Reinserire tutti, ergastolani inclusi: il fine di un carcere che salva la dignità di Massimo Brandimarte* Il Dubbio, 6 dicembre 2021 A svelare per prima la contraddizione del regime “ostativo” previsto in Italia è stata la sentenza Cedu del 2019: se “collaborare” è l’unica chance per la liberazione, l’integrità del singolo essere umano viene compromessa. la consulta ha concordato in pieno. Procura benessere, al giurista, leggere le sentenze della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Sono un esempio di chiarezza espositiva e di schiettezza giuridica. Comprensibili anche dall’uomo della strada. Come deve essere. La monumentale sentenza del 13 giugno 2019 della Cedu - caso Viola contro l’Italia - ha fissato principi ineludibili, cui deve adeguarsi il nostro ordinamento penitenziario, nella esecuzione del cosiddetto ergastolo ostativo. Ostativo, perché riguardante reati collegati alla criminalità organizzata, soprattutto mafiosa, perciò di ostacolo, in base alla legge nazionale, alla concessione di qualsiasi beneficio esterno. Per tali condannati, la prospettiva di liberazione è pari a zero, qualunque sia l’entità di pena detentiva scontata e qualsiasi successo riabilitativo interno al carcere fosse raggiunto. A meno che essi non decidano di collaborare con la giustizia, durante l’espiazione. Dunque, senza questa collaborazione, la presunzione di pericolosità a loro carico è permanente ed assoluta. Non ammette prova contraria. Base di partenza del ragionamento dei giudici europei è il riconoscimento della centralità della dignità umana del detenuto, essendo volontà degli Stati sottoscrittori della Convenzione “di aprire al reinserimento dei condannati all’ergastolo e di offrire loro una prospettiva di liberazione”. Ricorda la Corte che “il principio della dignità umana… impone di lavorare… al …reinserimento della persona e di… fornire alla stessa la possibilità di riconquistare un giorno… la libertà”. Per questo, “le autorità nazionali devono fornire ai detenuti condannati all’ergastolo una possibilità reale di reinserimento”. Secondo la Corte europea, dunque, la possibile concessione a questi detenuti di benefici esterni, sperimentali e funzionali ad un eventuale reinserimento sociale anche in un tempo lontano, non deve essere più subordinata automaticamente al requisito della obbligatoria collaborazione con la giustizia, anche perché “la Corte dubita della libertà di questa scelta”. Come si sa, l’Italia deve “conformarsi alle sentenze definitive della Corte”. Sulla scia di tale ragionamento, la Corte Costituzionale, da ultimo, con ordinanza n. 97 dell’11/5/2021, ha riaffermato il principio che la presunzione di pericolosità del condannato all’ergastolo per reati di mafia che rifiuta di collaborare non può essere assoluta e, quindi, non può impedire alla magistratura di sorveglianza di valutare elementi diversi per la concessione di benefici. La stessa Corte ha perciò invitato il Parlamento ad intervenire legislativamente sul tema, assegnando tempo sino al 10 maggio del 2022, per risolvere la problematica sollevata. La scadenza si avvicina e la Camera ha prodotto una prima bozza di disegno di legge modificativo dell’ordinamento penitenziario, finalizzato all’adeguamento al dettato dei giudici europei e costituzionali. Tuttavia, a quanto è dato conoscere, la modifica, resa complessa da comprensibili motivi di compromesso, sebbene partita con l’intento di fare luce, ha finito, involontariamente, per lasciare o creare nuove zone d’ombra, per la creazione e distribuzione di una serie di adempimenti, oneri, responsabilità, tali da lasciare le cose più o meno come prima o rendere l’ammissibilità ai benefici più virtuale che reale. Infatti, per ottenere un qualsiasi beneficio penitenziario esterno, anche non consistente nell’ammissione ad una stabile misura alternativa al carcere, occorre ora dimostrare prima di aver risarcito integralmente il danno derivante dal reato o di essere assolutamente impossibilitato a farlo. L’istante deve poi dimostrare lui stesso, in modo certo e rigoroso, di non avere più legami con la criminalità organizzata e che non ci sia il pericolo che questi legami, ove pure apparentemente interrotti, non si ripristinino, anche indirettamente. Ci si domanda in che modo, un detenuto, dopo 15, 20, 25 anni di carcere precauzionale, sia pure scontati nel pieno rispetto delle regole interne e con ottimi risultati certificati dagli educatori, possa dimostrare un dato negativo, come l’assenza di quei legami. Questo non significa che tanto buon carcere equivale ad ammissione automatica ai benefici. Significa soltanto che la verifica sulla sussistenza o meno di collegamenti con la criminalità organizzata è compito anche e soprattutto delle istituzioni, a cominciare dalla direzione carceraria, dall’equipe scientifica della personalità e dalle forze di Polizia. Verifica da compiersi in modo altrettanto certo e rigoroso, sulla base di indagini e dati concreti, attuali e non retrodatati, evitando il pericolo, segnalato dalla citata sentenza dei giudici europei, che, nelle valutazioni conclusive, la personalità del condannato resti congelata al momento del reato commesso, giacché “essa può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione, che permette alla persona di rivedere in maniera critica il suo percorso criminale e di ricostruire la sua Il disegno di legge prevede poi il rilascio di una serie aggiuntiva di pareri presso uffici giudiziari requirenti, attuali e pregressi”. La normativa così abbozzata, se tramutata in legge, non è al riparo dal rischio che il sistema finisca per rimanere ingessato in stile gattopardesco. Si è anche auspicata, da alcuni osservatori, l’istituzione di un tribunale di sorveglianza nazionale, con competenza esclusiva sulla concessione dei benefici, per lo meno in tema di ergastolo ostativo, così centralizzando le funzioni della magistratura di sorveglianza, giustificato dalla necessità di conseguire un indirizzo giurisprudenziale uniforme sull’intero territorio italiano. La proposta di istituire un tribunale di sorveglianza unico nazionale, centralizzato, con sede a Roma, con competenza esclusiva sui detenuti sottoposti all’ergastolo ostativo, presta il fianco a critiche molteplici ed insuperabili. Innanzitutto, il pluralismo di idee dei giudici di merito è sempre stato considerato garanzia di democraticità giuridica e di fruttuosa evoluzione della giurisprudenza, ferma restando la funzione regolatrice della Corte di Cassazione sui principi di diritto. La proposta, poi, contraddice al principio generale che concepisce la giurisdizione come servizio necessariamente legato al territorio. Se questo servizio non coprisse ogni area geografica di competenza e non raggiungesse tutte le fasce di popolazione, non ci sarebbe giustizia uguale per tutti. La difesa non sarebbe piena. Il contraddittorio non sarebbe pari. Non ci sarebbe giusto processo. Il richiamo alla vigente competenza, in tema di reclamo avverso l’applicazione del carcere duro ex articolo 41 bis, del Tribunale di sorveglianza di Roma, come modello da assumere, non è del tutto pertinente. Questa competenza, infatti, è circoscritta alla impugnazione dei provvedimenti ministeriali di sospensione del trattamento, quindi attiene esclusivamente allo svolgimento della vita del detenuto all’interno del carcere e non si estende all’ambito dei benefici penitenziari esterni, che restano soggetti alle ordinarie regole sulla competenza territoriale dei singoli tribunali di sorveglianza. Attenzione: il procedimento di sorveglianza può richiedere l’acquisizione di prove extra documentali, ad esempio testimonianze, da assumere, per legge, “in udienza nel rispetto del contraddittorio”. Ciò sarebbe impraticabile, dinanzi ad un tribunale di sorveglianza centralizzato. Nella composizione attuale del Tribunale di Sorveglianza, il legislatore ha stabilito che “uno dei due magistrati ordinari deve essere il magistrato di sorveglianza sotto la cui giurisdizione è posto il condannato o l’internato in ordine alla cui posizione si deve provvedere”. Il motivo è evidente: solo una effettiva sorveglianza in loco della vita carceraria del detenuto può garantirne una piena conoscenza ed assicurare un’attenta, ragionata e consapevole verifica del processo di riabilitazione compiuto. Questo è il perno dell’ordinamento penitenziario italiano, quale corollario dell’articolo 25 della Costituzione, senza di che crolla l’intera costruzione. La magistratura di sorveglianza deve effettivamente sorvegliare. Quindi, deve seguire da vicino l’andamento del trattamento penitenziario. Per questo, essa ha il diritto-dovere di entrare in colloquio con il detenuto, senza distinzione alcuna. Tutto questo sarebbe impossibile, senza un tribunale dislocato sul territorio. La Cedu ha ribadito che “la risocializzazione deve orientare l’azione” non solo del legislatore, ma anche “del giudice della sorveglianza”. Con un unico giudice nazionale, la finalità resterebbe negletta. Certo, tutto si può modificare. Ma, stravolgere l’impianto attuale dell’ordinamento penitenziario significa cancellarne la filosofia di base e compiere un salto acrobatico giuridico all’indietro. Dopo 20 o 25 anni di detenzione carceraria, gli unici in grado di riferire sull’evoluzione del detenuto saranno gli educatori penitenziari. Non è impossibile, ma è ben difficile, dopo un intervallo di tempo così ampio, corrispondente ad un ricambio generazionale demografico, che le istituzioni esterne possano fornire elementi concreti circa l’avvenuta rescissione dei legami con la malavita organizzata. Per il diretto interessato, magari totalmente recuperato, come potrebbe essere richiesta e fornita la prova, diabolica, di un fatto negativo? C’è una soluzione? C’è sempre una soluzione alle cose. Basta volerla trovare. Ad esempio, il sistema potrebbe prevedere che l’autorità penitenziaria demandi alle forze di polizia la verifica periodica sulla sussistenza o meno di collegamenti esterni con la criminalità organizzata, di pari passo con il trattamento interno, allo scopo di comprovare in tempo reale l’ autenticità dei progressi rieducativi compiuti in carcere e di motivare, con cognizione di causa, eventuali proposte di sperimentazione in esternato. Sarebbero inutili indagini di polizia rimandate ad un tempo indefinito e sganciate dal corso del trattamento penitenziario, come se questo non fosse finalizzato al reinserimento sociale in ogni momento utile e possibile, evitando che il regime delle verifiche si trasformi in una specie di gioco dell’oca fuori tempo. La soluzione o risposta al problema non soffia nel vento, ma va ricercata dentro la motivazione della sentenza Cedu, quando questa afferma che “la personalità del condannato non resta congelata al momento del reato commesso. Essa può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione, che permette alla persona di rivedere in maniera critica il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità”. Verifiche sì, ma in tempo reale ed allineate al trattamento penitenziario. *Magistrato, già presidente Tribunale di Sorveglianza di Taranto Malati psichiatrici dietro le sbarre, l’ultima vergogna del sistema carcerario di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 6 dicembre 2021 Le Rems sono appena 32 e nemmeno distribuite su tutto il territorio, In attesa che si liberi un posto continua la detenzione negli istituti di pena. Le ripetute denunzie della associazione Antigone e di Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino, hanno finalmente avuto esito. E il padiglione del carcere Lorusso e Cutugno di Torino utilizzato per i detenuti con problemi psichiatrici è stato sgomberato e sarà ristrutturato. Viene rimossa una situazione di inumanità degradante, legata principalmente allo stato materiale di quei locali. Ma rimane un problema generale, che riguarda la società nel suo insieme e specialmente quei detenuti, in più malati, che sono nelle mani e nella responsabilità dello Stato. La legge prevede i casi in cui ai condannati o prosciolti per infermità di mente, socialmente pericolosi, sono applicate misure di sicurezza. Tra esse il codice penale menzionava gli ospedali psichiatrici, che con la legge del 2012 sono stati chiusi. Come documentato - anche per il lavoro e la Relazione finale (2011) della Commissione di inchiesta senatoriale sul Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino - si trattava di luoghi incompatibili con il divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanità. Ma, chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari, restava il problema del trattamento di pazienti psichiatrici pericolosi. Essi sono oggetto di una misura di sicurezza imposta da una sentenza penale definitiva o da un provvedimento cautelare disposto dal giudice nel corso del processo penale. Nell’intento di contemperare le esigenze di difesa sociale con la necessità di trattamenti terapeutici riabilitativi, la legge stabiliva che, entro il 2013, si istituissero strutture di carattere sanitario, con mezzi di sicurezza e vigilanza esterna solo nella misura del necessario. Di rinvio in rinvio le Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) vennero create a partire dal 2017. Per rispettare il carattere sanitario delle nuove strutture e consentire il mantenimento dei rapporti familiari e sociali, si previde che esse fossero diffuse sul territorio e di dimensioni ridotte (non più di 20 ricoverati). Trattandosi di istituti sanitari è prevista la primaria responsabilità delle Regioni. La legge stabilisce che il giudice disponga il ricovero nelle Rems dell’infermo o seminfermo di mente pericoloso solo se nessun’altra misura di sicurezza sia sufficiente ad assicurare cure adeguate e considerazione della sua pericolosità sociale. Tuttavia, il numero delle Rems effettivamente istituite non è sufficiente al ricovero delle persone cui il giudice abbia applicato la misura del ricovero. Sono 32 in 16 Regioni diverse. Si sono così create liste di attesa regionali. Se si tratta di detenuti, in attesa che si liberi un posto, continua la detenzione in carcere. Se invece non si tratta di detenuti, essi rimangono in libertà o soggetti alla sola libertà vigilata. I problemi che si pongono sono evidenti e gravi. Infermi di mente pericolosi non sono trattati come sarebbe necessario. Sia se liberi, sia se detenuti la loro infermità e la loro pericolosità non è adeguatamente gestite sul territorio o in carcere. In carcere poi il personale penitenziario manca della preparazione specifica per il trattamento di infermi psichiatrici. Sia questi che il personale penitenziario sono sottoposti a pesantissime condizioni di vita e di lavoro. La situazione è grave sotto più di un aspetto. L’ha anche denunziata il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. C’è l’illegalità della detenzione in carcere di persone che la legge e la decisione del giudice obbligano a trasferire nelle Rems, facendo così cessare lo stato di detenzione. C’è l’inumanità del trattamento, per le condizioni delle celle e comunque per l’inidoneità del necessario trattamento sanitario. Tra poco interverrà la Corte costituzionale, che deve decidere una questione di costituzionalità riguardante proprio il mancato ricovero in una Rems disposto dal giudice. La Corte ha chiesto ai ministri della salute e della giustizia, oltre che al presidente della Conferenza delle Regioni una serie dettagliata di informazioni. Tra le altre, il numero delle Rems, quello dei pazienti ricoverati in Regioni diverse da quelle di origine, le dimensioni delle liste di attesa e la loro durata, il numero e la tipologia dei reati commessi dalle persone oggetto di un ordine di ricovero in Rems, quante di tali persone siano collocate in una struttura penitenziaria o in reparti ospedalieri di medicina psichiatrica oppure siano sottoposte alla misura di sicurezza della libertà vigilata, quali siano le difficoltà operative della Rems. Si aspetta la risposta dei ministeri, che dovranno trovare una posizione che superi il loro discorde orientamento. Oltre al suo contenuto specifico, l’approfondimento che la Corte ha disposto è di grande interesse, poiché indica un atteggiamento attento alla realtà della applicazione delle leggi, piuttosto che la riduzione del ruolo della Corte ad un confronto astratto tra la legge sospettata di incostituzionalità e la Costituzione. Si tratta di un ordine di idee che richiama il metodo della Corte europea dei diritti umani, che tende a considerare “diritti concreti ed effettivi e non teorici e illusori”. Teorici e illusori sono i diritti scritti nelle leggi, se non riescono a diventare effettivi nella loro concreta applicazione. Il problema che la Corte costituzionale sta esaminando è anche davanti alla Corte europea, che ha ricevuto più di un ricorso e ha chiesto chiarimenti al governo relativamente sia alla continuazione illegale della detenzione, sia ai trattamenti sanitari. La Corte europea ha posto la questione della natura sistemica delle violazioni della Convenzione europea dei diritti umani da parte dell’Italia nei confronti di coloro che continuano ad essere detenuti, non ostante l’ordine del giudice di ricovero. Occorrono concreti provvedimenti urgenti, poiché è prevedibile che la attuale situazione sia “condannata” sia dalla Corte costituzionale che dalla Corte europea, come illegale, pericolosa e produttiva di trattamenti inumani. Affetti in carcere di Claudio Cerasa Il Foglio, 6 dicembre 2021 Sovraffollamento, pochi spazi verdi e colloqui telefonici con costo sproporzionato e mancanza di privacy. Queste le ragioni che rendono assenti o frustranti i contatti tra detenuti e familiari, privandoli di spazi fisici per l’affettività. Lo conferma una ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, dalla quale scaturisce l’appello affinché tutte le regioni presentino una proposta di legge analoga a quella della Toscana, oggi arenata, a cominciare dal Consiglio regionale del Lazio. Numeri di Onelia Onorati. 53.637 - I reclusi in Italia secondo il Rapporto Antigone più recente (giugno 2021), di cui 2.228 donne (4,2 per cento), 17.019 stranieri (32,4 per cento) per 50.779 posti ufficialmente disponibili e un tasso di affollamento del 105,6 per cento. Sessantasette i suicidi nel corso del 2018, 53 nel 2019, 62 nel 2020 e ben 49 al 23 novembre 2021. 30 - I bambini presenti nelle carceri italiane a giugno 2021, si tratta dei figli delle donne detenute, le quali possono scegliere di portare con sé i bambini fino a un’età di sei anni. 5.610 - Le persone detenute nel Lazio al 31 ottobre scorso secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), 30 in più rispetto al mese precedente. Per riformare gli istituti c’è un disegno di legge presentato a luglio 2020 in commissione Giustizia del Senato, su iniziativa del Consiglio regionale della Toscana, che vede come relatrice la senatrice Monica Cirinnà. 50 - La percentuale di detenuti intervistati dall’Università di Cassino che riferisce relazioni familiari in bilico a causa di bisogni insoddisfatti e mancanza di intimità. In particolare i colloqui telefonici, della durata di appena 10 minuti, sono gestiti da operatori esterni che applicano tariffe sproporzionate e sono privi di privacy. Sono inoltre a pagamento sia le email in uscita che quelle in entrata. 51 per cento - I detenuti che hanno avuto contatti con la famiglia durante la pandemia più di due volte al mese, in presenza, con telefonate, lettere ed e-mail, poche le videochiamate. L’assenza di spazi adeguati e dedicati rappresenta l’elemento di difficoltà prevalente per i detenuti con figli minori (38 per cento). Indagini urlate e assoluzioni taciute, cortocircuiti tra stampa e giustizia di Paolo Itri Il Riformista, 6 dicembre 2021 L’anniversario della morte di Francesco Nerli offre lo spunto per una riflessione di carattere più generale riguardo ai rapporti tra magistratura, informazione, potere e processo. Com’è noto, la vicenda di Nerli risale all’ormai lontano 2008, allorquando l’ex presidente dell’autorità portuale venne sottoposto al divieto di dimora con l’accusa di concussione per avere chiesto denaro ad alcuni rappresentanti di società operanti nello scalo marittimo napoletano con l’obiettivo di finanziare la campagna elettorale del Pds in Campania in occasione delle regionali del 2005, delle politiche del 2006 nonché delle amministrative del 2007. Nonostante le sue rivendicazioni di innocenza, il manager subirà un lungo e tormentato processo e ci vorranno otto lunghi anni prima che il Tribunale di Napoli lo mandi assolto da ogni accusa con la formula “perché il fatto non sussiste”. Dicono che l’uomo abbia sofferto molto per quella storia, tanto da ammalarsi e morirne. Chissà se la sua malattia sia stata davvero una conseguenza di quel dolore. Fatto sta che da più parti si invoca la vicenda per tornare a parlare di ragionevole durata del processo e di responsabilità civile dei magistrati. Io credo invece che questa debba piuttosto costituire l’occasione per riflettere sullo stato dei rapporti tra stampa e magistratura nel nostro Paese. Proviamo prima di tutto a chiederci quale sia la lezione che occorre trarre da tutta questa vicenda, che è umana prima ancora che giudiziaria. Nerli fu vittima di una gogna mediatica che cominciò all’indomani delle perquisizioni eseguite dalla Guardia di finanza, divenendo suo malgrado protagonista di una storia che ebbe larga eco sulla stampa sia locale che nazionale. Fiumi di inchiostro vennero all’epoca versati per raccontare come era nata l’indagine e per spiegarci quanto bravi fossero stati i magistrati inquirenti a scoprire il sistema delle tangenti. Poi cominciò il processo - un processo lungo e complicato durante il quale vennero sentiti i testimoni, e le tesi dell’accusa vennero finalmente messe a confronto con quelle della difesa - ed ecco l’anomalia: il silenzio calò sulla vicenda. Un silenzio interminabile, assordante, ingiusto e inspiegabile. Eppure la magistratura rappresenta un potere dello Stato. Un potere diffuso, è vero, ma pur sempre un potere. E allora come si spiega - una volta esauriti i fuochi d’artificio delle prime indagini - tutto questo disinteresse, questa mancanza di attenzione da parte dell’informazione (almeno di quella che conta) sui successivi sviluppi di questa come di numerose altre analoghe vicende? E ancora, è mai possibile che a nessuno degli organi a cui spetta di valutare la professionalità dei magistrati e la funzionalità degli uffici giudiziari - e quindi in primo luogo al Csm- interessi o sia venuto in mente di approfondire le ragioni di un simile fallimento (perché l’assoluzione di un imputato innocente dopo otto anni di indagini e di processo rappresenta pur sempre e per definizione un fallimento)? Ebbene, a me pare che proprio questa assenza di ogni controllo costituisca la vera anomalia italiana. In un Paese liberale l’informazione rappresenta il principale baluardo della democrazia, un fondamentale strumento di controllo contro gli abusi e le inefficienze del potere. Ricordiamo ancora oggi la storica inchiesta del Washington Post che nel 1972 portò alla luce lo scandalo Watergate con la richiesta di impeachment e le conseguenti dimissioni del presidente Richard Nixon. Noi non pretendiamo così tanto, ci mancherebbe. In verità ci basterebbe molto di meno. Ma vorremmo almeno sapere per quale ragione, in questo nostro strano Paese, accada spesso che alcune inchieste, all’inizio così tanto pubblicizzate da certa stampa, si concludano, a distanza di anni, con proscioglimenti e assoluzioni che non interessano ormai più a nessuno. Addio riforma del Csm, ma se ne accorgono solo i vescovi di Paolo Comi Il Riformista, 6 dicembre 2021 Non passa giorno senza che si siano notizie di malagiustizia, la credibilità delle toghe è da tempo sotto zero, gli effetti nefasti del Palamaragate continuano a farsi sentire, come nella vicenda per la nomina del nuovo procuratore di Roma, ed il Parlamento cosa fa? Ha rinviato giovedì scorso ancora una volta la discussione per la riforma della magistratura e del Csm. Il motivo? Il governo non ha, a quasi un anno dal suo insediamento, preparato gli emendamenti al testo presentato all’inizio dell’estate del 2019 dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Chiunque, davanti ad un quadro del genere, e ricordando i continui richiami del capo dello Stato Sergio Mattarella a fare presto, si sarebbe aspettato di leggere la notizia dell’ennesimo rinvio della discussione generale su tutti i giornali di ieri. Ed invece nulla. A parte Il Riformista che ha dedicato l’apertura al rinvio della discussione in Commissione giustizia sulla riforma del Csm e sulla magistratura, silenzio totale. Non c’è una riga su Corriere della Sera e Repubblica, che cavalcarono il Palamaragate nell’estate del 2019, non c’è una riga sul Fatto Quotidiano, sempre molto attento a questi temi e sul quale scrivono un numero considerevole di magistrati, sia in servizio che in pensione, e non c’è una riga su quei giornali di destra che dovrebbero avere il dente avvelenato nei confronti delle toghe dopo il trattamento ormai trentennale riservato dalle Procure del Paese a Silvio Berlusconi e, ultimamente a Matteo Salvini e ai vari governatori leghisti, ad iniziare da quello della Lombardia Attilio Fontana, fresco di rinvio a giudizio a Milano per i camici donati allo scoppio della pandemia. A dirla tutta, comunque, un articolo su quanto accaduto in Commissione giustizia c’è. È su Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana. Avvenire ha dedicato al rinvio un editoriale in prima pagina dal titolo “Vietato non rifare il Csm”, proprio di fianco all’articolo con foto della visita di papa Francesco a Cipro. Che il giornale dei vescovi si interessi a temi “terreni” sorprende alquanto. Ma il motivo è ben spiegato nel pezzo: “Senza nulla togliere alle riforme del processo penale e civile, si può dire che la riforma del Csm è la “vera” riforma della giustizia”. “Senza una magistratura - prosegue - libera dal correntismo, dal protagonismo di alcuni suoi membri, e dall’appannamento della sua immagine agli occhi dei cittadini non avremo mai un sistema in grado di fornire un buon servizio e di infondere fiducia agli investitori stranieri”. Più chiaro di così era difficile. Avvenire ricorda poi ai suoi lettori il potere del Csm in tema di assunzioni, promozioni, trasferimenti, sanzioni disciplinari dei magistrati. Un Csm “ostaggio delle correnti”, come affermato proprio al Riformista nelle scorse settimane dal giudice Andrea Reale, esponente di Articolo 101, il gruppo anti-correnti. Il problema principale, a parte i tempi che si trascinano, riguarda la ministra della Giustizia Marta Cartabia. La Guardasigilli ha intenzione di affidarsi al testo messo a punto dalla Commissione di studio presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani. Si tratta di riforme, come quella per l’elezione dei componenti togati del Csm, che “daranno ancora più potere alle correnti” hanno fatto sapere gli esponenti di centro destra in Commissione giustizia alla Camera, ad iniziare dal forzista Pierantonio Zanettin. “Meglio non toccare nulla e lasciare le cose come stanno piuttosto che approvare una riforma del genere”, ha detto Zanettin. Purtroppo il futuro non sembra riservare nulla di buona. Con la beffa che il testo possa essere approvato a “scatola chiusa”, con il voto di fiducia, seguendo una prassi consolidata del governo Draghi. Ieri il vice presidente del Csm David Ermini è tornato sull’argomento. “Spero che il Parlamento approvi in tempi assolutamente celeri la riforma del Csm”, ha detto Ermini. Giudizio disciplinare, il miraggio dell’Alta corte esterna di Alberto Cisterna Il Riformista, 6 dicembre 2021 Ma siamo sicuri che sia una buona idea? E tre. Dopo gli interventi di Luciano Violante e Giovanni Canzio è stato il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, a tornare sul tema della giustizia disciplinare delle toghe e a invocare la costituzione di un’unica Alta Corte che valuti le condotte di tutti i magistrati italiani a qualunque ordine (ordinario, amministrativo, contabile, tributario) essi appartengano. Tutte e tre le autorevoli prese di posizione muovono esplicitamente dalla convinzione che sia necessario sottrarre la giustizia disciplinare all’interferenza delle correnti e dei loro esponenti dentro e fuori gli organi di autogoverno. La questione è delicata. Il giudizio disciplinare costituisce, probabilmente, l’espressione più alta dell’autogoverno delle magistrature e, quindi, della sua funzione di garante dell’autonomia e dell’indipedenza di ciascun ordine giudiziario. Il fatto che uomini di primo piano delle istituzioni invochino l’esternalizzazione dei procedimenti disciplinari dal circuito dell’autogoverno per assegnarlo, fuori da esso, a un pur prestigioso consesso costituisce il segno evidente che qualcosa di profondo e di radicale non funziona in quel mondo e la cosa è tanto più allarmante in quanto la proposta proviene da magistrati (Canzio e Patroni Griffi) che hanno esercitato o esercitano funzioni apicali proprio nel sistema della giustizia disciplinare. Il presidente Canzio ha fatto parte, quale presidente della Cassazione, del Csm ed era all’apice dell’organo chiamato a sindacare anche le sentenze della Sezione disciplinare dello stesso Csm (ossia le sezioni unite di piazza Cavour). Sarebbe, ovviamente, necessaria una riforma costituzionale. Quindi, all’incirca, per almeno altri tre o quattro anni neanche a parlarne, salvo che l’elezione del presidente della Repubblica non consegni nuove maggioranze capaci di proiettarsi nelle prossime Camere che abbiano a cuore le sorti della giustizia italiana, ma al momento di metter mano alla Costituzione non ne parla nessuno, vista anche la maledizione che colpisce ogni riformatore (Renzi da ultimo). E quindi? Verrebbe da chiedersi che fare. Inizia il dibattito per la riforma del sistema elettorale del Csm così tanto sollecitata dal Quirinale al ministro Cartabia. Abbiamo già scritto che la presidenza della Repubblica spinge perché entrino a far parte dell’organo dell’autogoverno magistrati di provata esperienza e di alto profilo e auspica che la riforma favorisca questa opzione. Uno spiraglio, forse. Un’occasione, volendo. C’è da chiedersi quale disposizione costituzionale faccia divieto di chiamare i magistrati italiani a votare non solo per la composizione del Csm, ma più specificamente per indicare i componenti della Sezione disciplinare. Si ricordi che quella Sezione è l’unica la cui composizione non muta nei quattro anni in cui il Csm resta in carica e tecnicamente sarebbe possibile consegnare a ciascun elettore due schede. Nella prima si esprimerebbero le preferenze per i componenti del Csm, nell’altra i soli nomi dei quattro componenti togati che dovrebbero dar vita alla Sezione disciplinare. Il tutto senza alcun vincolo di lista e consentendo candidature senza una previa presentazione da parte dei gruppi associativi. Parimenti, sempre per legge, nulla impedirebbe al Parlamento in seduta comune di designare il componente laico che andrebbe a comporre la stessa Sezione disciplinare, ferma la presidenza che deve spettare al Vice presidente eletto dal Csm tra i consiglieri di nomina parlamentare. I 5/6 della Sezione disciplinare sarebbero, così, chiamati a esercitare la peer review - ossia a sindacare le condotte dei magistrati italiani - in forza di una precisa investitura rilasciata dal corpo elettorale dei giudici e dal Parlamento e con l’autorevolezza che da ciò deriva; probabilmente anche con un’indipendenza dalle correnti e, forse, dalla politica che pare a quel parterre di fini giuristi una necessità improcrastinabile. Certo, è chiaro, resta il problema dei supplenti, ma con un pizzico di buona volontà si supera anche questo scoglio e lavorando sulla scheda la soluzione si troverebbe agevolmente. Il giorno in cui la politica morì nel racconto di Filippo Facci di Davide Varì Il Dubbio, 6 dicembre 2021 La cronaca del voto di autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi raccontata da Filippo Facci nel suo libro, “30 Aprile 1993, L’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica”, Marsilio Editore. La Camera si avvia a votare con scrutinio segreto. Alcuni ministri del nuovo governo indossano ancora l’abito scuro della cerimonia per il giuramento. Il voto per le autorizzazioni a procedere è uno dei pochi voti rimasti segreti perché riguarda opinioni personali e non di partito, come è sempre stato anche per il voto sui provvedimenti disciplinari degli ordini professionali e nondimeno del Consiglio superiore della magistratura e dell’Ordine dei giornalisti. Il voto sempre palese era una peculiarità dei regimi fascisti e comunisti. “Dichiaro aperta la votazione”, dice il presidente della Camera, Giorgio Napolitano. Si vota per la prima autorizzazione, quella per corruzione a Milano. Passano cinque, sei, dieci secondi mentre l’aula si è fatta silenziosa. Napolitano prolunga l’attesa ancora un attimo, guarda verso i banchi democristiani con un piccolo binocolo. “Avete votato tutti?” “Dichiaro chiusa la votazione. Presenti 565, maggioranza 283, favorevoli 273, contrari 291 e un’astensione. La Camera respinge”. Un brusio indistinto, come inceppato. “Questa è la maggioranza del Governo Ciampi!”, urla Mauro Paissan. “Onorevole Paissan!”, lo riprende Napolitano, “Dobbiamo proseguire le votazioni, ce ne sono altre quattro”. “Vergogna, vergogna!”, urla a squarciagola il leghista Marco Formentini, “Ladri, ladri!”, “Elezioni, elezioni!”, fanno eco i suoi colleghi di partito assieme a quelli del Movimento sociale, mentre Stefano Apuzzo dei Verdi grida e si agita. Napolitano: “Lasciate proseguire le votazioni”. La protesta è come sospesa, indecisa, mentre si passa alla votazione per le ipotesi di corruzione a Roma. “Dichiaro chiusa la votazione. Presenti e votanti 560, maggioranza 281, voti favorevoli 282, voti contrari 278. La Camera approva”. Gli stessi deputati di prima, leghisti e missini, questa volta applaudono. Napolitano: “Onorevoli colleghi, vi prego di astenervi da applausi in qualsiasi direzione. Non sono votazioni da commentare con gli applausi”. Si passa a votare l’ipotesi di corruzione “in luogo non accertato”. Napolitano: “Onorevoli colleghi del gruppo della Lega Nord, vi prego vivamente di votare ciascuno dal proprio posto. Invito tutti i colleghi a rimanere seduti. Se vi sono indicazioni circa la regolarità della votazione, prego i colleghi di farle segnalare dal presidente di gruppo”. Il voto è una scheggia, Napolitano accelera per renderla indolore, ha capito l’aria che tira. “Dichiaro chiusa la votazione. Presenti 562, votanti 561, astenuti 1, maggioranza 281, voti favorevoli 257, voti contrari 303. La Camera respinge”. Poi si vota l’ipotesi di violazione del finanziamento pubblico a Milano e a Roma. “Dichiaro chiusa la votazione. Presenti 559, votanti 558, astenuti 1, maggioranza 280, voti favorevoli 314, voti contrari 244. La Camera approva”. C’è disorientamento, non è chiaro che cosa stia succedendo, si accavallano votazioni contrastanti. Ma è tutto velocissimo. Si vota l’ipotesi di ricettazione a Milano e connesse ipotesi di violazioni del finanziamento pubblico a Roma. “Dichiaro chiusa la votazione. Presenti 561, votanti 560, astenuti 1, maggioranza 281, voti favorevoli 253, voti contrari 307. La Camera respinge”. Dai banchi del Movimento sociale si ricomincia a gridare mentre i leghisti scandiscono: “Elezioni, elezioni!”. Napolitano: “Abbiamo inteso, onorevoli colleghi… Onorevoli colleghi!”. Ormai è il caos, il Parlamento si è caricato a molla. L’ultimo voto riguarda la possibilità di perquisire Craxi per le due ipotesi di reato per cui l’autorizzazione è stata concessa: quindi poter controllare registri, estratti conto, bilanci, contratti e così via. “Dichiaro chiusa la votazione. Presenti e votanti 561, maggioranza 281, voti favorevoli 245, voti contrari 316. La Camera respinge”. La seduta è terminata. Autorizzazione per quindici casi e mancata autorizzazione per ventisei: in pratica sono state concesse le autorizza zioni per le indagini a Roma e respinte quelle a Milano. Ed è un’esplosione. Mezzo emiciclo batte le mani sui banchi, un deputato leghista alza le braccia e fa il segno delle manette, missini e leghisti lanciano in aria dei foglietti di carta o dei volantini, non si capisce bene, “Ladri, ladri!”, “Ladri di regime!”, “Mafiosi!”, Leoluca Orlando della Rete urla “Bravi, bravi!” e applaude in segno di scherno, il socialista Mario Raffaelli, solitamente mite, avanza verso di lui, “Elezioni, elezioni!”, il socialista Giulio Di Donato raccoglie da terra un grosso fascicolo e lo scaglia verso le opposizioni, è il caos, volano oggetti, i socialisti Francesco Barbalace e Giacomo Maccheroni vengono trattenuti dai colleghi mentre cercano di scaraventarsi verso i deputati della Rete, urlano “come fate a chiamarci ladri? Ma voi chi siete, da dove venite? Da dove vengono i vostri voti?”. E ancora strepiti, ingiurie, pugni levati, scontri fisici, la situazione sembra incontrollabile e il presidente Napolitano ordina di sgomberare le tribune della stampa e del pubblico. I commessi della Camera corrono per sedare gli scontri, l’assenza dei neoministri dai loro banchi permette loro di muoversi meglio al centro dell’aula, così formano un cordone umano che divide in due l’emiciclo. E, mentre i parlamentari defluiscono e continuano a litigare animosamente nei corridoi, per terra si vedono dei volantini che evidentemente erano stati preparati, dunque preventivati, previsti. Tempo due minuti e a Montecitorio è il silenzio. A telefonare a Craxi è il giornalista Nino Neri, suo amico e commensale: “Dimmelo di nuovo”, replica incredulo l’ex segretario. Nino Neri, nella foga, sbaglia pure, e gli regala una mancata autorizzazione Francesco Saverio Borrelli, da casa, richiama la sala stampa del tribunale. È gelido come sa essere. La maggior parte dei giornali riporterà le sue parole così: “La decisione della Camera è sconcertante. Sembra studiata allo scopo di sottrarre il parlamentare a una prospettiva di condanna… La procura si riserva di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Si ritiene che il Parlamento abbia invaso la sfera di attribuzione del potere giudiziario”. Prospettiva di condanna. Conflitto di attribuzione. Corte costituzionale. Non è molto chiaro, ma Cinzia Sasso della “Repubblica” riporta le parole del procuratore capo in maniera all’apparenza più completa: “Il Parlamento ha sovrapposto una propria valutazione giuridica a quella della magistratura artificiosamente scindendo le qualificazioni e in questo modo invadendo la competenza dell’autorità giudiziaria, giacché l’autorizzazione riguarda il procedimento in relazione a un fatto, ma non può sindacare la qualificazione giuridica che appartiene alla competenza esclusiva del pubblico ministero e del giudice nella fase di giudizio”. Così dovrebbe essere più chiaro. Forse. Con Goffredo Buccini del “Corriere”, con il quale Borrelli ha un rapporto preferenziale, le parole del procuratore capo diventano queste: “Hanno concesso l’autorizzazione per tutti i fatti di finanziamento illecito, ovviamente nella prospettiva che presto o tardi il reato venga depenalizzato”. Quindi? E una sera di fine aprile, il Parlamento si consegnò nelle mani delle procure di Paolo Delgado Il Dubbio, 6 dicembre 2021 L’articolo 68 della nostra carta costituzionale venne stravolto in piena tangentopoli. L’Immunità parlamentare, così come era stata sancita dai costituenti nell’art. 68 della Carta, morì la sera del 29 aprile 1993 a Montecitorio. Probabilmente la sua sorte sarebbe stata segnata comunque, la riforma costituzionale era sul tavolo già da un anno. Ma il colpo fatale fu il voto segreto con il quale, in quella tempestosa sera di fine aprile, la Camera negò l’autorizzazione a procedere contro il segretario del Psi Bettino Craxi. Forse nessun voto nella storia della Repubblica ha provocato un terremoto di tale magnitudo. Nell’emiciclo volarono botte, insulti e cazzottoni come in una taverna. Un governo nascituro, quello di Carlo Azeglio Ciampi, rischiò di morire in culla e nacque gracile, molto diverso da come era stato pensato fino a un attimo prima del voto di Montecitorio. Strategie ambiziose volte a salvare il sistema dei partiti dallo tsunami di tangentopoli finirono nei cestini della carta straccia di Montecitorio. Per l’immunità parlamentare iniziò un conto alla rovescia, che si concluse esattamente 6 mesi dopo, quando il Senato approvò in via definitiva e con maggioranza qualificata dei due terzi degli aventi diritto la riforma costituzionale che stravolgeva l’art. 68. Il 13 ottobre la Camera si era espressa allo stesso modo e con la stessa maggioranza qualificata, rendendo così evitabile il referendum confermativo. La riforma era già approvata in via definitiva. Sarebbe andata così anche senza il trauma del voto che sula carta avrebbe dovuto salvare Craxi? Probabilmente sì. Ci sarebbe voluto più tempo però, forse anche altri due anni: le camere infatti temporeggiavano, si rimpallavano il testo, aspettavano speranzose che la tempesta passasse. Il ‘giorno della vergogna’, come fu ribattezzato il voto su Craxi costrinse a prendere la rincorsa. Ma la sorte dell’art.68, versione originaria, era segnata. Il clima nel Paese era quello. L’immunità, nata per proteggere i parlamentari da ogni minaccia e modellata sull’allora recente esperienza del regime fascista, era vissuta dal colto e dall’inclita come ‘una tutela per i ladri’, formula spiccia adoperata da un importantissimo quotidiano. Le nuove regole vanificarono il voto che metteva Craxi al riparo dall’inchiesta e forse, senza la caccia al cinghialone, il testo sarebbe stato lievemente diverso. Ma è ben poco probabile. Lo scontro parlamentare ci fu, ma con i partiti che chiedevano restrizioni dell’immunità ancora più drastiche. Nessuno votò contro la riforma, solo il Pli si astenne. Se al Senato, nell’ultima votazione, il quorum qualificato dei due terzi fu superato di soli sei voti, con 224 approvazioni, non fu per una silenziosa resistenza ma perché in entrambe le camere la falcidie degli avvisi di garanzia lasciava puntualmente vuoti i banchi. Il plauso peraltro fu generale. Il presidente del Senato Spadolini esaltò la sepoltura di ‘privilegi anacronistici’. L’omologo alla guida della Camera, Giorgio Napolitano, profetizzò l’imminente miglioramento dei rapporti tra politica e magistratura e mai ci fu profezia meno azzeccata. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, l’autorevolissimo costituzionalista Paolo Barile, elogiò l’’atto di civiltà’. Dell’art.68 restava intatta solo la prima parte, in base alla quale “i membri del parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Spariva invece il passaggio chiave, quello che impediva di sottoporre i parlamentari al processo penale senza apposita autorizzazione. Lo scontro politico era stato sulle altre voci che continuavano e continuano a esigere l’autorizzazione della camera di appartenenza: perquisizione personale e domiciliare, arresto salvo il caso di flagranza, intercettazione. Sulla carta era puro buon senso e in effetti la possibilità di sottrarre all’azione penale i parlamentari era inspiegabile. Ma nella temperie che si era creata in Italia dopo tangentopoli, la possibilità di aprire comunque l’azione penale espose i politici a processi sommari da parte dell’opinione pubblica prima che delle corti di giustizia. Il limite della riforma, spiegava pochi mesi fa Sabino Cassese, è dovuto specialmente per l’uso che le procure hanno fatto dei procedimenti penali, che hanno dato luogo a quella che viene chiamata correntemente la gogna e più precisamente si può chiamare una procedura di naming and shaming, connessa ad una forte politicizzazione delle procure. Questo dimostra che, se il Parlamento aveva fatto un cattivo uso delle autorizzazioni a procedere, le procure hanno fatto un cattivo uso dei procedimenti penali, una volta aperta la strada dalla modifica dell’art. 68’. Di conseguenza alcuni casi di richieste di autorizzazione sono diventati veri e propri campi di battaglia. A carico di Nicola Cosentino, coordinatore campano di Forza Italia accusato di relazioni strette con i Casalesi, fu chiesta l’autorizzazione all’arresto, negata del 2009 prima dalla Giunta per le autorizzazioni, poi dall’aula. L’anno successivo Giunta aula respinsero la richiesta di autorizzazione all’uso delle intercettazioni. Nel 2012, di nuovo, tanto la Giunta quanto l’aula negarono l’arresto di Cosentino ma nel 2015 fu invece concesso l’uso delle autorizzazioni e Cosentino, ormai ex parlamentare fu condannato nel 2016. Raffaele Fitto, ex governatore della Puglia e tra i principali leader di Fi, chiese che si concedesse l’autorizzazione agli arresti domiciliari richiesta dalla procura di Bari, La Camera non accolse né l’invito di Fitto né la richiesta di procedere con l’arresto. Il procedimento si è poi concluso con l’assoluzione. Nel 2011, invece, la Camera autorizzò l’arresto dell’ex magistrato e deputato del Pdl Alfonso Papa. Sulle battaglie parlamentari di vario tipo, autorizzazioni a procedere incluse, per gli innumerevoli procedimenti a carico di Silvio Berlusconi si potrebbero scrivere enciclopedie, ma negli ultimi anni a sostituire il Cavaliere come imputato eccellente è stato Matteo Salvini. Nel marzo 2019 il Senato respinse la richiesta di autorizzazione per il caso del blocco della nave ‘Diciotti’. Nel maggio dell’anno seguente, con la maggioranza nel frattempo cambiata, l’uscita della Lega dal governo e l’ingresso del Pd, la giunta e poi l’aula accolsero la richiesta di processare il leader leghista per il ritardato sbarco della nave ‘Open Arms’. Ora è il turno di Matteo Renzi e forse per fermare la giostra che gira vorticosamente dal 1993 converrebbe il suggerimento di Cassese: ‘Oggi sarebbe un errore sia ritornare alla formula originaria del 1948, sia non fare nulla. La premessa di qualunque passo dovrebbe consistere nella attenta valutazione della situazione di fatto, considerando come ha funzionato la norma in vigore dal 1948 fino al 1993 e quella in vigore dal 1993 fino ad oggi. Solo un attento esame sia delle procedure di autorizzazione, sia delle mancate autorizzazioni, e un’analisi precisa del contesto dei rapporti della politica con la giustizia, possono consentire una soluzione meditata e non affrettata”. “L’immunità parlamentare è un istituto sacrosanto, non un privilegio” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 6 dicembre 2021 Intervista al professore Alfonso Celotto. “Chi fa politica non deve essere perseguito per voti o opinioni espressi nell’esercizio delle sue funzioni”. Reduce dalla sua ultima fatica letteraria, L’enigma della successione, Alfonso Celotto, professore di Diritto costituzionale all’Università di Roma Tre, spiega che “l’immunità parlamentare è un istituto sacrosanto” e che “da Mani Pulite in poi si è creato un cortocircuito a causa dell’interferenza della Magistratura sulle cariche politiche”. Professor Celotto, a cosa dobbiamo l’ormai quotidiano scontro tra politici e pm? Il problema nasce da lontano, cioè dalla teoria della divisione dei poteri del barone di Montesquieu e dall’idea di John Locke della necessità di poteri distinti per non lasciare troppa forza a qualcuno. Tuttavia Montesquieu spiegava che la magistratura non è un potere ma un ordine, come d’altronde è scritto anche nella nostra Costituzione. Ma lui lo definiva “potere nullo”, nel senso che potendo incidere sulla vita dei cittadini non doveva essere stabilizzato ma i giudici dovevano essere eletti e restare in carica per pochi mesi. Che, in fondo, è qualcosa che troviamo anche nelle recenti polemica sulla Magistratura. In Italia molti riconducono il corto circuito tra Magistratura e politica a Mani Pulite. Crede anche lei sia stato quello il punto di rottura o preferisce fare riferimento ad altro? Diciamo che nel corso degli anni la Magistratura si è consolidata ed è diventata un potere vero e proprio, con una forte influenza sui cittadini e sulla politica. Da Mani Pulite in poi, tuttavia, si è creato un corto circuito forte che riguarda l’interferenza che la Magistratura ha sulle cariche politiche. Basti pensare al caso Bassolino, con 19 processi penali contro l’ex sindaco di Napoli e presidente della Campania, che ha impiegato 15 anni per essere assolto da tutto. Il problema mi sembra evidente. Di recente è stato poi sollevato il tema della responsabilità dei primi cittadini su atti non direttamente ricollegabili al loro operato. Che idea si è fatto? Chi oggi si espone in cariche pubbliche rischia di essere messo sotto processo e per questo molto spesso si trova in difficoltà nel dover prendere determinate decisioni. A questo proposito sono interessanti le proposte di modifica al reato di abuso d’ufficio, perché ogni volta che qualcuno esercita un pubblico potere c’è sempre il dubbio che stia violando una legge, ma così facendo si rischia lo stallo. Crede che l’interferenza della Magistratura rispetto alla politica sia tale da rendere impossibile una retromarcia o la politica stessa dovrebbe far sentire la sua voce per ristabilire un punto d’equilibrio? Il nostro modello nasce all’inizio dell’800, dove lo stato era molto più semplice e aveva molti meno compiti. Nel tempo la gestione dello stato è diventata sempre più complicata e la macchina sempre più ponderosa. Fino ad arrivare al rapporto intricato tra Magistratura e politica. Per questo credo che riuscire a tornare indietro sia difficile, basti pensare a quanta difficoltà sta facendo la politica nel tentativo di riformare il Csm. Insomma, non è affatto facile riorganizzare la giustizia rispetto al rapporto con gli altri poteri. Eppure di riforme della giustizia si sta finalmente discutendo, come dimostrano la riforma de processo penale e quella sul civile della ministra Cartabia. Siamo ancora in tempo per cambiare le cose? Diciamo che molte delle soluzioni trovate sono state alimentate dagli obblighi che dobbiamo rispettare circa il Pnrr, per avere i fondi dell’Unione europea. Senza dubbio bisogna cercare di sveltire i processi, visto che in Italia ci sono circa cinque milioni di processi l’anno. La riforma Cartabia incide su questo, ma non è sufficiente. Assistiamo a un’iperpenalizzazione, ciò è a un uso indiscriminato del processo penale anche nei casi in cui basterebbero multe serie. Da avvocato dico che il processo civile ha decide e decine di riti differenti e questo non fa altro che alimentare un pasticcio enorme. Insomma, parola d’ordine semplificare? Servirebbe una semplificazione seria e profonda. Ma è un problema che di certo non scopriamo oggi. Basti pensare a Dante quando fa dire a Giustiniano “che, per voler del primo amor ch’i’ sento, d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano”. Tornando all’immunità parlamentare, crede si debba recuperare questo istituto nella sua forma iniziale... L’immunità parlamentare è un istituto sacrosanto. Tanto che lo troviamo identico anche nello statuto Albertino. Chi svolge attività politica deve essere certo di non essere perseguito per voti o opinioni espressi nell’esercizio delle sue funzioni. Perché l’agone politico è qualcosa di molto diverso dalla calunnia o l’ingiuria. Negli anni tuttavia è successo che l’autorizzazione a procedere era diventata una sorta di privilegio, vissuto come qualcosa di odioso. Per questo si è eliminata l’autorizzazione a procedere e si è spostato il peso sull’immunità parlamentare. Ma, a trent’anni di distanza, si dice che era meglio il vecchio articolo 68, con l’immunità parlamentare generale e poi sotto l’autorizzazione a procedere. È d’accordo con questa tesi? La condivido, perché i costituenti avevano trovato un punto di equilibrio. I processi a Berlusconi, a Renzi e Bassolino, sono processi contro privati cittadini o causati dalla loro attività politica? È di questo che si dovrebbe parlare. Il tema, insomma, è complicato e profondo nel suo insieme. Giustizia. Transizione digitale più avanzata rispetto ad altri ambiti mondo pubblico Adnkronos, 6 dicembre 2021 Spinta da Covid, interessa tutti tipi di procedimento ma non con pari passo - Processo tributario telematico da oltre 2 anni, Cassazione da quest’anno. Numero delle udienze in presenza ridotte al lumicino o non più previste in toto, deposito degli atti ammesso anche (e, in qualche caso, solo) in via telematica, notifiche a mezzo Pec, verbali delle udienze telematiche redatti come documenti informativi che il presidente, o giudice monocratico, e il segretario dell’udienza sottoscrivono con firma elettronica qualificata o con firma digitale. Seppur con le dovute eccezioni, la transizione al digitale, nel mondo della giustizia civile e amministrativa, sembra trovarsi ad uno stadio molto più avanzato rispetto ad altri ambiti del mondo pubblico. È quanto emerge da un dossier elaborato del Csel, Centro studi enti locali, per Adnkronos. In alcuni casi, la spinta verso la rete è stata data unicamente dal Covid e si dovrà capire poi se le novità introdotte in questo frangente saranno rese permanenti o se resteranno circoscritte al periodo emergenziale. In altri, come nel caso del processo tributario telematico, il percorso era stato completato già da anni, ben prima che chiunque potesse immaginare l’insorgere di una pandemia. Globalmente ormai tutti i tipi di procedimento giudiziario che possono interessare un ente locale in maniera più o meno diretta sono stati oggetto di misure finalizzate a rendere digitale il processo. Non si procede però di pari passo in ogni ambito. Se il processo tributario è ormai obbligatoriamente ed esclusivamente telematico da 2 anni e mezzo, in Cassazione, ad esempio, la prima apertura verso il superamento del deposito cartaceo di atti e provvedimenti è arrivata solo sull’onda lunga della pandemia. Con circa 10 anni di ritardo rispetto ai Tribunali e le Corti d’appello italiane, finalmente quest’anno anche la Corte suprema ha sdoganato il deposito telematico a partire dal 31 marzo. Va detto però che, ad oggi, osserva Csel, esiste ancora il doppio binario: il digitale è quindi una opzione perfettamente valida e che può sostituire il cartaceo che però, per chi lo voglia, continua ad essere ammesso per i giudizi di legittimità. Anche la Corte dei conti, a partire dal 2020, ha in parte ceduto alle lusinghe del web, autorizzando lo svolgimento delle udienze in videoconferenza e il deposito telematico come sostitutivo di quello cartaceo. Ad oggi però queste sono misure straordinarie adottate in risposta alla pandemia e non riforme ordinarie e quindi destinate a durare nel tempo. L’orizzonte temporale delle misure citate coincide ad oggi con la fine dello stato d’emergenza. Salvo ripensamenti, quindi, una volta superato questo frangente, le udienze del giudice nei giudizi innanzi alla Corte dei conti, delle Camere di consiglio e delle adunanze, e le audizioni del pubblico ministero, torneranno a svolgersi secondo le tradizionali modalità. Analogamente si tornerà al previgente obbligo di deposito cartaceo in segreteria della sezione dell’originale cartaceo o della copia cartacea conforme all’originale degli atti processuali. L’ultima vera roccaforte, ad oggi inespugnata, dal punto di vista della digitalizzazione, per quanto riguarda la giustizia civile e amministrativa, è l’ufficio del giudice di pace. Il decreto legislativo 116/2017 aveva fissato il 31 ottobre 2021 come data nella quale, anche in questo ambito, avrebbero trovato applicazione le disposizioni relative al processo civile telematico ma è stato costretto a fare marcia indietro, spostando la lancetta dell’orologio avanti di ben 4 anni. Uffici poco strutturati, con poco personale e spesso con bassa cultura digitale, non hanno messo i giudici di pace di arrivare pronti a questo appuntamento, che è ora fissato al 31 ottobre 2025. Nel frattempo, è stato però annunciato che dovrebbe presto essere data, in via sperimentale, la possibilità di depositare telematicamente, anche presso questi uffici, alcuni atti che comprendono: ricorso per decreto ingiuntivo, integrazione documentale, richiesta di consultazione temporanea del fascicolo e deposito complementare. Cassazione, sotto tiro l’accesso per tutti di Ivan Cimmarusti e Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 2021 L’associazione magistrati (Anm) sottolinea la crescita dell’arretrato, trainata dai ricorsi in materia tributaria e sulle domande di asilo dei migranti. “La garanzia di accesso indiscriminato in Cassazione ha costi, non solo economici, insostenibili e influisce negativamente sull’affermazione della certezza del diritto, valore cardine del nostro ordinamento e sul principio della ragionevole durata dei processi, che costituisce un diritto fondamentale della collettività e non solo del singolo”. È una presa d’atto - e soprattutto un tentativo di sensibilizzare il Governo - quella messa nero su bianco dalla sezione Anm (Associazione nazionale dei dei magistrati) della Suprema corte, in un documento del 29 novembre. Il giudice di legittimità, così com’è impostato - si legge - non è in grado di assicurare la funzione nomofilattica, ossia di fissare i principi in grado di regolare i rapporti giuridici così da avere un effetto deflattivo del contenzioso di merito. Con una produzione media di 3omila sentenze annue, il rischio è infatti che le decisioni sugli stessi temi siano difformi, creando non poche incongruenze. Il problema di partenza, secondo l’analisi fatta all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, è la quantità del contenzioso. Negli ultimi cinque anni la media dei procedimenti iscritti alla Suprema corte supera i 33mila l’anno. Per non parlare del tributario: nel 2020 la sola sezione ha ricevuto 9.841 ricorsi e ne ha definiti 9.070. Per dare un termine di paragone, il giudice francese equiparabile alla sezione tributaria della Cassazione nel 2020 ha ricevuto1.247 processi e ne ha decisi1.301, poco di più del Bundesfinanzhof tedesco. I numeri dell’allarme Arretrati insostenibili e attese irragionevoli sono la patologia. Negli ultimi dieci anni le pendenze sono aumentate del 21,7%: dalle 97.653 del 2010 si è passati alle 118.876 del 30 giugno 2021. Un dato su cui pesano molto l’arretrato tributario (il 44,4% del totale) e quello in materia di immigrazione (quasi l’11%). Dal 2010 al 2020 si sono dilatati i tempi per ottenere un provvedimento: dai 35 ai 44 mesi per il Lavoro, dai 28,6 ai 41,3 per la Previdenza e dai 36,9 ai 56,7 per il Tributario. Accesso al giudice di legittimità Secondo 1’Anm, “non può sottacersi che i problemi della sezione tributaria sono comuni a quelli di tutto il settore civile della suprema Corte”. Si afferma che “in una prospettiva più ampia” si debba “ripensare in termini generali a come rivedere il punto di equilibrio tra il diritto di accedere in Cassazione a prescindere dal valore della controversia e dalla materia trattata riconosciuto dall’articolo in, comma 7, della Costituzione e la funzione nomofilattica e quale valore essenziale dell’ordinamento e garanzia fondamentale in quanto volta a realizzare il principio fondamentale dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge mediante l’uniformità di trattamento e di interpretazione”. Contenzioso tributario - Una prima ricetta per ridurre il contenzioso tributario, fermo a 5omila pendenze, è specificata nello stesso documento: abbattimento per via normativa delle cause, che impatti per almeno il 30% sull’arretrato, rinvio pregiudiziale e ricorso nell’interesse della legge. Con il rinvio pregiudiziale si permetterebbe al giudice tributario - in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si porrà in numerose controversie - di chiedere alla Corte l’enunciazione di un principio. Per l’Anm - che ricalca una proposta della Commissione di riforma - ci potrebbe essere una deflazione delle liti sul merito con effetto positivo sulla Cassazione. Il ricorso nell’interesse della legge, invece, ricalca l’istituto del rinvio pregiudiziale, salvo una differenza: l’enunciazione del principio è richiesta dal procuratore generale. La riforma del processo civile Quella del rinvio pregiudiziale da parte del giudice di merito alla Cassazione è una soluzione già messa in campo dalla riforma del processo civile, approvata definitivamente il 25 novembre dalla Camera. Il nuovo istituto conterà su un procedimento snello e sarà previsto il “filtro” del Primo Presidente della Cassazione, che potrà dichiarare inammissibile la richiesta se mancano i presupposti. Inoltre, la riforma civile introduce un procedimento accelerato per definire i ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati. Per valutare l’efficacia reale delle nuove misure bisogna però aspettare la loro attuazione, affidata ai decreti delegati da emanare entro un anno. Viterbo. Le celle non hanno acqua calda, lo denuncia il Garante Anastasia lafune.eu, 6 dicembre 2021 A Mammagialla le celle dei detenuti non hanno l’acqua calda. Questo a causa di un impianto obsoleto. A segnalare il fatto il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, nei giorni scorsi in visita alla Casa circondariale di Viterbo, per verificare le condizioni dei 112 detenuti in regime di alta sicurezza, trasferiti dal carcere di Frosinone, e le misure adottate per la continuità della campagna vaccinale e i colloqui dei detenuti con i familiari. Anastasìa ha visitato il nuovo reparto di Alta sicurezza, la sezione di isolamento, la cucina, i locali e gli ambienti destinati ai colloqui in presenza e a distanza con i familiari, accompagnato dal responsabile dell’attività di monitoraggio della struttura di supporto, Ciro Micera, dalla direttrice dell’istituto penitenziario, Annamaria Dello Preite, dal vicecomandante della polizia penitenziaria e dalla responsabile dell’area educativa. Il trasferimento a Viterbo dei detenuti di alta sicurezza è stato disposto dopo che, a seguito dell’introduzione di una pistola nel carcere di Frosinone, era stato deciso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di dimezzare il numero di presenze nella sezione ciociara di alta sicurezza. A Viterbo adesso si trovano 490 detenuti, di cui 112 in alta sicurezza, appunto, e 47 in regime di massima sicurezza, 41 bis. “Entro la prima metà di dicembre - riferisce il Garante Anastasìa - sarà somministrata la terza dose di vaccino anti Covid-19 al personale e a tutti i detenuti che vorranno accedervi. Nel corso della visita abbiamo potuto verificare gli spazi per i colloqui, sia all’interno che all’aperto, la cucina, l’infermeria e la sezione per l’isolamento. Stilerò una relazione con le mie raccomandazioni che invierò alla direttrice dell’istituto, che ringrazio fin d’ora per la disponibilità e l’attenzione prestata nel corso della visita e nei confronti delle istanze dei detenuti. Una criticità di rilievo - conclude Anastasìa - è senz’altro rappresentata dal fatto che, benché sia presente nei locali doccia, dai rubinetti nelle camere detentive non sgorga acqua calda, in quanto il sistema idraulico, obsoleto, non lo prevede”. Rimini. “Non vogliamo il centro per i detenuti” Il Resto del Carlino, 6 dicembre 2021 L’amministrazione comunale di Montefiore Conca, è in linea con le perplessità sollevate da alcuni residenti, in merito alla probabile destinazione dell’ex convento delle suore. La struttura infatti potrebbe diventare un centro educativo e formativo riservato ai detenuti. La questione sta agitando la popolazione del borgo. Ed ecco che il Comune ha deciso di prendere posizione con una nota. “Da alcune settimane l’associazione Papa Giovanni XXIII sta conducendo una trattativa privata per ottenere la locazione dell’immobile - sostiene l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Filippo Sica - Sulla base di alcune verifiche che abbiamo effettuato e di quello che abbiamo potuto apprendere, il progetto attualmente al vaglio dell’associazione, prevede di destinare i locali dell’ex convento all’apertura di un Centro Cec (Comunità Educante con i Carcerati): un percorso educativo e formativo riservato ai detenuti che mira al loro possibile inserimento anche in contesti lavorativi. Si tratta senza dubbio di un’iniziativa lodevole e che merita il nostro plauso. Tuttavia, fin da subito alcuni residenti del borgo hanno sollevato alcune perplessità rispetto a questa ipotesi. Perplessità che sono state confermate anche nel corso di un incontro pubblico organizzato dall’Amministrazione per informare i cittadini della notizia appresa da qualche giorno, e svoltosi al teatro Malatesta il 26 novembre, in cui alcuni cittadini si sono espressi contrariamente alla realizzazione del progetto e che nei giorni a venire ha portato a manifestazioni di dissenso e alla presunta nascita del Comitato cittadino “Montefiore Libera”. Non dimentichiamo che la struttura è sempre stata utilizzata per finalità sociali a favore degli anziani del paese e dei comuni limitrofi. Il sindaco e la sua giunta, pur avendo sempre mantenuto un rapporto di proficua collaborazione con l’associazione Papa Giovanni XXIII che è una realtà riconosciuta in tutta Italia per il suo valore in campo sociale, ritiene che la collocazione di un Cec in pieno centro storico, a due passi dalla Rocca Malatestiana, mal si concilia con le esigenze e le peculiarità del nostro borgo, il quale ormai da molti anni si propone al pubblico anche come destinazione turistico a carattere storico, culturale, enogastronomico, etc., perplessità espresse in teatro anche dal sindaco e rinnovate ieri pomeriggio nel corso di un’intensa telefonata al responsabile del progetto. Ci auguriamo quindi che l’associazione Papa Giovanni XXIII possa trovare un luogo più idoneo alla loro meritevole attività al di fuori del borgo di Montefiore”. Vibo Valentia. Mileto e il carcere mai realizzato divenuto un monumento allo spreco di Giuseppe Currà ilvibonese.it, 6 dicembre 2021 La struttura non è stata mai avviata, fuori norma già in fase di costruzione e inutile dopo l’abolizione delle Preture. Continua a versare da anni nel degrado più totale nonostante siano stati spesi 16 miliardi di lire. Doveva essere un carcere mandamentale capace di ospitare, a partire dal 1991, almeno ottanta detenuti. Una struttura di circa 10 mila metri quadri di terreno edificato, realizzata a partire dagli anni ‘80 dopo decenni di vicissitudini anche giudiziarie (tangenti, contenzioso con le ditte e quant’altro), che invece ancora oggi continua ad assurgere a mesto simbolo di degrado e sperpero di denaro pubblico, non essendo mai stata inaugurato e utilizzato. Addirittura, all’epoca, erano state in parte realizzate anche le vie di collegamento alle strade principali. La successiva riforma della giustizia, che ha soppresso gran parte delle Preture, ha reso inutile anche la presenza del carcere di Mileto, perché il Piano carcerario varato negli anni 80 prevedeva la realizzazione di case mandamentali ovunque operasse una Pretura. Un “cadavere” di cemento armato mai completato è rimasto, così, negli anni, il carcere ubicato nei pressi della cattedrale di Mileto con i lavori per il suo completamento che si sono interrotti nei primi anni novanta. [Continua in basso] Oggi, di tutto questo, rimane il marciume che ancora imperversa nell’intera zona e all’interno della stessa struttura in stato di totale abbandono. E, conseguentemente, l’amarezza per i circa 16 miliardi delle vecchie lire spesi per costruirlo e per munirlo di tutti i relativi elementi d’arredo. E pensare che il costo iniziale dell’intera opera ammontava, negli anni ottanta, sulla carta, a 3 miliardi e 600 milioni di vecchie lire, ma alla fine di miliardi ne sono stati spesi ben 16, sebbene la struttura non sia mai stata inaugurata e sia stata depredata, dai soliti vandali, di ogni arredo. Tracce di mobilia sono, addirittura, ancora oggi visibili all’interno delle stanze, scampate miracolosamente a quanti negli anni hanno depredato e “spogliato” l’intera struttura. Nel giardino esterno, incredibilmente, a trent’anni di distanza resiste parcheggiato, come se il tempo si fosse fermato, un autentico cimelio del periodo: un’autobetoniera della ditta che provvide alla realizzazione dell’opera. Una vergogna indescrivibile, considerato anche il fatto che il carcere era già fuori norma durante la costruzione per una serie di leggi in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro che, nel frattempo, si sono succedute e che richiedevano quindi un adeguamento della struttura. L’ex carcere mandamentale di località “Zimbarda”, nel 2016 è passato a titolo gratuito dall’Agenzia del Demanio al Comune di Mileto. Molte le proposte di riconversione avanzate, ad oggi rimaste però miseramente solo sulla carta. La più ambiziosa, quella della creazione di un Polo d’innovazione tecnologica, presentata nel 2018 in pompa magna nel corso di un incontro preparatorio svoltosi nella sede municipale. Quel giorno, a Palazzo dei normanni si parlò di ambiti della struttura da trasformare in un grande incubatore di impresa dedicato alla ricerca tecnologica, ai processi produttivi a basso impatto, allo start-up (occupazione giovanile-tecnologie avanzate e innovative) e ad una serie di servizi dedicati alla cultura e alle imprese. Attività poliedriche, rivolte ai circuiti dei mercati locali, nazionale ed estero, puntando all’accesso facile a reti e supporti tecnologici a basso costo e incoraggiando il dinamismo legato alla formazione giovanile e alla dimensione di scambio internazionale. Tra le possibilità, anche quella di realizzare un Polo espositivo e congressuale dove organizzare eventi, incontri e formazione, seguendo una strategia di programmazione e gestione mirata ad aprire gli orizzonti verso realtà similari, in Europa e nel mondo. A oltre tre anni di distanza, tuttavia, duole constatare che nessun progresso si è registrato in tal senso. Nel giugno del 2020, l’attuale sindaco Salvatore Fortunato Giordano, nel tentativo di dare finalmente il via all’auspicata riconversione, aveva proposto alla Procura della Repubblica di Catanzaro di puntare proprio sull’ex Carcere mandamentale di Mileto per la realizzazione dell’aula bunker in cui celebrare il maxiprocesso Rinascita Scott, poi dirottato nell’area industriale di Lamezia Terme. Nella cittadina normanna rimane così l’imponente ecomostro in cemento armato, il degrado circostante e i tanti soldi pubblici spesi per quello che si è dimostrato solo un vero e proprio monumento allo spreco. Con la rabbia che, in questo caso, non si può parlare nemmeno di… un’incompiuta. Senza il coraggio dell’ultimo passo di Giusi Fasano Corriere della Sera, 6 dicembre 2021 Il dramma di Mario, che ha avuto il via libera del Tribunale per il suicidio assistito ma tutto è fermo perché l’Azienda sanitaria, nonostante le diffide, tace. L’ultimo passo. Dopo tanta strada e fatica manca soltanto un pezzetto piccolissimo del percorso. Ma è tutto fermo di nuovo, incredibilmente. Una casella avanti, due indietro, tre turni di stop... un drammatico gioco dell’oca che ha come punto di partenza tre domande. Esiste in Italia una legge che rende possibile il suicidio medicalmente assistito a certe condizioni? La risposta è sì. È stato verificato che la situazione psicofisica di Mario (tetraplegico da 11 anni) rientri in quelle condizioni? La risposta è ancora una volta sì. Il Comitato etico ha dato il suo assenso per procedere? La risposta è sempre sì. Ora, quindi, per arrivare alla casella del traguardo servirebbe quell’ultimo passo, e cioè pronunciarsi sul tipo di farmaco letale che sarà utilizzato e sulle modalità dell’autosomministrazione. Dovrebbe farlo l’Azienda sanitaria a cui Mario fa riferimento, la Asur Marche, e questo non l’ha deciso lui ma l’ha ordinato il tribunale di Ancona il 9 giugno scorso. Ma la Asur è ferma. Nessuna mossa. L’ordine del tribunale è ignorato, gli apparati statali fanno sapere che osservano (“monitoriamo”) ma non intervengono. E nessuno che provi a mettersi nei panni di lui, del povero Mario, immobile e sempre più sofferente a contare le ore, più lente che mai dal 27 agosto 2020. Quel giorno decise di non andare in Svizzera a morire (come stava per fare) ma di far valere a casa sua il diritto al suicidio assistito deciso dalla Corte costituzionale nel 2019 (a certe condizioni, appunto). Ci è riuscito: lui è il primo italiano al quale è stato riconosciuto - ed è una decisione storica - l’accesso alla dolce morte. Peccato che tutto questo, al momento, non valga nulla. Se l’Asur non si esprime sul farmaco è tutto inutile. Zero. L’Associazione Coscioni, a cui Mario si è legato, ha mandato l’altro giorno l’ennesima diffida all’Azienda sanitaria perché si pronunci “in tempi brevissimi”. Esito? Il nulla. “State calpestando un mio diritto, mi state torturando” dice la lettera di Mario che il Corriere ha pubblicato due giorni fa. “Ora basta, chi deve si prenda le sue responsabilità”. Silenzio. Non una parola per spiegare, concedere, dissentire. Niente. Chi sta tirando il freno? È una questione di politica? Di religione? Mario, che non ha né tempo né voglia di farsi altre domande, indica la via a chi deve decidere quest’ultimo passo: “Venite a casa mia, statemi accanto una settimana, e capirete”. Nel mare mortuum Mediterraneo la sfida di papa Francesco ai sovranisti d’Europa di Marco Grieco Il Domani, 6 dicembre 2021 Porta con sé tutto il peso della vergogna papa Francesco nell’ultima tappa della suo viaggio a Cipro e in Grecia, perché la sua preghiera all’Europa, fatta cinque anni fa nel campo profughi di Lesbo, è rimasta lettera morta. Il pontefice illumina le contraddizioni europee, che a fronte di un finanziamento per l’erezione di nuovi campi profughi, non mirano ad accogliere e integrare i rifugiati nel tessuto sociale. In Grecia, si fa ancora più netta la distanza tra la chiesa di papa Francesco e i governi sovranisti, che vedono nei flussi migratori una minaccia al futuro di tutti: “Un naufragio di civiltà”. Porta con sé tutto il peso della vergogna papa Francesco nell’ultima tappa della sua visita apostolica a Cipro e in Grecia, perché la sua preghiera all’Europa, fatta cinque anni fa nel campo profughi sull’isola greca di Lesbo, è rimasta inascoltata: “Dopo tutto questo tempo constatiamo che sulla questione migratoria poco è cambiato” ha detto con amarezza davanti ai rifugiati, i tendoni bianchi del centro profughi di Mitilene analoghi a quelle stesse, affollatissime tende che il papa visitò nel 2016. La speranza auspicata allora, oggi prende forma in una doppia preghiera: “Prego Dio di ridestarci dalla dimenticanza per chi soffre, di scuoterci dall’individualismo che esclude, di svegliare i cuori sordi ai bisogni del prossimo. E prego anche l’uomo, ogni uomo: superiamo la paralisi della paura, l’indifferenza che uccide, il cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai margini”. Guanti di velluto in Europa - Educato al discernimento del gesuita Ignazio di Loyola, Francesco lo utilizza per illuminare le contraddizioni delle strategie politiche europee. La Grecia, finanziata di recente dall’Ue con 272 milioni di euro, sta costellando le sue isole di campi profughi, riducendoli a prigioni mascherate. Lo denunciava qualche settimana fa la commissaria europea per i diritti umani, Dunja Mijatovi?. Lo ricordava ieri il papa: “Quanti hotspot dove migranti e rifugiati vivono in condizioni che sono al limite, senza intravedere soluzioni all’orizzonte. È triste sentir proporre, come soluzioni, l’impiego di fondi comuni per costruire muri!”. Davanti al primo ministro che lo ha accolto in Grecia, il pontefice ha criticato la scelta di smistare i profughi sulle isole, salutata invece come una soluzione dignitosa dal ministro dell’Immigrazione greco, Panagiotis Mitarachi. Per Francesco si ripete un copione già scritto cinque anni fa, quando Bruxelles stipulò con Ankara lo stanziamento di sei miliardi di euro per la gestione dei flussi migratori. Eppure, oggi la Turchia finanzia i voli di migranti in Bielorussia per spostare la pressione dei rifugiati alle porte dell’Europa approfittando di un “temporeggiare europeo” che suona come avvilente. L’accusa ai nazionalismi - L’accusa più forte di papa Francesco è ai nazionalismi, che si fanno scudo dei valori evangelici per portare avanti una linea di contrasto all’accoglienza: “Si offende Dio, disprezzando l’uomo creato a sua immagine, lasciandolo in balia delle onde, nello sciabordio dell’indifferenza, talvolta giustificata persino in nome di presunti valori cristiani - tuona il papa -. La fede chiede invece compassione e misericordia”. È il più duro attacco di Francesco ai sovranisti, gli stessi che a luglio scorso hanno trascritto il loro impegno nero su bianco in un manifesto, firmato anche da Lega e Fratelli d’Italia. Il documento, che presume di arginare l’immigrazione di massa con le politiche di sostegno alla famiglia, s’intitola Appello per il futuro dell’Europa. Un futuro che, al contrario, papa Francesco trova proprio nell’integrazione: “Solo se riconciliato con i più deboli l’avvenire sarà prospero. Perché quando i poveri vengono respinti si respinge la pace. Chiusure e nazionalismi portano a conseguenze disastrose” ha chiosato, rifacendosi all’insegnamento del documento conciliare Gaudium et spes. La distanza tra la chiesa del papa argentino e i nazionalismi nostalgici della destra europea non è mai stata così netta: il Vangelo non presuppone compromessi politici, non nega la giustizia sociale, ricorda il pontefice. Da mare mortuum a mare nostrum - Nel lessico metaforico di papa Francesco, l’immagine che racchiude il mar Mediterraneo è quella di un deserto, che malgrado la sua infeconda ospitalità che oggi lo rende mare mortuum, nella storia ha connesso popoli e genti. Alla messa presso il Megaron Concert Hall di Atene, Francesco ha ricordato che la chiesa stessa germina nell’aridità: “Proprio lì, nel luogo dell’aridità, in quello spazio vuoto che si stende a perdita d’occhio e dove quasi non c’è vita, lì si rivela la gloria del Signore, che cambia il deserto in un lago, la terra arida in sorgenti d’acqua”. Il Papa oppone il pragmatismo della realtà alle idee che spingono a parteggiare, ma sono slegate dagli sguardi e si alimentano di paura. È una visione del deserto che contrasta con quella ritratta dall’arcivescovo ortodosso di Cipro, Chrysostomos II che a Nicosia ha tuonato contro l’occupazione turca nel nord dell’isola: “Laddove la nostra cultura cristiana fiorì, ora domina il tumulto spirituale della steppa asiatica in questo Golgota nazionale ed ecclesiale, che attraversiamo da 47 anni”. Poche ore dopo in Grecia, papa Francesco ha usato la stessa metafora del monte per ribaltare la prospettiva e fare dell’altezza un punto adatto a scrutare gli orizzonti del futuro: “Dal Monte Olimpo all’Acropoli al Monte Athos, la Grecia invita l’uomo di ogni tempo a orientare il viaggio della vita verso l’Alto abbiamo bisogno della trascendenza per essere veramente umani”. Russia. La guerra legale di Putin per zittire le organizzazioni per i diritti di Martina Napolitano Il Domani, 6 dicembre 2021 L’11 novembre la procura generale della Federazione russa ha presentato un’istanza di scioglimento di Memorial Internazionale, storica organizzazione per la difesa dei diritti umani sorta nel 1987 per volontà di alcuni dissidenti sovietici tra cui il fisico Andrej Sacharov, Nobel per la pace nel 1975. Tra i suoi progetti più importanti c’è il database online dei nomi dei perseguitati politici dell’Unione sovietica. L’istanza di scioglimento è dovuta alla ripetuta violazione della legge relativa ai cosiddetti “agenti stranieri”, nel cui registro Memorial è stata inserita nel 2016. Gli “agenti stranieri” - Queste realtà hanno l’obbligo di apporre in maniera palese su qualsiasi materiale da loro prodotto, online o offline, una dichiarazione del proprio status giuridico. All’istanza di scioglimento si è aggiunta l’accusa di giustificazione di “terrorismo ed estremismo” indirizzata al centro di difesa dei diritti umani Memorial. Questo caso, le cui udienze preliminari sono in corso dallo scorso 23 novembre e continueranno il 14 e 16 dicembre, è soltanto l’ultimo esempio di come la repressione in Russia oggi abbia assunto forme più burocratiche e perfettamente legali. Ma cosa vuol dire essere “agente straniero”? La legge è stata introdotta nel 2012 in un periodo di crescente attività legislativa in materia di diritti civili. Da allora, nel registro degli “agenti stranieri” - espressione che rimanda all’epoca sovietica - finiscono organizzazioni, enti, testate giornalistiche e, dal dicembre 2020, anche singoli individui, in genere giornalisti. La terminologia è volutamente ampia, in modo da farvi ricadere una moltitudine di realtà diverse tra loro, accomunate dalla ricezione, anche in questo caso assai vaga in merito a metodi e somme, di finanziamenti dall’estero, e da una certa “attività politica” nel paese. Tra gli “agenti stranieri” più noti ci sono Voice of America, Radio Svoboda, il giornale online Meduza, il canale televisivo Dožd, il fondo di lotta alla corruzione del noto oppositore ora in carcere Aleksej Navalny, l’unico centro russo di studi sociologici e statistici indipendente, il Levada Center, e diverse associazioni che si occupano di violenza domestica, dipendenze, Aids, diritti Lgbt. L’etichetta è tutt’altro che un pro forma e limita notevolmente le attività di chi rientra nella lista: avere a che fare con un “agente straniero” è rischioso sia per i singoli sia per le aziende; il governo, in genere, non rilascia dichiarazioni a giornalisti e testate riconosciuti come “agenti stranieri”, i quali devono fare rapporto alle autorità sulle proprie attività e sono perseguibili penalmente per errori su quanto dichiarato. Dalle violenze alla burocrazia - Negli ultimi dieci anni la macchina repressiva russa ha cambiato volto, divenendo gradualmente più burocratica, “legalizzandosi”. La solerte attività legiferativa ha subito un’accelerazione in risposta alle numerose proteste di piazza che tra il dicembre 2011 e il maggio 2012 hanno portato nel centro di Mosca centinaia di migliaia di manifestanti, uniti contro le manipolazioni dei risultati delle parlamentari del 2011 che hanno garantito al partito presidenziale Russia Unita il 52,88 per cento dei seggi alla Duma. Anche se le elezioni non si sono distinte particolarmente dalle precedenti in termini di brogli e violazioni (problematiche croniche per la realtà russa), si era venuta a creare una consistente massa critica nella società che era pronta a esprimere il proprio dissenso e insoddisfazione. Dopo le presidenziali del marzo 2012, vinte per la terza volta da Putin con il 63,6 per cento delle preferenze, le proteste non si sono affievolite: il giorno prima dell’insediamento del presidente (il 6 maggio), i manifestanti hanno organizzato la cosiddetta “Marcia dei milioni” in piazza Bolotnaja. Nonostante la sua natura pacifica, la manifestazione è stata duramente repressa dalla polizia. Circa 400 persone sono state arrestate e 18 condannate. I media filogovernativi allora hanno aricarato la dose accusando un indefinito occidente di aver sobillato manifestanti allo scopo di indebolire il governo russo. Da allora, il legislatore russo ha lavorato a un ritmo accelerato nella scrittura e approvazione di misure che vanno a limitare, anche retroattivamente, i diritti civili e politici dei cittadini. Alla legge sugli “agenti stranieri” è seguita quella sulla “propaganda gay” nel 2013, quindi gli emendamenti sul contrasto al terrorismo nel 2016 e ancora la legge sul cosiddetto “internet sovrano” nel 2019. I tribunali russi nel frattempo hanno impartito condanne a oppositori, attivisti e altre voci critiche sulla base di motivazioni politiche più o meno evidenti: ne sono stati vittima, tra gli altri, il regista Oleg Sentsov, il regista teatrale Kirill Serebrennikov, il giornalista Ivan Golunov, lo storico Jurij Dmitriev. Il sistema di controllo - Di fatto, la repressione è passata dalla materialità delle piazze, delle perquisizioni e degli arresti (pur ancora presenti) alla freddezza burocratica dei tribunali e delle sanzioni amministrative. In questa maniera la procedura si è “legalizzata”, trovando sostegno e giustificazione nell’apparato legislativo che garantisce l’efficienza del sistema di controllo, sanzione e repressione. Invece di un autentico stato di diritto che assicuri il rispetto dei diritti e delle libertà dei cittadini, la Russia ha progressivamente applicato una propria versione nazionale di “rule by law” (primato del diritto) che interpreta il diritto come strumento, distinguendo e privilegiando la lex sullo jus. Proprio questo slittamento burocratico nelle pratiche di controllo del dissenso e dell’opposizione permetterà con ogni probabilità all’attuale situazione politica in Russia di sopravvivere nel tempo, indipendentemente da ciò che il futuro prevedrà per il presidente Putin e il suo entourage. Con l’introduzione degli emendamenti costituzionali del 2020, gli stessi che hanno azzerato i mandati di Putin, che potrà ripresentarsi alle presidenziali del 2024, il primato del diritto russo su qualsiasi principio giuridico internazionale ha ulteriormente spianato la strada a un approccio prettamente strumentale del diritto, rendendo possibili sentenze arbitrarie e privando i cittadini della possibilità di appello ai tribunali internazionali come invece accadeva in precedenza. In ogni caso, la resistenza e il dissenso non si smorzano: sia la comunità russa che quella internazionale si sono mosse in queste ultime settimane esprimendo solidarietà - anche attraverso una petizione online - nei confronti della storica organizzazione Memorial. Egitto. Zaki picchiato e trasferito nel carcere delle torture di Laura Cappon Il Domani, 6 dicembre 2021 Picchiato dalla polizia e portato in una cella senza bagno. È il benvenuto con cui, a poche ore dalla prossima udienza che lo riguarda, Patrick Zaki è stato trasferito nel nuovo penitenziario di Mansoura. Il giovane ricercatore egiziano è stato trasferito dalla struttura di Tora al Cairo, dove ha scontato la maggior parte dei suoi 22 mesi di detenzione, ed è arrivato nella sua città natale che da settembre è anche il foro di competenza del processo a suo carico. A darne notizia è stato Mohammed Hazm, amico e attivista della campagna “Free Patrick Zaki”, ieri in Italia per partecipare a un evento dedicato a Zaki. “Negli altri casi era stato portato a Mansoura due ore prima dell’udienza”, ha detto Hazm. “Questo spostamento ci preoccupa molto perché quel carcere è noto per le torture e per i maltrattamenti che vengono regolarmente inflitti ai detenuti”. Alcune settimane fa, lo stesso Patrick aveva ricevuto la notizia del suo trasferimento, e lo aveva comunicato ai genitori durante una visita. Ma non è chiaro se Zaki resterà nella struttura di Mansoura anche dopo l’udienza. In questo penitenziario cera già stato nel primo periodo della sua detenzione. Secondo la prassi del sistema carcerario egiziano, dopo il trasferimento, i detenuti non possono mandare lettere né ricevere visite: un altro aspetto che preoccupa famiglia e avvocati. La prossima udienza è domani. L’ultima si era tenuta il 28 settembre e il giudice aveva accolto la richiesta della difesa di rinviare la seduta affinché gli avvocati avessero più tempo per esaminare le carte del processo. Ciò che i legali non potevano immaginare però era che l’udienza venisse fissata così avanti nel tempo. Anche per questo, prevedere cosa succederà nel tribunale per i reati di Mansoura resta quasi impossibile. Zaki è stato rinviato a giudizio con delle prove che sono state inserite dagli inquirenti nel suo fascicolo solo poche settimane prima del provvedimento che accusa il giovane di “diffusione di notizie false e diffusione di terrore tra la popolazione”. I dieci post di Facebook non sono entrati nel processo e potrebbero tramutarsi in un nuovo rinvio a giudizio insieme alle accuse di terrorismo che per il momento non rientrano nel processo. La difesa di Zaki non può fare altro che continuare a studiare le carte cercando di capire perché tutti i tentativi per rilasciare il giovane studente del master in gender studies sono andati falliti. Secondo il codice penale egiziano il rinvio al tribunale per i reati minori avrebbe comportato un limite massimo di carcerazione preventiva di 18 mesi. Limite che il detenuto Zaki ha superato già da 4 mesi. Myanmar. Aung San Suu Kyi condannata a 4 anni di carcere La Repubblica, 6 dicembre 2021 La premio Nobel per la pace è stata condannata per aver incitato a scontri di piazza i suoi seguaci e per violazione delle regole sanitarie sul Covid. La consigliera di Stato deposta del Myanmar, Aung San Suu Kyi, è stata condannata a quattro anni di reclusione, nell’ambito dei processi a suo carico per una serie di capi d’imputazione che potrebbero costarle pene detentive per un totale di oltre un secolo. Suu Kyi, che si trova agli arresti dal golpe militare del primo febbraio scorso, è stata condannata oggi per aver “incitato alla violazione delle restrizioni anti Covid-19”. L’udienza culminata nella condanna si è svolta a porte chiuse, e ai legali di Suu Kyi è stato proibito di fornire resoconti alla stampa. I media di Stato del Myanmar hanno annunciato la scorsa settimana un nuovo capo d’imputazione per corruzione a carico della consigliera di Stato deposta Aung San Suu Kyi. Sul capo della leader democratica gravano già più di 10 altri capi d’imputazione, incluso uno relativo alla presunta violazione di un codice sui segreti di Stato risalente all’epoca coloniale. L’ultimo capo d’accusa riguarderebbe una presunta violazione della legge anti-corruzione in relazioni al nolo e al successivo acquisto di un elicottero tramite fondi pubblici. Win Myint, presidente del governo civile deposto come Suu Kyi a seguito del golpe dello scorso febbraio, è stato accusato del medesimo reato. Il mese scorso l’ex consigliera di Stato è stata incriminata con l’accusa di frode in relazione alle elezioni de 2020. Assieme a Suu Kyi sono stati incriminati per il medesimo reato altri 15 ex funzionari, incluso l’ex presidente Win Myint e il presidente della commissione elettorale. Suu Kyi, oggi 76enne, si trova agli arresti domiciliari dal giorno del golpe, e sul suo capo il governo militare ha post una lunga lista di capi di imputazione, inclusa l’accusa di aver importato illegalmente walkie talkie, sedizione e corruzione; eventuali condanne potrebbero costare alla leader deposta decenni di reclusione.