Riforma Penitenziaria: dove eravamo rimasti. L’appello dei penalisti per un intervento urgente di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 7 dicembre 2021 “Dove eravamo rimasti?”, l’indimenticabile frase pronunciata da Enzo Tortora il 20 febbraio 1987, quando ritornò sugli schermi Rai, è stata riproposta dall’Unione Camere Penali Italiane, al Convegno sulla Riforma Penitenziaria, che si è tenuto a Roma il 3 e 4 dicembre scorsi. Rivolgendo il suo pensiero ai detenuti, il presentatore aggiunse “questa cara buona gente che mi ha offerto quello che poteva ed io sono qui anche per loro, che parlare non possono e sono molti e sono troppi”. I detenuti sono ancora molti e, certamente, sono ancora troppi, rispetto alla capienza regolamentare, né è mutato l’atteggiamento ostile della politica nei loro confronti. Ma “il dove eravamo rimasti?” dei penalisti italiani vuole anche evidenziare l’incomprensibile - se non per biechi motivi politici - percorso di una Riforma Penitenziaria, annunciata da tempo e già di fatto in gran parte scritta con l’articolato elaborato dalla Commissione Giostra, che non ha trovato attuazione. Eppure le ragioni di una sua realizzazione, non sono poche e tutte di alto profilo: la palese violazione di principi costituzionali e dello stesso Ordinamento e Regolamento Penitenziario, le ripetute condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e non da ultima il rispetto della dignità delle persone. Una due giorni, quella di Roma, ricca di importanti presenze: il garante nazionale, Mauro Palma; i professori Glauco Giostra, Franco Della Casa, Laura Cesaris, Gianluca Varraso, Daniele Vicoli, Luca Zevi; i magistrati di sorveglianza Antonietta Fiorillo e Fabio Gianfilippi; per l’amministrazione penitenziaria Riccardo Turrini Vita, Lucia Castellano, Carmelo Cantone e Roberto Piscitello; il presidente della Cassa delle Ammende Gherardo Colombo; per le associazione e il volontariato, Rita Bernardini e Ornella Favero; gli avvocati Francesco Petrelli, Gianpaolo Catanzariti, Gabriele Terranova, Antonella Calcaterra, Veronica Manca e chi scrive. I lavori sono stati conclusi dal Sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto e dal Presidente dell’Unione Camere Penali, Gian Domenico Caiazza. Moltissimi i temi affrontati, tutti con un comun denominatore: la necessità di un urgente intervento, più volte annunciato ma mai realizzato, mentre il sistema penitenziario è al collasso. Sono stati ricordati l’altissimo numeri di suicidi e di morti - più di uno a settimana - e gli ultimi agghiaccianti episodi. Tra gli altri: l’assenza d’informazioni all’indomani della pandemia; la “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere; il parto senza alcuna assistenza della detenuta a Rebibbia; lo scandalo del reparto Sestante nel carcere “Le Vallette” di Torino. È stata rilevata la mancata applicazione di numerose norme dell’Ordinamento Penitenziario, previste sin dalla sua entrata in vigore, nel 1975. È stata denunciata l’assurda e incomprensibile prassi di nominare a Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria un Magistrato e tra i 14 nominati, ben 12 provenienti dall’Ufficio di Procura e tra questi molti della Direzione Antimafia. Come dire: unico interesse è la sicurezza, mentre il recupero sociale del detenuto, pur previsto in Costituzione non c’interessa! Logica vorrebbe, invece, che quella che potrebbe essere definita “la più grande azienda d’Italia” (con una sede centrale il Dap, filiali regionali i Prap e circa 200 istituti di pena dove sono rinchiusi circa 60.000 persone che chiedono di lavorare), fosse gestita anche da un imprenditore, un manager pubblico che sappia far funzionare questa enorme realtà secondo i principi costituzionali, producendo quelle risorse di cui si lamenta sempre l’assenza e restituendo al Paese donne e uomini diversi da come sono entrati in carcere. Obiettivo questo primario, per il benessere dei cittadini. Ma il punto dolente degli ultimi anni è l’imponente numero di commissioni ministeriali. Dopo la sentenza Torreggiani, che ha condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti nei confronti dei detenuti, i vari ministri della Giustizia sono stati formalmente ispirati ed hanno messo in atto: la Commissione “per elaborare proposte d’interventi in materia penitenziaria”; gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, con 18 Tavoli tematici (equivalenti a 18 commissioni); dopo la Legge delega del Parlamento al governo: 3 Commissioni ministeriali, tra cui quella “per la riforma dell’ordinamento penitenziario”; la Commissione “per l’architettura penitenziaria”. Ben 23 Commissioni, i cui atti non sono stati presi nella dovuta considerazione e oggi giacciono negli scantinati del ministero della Giustizia, alla corrosiva attenzione dei topi. Oggi è al lavoro un’ulteriore Commissione ministeriale “per l’innovazione del sistema penitenziario”. Il nostro augurio è che l’attesa dei topi, sia vana. Un “bla, bla, bla” inutile: “elaborare proposte”,” riformare”, “innovare”, ma nulla realmente accade. Una politica sorda e cieca, che vuole cittadini ignoranti e forcaioli, contro ogni elementare principio costituzionale. I penalisti italiani hanno più volte indicato la strada da seguire e non si stancheranno mai, sapendo di essere nel giusto. Continueranno a seminare - come ha tenuto a sottolineare il Presidente Gian Domenico Caiazza - nel silenzio sempre più assordante di altri che, anche per il loro ruolo, dovrebbero denunciare l’assoluta urgenza di una vera e irrinunciabile riforma. *Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi Chi fa il tifo per l’ergastolo ostativo di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 dicembre 2021 La Fondazione Antonino Caponnetto è una fondazione privata che ha lo scopo di proseguire la lotta alla mafia nella scia degli insegnamenti del magistrato che fu a capo del pool di Palermo. È un suo diritto che le fa onore. Ha appena concluso “in modo riservato e chiuso al pubblico”, com’è nel suo diritto, un “vertice”, dedicato all’ergastolo ostativo nella prospettiva delle norme antimafia. Le conclusioni rese note, sotto il nome un tantino roboante di “Dichiarazione di Vallombrosa”, sono molto critiche con il disegno di legge in discussione per modificare l’ergastolo ostativo, come richiesto da tempo da una sentenza della Corte costituzionale. Contro la riforma (o contro la Consulta?) esiste da tempo una opposizione di parte della magistratura e dei partiti, ed è nel diritto anche della Fondazione Caponnetto essere contraria. Ciò che appare meno nel suo diritto è innanzitutto il tono ultimativo con cui prova a imporre il suo punto di vista al Parlamento - in nome di “tutte le forze sane della società”, che evidentemente sono soltanto quelle che partecipano ai suoi convegni riservati. O magari personalità come il dottore Di Matteo: tra i più strenui oppositori dell’abolizione dell’ergastolo ostativo, nonché protagonista del caricaturale e illiberale processo antimafia passato tristemente alla storia della Repubblica col nome di “processo trattativa”. Ma soprattutto, non è diritto dell’associazione ignorare quanto stabilito dalla Corte costituzionale. E la Corte ha stabilito che è illegittima la “preclusione assoluta della liberazione condizionale” per i mafiosi, che non può essere subordinata a pentimento o collaborazione. Ancora peggio è la pretesa di dettare una riforma che, secondo i seguaci di Caponnetto, “deve ruotare intorno a una scelta già ben presente… l’inversione dell’onere della prova, in questo caso del vincolo dell’appartenenza all’organizzazione mafiosa. Spetta ai boss, infatti, dimostrare nella fattualità il venir meno di questo vincolo”. L’inversione dell’onere della prova. A Vallombrosa. La storia di Anas, morto in cella: ucciso dalla burocrazia di Fabio Anselmo Il Domani, 7 dicembre 2021 Il 15 aprile Anas Zenzami fa ingresso in carcere. Ma quel detenuto in realtà non sta bene. Le sue condizioni di salute mentale vengono riconosciute dalla stessa amministrazione penitenziaria come incompatibili con il carcere pesarese di Villa Fastiggi. Viene prescritto infatti “in maniera perentoria e continuativa un regime di grande sorveglianza” e “la necessità di un ricovero in un ambiente idoneo alla valutazione e alle cure”. Il 25 settembre Anas Zenzami si suicida in carcere. Il suo caso arriva alla Corte europea dei diritti dell’uomo che esprime un parere negativo contro il suo trattamento da parte della giustizia italiana, la quale dovrà rispondere a diversi quesiti di inadempienza. Anas Zenzami era nato in Marocco l’11 luglio 1986. Non ha compiuto ancora 29 anni quando, il 15 aprile 2015, viene arrestato dai Carabinieri di Urbania (Pesaro) in esecuzione di un ordine di carcerazione della procura di Roma emesso il 1/4/2015. Deve scontare un anno e sei mesi di reclusione per una sentenza del 12/11/2012 con la quale veniva condannato, senza sospensione condizionale della pena, per resistenza a pubblico ufficiale e per aver fornito generalità false. Divenuta definitiva la sentenza, ecco quindi l’ordine di esecuzione che, però, viene emesso il 22/10/2013, con contestuale sospensione concedendo al condannato la possibilità di chiedere misure alternative alla detenzione entro 30 giorni evitando, così, il carcere. Il provvedimento viene tuttavia notificato, il 13/11/2013, au un avvocato del foro di Roma il cui nome non risulta indicato. La sospensione viene quindi revocata e Anas, ignaro, viene portato nel carcere di Pesaro. Interviene allora un avvocato pesarese che chiede al Tribunale di sorveglianza di Ancona di poter ottenere, per Anas Zenzami, il beneficio della detenzione domiciliare. Viene così fissata udienza per il 21 ottobre 2015. La pena è esigua e i reati di modesta gravità. Anas ne ha diritto. L’esito è scontato ma il ragazzo marocchino deve attendere che la burocrazia faccia il suo corso. Il 15 aprile, dunque, fa ingresso in carcere. Ma quel detenuto in realtà non sta bene. Le sue condizioni di salute mentale vengono riconosciute dalla stessa amministrazione penitenziaria come incompatibili con il carcere pesarese di Villa Fastiggi. Viene prescritto infatti “in maniera perentoria e continuativa un regime di grande sorveglianza” e “la necessità di un ricovero in un ambiente idoneo alla valutazione e alle cure”, nonché il “trasferimento in tempi brevi in un centro di osservazione Psichiatrica” e viene di nuovo “raccomandata un’attenta sorveglianza”. Lo spettro del possibile suicidio è più che concreto. Sono plurime e reiterate le annotazioni nel diario clinico del detenuto, in tal senso, alle quali nessuno pare prestare attenzione. Ad Anas basterebbe attendere poco più di quattro mesi per uscire e riottenere la libertà ma non se ne rende conto. Mette in atto numerosi episodi di autolesionismo. Non si vuole farsi visitare e rifiuta cure, acqua e cibo. Vengono osservati in lui stati di delirio e agitazione psicomotoria. Nell’agosto dello stesso anno viene ricoverato per tre volte all’ospedale di Pesaro “a causa di un forte stato di anoressia, disidratazione e steatosi epatica”. Il 5 settembre tenta il suicidio in carcere provando ad impiccarsi. Gli viene diagnosticata una grave psicosi paranoide. Viene allora trasferito all’istituto di osservazione psichiatrica di Ascoli Piceno dove vi rimane ricoverato una ventina di giorni per poi essere dimesso come “guarito”. La burocrazia può tutto. Anche risolvere una grave malattia psichiatrica di un detenuto privo di importanza in 20 giorni con soli nove giorni di terapia effettivamente somministrata. Il detenuto Anas Zenzami viene rispedito il 24 settembre al carcere di Pesaro. Sono dichiarate cessate le ragioni del ricovero ma viene disposta nuovamente la sua “massima sorveglianza con controlli da eseguire ad intervalli massimi di 15 minuti” per prevenire eventuali nuovi tentativi di suicidio. La prescrizione non viene rispettata e il giorno dopo il suo arrivo Anas viene trovato nella sua cella impiccato. Morto. In un paese normale tutto ciò sarebbe inaccettabile e le responsabilità evidenti sarebbero perseguite. Si tratta della vita di un giovane essere umano. La procura di Pesaro, tuttavia ritiene che si tratta di “un evento letale non previsto, non prevedibile ed inevitabile”. Non è dello stesso avviso il Tribunale che respinge ben tre richieste di archiviazioni. Passano gli anni e in questo ingiusto e surreale pin pong si approssima la prescrizione. Alla mia opposizione, per la quarta richiesta di archiviazione, il Gip si arrende. Archivia. Di quel detenuto non importa nulla a nessuno tranne che a al sottoscritto, Antigone e all’avvocato Antonella Mascia che mi aiuta a presentare ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ci crediamo. Lo facciamo perché gli è stato negato il sacrosanto diritto alla vita e gli sono pure stati inflitti trattamenti disumani e degradanti. Quelli che per la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo vengono qualificati come tortura. Lo facciamo per la sorella di quel povero ragazzo, per Vania Borsetti di Antigone che tanto si è impegnata coi suoi ragazzi. Il parere della Corte europea - Il 24 novembre scorso arriva la notizia: la Corte europea ritiene fondato il nostro ricorso. Non pronuncia ancora sentenza ma invita il governo Italiano a trovare un accordo transattivo, per evitarla, con la famiglia di Anas Zenzami che abbia a oggetto, tra le altre cose, la corresponsione di un’indennità risarcitoria di 32 mila euro. Nel sancire questo rivolge al governo alcune semplici domande che suonano come delle rasoiate per il nostro sistema giustizia: “Vi è stato un fallimento nel proteggere la vita del fratello della ricorrente, come garantito dall’articolo 2 della Convenzione? Nello specifico, le autorità nazionali conoscevano o avrebbero dovuto essere a conoscenza di un rischio reale ed immediato per la vita di Anas Zenzami? Hanno fallito nel prendere le misure adatte nell’ambito dei propri poteri che, ragionevolmente, si può presumere avrebbero evitato quel rischio? Riguardo all’aspetto processuale della protezione del diritto alla vita, le indagini delle autorità nazionali sono state eseguite in questo caso in violazione dell’articolo 2 della Convenzione?”. Nel formulare il quesito la Corte ricostruisce l’iter non risparmiando pesanti censure al nostro sistema giudiziario. “Il fratello della ricorrente è stato sottoposto ad un trattamento inumano e degradante in violazione all’articolo 3 della Convenzione? Nello specifico, le autorità responsabili hanno disatteso il loro obbligo di assicurare che la salute del fratello fosse adeguatamente garantita, fra le altre cose, fornendogli un’assistenza medica appropriata ed efficace?”. Ora il Ministro della Giustizia dovrà rispondere a tutti questi capi d’accusa. Dovrà chiedere conto alla procura di Pesaro sul mancato rispetto dell’articolo 112 della nostra Costituzione. Ma soprattutto su come possa aver ritenuto “non prevedibile, non previsto ed inevitabile l’evento letale”. L’indipendenza e autonomia della magistratura sono sacri ma altrettanto sacra deve essere la loro responsabilità. Anas Zenzami è morto di cinica indifferenza che ha saputo trasformare l’esercizio di una delicatissima funzione giudiziaria in sorda burocrazia. Anas Zenzami non avrebbe dovuto stare in carcere. È morto a pochi giorni dalla sua liberazione. Qualcuno si deve fare un bell’esame di coscienza. Green pass, nessun obbligo nelle carceri per avvocati, detenuti e familiari: protestano i sindacati di Cristiana Mangani Il Messaggero, 7 dicembre 2021 Niente Super Green pass, tantomeno Green pass base, per parenti e avvocati dei detenuti, che possono accedere alle carceri senza dover mostrare alcuna certificazione. La polemica si riapre ogni volta che entrano in vigore una nuova regola e un nuovo decreto. Perché, se ai detenuti è lasciata la possibilità di vaccinarsi o meno, a discrezione e per scelta, alla polizia penitenziaria, agli amministrativi, agli educatori, agli assistenti sociali, ai dipendenti tutti, a cominciare dal Direttore, invece, questa possibilità non è consentita, perché per loro c’è l’obbligo di vaccinazione, e quindi di Super Green pass. La questione non è di facile soluzione e, infatti, il governo la ha affrontata lasciando fuori dall’obbligo di immunizzazione tutte quelle persone (avvocati e familiari) che servono per garantire al detenuto il diritto alla difesa e il diritto agli affetti. Aspetti considerati prioritari, ancora di più di quelli alla salute e alla sicurezza dell’intera struttura carceraria. Con l’entrata in vigore del nuovo decreto, qualcosa è comunque cambiata: se il detenuto, i suoi familiari, o anche il suo avvocato, devono partecipare a un evento in carcere - spettacoli, partite, concerti - dovranno essere in possesso del Super Green pass, altrimenti non verranno fatti entrare. La regola vale solo per questi casi e sarà in vigore fino al 15 di gennaio. Mentre tutto il personale delle ditte esterne che presta servizio negli istituti di pena, dovrà avere almeno il Green pass base. “Avremo un’audizione proprio per rappresentare questi problemi - spiega Massimiliano Prestini, responsabile nazionale del sistema penitenziario della FP Cgil - Va detto comunque che chi entra in carcere senza dover esibire il Certificato verde, dovrà rispettare regole molto severe. I colloqui sono tutti distanziati e con il plexiglas che divide, sono obbligatorie le mascherine e le finestre restano aperte”. Il Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria, sta aspettando la nuova circolare per manifestare le sue perplessità. Il segretario generale aggiunto Roberto Martinelli fa suo il messaggio che il sindacato ha dato a livello nazionale, ovvero che sono sentite più le esigenze del detenuto che non quelle degli agenti penitenziari. “Ultima dimostrazione di questa debolezza dello Stato - spiegano al Sappe - è stata quella di obbligare per legge tutti i poliziotti penitenziari che non possono certo protestare nel farsi inoculare il vaccino, mentre poi si continua a far scegliere ai detenuti se vaccinarsi o meno (al 29 novembre su quasi 54.000 presenze, ci sono state circa 84.000 inoculazioni), nonché di far entrare i familiari degli stessi nelle carceri, senza mostrare alcun Green pass, per fare il colloquio. Stesso discorso per avvocati, visitatori e altri, che entrano senza alcun controllo, per cui non si sa se queste persone siano vaccinate o meno. La cosa assurda è che queste persone dal 6 di dicembre non possono più entrare in un ristorante, andare al cinema, sui mezzi pubblici e quant’altro se sprovvisti del “super green pass”, mentre poi avranno libero accesso in uno dei posti più delicati dove sostano per parecchio tempo in ambienti chiusi, e in caso dei colloqui dei detenuti con i familiari, affollati”. Il Sappe cita il caso del carcere di Taranto dove è scoppiato un focolaio con quasi una cinquantina di positivi (tra poliziotti e detenuti), considerato che la quasi totalità di detenuti e poliziotti sono vaccinati e l’unica falla è proprio rappresentata dai mancati controlli di familiari, avvocati, visitatori. Per questa ragione chiedono “un intervento immediato sulla materia, affinché - sottolineano - chiunque entri per qualsiasi motivo in un carcere, debba essere munito di Super Green pass”. E una situazione simile stanno vivendo i magistrati. Obbligati per decreto a esibire il Green pass, in quanto dipendenti pubblici, hanno incontri quotidiani con gli avvocati e con i parenti degli indagati che non hanno alcun obbligo. L’annuncio del ministro Cartabia: “La riforma del Csm è imminente” di Davide Varì Il Dubbio, 7 dicembre 2021 Il ministro Marta Cartabia: “Dal sistema giustizia i cittadini si attendono che i giudici siano indipendenti, autonomi, competenti”. La riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario è “imminente”. Lo ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, intervenuta, da remoto, alla seconda edizione del Global Dialogue of Justice Leaders. “Dal sistema giustizia i cittadini si attendono che i giudici siano indipendenti, autonomi, competenti. Si attendono che i loro diritti processuali siano pienamente rispettati e che le decisioni giudiziarie siano accurate e adeguatamente motivate. Ma si aspettano anche che la risposta alla loro domanda di giustizia arrivi in tempi ragionevoli. Si aspettano efficienza - ha sottolineato - Queste sono le componenti fondamentali di un sistema giudiziario affidabile, credibile e meritevole della fiducia dei cittadini, per il quale il governo italiano sta lavorando”. Il Global Dialogue of Justice Leaders è uno degli eventi organizzati durante la Global week for justice, ospitato quest’anno dal Governo della Lettonia e organizzato da Ocse, Open Government Partnership (Ogp) e Pathfinders for Peaceful, Just and Inclusive Societies. Nella riunione, alla quale hanno partecipato ministri della Giustizia e giuristi internazionali, si è parlato di cooperazione nazionale e globale secondo i punti tracciati dall’Agenda 2030. La Guardasigilli ha partecipato alla sessione: “People-centred justice transformation”. Sono stati ricordati i principi per le buone prassi nei sistemi di giustizia lanciati dall’Ocse che mirano a sviluppare una giustizia incentrata sui bisogni delle persone. Cartabia ha sottolineato come l’Italia abbia fatto proprie tali buone pratiche nell’insieme delle riforme che il ministero della Giustizia sta portando avanti. Cartabia al posto di Draghi? L’ipotesi della staffetta frena la riforma del Csm di Giulia Merlo Il Domani, 7 dicembre 2021 I magistrati temono che il ritardo della riforma del Csm, di cui da sei mesi si attendono gli emendamenti ministeriali, sia causato dalla partita per il Quirinale e le aspettative della ministra Marta Cartabia. “La ministra sta chiudendo la definizione degli emendamenti, è questione di giorni”, assicurano da via Arenula, garantendo che entro dicembre verranno depositati. Eppure proprio il grande attivismo della ministra in direzioni diverse rispetto a una riforma politicamente spinosa come quella della magistratura è stato letto come un ulteriore segnale dell’ipotesi di un volontario ritardo per non crearsi inimicizie politiche in prospettiva futura. Le strategie politiche intorno al Quirinale impattano anche sulla giustizia e in particolare sul Consiglio superiore della magistratura. In particolare, il timore di buona parte della magistratura associata è che le mille incognite che si apriranno da qui a febbraio a causa della corsa al Colle siano all’origine di un ritardo definito “inspiegabile” nella presentazione degli emendamenti del ministero della Giustizia al ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario. La relazione della commissione di tecnici guidata da Massimo Luciani è stata depositata sei mesi fa, la commissione Giustizia in parlamento è prontissima a discutere gli emendamenti che ne dovrebbero essere la sintesi, ma del testo finale ancora non c’è traccia. E, come ben sa la ministra Marta Cartabia, qualsiasi soluzione lei sceglierà per riformare il sistema elettorale del Csm scontenterà una parte della maggioranza. Per questo, si ragiona tra i magistrati ma anche tra i tecnici interni a via Arenula, la ministra preferirebbe ritardare il più possibile la presentazione degli emendamenti, così da evitare di inimicarsi qualcuno nell’ottica delle due prospettive politiche per cui il suo nome continua a girare. Da una parte il Quirinale, per cui tuttavia le sue possibilità sembrano essere diminuite. Dall’altra invece palazzo Chigi in una staffetta con Mario Draghi al Colle, di cui si starebbe invece discutendo concretamente vista l’affinità ancora solida tra il premier e la sua ministra. L’ipotesi di un ulteriore slittamento della riforma sarebbe giustificato anche da un dato sostanziale: è vero che la riforma dell’ordinamento giudiziario è contenuta nel Pnrr, ma le due misure chiave - il ddl penale e il ddl civile - per accorciare i tempi dei processi e rispondere alle richieste europee (e dunque a sbloccare i fondi) sono state approvate con successo nei tempi previsti. Il terzo ddl, pur se formalmente inserito nel pacchetto e da approvare entro dicembre, non è invece determinante. Questo darebbe alla ministra avrebbe più ampio margine di manovra per diluirlo nel tempo sulla base dell’evolversi del quadro politico. Questione di giorni - I timori dei magistrati e anche i retroscena politici vengono allontanati seccamente dal ministero. “La ministra sta chiudendo la definizione degli emendamenti, è questione di giorni”, assicurano da via Arenula, garantendo che entro dicembre verranno depositati. Poi si procederà con il classico “metodo Cartabia”: confronto con l’Associazione nazionale magistrati, l’avvocatura e i capigruppo in parlamento, poi chiusura del testo e approvazione. Il ritardo nella presentazione, infatti, viene spiegato con ragioni tecniche: negli ultimi mesi sono stati definiti i limiti della riforma della magistratura onoraria e anche le nuove norme contro la violenza sulle donne, oltre ad aver predisposto il maxi concorso per altri 500 magistrati e aver portato avanti i bandi di assunzione per la nascita dell’ufficio del processo. Insomma, una grande mole di lavoro tale da giustificare lo slittamento del ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario, che comunque arriverà “in tempo per le elezioni del prossimo Csm” a luglio 2022. Eppure proprio questo grande attivismo della ministra in direzioni diverse rispetto a una riforma politicamente spinosa come quella della magistratura è stato letto come un ulteriore segnale dell’ipotesi di un volontario ritardo. Fonti ministeriali, infatti, hanno notato l’attivismo di Cartabia per consolidare il suo profilo all’esterno e in questa prospettiva è stato letto anche il prestigioso viaggio negli Stati Uniti con annesso incontro con il vertice della Corte Suprema John Roberts. Un attivismo che avrebbe infastidito non solo i magistrati - che lo hanno interpretato con qualche malizia come un modo per garantirsi un futuro politico - ma anche qualche tecnico. Segnali di massimo gradimento, invece, sarebbero arrivati da palazzo Chigi: Draghi avrebbe molto apprezzato le mosse di Cartabia nell’attestare a livello internazionale non solo se stessa ma l’intero governo. Anche grazie a questo, il suo profilo avrebbe ripreso quota tra quelli papabili per la possibile staffetta di governo. Il dato politico, però, è complicato da un ulteriore elemento. Il termine del luglio 2022 per l’approvazione della riforma del Csm è stato cristallizzato in modo esplicito in un intervento pubblico addirittura dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che difficilmente si sbilancia con auspici tanto chiari. Rispettare questo termine vorrebbe dire discutere gli emendamenti proprio a ridosso del voto per il Colle. Disattenderlo per non surriscaldare la maggioranza, per Cartabia vorrebbe dire rompere la fiducia con il suo primo riferimento politico. E per farlo, avrebbe bisogno di essere considerata più di una ipotesi tra le tante ancora sul tavolo. Responsabilità civile dei magistrati: perché è sbagliato il quesito referendario di Bruno Lago Il Dubbio, 7 dicembre 2021 Tra i referendum promossi da Lega e Partito Radicale, quello sulla responsabilità civile dei magistrati è probabilmente il più importante: una riforma seria non può partire che dalla responsabilizzazione del magistrato nell’amministrazione della giustizia. Tuttavia, con l’esperienza di chi è stato vittima di un errore giudiziario e ha cercato invano di avere giustizia attraverso la legge Vassalli, posso tranquillamente affermare che il quesito è sbagliato per almeno due ragioni. La prima: cancellare la parola “Stato” dal testo della legge per chiamare il magistrato a una responsabilità diretta è giusto in linea di principio, ma non necessariamente riflette gli interessi del ricorrente, certamente meglio tutelato dalla responsabilità civile in capo allo Stato. La responsabilizzazione del magistrato si poteva ottenere modificando le norme scandalose per l’azione di rivalsa (art. 7 e seguenti) che obbligano lo Stato a rivalersi (parzialmente) sul magistrato per via giurisdizionale (in caso di vittoria del ricorrente in Cassazione, dopo forse 10 anni!). Lo Stato ha due anni per avviare il recupero con altri tre gradi di giudizio e il magistrato “pagherebbe” forse dopo 20 anni per l’errore commesso. La seconda: ottenere una responsabilità diretta senza aver modificato la clausola di salvaguardia all’art. 2 che “assolve” il magistrato per errori di interpretazione delle norme o dei fatti è totalmente inutile ai fini dell’obiettivo del referendum. Quasi tutta l’attività del magistrato viene esclusa da responsabilità, a meno che non ricorrano la colpa grave o il dolo, fattispecie quasi impossibili da provare visto che da trent’anni la Cassazione si esercita con scappatoie lessicali per vanificare qualsiasi responsabilità in capo al magistrato. Inoltre, se passasse il referendum, le modifiche legislative che poi dovranno essere definite sul testo di legge nel rispetto della volontà popolare saranno scritte dagli uffici parlamentari e dal ministero di Giustizia. L’importante sarà seguire con attenzione questo lavoro per evitare l’influenza delle lobby dei magistrati per annacquare i risultati della consultazione popolare, come avvenuto sistematicamente in passato. Infatti, il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei giudici, approvato dall’80% dei votanti, era stato organizzato sull’onda emotiva del caso Tortora e portò alla approvazione della legge Vassalli nel 1988 sulla responsabilità civile dello Stato per gli errori dei giudici. Si preferì cioè optare per una responsabilità indiretta del magistrato per salvaguardarne l’indipendenza, si disse. Ma come affermò la professoressa Severino in un convegno sulla riforma della legge Vassalli, la legge del 1988 era stata “congegnata per non funzionare” e il dottor Cantone aggiunse che “era stata tradita la volontà popolare” visto il risibile numero dei procedimenti in cui lo Stato era stato condannato. Questo era ben noto a tutti ma la politica non ha agito per debolezza nei confronti della magistratura e ci siamo tenuti una legge inefficace per quasi trenta anni. Finché una azienda italiana (Traghetti del Mediterraneo), dopo il rigetto in Cassazione della propria citazione, fece ricorso alla Commissione Europea per violazione delle norme europee sulla concorrenza. La Commissione aprì la procedura di infrazione contro l’Italia nel 2009 con il deferimento alla Corte di Giustizia che nel 2011 giudicò inaccettabile che lo Stato non rispondesse degli errori dei suoi giudici nell’applicare le norme europee, per altro recepite dalla legislazione nazionale. Il governo Renzi fu perciò obbligato a far approvare nel 2015 una legge di riforma della Vassalli sulla base di un difficile compromesso con i magistrati che ne hanno pesantemente influenzato il testo per annacquare l’attribuzione di eventuali responsabilità. Ma la riforma non funziona perché: il cittadino deve citare lo Stato nella persona del Presidente del Consiglio e non i magistrati sui quali lo Stato si potrà rivalere secondo specifiche modalità. Questo significa che, in caso di sentenze di primo o secondo grado favorevoli al ricorrente, l’Avvocatura dello Stato ricorrerà sempre fino in Cassazione. Il ricorrente, per la disparità di forze in campo, sarà scoraggiato all’azione per i costi legali da sopportare e i tempi necessari; poi c’è la clausola di salvaguardia da abolire per le ragioni dette. Si può perciò concludere che il quesito referendario è insufficiente rispetto all’obiettivo di rendere efficace la legge e realizzare la responsabilità diretta del magistrato. I magistrati naturalmente non condivideranno mai questa analisi e sosterranno che si tratta di aspetti indispensabili per salvaguardare il principio prioritario di rango costituzionale, quello dell’indipendenza dei giudici. Ma a ben vedere si tratta di un tabù evocato per mantenere garanzie e privilegi: non è forse altrettanto importante garantire al cittadino danneggiato dagli errori dei magistrati il diritto al risarcimento come richiesto dalla Corte di Giustizia? Magistrati, concorso da incubo: passano solo 88 su 1.500. “I candidati non sanno scrivere” di Cristiana Mangani Il Messaggero, 7 dicembre 2021 Oggi il Csm chiederà la revisione delle regole. L’ipotesi: via i 2 anni di tirocinio. Il Csm chiederà oggi, con una specifica risoluzione, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, di rivedere la normativa per i concorsi in magistratura. Dopo un anno di lockdown, di prove esclusivamente da remoto, i consiglieri spingono per un ritorno in via stabile al test scritto. Chiederanno anche un confronto con via Arenula affinché l’accesso alla professione torni a essere un concorso di primo grado e che ai 10 mila magistrati attuali ne vengano aggiunti altri mille. Una richiesta che apre una questione non da poco, quella della adeguata preparazione dei candidati nei concorsi. Succede, infatti, che dalla correzione dei compiti per il concorso da 310 posti, che si è svolto dal 12 al 16 luglio 2021, su 5.827 candidati hanno consegnato il test 3.797, ma la maggior parte è stata bocciata alla prova scritta. Le correzioni sono ancora in corso, i numeri, però, parlano chiaro: alla data del 2 dicembre la commissione ha esaminato 1532 buste (ognuna contiene due elaborati) e sono stati definiti idonei solo 88 di questi. Un numero decisamente basso che mostra un trend già verificatosi in passato, ovvero che gli aspiranti magistrati non sanno scrivere. C’è chi ha lacune tecniche, ma anche chi non conosce bene la grammatica. E questo non fa che rallentare la selezione alla professione a causa dell’elevato numero di respinti. Una situazione simile si è verificata anche nel 2008. “Troppi errori di grammatica”, ha liquidato la vicenda la Commissione dell’epoca, mostrando un grosso disappunto. La storia si è ripetuta nel corso degli anni, ma il dato recente è un vero campanello di allarme. La ministra Cartabia ha più volte invitato a una riflessione gli organismi competenti: facoltà, Ministero dell’università. Serve una migliore formazione, ha sottolineato in diverse occasioni. L’ultima volta è successo il 24 novembre scorso, a Scandicci, all’apertura del nuovo anno della Scuola della magistratura davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Affido alla vostra riflessione la formazione degli aspiranti magistrati - ha dichiarato la ministra. È un aspetto che preoccupa, su più fronti, anche molti di voi, come più volte mi è stato confidato. Troppe volte i concorsi per l’accesso alla magistratura non riescono a selezionare neppure un numero di candidati sufficienti a ricoprire tutte le posizioni messe a bando. È questo un dato su cui riflettere, che segnala un problema che deve essere affrontato. A dieci anni dall’istituzione della Scuola superiore della magistratura - ha aggiunto - in un tempo di bilanci, valutazioni e prospettive forse si può avviare una riflessione pure su quest’ulteriore capitolo, che riguarda direttamente il rapporto con le nuove generazioni, la trasmissione di un sapere, di una esperienza e di un’arte l’arte del giudicare - a chi verrà dopo di noi”. L’intervento, dunque, è quanto mai necessario. Anche perché, oggi ci sarà l’approvazione della risoluzione da parte del plenum del Csm con la richiesta di mille unità in più. Nel frattempo si sta concludendo la correzione delle prove scritte del concorso di luglio per 310 posti, ed è in arrivo il bando per il concorsone da 500 posti, una cifra mai registrata finora. Questo vuol dire che bisognerà trovare almeno 810 candidati che siano preparati a superare la prova. E visti i precedenti si rischia di non riuscire a raggiungere la copertura del numero di posti banditi. Inoltre, le giovani toghe dovranno anche fare 18 mesi di tirocinio. La Guardasigilli sta lavorando a un sistema che consenta di presentarsi al concorso in magistratura subito dopo il corso di laurea, tornando al passato, e saltando quindi i due anni oggi obbligatori per il periodo di tirocinio di 18 mesi da effettuare in tribunale, oppure frequentando per due anni una scuola di specializzazione per le professioni legali, o ancora ottenendo un dottorato di ricerca. E infine, essendo già avvocato, che comporta comunque 18 mesi più quell’esame. Ma eliminare il biennio post laurea non è detto che sia sufficiente ad accelerare i tempi per l’accesso alla professione. E con le tante bocciature all’esame scritto, la questione diventa ancora più complessa. “Formazione per i magistrati - ripete Cartabia -, ma formazione, ovviamente, anche per i giovani giuristi, di cui il Ministero, con l’aiuto della stessa Scuola, si sta facendo carico, affinché questi rinforzi arrivino negli uffici con un adeguato livello di preparazione”. Albamonte: “La crisi della magistratura non si risolve con le condanne dei protagonisti” di Angela Stella Il Riformista, 7 dicembre 2021 Per Eugenio Albamonte, pubblico ministero a Roma e Segretario di Area democratica per la giustizia, che la vittoria dei 101 a Palermo “possa essere indicativa del fatto che la magistratura in toto o una parte significativa di essa abbia abbracciato le posizioni dei 101 sul sorteggio” rappresenta “una lettura molto strumentale”. Palamara? “Non si può pensare di risolvere la crisi di credibilità della magistratura soltanto con le condanne di chi è stato più direttamente protagonista di alcuni fatti”. E sulla proposta dell’Ucpi di vietare il distacco dei magistrati fuori ruolo al Ministero della Giustizia: “Scelta irrazionale. Non sarebbe però sbagliato dare più spazio anche agli avvocati e alla cultura universitaria”. Per quanto concerne la nuova legge sull’ergastolo ostativo: nessun timore, “non si vuole menomare la lotta alla mafia”. Alla proposta di Di Matteo replica: “Concentrare tutto in un solo Tribunale di Sorveglianza non vuol dire determinare anche in questo modo una sovraesposizione di questi magistrati?” Delle proposte del Governo per Csm e ordinamento giudiziario neanche l’ombra. E il tempo scorre. Siete preoccupati? Siamo estremamente preoccupati. Noi di Area siamo stati tra i primi a sottolineare circa sei mesi fa l’importanza di un intervento di riforma del Csm e della sua legge elettorale. Siamo convinti, e credo lo siano anche il Governo e le forze politiche, che l’attuale legge elettorale è corresponsabile della deriva clientelare che la magistratura ha avuto dal 2002 ad oggi. Tuttavia la sola riforma della legge elettorale non basta. Eppure è impossibile pensare che il Governo metta mano alla riforma complessiva del Consiglio che prenderebbe molto più tempo. Che lettura dà dei nuovi assetti delle sezioni locali dell’Anm? I risultati delle elezioni devono essere letti nel senso di una progressiva creazione all’interno della magistratura di due poli: uno progressista e uno conservatore. Questa non è una buona cosa, in quanto la magistratura sicuramente è portatrice di culture e sensibilità ben più ricche di quelle rappresentate da Area da una parte e da Magistratura Indipendente dall’altra. Ciò dipende dalla situazione di crisi che ha colpito soprattutto Unicost, che tuttavia sta mettendo in atto una seria operazione di rinnovamento. Dato questo quadro, è necessario che per le elezioni del Csm si metta in campo un sistema elettorale che non rafforzi la spinta alla polarizzazione ma che favorisca la rappresentanza di tutte le anime. Ritiene giusto, come ipotizza qualcuno, che, prendendo atto della vittoria di Articolo 101 a Palermo, occorra sostenere l’idea del sorteggio per i membri del Csm? Il fatto che siano riusciti a presentare una lista solo a Palermo mi dà l’idea che per il momento i 101 siano un gruppo che vive prevalentemente dell’impegno profuso da alcuni leader che sono rappresentati in Anm nazionale, e che riscuotono un consenso sulla base dell’affidamento che queste persone ottengono negli ambienti in cui operano più direttamente. Che questa affermazione molto settoriale possa essere indicativa del fatto che la magistratura in toto o una parte significativa di essa abbia abbracciato le posizioni dei 101 sul sorteggio mi sembra una lettura molto strumentale. Per il resto chi sostiene il sorteggio, a mio modesto avviso, non solo promuove un sistema incostituzionale ma appoggia una riforma destinata a privare il Consiglio di ogni autorevolezza, trasformandolo in un mero ufficio del personale dei magistrati. Uno snodo cruciale della riforma dovrebbe essere quello degli incarichi semidirettivi e direttivi... La legge Castelli del 2006 ha determinato una forte spinta carrierista, incontrando una disponibilità aperta di alcuni gruppi associativi a cavalcarla più di altri attraverso il clientelismo. All’interno di Area si sta ragionando su tre possibili interventi: ridurre il numero di questi incarichi, che al momento è sproporzionato rispetto alle esigenze; imporre al magistrato di condurre al termine l’incarico degli otto anni, spezzando quel circuito della carriera dirigenziale, nel quale l’aspirazione ad un incarico direttivo o semidirettivo è funzionale non tanto alla efficace gestione organizzativa di un ufficio o di una sezione, quanto alla costituzione di un titolo da spendere nel proprio curriculum professionale; prevedere che il magistrato non possa presentare domanda per un nuovo incarico direttivo o semidirettivo prima di aver completato il precedente ovvero dopo un certo termine (due, tre anni) dalla cessazione del precedente incarico. Crede esista il rischio che la sanzione durissima nei confronti di Luca Palamara possa essere interpretata come una estinzione del problema da parte di una fetta della magistratura? Bisogna che la magistratura vigili affinché ciò non avvenga. Un conto sono le sanzioni inflitte a Palamara e in misura minore ad altri. Un conto è la questione etica che investe tutta la magistratura: non si può pensare di risolvere la crisi di credibilità della magistratura soltanto con le condanne di chi è stato più direttamente protagonista di alcuni fatti. Perché è vero che c’era una offerta di clientela ma c’era anche una richiesta di clientelismo da parte del corpo della magistratura. Se non mettiamo in atto, come ci chiede il Capo dello Stato Mattarella, una profonda attività di ripensamento del nostro essere magistrati non potremo compiere un passo avanti tale da impedirci per il futuro di ritornare su quelle pratiche distorsive. Però rispetto a due anni fa al nostro interno una serie di prese di coscienza ci sono state: soprattutto l’Anm ma anche i gruppi tradizionali stanno cercando di dare delle risposte. Certamente non sono ancora sufficienti e definitive, tuttavia non è vero che la magistratura è rimasta immobile come sostengono diversi detrattori. Il vice presidente del Csm Ermini ha detto: “la valutazione di professionalità dovrebbe prevedere controlli sulla qualità e sulla tenuta dei provvedimenti”. Ha detto anche di credere che “la normativa sui fuori ruolo possa essere rivista, peraltro sarebbe opportuno ricorrere anche a figure diverse come gli avvocati nei diversi ruoli dell’amministrazione”. È d’accordo? Per quanto concerne il primo punto, una valutazione della performance giudiziaria dei provvedimenti come parametro di valutazione professionale del magistrato porta al paradosso che gli unici che avranno la valutazione positiva saranno quelli della Cassazione perché sono gli ultimi a giudicare. Inoltre non vorrei che questo tipo di valutazioni ci costringesse, per paura di essere smentiti, ad assumere delle decisioni un po’ burocratiche, che si fondano sul precedente. Sarebbe un ostacolo insormontabile all’evoluzione del diritto applicato. Con gravi danni per i cittadini e per l’avvocatura che promuove la tutela dei diritti. Per quanto riguarda i magistrati fuori ruolo, non sono favorevole alla lettura che del tema viene data dall’onorevole di Azione Costa, e dall’Unione Camere Penali. Sarebbe assurdo sostenere che al Miur non debbano andare i professori e al Ministero della Salute i medici. Estromettere i magistrati sarebbe un errore oltre che una scelta irrazionale. Ciò nonostante, visto che i protagonisti del processo e della giurisdizione non sono solo i magistrati, non sarebbe sbagliato dare più spazio all’interno del Ministero della Giustizia anche agli avvocati e alla cultura universitaria. In questo particolare momento storico che rapporto c’è tra magistratura e politica? Ad esempio il presidente Caiazza ha tuonato: “Magistratura a pezzi, ma a fare le leggi è ancora lei”... A me sembra che le ultime riforme, prima fra tutte quella del processo penale, siano state scritte dagli avvocati e in relazione ad alcuni interessi della difesa. La norma sulla improcedibilità certamente non l’ha proposta la magistratura. Non solo la magistratura non detta legge ma, anzi, ci sono tutta una serie di iniziative che vogliono tentare in tutti i modi di ridimensionare sia il ruolo della magistratura requirente all’interno del processo sia quello istituzionale all’interno del Paese. Basti pensare al sorteggio per il Csm, al divieto di distacco dei magistrati fuori ruolo, alla nuova norma sui tabulati telefonici e presunzione di innocenza. A me sembra che gli scandali che hanno colpito la magistratura vengano utilizzati strumentalmente da una parte della politica non per eliminare le cause che li hanno determinati ma per mettere in atto delle riforme che nulla hanno a che vedere con essi. A proposito del recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza: riuscirà a frenare gli eccessi di protagonismo di alcuni magistrati? A me sembra che questa norma sia stata costruita pensando alle esternazioni che alcuni magistrati fanno soprattutto nei talk show, in cui spesso vengono espresse delle considerazioni che non fanno onore alla magistratura e danno un’idea della categoria investita di un qualche ruolo morale, come fustigatrice dei costumi, che dà giudizi sommari sui fatti del giorno, tradendo l’idea di ponderazione che la comunicazione di un magistrato dovrebbe sempre soddisfare. Tuttavia la nuova norma va ad incidere invece sulla comunicazione giudiziaria che rigorosamente deve essere data agli organi di informazione quando le vicende sono rilevanti. Non presentare l’indagato come colpevole è un principio di civiltà; limitare però il flusso delle notizie può costituire un problema generale per il Paese. L’Europa, e di conseguenza il Governo, vi hanno chiesto di alzare i vostri standard di produttività per rispondere alle esigenze del Pnrr. Non c’è il rischio che si abbassi la qualità delle decisioni? Una spinta alla iperproduttività, in un contesto di tipo culturale che presuppone una elaborazione intellettuale, è sempre dannosa, soprattutto quando si vuole aumentare la quantità a parità di risorse in una realtà come la nostra dove il contenzioso è sempre più complesso. Da questo punto di vista le risorse dell’Ufficio per il processo possono dare un contributo relativo: verranno sì introdotti laureati giovani e preparati ma potranno essere di aiuto per le vicende più semplici. Il professor Giorgio Spangher, commentando la circostanza per cui il conto corrente di un ex premier è finito sulle pagine del Fatto Quotidiano, ha detto: “il problema non riguarda tanto la pubblicabilità o meno degli atti, ma la pertinenza delle acquisizioni al fascicolo. Mentre per le intercettazioni si è riusciti a far inserire nell’archivio riservato quelle irrilevanti ai fini delle indagini, il legislatore ancora non si è posto il tema dell’irrilevanza rispetto all’attività di acquisizione di materiale da perquisizione e sequestro. Questo episodio dunque deve indurre il legislatore a ripensare la norma”... I problemi tecnici sono esattamente quelli delineati dal professor Spangher. Io faccio il pubblico ministero e quando svolgo una attività di indagine sono obbligato a inserire nel fascicolo qualsiasi esito raggiungo. Alla fine delle indagini il fascicolo del pm è sottoposto alla discovery. Da qual momento in poi entra nella disponibilità di tutta una serie di soggetti. Quindi come vengono trattati gli atti dipende molto dall’attenzione e dalla eticità di tutti quelli che hanno in mano il fascicolo. Se non c’è una norma che in qualche momento del giudizio consenta, casomai nella forma del contraddittorio, di selezionare alcuni elementi, io non potrò che continuare a inserire tutto seguendo la legge. Si sta discutendo molto di ergastolo ostativo. Qual è la posizione di Area su questo? Noi siamo convinti che le linee espresse dalla Consulta costituiscano un principio centrale intorno al quale costruire una riflessione molto attenta. Non si tratta di abolire il carcere duro o menomare il contrasto alla mafia, ma di eliminare un automatismo. È importante che una volta che la legge venga recepita dal Parlamento l’amministrazione penitenziaria si doti di tutti quegli elementi sostanziali e non formali necessari per consentire al magistrato di sorveglianza di esprimere una valutazione compiuta che tenga conto del percorso umano fatto dal detenuto. Però il consigliere Nino Di Matteo vuole centralizzare tutto al Tribunale di Sorveglianza di Roma, alterando la giurisdizione di prossimità. Sostiene che servirebbe ad evitare effetti pericolosi sotto il profilo della sicurezza dei giudici di sorveglianza chiamati a decidere. Innanzitutto va assolutamente respinta la lettura di una magistratura di sorveglianza non professionalmente adeguata al suo compito. Poi il tema della concentrazione a Roma a me sembra una forzatura di sistema rispetto all’attuale. C’è effettivamente un principio di prossimità che deve essere salvaguardato, soprattutto se si vuole che il giudice di sorveglianza faccia una valutazione in concreto. Più ci si allontana dal detenuto più il rischio di errore aumenta. Poi, se c’è un pericolo di incolumità, concentrare tutto in un solo Tribunale di Sorveglianza non vuol dire determinare anche in questo modo una sovraesposizione di questi magistrati? “Tutti vogliono il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 dicembre 2021 Intervista ad Alberto Cisterna. “Il legislatore dovrebbe avere il coraggio e la forza, che non ha, di tracciare delle linee chiare. La politica non riesce purtroppo a tirarsi fuori dai condizionamenti che la magistratura esercita su di essa”. Per Alberto Cisterna, presidente di sezione al Tribunale di Roma, “la politica non riesce purtroppo a tirarsi fuori dai condizionamenti che la magistratura esercita su di essa. Tutti vogliono il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico”. E ancora: “Io non credo a tutto questo dibattito ideale sulla palingenesi etica della magistratura: le norme sono chiare e stringenti per le procedure di nomine dei dirigenti e se non è bastato il codice penale, certo non serviranno codici etici aggiornati”. Come legge le recenti elezioni nei distretti locali dell’Anm? Bisogna tenere presente che dai soli distretti di Roma e Palermo non si può ricavare una misurazione esatta dell’andamento dei nuovi assetti all’interno della magistratura. Certamente però esprimono forme di malessere in parte diverse, visto che nella prima ha vinto Magistratura Indipendente e nella seconda i 101. Mentre questi ultimi rappresentano un voto di protesta, il risultato romano esprime una sorta di complessiva presa d’atto della magistratura laziale sul fatto che non si può far coincidere la vicenda Palamara semplicemente con quella di due gruppi associativi che sono rimasti più direttamente impigliati nel trojan e postergando tutto il resto. Credo che i colleghi abbiano ritenuto che le responsabilità, che all’inizio sembravano troppo spinte verso alcune componenti, vadano invece meglio ripartite tra tutti i gruppi associativi. Il cammino di Unicost è sicuramente più in salita... È probabilmente più complesso. A parte l’Hotel Champagne, nelle chat di Palamara ci sono molti più colleghi di quel gruppo associativo coinvolti. Mentre da un lato ci sono alcuni esponenti di una corrente, MI, che hanno lavorato solo - si fa per dire - per sponsorizzare un magistrato alla Procura di Roma, dall’altro lato le chat di Palamara hanno evidenziato una rete diffusa di collegamenti e contatti tra molti appartenenti ad Unicost. In pratica nel voto sembrano aver avuto più peso le chat che l’incontro all’hotel Champagne. Lo scarto vero di tutta questa vicenda sarà la nomina del Procuratore di Roma. Questa vicenda, se passata al setaccio, rivela debolezze associative ma anche cedevolezze istituzionali. Sembra che le valutazioni dell’Hotel Champagne fossero più prossime al corretto merito di quanto lo siano state successivamente quelle del Consiglio Superiore della Magistratura e le sentenze della giustizia amministrativa vanno in quella direzione. Non c’è il pericolo che per una parte della magistratura la dura sanzione inflitta a Palamara possa estinguere il problema? Io non credo a tutto questo dibattito ideale sulla palingenesi etica della magistratura: le norme sono chiare e stringenti per le procedure di nomine dei dirigenti e se non é bastato il codice penale, certo non serviranno codici etici aggiornati. Quindi si tratta di un problema che non attiene alla rifondazione morale, anche perché la maggior parte della magistratura è sana, ma alla necessità di fissare regole che risultino in qualche misura inderogabili quando si tratta di andare a valutare gli incarichi direttivi e a decidere la carriera dei magistrati. Non è possibile che l’autogoverno della magistratura si trasformi in una sorta di spazio vuoto in cui si creano le regole per poi violarle. Sono state regole lasche a generare un carrierismo ma soprattutto quel clientelismo che costringe i giudici a soggiacere alle disponibilità e alle concessioni dei capi- corrente. Le regole devono essere fissate per legge e non per circolare. In questo 101 ha un vantaggio perché punta il dito sulle regole. E punta sul sorteggio... Sono contrario al sorteggio. Non si può fare tabula rasa del Consiglio. Il presidente Mattarella nel suo discorso alla Scuola superiore della Magistratura ha detto: “L’attività del Csm, sin dal momento della sua composizione, deve mirare a valorizzare le indiscusse professionalità su cui la Magistratura può contare, senza farsi condizionare dalle appartenenze”. Quindi ha fatto capire che una legge elettorale che punti al sorteggio non è compatibile con la Costituzione. Aggiungo che sarebbe una resa per la magistratura. Scegliere i migliori è incompatibile con il sorteggio. Rappresenta, quella del Quirinale, una forte indicazione sul tipo di legge elettorale che il legislatore dovrà configurare. Queste “indiscusse professionalità” sono dei colleghi che negli ultimi dieci, quindici anni sono completamente scappati dalla vita associativa, che lavorano tanto e in silenzio. Recuperare questi colleghi dagli anfratti in cui si sono rifugiati per seguire la propria idea di giustizia al riparo da influenze è un’operazione complicata, per un sistema abituato ad altri metodi. Torniamo un attimo alla questione degli incarichi semidirettivi e direttivi... I tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, di tutta una categoria di magistrati che, come loro bravissimi, erano penalizzati dall’anzianità per ricoprire determinati ruoli, sono finiti. La magistratura italiana vive in una aurea mediocritas: non ci sono quelle eccellenze, quelle punte di novità per le quali occorra ancora derogare alla regola dell’anzianità. Quest’ultima, ovviamente senza demerito, può essere tranquillamente ripristinata e aggiustata. Gli ultimi dieci anni sono stati segnati da un rampantismo carrieristico fortemente incentivato dall’essersi fatto beffa dell’anzianità. Ma non le sembra che le correnti ancora non vogliano abbandonare alcune trincee, mentre Mattarella, Cartabia e Ermini costantemente ricordano che l’unica trincea è quella dell’indipendenza e autonomia? È crollato un sistema e ciò porta ad una serie abbastanza numerosa di regolamenti di conti interni alla magistratura. Il legislatore dovrebbe avere il coraggio e la forza, che non ha, di tracciare delle linee chiare. La politica non riesce purtroppo a tirarsi fuori dai condizionamenti che la magistratura esercita su di essa, che non sono solo quelli dei processi ma anche quelli che si innestano su rapporti e vicinanze, che caratterizzano quel mondo opaco della contiguità tra le due realtà. Tutti vogliono il procuratore amico perché nessuno lo vuole nemico. Manca il coraggio di dire che il mio destino di politico non può dipendere dal Procuratore della Repubblica e di invocare regole coerenti. Ci ha provato Renzi ma ora mi pare che non stia messo benissimo. Nel dopo Palamara, la magistratura è pronta ad abbandonare il suo ruolo di moralizzatrice? Certo. L’aspetto positivo dell’affaire Palamara è l’aver intaccato, non tanto l’idea del magistrato custode della moralità, ma il moralismo. I magistrati con una mano complottavano per le carriere e con l’altra pretendevano di giudicare l’abuso d’atti di ufficio di un sindaco o di un funzionario. La scoperta del clientelismo ha finalmente collassato il moralismo. Che poi i magistrati non debbano esercitare un controllo sulla moralità pubblica è un altro discorso ancora. Luciano Violante qualche giorno fa sul Foglio individua in una norma del codice di procedura penale, ossia l’articolo 330 (acquisizione delle notizie di reato, ndr) la rottura della separazione tra potere giudiziario e potere amministrativo. Il pm può acquisire anche di propria iniziativa le notizie di reato, una crisi del principio di separazione dei poteri dice Violante, perché non è più la Pg a portare la notizia di reato. Ciò ha fatto sì che la magistratura si impossessasse del controllo di legalità che non le appartiene. E a questo fenomeno è molto complicato mettere un freno. D’altra parte nel Paese si sono mossi gruppi di magistrati e di Pg coesi l’uno con l’altro che hanno fatto carriera insieme e si promuovono a vicenda, ficcandoci dentro qualche giornalista, come ricorda Palamara. Ma non ci sono anche Pg che fanno concorrenza alle Procure? Ci hanno provato fino a qualche decennio fa. Poi tre o quattro inchieste ben assestate sul Ros dei carabinieri hanno fatto capire a tanti che era meno pericoloso sottostare alle indicazioni del Pubblico ministero. Non è estorsione se il figlio tossicodipendente pretende dal padre i propri soldi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2021 La causa di non punibilità dei delitti contro il patrimonio per assenza di violenza sui familiari non sarebbe comunque applicabile a tale reato. Il reato di estorsione non è scriminato ex lege se è diretto contro i genitori o i fratelli conviventi. Perché è reato che scatta solo quando la violenza non si limita alle cose, ma attinge la persona della vittima anche solo con la minaccia. La non punibilità prevista dal comma terzo dell’articolo 649 del codice penale per quasi tutti i delitti contro il patrimonio agiti in ambito familiare - solo con violenza sulle cose e non sulle persone - è inapplicabile a priori per la rapina, l’estorsione e il sequestro di persona a fini di estorsione. Questa la lettura secca della Cassazione (sentenza n. 44916/2021) sulla causa di non punibilità prevista dal Codice penale sui delitti contro il patrimonio. La scriminate - Al contrario, di quanto affermato dal ricorso, secondo cui andava seguita una diversa interpretazione normativa che applicherebbe la scriminante della sola violenza sulle cose, a tutti indistintamente i reati contro il patrimonio nei confronti di coniuge, figli, fratelli e genitori conviventi. Pretesa difensiva bocciata sulla base della chiara lettera della norma che esclude esplicitamente i tre reati, tra cui l’estorsione, appunto. Il rinvio - Inoltre, ai fini della prova dell’elemento soggettivo del reato (cioè quello di ottenere un ingiusto profitto) non è irrilevante che quanto “estorto” fosse già di proprietà dell’imputato. Così come non è irrilevante che non vi sia stata diminuzione del patrimonio del padre, vittima delle condotte del figlio. Infatti, la Corte di cassazione con la sentenza n. 44916/2021, annullando la condanna, con rinvio, afferma che i giudici che ritengano consumato il reato di estorsione non possono pretermettere un’adeguata motivazione sull’argomento difensivo che faccia rilevare l’esistenza della prova processuale, che quanto ottenuto fosse già di proprietà dello stesso imputato. È perciò da rifare il processo che si era concluso con la condanna per estorsione del figlio che minacciava di morte il padre per ottenere denaro in realtà proveniente dal proprio conto corrente alimentato solo da somme di diretta spettanza del figlio stesso (stipendi e indennità di disoccupazione). Santa Maria Capua Vetere (Ce). 20 detenuti positivi al Covid: il nodo colloqui e permessi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 dicembre 2021 Per ora non c’è una vera e propria emergenza Covid nelle carceri, ma i nuovi focolai destano comunque preoccupazione. Due importanti casi di contagio sono avvenuti nelle carceri di Taranto e di Santa Maria Capua Vetere. In quest’ultimo strutturata si sono verificati più di 20 casi di positività, 15 tra i detenuti e 5 tra il personale del carcere. Una circostanza che il capo del Dap, Bernardo Petralia, ha confermato tre giorni fa alla presenza della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in occasione della presentazione del calendario 2022 del corpo della Polizia penitenziaria. “In entrambi i casi - ha precisato il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - tutti i soggetti sono asintomatici”. C’è il segretario generale del Sindacato Polizia penitenziaria, Spp, Aldo Di Giacomo, che chiede ai ministri della Salute e della Giustizia di istituire un Open day al penitenziario sammaritano come in tutte le carceri, con le stesse modalità con cui si svolgono gli Open day fuori. “È da tempo - spiega il sindacalista - che ripetiamo inascoltati i nostri appelli: l’obbligo vaccinale per il personale penitenziario, che ci vede convintamente favorevoli non risolve in alcun modo la prevenzione dalla diffusione del Covid se l’obbligo non viene esteso a tutti, a cominciare dai detenuti, dai familiari e dagli avvocati dei detenuti”. Sottolinea sempre Di Giacomo: “A Santa Maria Capua Vetere, dove ci sono flussi di ingressi settimanali dieci volte superiori al numero dei detenuti, a cui aggiungere i colloqui con diverse decine di avvocati e una durata anche di un paio d’ore, si pensa di contingentare i colloqui detenuti- familiari. Non può essere questa la soluzione, sottovalutando che nelle rivolte della primavera 2020 la sospensione dei colloqui è stata la scintilla che ha innescato le violenze che tutti dovrebbero ricordare”. Il nodo è proprio quella di una eventuale sospensione dei colloqui, possibilità presa in considerazione dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, specie se il focolaio dovesse ulteriormente estendersi. In realtà, al momento, i detenuti positivi sono stati posti rigorosamente in isolamento ma il carcere non possiede abbastanza celle per questo genere di emergenze. E, oltre al problema dei colloqui con i familiari, esiste anche quello dei permessi natalizi di cui possono usufruire molti detenuti vicini alla fine pena e per buona condotta. Per questo motivo, la Garante dei detenuti della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore, ha proposto al magistrato di sorveglianza la dilazione dei permessi in un periodo più lungo ed evitare che i permessi vengano sospesi. La stessa garante Belcuore chiede anche all’Asl di Caserta un open day vaccinale dedicato ai detenuti all’interno del carcere. “La maggioranza dei detenuti non ha la prima dose, mentre alcuni che l’hanno fatta non hanno ricevuto la seconda. Al momento la Asl non ci ha dato alcuna risposta” conclude la garante. Monza. “Il reparto psichiatrico del carcere? Un’idea fallimentare” di Stefania Totaro Il Giorno, 7 dicembre 2021 Il sindacato si lamenta dopo l’escalation di violenze da parte di detenuti: “Non ci sono specialisti presenti h24, gli agenti sono in pericolo”. “La realizzazione del reparto psichiatrico nel carcere di Monza è un progetto fallimentare ed è assolutamente da chiudere perché non ci sono specialisti presenti h24 e non c’è una struttura idonea per gestire questi detenuti. Il personale di polizia penitenziaria non può continuare a rischiare quotidianamente di tornare a casa con danni permanenti”. Dopo la denuncia di un’altra aggressione ad agenti di sorveglianza nella casa circondariale monzese da parte del sindacato Uilpa, prende la parola anche l’Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria, che punta il dito sul reparto di osservazione psichiatrica di via Sanquirico. Perché tra i ripetuti episodi di violenza da parte di detenuti contro gli agenti, ci sono anche quelli dei soggetti con problemi psichiatrici. Come è accaduto domenica poco dopo le 13 quando un detenuto posto nel reparto di osservazione psichiatrica, mentre veniva accompagnato per l’ora d’aria, si è scagliato prima contro una sovrintendente e poi contro altri tre agenti intervenuti. Uno di questi ha subìto la frattura delle dita di una mano e con la collega sono stati accompagnati al pronto soccorso. L’agente ha avuto una prognosi di 30 giorni e ha dovuto sottoporsi a un intervento chirurgico. Sulla vicenda la Procura monzese aprirà un’indagine. Il detenuto violento si trovava da pochi giorni nel reparto osservazione psichiatrica del carcere di Monza, proveniente da un’altra Regione. Perché non tutte le case circondariali hanno questo reparto, voluto dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e gestito dalla Asst territoriale. Sulla carta per tenere in osservazione per 30 giorni i detenuti con problemi psichiatrici prima di deciderne la destinazione. In realtà spesso un ‘parcheggio’ per soggetti bisognosi di cure specifiche che, quando diventano violenti, mettono a repentaglio la sicurezza e l’incolumità del personale di polizia penitenziaria e devono essere trasferiti nel reparto psichiatrico in ospedale. “Per noi i detenuti con problemi psichiatrici sono pazienti come gli altri - spiega Gianluca Peschi, direttore socio sanitario della Asst di Monza che segue il carcere monzese - Il reparto di osservazione psichiatrica è uno dei servizi che gestiamo con un medico presente h24, non c’è uno psichiatra 24 ore presente perché non è previsto dalla normativa. Per i detenuti che richiedono osservazione particolare intervengono gli psichiatri durante il giorno e lo specialista di medicina generale di turno anche la notte, quindi in caso di urgenza si attiva l’intervento del medico e, se necessario, del pronto soccorso. È chiaro che avere nel nostro territorio una casa circondariale provvista di reparto di osservazione psichiatrica determina un certo afflusso di detenuti con queste problematiche, ma noi li gestiamo come gli altri pazienti con problematiche analoghe provenienti dal territorio”. La questione è quindi sempre quella della coperta troppo corta per quanto riguarda gli organici della polizia penitenziaria (in numero insufficiente per affrontare non solo i detenuti psichiatrici, ma anche altri con comportamenti violenti sempre più in aumento, e sprovvisti di protocolli di intervento e di adeguati equipaggiamenti), ma anche le risorse di personale medico e di operatori specializzati nel gestire soggetti con grossi disagi comportamentali, che soltanto un intervento da parte del welfare della sanità a livello regionale può apportare. Oristano. Caligaris (Sdr): “A Massama sovraffollamento al 105,8%” cagliaripad.it, 7 dicembre 2021 Maria Grazia Caligaris: “Nelle colonie penali la media tende sempre a diminuire (39,6%) e gli spazi disponibili a svuotarsi”. “La realtà penitenziaria delle case di reclusione della Sardegna appare sempre più squilibrata. Mentre nel carcere di Oristano-Massama i detenuti mese dopo mese aumentano e la percentuale è arrivata al 105,8%, nelle colonie penali la media tende sempre a diminuire (39,6%) e gli spazi disponibili a svuotarsi. Il caso più emblematico però è quello di Arbus - Is Arenas dove si registra il minimo storico 28,9% di presenze (di cui 68,6% stranieri). Leggendo questi dati appare evidente che la nostra realtà penitenziaria non sembra rispondere pienamente al ruolo di recupero sociale e riabilitativo a cui è demandata. Le Case di Reclusione all’aperto dovrebbero infatti essere il luogo privilegiato in cui il lavoro è anche occasione di crescita civile e culturale”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme osservando i dati dell’Ufficio Statistica del Ministero della Giustizia che fotografano con i numeri la condizione delle carceri al 30 novembre 2021. “Non bisogna dimenticare - osserva Caligaris - che dietro ogni numero c’è una persona con la sua famiglia e che poter accedere a una colonia penale significa imparare un mestiere legato alla terra, pagare il mantenimento carcerario e poter aiutare i familiari. Appare quindi inspiegabile a molti il perché sia così difficile approdare in un luogo creato proprio per favorire il recupero di chi sta scontando una pena detentiva. Dai dati peraltro emerge che nelle case di reclusione all’aperto mediamente si trova il 39% di detenuti italiani e il 61% di stranieri. Quasi 20,86% (415 su 1989 ristretti) è invece la media degli stranieri reclusi nei 10 Istituti ma sale al 23,4% la media considerando Uta (111 stranieri su 541) e Bancali (107 su 389)”. “I problemi nella nostra Isola però non si limitano agli spazi - rileva infine l’esponente di SDR - ma anche all’intera organizzazione che soffre per la carenza di personale in tutti gli ambiti dalla direzione agli amministrativi, dagli agenti penitenziari ai funzionari giuridico pedagogici. Senza garanzie sul personale non è possibile rendere la presenza in carcere di chi ha commesso un reato un momento utile per ripristinare un rapporto positivo con la società e le sue norme”. Pistoia. La Garante mancata attacca: “Negati i diritti dei detenuti” Il Tirreno, 7 dicembre 2021 La rabbia di Giulia Melani candidata unica ma non votata per tre volte dalla maggioranza del Consiglio comunale. “Pistoia non avrà un Garante (dei detenuti, ndr), il perché non chiedetelo a me, nessuno lo ha dichiarato in consiglio comunale”. Ha sfogato su Facebook l’amarezza e la delusione per la mancata elezione a garante dei detenuti (o meglio: “dei diritti delle persone private della libertà personale”, come recita la legge) per il Comune di Pistoia, nonostante che fosse l’unica candidata e che il posto sia scoperto da ormai ben sei anni. Giulia Melani, 33 anni, ricercatrice in sociologia del diritto, con dieci anni di volontariato alle spalle nelle carceri di Sollicciano, Prato e Pistoia, era l’unica ad aver risposto al nuovo bando dell’amministrazione Tomasi (il precedente era andato deserto) per scegliere questa importante figura di tutela dei diritti delle persone detenute. Ma nella sua ultima seduta, il consiglio comunale, in seduta segreta, per ben tre volte non ha raggiunto i voti necessari. Melani ha ottenuto al massimo sei voti, contro gli almeno 12 che sarebbero stati necessari nella terza votazione. Tutti gli altri 17 consiglieri si sono astenuti. A pronunciarsi pubblicamente in suo favore sono stati tre consiglieri comunali del Pd e Tina Nuti (Pistoia spirito libero). Dal centrodestra, che in tutta evidenza si è astenuto, nessun intervento di spiegazione della scelta. Nei giorni scorsi lo stesso gruppo Pd ha attaccato la maggioranza per la mancata elezione. “Io - ha scritto ancora Giulia Melani su Facebook - intanto mi preparo ad entrare giovedì (il giorno in cui svolge colloqui con i detenuti, ndr) e a spiegare a quelle cinquanta persone che, ancora una volta, i loro diritti sono stati scavalcati da un qualcos’altro, che io non so e non posso capire, ma che comunque ci sono e sarò al loro fianco, come e più di ieri, e che mi ripresenterò per questa carica a qualsiasi futuro bando”. In effetti la figura del garante dei diritti dei detenuti a Pistoia manca dal 2015, quando terminò il suo incarico Antonio Sammartino, autore di numerose denunce sulle gravi carenze della casa circondariale di Santa Caterina in Brana. Da allora la figura - che deve rimanere in carica tre anni - non è stata più nominata. Alessandria. Economia carceraria, Falanga (Idee in fuga): “Dare a tutti un’opportunità” di Lorenzo Cipolla interris.it, 7 dicembre 2021 Falegnameria, botteghe, apicoltura. Carmine Falanga della cooperativa “Idee in fuga” racconta a Interris.it le loro attività con i detenuti. L’economia carceraria come materia viva per costruire ponti tra “dentro” e “fuori”, superando oltre alle sbarre fisiche, metalliche, degli istituti di pena anche quelle dell’indifferenza e dello stigma della società nei confronti delle persone detenute o che hanno scontato una pena. Su 53.637 detenuti nelle carceri italiane, al 30 giugno 2021 quelli che lavorano sono 17.957, e di questi quasi il 12% non è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Una realtà che da alcuni anni costruisce un collegamento tra interno ed esterno, facendo rete con i piccoli produttori del territorio - ma non solo - con attività come una falegnameria sociale, le botteghe per la vendita e la coltivazione di un luppoleto, si chiama “Idee in fuga”, cooperativa sociale che collabora con l’istituto penitenziario “Cantiello e Gaeta” di Alessandria e che attualmente ha tra le sue fila undici detenuti assunti con regolare contratto. La prima ad aprire, nel 2015, un negozio sulle mura di un carcere - pur senza collegamento con l’interno della struttura - per vincere una sfida. “Portare le persone ad acquistare dove nessuno avrebbe pensato di venire”, spiega a Interris.it Carmine Falanga, volontario della cooperativa. “Abbiamo approccio autoironico, ci scherziamo anche sui claim pubblicitari perché sappiamo quello che le persone pensano”. Dare un’opportunità - L’idea di aprire un negozio in una location così inedita è stata ispirata dal principio che “un’opportunità va data a tutti”, spiega Falanga. Da quel primo passo si è innescato un processo che ha portato a raccogliere varie produzioni di economia carceraria, riscuotendo l’interesse di altre realtà locali. Fino alla nascita, nel 2020 in piena pandemia, della cooperativa “Idee in fuga” per la gestione delle attività. “Ci sono due falegnamerie, una interna e una esterna” - per il progetto Social Wood, che si prefigge di dare una formazione ai detenuti per agevolare il loro reinserimento lavorativo - illustra il volontario, “il luppoleto in carcere, le arnie per l’apicoltura, le botteghe”. Il ponte tra “dentro” e “fuori” - “Come diciamo noi, ‘dentro siamo tutti bravi a lavorare’: la vera sfida da vincere è che l’’esterno’ dia un lavoro”, sottolinea con serio spirito Falanga. Nel corso della loro esperienza, i volontari della cooperativa hanno visto quanta diffidenza ci sia nei confronti delle persone detenute o ex detenute, per via di uno stigma sociale non facile da sradicare. Ciononostante, sono stati in gradi di formare una rete con il territorio, costruendo un ponte tra i due mondi, quello dentro e quello fuori del carcere. “Inizialmente avevamo solo prodotti interni al penitenziario e vendevamo quelli, ora collaboriamo con tanti piccoli produttori”. Ciò che realizzano oggi Falanga lo definisce “non a chilometro zero, ma a chilometro Italia” perché quelli che utilizzano deve essere prodotti al “100% italiani” provenienti da piccole realtà territoriali del Paese, attente all’ambiente al sociale. “Ci rivolgiamo a chi impiega persone con disabilità o donne vittime di violenza di genere”. Non solo, infatti si utilizzano anche prodotti di altri istituti di pena. “In tutti c’è un elemento di economia carceraria, come il panettone fatto con i canditi del carcere di Siracusa”, precisa Falanga. Una nuova vita al legno - La cooperativa piemontese non è però in rete solo con i piccoli produttori, ma anche con nomi più noti e blasonati. “Un produttore di mobili internazionale un mese fa ci ha contattato perché aveva molti mobili che non può più vendere per motivi burocratici, così li prendiamo noi”, racconta il volontario. “In falegnameria utilizziamo solo legno che sarebbe scartato e gli diamo nuova vita, realizzando scatole per il birrificio piemontese Baladin o ancora box per le bottiglie di vino e arredi per la conduttrice televisiva e imprenditrice Tessa Gelisio”. L’ultima iniziativa è il temporary shop all’outlet di Serravalle Scrivia, sempre nell’alessandrino. gestito un ragazzo della cooperativa e da una persona detenuta. Al lavoro - “Nell’istituto penitenziario”, spiega ancora Falanga, “andiamo a dare una possibilità di lavoro a chi ha seguito corso di formazione interno, inoltre un’azienda agricola ci ha assegnato dei ragazzi per l’apicoltura e la coltivazione del luppoleto”. Ma, se “dentro siamo tutti bravi a lavorare”, riprendendo le sue stesse parole, come fanno “fuori”? “La possibilità è data a detenuti ex articolo 21 della legge sull’ordinamento penitenziario” - cioè che possono essere assegnati al lavoro all’esterno - “che per esempio possono uscire per andare ad aprire il negozio dove gestiscono la cassa. Chi viene ad acquistare qui sa chi lo sta servendo e anche questo è un modo per abbattere lo stigma”. Trento. Carcere e perdono al secondo incontro di “Passi di Vangelo” vitatrentina.it, 7 dicembre 2021 Giovedì 9 dicembre, al secondo incontro di Passi di Vangelo, i detenuti di Spini di Gardolo porteranno la loro testimonianza “indirettamente”. Sarà condotto “indirettamente” da un gruppo di detenuti della casa circondariale di Spini di Gardolo il secondo incontro di “Passi del Vangelo”. La riflessione, “Oltre la misura”, si svolgerà giovedì 9 dicembre alle 20.30 nella chiesa del Collegio Arcivescovile di Trento e sarà incentrata sul tema del perdono. Si parte da alcune domande che un brano del Vangelo secondo Matteo (18, 21-25) suscita: che cosa significa perdonare? Il perdono si può misurare? Come si impara a perdonare si può riuscire ad andare oltre la logica umana del conteggio, del “tanto… quanto”? Stimolerà il dibattito don Mauro Angeli, cappellano del carcere di Trento, accompagnato da alcuni volontari che, con lui, prestano servizio nella casa circondariale di Spini di Gardolo. Don Mauro condividerà le provocazioni e gli spunti di riflessione nati dopo la lettura, da parte di alcuni detenuti, del brano del Vangelo di Matteo che sarà letto anche dai ragazzi che parteciperanno alla serata del 9 dicembre. “Passi del Vangelo” è rivolto in particolar modo ai giovani tra i 18 e i 30 anni. Per accedere all’incontro, è necessario il Green Pass. Streaming disponibile sul sito della Diocesi di Trento. Alessandria. Tre pannelli con la storia di Pinocchio: regalo dei detenuti all’Ospedale Infantile radiogold.it, 7 dicembre 2021 Inaugurato questa mattina l’ultimo dei tre pannelli raffiguranti la storia di Pinocchio che, grazie ai detenuti del carcere di San Michele, rallegrano i corridoi del Presidio Infantile dell’Azienda Ospedaliera di Alessandria. Donata nell’ambito delle iniziative della terza edizione del Festival delle Arti Recluse “Artiviamoci”, l’opera è il frutto dei laboratori artistici realizzati grazie a Piero Sacchi, maestro della bottega della pittura e ideatore del percorso artistico. “Abbiamo scelto Pinocchio perché è la pecora nera dei grandi classici, è il protagonista che disobbedisce e la sua vicenda presenta alcuni aspetti borderline che abbiamo poi commentato e analizzato insieme durante il laboratorio. In particolare questo pannello rappresenta l’episodio in cui Pinocchio derubato viene arrestato e si presenta davanti al giudice scimmione: i personaggi riempiono gli spazi lasciati vuoti dalla vegetazione brillante dove il colore spesso rappresenta il desiderio di libertà”. Un progetto che vede uscire la creatività dei detenuti fuori dalle mura del carcere a beneficio dei piccoli pazienti del “Cesare Arrigo” che possono così godere di un ambiente sempre più colorato e accogliente. “Siamo molto lieti di poter inaugurare questo terzo quadro - afferma Luciano Bernini, Direttore Sanitario dell’Ospedale di Alessandria - simbolo della ripartenza di attività che da tempo interessano il presidio pediatrico e che si inserisce perfettamente nei percorsi di Medical Humanities che stiamo conducendo nell’ottica di un’umanizzazione delle cure che passa anche attraverso l’inserimento dell’arte e della cultura nei luoghi di cura”. Il direttore del carcere Elena Lombardi Vallauri ha infine ricordato come l’iniziativa sia molto significativa e gratificante per i detenuti coinvolti e rappresenti una rinnovata vicinanza del territorio all’Ospedale Infantile. Larino (Cb). Il carcere ha la sua panchina rossa. Momento di riflessione coi detenuti foto primonumero.it, 7 dicembre 2021 Il 27 novembre anche nella Casa Circondariale di Larino si è svolta la cerimonia per la Giornata internazionale in onore delle donne vittime di violenza. L’iniziativa è stata promossa dalla Direzione della Casa Circondariale di Larino in collaborazione con il Comitato Pari Opportunità del Corpo di Polizia Penitenziaria rappresentato dal sostituto Commissario di Polizia Penitenziaria, la dottoressa Anna Di Niro, la quale, nella duplice veste di rappresentante della Polizia Penitenziaria e componente nazionale di parte sindacale del Comitato stesso, ha voluto con forza ribadire l’impegno delle istituzioni e delle donne impegnate in settori strategici quali la sicurezza sociale, al contrasto dei fenomeni alla ribalta delle cronache che investono le donne quali vittime di violenza. Immediata la collaborazione della Direzione dell’istituto, delle donne e degli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, dell’area Giuridico-Pedagogica, del Cappellano e dei volontari. Commoventi le letture delle appartenenti al Corpo e la scenografia al contempo rispettosa e calzante, quasi a riprodurre “il flusso di violenza” che investe le donne, le quali spesso, per scelte necessitate dalla protezione dei figli o per timore, non denunciano. “L’impegno del Comitato pari opportunità - ha continuato il sostituto commissario - è rivolto anche ad azioni concrete quali proposte di legge al vaglio delle Commissioni Giustizia, pareri in relazione ai nuovi reati da ‘codice rosso’ inseriti con le ultime riforme, formazione specifica agli appartenenti del Corpo e ai tecnici del trattamento rieducativo”. In un’atmosfera di unione di intenti, in una cornice religiosa, ma laica al contempo, con l’ottima omelia del cappellano, Don Antonio di Lalla, alla presenza anche di una platea di detenuti, e allietati dal coro della cattedrale di Larino, “che il Signore ci diriga”, hanno espresso il loro pensiero il Direttore dell’Istituto, dottoressa Rosa La Ginestra, la quale nel ribadire la rabbia che si prova ogni qualvolta si apprende di un nuovo caso di femminicidio, ha voluto lanciare un messaggio di speranza e di fiducia che partendo dall’impegno delle istituzioni arrivi, attraverso una vera educazione alla “non violenza”, a tutti i contesti civili e sociali. Il saluto del Commissario d’istituto, il dottor Rossano Varricchio, ha chiuso il ciclo di interventi con riferimenti al principio di solidarietà e uguaglianza degli esseri umani tutti, a prescindere dall’identità di genere. La cerimonia si è conclusa con l’apposizione in via permanente presso i giardini dell’intercinta dell’istituto penitenziario della “panchina rossa”, realizzata da un detenuto e che servirà, simbolo indelebile per chiunque si volgerà a guardarla facendo ingresso in istituto, come monito e contrasto alla violenza di genere. Più libri più liberi. La fiera dei ragazzi: diecimila studenti alla Nuvola di Sara Scarafia La Repubblica, 7 dicembre 2021 Tanti giovani anche all’Arena Robinson. Oggi in programma incontri con Gianrico Carofiglio, Ezio Mauro, Carlo Verdone. La terza giornata di “Più libri più liberi” è stata quella dei ragazzi: ieri hanno attraversato la Nuvola oltre 10mila studenti. Oltre agli istituti del Lazio, c’erano classi arrivate da Abruzzo, Marche, Umbria e Campania. Numeri record nonostante le limitazioni imposte dalla pandemia. E i giovani sono stati anche i protagonisti degli appuntamenti all’Arena Robinson: erano in tanti al dibattito tra Gianluca Di Feo e Mario Consani su Tangentopoli spiegata a chi non c’era e per la lectio di Matteo Nucci sulla libertà nel Fedro di Platone. Moltissimi studenti pure per l’incontro sui manga con i fumettisti Lrnz e Roberto Recchioni, e con i direttori editoriali di Bd e Star comics Marco Schiavone e Claudia Bovini, moderati da Luca Valtorta. Oggi l’Arena Robinson aprirà alle 10 con la rassegna stampa di Angelo Melone e Federico Pace. Alle 15 Luca Valtorta modererà Elsa Menini, Risuleo & Pronostico e Zuzu sul tema “Nuovi fumettisti crescono”. Alle 16 Silvia Ronchey con Gregorio Botta su “Il mio James Hillman”. Alle 17 Ezio Mauro con Wlodek Goldkorn per l’incontro letterario “Il maestro Bulgakov e lo scrittore fantasma”. Alle 18 Gabriele Mainetti parlerà di rivoluzione freak con Luca Valtorta; infine alle 19 ci sarà Saverio Raimondo con i suoi 101 modi tutti da ridere per usare i libri senza leggerli. Fuori l’Arena è il giorno di Gianrico Carofiglio: alle 16, nello Spazio Rai, ci sarà l’evento “I libri che ci hanno liberato”, la cerimonia di consegna dei libri donati dagli ospiti della Fiera ai detenuti. A ritirali simbolicamente, Gemma Tuccillo, capo dipartimento del ministero della Giustizia. Con Carofiglio ci sarà pure Salvatore Striano, l’attore che ha conosciuto il teatro in carcere. Alle 17, in Auditorium, Carofiglio dialogherà con il vice direttore di Repubblica Francesco Bei in un incontro dal titolo “Fare cose con le parole”. Alle 18,30 Ciriaco Scoppetta presenta il suo libro La ladra di cervelli, con Carlo Verdone. Alla stessa ora, in auditorium, l’evento “Canzoni tra vita e poesia”: Franco126 in dialogo con Ernesto Assante. Alle 19 incontro sul futuro dell’Europa e il fronte dell’Est con Adam Michnik, saggista, editore e politico polacco ed Ezio Mauro moderati da Wlodek Goldkorn. Più libri più liberi. Tangentopoli trent’anni dopo spiegata a chi non c’era di Sara Scarafia La Repubblica, 7 dicembre 2021 Gianluca Di Feo e Mario Consani si confrontano sulla maxi inchiesta con 4.520 indagati che scardinò la Prima Repubblica. “Ma poi cos’è successo? Che il nuovo mondo somigliava al vecchio”. Trent’anni dopo esiste ancora Tangentopoli? Il vice direttore di Repubblica Gianluca Di Feo e il giornalista Mario Consani ne hanno discusso all’Arena Robinson, nella terza giornata di “Più libri più liberi”, a partire dal libro di Consani “Tangentopoli per chi non c’era” pubblicato da Nutrimenti editore. “Tangentopoli doveva succedere in quel momento storico - dice Consani che seguì l’inchiesta per Il Giorno - prima c’era una guerra fredda. L’inchiesta poté prendere piede solo dopo il crollo del Muro. Ma poi cosa è successo? Che il nuovo mondo somigliava al vecchio perché la Prima Repubblica era crollata ma a raccoglierne il testimone erano stati personaggi che avevano vissuto quella stagione. Oggi quando parliamo di corruzione parliamo d’altro perché i partiti non esistono più, sono più che altro formazioni che ruotano attorno ai leader anche se il finanziamento continua, pure quello non proprio lecito”. Di Feo, che seguì invece la maxi-inchiesta per il Corriere della sera, traccia il profilo di quegli anni, di quei grandi partiti, della massiccia presenza dei giovani, e chiede a Consani se davvero Tangentopoli “salvò” la sinistra. “Il Pci fini sotto inchiesta - dice Consani - ma quelli che lo riguardarono erano episodi che non facevano parte di un sistema. Il sistema era un’altra cosa: la spartizione degli appalti, per esempio, con la cresta che facevano i partiti, era proporzionale al loro peso. Il Pci partecipava in un altro modo: con appalti che venivano dati ad alcune cooperative che certamente poi erano generose nei confronti del partito. Erano finanziamenti sì, ma che non risultavano illegali. Non credo che ci fu però una mano più morbida sulla sinistra. E lo hanno dimostrato anche le indagini che si aprirono successivamente”. Il dibattito ha raccontato anche il pool dal lato umano: Davigo, di destra tradizionale, Di Pietro, “il più poliziotto” poi fondatore di un suo partito. Saverio Borrelli che ascoltava musica classica mentre Di Pietro Cocciante. E ancora Francesco Greco e Gherardo Colombo. Come facevano persone così diverse a stare insieme? “Colombo mi ha risposto che lavoravano insieme ma che ognuno seguiva un filone specifico - dice Consani - Ma centrale era Borrelli che teneva le fila”. Gli indagati dal pool di Mani Pulite furono 4520: “Praticamente i vertici di tutta la classe politica e dell’imprenditoria dell’epoca” dice Di Feo che racconta che in solo giorno furono arrestate 120 persone. “Solo Ikea non sborsò le tangenti, allora aveva un solo punto vendita, ma diede un po’ di mobili facendoli passare per difettosi”. Il processo fu chiesto per 3420 dopo un’inchiesta complicatissima fatta senza intercettazioni e con l’uso primordiale dei computer. Trent’anni dopo parlare di Tangentopoli serve a capire l’Italia di oggi. Terzo settore, il Senato ci riprova e dice sì all’Iva: la protesta delle associazioni di Paolo Foschini Corriere della Sera, 7 dicembre 2021 “Il Terzo settore va sostenuto, non colpito”: sono le parole di Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum del Terzo settore, dopo l’approvazione da parte del Senato di un emendamento al dl fiscale che assoggetta al regime Iva anche le associazioni che noin svolgono alcuna attività commerciale. Il testo ora passa alla Camera. Non ci si può credere, e invece l’hanno rifatto: lo Stato italiano, con l’approvazione del Senato, prova di nuovo a far ricadere nel regime Iva anche le associazioni del Terzo settore che non svolgono alcuna attività commerciale. La stessa cosa che era stata tentata l’anno scorso, prima che il provvedimento fosse ritirato. “Una grande delusione”, dice la portavoce del Forum del Terzo settore Vanessa Pallucchi. Adesso si spera nella Camera. L’emendamento in questione è stato approvato in sede di conversione del dl fiscale al Senato e imporrebbe appunto alle associazioni, dal 1 gennaio 2022, di essere assoggettate al regime Iva pur non svolgendo alcuna attività commerciale. Il provvedimento prevede il passaggio da un regime di esclusione Iva a un regime di esenzione per i servizi prestati e i beni ceduti dagli enti nei confronti dei propri soci. Sembra una piccola variazione, neutra economicamente, ma che invece comporta i costi di tenuta della contabilità Iva, oneri e ulteriori adempimenti burocratici. Già oggi il Terzo settore sta affrontando il delicato passaggio di entrata in vigore del Registro Unico del Terzo settore, con tutte le problematiche conseguenti. L’introduzione di questo ulteriore adempimento è peraltro disallineato con la normativa oggi in vigore e produrrà disorientamento e sfiducia negli enti, soprattutto quelli più piccoli. “Se l’annuncio della riforma del Terzo settore è stato salutato con soddisfazione per l’attesa semplificazione - sottolinea Vanessa Pallucchi - provvedimenti come questo producono grande delusione. Esattamente un anno fa ci siamo battuti perché nella formulazione della legge di bilancio era stato inserito questo stesso provvedimento, poi fortunatamente espunto. Oggi, dopo un anno, ci troviamo di nuovo al punto di partenza”. Il testo passa ora alla Camera. “Ci auguriamo - conclude la portavoce del Forum - che l’Articolo 5, nei commi da 15-bis a 15-quater, del dl fiscale venga soppresso. Non possiamo immaginare di gravare ulteriormente sulle nostre associazioni e di mettere a rischio la loro sopravvivenza. Il Terzo settore va sostenuto, non colpito”. La disuguaglianza è sempre una scelta politica di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 7 dicembre 2021 World Inequality Report. In Europa il 10% dei più ricchi ha il 36% del reddito, il 58% in Medio Oriente. In America latina il 10% più ricco controlla il 77% della ricchezza e il 50% più povero solo l’1%. C’è la percezione di una grande stanchezza delle società, in Occidente in generale (e più particolarmente in Francia, all’inizio della campagna elettorale per le presidenziali di aprile), di una mancanza di prospettive che blocca l’azione e una visione del futuro condivisa, il tutto aggravato dalla crisi del Covid. Da dove proviene questa situazione? Una spiegazione può essere trovata nell’ultimo World Inequality Report 2022, il rapporto sulle diseguaglianze nel mondo, pubblicato oggi dal World Inequality Lab e coordinato dagli economisti Lucas Chancel, Thomas Piketty, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, un lavoro che ha coinvolto più di un centinaio di studiosi. Le diseguaglianze sono diminuite sul lungo periodo, aveva constatato Piketty nel suo ultimo libro, Une brève histoire de l’égalité (Seuil, 2021): “L’eguaglianza è una lotta che può essere vinta e nella quale ci sono sempre varie traiettorie possibili che dipendono dalla mobilitazione, dalle lotte e da ciò che si apprende dalle lotte precedenti”. Ma dagli anni 80-90, da quando c’è la libera circolazione dei capitali “senza alcuna contropartita in termini di tassazione comune, di regolazione, di trasparenza”, siamo “su una linea discendente che va verso sempre più separatismi fiscali, sociali”, ha constatato Piketty. Da un lato c’è un movimento storico verso minori diseguaglianze, “ma la società del privilegio esiste sempre” e oggi si erge come un muro che crea scoraggiamento. C’è la diseguaglianza di reddito, ma ancora di più di ricchezze, accumulate nel tempo e trasmesse in eredità. Le diseguaglianze nel corso dei secoli sono diminuite grazie all’accesso al lavoro, al reddito, alla scuola, alla salute, ma resta l’ostacolo della captazione di redditi e patrimoni da parte di coloro che già hanno di più e che solo una regolazione internazionale, una tassazione altamente progressiva e sostegni mirati possono far saltare. Il World Inequality Report constata che nel 2021 le diseguaglianze nel mondo sono più o meno uguali a quelle esistenti nel momento di punta dell’imperialismo, all’inizio del secolo scorso. Secondo Lucas Chancel, “la crisi del Covid ha esacerbato le diseguaglianze tra i molto ricchi e il resto della popolazione. Nei paesi ricchi, gli interventi dei governi hanno evitato una crisi massiccia di povertà, ma non è stato così per i paesi poveri. Questo mostra l’importanza dello stato sociale nella lotta alla povertà”. In più, come si è visto alla Cop26, “la diseguaglianza economica globale fomenta la crisi ecologica e rende più difficile combatterla, è difficile vedere come possiamo accelerare gli sforzi per lottare contro il cambiamento climatico senza una maggiore redistribuzione del reddito e della ricchezza”. Per Chancel, “se c’è una lezione da trarre da questo Report è che la diseguaglianza è sempre una scelta politica”. In questo quadro, l’Europa è l’area dove le diseguaglianze sono inferiori rispetto al resto del mondo. Il 10% dei più ricchi concentrano il 36% del reddito in Europa, cifra che sale al 58% in Medioriente. Per quanto riguarda il patrimonio, che è un elemento che segna in modo particolare le diseguaglianze, in America latina, la zona più ineguale, il 10% più ricco controlla il 77% della ricchezza e il 50% più povero solo l’1%. La Russia è ben piazzata nella lista dei più diseguali. In Europa, se consideriamo la concentrazione della ricchezza, il 60% è nelle mani del 10% dei più ricchi. Le diseguaglianze sono aggravate anche dal genere (la parte del reddito delle donne in Europa, pur passata dal 31% nel 1990 al 38% attuale, resta inferiore a quella maschile). I ricchi sono inoltre maggiormente responsabili del riscaldamento climatico, sia come paesi che come categorie di reddito e ricchezza (in Europa c’è una media di emissioni di Co2 di 10 tonnellate a persona, la media mondiale è di 6,6, mentre bisognerebbe calare a una tonnellata per rispettare l’impegno di riscaldamento di 1,5 gradi). In Italia, le diseguaglianze sono diminuite nel XX secolo. Ma dagli anni 80, le categorie più ricche hanno accumulato patrimoni e redditi, mentre in linea generale, tra il 2007 e il 2019, c’è stato un calo degli introiti delle famiglie, a causa delle politiche di austerità degli anni 2012-14. C’è una concentrazione della ricchezza nel 10% più ricco al 48%, mentre la diseguaglianza di genere è più alta che nella media Ue (le donne hanno il 36%, cifra che avvicina l’Italia più al Nord America - il 38% - che ai paesi europei più avanzati). Sulle emissioni di Co2, con una diminuzione di 3 tonnellate pro capite dagli anni 90 a oggi, in Italia la media è di 9 tonnellate a persona, ma con una grossa differenza a seconda della posizione economica: i più ricchi hanno diminuito il loro contributo negativo al riscaldamento climatico solo di 8 punti, contro il 32% per i più poveri, costretti a limitarsi a causa del calo del reddito che hanno subito dagli anni 90 a oggi. I danni da ridurre al minimo di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 7 dicembre 2021 Si comincia a prendere atto che l’eccezione potrebbe diventare regola, che saremo comunque minacciati a lungo dal Covid. Quindi dobbiamo chiederci come tutelare il più possibile il sistema delle libertà nel medio-lungo termine senza compromettere la nostra capacità di impedire una nuova diffusione del virus. Nelle situazioni di emergenza, si tratti di guerre, catastrofi naturali, pandemie, vengono presi, necessariamente, provvedimenti che implicano - talvolta in misura minima, talvolta più estesa - restrizioni della libertà personale. Per conseguenza, ci sarà sempre chi riterrà che l’emergenza sia stata artificialmente creata dai governi allo scopo di indebolire o distruggere quella libertà. È vero che tante volte ciò è accaduto. Per esempio, resterà sempre un dubbio: non ebbero nessun aiuto o facilitazione di sorta i ribelli ceceni che fecero esplodere alcune abitazioni a Mosca nel 1999? Da quella emergenza derivò una stretta autoritaria in Russia e una nuova guerra in Cecenia. Tante altre volte però dubbi non ce ne sono: in molte situazioni l’emergenza esiste sul serio, non è stata concepita a tavolino. Nel caso delle democrazie sufficientemente antiche e consolidate, se l’emergenza durerà poco, le conseguenze non saranno durature: superata l’emergenza anche quel minimo di restrizioni della libertà personale che si erano rese necessarie verrà abolito, si tornerà a condizioni di normalità. Ma che succede se la minaccia alla vita delle persone non scompare rapidamente, se la condizione di pericolo che all’inizio appariva come un fatto contingente, presto superabile, diventa permanente o tale da accompagnare l’esistenza di quelle democrazie per molto tempo? Come impedire che, nel lungo periodo, quella condizione di pericolo finisca per minacciare sul serio le libertà dei cittadini? La pandemia, come sempre accade in questi casi, ha innescato anche nelle democrazie consolidate occidentali una tendenza alla centralizzazione del potere: indebolimento del ruolo dei Parlamenti e rafforzamento di quello dei governi, gli unici che possano coordinare efficacemente gli sforzi per contenere e, possibilmente, eliminare la sfida pandemica. La concentrazione del potere è risultata minore negli Stati Uniti a causa della loro struttura federale: l’Amministrazione Biden non dispone degli strumenti per imporre la propria volontà ai singoli stati federati. Per inciso, sembrano valere anche in questa circostanza certe differenze fra il federalismo americano e quello tedesco. Fino a poco tempo fa, comunque, pensavamo in tanti che l’emergenza Covid fosse di breve durata. Ora si comincia a prendere atto che forse non sarà così, che l’eccezione potrebbe diventare regola, che saremo comunque minacciati a lungo (prima che la scienza riesca a trovare un rimedio definitivo) dal Covid. Anche perché in un mondo interdipendente, con le frontiere porose - e tanto più in società aperte come quelle occidentali - non c’è verso di allontanare definitivamente la minaccia dal proprio Paese se nel resto del mondo la pandemia continua a imperversare. Nemmeno nei casi, come quello italiano, in cui l’azione governativa sia risultata efficace nel contenimento della malattia. Quali strategie porre in essere per tutelare il più possibile il sistema delle libertà nel medio-lungo termine senza compromettere la nostra capacità di impedire una nuova diffusione del virus? Si tratta di pensare al futuro in termini di minimizzazione del danno. Il danno c’è, ed è inevitabile. Come ridurne le conseguenze il più possibile? Proviamo per un momento a immaginare (per meglio esorcizzarlo) lo scenario più cupo: una ripresa più o meno incontrollabile della diffusione del virus. Immaginate che in Paesi come il nostro il senso del pericolo svanisca o per lo meno si abbassino quelle barriere psicologiche che oggi spingono tante persone a muoversi con cautela. Immaginate che si diffonda l’illusione che l’emergenza sia definitivamente alle nostre spalle. Le conseguenze politiche sarebbero immediate. Alla centralizzazione del potere (di fatto) provocata dall’emergenza seguirebbe una sua nuova diluizione/diffusione. I governi perderebbero capacità di iniziativa. Per giunta, in Paesi come l’Italia, ove i rapporti centro-periferia (anche in materia sanitaria) sono resi confusi e difficili a causa dell’assetto istituzionale vigente, si andrebbe rapidamente verso forme di paralisi decisionale. Verrebbero meno le difese di fronte a una ripresa in grande stile dei contagi. Ne seguirebbero un’ennesima forte ondata di morti, strutture sanitarie al collasso, nuovi lockdown. Svanirebbero di nuovo le condizioni che sorreggono la vita ordinaria, ci sarebbe un nuovo blocco delle attività economiche all’interno dei Paesi. Per contagio, si andrebbe verso un crollo dell’economia internazionale. Quanto a lungo pensate che potrebbero resistere le democrazie? Quante democrazie sopravvivrebbero? Alcune forse sì ma molte si estinguerebbero. Magari senza che si verifichi nulla di spettacolare: niente colpi di Stato o altri fatti visibilmente traumatici. Semplicemente, una misura dopo l’altra, un passo alla volta, la democrazia si trasformerebbe in un regime autoritario o semi-autoritario. Ciò significa che se dovremo convivere a lungo con la minaccia pandemica, dovremo anche conservare la capacità di distinguere. Tra le misure indispensabili e quelle che non lo sono. Dovremo capire che ci sono provvedimenti più o meno restrittivi della libertà che sono necessari per garantirci vita e salute ma anche per assicurare il mantenimento di condizioni di vita civile nonché un regime di libertà. Si tratterà, in ogni occasione, di scegliere il danno minore per evitarne uno maggiore. Al momento sembra probabile che nel nostro futuro ci siano forme di vaccinazione obbligatoria annuale e che controlli (green pass o equivalenti) ci accompagnino a lungo. Ci sono tante restrizioni della libertà personale che accettiamo da sempre come ovvie e necessarie. Come l’assicurazione obbligatoria delle auto. O l’obbligo di mostrare i documenti se così richiesto da un agente di polizia. Dovremo accettare allo stesso modo i controlli sulle vaccinazioni. Nonché il fatto che i governi mantengano grande capacità di intervento in materia sanitaria. Per non trovarci domani in una crisi così grave da fare tracimare i poteri di quei governi in ogni ambito mettendo a rischio, questa volta sì, libertà e democrazia. Ci sarà sempre, naturalmente, chi protesterà per la “intollerabile” violazione della sua libertà. Ma se sarà chiaro ai più che l’alternativa è fra due mali, riusciremo a capire quale sia il minore, e potremo anche arginare l’area della protesta. Persino le più litigiose democrazie possono sviluppare anticorpi che ne assicurino la sopravvivenza. Migranti. Abdel, un altro ragazzo morto di Cpr. Legato per 3 giorni in un letto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 dicembre 2021 “Ringrazio Dio e spero vada tutto bene”, diceva Wissem Ben Abdel Latif rivolto alla telecamera del suo cellulare che riprendeva gli occupanti del gommone. Il compagno di viaggio che stava accanto a lui faceva il segno di vittoria. La meta era vicina e sarebbe stata Augusta, nella Sicilia sud- orientale. Con una tuta rossa addosso e il cappellino indossato con la visiera storta. Le immagini, recuperate dalla campagna LascieteCIEntrare che si occupa di diritti dei migranti trasferiti nei Centri per il rimpatrio, sono di ottobre scorso. Abdel è morto a 26 anni il 28 novembre scorso, a due mesi dal suo arrivo in Italia. Era stato trasferito nel Cpr di Ponte Galeria, poi ricoverato al San Camillo, al Servizio psichiatrico, dove è rimasto legato al letto per tre giorni. Sulla sua morte la procura ha aperto un’inchiesta. Ed è la campagna LasciateCIEntrare a denunciare l’ennesima morte legata alla detezione amministrativa in Italia. Il giovane tunisino di 26 anni, Abdel Latif, ricordiamo, è morto a Roma in ospedale il 28 novembre, arrivato dal Centro di Permanenza Temporanea di Ponte Galeria. La campagna si è da subito attivata per raccogliere ulteriori informazioni sull’esatta temporalità. Il ragazzo è stato portato nel reparto di psichiatria del San Camillo il 23 novembre ed è stato legato al letto per 3 giorni. Quindi sarebbe morto per “arresto cardiaco”. “Abdel - scrive la campagna per la chiusura dei Cpr - era giunto in Italia a settembre e dopo un periodo di quarantena sulla nave della compagnia Gnv, come oramai da prassi per chi proviene dalla Tunisia, non era riuscito a manifestare la volontà di richiedere protezione internazionale. Invece che essere accolto, era stato inviato in direttissima al Cpr di Ponte Galeria”. Majdi Kerbai, deputato tunisino e attivista, in contatto con Yasmine Accardo di LasciateCIEntrare, è stato avvisato dalla madre del ragazzo: “Ho solo le urla della madre al telefono”, ha detto all’attivista. LasciateCIEntrare si domanda chi risponderà al grido disperato della donna e spiegherà cosa è realmente successo all’interno del Cpr. “Come è possibile che in meno di 3 mesi dall’arrivo sulle nostre coste un altro ragazzo trattenuto presso un centro italiano sia morto?”. Ma per fare luce su tutta questa vicenda occorre andare anche a prima del trattenimento. “Chi sono i funzionari che non hanno accettato la sua domanda di protezione internazionale? Perché si continua a non dare accoglienza? A non voler ascoltare le voci di chi è ingiustamente recluso nei Cpr, a non voler vedere quello che accade nei Cpr, a quanto viene denunciato dal Garante, dalle associazioni?”, sottolinea la rete di attivisti. “Abdel Latif era solo un numero dentro le carte degli accordi tra Italia e Tunisia e dentro i cassetti ammuffiti e maleodoranti dell’Unione Europea. Abdel Latif aveva solo 26 anni. Abdel Latif ha trovato solo detenzione in un Paese che ormai non lascia speranza a nessuno. Un Paese che continua a uccidere perché se non si muore di frontiera e di naufragi in mare, si muore di Cpr. Tutto questo non è solo inaccettabile, è l’orrore ormai normalizzato contro cui continuiamo a combattere. Chiediamo verità e giustizia e la chiusura di tutti i Cpr”, conclude la campagna ricordando la lunga striscia di morti che la detenzione amministrativa e i governi che la continuano a sostenere hanno sulla coscienza. A ricostruire la vicenda sono stati anche il Garante dei Detenuti del Lazio Stefano Anastasia e il consigliere regionale di + Europa Alessandro Capriccioli. Sabato scorso si sono recati al Cpr di Ponte Galeria e hanno visionato la documentazione medica, ed è stato così possibile ricostruire gli ultimi giorni di vita del 26enne e il suo percorso tra strutture detentive e sanitarie. “Su questa vicenda, evidentemente, deve essere fatta piena luce, obiettivo per il quale per primo continuerò a impegnarmi”, ha dichiarato Capriccioli in una nota. La tragica farsa del Summit per la democrazia di Manlio Dinucci Il Manifesto, 7 dicembre 2021 Il 9-10 dicembre il Presidente Biden ospiterà il “Summit per la Democrazia” che riunirà, in collegamento mondiale online, “leader di governo, società civile e settore privato”. La lista degli invitati comprende 111 paesi. Tra questi 28 dei 30 membri della Nato: mancano Turchia e Ungheria ma, in compenso, ci sono Israele e Ucraina, insieme a 26 dei 27 membri della Ue salvo l’Ungheria. Per intenderci: c’è la Polonia sotto tiro della Ue perché viola lo stato di diritto. Il Summit “fornirà loro una piattaforma per difendere la democrazia e i diritti umani all’interno e all’estero, per affrontare attraverso un’azione collettiva le più grandi minacce che hanno di fronte oggi le democrazie”. Verrà in tal modo avviato “un anno di azione per rendere le democrazie più reattive e resilienti”, che culminerà con un secondo Summit in presenza per “costruire una comunità di partner impegnati nel rinnovamento democratico globale”. Joe Biden mantiene così quanto annunciato nel programma elettorale (il manifesto, 10 novembre 2020): un Summit globale delle “nazioni del mondo libero”, anzitutto per “contrastare l’aggressione russa, mantenendo affilate le capacità militari della Nato e imponendo alla Russia reali costi per le sue violazioni delle norme internazionali” e, allo stesso tempo, per “costruire un fronte unito contro le azioni offensive e le violazioni dei diritti umani da parte della Cina”. In tal modo gli Stati uniti ritorneranno a “svolgere il ruolo di guida nello scrivere le regole”. “La difesa dei valori democratici - ha ribadito Joe Biden in veste di presidente - è impressa nel nostro Dna come nazione”. Che cosa sia impresso nel DNA degli Stati uniti lo dimostrano le circa cento guerre di conquista che hanno caratterizzato la loro storia. Secondo un documentato studio di James Lucas (il manifesto, 20 novembre 2018), solo la serie di guerre e colpi di stato - effettuata dagli Stati uniti dal 1945 ad oggi in oltre 30 paesi asiatici, africani, europei e latino-americani - ha provocato 20-30 milioni di morti, centinaia di milioni di feriti (molti dei quali restati invalidi), più un numero inquantificato di morti, probabilmente centinaia di milioni, provocati dagli effetti indiretti delle guerre: carestie, epidemie, migrazioni forzate, schiavismo e sfruttamento, danni ambientali, sottrazione di risorse ai bisogni vitali per coprire le spese militari. Nelle guerre più sanguinose - Corea, Vietnam e Iraq - le forze militari Usa furono direttamente responsabili di 10-15 milioni di morti. Il colpo di stato più sanguinoso fu organizzato nel 1965 in Indonesia dalla Cia: essa fornì agli squadroni della morte indonesiani la lista dei primi 5 mila comunisti e altri da uccidere. Il numero dei trucidati viene stimato tra mezzo milione e 3 milioni. Lo stesso Joe Biden, promotore del “Summit per la Democrazia”, ha avuto un ruolo da protagonista in parte di questa storia. Nel 2001, in veste di presidente della Commissione Esteri del Senato, sostenne la decisione del presidente Bush di attaccare e invadere l’Afghanistan e, nel 2002, promosse una risoluzione bipartisan che autorizzava il presidente Bush ad attaccare e invadere l’Iraq. Nel 2007, fece passare al Senato un piano di smembramento dell’Iraq in tre regioni - curda, sunnita e sciita - funzionale alla strategia Usa. Nel 2009-2017, in veste di vicepresidente dell’amministrazione Obama, ha compartecipato alla pianificazione ed esecuzione delle guerre contro Libia e Siria e del putsch di fatto in Ucraina, in cui Biden ha svolto un ruolo diretto e determinante. Riguardo alla democrazia interna, basti ricordare che, secondo le statistiche ufficiali, la polizia uccide ogni anno negli Usa circa 1.000 inermi cittadini, soprattutto neri e ispanici. Basti ricordare che gli Stati uniti vogliono condannare a 175 anni di carcere il giornalista Julian Assange che ha portato alla luce i loro crimini di guerra. Probabilmente tra qualche giorno la magistratura britannica deciderà sulla sua estradizione negli Usa. Intanto, il 6 dicembre, la Gran Bretagna ha co-ospitato un evento preparatorio del Summit, intitolato “Difendere le democrazie dalla disinformazione”, focalizzato sulle “migliori pratiche per promuovere un sistema informativo aperto e trasparente”. Egitto. Omicidio Regeni, la commissione d’inchiesta ignora i rapporti con le dittature di Guido Rampoldi Il Domani, 7 dicembre 2021 Nella sua relazione la commissione parlamentare d’inchiesta ha indirettamente affermato che il dovere di esigere giustizia non può essere cancellato dai nostri interessi. Ma ci sono questioni di stile e di sostanza che non ha affrontato. I premier italiani mentre fingevano di “pretendere la verità” (così come fatto da Matteo Renzi), si adoperavano per scindere la responsabilità del tiranno da un omicidio tipico del suo regime. Oggi probabilmente l’unica possibilità rimasta all’Italia per sapere la verità è ispirare una manovra congiunta di potenze occidentali per fratturare il regime egiziano. Ma al momento è un’ipotesi remota. La commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Giulio Regeni, avvenuto tra il gennaio e il febbraio 2016, ha chiuso i suoi lavori con una relazione onesta che tuttavia sfiora appena due questioni oggi centrali alla politica estera di qualsiasi democrazia: quale debba essere il rapporto tra la salvaguardia degli interessi nazionali e la difesa dei diritti umani e come funzioni concretamente la relazione tra l’informazione e il sistema di potere quando sono in gioco questioni di rilevanza strategica. Il primo punto conduce a dilemmi di difficile soluzione. Uno stato di diritto liberale può fare affari con una dittatura che sopravvive grazie alle camere di tortura? E può venderle di tutto, incluso armamenti? O invece dovrebbe sospendere quantomeno le forniture militari? E magari abbassare il livello delle relazioni diplomatiche in segno di protesta, anche se questo fosse contrario alle convenienze del paese? La commissione non si è posta domande così impegnative. Ma pur restando dentro i confini di un evento, l’assassinio di Regeni, che chiama in causa la relazione tra interesse nazionale e diritti umani solo perché i diritti violati riguardano un cittadino italiano, ha indirettamente affermato che il dovere di esigere giustizia non può essere cancellato dai nostri interessi. Però pressioni e ritorsioni devono obbedire a un criterio di efficacia. Per esempio la scelta italiana di ritirare l’ambasciatore al Cairo andrebbe valutata in relazione ai risultati prodotti. Se questo consequenzialismo è convincente, lo è meno la tesi della commissione: la magistratura egiziana prestò una qualche collaborazione agli inquirenti italiani solo quando Roma richiamò l’ambasciatore. È più probabile che il regime fornì nomi di alcuni spioni egiziani unicamente per rendere verosimile la propria versione, Regeni ucciso da cinque criminali comuni, opportunamente assassinati perché non potessero smentire (gli spioni in questione ebbero un ruolo nella strage). Secondo l’organizzazione non governativa Intersos, l’assenza di un ambasciatore italiano in Egitto (“attore primario nei processi di ricomposizione e di influenza nell’area”) fu più un danno che un vantaggio: e infatti dopo due anni Roma fece marcia indietro. Se adesso l’Italia minacciasse di annullare la vendita di navi da guerra all’Egitto, come chiede il deputato di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, il regime cederebbe? Che quelle fregate siano italiane, francesi o russe è abbastanza irrilevante agli occhi di un vertice militare che si sta giocando il collo: se riparte la ribellione, questa volta non avrà scampo. E per quanto i generali siano divisi da feroci rivalità, sembrano consapevoli che se cominciassero a dividersi e ad accusarsi sarebbero finiti. Ciascuna banda deve coprire i misfatti delle altre. Oggi probabilmente l’unica possibilità rimasta all’Italia è ispirare una manovra congiunta di potenze occidentali per fratturare il regime. Ma al momento la possibilità è remota. Posto che non ha senso rinunciare inutilmente agli affari, ci sono questioni di stile e di sostanza che la commissione avrebbe fatto bene ad affrontare comunque. In questi anni abbiamo visto premier e ministri degli Esteri italiani che uscivano dagli incontri con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi raccontando di aver discusso soprattutto della collaborazione giudiziaria tra le due magistrature. In realtà se l’argomento era stato trattato, certamente appariva nella scaletta solo per una questione di forma, essendo stato da subito lampante che al Sisi era parte rilevantissima del sistema che ha colpito il ricercato italiano. Nondimeno mentire pareva indispensabile al nostro statista di turno per dimostrare di non aver appena incontrato un responsabile morale dell’omicidio di Regeni, quale in effetti al Sisi è, altrimenti non gli avrebbe chiesto un aiuto per scoprire gli assassini. Sicché mentre fingevano di “pretendere la verità” (così come fatto da Matteo Renzi), i premier italiani si adoperavano per scindere la responsabilità del tiranno da un omicidio tipico del suo regime (sono centinaia gli oppositori egiziani morti sotto tortura in questi anni). Giuseppe Conte arrivò a sostenere di aver parlato di Regeni con il dittatore “guardandolo negli occhi”, tecnica che a suo dire prima o poi avrebbe convinto l’altro a dargli retta. La premessa di tanta ipocrisia è il silenzio con il quale media e parlamento avevano accolto le lodi sperticate di Renzi ad al Sisi al termine di tre incontri ufficiali. Proclamando il presidente egiziano “salvatore del Mediterraneo”, pochi mesi dopo che il golpista aveva fatto massacrare in piazza un migliaio di dimostranti quasi tutti inermi, il premier italiano in sostanza aveva detto: quando sono in gioco i nostri interessi, a noi dei diritti umani importa un accidente. Ci si potrebbe chiedere se questo messaggio sia estraneo alla noncuranza opposta dal regime egiziano alle richieste dell’allora ambasciatore Maurizio Massari, quando, sparito Regeni, gli italiani cercavano affannosamente di sapere in quali mani fosse. Tenere fuori al Sisi dall’assassinio era anche l’effetto di una strana narrazione che si è affacciata in questi anni nei social e su tutti i maggiori quotidiani: il ricercatore appariva uno strumento inconsapevole dei servizi segreti britannici, che lo avrebbero manovrato attraverso il suo tutor accademico, la docente di Cambridge Maha Abdelrahman, descritta come militante dei Fratelli musulmani. Insomma una storia di spie, o più esattamente una cospirazione britannica per soppiantare l’Italia nel rapporto privilegiato con al Sisi, magari sovrapposta a un complotto islamista contro lo stesso presidente. La commissione ha indagato questa ipotesi (tra l’altro ascoltando la professoressa Abdelrahman, che islamista non è affatto) e l’ha liquidata come totalmente falsa. Ora sarebbe interessante scoprire chi e perché in questi anni ha alimentato la macchina della disinformazione. Per esempio chi fornì alla stampa ritagli di carte giudiziarie che proiettavano sospetti sulla tutor di Cambridge (“l’università delle spie”); perché si spacciò la docente per integralista; se fu davvero spontanea l’ostinazione di anonimi che intervenivano nei siti anche cinque volte nell’arco di poche ore per rilanciare quelle bugie. La favola che faceva del ricercatore “uno sprovveduto”, chissà se al servizio di una manovra anti italiana, incontrò rapidamente i favori dell’opinionismo gaglioffo che scriverebbe qualsiasi cosa pur di stupire; della vasta schiera islamofoba, per la quale al Sisi è un dittatore amico, sterminatore di integralisti dunque meritoriamente filo occidentale; e di quell’Italia xenofoba cui danno fastidio il nitore e la nobiltà della figura di Giulio Regeni e della sua famiglia. Ma se in questo consenso c’è solo la mediocrità e il cinismo diffuso nella società e nei media, è difficile sfuggire all’impressione che qualche centro di potere si sia adoperato per distogliere l’attenzione da al Sisi, giudicandolo un interlocutore prezioso per certi affari e certe linee di politica estera. Beninteso, l’ipotesi di una manovra anti italiana non può essere esclusa. Ma in questo caso andrebbe scovato chi lasciò credere al regime egiziano che Regeni fosse una spia israeliana (per questo sarebbe stato torturato, riferì al governo italiano l’amministrazione Obama secondo il New York Times). Se si trattò di un servizio segreto straniero, o se il sospetto fu invece lanciato da un segmento dello spionaggio egiziano in affari con potentati esteri. La verità definitiva potremmo forse scoprirla quando cadrà il regime di al Sisi. Nel frattempo dovremmo chiederci se difendere i diritti umani, sia pure con saggezza e pragmatismo, non solo non sia contrario ai nostri interessi ma addirittura ci convenga. Così come, pensando al futuro, assai ci conviene che in Egitto le generazioni giovani identifichino l’Italia non con i salamelecchi di Renzi ad al Sisi, semmai con la mobilitazione per quella verità su Regeni che al Sisi non potrà mai rivelare, essendone parte. Egitto. Speranza e paura, oggi la terza udienza per Patrick Zaki di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 dicembre 2021 Il giovane egiziano trasferito dal Cairo a Mansoura per il processo. Il tribunale per la sicurezza deciderà per un nuovo rinvio o emetterà la sentenza, senza appello. La sorella Marise: “Ha difeso i diritti di tutti, ora battetevi per lui”. L’amico Mohamed: “Ci siamo conosciuti all’università, siamo stati in piazza Tahrir insieme. È un amico e un compagno”. “Speriamo nel meglio, ma come fatto negli ultimi 22 mesi ci aspettiamo il peggio”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia sintetizza in poche battute il clima alla vigilia della terza udienza del processo a Patrick Zaki. Si svolge oggi, a Mansoura, la sua città natale sul Delta del Nilo. Qui lo studente egiziano dell’Università di Bologna è stato da poco trasferito dalla prigione di Tora, al Cairo, suo “domicilio” forzato dal marzo 2020, appena un mese dopo il suo arresto all’aeroporto del Cairo, di rientro dall’Italia per una visita alla famiglia. Dopo mesi di carcere preventivo, rinnovato con crudele puntualità ogni 15 o 45 giorni, nel settembre scorso Patrick è stato incriminato. Quale sia l’accusa non è del tutto chiaro: diffusione di notizie false sulla base di un articolo che scrisse anni fa sulle condizioni di marginalizzazione della minoranza copta. Pare, perché prima il sistema giudiziario egiziano lo accusava anche di terrorismo per alcuni tweet. Quei tweet, mai resi pubblici, sono spariti dal quadro. C’è speranza, c’è sempre, ma anche paura. Non si sa se sperare in un verdetto o meno. Secondo la sua legale, Hoda Nasrallah, l’udienza di oggi dovrebbe servire a presentare la memoria difensiva degli avvocati di Patrick, dopo aver finalmente ottenuto gli atti del processo il 28 settembre scorso: prima di allora non gli era stato consegnato nulla di quello che la procura avrebbe in mano, a Nasrallah erano state concesse solo un paio d’ore per visionare il fascicolo in fretta. E poi si vedrà: i processi di fronte a tribunali della sicurezza dello Stato, deputati a decidere di casi che rientrano nelle fattispecie di reato previste dalla legislazione d’emergenza (ovvero quelli più utilizzati contro attivisti e società civile) sono molto più brevi degli altri. Poche settimane, al massimo pochi mesi. Oggi si potrebbe dunque assistere a un ulteriore rinvio oppure a una sentenza definitiva. Perché questi processi non prevedono appello. “Solo la grazia del presidente della Repubblica egiziana - spiega Noury alla Nuvola, nell’evento di domenica a Più libri più liberi dedicato a Patrick Zaki - I legali la chiederanno in caso di condanna. In quel caso, nella richiesta di grazia sotto la loro firma dovrebbe esserci anche quella di Mario Draghi”. L’Italia - i cui rappresentanti saranno oggi in aula a monitorare l’udienza insieme a diplomatici di altri Paesi - torna spesso nel dialogo di domenica, che ha coinvolto Mohamed Hazem Abbas, tra i migliori amici di Patrick e anima della campagna per la sua liberazione: “Il governo italiano non sta facendo molto, a differenza del parlamento che chiede di riconoscergli la cittadinanza - dice Mohamed - Se fossero sulla stessa linea, la pressione potrebbe essere sufficiente a liberarlo visto i legami tra Italia ed Egitto. Europa e Stati Uniti hanno i mezzi per migliorare le condizioni degli egiziani”. Sono pessime, fuori e dentro dal carcere. Fuori la povertà è in costante aumento, mentre repressione strutturale e leggi liberticide “hanno spazzato via l’intera società civile”, aggiunge Noury. Ong, sindacati e media indipendenti, attivisti della comunità Lgbtqi+, artisti: “Non c’è settore che non sia stato toccato. Per questo Patrick è una storia egiziana”. Come altri 60mila prigionieri politici stimati, ma potrebbero essere molti di più, vista la costruzione in corso di altre mega prigioni, dopo le decine già aperte dal presidente al-Sisi: “Abbiamo saputo che le sue condizioni fisiche e psicologiche sono peggiorate - Mohamed risponde così a una nostra domanda - Da più di 650 giorni dorme a terra, ha problemi alla schiena e alle ginocchia. In passato è stato picchiato dalle guardie carcerarie”. Non ha accesso a prodotti igienici e sanitari, vive da quasi due anni in una cella piccola, sporca e senza aerazione. “Ci siamo conosciuti all’Università tedesca del Cairo - aggiunge nell’incontro pubblico - Siamo stati in piazza Tahrir insieme nel 2011”. “È un amico e un compagno. La vera ragione della sua prigionia sono i suoi ultimi dieci anni di attivismo”. Che continua comunque a portare avanti, anche dietro le sbarre. Lo dicono le parole consegnate alla famiglia quando ha saputo che all’Eur si sarebbe svolta un’iniziativa su di lui: “Ha mandato due messaggi - dice Mohamed - Il primo: non dimenticatevi di me e dei 60 mila prigionieri egiziani. Il secondo: leggete il libro di Alaa Abd el-Fattah”. Il blogger e pensatore egiziano è in carcere, come Patrick. E come Patrick è detenuto a Tora. La sua udienza si terrà il prossimo 20 dicembre, insieme a lui alla sbarra anche il suo avvocato Mohamed al-Baqer (arrestato in un palazzo di giustizia proprio mentre lo difendeva) e il blogger Mohamed “Oxygen” Ibrahim, tutti accusati di diffusione di notizie false e in detenzione preventiva dal settembre 2019. A Roma dall’Egitto, nell’attesa sfibrante dell’udienza, arriva anche la voce di Marise, la sorella di Patrick: “Ha sempre avuto il coraggio di difendere i diritti degli altri anche a rischio della propria libertà. Ora tocca a voi battervi per lui”. Egitto. Nelle celle del regime la rivoluzione fa autocritica. E resta viva di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 dicembre 2021 “Non siete stati ancora sconfitti”, la raccolta di scritti dell’attivista editi da Hopeful Monster. Saggi, tweet, discorsi pubblici del blogger e pensatore egiziano da piazza Tahrir a oggi. Tre piani inclinati - i risultati della rivoluzione, il ruolo dello Stato e il significato della prigione - attraverso l’analisi della dissidenza egiziana del Terzo Millennio. “La gente parla di barriere dettate dalla paura, a me sono sembrate barriere dettate dalla disperazione. Una volta rimosse, insieme alla paura, neanche i massacri e gli arresti avrebbero potuto rimetterle in piedi. Ho commesso tutte le sciocchezze che fanno i rivoluzionari troppo ottimisti…ho infranto ogni legge drastica e tutti i tabù, sono entrato in prigione sorridendo e ne sono uscito da trionfatore”. Alaa Abd el-Fattah è un pensiero libero in un corpo in gabbia, una mano che scrive dopo può - un pacchetto di sigarette, un rotolo di carta igienica - e una memoria da tirare come un elastico. Gli servono, mano e memoria, per continuare a produrre conoscenza e autocritica dietro le sbarre della prigione di massima sicurezza di Tora, al Cairo. Alaa Abd el-Fattah è il più famoso prigioniero politico egiziano: arrestato la prima volta nel 2006, sotto Hosni Mubarak, poi durante il regime dei Fratelli musulmani dopo la rivoluzione del 2011, adesso con quello asfissiante del generale golpista Abdelfattah al-Sisi. È un informatico e un blogger, un gramsciano e un dissidente. E una delle menti più lucide del suo paese. È il punto di riferimento politico delle generazioni più giovani, di chi a 18-20 anni era in piazza Tahrir. Tra loro anche Patrick Zaki che da Tora domenica ha fatto arrivare un messaggio alla fiera Più libri più liberi di Roma: “Leggete il nuovo libro di Alaa se volete capire l’Egitto”. Tradotti da Monica Ruocco, i suoi scritti dal 2011 a oggi (saggi, tweet, discorsi pubblici, la commemorazione per la morte del padre, Ahmed Seif al-Islam, avvocato e attivista tra i più noti e coraggiosi d’Egitto, colui che in eredità gli ha lasciato “una cella di prigione”) sono oggi un libro. Non siete stati ancor sconfitti (pp. 288, euro 23) è merito della casa editrice Hopeful Monster e della sua collana La stanza del mondo curata da Paola Caridi. Il percorso compiuto dall’attivista è in caduta. Su tre piani inclinati: i risultati della rivoluzione, il ruolo dello Stato e il significato della prigione. La storia della dissidenza egiziana del Terzo Millennio accompagna la discesa nel girone degli sconfitti. Il primo piano inclinato: l’orizzonte della vittoria e della trasformazione della società muta con il passare dei mesi e degli anni, fino al buco nero della lacerante consapevolezza del fallimento. La rivoluzione ha perso, Alaa ne è certo. E per strada ha perso anche la narrazione di sé, scippata dal regime controrivoluzionario che come una fenice è risorto semplicemente perché non è mai morto. Si è cibato delle ambizioni degli egiziani, le ha appassite, fino a trasfigurarle in un colpo di Stato su mandato popolare, “il golpe di Schrodinger”, così lo chiama Abd el-Fattah, “sovrapposizione in cui ci si trova contemporaneamente davanti a un golpe e a una rivoluzione”. Il secondo piano inclinato è quello del ruolo dello Stato. Gli scritti del periodo subito successivo al 25 gennaio 2011 costruiscono la critica radicale all’istituzione statale, “male originario”. Lo Stato va abbattuto perché riformarlo è un’utopia: eliminarne la duplice natura - repressione e paternalismo, controllo sociale e infantilizzazione della popolazione - significherebbe renderlo altro a sé. Dieci anni dopo i fatti di piazza Tahrir l’autocritica dell’agire rivoluzionario conduce alla dolorosa consapevolezza del fallimento e alla conseguente “rinuncia al sogno”: l’obiettivo fattibile diventa la ricerca di unità contro la narrazione dominante, nell’idea di ottenere il minimo indispensabile sul piano dei diritti politici, sociali ed economici. Una ritirata apparente che, seguendo le pagine, è prodotto diretto della reclusione. Il terzo piano inclinato. La cella passa di mano, dal rivoluzionario al controrivoluzionario: da primaria forma di resistenza diventa strumento principe della repressione e del monopolio della narrazione, così come il corpo del prigioniero passa dal controllo suo a quello del carceriere. Il detenuto non ha più la gestione del proprio tempo né dello spazio di vita, subisce quotidianamente quello che la sociologa palestinese Ruba Salih (in riferimento alla vita individuale, prima che collettiva, dei palestinesi sotto occupazione israeliana) definisce spazicidio e tempicidio. Ore in frantumi, in cui la privazione della formazione politica - attraverso il divieto a leggere, scrivere, informarsi, se non a piccole dosi - costringe Abd el-Fattah a un estenuante esercizio di memoria per ricostruire fatti, eventi, comportamenti collettivi da cui tirare fuori con i denti una visione totale. Sullo sfondo resta la natura, comunque positiva e travolgente, della rivoluzione egiziana. Un evento che non è mai stato solo, ma che si è legato alle battaglie globali contro lo stesso modello politico e di sviluppo che, se assume forme diverse paese per paese, veste identici panni: burocrazia per attuare il controllo sociale, Stato-nazione per reprimere il dissenso, finzione di libertà tecnologica per occultare la persistenza del capitalismo. Alla fine “non siete stati ancora sconfitti”. Egitto. La fine dello stato d’emergenza è fumo negli occhi di Michele Giorgio Il Manifesto, 7 dicembre 2021 Diritti umani. Molti dei divieti che limitano o negano diritti fondamentali agli egiziani sono nascosti in numerose leggi al di fuori dello stato d’emergenza rimasto in vigore per 40 anni. Con un post su Facebook carico di enfasi, alla fine di ottobre il presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi ha annunciato la fine dello stato d’emergenza in vigore nel paese da quarant’anni, con una pausa tra il 2012 e il 2017: “L’Egitto è diventato un’oasi di sicurezza e stabilità nella regione. Quindi si è deciso di annullare la proroga dello stato di emergenza”. Parole foriere, solo in apparenza, di una nuova era. E invece non ci sono motivi per essere ottimisti. Solo chi si ostina a non vedere può credere che gli apparati di sicurezza egiziani cesseranno di eseguire arresti di massa e incarcerare senza processo i detenuti, di processare i civili nei tribunali militari, di reprimere con la forza manifestazioni e chiudere le organizzazioni della società civile in difesa dei diritti umani. Non deve ingannare l’apertura del nuovo complesso carcerario di Wadi al-Natroun, il più grande del paese, dove, assicurano fonti governative, saranno garantite la dignità e la qualità della vita dei detenuti. Con l’abrogazione dello stato d’emergenza, l’Egitto non è tornato, e non tornerà sotto l’attuale regime, allo stato di diritto in cui i cittadini saranno rispettati da polizia e intelligence, giudicati in tribunali normali e non speciali e godere di ampie tutele. E non saranno liberati i prigionieri politici che a migliaia affollano le carceri. Peraltro, non è passato inosservato l’aumento, nelle settimane precedenti all’annuncio di El Sisi, di arresti e detenzioni per i reati d’opinione - quelli che il regime considera “reati di terrorismo” - in modo che potessero rientrare temporalmente ancora nella legislazione speciale. In ogni caso la maggior parte dei divieti e delle sanzioni sono nascosti all’interno di un numero infinito di leggi, oltre a derivare dallo status speciale di cui godono le Forze armate. Le leggi che limitano l’attività delle ong per i diritti umani sono state emanate al di fuori del quadro dello stato di emergenza e restano in vigore. Queste ong saranno ancora costrette a richiedere il permesso di operare alla Direzione generale dell’intelligence, al ministero dell’interno e, se tutto andrà bene, dovranno aspettare mesi o forse anni prima di poter svolgere il loro lavoro di monitoraggio. I mezzi d’informazione oggi non solo più liberi e tutelati di due mesi fa e i giornalisti continueranno ad autocensurarsi per non dover partecipare alla tanto temuta “conversazione telefonica amichevole” con funzionari degli apparati di sicurezza. “Dal colpo di stato militare del luglio 2013, il governo ha emesso dozzine di leggi che devono essere emendate o abrogate. Altrimenti, la revoca dello stato di emergenza migliorerà poco o nulla”, spiega Amr Magdi, ricercatore per il Medio Oriente e il Nord Africa di Human Rights Watch. Da quando El Sisi è al potere, ricorda Magdi, il governo ha introdotto dozzine di leggi che conferiscono alle forze di sicurezza poteri eccezionali. Come la legge anti-protesta del 2013 che vieta quasi tutte le forme di raduni pacifici e che ha portato all’arresto e al perseguimento di migliaia di persone. La legge per la lotta al terrorismo, del 2015, considera un reato anche la disobbedienza civile ed è stata usata in abbondanza per reprimere il dissenso pacifico e mettere a tacere chi critica il regime di El Sisi. Restano in vigore gli emendamenti del 2013 al codice di procedura penale che consentono la custodia cautelare virtualmente indefinita dei sospetti e che hanno aggiunto altre migliaia di persone, rinchiuse senza processo, alla massa dei detenuti politici. L’abrogazione dello stato d’emergenza è solo fumo negli occhi, un mezzo per evitare sanzioni all’Egitto per la violazione dei diritti umani, come i 130 milioni di dollari in aiuti congelati dagli Stati uniti. Ma è anche se non soprattutto un alibi per Usa, membri dell’Ue e altri paesi per continuare a fornire sostegno militare, economico e politico al Cairo nonostante i crimini che commettono i suoi apparati di sicurezza. Il presidente Usa Joe Biden e altri leader, chiede Human Rights Watch, non dovrebbero incontrare El Sisi in assenza di progressi significativi nel rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione, e non accontentarsi della revoca dello stato di emergenza.