Ergastolo ostativo: l’aula beffa la Consulta di Otello Lupacchini Il Riformista, 8 dicembre 2021 Investita della questione se l’esclusione del beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, che non abbiano collaborato con la Giustizia, sia contraria all’art. 27 della Costituzione e all’art. 3 della Cedu, la Consulta ha scelto di rinviare la decisione, per dare tempo al Parlamento di porre mano a una necessaria riforma. Ma il “testo base” per la riforma dell’ergastolo ostativo licenziato dalla commissione Giustizia alla Camera rende diabolica e inarrivabile per il recluso la certezza della prova, e quindi la possibilità di accedere alle misure premiali, in evidente contrasto con le istanze riformatrici della Consulta e dalla Corte di Strasburgo. La pazienza del cupo ottimista, il quale sa da sempre di vivere in tempi calamitosi, diversamente dal pessimista che se ne accorge, invece, ogni mattina, viene messa a dura prova da quanti, con supponenza intollerabile, non perdono occasione di ribadire che il ““pacchetto antimafia” post stragi (che ha funzionato e funziona) rischia di essere fortemente indebolito per alcune aperture dell’ergastolo ostativo ai mafiosi non pentiti, con evidenti ripercussioni sullo stesso pentimento, che - in quanto non più indispensabile per ottenere i benefici - risulta ridimensionato sia come rilevanza in sé sia come potenzialità favorevole al collaborante”. Contestualizziamo. Correva l’anno 1992, all’indomani della strage di Capaci, quando nacque il regime cosiddetto dell’“ergastolo ostativo”, per escludere dai benefici della liberazione anticipata, dei permessi premio, del lavoro all’esterno, della semilibertà, della liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di pena, i condannati per reati di mafia, terrorismo ed eversione, che rifiutano di collaborare con la Giustizia: se per l’ergastolo comune resta possibile un progressivo miglioramento del trattamento penitenziario, che va di pari passo con la crescita dell’opera di rieducazione del reo, solo la volontà di collaborare, per contro, comproverebbe il distacco del condannato dai legami con l’associazione delinquentesca. La illegittimità costituzionale della normativa in questione è stata reiteratamente percepita come pure ne è stata denunciata l’eterodossia rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma il percorso per rimuovere il discutibile automatismo istituito tra la collaborazione processuale del condannato e la concessione dei benefici, lungo e variamente accidentato, è ancora lontano dall’essere concluso. In particolare. La questione di costituzionalità, portata all’attenzione della Corte Costituzionale nell’anno 2003, venne respinta, sostenendo i Giudici che gli ergastolani che rifiutavano di collaborare con la giustizia, esercitavano una propria “scelta” e non erano dunque esclusi definitivamente dai benefici. Nessun automatismo: bastava in fondo che il condannato decidesse di cambiare “idea” sulla volontà di collaborare con la giustizia. Analoga affermazione si ritrova, dopo dieci anni, nella sentenza n. 135 del 2013. Quando, tuttavia, con sentenza n.149 del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 58 quater dell’Ordinamento penitenziario che escludeva dai benefici gli ergastolani condannati per sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione da cui fosse derivata la morte della vittima, si aprì, per quanto concerne l’ergastolo ostativo, una prima crepa nel consolidato orientamento della Corte di legittimità delle leggi al riguardo, essendo state riconosciute, altresì, tanto l’irragionevole disparità di trattamento con gli ergastolani condannati per altri reati, quanto l’illegittimità del meccanismo automatico di preclusione previsto dalla legge, senza alcuna valutazione del giudice sul percorso individuale del detenuto. È stata successivamente la Corte Europea dei diritti dell’uomo, nell’affaire Marcello Viola vs. Italia, nel 2019, a ritenere che la legislazione nazionale in tema di ergastolo ostativo viola l’art. 3 della Cedu, per un verso, affermando che la pena deve sempre mirare alla rieducazione del reo e che vietare a un condannato di reinserirsi nella società lede il principio di dignità umana e, per l’altro, censurando proprio la presunzione di pericolosità del condannato che non collabora con la Giustizia, spiegando che la mancata collaborazione ben può dipendere dal timore di ritorsioni sulla propria vita e sui propri cari e non sempre vale a dimostrare la persistenza dei legami criminali. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 253 del 2019, ha quindi dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non consentiva ai condannati all’ergastolo ostativo di avvalersi dei permessi premio, pur in presenza di elementi per escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o il pericolo del loro ripristino, così minando irreversibilmente la presunzione assoluta di pericolosità del reo che rifiuta di collaborare con la giustizia e aprendo, dunque, alla possibilità che il giudice compia una valutazione caso per caso. Investita, finalmente della questione se l’esclusione del beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, che non abbiano collaborato con la Giustizia, sia contraria all’art. 27 della Costituzione e all’art. 3 della Cedu, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 97 del 2021, rispettosa sul piano del dialogo istituzionale ed equilibrata nel salvaguardare le esigenze di tutela della collettività, evitando di indebolire il sistema di contrasto della mafia, ha scelto di rinviare la decisione, per dare tempo al Parlamento di porre mano a una riforma, che sappia tener conto della particolare natura dei reati mafiosi, e della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia. È qui che s’inserisce il “testo base” per la riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di ergastolo ostativo licenziato dalla commissione Giustizia alla Camera lo scorso 17 novembre, maldestro tentativo di neutralizzare le spinte riformatrici della Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo: i detenuti condannati all’ergastolo potranno accedere ai benefici penitenziari (come l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio o le misure alternative alla detenzione), anche senza collaborare con la giustizia, “purché oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento”; al contempo, tuttavia, servirà l’accertamento di “congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso”, compreso il “pericolo di ripristino” dei contatti. Sic stantibus rebus, fingendo di non notare che, col “testo base” in discussione si prospetta, a tacer d’altro, l’innalzamento della soglia di certezza della prova, anche negativa, diabolica e inarrivabile per il recluso, in chiaro conflitto con il senso delle misure premiali ancorate a un giudizio prognostico impossibile da cristallizzare in verità assoluta, gli archimaestri del cote degli addetti alla repressione, con la proposizione da cui si son prese le mosse, enunciano un dogma che urta contro la logica e contro i fatti, dunque da dover essere imposto come motivo di fede e via della salvezza. Un dogma che tradisce un luogo dell’anima, a chiamare così situazioni radicate nel cervello e nelle midolla, sopravvissuto ai cambiamenti, dalle lingue all’ambiente geologico, avvenuti negli ultimi secoli sul continente europeo: il “metodo inquisitorio”. Al fondo di esso, infatti, risuona l’eco del pensiero dell’abate di Vayrac, secondo cui l’imputato è libero di “confessare la propria colpa, chiedere perdono e sottomettersi a certe espiazioni religiose (...) digiuna, prega, si mortifica, anziché andare al supplizio recita dei salmi, confessa i peccati, sente la messa, lo scusano, lo assolvono, lo restituiscono alla famiglia e alla società. Se il delitto è enorme, se il colpevole si ostina, se bisogna versare del sangue, il prete si ritira e non riappare che per consolare la vittima sul patibolo” (l. De Maistre, Oeuvres complètes, Lyon Paris, 1931, 3, p. 325 s.). Insomma, è duro a morire l’assioma gnoseologico, colpevole o innocente, l’imputato sa quanto basta; bisogna che lo dica e non essendo più esperibili tecniche brutali ad eruendam veritatem, opportunamente stimolato con compensi allettanti, fino all’impunità, commisurati agli apporti, tanto più svela tanto meglio esce. Radicalizzazione. Nelle carceri non solo mediatori culturali, ma personale altamente qualificato di Stefano Piazza La Verità, 8 dicembre 2021 Lo scorso 29 novembre è iniziata alla Camera dei deputati la discussione della nuova proposta di legge sulla deradicalizzazione e sulla prevenzione del terrorismo. Si tratta del testo presentato all’inizio della legislatura da Emanuele Fiano (Pd) che ricalca quello preparato da Andrea Manciulli (Pd) e Stefano Dambruoso in quella passata quando fu approvato alla Camera ma non al Senato a causa della caduta dell’esecutivo. La proposta di legge che è stata presentata lo scorso 25 novembre nella sede del gruppo Pd della Camera è il risultato della mediazione avvenuta con il parlamentare di Forza Italia Matteo Perego Di Cremnago che aveva messo l’accento nella sua proposta anche sugli estremismi di destra e di sinistra. Se durante il dibattito non ci saranno particolari difficoltà, la Camera potrebbe approvare la nuova legge entro metà dicembre, giusto prima della discussione sulla legge di Bilancio. Chi si aspettava una nuova legge che ad esempio tenesse conto di quanto ha recentemente auspicato il Copasir nel suo documento finale approvato nella seduta del 26 ottobre 2021 che nelle conclusioni recita: “È auspicabile che si introduca, ad esempio, tale fattispecie di reato sul modello dell’articolo 600-quater del Codice penale sulla detenzione di materiale pedopornografico” probabilmente resterà deluso. Nei 12 articoli della proposta di legge questo non c’è e si parla di creare un Centro nazionale sulla radicalizzazione (Crad) che dovrebbe essere in grado di monitorare il fenomeno e di poter disporre ogni anno di un piano per contrastare il fenomeno grazie anche a delle basi sul territorio in modo da rendere il contrasto al fondamentalismo più diffuso perfino in realtà particolarmente sensibili, come le carceri, le scuole e il web. Altre strutture saranno collocate presso “le prefetture, uffici territoriali del Governo dei capoluoghi di regione sono istituiti i Centri di coordinamento regionali sulla radicalizzazione (Ccr), con il compito di dare attuazione al Piano strategico nazionale”. Scorrendo la proposta di legge la sensazione è che si tratti di un testo molto generico, in parte contraddittorio, specie per quanto attiene alle carceri dove non si può certo immaginare di affidare il recupero sociale, culturale, giuridico, lavorativo di persone detenute a figure non altamente specializzate, o semplicemente a mediatori culturali. È assolutamente necessario che siano capaci di gestire la pericolosità sociale dei soggetti detenuti per terrorismo, anche in custodia cautelare, come pure di quelli vulnerabili alla radicalizzazione, attraverso programmi e metodologie multidisciplinari attuate da professionisti di settore. Infine, colpisce - ma non troppo visto il Partito dalla quale questa legge nasce - il passaggio nel quale si parla di “islamofobia, in coerenza con quanto già previsto dal Decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205”. Come dovrebbe essere ormai noto a tutti l’islamofobia è il cavallo di battaglia della Fratellanza musulmana che con questo termine tende a vittimizzare i musulmani ai quali chiede di non integrarsi con tutti i disastri che abbiamo davanti agli occhi. Ma forse non è successo ancora abbastanza, non è stato versato abbastanza sangue per occuparsi di loro, dei loro finanziamenti e della loro presenza delle istituzioni. Mala tempora currunt. Folli rei e Rems, scongiurare il ritorno agli Opg di Daniele Piccione Il Manifesto, 8 dicembre 2021 A giorni, la Corte costituzionale sarà chiamata ad esprimersi sulla legittimità della legge con la quale, nel 2014, si pose fine alla tragica storia di un’istituzione tra le più dannose nel panorama novecentesco. Gli ospedali psichiatrici giudiziari erano nati al principio del secolo scorso ed erano stati pensati per controllare e curare il folle - reo, ovvero l’autore di reato infermo di mente. Seguiva la non imputabilità e l’etichetta di pericoloso socialmente. Implacabili luoghi di confino per persone bisognose di cura, gli ospedali psichiatrici giudiziari resistettero a lungo, impedendo il recupero del reo folle. Finalmente il legislatore, grazie ad una decisiva inchiesta condotta da una Commissione del Senato, ne sancì la morte definitiva, sette anni fa. Così come fu per la legge Basaglia, tuttavia, il Parlamento non volle sostituire un’istituzione totale con un’altra. Così la nascita delle Rems non rappresentava l’alternativa per rispondere all’equivoca domanda di sempre: dove mettere le persone con disturbo mentale che hanno compiuto un delitto? La legge 81 del 2014 offriva risposte ad una domanda del tutto diversa: cosa serve per curare e far stare meglio questo persone? Si puntò così su soluzioni nuove: piani terapeutici individuali, così da tener conto delle storie di chi soffre, degli ambienti dove è vissuto e cresciuto, dei loro bisogni; presa in carico da parte dei Dipartimenti di Salute Mentale, prescindendo dagli internamenti oppressivi, tipici delle psichiatrie tradizionali; piccoli luoghi ad alta intensità terapeutica pensati per approfondire la diagnosi, per elaborare un piano di azione socio psichiatrico integrato, per gestire eventuali fasi acute. Ora, un’ordinanza di un giudice di Tivoli pone dubbi su questa coraggiosa opera di de-istituzionalizzazione. Ma dietro il sipario di complesse questioni poste alla Corte costituzionale, si intravede il grande tema: l’istanza di aumentare l’offerta dei posti letto nelle Rems, per far fronte alle liste di attesa che non consentono di assicurare la quota intera del controllo sociale stabilito dalla magistratura giudicante. La Corte, con un’ordinanza interlocutoria, ha acquisito, tra l’altro, i dati relativi alle misure di sicurezza non eseguite per mancanza di luoghi ove ricoverare i non imputabili. Nei prossimi giorni giungerà la decisione definitiva dei giudici costituzionali. La speranza è che la scelta di politica legislativa del 2014, tanto sofferta, regga l’urto. Ma perché quell’avanzamento sociale resista vi è bisogno che la Corte costituzionale colga lo spirito unitario dell’opzione di politica legislativa di sette anni fa. Basterebbe rievocare la geniale intuizione basagliana, secondo cui quando aumenta l’offerta di posti nelle istituzioni del contenimento, la domanda segue e subito si adegua. Il tutto esaurito non basta mai alla famelica crescita delle istanze di controllo sociale e di privazione della libertà. Si dirà: e allora, quali le risposte effettive? Il sentiero fu tracciato nel 2014 e fu confermato da una lungimirante delibera del Consiglio Superiore della Magistratura che parlava ai giudici penali. La soluzione del ricovero coattivo in Rems deve essere residuale, va disposta solo se nessun’altra soluzione offerta dai Dipartimenti di salute mentale si profila efficace. Al centro deve restare il bisogno di assistenza terapeutica individuale. Sarebbe vitale riaffermare la necessità, anzi, di sostenere con i programmi del Pnrr proprio i Dipartimenti, spesso divenuti presidi di risposta sanitaria posti ai confini delle metropoli, sovente con il compito proibitivo e solitario di riassorbire la disperazione annodata alla sofferenza psichica. Qui sta la sfida. Prima di provare a vincerla, servirebbe un segnale di consapevolezza autorevole e aperto alla condivisione che scongiuri i rischi di regressione culturale. Zagrebelsky: “Malati psichiatrici dietro le sbarre: l’ultima vergogna del sistema carceri” ripartelitalia.it, 8 dicembre 2021 Grazie all’intervento e alle ripetute denunce dell’associazione Antigone e di Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino, è stato finalmente possibile sgomberare il padiglione del carcere Lorusso e Cutugno di Torino - che verrà poi ristrutturato - utilizzato per i detenuti con problemi psichiatrici. Lo evidenzia il presidente emerito della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, che ribadisce: “viene rimossa una situazione di inumanità degradante, legata principalmente allo stato materiale di quei locali. Ma rimane un problema generale, che riguarda la società nel suo insieme e specialmente quei detenuti, in più malati, che sono nelle mani e nella responsabilità dello Stato”. “La legge prevede i casi in cui ai condannati o prosciolti per infermità di mente, socialmente pericolosi, sono applicate misure di sicurezza. Tra esse il Codice penale menzionava gli ospedali psichiatrici, che con la legge del 2012 sono stati chiusi. Come documentato - anche per il lavoro e la Relazione finale (2011) della Commissione di inchiesta senatoriale sul Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino- si trattava di luoghi incompatibili con il divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanità”, scrive su La Stampa. “Ma, chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari, restava il problema del trattamento di pazienti psichiatrici pericolosi. Essi sono oggetto di una misura di sicurezza imposta da una sentenza penale definitiva o da un provvedimento cautelare disposto dal giudice nel corso del processo penale. Nell’intento di contemperare le esigenze di difesa sociale con la necessità di trattamenti terapeutici riabilitativi, la legge stabiliva che, entro il 2013, si istituissero strutture di carattere sanitario, con mezzi di sicurezza e vigilanza esterna solo nella misura del necessario. Di rinvio in rinvio le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) vennero create a partire dal 2017”. “Per rispettare il carattere sanitario delle nuove strutture e consentire il mantenimento dei rapporti familiari e sociali, si previde che esse fossero diffuse sul territorio e di dimensioni ridotte (non più di 20 ricoverati). Trattandosi di istituti sanitari è prevista la primaria responsabilità delle Regioni. La legge stabilisce che il giudice disponga il ricovero nelle Rems dell’infermo o seminfermo di mente pericoloso solo se nessun’altra misura di sicurezza sia sufficiente ad assicurare cure adeguate e considerazione della sua pericolosità sociale. Tuttavia, il numero delle Rems effettivamente istituite non è sufficiente al ricovero delle persone cui il giudice abbia applicato la misura del ricovero. Sono 32 in 16 Regioni diverse”. “Si sono così create liste di attesa regionali. Se si tratta di detenuti, in attesa che si liberi un posto, continua la detenzione in carcere. Se invece non si tratta di detenuti, essi rimangono in libertà o soggetti alla sola libertà vigilata. I problemi che si pongono sono evidenti e gravi. Infermi di mente pericolosi non sono trattati come sarebbe necessario. Sia se liberi, sia se detenuti la loro infermità e la loro pericolosità non è adeguatamente gestite sul territorio o in carcere. In carcere poi il personale penitenziario manca della preparazione specifica per il trattamento di infermi psichiatrici. Sia questi che il personale penitenziario sono sottoposti a pesantissime condizioni di vita e di lavoro”. “La situazione è grave sotto più di un aspetto. L’ha anche denunziata il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. C’è l’illegalità della detenzione in carcere di persone che la legge e la decisione del giudice obbligano a trasferire nelle Rems, facendo così cessare lo stato di detenzione. C’è l’inumanità del trattamento, per le condizioni delle celle e comunque per l’inidoneità del necessario trattamento sanitario. Tra poco interverrà la Corte costituzionale, che deve decidere una questione di costituzionalità riguardante proprio il mancato ricovero in una Rems disposto dal giudice”. “La Corte ha chiesto ai ministri della salute e della giustizia, oltre che al presidente della Conferenza delle Regioni una serie dettagliata di informazioni. Tra le altre, il numero delle Rems, quello dei pazienti ricoverati in Regioni diverse da quelle di origine, le dimensioni delle liste di attesa e la loro durata, il numero e la tipologia dei reati commessi dalle persone oggetto di un ordine di ricovero in Rems, quante di tali persone siano collocate in una struttura penitenziaria o in reparti ospedalieri di medicina psichiatrica oppure siano sottoposte alla misura di sicurezza della libertà vigilata, quali siano le difficoltà operative della Rems”, prosegue. “Si aspetta la risposta dei ministeri, che dovranno trovare una posizione che superi il loro discorde orientamento. Oltre al suo contenuto specifico, l’approfondimento che la Corte ha disposto è di grande interesse, poiché indica un atteggiamento attento alla realtà della applicazione delle leggi, piuttosto che la riduzione del ruolo della Corte ad un confronto astratto tra la legge sospettata di incostituzionalità e la Costituzione. Si tratta di un ordine di idee che richiama il metodo della Corte europea dei diritti umani, che tende a considerare “diritti concreti ed effettivi e non teorici e illusori”. Teorici e illusori sono i diritti scritti nelle leggi, se non riescono a diventare effettivi nella loro concreta applicazione”. “Il problema che la Corte costituzionale sta esaminando è anche davanti alla Corte europea, che ha ricevuto più di un ricorso e ha chiesto chiarimenti al governo relativamente sia alla continuazione illegale della detenzione, sia ai trattamenti sanitari. La Corte europea ha posto la questione della natura sistemica delle violazioni della Convenzione europea dei diritti umani da parte dell’Italia nei confronti di coloro che continuano ad essere detenuti, non ostante l’ordine del giudice di ricovero. Occorrono concreti provvedimenti urgenti, poiché è prevedibile che la attuale situazione sia “condannata” sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte europea, come illegale, pericolosa e produttiva di trattamenti inumani”. Covid e vaccini. Oltre il 90% dei detenuti con almeno una dose Adnkronos, 8 dicembre 2021 Oltre il 90 per cento dei detenuti in Italia è stato vaccinato “almeno con la prima dose”. Con punte che superano il cento per cento, come a Bolzano. Mentre oltre il 70 per cento dei detenuti ha fatto anche la seconda o la terza dose. Sono numeri record quelli che emergono dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sulle vaccinazioni ai detenuti. L’Adnkronos ha potuto visionare i dati, regione per regione. Tra le regioni con il numero più basso di vaccinati, ma comunque con cifre record, spicca la Sicilia. Dove è stato vaccinato all’incirca l’80 per cento dei carcerati. Eccoli, i numeri: La Regione con il numero più alto di somministrazioni di vaccino è la Lombardia con 15.544 inoculazioni dall’inizio delle vaccinazioni. Attualmente i detenuti sono circa 7.800, ma i numeri sono ‘dinamici’, perché variano da mese in mese. Segue la Sicilia con 10.502 vaccinati, sempre dall’inizio delle inoculazioni. Qui attualmente ci sono all’incirca 6.600 detenuti. Poi Lazio con 9.173 vaccini fatti. In questa regione ci sono oggi, con Abruzzo e Molise circa 7.700 detenuti. Ecco la situazione delle carceri nelle altre regioni: in Piemonte 6.821 vaccinati, in Valle d’Aosta 207, nella Provincia autonoma di Bolzano “sono tutti vaccinati”, dice all’Adnkronos Gianfranco De Gesu, direttore generale detenuti e trattamento del Dap. Sono 874 i detenuti vaccinati nelle carceri della Provincia autonoma di Trento. E 3.351 in Veneto. Nel Friuli Venezia Giulia sono stati vaccinati 1.001 detenuti, in Liguria 2.245, in Emilia Romagna 6.398, in Toscana 4.574 somministrazioni fatte. E ancora: In Umbria 2.630 vaccinati, nelle Marche 1.588, in Abruzzo 3.070, nel Molise 588, in Campania 1.636, in Puglia 6.611, in Basilicata 721, in Calabria 4.652 e in Sardegna 3.325 vaccinati. Attualmente ci sono nelle carceri italiane circa 54.500 detenuti, distribuiti in 188 strutture penitenziarie. “La popolazione di detenuti che si è vaccinata supera, in proporzione, quella dei cittadini italiani liberi - spiega all’Adnkronos Gianfranco De Gesu- Siamo soddisfatti”. E’ lo stesso De Gesu a sottolineare che “le vaccinazioni non le facciamo noi - spiega - noi abbiamo il dato aggregato che ci viene fornito dal Ministero della Salute, ma al nostro interno facciamo le stime”. È “difficile”, aggiunge De Gesu stabilire con certezza il numero di novax nelle carceri. “Perché non siamo in grado di sapere se qualche detenuto è contro il vaccino. Poi ci sono quelli che non si sono potuti vaccinare per problemi di salute”. Attualmente sono 161 in Italia i detenuti malati di Covid. “Di questi 158 sono asintomatici - spiega ancora De Gesu - tre sono sintomatici, di cui uno ricoverato in ospedale”. “La percentuale è dello 0,9 per cento della popolazione di detenuti”, dice. “Gran parte dei malati che compongono il sistema penitenziario non supera 1 o 2 unità per carcere”. “Mai in tutta la storia del Covid abbiamo superato una percentuale che fosse superiore all’1 per cento - dice ancora De Gesu - il Covid è stato ben contenuto, forse avremmo potuto fare qualcosa di diverso ma non avremmo potuto avere risultati migliori”. E avverte: “Non abbassiamo la guardia, perché in questo momento stiamo andando verso le terze dosi”. “Il tutto sapendo che le misure sanitarie sono dei sistemi regionali sanitari”. Per quanto riguarda le terze dosi, “il dato ufficiale è quello che ci viene fornito dal Ministero della Sanità che parla di somministrazioni, non sappiamo se è la prima o la seconda, noi come dicevo siamo in grado di fare delle stime informali”. Cartabia pronta a riformare il Csm, ma niente sorteggio di Valentina Stella Il Dubbio, 8 dicembre 2021 La guardasigilli ieri ha incontrato il premier Draghi e l’Anm. Giovedì vertice con i capigruppo di maggioranza. La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario è “imminente”, ha detto due giorni fa la ministra Cartabia, che ieri mattina ne ha discusso anche con il presidente del Consiglio Mario Draghi. Bisogna accelerare: non si può più attendere una riforma così importante per la magistratura e per l’amministrazione della giustizia. Subito dopo l’incontro con il premier la ministra ha incontrato l’Anm, con cui ha avuto un colloquio di diverse ore. Giovedì pomeriggio vedrà anche i capigruppo della maggioranza, ai quali potrebbe presentare finalmente gli emendamenti. Il sottosegretario Francesco Paolo Sisto ci conferma che “il ministero è incessantemente al lavoro per completare le proprie riflessioni”. Intorno a questa riforma ci sono molte aspettative, anche da parte del Colle. Probabilmente la partita sarà più semplice per Cartabia, da un certo punto di vista, rispetto a quella della riforma del processo penale, perché ha davanti a sé una maggioranza più compatta che non la inchioderà in una estenuante ricerca dell’equilibrio: nessun partito vuole usare i guanti di velluto con la magistratura, considerati gli scandali emersi negli ultimi due anni. Dall’altra parte, proprio per questo, le toghe sono consapevoli che non possono alzare troppo il livello delle loro pretese, anche perché nelle ultime dichiarazioni sia il Capo dello Stato Mattarella che la Guardasigilli e il vice presidente del Csm David Ermini hanno sottolineato come l’unica trincea da difendere sia quella dell’autonomia e dell’indipendenza. Certo la magistratura non può restare a guardare, l’incognita è capire quanto peso abbia ancora. Sulla riforma del penale la ministra è stata accusata di aver ceduto al compromesso politico, senza ascoltare adeguatamente i protagonisti del processo. Ora cosa accadrà? Lo snodo cruciale, anche se chiaramente non è da considerarsi la panacea di tutti i mali del carrierismo e del clientelismo, è il nuovo sistema di voto per rinnovare il Csm. Proprio su questo giornale si è aperto un ampio dibattito in tal senso. I vari gruppi associativi sono divisi rispetto alla proposta della Commissione Luciani sul voto singolo trasferibile, anche se paiono tutti d’accordo con la necessità di valorizzare all’interno del Consiglio tutte le anime interne alla magistratura. Sembra comunque escluso che dal Governo possa arrivare un placet al metodo del sorteggio, ritenuto da molti incostituzionale e contrario a quanto detto da Mattarella nel suo discorso alla Scuola superiore della Magistratura: “L’attività del Csm, sin dal momento della sua composizione, deve mirare a valorizzare le indiscusse professionalità su cui la magistratura può contare, senza farsi condizionare dalle appartenenze”. Stesso pensiero espresso dalla commissione Luciani per cui il sorteggio “sembra implicare una sorta di contraddittoria sfiducia nell’efficacia delle misure che si vanno proponendo, dalle quali dovrebbe invece scaturire una forte responsabilizzazione sia dell’intera magistratura che del Consiglio superiore”. La stessa Commissione ha escluso il sorteggio anche per i membri delle singole commissioni del Csm, diversamente da quanto previsto dal ddl Bonafede: per alcuni sarebbe stato un ulteriore limite agli intrecci delle correnti mentre per la maggior parte delle toghe era stata vista come “una risposta demagogica a problemi di complessa natura, anche tecnica”, disse l’Anm. Altro elemento importante saranno i criteri di valutazione per l’assegnazione degli incarichi semi-direttivi e direttivi: se è vero che andrà preservata la discrezionalità del Consiglio, è comunque essenziale che ci sia una norma primaria a dettare un quadro oggettivo all’interno del quale muoversi, altrimenti sarà davvero difficile porre un freno al potere correntizio. Sarà interessante capire anche quale sarà l’orientamento del ministero sulle porte girevoli. La proposta del ddl Bonafede, che prevede il divieto di tornare alle funzioni giudiziarie per un magistrato che abbia assunto incarichi elettivi o di governo, è stata ben accolta da un parere del Csm dello scorso aprile: tali incarichi incidono infatti negativamente sulla immagine di imparzialità e di indipendenza dei magistrati e quindi non sono compatibili con lo svolgimento delle funzioni giudiziarie. Mentre l’idea della Commissione Luciani è quella di ricollocare nelle funzioni giudiziarie svolgendo però esclusivamente funzioni collegiali, senza possibilità di presiedere il collegio, e non assumendo incarichi direttivi o semi-direttivi. Ulteriore questione di rilievo da affrontare sarà quella dei magistrati fuori ruolo. Per le toghe quasi un totem, per i penalisti guidati da Caiazza un sistema da smantellare. La Commissione Luciani ha lavorato a proposte emendative, che prevedono, tra l’altro, la riduzione del numero massimo di magistrati complessivamente collocabili fuori ruolo. Nella partita c’è poi da capire che ruolo verrà assegnato all’avvocatura, se di comparsa o di protagonista: le sarà consentito di votare nei Consigli giudiziari, soprattutto nella fase delle valutazioni di professionalità? E le verranno aperte le porte, insieme alla Accademia, del prestigioso e strategico Ufficio studi del Csm? Riforma del Csm, Cartabia è quasi pronta di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 8 dicembre 2021 La ministra ha incontrato Draghi e l’Associazione magistrati. Domani vertice con i capigruppo nelle commissioni, le posizioni sulla legge elettorale del Consiglio sono distanti. E in parlamento non ci saranno forzature prima del voto per il Quirinale. L’incontro, che non è certo il primo, serve a far sapere a tutti che lei il suo lavoro l’ha fatto. O quasi fatto. Marta Cartabia è stata ieri mattina a palazzo Chigi per illustrare a Mario Draghi la sostanza degli emendamenti (al vecchio disegno di legge Bonafede) che contengono le sue proposte di riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Le prime sono urgentissime - infatti sono contenute nelle norme di diretta applicazione, mentre le altre saranno oggetto di una delega - perché a luglio il Csm si rinnova e non può farlo, a detta di tutti, con le vecchie regole. Cartabia ha da mesi sulla scrivania le proposte della commissione da lei insediata, ma non ha ancora trovato un’intesa politica sulle questioni più delicate, prima fra tutti la nuova legge elettorale per la componente togata del Consiglio. Per questo è probabile che vorrà portare i suoi emendamenti in Consiglio dei ministri, per un’approvazione formale, come già fatto per la riforma del processo penale. Vincolando così la maggioranza a un testo. Prima però dovrà discutere anche con l’Associazione nazionale magistrati, che ha già incontrato ma che sulla nuova legge elettorale non ha una linea comune, e con gli avvocati. Domani ci sarà un nuovo giro di confronto politico con le forze di maggioranza: i capigruppo delle commissioni giustizia sono stati convocati in via Arenula. Bisogna correre. O fare come se, perché tra legge di bilancio ed elezione del presidente della Repubblica, nei prossimi due mesi il parlamento potrà dedicare poco tempo alla riforma. Per primo Sergio Mattarella ha richiamato (più volte) la necessità che nuova legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura sia in vigore e operativa per le prossime elezioni. Ma lo stesso Consiglio ha spiegato di aver bisogno di un paio di mesi per mettere a punto i nuovi regolamenti conseguenza della nuova legge. Ragione per cui la riforma andrà approvata entro maggio, e potrà esserlo a questo punto solo con la consueta tecnica del monocameralismo di fatto e dei voti di fiducia. Comprensibili dunque le preoccupazioni dei partiti che ancora fino a domani non conosceranno gli emendamenti: non vogliono trovarsi di fronte a un prendere o lasciare. D’altra parte Cartabia sa che sulla giustizia la maggioranza può andare in crisi, anche perché in materia è all’opera una maggioranza alternativa, composta da Italia viva e tutto il centrodestra. Inimmaginabile che proprio lei voglia andare a una prova di forza con il nodo Quirinale ancora da sciogliere, mentre è probabile che questo accada dopo. Tra le modifiche in arrivo, anche una stretta sulle incompatibilità e sul ritorno in funzione dei magistrati candidati o eletti. Le regole attuali sono a tal punto blande che proprio ieri il Csm ha dovuto dare il via libera a Catello Maresca, ex candidato sindaco a Napoli e consigliere comunale con l’intenzione di restarci come “guida dell’opposizione”, a riprendere le funzioni. Senza neanche troppo spostarsi da Napoli (dove era sostituto procuratore generale): farà il giudice della corte d’Appello di Campobasso. Luciano Violante: “Riforma del Csm? La ostacola chi ha paura di perdere potere” di Simona Musco Il Dubbio, 8 dicembre 2021 “Qualsiasi cambiamento sconvolge i Sistemi, per questo c’è resistenza. L’autogoverno della magistratura è diventato purtroppo autoreferenzialità e separatezza”. A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera ed ex magistrato, secondo cui per risolvere le storture interne al mondo delle toghe non basta una legge. Di fronte alla questione morale che attanaglia ormai da tempo la magistratura, infatti, l’unica soluzione è che la stessa riacquisti credibilità. E il metodo è già scritto nella Costituzione: “Servono onore e disciplina”. Ma di fronte al tentativo di sconvolgere i sistemi di potere “c’è una certa resistenza”. Nei giorni scorsi il Presidente Mattarella ha lanciato un nuovo appello per la riforma del Csm. Non le sembra che la politica sia rimasta in silenzio? La politica in questo momento ha molte cose a cui pensare, a partire dalla legge di Bilancio, quindi capisco che il tema sia rimasto meno al centro del dibattito. Però mi stupisce che nella magistratura non ci sia stata una presa d’atto di questa situazione. Il fatto è che qualsiasi intervento di effettiva riforma sconvolge i sistemi di potere interni e credo, dunque, ci sia una forma di resistenza. I magistrati mediaticamente più esposti però parlano spesso di una decadenza dei costumi e invocano il cambiamento... Premetto che la presenza mediatica, di per sé, non è una qualità. Nelle chat dei magistrati ormai da anni si segnalano lo strapotere delle correnti e gli interventi impropri del Csm. Ma è un dibattito rimasto troppo a lungo negli interna corporis; a un certo punto la tensione è diventata tanto ingovernabile da esplodere, a partire dalla vicenda del dr. Palamara. Ma quello è solo un aspetto, ce ne sono tanti altri altrettanto discutibili. Per la riforma del Csm si discute prevalentemente di legge elettorale, ma i temi sono tanti. Che cosa deve cambiare? Il punto è che il Csm non deve governare nulla. Deve dare valutazioni relative alla disciplina dei magistrati e all’idoneità a ricoprire incarichi direttivi e semi-direttivi. Per questi compiti non ci vuole una maggioranza; altrimenti significherebbe che deve prevalere un indirizzo politico “di governo” e che pertanto coloro che non si riconoscono in quella maggioranza devono contare di meno, avere meno possibilità. Sarebbe contrario alla logica stessa della istituzione giudiziaria. Riflettiamo: il maggioritario, rigido o blando, significa che se una corrente è maggioritaria in Csm deve avere un numero maggiore di suoi aderenti ai vertici degli uffici giudiziari. Le sembra coerente con i valori costituzionali? Quella sulla legge elettorale credo sia una falsa discussione: finora ne sono state fatte sette e nessuna è servita allo scopo. Il punto è che il corpo elettorale è piccolo, fatto di 10mila persone, distribuite in centinaia di uffici, facilmente avvicinabili dai titolari del potere delle correnti, quindi un sistema di controllo forte del voto è sempre possibile. Perciò l’unico sistema elettorale adeguato è quello il più proporzionale possibile. Perché più si frantuma la rappresentanza meno pesano le correnti. La seconda questione riguarda la durata: la Costituzione, all’articolo 104, dice che i membri elettivi del Csm - e non il Csm stesso - durano in carica quattro anni. In questa consiliatura diversi magistrati si sono dimessi prima della scadenza naturale, il che vuol dire che per alcuni di loro i quattro anni non saranno compiuti quando si andrà a votare. E a mio avviso occorrerebbe far votare soltanto per coloro che sono decaduti. Gli altri hanno il diritto costituzionale a svolgere le loro funzioni per quattro anni. Insomma, il modello della Corte costituzionale. E cosa comporterebbe una scelta simile? La sedimentazione delle prassi. E ciò riduce il potere dei “controllori” del voto o delle tendenze interne alla magistratura e si evita che ci sia la costruzione di prassi ex novo che favoriscono questa o quella posizione. C’è poi un punto di fondo: le sedute in cui si attribuiscono gli incarichi direttivi sono pubbliche e collegate a Radio radicale. Si immagina una cosa simile per la nomina di un ambasciatore o di un prefetto? Non è un modo per garantire la trasparenza sulle nomine? Avrà letto il libro di Palamara: con tutta la trasparenza possibile ha visto cos’è successo. Le decisioni avvengono fuori, non dentro, e quella seduta pubblica serve affinché le correnti dichiarino a ciascun elettore come si sono comportate, esattamente come si fa nelle discussioni in Parlamento, quando si parla agli elettori. Queste decisioni devono avere carattere di riservatezza, altrimenti si snaturano. In alcune procedure la riservatezza è un valore. Questo perché la fase in Commissione non è pubblica e come ha spiegato Palamara spesso segue altre logiche... Le cattive logiche sono figlie dei cattivi costumi; non si rimediano con le leggi, si rimediano con costumi diversi. Se lei mi chiede se c’è una legge che risolve questo problema le dico di no. Se mi chiede se c’è un sistema per far in modo che le cose siano meno ipocrite e meno corrose da logiche di potere allora dico di sì. E un altro dei campi su cui bisogna intervenire è il personale del Csm: l’ufficio studi non deve essere costituito da altri magistrati chiamati dai magistrati del Consiglio, perpetuando la filiera correntizia. Bisogna invece fare in modo che sia un corpo di funzionari. Serve un apposito concorso pubblico, per laureati che devono conoscere le procedure, l’ordinamento giudiziario eccetera. E per esempio potrebbero esserci anche degli avvocati... Certamente. Sono queste cose che tolgono il potere improprio delle correnti e le ricostituiscono come organismi di cultura, di intelletto, di approfondimento scientifico e professionale. Qualcuno ne chiede l’eliminazione… È possibile? Le correnti ci sono, le opinioni ci sono ed è bene che ci siano. Quello che è sbagliato è il loro peso improprio. Siamo tutti un po’ scontenti nei confronti dei partiti, ma lei pensa che la democrazia si risolva cancellandoli? No e lo stesso vale per le correnti. Erano componenti ideali, all’inizio, poi sono diventate componenti di potere. Bisogna creare le condizioni per superare la fase cesaristica delle correnti. Il problema è però che la magistratura si è trasformata in un corpo che gestisce potere e ambisce al potere. Come si è arrivati a questo? Ci sono state tre fasi: la prima, nella quale si è cercato di avere un Csm più rappresentativo di tutte le categorie di magistrati; poi c’è stata la battaglia per l’autogoverno e per avere poteri tali da poter governare la magistratura dall’interno, togliendo poteri al ministero della Giustizia e alla Cassazione; fin qui bene, ma poi l’autogoverno è diventato autoreferenzialità e separatezza perché la politica ha ceduto ai magistrati, specie a quelli penali, troppo potere. Il Consiglio superiore dovrebbe garantire due valori: l’indipendenza dei magistrati, e il raccordo della magistratura con gli altri poteri dello Stato. Oggi, e mi spiace, non ha garantito però né l’una né l’altra cosa. E come si risolve questo cortocircuito? Io sono per la costituzione di un’Alta Corte, che riguarderebbe tutte le magistrature. Credo che i poteri disciplinari e amministrativi debbano rimanere ai soggetti che attualmente li esercitano, ma le impugnazioni vanno attribuite ad un’Alta Corte, costituita dai magistrati contabili, ordinari e amministrativi, eletti dai rispettivi vertici, e da una quota nominata dal Presidente della Repubblica ed eletta dal Parlamento tra coloro che hanno titolo per accedere alla Consulta. Questa Corte giudicherebbe in primo grado in sezione e in secondo in plenum, come fa la Cedu. Il secondo aspetto costituzionale è la nomina del vicepresidente del Csm, per la quale attualmente avviene una trattativa tra i candidati e le varie correnti, con l’impegno a fare o non fare alcune cose nei confronti delle stesse. È inevitabile, perché è una campagna elettorale. A mio avviso, invece, deve essere nominato dal Presidente della Repubblica e deve essere esterno agli eletti. In questo modo si taglia alla radice la contrattazione, a partire dalla quale l’appartenenza conta più della qualità delle persone. Il deputato Costa ha evidenziato la massiccia presenza di magistrati negli uffici del ministero della Giustizia, sostenendo che anche questo è un modo per esercitare potere. È d’accordo? Certamente c’è un eccesso di presenza, ma i ministri non sono obbligati a nominare magistrati, possono benissimo scegliere all’esterno. Non è spia di un rapporto strano tra i due poteri? Questi problemi si risolvono facendo leggi chiare, per evitare che ci sia un eccesso di potere discrezionale da parte della magistratura, e con iniziative serie che riguardino l’osservanza, da parte dei magistrati, dei parametri fissati dall’articolo 54 della Costituzione, secondo il quale i cittadini che esercitano funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore. Bisogna formare un magistrato che deve avere una credibilità molto alta, perché i poteri discrezionali che esercita necessitano di un rapporto di fiducia con i cittadini. E come si costruisce questo rapporto? Valutando bene i comportamenti. Prevedere dopo quattro anni dall’ingresso in magistratura un secondo esame condotto da una commissione costituita come per l’esame di ammissione per valutare la preparazione professionale nel settore nel quale si sono svolte le funzioni, il rapporto con avvocatura, i colleghi e i mezzi di comunicazione. Il giudizio e il voto di questa Commissione dovrebbe acquisire un peso determinante per il giudizio di idoneità ad assumere incarichi direttivi e semidirettivi. C’è una questione morale della magistratura e non si risolve con le norme. Come, allora? Bisogna insistere sui costumi. Sento dire che il magistrato è un cittadino come gli altri, ma non è vero, perché un cittadino comune non dispone discrezionalmente della reputazione, della libertà e dei beni degli altri cittadini. Il magistrato sì e siccome può farlo sulla base di presupposti molto discrezionali, l’unica forma di legittimazione è la sua credibilità. Quindi i comportamenti che assume devono essere tali da meritare la fiducia delle persone. Diceva Machiavelli: non bastano le leggi, ci vogliono anche i buoni costumi e qui c’è un problema di buoni costumi. E come si può risolvere il problema dei buoni costumi? I vertici della magistratura, il Csm, il ministro, devono richiedere comportamenti adeguati alle responsabilità che si esercitano. La stragrande maggioranza dei magistrati non va a finire sui giornali, bisogna stare molto attenti al comportamento di quelli che tralignano. Se si lascia pensare che quello che conta è l’esposizione mediatica e le indagini che fanno scalpore, c’è una distorsione profonda del ruolo di magistrato. Bisogna esigere onore e disciplina. Giustizia, ora c’è l’ok della Cassazione ai referendum di Francesco Boezi Il Giornale, 8 dicembre 2021 Il senatore Roberto Calderoli annuncia l’ok al referendum della Cassazione. Manca solo il passaggio della Corte Costituzionale. La Giustizia verso una riforma dal basso. Un passo in avanti per il referendum sulla Giustizia promosso da Lega e Radicali: il senatore Roberto Calderoli ha ufficializzato l’ok da parte della Corte di Cassazione. Adesso bisognerà attendere il parere della Corte Costituzionale, ma quella di oggi è di certo una giornata importante sia per i promotori sia per i milioni di persone (quasi cinque) che si sono recate per settimane in ogni piazza d’Italia per sottoscrivere i quattro quesiti. Il vicepresidente del Senato e storico esponente del Carroccio ha dichiarato quanto segue, così come ripercorso dall’Agi: “Questa mattina l’ufficio centrale per il referendum della Corte Suprema di Cassazione - ha fatto presente Roberto Calderoli - ha inviato a tutti i depositari la conferma nero su bianco della regolarità dei sei quesiti referendari, in materia di giustizia, approvati da sei consigli regionali. Ora - ha aggiunto - i quesiti sono stati trasmessi per l’ultimo vaglio di ammissibilità alla Corte Costituzionale, che si pronuncerà a riguardo entro il mese di febbraio”. Manca, insomma, un ultimo passaggio. E poi sapremo se tutti i cittadini del Belpaese potranno o no recarsi alle urne per questo centrale appuntamento referendario. Il vice della Casellati ha poi proseguito nel ragionamento: “Siamo soddisfatti e orgogliosi - ha detto - di vedere che tutti i nostri sei quesiti per migliorare il nostro sistema della giustizia siano stati accolti, a conferma della meticolosità e della preparazione di tutti coloro che hanno lavorato per la stesura di queste proposte, su cui, lo ricordiamo, abbiamo raccolto 4,2 milioni di firme dei cittadini italiani, firme che abbiamo scelto di non depositare, avendo già il percorso alternativo del voto di sei consigli regionali, per non appesantire la Corte di Cassazione con un lavoro di controllo che avrebbe necessitato di tempi lunghi”. La Lega ha anche operato una scelta di metodo. E ora proprio la Consulta potrà decretare, con tutti i crismi del caso, l’avvio del vero e proprio processo referendario. Calderoli ha spiegato quale sia stata la scelta legata alle tempistiche ed al risparmio dei soldi necessari per le pratiche: “Così - ha raccontato - abbiamo risparmiato tempo, e i nostri sei quesiti sono già stati trasmessi alla Corte Costituzionale che a febbraio si pronuncerà, ma non solo, abbiamo risparmiato anche 600mila euro di denari pubblici con questa rinuncia grazie all’emendamento ad hoc firmato dal sottoscritto e già approvato in via definitiva. Noi - ha concluso - intanto stiamo già scaldando il motore del comitato referendario, pronti a partire, appena avremo il via libera della Consulta, con una grande campagna referendaria per informare nel merito, nei contenuti, i cittadini: perché stavolta toccherà al popolo decidere se e come rendere migliore e più giusta la nostra giustizia”. Le previsioni sono dunque queste: tra massimo due mesi e mezzo, ma è probabile che la Consulta si pronunci ben prima della fine di febbraio, sapremo se la Giustizia potrà essere riformata a mezzo referendum oppure no. Le riforme promosse dal governo di Mario Draghi, con il ministro Marta Cartabia in testa, hanno lasciato ben sperare il cosiddetto “fronte garantista”, che ora vorrebbe spingersi ancora più in avanti con una chiamata collettiva alle urne. La Commissione parlamentare antimafia è un poltronificio. Aboliamola di Aldo Varano Il Dubbio, 8 dicembre 2021 In Italia in pochi, se interrogati, si rendono conto di vivere in uno dei paesi più sicuri del mondo grazie ad una drastica riduzione dei reati più gravi che si consumavano nel Belpaese nei decenni scorsi. Questa tendenza si colloca all’interno di un processo mondiale. Ormai da tempo studiosi ed esperti nelle loro analisi distinguono con nettezza la “condizione di sicurezza” di un paese, che misurano sulla base di dati oggettivi e verificabili, dalla “percezione di sicurezza” che ne hanno i suoi abitanti. Per esempio in Italia in pochi, se interrogati, si rendono conto di vivere in uno dei paesi più sicuri del mondo grazie ad una drastica riduzione dei reati più gravi che si consumavano nel Belpaese nei decenni scorsi. Questa tendenza, in Italia più accentuata rispetto ad altri luoghi, si colloca all’interno di un processo mondiale che negli anni scorsi il sociologo Pino Arlacchi, il teorico di “mafia imprenditrice”, intervistato dal Corsera, ha spiegato e definito di “ingentilimento progressivo del Pianeta”. In Italia tutti i reati, o quasi, a cominciare da quelli più gravi e devastanti, sono clamorosamente precipitati. Nel 2017, anno per il quale c’è un dato certo grazie allo svolgimento definitivo di indagini e processi, gli omicidi sono stati 368. Un numero inaccettabile per i luoghi avanzati della coscienza civile del nostro presente storico. Ma niente di paragonabile neanche lontanamente ai 1938 ammazzati nell’anno 1991. Ed è straordinaria la circostanza che da allora in Italia abbiamo iniziato a scendere sempre di più e sempre più rapidamente. Ovviamente, la contrazione progressiva, talvolta addirittura precipitosa, del più grave inquietante e inaccettabile dei reati, è connessa ai colpi subiti dalle organizzazioni criminali in Italia a cominciare da Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra che sono state drasticamente ridimensionate nella loro furia omicida. Insomma, siamo stati bravi anche a farci spingere dai sacrifici e dal sangue di forze dell’ordine, magistrati, uomini di giustizia, uomini e donne di buona volontà. Nel 2020 anno della pandemia, atteso con grandi paure e preoccupazioni per la fosca previsione dello scatenarsi di istinti incontrollabili, gli omicidi complessivi (dato provvisorio) sono crollati a 271, tra questi e in crescita, 112 femminicidi e, secondo il trend degli ultimi anni, 28 attribuiti alle mafie. Si può fare di più e meglio. Ma intanto, sulla base dei dati odierni verificabili (la “condizione di sicurezza” di un paese) l’Italia è una delle nazioni più sicure del pianeta. Anche il paragone tra l’Italia e gli altri paesi europei (e l’Europa sulla base dei dati è il continente più sicuro del mondo) mostra insospettabili successi dell’Italia. I paesi, secondo le convenzioni sociologiche internazionali, vengono confrontati rapportando il numero degli omicidi annui a ogni 100mila abitanti. L’Italia è allo 0,6 (cioè registra in media poco più di mezzo omicidio ogni 100mila abitanti). In Europa ci superano in virtù soltanto Lussemburgo, Repubblica Ceca e Cipro. Virtuosi quasi quanto noi sono invece Spagna, Portogallo, Grecia e Austria. Un po’ più indietro ancora, Olanda e Polonia. Abbiamo la migliore performance, cioè registriamo un tasso più basso di omicidi, rispetto a Francia (1,3), Regno Unito (1,2) Germania (1,3). Solo il Giappone (0,3) è più virtuoso di noi tra le nazioni del G8. E nel mondo, Europa a parte, solo la Cina registra l’identico 06 italiano. Impossibile il paragone col 5,3 americano (ogni cittadino di quel paese rischia dieci volte di più di un italiano, di morire ammazzato) o il 9,2 della Russia. Per non dire del 30,5 brasiliano o del 35,9 del Sudafrica. Ma tornando alla “condizione di sicurezza” del paese, bisogna subito ragionare sul fatto che gli omicidi non sono tutti uguali. Ci sono quelli degli uomini (omicidi) e quelli delle donne (femminicidi) e qui l’ingentilimento progressivo del pianeta sembra essersi bloccato. Infatti in Italia gli uomini ammazzati diminuiscono mentre le donne uccise aumentano. In realtà, la drastica contrazione registrata nel trentennio che abbiamo alle spalle è interamente dovuta alla riduzione complessiva degli omicidi degli uomini (a partire dalle vertiginose quote degli omicidi di mafia) mentre è rimasta costante o è addirittura lievitata la quota dei femminicidi e delle donne uccise in ambito familiare e affettivo. Non è quindi infondata la conclusione che la più urgente emergenza italiana da affrontare, non sia più ormai a tempo quella mafiosa ma quella del femminicidio. Chiarificatrice la valutazione di Salvatore Lupo, forse lo storico italiano più autorevole rispetto alle mafie, che intervistato nei giorni scorsi da Errico Novi per questo giornale, ha osservato che “La violenza delle cosche è stata innanzitutto inframafiosa, e sappiamo come oggi l’incidenza degli omicidi legati al crimine organizzato sia diminuita nettamente: ora parliamo dei femminicidi, cioè di delitti legati a dinamiche sociali e sottoculturali”. Se questo è il quadro che emerge dalla “situazione di sicurezza” del paese si rafforza la legittimità di una domanda. Serve ancora la Commissione nazionale antimafia, istituita per la prima volta nel nostro paese nel 1963 per una legislatura, e da allora rinnovata puntualmente, con una nuova legge a ogni inizio di nuova legislatura? L’interrogativo è antico, anzi vecchio, come sanno quanti hanno letto o studiato un classico sociologico di dimensione mondiale come La mafia Siciliana di Diego Gambetta (1992). Il sociologo che ha costruito la teoria della mafia come “industria della protezione privata” di attività illegali (forse l’unico schema imperniato su una lettura del fenomeno mafioso scardinato da ogni suggestione antropologica e quindi razzista), nell’introduzione del 1993 (per Einaudi Tascabili, firmata da Oxford dove Gambetta lavorava in quella università), annotava: “In passato l’apporto della Commissione non fu privo di ambiguità…”. Per poi concludere: “Si ha l’impressione che questo istituto - di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia (fatta nella società reale e non, ovviamente, nella Commissione, ndr) - sia servito come una palestra in cui le forze al governo permettevano all’opposizione di sinistra di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto”. E tralascio, perché non bisogna mai esagerare, le considerazioni e le ironie dirette o indirette sull’Antimafia sparse negli scritti e negli interventi di Giovanni Falcone. L’impietoso giudizio di Gambetta a trent’anni dall’istituzione della prima Antimafia appare oggi, passati altri trent’anni, educato e generoso rispetto a quanto è nel frattempo accaduto a quell’istituto. In realtà, l’esperienza dell’Antimafia, se si esclude il periodo, peraltro molto discusso e criticato in cui fu presieduta da Luciano Violante (uno dei pochi o forse l’unico magistrato a dimettersi dalla magistratura quando venne eletto in Parlamento), si ritrova per intero nella sferzante valutazione di Gambetta. Ma trent’anni dopo di allora (cioè 58 anni dall’inizio di questa vicenda, un periodo storico troppo lungo per non capire che tutto nel frattempo è cambiato) la Commissione sembra avere assunto una funzione ancora più inutile e priva di prestigio. Non servono infatti particolari ricerche specialistiche per verificare che l’Antimafia si è via via trasformata in una specie di ricovero per personaggi politici decaduti o emarginati, lì confinati perché sconfitti nello scontro politico interno al proprio partito, o perché considerati inadatti allo svolgimento di ruoli di rilievo e responsabilità. Senza voler mancare di rispetto ad alcuno dei presidenti degli ultimi anni, il loro succedersi alla guida della Commissione, via via sempre più degradata politicamente, racconta quel che è accaduto in modo impietoso. Il ministro dell’Interno senatore Pisanu (Fi) cade in bassa fortuna dopo le elezioni del 2013 nel suo partito per la strisciante e sottintesa accusa di aver malgestito le elezioni? Forza Italia lo marginalizza facendolo eleggere Presidente dell’Antimafia. Rosy Bindi, già ministra della Repubblica, viene rieletta alla Camera nelle liste Pd nonostante la guerra che le muove contro l’allora potente Matteo Renzi? Per lei niente ministero o ritorno al governo: si accontenti della presidenza dell’Antimafia. In passato, la Rifondazione comunista di Bertinotti, quando si era ormai appassita facendo tutti i guai possibili, non contava nulla ma aveva ancora voti utili alla Camera e in Senato? Il centrosinistra le rifila la presidenza dell’Antimafia. E ancora oggi: il pentastellato Morra è stato considerato dai capi dei 5s (chissà perché e forse ingiustamente, ma non lo sapremo mai) inadatto al ruolo di ministro, specie dell’istruzione, come avrebbe preferito? Anche lui Presidente Antimafia dove il Pentastellato, qualche dichiarazione a parte, non può fare danni. Ci sono giornali che ad ogni inizio di legislatura parlamentare pubblicano articoli (cambiando solo la data) per chiedere che si metta fine al cinismo che usa l’Antimafia per coprire qualche buco. Sempre inutilmente. A Roma un posto in più (con tutti i connessi) fa bene alla maggioranza, e anche all’opposizione. L’Antimafia serve a concedere ad un parlamentare che ha peso, ma meno peso di tutti gli altri parlamentari che hanno peso, il titolo di Presidente e, insieme al titolo, tutte le prebende annesse e connesse: supplemento di stipendio, autista, struttura e staff nei fatti alle dipendenze del Presidente per aiutarlo a far meglio il suo (in questo caso inutile) lavoro. Lo sanno tutti che le cose stanno così. Compresi i parlamentari che alla fine accettano di farsi nominare perché un titolo, l’autista, un aumento sia pur modesto dello stipendio, uno staff di persone è sempre meglio di un calcio negli stinchi. A trent’anni da Mani pulite, vi spiego che cosa accadeva nell’ufficio Gip di Guido Salvini Il Dubbio, 8 dicembre 2021 Un giudice racconta il “trucchetto” grazie al quale le richieste del pool di Milano finivano sempre sulla scrivania di un unico Gip. Ho appena letto un ampio articolo di Fabrizio Cicchitto nel trentennale di Mani pulite e quindi dell’origine del giustizialismo e, per alcuni, dell’idea di un socialismo per via giudiziaria. L’autore fa un breve accenno al ruolo svolto a Milano dall’ufficio Gip. Anche allora, negli anni 90, vi prestavo servizio e quindi posso dare un contributo raccontando meglio una storia che pochi conoscono. È solo un aspetto tra i tanti di un fenomeno giudiziario con molte angolazioni, ma non è secondario, vale la pena di ricordarlo e posso narrarlo in prima persona. Cicchitto parla di un unico Gip che accentrò, indebitamente, tutti filoni di quell’indagine rivolta pressoché all’intero mondo politico e imprenditoriale. Non sbaglia e spiego meglio cosa è successo. L’ufficio Gip in quel momento era un passaggio decisivo perché era chiamato ad accogliere o respingere la richiesta di cattura presentate dal Pool e poi le istanze di scarcerazione o di arresti domiciliari, un meccanismo da cui in pratica dipendeva il funzionamento e lo sviluppo di quell’inchiesta “sistemica”. Era comodo per la Procura avere un unico Gip già sperimentato, per alcuni già “direzionato”, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio Gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo creare “difficoltà” alle indagini o comunque costringere chi le conduceva a confrontarsi con punti di vista diversi. Così il Pool escogitò un semplice ma efficace trucco costituendo, a partire dall’arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un “registro” che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall’essere da gestite dal Pool. Il numero con cui iscrivevano qualsiasi novità che riguardasse tangenti in tutti i settori della Pubblica amministrazione era sempre lo stesso, il 865592, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Invece le regole nella sostanza volevano che ad ogni notizia di reato fosse attribuito un numero e ad ogni numero seguisse la competenza di un Gip non individuabile priori. Ma questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell’unico Gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool. Un paio gli anni dopo, nel 1994, vale la pena di ricordarlo, Ghitti divenne consigliere del Csm: un’elezione e un prestigioso incarico propiziati quasi esclusivamente dall’essere stato appunto il “Gip di Mani pulite”. I principi dell’Ufficio furono quindi sovvertiti radicalmente e non si trattava di regole puramente organizzativo o statistiche ma che dovevano presiedere al principio del giudice naturale e cioè che il giudice fosse del tutto indipendente e non fosse scelto da altri, soprattutto non dalla Procura. Ci fu anche un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per “sbaglio”. Si trattava di quello relativo ad alcune presunte tangenti, peraltro romane, pagate nella Asst l’Azienda dei Telefoni, una storia che nulla aveva a che fare ovviamente con il Trivulzio. Ma portava scritto sulla copertina quel famoso numero. Nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere su alcune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al Gip Ghitti, evitando così che non solo io, questo non è affatto importante, ma che qualsiasi altro Gip dell’ufficio “interferisse” nella macchina di Mani pulite. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell’ufficio Gip. Feci loro notare con una nota documentata la situazione del tutto illegittima che si era creata. Le mie osservazioni furono semplicemente cestinate. Non era il tempo di seguire le strada giusta ma di adeguarsi al mainstream. È andata così. Conservo ancora a distanza di tanti anni una cartellina con quegli atti e la lettera che avevo inviato al capo Ufficio. Del tutto inutile. L’ufficio Gip si inchinò e fece una triste figura. Francesco Greco: “Vedo molto revisionismo su Mani pulite” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 8 dicembre 2021 Ripristinare l’autorizzazione a procedere. Perché no? Se ne parla, e lo auspica uno studio molto serio. Guardate chi c’era, una sera a Milano. Rilassato, fuori dalla mischia del Palazzo di giustizia e di una procura covo di vipere come non mai, abbiamo ritrovato Francesco Greco impegnato a discutere di un tema decisamente più alto di quelli che lo avevano visto coinvolto nelle ultime settimane che hanno preceduto il suo pensionamento. Immunità parlamentare, check and balance, equilibrio tra i poteri: aria pura, o almeno così dovrebbe essere. L’occasione è data dalla presentazione milanese del libro dell’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, “L’eutanasia della democrazia. Il colpo di Mani Pulite” (Rubbettino, 14 euro), prefazione di Sabino Cassese. Cento pagine da distillare, concetti da assaporare uno a uno, perché c’è proprio tutto. Il quadro comparato tra i sistemi anglosassoni di common law e quelli europei di civil law. Il dibattito sull’articolo 68 dei padri costituenti tra il 1946 e il 1948, e poi quello in Parlamento tra il 1992 e il 1993. I primi cercavano di ricostruire l’equilibrio tra i poteri dopo gli anni sanguinosi, anche per il diritto, del fascismo. I secondi, terrorizzati durante la stagione di Mani Pulite, mostrarono di preferire alla fine la repubblica giudiziaria rispetto a una democrazia liberale. Francesco Greco ha il tono e la giovialità ritrovata di chi si è veramente tolto un peso. Anche se gli costa un po’ dirlo. Preferisce pizzicare, non senza una certa allegria, un paio di testate giornalistiche che non si sono fatte coinvolgere dal momento bello del suo commiato. Ho offerto champagne francese, quello vero, rivendica, e Repubblica il giorno dopo ha titolato “Greco lascia, brindisi al veleno”. E sul Riformista (fa il nome di una giornalista che conosce da molti anni) mi voleva in pensione sei mesi prima del tempo, e diceva “ma quando se ne va?”. Ma, champagne a parte, il veleno tra toghe, quello che ha portato la procura di Brescia a sottoporre a indagine diversi magistrati milanesi, non è arrivato dall’esterno della casta. Non dai giornalisti. Men che meno dalla politica. Hanno fatto tutto da soli. Sull’equilibrio tra i poteri e sul rapporto, in Italia decisamente malato, tra politica e giustizia, il procuratore Greco non cede di un millimetro. Rispetto al libro, la cui tesi sul tragico errore del Parlamento sull’articolo 68 è molto chiara, ma anche molto documentata e motivata, anche con il supporto e l’autorevolezza di Sabino Cassese, butta lì subito “Ritenevo assorbito il problema dal ‘93”. Il suo ragionamento è elementare: non siamo stati noi di Mani Pulite a distruggere i partiti della prima repubblica, i partiti si sono distrutti da soli, perché la politica costa e in Italia si commettono troppi reati. Problema assorbito dalla cultura del Paese, dunque? E’ stata solo una giusta punizione nei confronti della classe politica, e quindi del Parlamento, l’eliminazione dell’autorizzazione a procedere, che aveva il compito di impedire iniziative politiche da parte della magistratura? L’avvocato Benedetto spiega con chiarezza perché, in un sistema in cui la magistratura è totalmente autonoma e nominata in modo burocratico, dove non c’è la separazione delle carriere e oltre a tutto esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, è indispensabile un contrappeso che difenda le prerogative del Parlamento. Ma non c’è verso di comprendersi. Perché ogni richiamo ai principi sacrosanti di ogni società liberale, quelle in cui l’immunità dei parlamentari fa parte dell’equilibrio dei poteri, viene considerata come un attentato a quelle inchieste che furono, ai tempi di Tangentopoli. Non a caso Greco recita più volte “il revisionismo non mi è mai piaciuto”. Vasto programma, vien da dire. Ma lui lo precisa: “Su Mani Pulite vedo molto revisionismo”. E non è un caso il fatto che lui stesso ricordi come, avendo conosciuto, nel suo ruolo di capo della procura più famosa d’Italia, pubblici ministeri di tutto il mondo, si sia sempre sentito “un privilegiato”. Infatti il caso italiano è unico al mondo. Ma per la carenza di democraticità, andrebbe aggiunto. E per la protezione assoluta della casta dei magistrati, in particolare dei pubblici ministeri che non rispondono a nessuno. I suoi colleghi inglesi e americani infatti, e soprattutto i pm, nelle patrie del principio dell’habeas corpus, hanno uno stretto rapporto con il potere politico. Il quale non necessita quindi di essere protetto da particolari guarentigie, al contrario dei Paesi europei del civil law dove esiste il giudice burocrate, una figura impensabile sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito. Ma anche nella stessa Europa l’Italia rappresenta una “stranezza”. Perché il pubblico ministero è un soggetto potentissimo e irresponsabile (in altri Paesi risponde al guardasigilli), ma anche perché, al contrario di quel che accade in Francia, in Germania e in Spagna, con la controriforma del 1993, il parlamentare è un cittadino in balia di qualunque anomalia politico-giudiziaria, senza protezione alcuna. E non è che manchino gli esempi di quel che è accaduto, dal 1992 in avanti. Un argomento molto in uso è quello che dell’immunità parlamentare e dell’autorizzazione a procedere si era abusato nel passato. Verissimo. Ma altrettanto vero è che, prima di tutto proprio negli anni di Tangentopoli il Parlamento aveva cambiato registro, con esami più oculati di ogni singolo caso e concessioni più frequenti alla magistratura di indagare. E comunque, perché eliminare le guarentigie solo perché erano state mal applicate? Il cibo può essere buono anche se qualcuno ha fatto indigestione. Tra l’altro, nel corso del dibattito che tenne impegnati a lungo Camera e Senato, si era arrivati a una buona mediazione, spostando il momento della richiesta di autorizzazione alle Camere dall’inizio delle indagini a quello dell’esercizio effettivo dell’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pm. Ma non ci fu nulla da fare. Spirava in quel periodo un’ariaccia fetida in cui il ruolo di moralizzatore dei costumi se lo era assunto la Lega Nord, un po’ come più di recente i seguaci di Beppe Grillo. Il Parlamento era pieno di politici indagati, la gran parte dei quali anni dopo verrà assolta. Inutilmente Marco Pannella, uno dei pochi ad avere a cuore la sacralità del Parlamento, radunava tutti alle sette del mattino. Ma era in gran parte gente terrorizzata, che cercava solo il modo di non finire in galera. Avrebbero votato qualunque cosa. E così fu, purtroppo. E inutilmente un giorno lo stesso Pannella nell’aula gridò contro la demagogia e il populismo: “Il nostro compito, per non essere antipopolari, è di essere semmai impopolari in alcuni momenti. Viva la Costituzione repubblicana! Viva l’articolo 68! Viva il Parlamento che saprà difenderlo!”. Andò diversamente. Il revisionismo non piace ai procuratori? Un motivo di più per riformare l’articolo 68 della Costituzione e rendere l’Italia un Paese più liberale e più libero. “Paga ferma al 1993”: detenuto vince la causa e ottiene quasi seimila euro dal ministero di Stefano Taglione Il Tirreno, 8 dicembre 2021 Il ministero dovrà pagargli 5.869,08 euro. Questa la decisione della giudice del lavoro del tribunale di Roma Anna Maria Lionetti, in una sentenza depositata lo scorso 29 novembre, che ha condannato il dicastero della Giustizia a risarcire un ex detenuto del carcere delle Sughere, che aveva lavorato dal novembre 2016 al settembre 2017 come mungitore, giardiniere e aiuto-agricoltore (anche nella colonia penale agricola di Gorgona). Un cinquantanovenne - originario di Aversa, in provincia di Caserta - durante la detenzione (nel conto c’è anche il periodo trascorso nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, in Campania, dal marzo al giugno 2016 in cui aveva operato come scopino) avrebbe ricevuto delle spettanze inferiori rispetto a quanto stabilito. “Una mercede - si legge negli atti della causa civile intestata con successo dalla sua avvocata, Tiziana Ilice - inferiore ai minimi retributivi dei contratti collettivi nazionali di lavoro”. “Le somme corrisposte a titolo di tredicesima mensilità, indennità sostitutiva di ferie e Tfr - si legge ancora - erano inferiori ai minimi dovuti e nulla era stato corrisposto a titolo di quattordicesima mensilità”. La giudice ha stabilito come vada “riconosciuto il diritto al pagamento della quattordicesima mensilità nella misura prevista dai contratti collettivi richiamati, atteso che l’applicazione parametrica del contratto collettivo nazionale di lavoro obbliga il datore di lavoro al riconoscimento degli istituti retributivi di natura convenzionale”. “La retribuzione del mio assistito, così come previsto dalla legge - spiega Ilice - veniva già decurtata di un terzo dal ministero, ma il problema è che le paghe erano ferme al 1993, dato che la commissione ministeriale non si era mai riunita per aggiornarle. Quindi, nel 2017, lui veniva pagato come un detenuto nel ‘93. Oltre alla quattordicesima la giudice ha riconosciuto l’emolumento da me richiesto, già decurtato di un terzo come previsto”. Il ministero dovrà inoltre pagare le spese processuali per 1.540 euro. Campania. Sovraffollamento, poco personale e indifferenza: le criticità delle carceri di Antonio Sabbatino comunicareilsociale.com, 8 dicembre 2021 Ciambriello: “Serve più attenzione da parte delle istituzioni”. Ripensare il mondo carcerario, riflettere su come adottare misure alternative per una platea di detenuti a cui va garantito il reinserimento nella società. Cosa che, con le attuali condizioni negli istituti penitenziari e l’ordinamento giuridico in vigore, sovente rimangono al palo. Di questo, e non solo, s’è parlato nell’auditorium della Regione Campania all’isolato C3 del Centro Direzionale intitolato “Scegliere la libertà: carcere, misure alternative e magistratura di sorveglianza” presieduta dal Garante regionale delle persone private delle libertà Samuele Ciambriello con gli interventi di diversi rappresentanti del mondo forense, dell’autorità giudiziaria e carceraria. Tema scomodo - Proprio Ciambriello nel suo intervento ha sottolineato come il carcere sia un “tema scomodo in termini di consenso politico” chiedendo perciò una “rinnovata attenzione politico-istituzionale verso l’intero pianeta carcere, per promuovere iniziative che riorganizzino l’amministrazione penitenziaria”. I numeri, quelli freddi e inequivocabili, supportano l’appello del garante regionale dei detenuti. In Campania ci sono attualmente 6.732 detenuti, di questi 366 donne, 917 stranieri e 152 in regime di semilibertà. “Le carceri del nostro Paese - la sottolineatura di Ciambriello - vivono uno stato di eccezione permanente da molti anni; complice di questo eterno ritorno è l’estensione ipertrofica dell’area penale che ha periodicamente aumentato gli ingressi e le permanenze nelle strutture detentive, nonostante la consistente diminuzione dei reati. Ci siamo dovuti confrontare con misure gattopardesche e rimaneggiate”. A ciò va aggiunta l’assenza di un numero congruo di operatori, psicologi, psichiatri e agenti di polizia penitenziaria nelle carceri campane. A Poggioreale per circa 2600 detenuti ci sono solo 9 educatori e mancano mediatori culturali linguistici mentre in Campania le pratiche inevase rispetto alla carcerazione preventiva e all’eventuale accordo di una pena alternativa, sono 13000. Inoltre, l’aggiunta di Ciambriello, la “recidiva con le misure alternative scende al 21%” stando all’Uepe, l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna. A lanciare l’allarme sui numeri spropositati in carcere e tutto ciò che ne consegue, anche Carmelo Cantone, provveditore ad interim dell’amministrazione penitenziaria della Campania. “La mancanza di risorse economiche, il sovraffollamento e l’assenza di personale sono frutto di scelte politiche. I tagli trasversali si notano di più perché i detenuti sono persone e non pacchi postali. Dal 2013 al 2017 - stando alle parole del provveditore Cantone - è stato ridotto di circa il 25% l’organico con la soglia che è stata fissata sulla Capienza ottimale dei detenuti e non di quanti detenuti effettivamente ci sono in un istituto penitenziario. Ci sono carceri in cui interi padiglioni di diversi piani sono sorvegliati anche da una sola persona e sono gli stessi detenuti a non condividere quest’andamento, preoccupati del mancato intervento in caso di emergenza. La vicenda epocale del Covid poteva essere una occasione per abbattere qualche totem come quello del 4 bis relativi ai reati di seconda fase, si doveva preparare l’alternativa al carcere, la dimissione. Non è accaduto” ha concluso il provveditore ad interim. Il ruolo delle associazioni - Ma ammesso e non concesso che il Tribunale di Sorveglianza, pur compulsato, accetti di dare il via libera a una pena alternativa al detenuto, c’è penuria di associazioni, cooperative o strutture in grado di accogliere chi esce di prigione. A confermarlo Pietro Ioia, garante dei detenuti per il Comune di Napoli. “Le associazioni sul territorio che si occupano dei detenuti sono pochissime. Tante non ci aiutano forse perché non interessa la tutela dei carcerati”. Le “mosche bianche” citate da Ioia sono, ad esempio nel quartiere Scampia, la cooperativa “L’Uomo e il Legno”, l’Officina delle Culture Gelsomina Verde, la palestra di Gianni Maddaloni. Ancora Ioia: “Lancio l’appello alle associazioni a contribuire. Di recente ho parlato con delle forze dell’ordine e mi hanno messo al corrente di detenuti clochard che devono scontare pochi mesi, sarebbe meglio una pena alternativa con qualcuno che li possa accogliere. Spero che in futuro si facciano avanti più associazioni, le carceri sono strapiene, è un brutto periodo”. Don Franco Esposito - Non può essere tacciato di immobilismo nel conforto ai detenuti don Franco Esposito, cappellano della pastorale carceraria di Poggioreale e punto di riferimento della onlus Liberi di Volare. “Il tema fondamentale non è il problema del carcere, è il carcere che è un problema. Fa del male a chi sta dentro e anche alla società fuori perché produce recidiva. Queste persone devono essere accompagnate nel cammino della liberazione, ma in realtà diventa impossibile in questa istituzione che è contro l’uomo” il ragionamento di don Franco ricordando che “come chiesa di Napoli abbiamo realizzato all’esterno del carcere, con la nostra presenza a volte sterile di questo sistema, un segno con centinaia di detenuti con i quali abbiamo organizzato un cammino di reinserimento della società. La politica deve capire che si deve fare diversamente se si vuole raggiungere nel detenuto la vera coscienza del suo sbaglio e l’impegno a poter vivere una vita legale. Solo incontrando le realtà positive si può vivere in modo nuovo e questo non si può farlo in un carcere dove vengono tolte le libertà al movimento e a scoprire le potenzialità che sono dentro la persona. Il carcere uccide questa potenzialità: il vero carcere deve aiutare a scoprire il bene che alberga all’interno di ogni persona, invece ucciso dal carcere”. Padova. Carcere: tra cultura e lavoro, ma con gravi carenze strutturali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 dicembre 2021 Il Due Palazzi, per la commissione carcere della Camera penale di Padova che lo ha visitato a ottobre scorso, si segnala per le tante attività di rieducazione dei detenuti, ma presenta anche delle note dolenti. Il Due Palazzi di Padova è un carcere dove entra la cultura, l’Università, il lavoro. Un carcere dove è fortemente presente il terzo settore. Per la Commissione carcere della Camera penale di Padova - che vi ha fatto visita ad ottobre scorso - sono tutti fattori che fanno un passo importante verso la finalità rieducativa della pena. Ma nel contempo presenta talune criticità al livello strutturale. Ad esempio, tra gli altri problemi, i penalisti hanno osservato che l’infermeria ha gravi carenze logistiche e necessita di una ristrutturazione. La visita nel Due Palazzi Commissione Carcere della Camera penale di Padova - La visita, che risale al 18 ottobre scorso, è stata effettuata dalla Commissione Carcere della Camera penale di Padova, di cui fanno parte Annamaria Alborghetti, Laura Capuzzo, Alessandra Chiantoni, Serena Fornaro e Michele Grinzato, unitamente al Presidente, Michele Godina, e a Simone Bergamini, responsabile regionale Osservatorio Carcere Ucpi. Si legge nella loro relazione, che alla data della visita risultano in carico 525 detenuti di cui 15 semiliberi in licenza Covid, a fronte di una capienza regolamentare di 438 unità. Si legge ancora che la gran parte dei detenuti fa parte della media sicurezza, solo 17 sono in AS1, mentre 100 sono classificati come protetti, gli ergastolani sono circa 60, e nell’area semiliberi e art. 21 sono 35. Svolgono lavori di di pubblica utilità per il Comune e la Provincia di Padova - Ben 140 sono i detenuti che lavorano per le Cooperative mentre 80 lavorano per l’Amministrazione. I penalisti della Commissione carcere evidenziano che vi sono inoltre detenuti che svolgono lavori di pubblica utilità con il Comune e la Provincia di Padova per la manutenzione delle strade ed aree verdi. Per tali attività i detenuti percepiscono solo un rimborso spese. Si apprende che il Liceo Curiel è stato ristrutturato proprio dai detenuti. La delegazione della Commissione carcere Ucpi di Padova ha fatto visita al Polo Universitario che, finalmente, è tornato in funzione. I penalisti spiegano nella relazione, infatti, che durante la pandemia era stato riconvertito in reparto Covid. Vi è una stanza con i computer, con la possibilità di collegamenti con l’esterno e con il controllo del server centralizzato. “Quindi si può fare!”, sottolineano i penalisti, facendo così intendere che tale esperienza si può replicare in tutte le carceri. Si evidenza che il Polo è sempre stato sezione aperta. Uno studente di ingegneria informatica, che ha fatto la triennale e ora sta concludendo la magistrale si dice “molto contento di essere tornato al Polo, ora può studiare nella sala comune di studio, un luogo tranquillo e silenzioso. È l’unica sezione dove esiste il refettorio”, scrivono nella relazione. Nel carcere di Padova si producono i famosi panettoni Giotto - I penalisti hanno visitato la pasticceria dove lavorano 42 detenuti. Ogni mattina sfornano un migliaio di brioches che escono dal carcere alle 5 di mattina per essere consegnate nei vari bar. Si legge nella relazione che l’ambiente è pieno di impastatrici, forni ed altro che lavorano a pieno ritmo. Ogni giorno vengono fatti 1200 kg di impasto per i famosi panettoni della Giotto. Vi si dedicano ben 15 detenuti. La Cooperativa cerca poi di fare rete per aiutare i detenuti a reinserirsi una volta scarcerati. Nel Due Palazzi osservano che ci sono 2 call center. Qui 30 detenuti si occupano delle prenotazioni per il Cup dell’ospedale di Padova e Mestre. Vengono effettuate anche le prenotazioni Acli e quelle per i medici liberi professionisti di Mestre. La Commissione ha visitato anche il capannone dove viene effettuato l’assemblaggio per la valigeria Roncato. C’è anche il tacchificio. Si lavora anche per le grandi firme della moda - I penalisti spiegano che lì vengono realizzati circa 3000/4000 paia di tacchi al giorno per una ditta della riviera del Brenta che rifornisce le più grosse marche, da Vuitton a Gucci e altri, per realizzare scarpe di prestigio. È un lavoro che richiede grande precisione e accuratezza perché quei 12 cm. lunghi e sottili hanno bisogno di un sostegno particolare per non rompersi o piegarsi. “Chissà cosa direbbero le signore che camminano su quei tacchi se sapessero che la sicurezza dei loro passi dipende dalla bravura e serietà del lavoro dei detenuti”, osservano i penalisti. Gli avvocati hanno visitato anche la Cooperativa Altracittà che effettua commesse per 6 aziende oltre all’attività di legatoria. Ci sono 28 detenuti addetti all’assemblaggio delle bustine di thè e caffè, alla confezione dei fondi delle bottiglie di maraschino oltre che all’assemblaggio di valvole per riscaldamento. Pochi infermieri e strutture carenti - Ma nella relazione della Commissione carcere dell’Ucpi di Padova, non mancano le note dolenti. C’è l’infermeria che, nell’insieme, rasenta molte criticità, nonostante gli sforzi del personale che è riuscito a gestire il periodo più difficile che ha dovuto affrontare la primavera scorsa, prima con la diffusione di vari focolai Covid e poi con la vaccinazione dei detenuti. Non vi sono stanze per ricoveri temporanei e di conseguenza - sottolineano i penalisti - chi sta male deve curarsi in cella, che spesso condivide con altri, o nei casi più gravi viene ricoverato in ospedale. In più zone piove all’interno. Sono previsti 13 infermieri e un coordinatore ma al momento sono in 8. È previsto un concorso che dovrebbe portare a 23 unità il personale infermieristico. Si osserva che non vi sono infermieri h24 in quanto il turno termina alle 22. Mancano alcuni specialisti come l’ortopedico, il radiologo e il diabetologo, il cardiologo viene una volta alla settimana. “Si consideri che le patologie più diffuse sono il diabete e problemi cardiologici”, sottolinea la relazione. Al blocco 2 celle risultano piccole con i due letti messi a L - Per quanto riguarda il blocco 2, i penalisti spiegano che si trovano 37 detenuti sul lato A e 44 sul lato B. Le celle risultano piccole con i due letti messi a L. Il wc e il lavandino sono separati ma lo spazio limitato costringe a riporre cibo e frutta a pochi centimetri dal wc. I sanitari sono vetusti e spesso rovinati. Le docce sono all’esterno e, nonostante siano state rifatte 4 anni fa, sono piene di muffa e l’intonaco cade a pezzi in più punti. I penalisti osservano come i blocchi destinati ai comuni sono quelli in condizioni peggiori, non solo per problemi di manutenzione e, forse, strutturali, ma anche perché si nota poca cura e molto disordine. Non è da escludere - secondo i penalisti della Commissione carcere - che la cosa si colleghi alla tipologia dei detenuti di queste sezioni, poco stimolati, senza un lavoro, moltissimi di loro stranieri. La conferma di questa ipotesi la trovano visitando il blocco 5 dove sono presenti i lavoranti. Le stanze, pur presentando gli stessi problemi, sono tenute molto meglio sia a livello di ordine che di pulizia. Tuttavia, a causa dell’umidità diffusa in tutto l’istituto, la sala socialità, benché tenuta bene e ridipinta da poco dai detenuti, presenta in più punti molte infiltrazioni d’acqua. “Possiamo dire che un carcere dove entra la cultura, dove entra l’Università, dove entra il lavoro, in cui è fortemente presente il terzo settore sicuramente fa un passo importante verso la finalità rieducativa della pena. Ma è anche importante che gli ambienti siano sani e puliti per rispettare la dignità di tutti”, conclude la relazione della commissione carcere della camera penale di Padova. Padova. “Un miracolo, sì, un miracolo è successo al Due Palazzi” di Antonio Bincoletto Ristretti Orizzonti, 8 dicembre 2021 Così comincia una lettera che il detenuto Gianfranco Duini desidera venga resa pubblica, perché vuole si sappia che è lui protagonista del miracolo. “Il detenuto Duini Gianfranco ha salvato dalla morte il compagno di cella M.B. che con le lenzuola aveva preparato la pica”. Gianfranco prosegue spiegando che “la pica” è il termine con cui nel gergo carcerario si definisce il cappio, quello con il quale tanti detenuti disperati pongono fine alla loro vita impiccandosi, e continua descrivendo il miracolo: “un botto e vado in bagno, me lo trovo lì appeso, urlo ‘Aiuto!’ e con tutta la forza lo alzo. Dopo pochi secondi entrarono le guardie e lo salvarono dalla morte”. Così conclude il suo breve racconto del miracolo: “Devo ringraziare il Signore perché bastava qualche secondo in più e moriva. Ringrazio Dio Signore dell’Universo.”. Gianfranco Duini è ancora scosso dall’evento. Per aver salvato il compagno di cella si sente artefice di un atto eroico voluto dal cielo e, alla luce di questo, ripensa al grave reato che lo ha portato a scontare una lunga pena in carcere. Sa di aver fatto del male, si definisce “detenuto con disturbi schizo affettivi”. Ora però grazie a lui è successo qualcosa di buono, ha restituito alla vita una persona. Affida a me il foglietto, scritto in stampatello con grafia incerta: vorrebbe che il gesto compiuto fosse reso noto. Lo ricevo e m’impegno con lui a farlo pubblicare: in fondo a volte i miracoli succedono. Anche in carcere. *Garante delle persone private o limitate nella libertà personale del Comune di Padova Roma. Abdel, legato al letto e morto. La sorella: “Preso a botte nel Cpr. Voglio la verità” di Romina Marcea La Repubblica, 8 dicembre 2021 Parla la sorella del ragazzo tunisino morto a 26 anni al Servizio psichiatrico San Camillo, dopo tre giorni passati legato a un letto. Era arrivato su un gommone in Sicilia, poi è finito in un centro per il rimpatrio a Ponte Galeria. “Non mangerò fino a quando non vedrò il corpo di mio fratello. L’Italia mi dica la verità sulla sua morte”. Rania Abdel Latif ha iniziato lo sciopero della fame quattro giorni fa. Parla un francese stentato al telefono ma è battagliera. È la sorella di Wissem Abdel, il ragazzo tunisino morto a 26 anni al Servizio psichiatrico San Camillo, dopo tre giorni passati legato a un letto. Era arrivato su un gommone in Sicilia, poi è finito in un centro per il rimpatrio di Roma, a Ponte Galeria. Lì avrebbe mostrato segni di aggressività. È stato trasferito in due ospedali prima di morire il 28 novembre in circostanze ancora misteriose. Ieri gli uomini della squadra mobile hanno acquisito le carte su Wissem su disposizione della procura. Rania, cosa sa sulla fine di suo fratello? “Ci è stato detto che era morto solo quattro giorni dopo. So che l’hanno preso a botte senza pietà in quel centro, colpito allo stomaco. Forse anche alla schiena”. E chi lo avrebbe picchiato? “C’è il video di un ragazzo che è uscito dal Cpr e denuncia che sia lui sia Abdel sono stati picchiati dalle forze dell’ordine. Mio fratello lo aveva confidato anche a mio cugino Munir, al telefono. Non voleva che ci preoccupassimo per lui. So che ci sono altri testimoni”. Sono accuse pesanti. Gli agenti di quali forze dell’ordine avrebbero aggredito Abdel? “Questo non lo so per certo. Aspetto che me lo dica lo Stato italiano. So però che Abdel aveva chiesto aiuto a un’avvocata che non l’ha aiutato”. Abdel a un certo punto è stato curato con farmaci per patologie psichiatriche. Lo sapevate? “No. L’hanno drogato contro la sua volontà. Mio fratello era un ragazzo tranquillo, stava bene. In quarantena, all’arrivo in Sicilia, si era anche rasato la barba per la contentezza. Sognava di andare a vivere in Francia. Nessuno merita la fine che gli è stata riservata”. Quando è stata l’ultima volta che l’ha sentito? “Quindici giorni prima che morisse. Mio fratello non aveva alcuna malattia. Era buono, aveva tanti amici, giocava a calcio”. Lei verrà in Italia? “Certo, devo sapere cosa è successo e voglio vedere presto mio fratello, poi tornerò a mangiare. Chi ha partecipato alla morte di Abdel deve essere punito. Lo ripeto, le autorità italiane mi dicano la verità”. Tre testimoni delle botte al Cpr sono stati già rimpatriati, altri sono stati trasferiti. Il garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma, segue la vicenda. Il gruppo indipendente Lasciatecientrare sta raccogliendo altre testimonianze. “Voci su aggressioni da parte delle forze dell’ordine risultano anche a noi - dice Yasmine Accardo, la portavoce - ma prudenza, aspettiamo il corso delle indagini”. Roma. Fornitura dei pasti ai detenuti, la Procura di indaga per frode di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 8 dicembre 2021 Dopo la bocciatura della Corte dei Conti l’esposto della Garante dei diritti dei detenuti. “Profili di irragionevolezza” nelle gare. Si muove anche la ministra Cartabia e il Garante della concorrenza. Incostituzionale (in quanto lesiva del diritto alla salute) e anti-concorrenziale la fornitura del vitto ai detenuti è oggetto di un’indagine per frode in pubbliche forniture da parte del procuratore aggiunto Paolo Ielo. L’inchiesta, aperta su sollecitazione della Garante capitolina dei diritti dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, punta ai vertici del Dap che, nell’indifferenza generale, avrebbero varato gare d’appalto apparentemente sartoriali, l’ultima delle quali ha visto vittoriosa la Ventura, collegata allo storico gruppo di Arturo Berselli, da sempre felpato aggiudicatario del servizio di ristorazione nelle carceri. L’ultimo ribasso praticato dai dipartimenti di Lazio, Abruzzo e Molise - 2 euro e 39 centesimi per colazione, pranzo e cena di ciascuno - era finito due mesi fa all’attenzione della Corte dei Conti (sezione del Lazio), il cui presidente Antonio Mezzera scriveva: “Emergono profili di irragionevolezza nelle scelte dell’amministrazione (penitenziaria, ndr) che, in luogo dell’indizione di due diverse gare, una per l’affidamento dell’appalto di servizio di vitto e l’altra per la concessione del servizio di sopravvitto (spaccio, ndr) ha imposto agli operatori di formulare offerte tali da considerare in via di fatto la mera eventualità di dover fornire anche il diverso servizio del sopravvitto”. In soldoni, le imprese della ristorazione carceraria che si aggiudicano la fornitura del vitto decidono volta per volta se allestire anche il servizio di spaccio con un “potenziale conflitto d’interesse”. La (scarsa) qualità di quei tre pasti al giorno, confezionati all’irrisoria cifra pro capite, spingerà infatti il detenuto a ricorrere allo spaccio interno dove i prezzi raggiungono o superano cifre di mercato e l’adozione di un unico prodotto rende impossibile risparmiare. Un meccanismo di compensazione tollerato dalla direzione carceraria che, come documentato nell’esposto depositato in Procura, arriverebbe a promuovere il regime monomarca imposto dalle ditte attraverso avvisi affissi in bacheca. Gli interrogativi sono molti. Ma il primo è come sia stato possibile garantire anni di simile monopolio nel silenzio istituzionale? A tale proposito affiora una circostanza inquietante. Il pronunciamento dell’allora presidente dell’Authority Antonio Catricalà inviato al ministro della Giustizia dell’epoca Angelino Alfano sul tema del vitto nelle carceri e rimasto lettera morta. Scriveva Catricalà nel 2011: “L’autorità ritiene che le modalità di realizzazione del bando di gara in questione siano in grado di determinare distorsioni della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato”. Eppure fornitori e qualità del vitto son rimasti gli stessi, con punte di grave scadimento nella fornitura di carni, generalmente polacche o danesi. In seguito al pronunciamento della Corte dei Conti, inoltrato al ministero competente, Anac e Authority per la concorrenza, il Guardasigilli Marta Cartabia ha sospeso le gare. Il risultato, al momento, è un limbo nutrizionale per i carcerati. Osserva Stramaccioni: “I fornitori stanno utilizzando le rimanenze di magazzino per rifornire i detenuti. Ci auguriamo che si superi questo stallo che acuisce le sofferenze in carcere. Lo Stato sia impeccabile nella applicazione delle regole”. Parallelamente l’Authority per la concorrenza si è già espressa con una bocciatura, trasmessa al ministero della Giustizia, nel merito delle gare d’appalto. Napoli. I detenuti e la rieducazione: “Così impariamo a cambiare vita” di Alessandra Martino Il Mattino, 8 dicembre 2021 Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, recita l’articolo 27 della Costituzione. Ieri mattina il convegno, “Carcere, misure alternative e magistratura di sorveglianza”, promosso dal Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello ci ha condotto all’interno degli istituti di pena campani e non solo, alla scoperta dei progetti di lavoro e delle iniziative culturali per i detenuti: ancora poche, ma in crescita. In carcere la libertà può assumere forme inaspettate. Può raccontare e riflettere attraverso la filosofia. Le attività che i detenuti portano avanti all’interno degli istituti di pena, non sono soltanto occupazioni e lavori fini a sé stessi, ma hanno l’obiettivo di essere un vero e proprio progetto sociale, e di influire sulla vita dei detenuti. Non solo, l’esperienza lavorativa in carcere produce un aumento dell’autostima e della fiducia in se stessi, e promuove l’interazione con gli altri, la puntualità, l’affidabilità nella relazione. Il lavoro in carcere è contro la recidiva. Il lavoro in carcere è un ponte con la società, tra chi sta dentro e chi vive fuori. A raccontare questa realtà due detenuti, Gino e Zito a testimoniare quanto siano importanti progetti di rieducazione all’interno delle case circondariali. “Sono qui per testimoniare quella che è stata la mia vita carceraria, sono state dette tante cose ma oggi parlo della mia riflessione: Ho trascorso 5 anni in carcere e quella misura restrittiva ti porta in ogni modo a cambiare, però è chiaro che deve essere un atto di volontà del detenuto a voler cambiare la sua vita. Ho cercato attraverso lo studio di capire che tipo di persona sono stato per un quarto di secolo, ho studiato in modo approfondito gli eventi che si sono succeduti - ha raccontato Zito -. E di conseguenza che adulto sono stato, che marito sono stato, che padre sono stato. Questo scalo dentro me stesso è avvenuto soprattutto quando sono stato in cella isolato, è stata un’auto scrittura della mia vita che mi ha aiutato ad avere una visione diversa della mia vita”. “L’iscrizione volontaria all’università nel Polo Universitario Penitenziario di Secondigliano, è stata per me la rinascita. Mi ha dato la cassetta degli attrezzi per poter vedere la realtà che mi circonda e capire finalmente che quello che io ritenevo un abuso era tutt’altro che abuso. L’università mi ha dato le qualità e la visione giusta per conoscere territori nuovi. Non smetterò mai di ringraziare il mio magistrato di sicurezza, che nonostante io sia stato un ergastolano mi ha dato fiducia e ha investito su di me. Io sono responsabile del mio cambiamento e non perché devo essere accettato dalla società ma per accettare me stesso”. “Per poter raggiungere questo tipo di consapevolezza e uscire da questo labirinto, - ha sottolineato Zito -, deve avere anche gli strumenti per poter cambiare. Nel mio caso, ho avuto tutti gli strumenti per poterlo fare, inoltre durante il mio percorso di studi universitari ho avuto la possibilità di conoscere un professore che da un anno che mi ospita a casa sua. Ma parliamoci chiaro, chi ospita a casa sua un ergastolano. Io devo la vita a lui”. Zito oggi è un detenuto in semilibertà, ovvero, trascorre parte del giorno fuori dell’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale ma da un anno non torna più nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere ma torna ogni giorno a casa del professor B, professore che ha conosciuto durante i suoi studi universitari, che ha messo a disposizione la sua casa per far sì, che lui possa avere un tetto sulle spalle. Dunque, misure alternative alle sbarre di una cella, per risolvere la questione carceraria. Le chiedono a gran voce i garanti dei detenuti attivi sul territorio che hanno risposto questa mattina all’invito del Garante della Regione Campania, Tra i presenti gli attori del sistema carcerario regionale, magistrati di sorveglianza, provveditori, avvocati e anche figure più vicine alla popolazione penitenziaria, tra questi cappellani ed esponenti del terzo settore. “Questo convegno organizzato dal mio ufficio d’intesa con conferenza nazionale dei garanti territoriali ha una valenza importante, ha messo intorno allo stesso tavolo attori importanti per l’inclusione sociale dei detenuti. Questo è un modo concreto di vivere il dettato costituzionale, le pene e il carcere servono per rieducare. Le testimonianze che ci sono state, anche di detenuti ci hanno portato a vivere questa cosa: occorre meno carcere e più misure alternative al carcere e soprattutto occorre decarcerizzare e depenalizzare il nostro sistema - ha spiegato il Garante. Il nostro sistema è un sistema troppo carcero centrico”. Oggi in Campania, ha denunciato il Garante delle persone private della libertà personale, 31% dei detenuti è in attesa di giudizio, 963 sono immigrati, 391 donne e poi quasi della metà dei detenuti sono in carcere per reati di tossicodipendenza o persone con sofferenza psichica. Durante il convegno, nel pomeriggio è sopraggiunto anche Gino, un detenuto del carcere di Secondigliano, in permesso per poter partecipare al convegno promosso da Ciambriello. Gino, esce ogni giorno alle 7.30 dal carcere di Secondigliano per recarsi allo Stadio Militare Albricci e rientrano alle 16. In questo lasso di tempo, Gino ha la possibilità di poter iniziare ad incontrare anche la sua famiglia. “In questo stadio militare ci hanno accolto con umanità, con fratellanza. Siamo a contatto con la natura e abbiamo imparato le varie mansioni che servono per la cura del verde”, ha raccontato Gino. “Io ringrazio il Dottor Ciambriello per questo invito, sono onorato di essere qui. Ringrazio il magistrato di sorveglianza che ha firmato il permesso per essere presente qui insieme a tutte queste persone. Iniziative del genere sono importantissime, io mi auguro che ci possano essere maggiori iniziative come queste perché in carcere si soffre molto. -ha confessato Gino-. Vivere in un carcere è disumano. Io sono cambiato tantissimo in questi anni, ho lasciato la mia compagna in attesa e l’ho lasciata partorire senza il mio supporto, in carcere ho studiato e sono riuscito a prendere la qualifica elementare, ho imparato tanti mestieri. Queste iniziative all’interno del carcere sono momenti vero calore ma dovrebbero essercene di più, abbiamo bisogno di più opportunità. Ci sono tanti detenuti anche migliori di me che devono avere queste possibilità perché se ha funzionato con me, può funzionare con tutti”. Tutto questo, probabilmente sono e gocce nel mare, rispetto ai dati allarmistici sul soprannumero di detenuti nelle carceri italiane e le conseguenti difficoltà annesse. Elementi però che svolgono una funzione fondamentale per trasformare il tempo in carcere in tempo di rieducazione e dignità, così come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Firenze. “Piedelibero”, nelle strade le bici restaurate dagli ex detenuti di Michele Bocci La Repubblica, 8 dicembre 2021 In arrivo duecentotrenta mezzi a prezzi modici per noleggi a lungo termine: un progetto della cooperativa “La Comune”. Duecentotrenta biciclette “sostenibili”, recuperate e perfettamente restaurate, sono pronte a popolare le piste ciclabili e le strade di Firenze grazie al progetto “Piedelibero per La Comune”. L’iniziativa d’esordio de “La Comune”, neocostituita cooperativa di comunità urbana fiorentina - la prima in città - è un progetto di noleggio bici a lungo termine, nato grazie al contributo della Fondazione Noi - Legacoop Toscana, che coniuga sostenibilità ambientale, riuso e riciclo, valorizzazione di percorsi di reinserimento sociale e promozione di uno stile di vita più ecologico. “Piedelibero per La Comune” punta a incentivare la mobilità sostenibile su due ruote a partire dalle giovani generazioni e dagli studenti, che avranno a disposizione un servizio di noleggio utile e vantaggioso per “pedalare in libertà” contribuendo anche, alla luce dell’esperienza pandemica, a non “intasare” i mezzi pubblici nelle ore di punta. Un progetto dal forte carattere cittadino, che è stato “tenuto a battesimo” questa mattina in Palazzo Vecchio dal sindaco Dario Nardella e dall’assessore all’Educazione e Welfare Sara Funaro, insieme al presidente de La Comune Roberto Negrini. Testimonial d’eccezione del progetto Davide Cassani, ex ciclista professionista e Presidente APT Emilia Romagna. Diventando soci della neonata cooperativa “La Comune”, singoli cittadini, aziende o associazioni potranno noleggiare per 6 mesi o un anno una bicicletta ad un canone agevolato. A fornire le bici sarà la cooperativa sociale fiorentina Ulisse, che da anni porta avanti “Piedelibero”, progetto sociale di reinserimento lavorativo dei detenuti: in un’officina allestita all’interno dell’Istituto Penitenziario di Sollicciano, sotto l’occhio esperto dei meccanici-operatori sociali di Ulisse, le biciclette provenienti dalla Depositeria comunale vengono recuperate e portate a nuova vita, riciclando in sicurezza rottami altrimenti destinati alla demolizione. “La Comune è una bella realtà comunitaria - dice il sindaco Dario Nardella -, che arricchisce il tessuto socio-economico della nostra città, andando incontro ai bisogni reali dei fiorentini. Siamo felici di presentare a Palazzo Vecchio il progetto ‘Piedelibero per La Comune’, che tiene insieme temi che stanno particolarmente a cuore alla nostra amministrazione comunale: ovvero la promozione della sostenibilità ambientale e della mobilità green, l’incentivazione all’uso delle due ruote tra i giovani e gli studenti e gli inserimenti socio-lavorativi dei detenuti, attraverso i quali si riduce la recidiva e viene promosso il reinserimento sociale nella comunità. Tutte azioni che vengono favorite attraverso il recupero di bici provenienti dalla nostra depositeria comunale”. “Ambiente, scuola e sociale sono i tre pilastri su cui si basa ‘Piedelibero per La Comune’ - afferma l’assessore a Welfare ed Educazione Sara Funaro -, tre settori prioritari in questo particolare periodo storico che stiamo vivendo, segnato dalla pandemia. Con questo bel progetto i detenuti del carcere di Sollicciano si impegnano a recuperare delle biciclette per la comunità e hanno modo di apprendere un mestiere che in futuro potrebbe tornare loro utile. Il frutto di questa attività ha per i detenuti un ritorno positivo per la città sia in termini di incentivazione della mobilità green che di diffusione della cultura verde tra i più giovani”. “Questo progetto è un po’ il biglietto da visita de ‘La Comune’, che nel 2022 presenteremo ufficialmente in un evento pubblico aperto alla cittadinanza, per far conoscere anche gli altri servizi offerti dalla cooperativa - afferma il presidente de La Comune Roberto Negrini -. Attraverso il progetto di noleggio bici abbiamo già iniziato a ‘costruire la comunità’ e ad attivare quella rete cittadina di soggetti in grado di trovare soluzioni e risposte ai bisogni delle persone nei diversi rioni e quartieri della città”. “La bicicletta è sempre stata, e tuttora è, una protagonista della mia vita e l’ho sempre considerata un driver non solo per lo sport ma, sempre più, per il turismo e per la mobilità sostenibile - afferma Davide Cassani, Presidente APT Emilia Romagna -. Progetti come questo de La Comune sono da esempio per un concetto di sostenibilità a 360 gradi, dall’integrazione sociale, al benessere dei cittadini, alla condivisione degli spazi, al riuso, al miglioramento della qualità della vita. L’uso della bicicletta per il bike to work, per il bike to school o il bike to shop sappiamo che genera vantaggi rilevanti per l’economia, per la riduzione del traffico e per la salute e permette di vedere la propria città con nuovi occhi”. Le bici disponibili per il noleggio con “La Comune” saranno di diversi modelli (Olanda 26”, City bike mono marcia 28”, City bike con marce 28”) e saranno completamente riqualificate: ciascuna bicicletta avrà un numero di serie inciso sul telaio che la renderà identificabile e garantirà la filiera sicura del prodotto. Le bici saranno complete di campanelli e catarifrangenti ed immediatamente riconoscibili grazie alle caratteristiche manopole rosse e all’adesivo “Piedelibero per La Comune”. Gli adesivi sono stati stampati dalla Stamperia Sociale - Ginger Zone, realtà che ha come finalità l’inserimento socio-lavorativo di giovani stranieri non accompagnati e persone in stato di fragilità, promossa da COSPE-Onlus e Cooperativa Sociale Oltre il Ponte Onlus. Sulle biciclette sarà presente anche un Qr code, che una volta inquadrato darà accesso a tutte le informazioni relative al progetto. Alla sottoscrizione del primo noleggio, i primi 100 soci della cooperativa avranno in omaggio un kit luci, un lucchetto ad alta resistenza e una borraccia fornita da Publiacqua Spa (luci, lucchetti e caschi saranno inoltre sempre acquistabili dai soci della cooperativa a prezzi vantaggiosi). Nel contratto di noleggio saranno inclusi due tagliandi obbligatori per revisionare periodicamente i mezzi e in città sarà attivata una rete di officine convenzionate. Inoltre, sarà possibile parcheggiare gratuitamente la bici in uno degli spazi messi a disposizione da Uisp Firenze: la rete dei depositi sarà implementata costantemente, per essere sempre più capillare all’interno del territorio comunale. E in caso di furto del mezzo? Sarà possibile avere un’altra bici: opzione, questa, valida per una volta nel corso del noleggio, presentando la denuncia di furto. Lecce. La comunità si stringe attorno al carcere: consegnati beni di prima necessità borderline24.com, 8 dicembre 2021 Ancora una iniziativa a favore dei detenuti e delle detenute della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce. È stato consegnato al Carcere di Lecce il risultato della raccolta di beni di prima necessità effettuata da Lecce Città Pubblica a favore dei detenuti e delle detenute della C.C. Borgo San Nicola, su sollecitazione dei volontari del carcere e con la collaborazione della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Stando accanto ai detenuti, come fanno molti volontari, come fa per mandato istituzionale la Garante, ci si rende presto conto che senza la presenza del volontariato, senza la solidarietà di tanti cittadini e cittadine, molti detenuti, non solo stranieri ma anche italiani, senza danaro e soprattutto privi del sostegno familiare, si troverebbero in seria difficoltà. Nonostante l’ordinamento penitenziario prescriva che sia la stessa amministrazione a fornire i beni essenziali, come ad esempio quelli per la cura dell’igiene personale, tutti coloro che hanno esperienza di contatto con i detenuti sanno quanto questo succeda solo in minima parte e quanto, ancora una volta, solo chi dispone di soldi propri può sopperire a questa carenza. La pandemia sociale, non solo quella sanitaria, ha reso molte situazioni ancora più problematiche: molte famiglie, già povere, non sono più in grado di sostenere i loro cari reclusi e se fuori la vita sembra aver ripreso, se pur entro certi limiti, il suo corso, in carcere gli effetti dell’emergenza pandemica sono ancora molto forti e chiaramente visibili. Come gli altri anni la generosità dei cittadini leccesi è stata pronta ed efficace e si è concretizzata in una donazione particolarmente generosa di grande utilità per i destinatari ma sicuramente importante come esperienza anche per chi la compie. Come tanti ho sempre pensato che chi dalla vita ha ricevuto debba saper donare e restituire almeno una parte di ciò che ha avuto. Il sentimento di solidarietà verso i più deboli dovrebbe accompagnarci nel nostro quotidiano e sicuramente se tutti noi fossimo un po’ più solidali e generosi verso chi ha bisogno ne avremmo tutti e tutte da guadagnarci. Un ringraziamento, infine, va alla Caritas e a Lorenzo Ria che personalmente ha curato ed effettuato il trasporto e la consegna in carcere. Disuguaglianze, cosa può davvero fare la sinistra su diritti civili e sociali di Gianni Cuperlo Il Domani, 8 dicembre 2021 “Il Pd ha rimandato troppo a lungo la lotta alle disuguaglianze” ha sostenuto su questo giornale Piero Ignazi e l’affermazione non può che attivare l’allarme. Col corollario che andrebbe estesa molto oltre i confini nostri così da interpellare la sinistra nel suo complesso su entrambe le sponde atlantiche. Perché se posta a quel livello, vale a dire con quell’ampiezza, si può facilmente replicare che sì, è andata davvero così, ma non si è trattato di un incidente di percorso. La realtà, in estrema sintesi, è che per un quarto di secolo almeno (non poco tempo!) su quelle due sponde - Europa e Stati Uniti - a imporsi è stato un poco nobile compromesso politico e di governo. Riassumiamolo così: chiunque governasse - conservatori, popolari, democratici, riformisti e socialisti - la strategia dell’Occidente si atteneva a un tacito accordo, a prevalere sarebbe stato un primato dei valori progressisti sul versante della qualità della democrazia e dell’accesso alla cittadinanza combinato con un primato in parallelo dei principi anti-statalisti sul fronte delle politiche economiche e sociali. Così largamente è avvenuto con alcune ricadute non banali. Per dire, a sinistra la globalizzazione è stata interpretata dentro un determinismo che imponeva di pagare prezzi necessari a un’onda di modernità (sic) che non si poteva arginare con le mani, da lì una strategia di contenimento, mero contenimento, di delocalizzazioni industriali, precarizzazione dei rapporti di lavoro, congelamento di aumenti salariali (il dato segnalato opportunamente da Ignazi e riferito agli ultimi trent’anni di statistiche italiane). A quel punto compito dei riformisti si è ridotto a smussare gli spigoli più urticanti delle politiche della destra la quale da parte sua ha proseguito serenamente nello svolgere il suo di mestiere: ridurre le tasse come mantra in barba a qualunque assetto di progressività, “affamare la bestia” dello Stato e della spesa pubblica liquidata per definizione come improduttiva se non parassitaria, nobilitare il “mercato” delle sole e migliori virtù distributive sottraendo l’allocazione delle risorse a qualsivoglia filtro o controllo espressione della volontà (o sovranità) popolare. Rubo la sintesi a Gaetano Azzariti (il quale giunge a tale conclusione percorrendo il sentiero accidentato delle riforme costituzionali, ma la sostanza rimane la stessa): nell’ultimo ventennio in ragione di questo patto abbiamo finito spesso coll’oscillare “tra una tecnica senza morale e una politica senza pudore”. Bene, anzi male, ma se le cose stanno così è giustissimo il rimando di Ignazi all’ultima fatica editoriale di Fabrizio Barca con Fulvio Lorefice, Diseguaglianze, Conflitto, Sviluppo (Donzelli), che rifacendosi al pensiero di un luminare della materia quale Anthony Atkinson, accompagna alla più classica azione di re-distribuzione una altrettanto fondamentale strategia di pre-distribuzione, e questo se non vogliamo che disparità di censo, reddito, opportunità, e diritti, finiscano col produrre una nuova stratificazione dell’ingiustizia nel segno di quanto il compianto Tony Judt battezzava anni fa un “mondo guasto”. Sarà in grado la sinistra italiana, e il Pd con essa, di ricomporre la frattura e cucire la trama slabbrata dei diritti per come si presenta ai nostri occhi? Domanda seria per tante ragioni, non ultima che dall’impresa dipenderà l’esito della prossima sfida elettorale. Ma premessa anche solo per tentare è lasciarci alle spalle la sindrome di una gerarchia “malata” tra diritti civili e sociali. Le cose non stanno così e anche senza scomodare la lucida profezia di Stefano Rodotà che lo illustrava benissimo quindici o vent’anni fa, basta la cronaca a rendere evidente come fondere i diritti - sociali, civili, di libertà e dignità individuale - rappresenta soprattutto ora la linea che più di qualunque altra demarca il confine tra destra e sinistra. Che si tratti di migranti abbandonati al loro destino sull’isola di Lesbo (Unione europea copyright) o al confine tra Bielorussia e Polonia o sepolti in fondo al Mediterraneo, che siano gli operai sfruttati della logistica o i braccianti schiavizzati delle campagne, e ancora, gli operai licenziati via WhatsApp o i giovani che riempiono le piazze dei gay pride, la strada è quella: ricostruire la coscienza di quella parte di società che muovendo da bisogni irrisolti è disposta a battersi per una democrazia compiuta e una cittadinanza piena. E a farlo non per forza domani. Possibilmente ieri. Bambini invisibili, il progetto della Comunità di Sant’Egidio contro lo sfruttamento di minori di Francesco Antonio Grana Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2021 Esistono ancora bambini invisibili? La risposta, affermativa e perciò drammatica, emerge da un prezioso rapporto pubblicato dalla Comunità di Sant’Egidio. Si intitola Nascere non basta (San Paolo) ed è anche il racconto di una piaga, quella della tratta dei minori, molto spesso ignorata. Nel suo saggio introduttivo, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio e ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione del governo Monti, riporta un dato alquanto inquietante: “Dei 125 milioni di bambini che ogni anno nascono nel mondo, un terzo non viene iscritto allo stato civile: una fascia della popolazione che, annualmente, vede perpetuata una sorte di esclusione”. Circa il 70 per cento della popolazione mondiale, infatti, vive in paesi con sistemi di stato civile incompleti o insufficienti. Tra i 166 milioni di minori sotto i cinque anni non registrati, 94 milioni vivono in Africa sub-sahariana e 65 nell’Asia meridionale e orientale. Africa e Asia, infatti, sono i continenti dove il problema è più grave. Riccardi spiega che “questa è la vicenda dei bambini ‘invisibili’, che diventano minori venduti, piccoli schiavi buoni per ogni mestiere, anche i più rischiosi, compreso quello del sesso, ma anche bambini soldato, manodopera a basso costo e di facile gestione (meglio degli adulti), fornitori di organi per i trapianti (e quindi condannati a morte), lavoratori domestici senza diritti e spesso retribuzione… gente destinata ad essere sfruttata in ogni modo. Ci si sofferma in genere sui casi singoli, sui gruppi di sfruttati, ma qui si va al cuore di quello che è il meccanismo di esclusione: la mancanza di un’identità legalmente riconosciuta dallo Stato, per cui non si fa parte della popolazione della propria nazione, non si può essere iscritti a scuola, né usufruire dei servizi sanitari, si è più vulnerabili allo sfruttamento e agli abusi. Le conseguenze sulla vita dei singoli, bambini prima e adulti poi, sono tante, ma un’unica esclusione è alla base di tutto”. In questo abisso, sono oltre cinque milioni i bambini nel mondo che, a oggi, hanno potuto esistere legalmente ottenendo la registrazione allo stato civile grazie alla Comunità di Sant’Egidio: bambini di strada, minori detenuti in carcere, ex bambini-soldato, piccoli malati di Aids, ragazzi senza famiglia e malnutriti. Vivono nelle bidonvilles o negli slums delle grandi città africane, in campi profughi, colpiti da emergenze umanitarie e in tante altre situazioni di povertà. La Comunità, nelle più diverse situazioni, cura con particolare attenzione questo aspetto, facendo sì che sia registrata la nascita di tutti i piccoli raggiunti dalle sue iniziative. Tra gli oltre 100mila minori coinvolti nelle attività di Sant’Egidio (scuole della pace, centri nutrizionali, scuole gratuite e centri sanitari), sono tante le iniziative per affrontare questo problema nelle più diverse situazioni. “La rivolta contro l’anonimato, per la registrazione dello stato civile, - spiega Riccardi - nasce dalla sinergia tra le Comunità di Sant’Egidio in Africa e quelle in Europa. Il programma Bravo! matura in questo tessuto di sinergia e speranza condivisa, di passione umana, di cultura giuridico-amministrativa, di volontà di cambiare pazientemente e radicalmente la condizione di parti cospicue delle società africane. Qui c’è l’origine ideale e organizzativa di Bravo!: la speranza di cambiare, anche se si tratta di un percorso lungo e paziente, attraverso le periferie e nel cuore delle istituzioni”. Una rivolta silenziosa, ma al contempo molto efficace, che dimostra come è possibile invertire la rotta, anche in tempi relativamente rapidi, contrastando una delle maggiori ingiustizie per una persona umana. “Sembra che questo nostro tempo globale - sottolinea Riccardi - non coltivi più il sogno di cambiare il mondo: certo non è più il tempo della ‘rivolta’ come è stata intesa in tante culture politiche europee (e anche africane) del Novecento. Il nostro secolo è quello dei percorsi individuali e della battaglia per l’affermazione di sé nella competizione, spesso deludente? Lo è in buona parte e anche in Africa, dove pure la persona ha una collocazione molto più collettiva e familiare che in Europa. Ma c’è la possibilità di cambiare, rivoltandosi contro una situazione iniqua”. Per Riccardi “non usciremo da quel senso di impotenza che prende talvolta la nostra società, se non impareremo ad avere uno sguardo attento e generoso su mondi altri, mondi che la globalizzazione rende ormai raggiungibili”. Il razzismo sofferto dove sei nata di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 8 dicembre 2021 Marilena Umuhoza Delli, papà leghista bergamasco, mamma ruandese, a Cannaregio sta crescendo la sua bimba che, trent’anni dopo, si trova alle prese con un po’ di problemi identici ai suoi. “Perché non te ne torni a casa tua?” È una vita che Marilena Umuhoza Delli, papà leghista bergamasco, mamma ruandese sposata quando lui era missionario in Africa, si sente fare la stessa domanda. E una vita che risponde, con l’accento di Bèrghem: “Io mi trovo esattamente nell’unico paese abbia mai conosciuto: l’Italia. Dove sono nata, sono cresciuta, sono stata insultata. Non c’è altro posto in cui vorrei essere”. Certo, ha studiato e vissuto pure in California, dove ha trovato Ian Brennan, un produttore musicale che ha sposato e si è tirata dietro nelle amate terre, “ma è l’Italia casa mia”. Più precisamente, oggi, sta sciacquando i panni nelle acque veneziane. A Cannaregio ha casa, a Cannaregio sta crescendo la sua bimba che, trent’anni dopo, si trova alle prese con un po’ di problemi identici ai suoi. A partire da quel “vezzeggiativo”, diciamo così, che anche a lei fu appiccicato e che non ha mai sopportato: “negretta”. La parola scelta per ricostruire la sua storia nell’ultimo libro edito da Red Star Press: “Negretta, Baci razzisti”. Dove racconta luci e ombre, momenti di felicità e di sconforto di una donna con due anime, italiana e africana. Le stesse che, con un’altra amica italo-africana, Sambu Buffa, consulente in comunicazione e marketing inclusivo, ha riassunto ieri presentando su Instagram un progetto: l’Academy dell’antirazzismo. Obiettivo: “Colmare il vuoto accademico dei curricula scolastici italiani che oscurano la storia della comunità italiana di origine straniera, un importante pezzo della cultura del nostro Paese. E che omettono le responsabilità italiane nel corno d’Africa, contribuendo ad alimentare stereotipi negativi legati al corpo nero (già vilipeso e ridicolizzato dai mass media e negli stessi libri scolastici, dove il colore nero e il suo portatore sono associati al male, alla violenza, alla disperazione). Non solo, gli attuali curricula non riflettono la diversità presente nelle aule italiane, dove studenti di origine straniera non si sentono rappresentati e dove è assente un vero e proprio percorso didattico di intercultura”. Il sogno? “Sarebbe riuscire a confrontarci con ragazzi nati e cresciuti in ambienti in cui era facile cadere nei preconcetti che han ferito anche me e Sambu. E sostenere famiglie transrazziali perché possano prevenire e difendersi dagli attacchi di razzismo e crescere consapevoli, empatici e orgogliosi della loro identità”. Egitto. Patrick Zaki ritornerà libero in attesa del processo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 dicembre 2021 La decisione del tribunale di Mansoura: non è assolto dalle accuse, ma lascerà a breve la prigione dove è detenuto da 668 giorni. Prossima udienza il primo febbraio 2022. Il fascicolo contro lo studente rimane aperto. La difesa: datecelo. Non potrà lasciare l’Egitto ma non avrà obbligo di firma, fa sapere la sua legale. Era l’incredulità ieri a occupare i corridoi del tribunale per i reati contro la sicurezza dello Stato di Mansoura, sul Delta del Nilo. Ci si aspettava un rinvio, o addirittura la sentenza. Il giudice ha optato per una terza via: la scarcerazione di Patrick Zaki in attesa della prossima udienza, la quarta, che si terrà il primo febbraio 2022. A piede libero, dunque, o come dicono in Egitto quando un prigioniero politico esce dal carcere “sull’asfalto”. Non c’è stata assoluzione, il processo continua, ma è anche vero che dopo 668 giorni dietro le sbarre il giovane studente egiziano dell’Università di Bologna torna a casa dalla sua famiglia. Non più in una cella piccola, sporca, costretto a dormire a terra. I primi a non crederci erano proprio loro, i suoi familiari. In alcuni video si vede la sorella Marise camminare avanti e indietro fuori dall’aula con il telefono in mano, quasi non ci credesse. E poi il pianto, insieme alla madre. Sul rilascio effettivo, ieri sera non c’erano certezze: potrebbe avvenire oggi, ma forse dovrà ripassare prima dalla maxi prigione di Tora, al Cairo, dov’era detenuto. Di certo, spiegava ieri all’Ansa Luban Darwish, rappresentante dell’ong con cui collaborava, l’Egyptian Initiative for Personal Rights, che “la procura non può fare ricorso contro la decisione”. L’udienza di ieri, la terza dall’apertura del processo lo scorso 14 settembre, è durata appena quattro minuti, Zaki li ha trascorsi nella cella destinata agli imputati, vestito con la tuta bianca. Al rappresentante diplomatico italiano ha detto di stare bene, ha alzato il pollice. La sua legale, Hoda Nasrallah, ha chiesto alla corte di poter accedere all’intero fascicolo della procura per preparare la difesa, ai verbali della Sicurezza nazionale e alle registrazioni delle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto del Cairo, dove Patrick è stato arrestato il 7 febbraio 2020 di ritorno dall’Italia. Poco dopo, l’annuncio del rinvio e del rilascio. Non potrà lasciare l’Egitto, ma non sarà sottoposto a obbligo di firma, secondo quanto detto da Nasrallah all’agenzia egiziana Mada Masr. La libertà provvisoria non pone fine al procedimento legale: resta aperto il fascicolo per diffusione di notizie false (considerato reato politico) per cui rischia cinque anni, sulla base di tre articoli scritti per la rivista online Daraj sulle condizioni della minoranza copta. Ieri l’intero - o quasi - spettro politico italiano ha festeggiato. Anche il governo, a partire dal presidente del Consiglio Mario Draghi che, riporta una nota di Palazzo Chigi, “esprime soddisfazione per la scarcerazione di Patrick Zaki la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione dal governo italiano”. Il ministro degli esteri Luigi Di Maio su Twitter lascia intendere un ruolo dietro le quinte della diplomazia italiana: “Adesso continuiamo a lavorare silenziosamente, con costanza e impegno. Un doveroso ringraziamento al nostro corpo diplomatico”. Un tweet che sembra confermare quanto riportato da fonti del ministero all’Adnkronos: Di Maio avrebbe avuto in merito una serie di incontri con l’omologo egiziano Sameh Shoukry. Egitto. Patrick Zaki, libertà benedetta (e incompleta). Ora avanti per Giulio Regeni di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 8 dicembre 2021 Un sommerso che invece si salva, torna libero, si riguadagna un pezzo inatteso di futuro. Preparati a lasciare la tua cella, Patrick Zaki, figlio sgradito d’Egitto, fratello di tanti studenti italiani che ti hanno adottato. Questione di ore, massimo di giorni, e l’incubo senza fine dove eri precipitato svanirà. O almeno dovrebbe, condizionale d’obbligo quando si ha a che fare con Paesi che non praticano la democrazia ma il suo contrario. Hai nelle ossa, nei polmoni, negli occhi l’enormità di 670 giorni di carcere infame, senza materasso per dormire, senza medicine per curarti l’asma, senza una colpa da cui difenderti né una ragione per sopportare il fatto che di colpo, un giorno, il 7 febbraio 2020, a neanche 29 anni, ti hanno tolto all’improvviso la libertà. Ma tu hai resistito a tutto. Ti sei aggrappato come un naufrago alla speranza che da qualche parte, specialmente in quell’Italia dove eri stato studente per un master a Bologna, non si erano dimenticati di te. E forse questo ha contato nell’esito clamoroso di queste ore. Forse la mobilitazione di movimenti, università, città, instancabile nonostante le frustrazioni dei ripetuti prolungamenti della tua detenzione preventiva (45 giorni più altri 45 più altri 45), qualcosa ha smosso nei meccanismi ineluttabili e perversi del potere. Forse la richiesta di cittadinanza italiana, avanzata all’unanimità dalla maggioranza del Parlamento che sostiene il nostro governo, ha aiutato una diplomazia impigrita da una ragion di Stato che, in nome degli affari e delle convenienze strategiche, è spesso capace di chiudere un occhio, e anche tutti e due. Forse hanno avuto un peso le parole di Liliana Segre, quando si è spinta fino in Senato a Roma per sostenerti: “Sono qui come nonna di Zaki, e come lui so che cosa vuole dire la porta chiusa di una cella e l’angoscia che possa succedere di peggio quando si apre”. E forse, da ultimo, non è stata inutile anche la pressione di alcuni giornali, e il Corriere della Sera è tra questi quando ancora ieri raccontava il tormento dei tuoi genitori e di tua sorella, in attesa come tutto il mondo libero di quello che ti sarebbe successo all’indomani, udienza importante del tuo irreale calvario giudiziario. I fari tenuti accesi sul buio della tua prigione hanno magari impedito che quel buio diventasse impenetrabile. Vero che non è finita. Non è quasi mai finita quando c’è di mezzo un regime che si considera arbitro e padrone delle vite degli altri, dei suoi cittadini, dei sudditi. Dovrai ripresentarti davanti a una Corte egiziana il primo febbraio, perché sarai anche libero ma non ancora assolto (da quale accusa, chissà). Potrebbero decidere di tornare a rovinarti l’esistenza in qualsiasi momento. Ma intanto sei praticamente fuori, potrai dormire prestissimo, una delle prossime notti, nella tua casa di Mansoura, con la famiglia che ti ha aspettato ogni secondo di questi 22 mesi, o magari anche tornare a studiare in quella Bologna, dove in ogni tua lettera dal carcere bestiale di Tora, al Cairo, chiedevi di poter ripartire dopo il tunnel dove ti avevano cacciato. “Riportatemi in piazza Maggiore. Grazie alla città, alle bandiere gialle. Io combatterò per questo”. Combattere e vedere riconosciuto, in un giorno di festa, che non è impossibile, che non è tutto inutile, è un segno che pretende un seguito. Le pressioni delle piazze, della società civile, e l’effetto domino che determinano sulle attenzioni di un Paese come l’Italia, possono davvero cambiare il corso delle cose, anche per gli ultimi, le vittime più incolpevoli della perdita di qualsiasi valore per il rispetto dei diritti fondamentali dell’essere umano. Salvato, per adesso, il soldato Zaki, arruolato in una guerra di inciviltà che non lo ha mai riguardato, diventa ancora più urgente proseguire con convinzione sulla stessa strada. È evidente che il prossimo passo, nei confronti dell’Egitto, non può che avere a che fare con la riapertura del processo sulla fine ignobile di Giulio Regeni. Quella vita meravigliosa non si può più salvare. Ma almeno tutta la verità sulla sua esecuzione e i suoi assassini, ecco, quello è un obiettivo non contrattabile, non più rinviabile, irrinunciabile. La liberazione di Patrick è benedetta ma si completa soltanto con la fine dell’omertà sullo studente Giulio, italiano del mondo. Chi ha liberato Patrick di Luigi Manconi La Repubblica, 8 dicembre 2021 Mentre la Ue mostra le sue vergogne e mentre la sua pavidità su questioni cruciali (diritti umani, accoglienza dei migranti, stato di diritto) si traduce in una sorta di rigor mortis, viene alla luce un’altra Europa. Un’Europa di individui che si muovono velocemente, superando di un balzo solo le barriere etniche, linguistiche e culturali: soggetti non istituzionali e tuttavia informati e competenti, non legati ai partiti, eppure politicamente sagaci e solleciti del bene pubblico, non riconducibili alle internazionali del secolo scorso (socialista, popolare, conservatrice), ma cosmopoliti per esperienza e vocazione. Sono i “giovani europei”, le cui radici non sono circoscritte al perimetro del Vecchio continente, ma si allungano fino al Medio Oriente e al Nord Africa. Sono loro, da Berlino ad Atene, dal Cairo a Tunisi, che hanno tenuto viva la mobilitazione per quel giovane uomo, Patrick Zaky, sottoposto alla tortura di veder rinnovato, ogni 45 giorni, il dispositivo di una carcerazione insensata; sono loro che hanno comunicato questo sentimento di affinità elettiva con un “prigioniero di coscienza”, che ha dormito per 660 notti sul pavimento di cemento della sua cella. Per questo, mi viene da pensare Patrick Zaky come un giovane europeo: per come ha vissuto la sua adolescenza in Egitto e la sua appartenenza a una minoranza religiosa, per come ha fatto della sua sensibilità civile una occasione di formazione intellettuale e politica, per come ha voluto allargare i propri orizzonti recandosi nel cuore della cultura europea, in quella Università di Bologna che è la più antica del mondo occidentale. E, infine, per come ha affrontato la detenzione: senza mai abdicare ai propri principi e perseguendo con una caparbietà, quasi ascetica, il proprio desiderio “di studiare”. Su Internet si trova una sequenza di foto, disegni, dipinti, dove l’immagine di Zaky viene reiterata migliaia di volte. Questa ossessione iconica potrebbe apparire a qualcuno come la celebrazione di un rito funebre. Ma è, piuttosto, l’autorappresentazione allegorica di una identità plurima, cangiante, mobile, fatta della speranza e del coraggio dei tanti giovani europei, che hanno “indossato” i panni e la faccia di Zaky per affermare, con la sua, la propria libertà. Non un cerimoniale del lutto, bensì - direbbe Susan Sontag - il modo per accedere al dolore dell’altro, sottraendolo allo spettacolo mondano, e assorbendolo nello sguardo e, dunque, nell’anima. Una comunanza generazionale che ha contribuito alla scarcerazione, seppure non definitiva, di Zaky e che mostra una imprevista tenacia, ma anche una irreparabile fragilità. Tale perché questa alleanza sovranazionale rimanda a un’epopea tragica, fatta di vittime ventenni e trentenni. Un tessuto di idee e biografie, intelligenze e passioni, che propone i volti di Andy Rocchelli, finito dai colpi di mortaio in Ucraina il 24 maggio 2014, Valeria Solesin, uccisa nella strage al Bataclan di Parigi il 13 novembre 2015, Giulio Regeni torturato a morte al Cairo nei primi giorni del febbraio 2016, Antonio Megalizzi, trucidato nell’attentato a Strasburgo dell’11 dicembre 2018; e, insieme a loro, i tanti anonimi combattenti per i diritti umani in Turchia, in Egitto e nel Maghreb. Molti di questi non hanno ottenuto giustizia: e proprio perché l’Unione politica e istituzionale, quella che tollera sovranismi e fili spinati, non ha saputo darsi una strategia unitaria nemmeno per tutelare i valori che, si afferma, sono alla base della stessa idea e costituzione di Europa. Di conseguenza, oggi c’è da rallegrarsi per questo primo esito positivo, ma si deve continuare a vigilare perché sono sempre possibili le più amare sorprese. L’autorità che ha disposto la scarcerazione di Zaky è un’articolazione di quel regime dispotico di Abdel Fattah al-Sisi, che ha sprezzato la dignità di Giulio Regeni e ha tentato di sfregiarne la personalità. Da quel feroce sistema di potere, è lecito attendersi qualunque inganno. E resta il rammarico per come la domanda di verità e giustizia per Giulio sia stata lasciata senza risposta. I quattro governi italiani che si sono succeduti fino al 2020 hanno rivelato una colpevole sudditanza psicologica nei confronti dell’autocrate egiziano. L’unica azione politico-diplomatica intrapresa - il richiamo a Roma dell’ambasciatore italiano al Cairo - è durata appena 16 mesi e non è stata sostituita da altri provvedimenti efficaci. Solo l’attuale governo, costituendosi come parte lesa nel processo contro i quattro ufficiali della Nazional Security, ha mostrato una qualche determinazione. Ma, come si sa, ora si deve ricominciare daccapo. Sembra sfuggire all’intera classe politica che nel caso di Giulio Regeni, così come in quello di Patrick Zaky è in gioco, certo, un fondamentale principio umanitario. Ma, ancor più, una essenziale questione di sovranità nazionale: l’indipendenza e l’autorità di uno Stato si misurano, in primo luogo, nella sua capacità di tutelare l’incolumità dei propri cittadini. E di chi, come Zaky, si vuole, a pieno titolo, cittadino europeo. Zaki: ora trasformare la libertà a tempo in libertà definitiva, l’Italia lo aiuti di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 8 dicembre 2021 A Patrick Zaki hanno rubato, negato, indebitamente sottratto dalla sua giovane vita trecento ottantamila minuti di libertà. Ora Patrick è libero, seppur provvisoriamente, fino alla prossima udienza del febbraio 2022. Dovrà essere impegno del nostro Paese e del nostro Governo trasformare quella libertà a tempo in libertà definitiva. Si tratta di consentire a Patrick di attendere l’esito del processo non in forma semi-reclusa nell’Egitto di Al Sisi, bensì dove lui preferisce, preservandone la libertà di movimento. Essendo il processo nei confronti di Zaki un processo politico, anche in questo delicato momento, conterà la pressione diplomatica che dovrà essere esercitata allo scopo di sottrarre Patrick ai rischi di un giudizio che nulla ha a che fare con le regole dello Stato di diritto. Lo scorso 19 novembre 2020 il Consiglio dell’Unione Europea ha autorizzato l’avvio di negoziati per accordi tra la Ue e l’Egitto sulla cooperazione giudiziaria penale. Nel testo della decisione del Consiglio, con eccessivo realismo politico, si affermava che l’Egitto è un partner importante per la stabilità nella regione del vicinato meridionale. In quello stesso Atto si ribadiva anche quanto siano deficitarie in Egitto la libertà di espressione, di informazione, di riunione pacifica e di associazione e quanto sia necessario porre fine alla riduzione indebita dello spazio concesso alla società civile, perseguita anche attraverso il congelamento dei beni, divieti di viaggio e lunghi periodi di detenzione preventiva. Pertanto, di fronte alla consapevolezza internazionale del deficit di democrazia in Egitto, non ha nulla di immorale il sottrarsi, con decisione concordata, al processo. Non è giuridicamente, né eticamente, né politicamente fondata una detenzione che sia del tutto sganciata da accuse circostanziate. Dopo ventidue mesi di custodia cautelare le accuse nei suoi confronti sono ancora oscure in quanto legate alla repressione del libero pensiero. Di fronte a una detenzione arbitraria e a un processo politico, Patrick manterrebbe alta la sua dignità anche da contumace. Troppo importante è la libertà perché possa essere ceduta nel nome di una giustizia truce, disumana, politica come quella che ha portato nelle carceri egiziane decine di esponenti di organizzazioni non governative impegnate sul fronte dei diritti umani. La carcerazione illegittimamente subita da Patrick Zaki è stata fin troppo lunga per giustificare ulteriori restrizioni alla sua libertà di studiare, muoversi, vivere. Spetta alle autorità italiane adesso tutelare Patrick, assicurarne l’incolumità, offrendogli protezione, se necessario. Oggi è un giorno di felicità ma è anche un giorno nel quale programmare le azioni future dirette ad evitare che Patrick possa vivere anche un solo altro minuto di prigionia. Ben aiuterebbe in questa fase se gli fosse concessa la cittadinanza italiana. Tutto sarebbe più facile. L’Italia ha un dovere in più in questo momento delicato. Deve proporsi quale buon esempio per quei Paesi dell’area mediterranea con i quali intende rafforzare legami politici ed economici. Non è pretestuoso sostenere che il nostro Paese ben sarebbe più forte e autorevole nei rapporti diplomatici, anche in materia di giustizia, qualora fosse inappuntabile nel proprio sistema penale e penitenziario. Non poche volte, di fronte alle proteste per le violazioni dei diritti umani nei tribunali e nelle prigioni di Paesi lontani, c’è stato detto che poco avevamo da lamentarci noi italiani alla luce delle condizioni materiali di vita presenti in alcune delle nostre carceri. Nella consapevolezza che ogni paragone è insostenibile, va sicuramente riconosciuto come più alte e qualificate sono le garanzie procedurali e penitenziarie nel nostro Paese, più autorevoli e incontestabili saranno le prese di posizione delle autorità pubbliche italiane nel dibattito internazionale. Infine, la liberazione di Patrick Zaki è anche il risultato di una straordinaria campagna che ha visto protagonisti studenti, professori, attivisti, esponenti politici, giornalisti e tanti cittadini. Quando tornerà nella sua Bologna tutti insieme festeggeremo la riconquistata libertà. *Presidente di Antigone Carcere senza processo: diffuso ovunque in Medio Oriente, anche in Israele di Michele Giorgio Il Manifesto, 8 dicembre 2021 Dall’Egitto all’Arabia saudita, dall’Iran alla Turchia ma gli arresti indiscriminati seguiti da lunghe detenzioni senza processo sono praticati anche dall’esercito israeliano contro i palestinesi. L’arresto cautelare è l’espressione elegante che in Medio oriente definisce la detenzione arbitraria, spesso non seguita da un processo, e abbinata a torture, maltrattamenti e abusi di ogni genere. La vicenda di Patrick Zaki è servita a puntare i riflettori sulla situazione dei diritti umani in Egitto dove, secondo i dati in possesso da Human Rights Watch, sarebbero circa 60mila i cittadini incarcerati per motivi politici - uno dei più noti è Alaa Abdel El Fattah, protagonista nel 2011 della rivolta contro il presidente Hosni Mubarak -, non pochi dei quali sono soggetti a torture in centinaia di luoghi di detenzione, con 13 nuove prigioni costruite dal giorno del colpo di stato militare del 2013. I rapporti strategici ed economici che legano diversi paesi occidentali, Italia inclusa, all’Egitto, assicurano una sorta di immunità al regime di Abdel Fattah El Sisi. Ma la detenzione per motivi politici, senza processo, è largamente diffusa in altri Stati della regione, incluso Israele che pure si proclama a ogni occasione “l’unica democrazia del Medio oriente”. L’Arabia saudita detiene oltre 2.600 prigionieri politici, tra cui avvocati, accademici, religiosi e attivisti, molti dei quali sono in carcere senza accuse formali o sono stati condannati a lunghe pene detentive senza vere e proprie sentenze giudiziarie. Questo quadro è ulteriormente peggiorato con l’ascesa al potere del principe ereditario Mohammed bin Salman, accusato da più parti tra le altre cose di essere il mandante dell’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi, un oppositore della monarchia Saud. In Siria, secondo Amnesty International, dall’inizio della guerra interna nel 2011 decine di migliaia di persone sono state incarcerate, tra queste molte non hanno mai subito un processo e sono state torturate. Il governo siriano è anche accusato, sempre da Amnesty, dell’uccisione di 13.000 prigionieri nella prigione di Saydnaya. Damasco nega. Si ritiene inoltre che altre migliaia di siriani siano stati detenuti, torturati e uccisi da gruppi armati schierati contro il governo. In Turchia circa 50.000 persone sono state arrestate dopo il tentato colpo di stato di qualche anno fa contro il presidente Erdogan. Poche sono state accusate formalmente di aver preso parte al golpe e sono state imprigionate in modo sommario. Amnesty denuncia che “la detenzione preventiva arbitraria, lunga e punitiva” vada avanti in Turchia malgrado le proteste internazionali e dei centri per la difesa dei diritti umani. I più colpiti dalla misura sono gli attivisti curdi. Non va meglio in Iran dove il governo iraniano continua a reprimere, spesso con violenza, dissidenti e attivisti di ogni tipo per “propaganda contro lo Stato” e per aver “insultato” personaggi politici o religiosi. Il Bahrain ha incarcerato oltre 3.000 sciiti dopo le manifestazioni di massa del 2011-12 che chiedevano riforme e diritti politici nel regno. Accuse simili sono rivolte alla Giordania, all’Autorità nazionale palestinese e i paesi del Golfo, in particolare agli Emirati. Israele fa il possibile per definirsi davanti al resto del mondo uno “Stato ebraico e democratico” eppure continua a governare oltre cinque milioni di palestinesi sotto la sua occupazione facendo uso nei territori di Cisgiordania e Gaza e Gerusalemme Est di leggi militari che contemplano che la detenzione amministrativa. Le origini delle leggi militari israeliane relative agli ordini di detenzione amministrativa senza processo devono essere ricondotte al Mandatory Emergency Law Act del 1945. Questa misura restrittiva consente all’esercito di trattenere l’arrestato a tempo teoricamente indeterminato - per mesi, in alcuni casi addirittura per anni - sulla base di “informazioni segrete” dell’intelligence, senza formalizzare accuse e rinviarlo a giudizio. Il detenuto e il suo avvocato non possono accedere a queste “informazioni segrete”. Contro i palestinesi la detenzione amministrativa è stata usata sin dall’inizio dell’occupazione militare nel 1967 e prima di allora sotto il Mandato britannico. Dei circa 5mila prigionieri politici (tra cui anche donne e minori) al momento nelle carceri israeliane quasi 500 palestinesi sono detenuti senza aver mai subito un processo. La Corte suprema israeliana non ha mai realmente messo in discussione l’uso di tale forma di “custodia cautelare” che pure viola le leggi internazionali e i diritti umani. Contro la detenzione amministrativa i prigionieri palestinesi spesso, anche nelle scorse settimane, hanno messo in atto forme di proteste e praticato lo sciopero della fame. Uno di loro, Hisham Abu Hawash, continua a digiunare da 114 giorni contro il carcere senza processo. In Europa però, tanti fra coloro che lodevolmente si sono battuti per far scarcerare Patrick Zaki, non hanno posto alcuna attenzione sulla sua protesta. Siria. Nel campo di al-Hoq migliaia di bambini in condizioni inumane ma nessuno li rimpatria di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2021 Decine di migliaia di bambini di oltre 60 paesi, detenuti nel campo di al-Hoq, nel nord-est della Siria, gestito dall’Amministrazione autonoma curda, languono in condizioni inumane nell’indifferenza dei governi che non mostrano alcuna intenzione di rimpatriarli. Lo ha denunciato Amnesty International, sottolineando che questi bambini non hanno accesso adeguato al cibo, all’acqua potabile e a servizi essenziali come le cure mediche e l’istruzione e vivono separati dai genitori o da chi ne ha la tutela. Da quando, nel 2019, è terminato il conflitto col gruppo armato Stato islamico, circa 60 mila persone - soprattutto donne e bambini - di nazionalità siriana, irachena e di altri stati sono state poste in stato di detenzione nel campo di al-Hoq. In questa struttura, sotto il controllo dell’asayish, la polizia dell’Amministrazione autonoma curda, si trovano sospettati di affiliazione allo Stato islamico, ma anche migliaia di persone che per fuggire dal conflitto avevano trovato riparo nel campo. La sezione principale ospita siriani e iracheni, mentre in quella chiamata “L’aggiunta”, separata dal campo principale da un posto di blocco, si trovano donne e bambini provenienti da altri stati. Qui operano organizzazioni umanitarie che forniscono un minimo di cure mediche e altri servizi essenziali. I bambini e le bambine vengono separati dai genitori o dai tutori: da 12 anni in su, per evitare rischi di “radicalizzazione”, si finisce in “centri di riabilitazione” al di fuori del campo dove la tubercolosi e la scabbia sono diffuse. Gli altri, anche a soli due anni di età, vengono portati fuori dal campo in strutture sanitarie senza che i genitori o i tutori ricevano informazioni sulla loro salute o sulla loro sorte. Per un breve periodo la direzione del campo ha consentito alle organizzazioni umanitarie di assumere uomini e donne ma la decisione è stata annullata per ragioni non chiarite. Un recente rapporto di Save the Children ha rivelato che solo il 40 per cento dei bambini e delle bambine di età compresa tra i tre e i 17 anni riceve qualche forma di istruzione. Durante la pandemia da Covid-19 i corsi in presenza sono stati sospesi e non è stato possibile seguirli online a causa della mancanza di connessione Internet e di telefoni cellulari. L’insicurezza è sempre più dominante. Nel 2021, sempre secondo Save the Children, nel campo sono state uccise 79 persone, tra cui tre bambini, e altri 14 bambini sono morti in circostanze non chiarite. Le insopportabili condizioni di vita hanno dato luogo a gravi problemi di salute mentale, aggravati dalla mancanza di servizi di sostegno sociopsicologico. Molte delle persone di nazionalità siriana autorizzate dall’Amministrazione autonoma curda a lasciare il campo si sono trovate di fronte a ostacoli insuperabili: la paura di tornare in zone controllate dal governo siriano, i costi proibitivi del trasporto e, per quanto riguarda le donne, la riluttanza ad andar vie da sole mentre i loro mariti risultano ancora scomparsi o dispersi. In altri casi solo alcuni componenti di un gruppo familiare sono rilasciati, con la conseguenza che famiglie prima riunite nel campo si sono ritrovate separate. A causa degli insufficienti finanziamenti, le organizzazioni umanitarie che operano nel nord-est della Siria non sono in grado di fornire protezione ai bambini e alle bambine che escono dal campo, che diventano dunque facili prede del traffico di esseri umani, del reclutamento da parte dei gruppi armati e dei matrimoni forzati e precoci. Per le persone di altra nazionalità - cittadini iracheni e di stati terzi - l’unica possibilità di lasciare il campo di al-Hoq consiste nel rimpatrio. L’Iraq ha avviato un programma di rimpatri che va a rilento. Nella maggior parte dei casi, gli altri stati sono riluttanti a impegnarsi nel rimpatrio dei bambini e delle bambine. Burundi. Scoppia incendio nel carcere della capitale, 38 morti e 69 feriti swissinfo.ch, 8 dicembre 2021 Sono 38 le persone morte e 69 quelle gravemente ferite a causa del vasto incendio che prima dell’alba si è propagato nel carcere sovraffollato situato nella capitale del Burundi, Gitega. Lo ha detto ai giornalisti il vicepresidente Prosper Bazombanza, che ha visitato la scena dell’incidente con dei ministri. Quello dell’interno ha affermato via Twitter che l’incendio è stato causato da un corto circuito elettrico. Le fiamme sono divampate alle 04.00 circa (ora locale), distruggendo alcune aree della prigione che ha quasi un secolo di vita ed è la terza in ordine di grandezza nel paese. Il carcere ospita prigionieri politici e detenuti prevalentemente di sesso maschile, ma c’è anche un’ala dedicata alle donne. La struttura alla fine di novembre registrava oltre 1.500 persone, secondo i dati dell’autorità penitenziaria, quindi molto di più della sua capacità di 400 per cui è stata progettata e nonostante la liberazione di 5.000 prigionieri a giugno dopo l’amnistia voluta dal presidente. Il carcere è stato colpito da un altro incendio lo scorso agosto, con il ministero dell’interno che lo ha analogamente attribuito a un corto circuito elettrico. In questo incidente, però, non c’era stata alcuna vittima.