie, nel sentirla come propria e provare un forte senso di appartenenza. Il concetto di libertà va collocato in un orizzonte sociale, di regole, non esiste la nostra libertà senza quella degli altri”. Salvatore Striano, nel raccontare come il teatro e la lettura lo abbiano fatto riemergere da una situazione di profonda solitudine e depressione in carcere, ha indicato come “libro che lo ha liberato” La Tempesta di Shakespeare. “Una notte un mio compagno di carcere mi ha portato questo libro e mi ha detto ‘domani vieni al laboratorio’: mi sono messo a leggerlo e dentro c’era tutto: la vendetta, il perdono, la libertà, tutti temi con cui noi detenuti dovevamo confrontarci. La letteratura mi ha fatto passare dalle pagine della cronaca a quelle dello spettacolo. <…> La libertà è come il vento, va e viene, a volte la dobbiamo andare a raggiungere, ora i ragazzi che sono dentro si stanno responsabilizzando. Bisogna aprire le porte del carcere alla cittadinanza, azzerare i giudizi, avere l’onestà di guardare chi fa il carcere come persone, specie i giovani. Sono persone che meritano rispetto, bisogna portarli nelle scuole, nelle fabbriche, nei teatri per far loro capire cosa altro c’è fuori. <…> Il mio saluto lo faccio lasciandovi con l’anagramma della parola carcere, “cercare”, che i ragazzi detenuti cerchino dentro di loro un modo per stare bene, ora che si trovano in ‘officina’, in carcere, devono sfruttare il tempo nel migliore dei modi, e cercare di uscire come persone migliori”. Intensi e fortemente umanizzanti per tutti i presenti, sono stati inevitabilmente, gli interventi dei ragazzi che, in audio collegamento, sono intervenuti raccontando la loro idea di ‘libertà’. “Libertà l’abbiamo pensata come ingresso libero, di tutti, come raccolta di parole che diventano storia, azione; la libertà come volare, sorvolare; libertà inizia come ‘lib’, Libia, luoghi da cui veniamo, spazi possibili da costruire, la libertà supera tutto, ci porta al di là del dolore…prima mi sentivo diverso non accettato, stavo coi ragazzi grandi, e credevo che libertà fosse fare quello che mi pareva…poi sono andato a chiedere soldi a tutti perché ero dipendente dalla droga finché mia madre non mi ha denunciato…libertà è poter utilizzare le nostre risorse al meglio, la possibilità di poterci fidare di noi stessi…la libertà, stando chiusi, è un percorso di liberazione interiore, meglio essere legato da catene invisibili, interne.” “Il mio pensiero sulla libertà oggi è cambiato, prima avevo lo sballo, gli amici del sabato sera, poi il carcere che mi ha dato speranza e salvato la vita, autorizzandomi a vedere me stesso in un modo diverso, immaginando di poter costruire il mio futuro. Anche Papa Francesco ci ha parlato della libertà come dare la vita, ricordando Padre Puglisi. Anche noi, con i miei compagni, piantiamo dei semi per osservare le cose con sguardo nuovo”. “La libertà cambia in base alle persone, togliendosi addosso l’etichetta del detenuto e mettendosi i panni del lavoratore. La libertà la comprendi principalmente quando la perdi, è essere anelante a qualcosa di speciale, la libertà è vita”. Il libro di Stefano Zurlo, storie di detenzioni ingiuste e dei ritardi per ripararle di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 9 dicembre 2021 S’intitola “Il libro sulle detenzioni ingiuste” (Baldini e Castoldi): tra il ‘91 e il 2020 sono stati circa 30 mila gli errori giudiziari. Il volume racconta nove casi. Un errore giudiziario è la conclusione sbagliata alla quale arriva un procedimento, generalmente viene definita così la condanna di un innocente, ma la stessa cosa vale anche per l’assoluzione di un colpevole. Un’ingiusta detenzione, invece, è la carcerazione subita da una persona che viene poi assolta definitivamente durante il processo. Sono nove casi di questi due generi che, con tutta la drammaticità delle conseguenze per chi ne è stato vittima, il giornalista Stefano Zurlo documenta ne Il libro sulle detenzioni ingiuste. Nei tre decenni tra il 1991 e il 2020 sono state circa 30 mila le persone che sono finite in cella e poi sono state assolte o prosciolte, scrive Zurlo. Un migliaio di casi l’anno per le centinaia di migliaia di processi penali che ogni 12 mesi si celebrano nelle aule di giustizia italiane, ma anche se per fortuna il dato non è percentualmente rilevantissimo, non per questo è meno allarmante. Perché ciascun caso, con tutto il carico di dolore e traumi per chi viene coinvolto, rappresenta una sconfitta della giustizia. Che molto spesso è da addebitare alla sciatteria e alla negligenza colpevoli di chi ha il compito di svolgere le indagini, di chi ha quello di giudicare e, talvolta, anche di chi dovrebbe difendere l’imputato. Per questo l’ex procuratore della Repubblica di Venezia Carlo Nordio nella prefazione consiglia la lettura ad un ipotetico uomo che veste la toga affinché possa “riflettere sugli sbagli dei colleghi, se proprio non si riesce a riconoscere i propri”, ed “evitare danni irreparabili a suoi simili”. Da vero cronista, Zurlo va a fondo di ciascun caso attraverso gli elementi emersi nelle indagini o nei dibattimenti e, quando ci sono, nei processi di revisione delle sentenze sbagliate. Non si ferma agli atti, dà anche la parola ai protagonisti. Se proprio si vuole cercare una consolazione in questa desolazione la si può trovare nel fatto che tutte le vicende si sono risolte, seppure troppo spesso dopo molti anni, grazie al lavoro di avvocati e magistrati che hanno saputo correggere gli errori propri o dei colleghi. Una giustizia che tutto sommato ha funzionato. I processi si fanno apposta per valutare le prove a carico o a discarico, per condannare quando ci sono gli elementi e assolvere non solo quando l’estraneità dell’imputato è evidente, ma soprattutto, come vuole la civiltà giuridica, quando gli elementi a carico dell’imputato non sono sufficienti. Il vero problema, come emerge chiaramente dal libro di Zurlo, è l’enorme, devastante, colpevole ritardo con cui la giustizia italiana corregge, quando lo fa, i propri errori. Come nell’ultimo caso raccontato dal giornalista, in cui la correzione è arrivata addirittura dopo che il condannato aveva scontato da innocente più di 22 anni di carcere ed era già fuori in libertà condizionale. Alcune vicende sono poco note, altre di più. Come quella che riguarda Jonella Ligresti che, arrestata nel 2013 nell’inchiesta Fonsai, ha trascorso quattro mesi in carcere e otto ai domiciliari prima di essere scagionata. Tutte, c’è da giurarlo, restano perennemente impresse anche nell’animo di chi veste la toga. Egitto. Patrick Zaki è tornato a casa. Due mesi per costruire la difesa di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 dicembre 2021 Lo studente egiziano libero in attesa dell’udienza del prossimo primo febbraio. Festa a Mansoura e in Italia. I legali chiedono i video dell’arresto al Cairo. Ma l’Egitto nega di averlo preso in aeroporto. Patrick è sull’asfalto. Alle 15 di ieri, le 14 in Italia, lo studente egiziano dell’Università di Bologna è uscito dal commissariato di Mansoura. Pratiche chiuse, impronte digitali prese, è apparso in strada vestito ancora con la tuta bianca dei prigionieri. A poco più di 24 ore dalla decisione del tribunale per i reati contro la sicurezza di Mansoura, sua città natale sul Delta del Nilo, Patrick Zaki ha potuto riabbracciare la sua famiglia. Pochi minuti e quelle immagini hanno fatto il giro dei social network. La felicità incontenibile della sorella Marise, della fidanzata, della madre, abbracci trattenuti troppo a lungo, sorrisi quasi increduli. Nelle stesse ore a Roma, vicino alla sede dell’ambasciata egiziana in Italia appariva un nuovo murale della street artist Laika: simile a quello di 22 mesi fa, quando Patrick fu arrestato all’aeroporto del Cairo di ritorno da Bologna, c’è Giulio Regeni che lo abbraccia. “Ci siamo quasi”, gli dice il ricercatore italiano ucciso nel 2016. “Stringimi ancora”, gli risponde Patrick. Poco dopo nella sua casa di Mansoura è ricomparso davanti ai giornalisti italiani presenti con un maglione nero, ma ha avuto il tempo di pubblicare una sua foto sorridente con indosso la maglietta dell’Università di Bologna, fattagli arrivare dall’ateneo. “Voglio essere in Italia il prima possibile, appena potrò andrò direttamente a Bologna, la mia città, la mia gente, la mia università”, ha detto all’Ansa. A Marta Serafini del Corriere della Sera dice: “Grazie a tutti gli italiani: a chi mi ha sostenuto e a chi magari non lo ha fatto attivamente, ma sapeva della mia vicenda: ho apprezzato tutti i segnali che mi sono arrivati”. Si festeggia anche in Italia, dal team del Bologna che lo aspetta “presto al Dall’Ara” al rettore dell’ateneo Giovanni Molari: “Il suo posto è qui, nella nostra comunità, assieme ai suoi compagni e ai docenti che non vedono l’ora di riabbracciarlo”. Con la consapevolezza che non è ancora finita. Patrick è a piede libero ma il fascicolo aperto dalla Procura per la sicurezza dello Stato non è affatto chiuso. Restano le accuse per diffusione di notizie false (reato politico, punito con pene carcerarie fino a cinque anni) e il processo continua. Prossima udienza il primo febbraio 2022. Un paio di mesi, dunque, a disposizione del team di legali guidato dall’avvocata Hoda Nasrallah per visionare gli atti richiesti martedì al tribunale monocratico: il fascicolo redatto dalla Procura, i verbali della Nsa (la National Security, lo stesso potentissimo organo al centro dell’inchiesta della Procura di Roma per il rapimento, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni) e i video delle telecamere di sorveglianza dello scalo internazionale del Cairo. È qui, il 7 febbraio 2020, che Patrick è stato arrestato, ma le autorità egiziane continuano a negare. Sostengono di averlo detenuto a Mansoura, la sua città, due giorni dopo, affermazione utile a negare la detenzione illegale e gli abusi. Lo ricordava ieri Human Rights Watch: “È una vittoria dal sapore amaro - ha commentato Amr Magdi, ricercatore egiziano di Hrw - Ha già trascorso quasi due anni in ingiusta detenzione e terribili condizioni, comprese le torture subite dalla Nsa quando è stato arrestato”. E ora il timore è che il regime del Cairo usi la scarcerazione per ridurre un po’ la pressione internazionale “su casi di alto profilo”: “Non cambia nulla” nel trattamento dei prigionieri politici e dei critici del regime, conclude Magdi. La battaglia egiziana per i diritti non si ferma. Patrick Zaki libero: “Grazie a chi mi ha sostenuto. Avete tenuto accesa la luce” di Marta Serafini Corriere della Sera, 9 dicembre 2021 Intervista a Zaki, scarcerato dopo 22 mesi: “In cella leggevo quel che potevo, il mio libro preferito è “L’amica geniale”. E scrivevo, quando mi era permesso. Vorrei pubblicare i miei diari. In carcere una delle cose che ti fa più soffrire è il pensiero del dolore che provochi a chi ti vuol bene. Ora vorrei andare a Napoli. E conoscere Liliana Segre”. “Sono ancora un po’ confuso, tutto sta andando velocemente. Ma ora sono felice, sono qui con la mia famiglia, con tutte le persone che amo. Tutto qui”. Non indossa più la tuta bianca dei detenuti in attesa di giudizio, Patrick Zaki. È seduto nel salotto della sua casa di infanzia a Mansoura. Alle sue spalle un arazzo di spugna che raffigura Cristo. È il più calmo di tutti, nella stanza. Intorno a lui, il magico “dream team” di donne. La sorella Marise, la fidanzata, un’amica, mamma Hala che, dopo 22 mesi di lontananza, angoscia e paura, ora non lo perdono di vista un attimo. C’erano loro ad aspettarlo fuori dal commissariato di polizia di Mansoura da cui è stato rilasciato ieri dopo 670 giorni di detenzione. E ci sono loro mentre Patrick entra nell’appartamento dove è cresciuto e sull’auto verso il Cairo. In salotto, intanto, papà George non smette di sorridere un attimo. Zaki ha cambiato montatura di occhiali (“l’altra l’ho persa durante un trasferimento da una cella all’altra”). La barba è lunga, il sorriso quello delle fotografie di prima dell’arresto. Sotto il maglione scuro, la maglietta dell’Università di Bologna. Poi i jeans preferiti. I palmi delle mani, neri al momento del rilascio, ora sono puliti. Intorno, la cagnetta Julie scodinzola felice. Patrick, innanzitutto ben trovato. Quando hai capito che stavi per tornare libero? “Non mi hanno annunciato che sarei stato rilasciato. All’improvviso mi hanno portato al commissariato, e hanno iniziato a prendermi le impronte. Non capivo cosa stesse succedendo, non c’erano segnali che mi stessero per scarcerare. Ero confuso. Non posso dire tutti i dettagli e preferisco non parlare delle condizioni di detenzione. Ma poi ho capito che c’era una speranza. È la speranza, sai, la cosa più difficile da tenere in vita quando ti tolgono la libertà”. Hai abbracciato prima tua mamma, poi la tua fidanzata e infine tua sorella Marise. Qual è stata la prima cosa che hai detto a questo gruppo di donne che lotta per te da 22 mesi, insieme a tuo padre e tutto lo staff della Eipr? “Ho detto grazie. E poi “Temam”: va tutto bene”. Patrick ride, si interrompe. La frase che hai sempre ripetuto a tua madre fin da quando lei stava in angoscia nel 2011 ai tempi della rivoluzione e tu ti eri trasferito a vivere al Cairo… “Già. Una delle cose che più ti fa soffrire quando sei in carcere è il pensiero del dolore che provochi alle persone cui vuoi bene. Io devo solo dire grazie, grazie all’Italia per essere stata vicina a me e alla mia famiglia. Grazie a tutti quelli che hanno tenuto accesa la luce. E l’elenco è lunghissimo”. Abbiamo tempo, ora... “Gli amici in ogni parte del mondo, che si sono dati da fare per me. Ma anche la vostra delegazione diplomatica che è venuta alle udienze. Poi l’università di Bologna. Tutti i compagni di master, ma in particolare c’è una persona”. Chi è? “La professoressa Rita Monticelli. È la mia mentore al master Gemma a Bologna (quando Patrick è stato arrestato nel 2020 stava frequentando il primo semestre). Una persona che mi ha trattato come un figlio. E non mi ha trasmesso solo conoscenza ma anche valori. L’empatia, il rispetto. E l’ascolto. E poi mia sorella Marise. Ma sicuramente così faccio arrabbiare qualcuno, mi fermo qui”. L’Italia si è adoperata per il tuo rilascio a più livelli. Il premier Mario Draghi ha seguito costantemente il tuo caso. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ti ha dedicato un abbraccio pubblico. L’ambasciatore Quaroni ti ha chiamato al telefono... “Vedere in aula i vostri rappresentanti diplomatici durante le udienze mi ha dato forza. E sono sicuro che ci sono decine e decine di altre persone cui dovrò stringere la mano”. Anche la società civile ha avuto un ruolo fondamentale. “Aspettavamo di vedere quell’abbraccio da 22 mesi”, ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Non dimenticherò mai tutte le volte in cui durante le visite mi venivano raccontato delle manifestazioni, delle piazze. E di tutte le iniziative organizzate per chiedere il mio rilascio in questi quasi due anni”. La senatrice Liliana Segre ha votato per la richiesta di cittadinanza dicendo di essere in Aula idealmente come tua nonna, come persona che sa cosa vuole dire stare chiusa dentro stanza da cui non si può uscire. Vuoi dirle qualcosa? “Mi ha riempito di orgoglio sapere che una persona del suo livello e della sua statura morale si sia interessata a me. Voglio conoscerla. Assolutamente. Spero che questo avvenga quanto prima”. Patrick ora sei libero ma le accuse a tuo carico non sono cadute. Il giudice ha fissato un’udienza all’inizio di febbraio come dice la tua legale Hoda Nasrallah. Pensi di poter tornare in Italia un giorno? “Spero, ovviamente, che questo avvenga presto. Non so se ci sia un’interdizione per viaggiare all’estero. Per ora so che posso tornare al Cairo”. Dalle tue lettere traspariva grande dolore per il master in studi di parità di genere dell’Università di Bologna che non hai potuto finire. Lo riprenderai? “Spero davvero presto. Il prima possibile. Non vedo l’ora di poter riabbracciare i miei compagni, i miei professori. E c’è un posto dove vorrei andare prima o poi, in Italia”. Qual è? “Napoli. Non ci sono mai stato. La mia bisnonna Adel veniva da Napoli. Non parlo così bene l’italiano, ma l’accento di quella parte del Paese mi ha sempre affascinato. Amo molto gli autori napoletani”. Hai potuto leggere in carcere? “Sì. Dostoevskij, Saramago. E poi L’amica geniale di Elena Ferrante. Il mio preferito, forse. I libri dell’Università invece erano più complicati da avere. Ho provato anche a scrivere qualche volta ma non sempre mi era permesso tenere il blocco”. Già, scrivere… Ti piace? “Permette di rielaborare, di processare l’accaduto. Una persona a me vicino mi ha insegnato questo”. Alza lo sguardo Patrick, e in cambio gli arriva un sorriso di rimando indietro. Ma in quegli occhi c’è anche un rimprovero, dolce. Basta parlare con gli altri. Prenditi il tuo tempo, Patrick. Ricordati cosa ti hanno fatto, sembrano dire quegli occhi. Dal Corriere il 20 novembre scorso hai ricevuto un premio che speriamo di poterti consegnare molto presto di persona, il premio alla memoria di Maria Grazia Cutuli, l’inviata uccisa in Afghanistan nel 2001… “Sì, mia sorella mi ha detto. Maria Grazia… questo premio significa tanto per me. Non lo merito, ci sono eroi là fuori che combattono, in Egitto, più di me, molto più di me. Ma è un premio per cui ringrazio di cuore, Maria Grazia è molto molto importante per me, e questo riconoscimento rappresenta un grande sostegno che ho ricevuto dal Corriere, come istituzione. E presto spero di scrivere i miei diari, quello che ho passato, sul Corriere. Aspettatemi!”. Cina. Tu indaghi, io ti arresto: Pechino è il più grande sequestratore di giornalisti al mondo di Raffaella Scuderi La Repubblica, 9 dicembre 2021 Un rapporto di 82 pagine di Reporter senza frontiere denuncia l’oppressione cinese sulla stampa. “Il grande balzo all’indietro del giornalismo in Cina” è il titolo del rapporto di 82 pagine pubblicato martedì da Reporter senza Frontiere (Rsf), che documenta l’accelerazione senza precedenti della campagna di repressione di Pechino contro il diritto all’informazione. Nello specifico, il rapporto esamina gli strumenti di silenziamento del regime contro i giornalisti e il deterioramento della libertà di stampa a Hong Kong, un tempo modello di libertà e ora con un numero crescente di giornalisti arrestati in nome della sicurezza nazionale. La Ong descrive anche la strategia di Pechino per controllare l’accesso alle informazioni sia all’interno che all’esterno dei suoi confini. “Se la Cina continua la sua frenetica corsa all’indietro, i cittadini cinesi potrebbero perdere la speranza di vedere un giorno instaurata la libertà di stampa nel loro Paese e il regime potrebbe riuscire a imporre il suo anti-modello a livello nazionale e all’estero”, ha affermato il segretario generale della Rsf, Christophe Deloire, che invita le democrazie a “individuare tutte le strategie adeguate per dissuadere Pechino dal perseguire le sue politiche repressive”. Ecco i dieci punti chiave del rapporto a conferma del giro di vite della Cina sui giornalisti. Giornalisti costretti a farsi portavoce del Partito - Per ricevere e rinnovare le proprie tessere stampa, i giornalisti dovranno presto seguire una formazione annuale di 90 ore incentrata in parte sul “Pensiero” di Xi Jinping. Sono già tenuti a scaricare l’applicazione di propaganda ‘Studio Xi, Rafforza il Paese’, piattaforma che è in grado di raccogliere i dati personali. Il più grande sequestratore al mondo di giornalisti - Almeno 127 giornalisti (professionisti e non) sono attualmente detenuti da Pechino. Anche solo indagare su un argomento “sensibile” o pubblicare informazioni classificate può comportare anni di detenzione in carceri dove i maltrattamenti portano anche alla morte. Corrispondenti stranieri non benvenuti - L’intimidazione della Cina nei confronti dei giornalisti stranieri, basata sulla sorveglianza e sul ricatto dei visti, ne ha costretti 18 a lasciare il Paese nel 2020. Gui Minhai, Yang Hengjun e Cheng Lei, tre reporter stranieri di origine cinese, sono ora detenuti con l’accusa di spionaggio. Covid-19, la scusa del regime per aumentare la repressione - Almeno dieci giornalisti e commentatori online sono stati arrestati nel 2020 per avere informato il pubblico sulla crisi del Covid-19 a Wuhan. Ad oggi, due di loro, Zhang Zhan e Fang Bin, sono ancora detenuti. Silenziamento dei media nello Xinjiang - Dal 2016, in nome della “lotta al terrorismo”, Pechino conduce una violenta campagna contro gli uiguri. Attualmente in carcere ci sono 71 giornalisti uiguri, una cifra che rappresenta la metà dei reporter detenuti in Cina. Proliferazione delle “linee rosse” - Il numero di argomenti tabù continua ad aumentare. Non solo quelli ritenuti “sensibili” (Tibet, Taiwan o la corruzione) ma anche i disastri naturali, il movimento #MeToo e il riconoscimento degli operatori sanitari durante la crisi pandemica. I giornalisti di Hong Kong in pericolo dopo la Legge sulla Sicurezza - La legge sulla sicurezza nazionale, imposta lo scorso anno a Hong Kong dalla Cina, è servita come pretesto per l’arresto di almeno 12 giornalisti e difensori della libertà di stampa, tra cui il fondatore di Apple Daily Jimmy Lai: tutti rischiano l’ergastolo. La governatrice di Hong Kong, “pupazzo” di Pechino - Per compiacere il regime cinese, Carrie Lam, amministratore delegato di Hong Kong, ha chiuso l’ultimo media mainstream indipendente, Apple Daily, e sta censurando il gruppo di media pubblici Rthk (Radio Television Hong Kong). La propaganda mondiale del media statale Cgtn - Il gruppo audiovisivo statale cinese Cgtn continua a trasmettere la propaganda del regime in tutto il mondo nonostante abbia perso la licenza nel Regno Unito nel 2021. La rete ha mandato in onda le confessioni forzate dell’editore Gui Minhai e dell’ex giornalista Peter Humphrey. Le ambasciate usate come strumento contro la libertà dell’informazione - Anche le missioni diplomatiche cinesi sono fonte di pressione contro la libertà di stampa nelle democrazie. Famoso per le sue diatribe contro i media, l’ambasciatore cinese a Parigi, Lu Shaye, che insulta e attacca regolarmente i giornalisti indipendenti. La Repubblica Popolare Cinese si colloca al 177° posto su 180 nell’ Indice della libertà di stampa, la classifica annuale di nazioni compilata e pubblicata da Rsf, solo due posizioni sopra la Corea del Nord. La regione amministrativa speciale di Hong Kong, un tempo baluardo della libertà di stampa, è scivolata dal 18° posto all’80° nel 2021. Myanmar. Decenni di impunità hanno spianato la strada al colpo di stato dei militari di Shayna Bauchner* La Repubblica, 9 dicembre 2021 Le uccisioni di massa, gli stupri e le torture dell’esercito che hanno spinto più di 730.000 Rohingya a fuggire in Bangladesh. Una forza armata impenitente nella sua brutalità, che mantiene il potere terrorizzando i civili. Il 10 dicembre 2019, Abubacarr Tambadou, allora ministro della giustizia del Gambia, pose una domanda alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dell’Aia. “Perché - disse - il mondo sta a guardare e permette di nuovo tali orrori nella nostra vita?” Fu quello il primo giorno di udienze nel caso sollevato dal Gambia, secondo cui il Myanmar vìola la Convenzione sul genocidio nelle sue atrocità contro l’etnia Rohingya nello Stato di Rakhine. Fu anche la prima volta che gli abusi dell’esercito del Myanmar vennero stati esposti davanti a un Tribunale Internazionale. In tre giorni, il team legale del Gambia descrisse le uccisioni di massa, gli stupri e le torture dell’esercito del Myanmar che spinsero - e continuano a spingere - più di 730.000 Rohingya a fuggire in Bangladesh. Venne dipinta l’immagine di una forza armata impenitente nella sua brutalità, che mantiene il potere terrorizzando i civili da decenni, senza controllo. Nel gennaio 2020, la CIG ordinò all’unanimità al Myanmar di proteggere i 600.000 Rohingya rimasti nello Stato di Rakhine dal genocidio. Oltre 1.300 persone uccise e più di 10mila arresti. Arriviamo al 1 ° febbraio 2021: quel giorno, gli stessi generali che orchestrarono le atrocità contro i Rohingya organizzarono un colpo di stato. Da allora, la giunta ha condotto una sanguinosa repressione del movimento pro-democrazia con lo stesso insensibile disprezzo per la vita che ha a lungo guidato le loro operazioni di terra bruciata nelle regioni delle minoranze etniche. Polizia e soldati hanno ucciso più di 1.300 persone e arrestato più di 10.000 manifestanti, giornalisti e altri. Gli abusi metodici e sistematici post-golpe, come quelli inflitti ai Rohingya, equivalgono a crimini contro l’umanità. Le radici del colpo di stato e dello spargimento di sangue che ne è seguito risiedono chiaramente nell’impunità di cui i militari hanno goduto da quando hanno preso il potere per la prima volta nel 1962. Le spinte per reimmaginare il Myanmar. Due anni fa, la gente si è radunata in tutto il Myanmar a sostegno del governo e dell’allora leader de facto Aung San Suu Kyi, che ha difeso senza riserve l’esercito all’Aia. Questa settimana, Suu Kyi è stata condannata al carcere dai generali che ha sostenuto. Dopo il colpo di stato, molti manifestanti hanno cercato di espiare la lunga storia di ostilità anti-Rohingya in Myanmar. Il governo di unità nazionale dell’opposizione si è impegnato a porre fine alla condizione di apolidi dei Rohingya e ad altri abusi. Con campagne di solidarietà, gli attivisti stanno reimmaginando il Myanmar come uno stato rafforzato dalla sua composizione multietnica e multireligiosa. In questo contesto mutevole, il caso della CIG va avanti. La Corte terrà successivamente le udienze sulle obiezioni preliminari che il Myanmar ha presentato 10 giorni prima del colpo di stato. Non c’è una via rapida per la giustizia in Myanmar, ma mai la richiesta è stata più forte. *Shayna Bauchner ricercatrice di Human Rights Watch