L’allarme del Csm: “Mancano mille giudici”. Appello al ministro Cartabia di Davide Varì Il Dubbio, 5 dicembre 2021 Il Csm: “Su 10.751 posti previsti nelle piante organiche, le presenze effettive di magistrati in servizio in uffici giudiziari sono 9.131”. Il Csm si prepara a lanciare l’allarme sulla mancanza di magistrati proprio mentre agli uffici giudiziari devono realizzare gli “ambiziosi obiettivi” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, cioè lo smaltimento dell’arretrato e il taglio della durata dei processi civili e penali, rispettivamente del 40 e del 25%. E a chiedere perciò al ministro Marta Cartabia di procedere sin dal prossimo bando alla riforma del concorso per l’accesso alla magistratura, consentendo la partecipazione da subito dei giovani appena laureati in giurisprudenza, in modo da allargare immediatamente la platea dei candidati. Le preoccupazioni del Consiglio superiore della magistratura sono contenute in una proposta di risoluzione che il plenum voterà lunedì prossimo. “L’attuale situazione di scopertura degli organici presenta carattere di assoluta gravità: su 10.751 posti previsti nelle piante organiche, le presenze effettive di magistrati in servizio in uffici giudiziari sono 9.131”, si legge nel documento messo a punto della Sesta Commissione. Mancano insomma più di mille magistrati e la carenza “è destinata ad aggravarsi per effetto dei prevedibili collocamenti a riposo per raggiunti limiti di età, per un significativo arco temporale”. Di qui la “viva preoccupazione” per la situazione degli uffici giudiziari, a cui è richiesto con il Pnrr “un impegno eccezionale”. Per questo “è quanto mai necessario” riformare il concorso, aprendolo come era una volta a tutti i neo-laureati in giurisprudenza, in modo tale che si arrivi, diversamente da quello che accade oggi, al reclutamento di magistrati “in numero pari o prossimo” a quello dei posti messi a bando. Riforma CSM: la vera riforma della giustizia di Danilo Paolini Avvenire, 5 dicembre 2021 Senza una magistratura libera dai vizi del correntismo, dal protagonismo di alcuni suoi membri e dall’appannamento della sua immagine agli occhi dei cittadini, infatti, non avremo mai un sistema in grado di fornire un buon servizio, né di infondere fiducia agli investitori stranieri. Il Csm, dunque, va riformato. E in fretta, visto che a luglio verrà rinnovato e le sue elezioni rischiano di svolgersi con il medesimo meccanismo messo sotto accusa in seguito al cosiddetto “caso Palamara”. Scriviamo cosiddetto perché si illuderebbe chi (molto distratto, molto ingenuo o molto ipocrita) pensasse che, radiato Luca Palamara dalla magistratura, siano finite in soffitta certe note dinamiche che hanno fin qui presidiato all’assegnazione di incarichi apicali negli uffici giudiziari, soprattutto (e ci sarà un perché) nelle più importanti Procure della Repubblica. A due anni da quel terremoto, però ancora niente si è mosso. E il tempo stringe. Lo ha ricordato qualche giorno fa, con la consueta puntualità, il presidente della Repubblica e dello stesso Csm, Sergio Mattarella. La tabella di marcia prevede (ma forse prevedeva, a questo punto) di arrivare a gennaio con la legge delega approvata, per lasciare un discreto margine agli adempimenti delle fasi successive. Tuttavia, la citata tabella risale a ottobre, mentre a inizio dicembre siamo ancora alla discussione generale in commissione, nel primo ramo del Parlamento chiamato a occuparsene. Non si stanca di far notare l’urgenza di procedere la guardasigilli Cartabia, che ha tra l’altro sottolineato un punto importante e forse mai illuminato così esplicitamente: la posta in gioco non è tanto l’autonomia della magistratura né la sua indipendenza dal potere politico, bensì “la garanzia dell’indipendenza del singolo giudice anche all’interno della stessa magistratura”. Un elemento che dovrà essere determinante per immaginare il Csm di domani, perché non si può pensare di riparare tutti i guasti emersi soltanto cambiando la legge elettorale. Una riforma che voglia essere minimamente incisiva, per esempio, non potrà tralasciare il capitolo relativo ai procedimenti disciplinari. Luglio, per i tempi della nostra politica, è davvero dietro l’angolo. Ma il fallimento, su un tema come questo, non può essere un’opzione. Palamara spacca ancora l’Anm: “Santalucia gli nega il diritto alla difesa” di Simona Musco Il Dubbio, 5 dicembre 2021 Articolo 101 contro il presidente dell'Anm per la mancata consegna dell'elenco degli iscritti ai legali di Palamara. “Ma davvero dobbiamo ancora ricoprirci di ridicolo”. L’Anm si spacca sulla mancata consegna degli elenchi degli iscritti alla difesa di Luca Palamara. A contestare la scelta del presidente Giuseppe Santalucia di respingere la richiesta avanzata dall’avvocato Roberto Rampioni è “Articolo 101”, la corrente “ribelle” delle toghe, che attraverso una lettera firmata dal magistrato Andrea Reale denuncia la mancanza di trasparenza all’interno dell’Associazione nazionale magistrati, nonché il rischio di ledere il diritto alla difesa dello stesso Palamara, imputato a Perugia per corruzione. “Da anni tutti sosteniamo la necessità che l’Anm - come anche il Csm - sia una “casa di vetro”, in considerazione della funzione pubblica da noi svolta e del nostro status costituzionale - afferma Reale -. Sembra strano, invece, che la Giunta esecutiva centrale dell’Anm, e il presidente in particolare, continuino a comportarsi in modo diametralmente opposto a questo nostro onere deontologico (così come sbandierato ad ogni singolo passo)”. Santalucia già a marzo era finito al centro delle polemiche per essersi rifiutato “di esibire integralmente ai componenti del comitato direttivo centrale alcuni atti giudiziari che interessavano la nostra associazione, adducendo ragioni di privacy di alcuni iscritti che neanche il giudice di Perugia ha mai ritenuto sussistenti”. E nelle scorse settimane, paventando il rischio di ricusazione dei magistrati del processo perugino, aveva proposto al Comitato direttivo centrale “la revoca della delibera Anm volta alla costituzione di parte civile nel menzionato processo, per fortuna venendo platealmente smentito da quasi tutti gli altri componenti del Cdc, ivi compresi quelli della Gec”. Oggi, invece, la Giunta e Santalucia hanno deciso di negare alla difesa di Palamara “il loro diritto di conoscere il nominativo dei magistrati iscritti all’Anm, come se quest’ultima fosse un’associazione segreta o fosse composta da sconosciuti impiegati statali”. Un paradosso, dal momento che secondo lo Statuto dell’Anm uno dei requisiti per iscriversi è quello di non appartenere “ad associazioni riservate”, ovvero che non consentano “la conoscibilità dell’elenco dei soci” o del suo statuto e delle fonti di finanziamento o che non abbiano “una sede pubblica”. Secondo Santalucia, la richiesta di Rampioni “eccede il fine a cui risponde, da lei indicato nell’esigenza difensiva di accertare la terzietà, l’imparzialità e l’indipendenza del Collegio del Tribunale di Perugia dinanzi al quale si svolge il processo penale contro il dottor Luca Palamara”. La difesa, dal canto suo, era interessata a capire se chi dovrà giudicare l’ex magistrato appartenga o meno a quell’Associazione, ritrovandosi dunque ad occupare, contemporaneamente, il doppio ruolo di giudice e parte civile, data la richiesta del sindacato delle toghe di poter partecipare al processo al fine di vedersi riconosciuto il danno d’immagine. Nella sua lettera, Santalucia evidenziava come la ragione del diniego “non è certo la segretezza dell’elenco dei soci”, bensì la richiesta, “nei termini in cui è articolata, sembra non tener conto dei criteri di proporzionalità e necessità rispetto alla finalità perseguita, a cui ogni trattamento di dati personali deve uniformarsi”. Risposta che non aveva convinto Rampioni, secondo cui la richiesta appare, invece, “non “generica”, ma “prudente”, nell’ottica della (purtroppo) consueta tempistica del dibattimento: il “noto” processo - ed a spese della difesa - ha già subito un non breve differimento di udienza per il prossimo trasferimento di almeno un componente di quel Collegio e, quindi, per il non immediato ma necessario subentro di un nuovo magistrato. Dunque, si è soltanto inteso evitare la proposizione seriale di istanze all’Associazione da lei rappresentata e, soprattutto, scongiurare la necessità per il difensore di rivolgere domanda - spiacevolmente, in apertura di udienza - al singolo membro del Collegio circa la sua appartenenza all’Associazione”. Ora a dare manforte alla difesa di Palamara è anche Articolo 101, che cita l’articolo 7 dello statuto dell’Anm, secondo cui “il magistrato non aderisce e non frequenta associazioni che richiedono la prestazione di promesse di fedeltà o che non assicurano la piena trasparenza sulla partecipazione degli associati”. Ma non solo: “Mentre il legislatore interviene con norme a maggiore garanzia della presunzione di innocenza dell’imputato e rafforza in ogni modo e in ogni sede il suo diritto di difesa, l’Associazione dei magistrati italiani, in persona del suo presidente, motiva ulteriormente il rigetto con un preteso difetto di proporzionalità e necessità rispetto alla finalità perseguita. Come se la comunicazione dell’iscrizione all’Associazione violasse il corretto trattamento dei dati personali dei suoi soci (tutti magistrati ordinari)”. Il fine, evidenzia Reale, è invece quello di valutare l’imparzialità e l’autonomia dei magistrati in ordine ad una eventuale richiesta di ricusazione da parte dell’imputato, di fatto “obliterando le medesime preoccupazioni che lo stesso Giuseppe Santalucia aveva avanzato al fine di proporre l’irricevibile proposta di ritiro dal processo - pubblico - penale per intraprendere la strada - molto più lunga e dal diverso onere probatorio, oltre che “privata” - del giudizio civile”. Il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha recentemente nominato il proprio responsabile del trattamento dei dati personali, un’avvocata esperta in tema di privacy e di data protection. “Ma davvero anche lei è contraria a fornire agli avvocati di Luca Palamara la notizia della iscrizione all’Anm dei giudici chiamati a pronunciarsi sulle sue accuse? Ma davvero il diritto di difesa ex art. 24 Cost. è stato ritenuto recessivo rispetto alle esigenze di proporzionalità e necessità del trattamento dei dati dei magistrati (funzionari pubblici per eccellenza) iscritti all’Anm? - conclude Reale - Ma davvero dobbiamo ancora ricoprirci di ridicolo, provando ad agghindare la casa di vetro con cartoni alle finestre?”. Di Matteo: “La magistratura è un pugile alle corde, il Csm protegge i sodali di Palamara” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 5 dicembre 2021 Il pm antimafia: La vicenda che coinvolge Davigo è grave come quella dell’hotel Champagne” Nino Di Matteo, da due anni lei è al Csm, eletto dopo il caso Palamara. Le correnti sono più forti o più deboli? “Il Csm si dibatte tra spinte al cambiamento e controspinte conservatrici, come la difficoltà di liberarsi delle vecchie logiche, dure a morire, e nella tentazione di sopire, ridimensionare”. Se l’aspettava? “Avevo sempre diffidato del Csm: isolava e delegittimava, anziché difendere, i magistrati liberi e coraggiosi, non intruppati. Quelli che, come dicevano di me, non “coltivano” le domande per gli incarichi direttivi”. Ora parla di spinte al cambiamento: quali? “Il voto spesso non unanime dei membri delle correnti, che scalfisce la ferrea logica di appartenenza”. I segnali di conservazione? “La valutazione di intercettazioni e chat con Palamara, con magistrati che chiedevano il sostegno di correnti ed esponenti politici. Talvolta emergono logica di minimizzazione, prudenza sospetta e perfino riflesso di protezione per chi nei rispettivi gruppi aveva incarichi importanti”. Che spiegazione dà? “Si pensa che destituito Palamara e puniti i suoi accoliti dell'hotel Champagne, il problema sia risolto”. Non è così? “Palamara da solo non decideva nulla. Grave errore demonizzarlo come organizzatore o perno fondamentale. Era una pedina importante, non di più, di un sistema alimentato da una base di consenso e dalla spinta dal basso di magistrati che chiedevano aiuto a fini di carriera”. Il libro di Palamara le è piaciuto? “È un libro utile, perché la verità è sempre necessaria”. Nel libro “I nemici della giustizia” elogia e difende il suo collega Ardita. Che idea si è fatto dei verbali sulla loggia Ungheria in cui è citato, e che furono portati al Csm da Davigo? “Senza scendere in dettagli perché ci sono inchieste giudiziarie e pratiche al Csm, non voglio essere ipocrita. La vicenda è di una gravità non minore, in termini di intralcio al regolare funzionamento del Csm, della riunione dell'hotel Champagne con Palamara, Ferri, Lotti e i cinque membri del Csm”. In cosa consiste la gravità? “Nella circolazione, dentro e fuori il Csm, di verbali giudiziari coperti da segreto, senza che nessuno dei consiglieri informati ne ufficializzasse la ricezione o trasmissione né prendesse iniziative formali. Al di là di singole posizioni, un grave danno al tentativo di recupero di credibilità e autorevolezza del Csm”. Secondo lei di quella vicenda sappiamo tutto? “Spero che nelle sedi giudiziarie si possa chiarire il dubbio angoscioso che ho dall'inizio e con il tempo, anziché svanire, si è rafforzato”. Ovvero? “Che questa circolazione impropria dei verbali sia stata in qualche modo strumentalizzata per interferire sul Csm, condizionando un organo di rilievo costituzionale”. Con le regole differenziate per i processi di mafia il suo giudizio sulla riforma Cartabia è migliorato? “Continuo a ritenerla dannosa e pericolosa. Sono perplesso per la prevalenza delle esigenze legate ai fondi del Pnrr su quelle di giustizia, in una visione della società dominata dall'economia e non dal diritto. Contesto la soluzione tecnica dell'improcedibilità, estranea alla nostra cultura giuridica, che manderà in fumo i processi anziché velocizzarli. E sono allarmato dall'attribuzione al Parlamento del potere di stabilire criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale”. Diffida del Parlamento? “No, del vulnus ai principi di separazione dei poteri e obbligatorietà dell'azione penale, un'arma formidabile per condizionare l'attività giudiziaria in mano alle mutevoli maggioranze politiche. Il Parlamento potrà dire ai pm di perseguire prioritariamente gli scippi e solo se avanza tempo la corruzione”. Però avete evitato l'improcedibilità per i reati di mafia… “Ancora una volta c'è stato bisogno della denuncia dei soliti quattro o cinque magistrati antimafia. Gli stessi periodicamente accusati di invadere il campo di una politica che, al di là dei proclami, mai ha davvero posto in cima all'agenda politica un serio contrasto alle mafie”. Come mai solo pochi e non tutti i magistrati come ai tempi di Berlusconi? “Ho notato una reazione blanda e limitata. Per diversi fattori. Primo: le iniziative di quei governi compattavano tutte le componenti della magistratura. Secondo: nel governo attuale ci sono quasi tutte le parti politiche. Terzo: la magistratura è in questo momento un pugile alle corde, che si limita a schivare i colpi per limitare i danni senza reagire, avendo il ripiegamento su se stessa come unica prospettiva”. Non c'è anche una ventata culturale antigiustizialista? “A me questa rappresentazione mediatica giustizialisti-garantisti pare una semplificazione fuorviante. Io difendo la massima espansione delle garanzie di indagati e imputati, ma vorrei che la certezza della pena non fosse sistematicamente vanificata da benefici e scappatoie. Se vuol dire essere giustizialisti, allora sono il primo dei giustizialisti”. Vale anche per il decreto sulla presunzione di innocenza? “Si usa un principio giusto per imbavagliare le autorità pubbliche. I processi mediatici proseguiranno, ma solo con imputati e avvocati. Si silenzia chi indaga sul potere impedendo ai cittadini di sapere. Per me è una questione di democrazia e libertà”. Alle elezioni Anm di Palermo ha vinto il gruppo 101, che chiede il sorteggio del Csm… “Segnale da non sottovalutare: tanti magistrati chiedono una cura forte per un organismo malato. Il sorteggio temperato, magari per un tempo limitato, è il vaccino per il virus del correntismo”. Emilio Scalzo, l’attivista No Tav e per i diritti dei migranti è stato estradato in Francia Il Fatto Quotidiano, 5 dicembre 2021 Arrestato lo scorso 15 settembre su richiesta dell’autorità giudiziaria francese, era stato in seguito messo ai domiciliari. È accusato di aver colpito un gendarme durante una manifestazione No Border avvenuta oltralpe Emilio Scalzo è stato estradato in Francia. Lo storico leader del movimento No Tav è stato consegnato alla polizia francese al confine con l’Italia, dove è stato accompagnato dalla polizia penitenziaria del carcere di Torino. L’attivista, accusato di aver colpito un gendarme durante una manifestazione No Border oltralpe, era tornato in carcere dagli arresti domiciliari in attesa dell’estradizione dopo che la Cassazione aveva respinto il ricorso presentato dai suoi avvocati. Scalzo era stato arrestato lo scorso 15 settembre su richiesta dell’autorità giudiziaria francese e in seguito era stato mandato ai domiciliari. Il 1 dicembre gli agenti della Digos sono andati a prenderlo nella sua abitazione di Bussoleno, in val di Susa: in quell’occasione si è svolto un comizio di solidarietà: “Per denunciare la vergognosa operazione e per stare a fianco a lui e alla sua famiglia”, avevano fatto sapere dal Movimento No Tav. Fra i partecipanti anche Zerocalcare: “Per lui c’è un mandato d’arresto per una cosa di cui tutti si riempiono la bocca, cioè la solidarietà con i migranti al confine”, ha detto il fumettista. “Emilio questa cosa la ha praticata, da sempre”. Cartabia non vuole bambini in carcere, ma in Campania ce ne sono 11 di Viviana Lanza Il Riformista, 5 dicembre 2021 Ci sono undici i bambini “reclusi” in Campania. Hanno dai pochi mesi di vita a qualche anno di età. Il loro mondo è chiuso nel perimetro dell’Icam di Lauro, istituto a custodia attenuata per detenute madri. Nella nostra regione è l’unica struttura attrezzata per ospitare donne detenute con figli piccoli al seguito. Secondo i dati ministeriali aggiornati al 30 novembre, nell’Icam campano ci sono attualmente dieci detenute madri e undici bambini, dei quali la metà di etnia rom o proviene dai Paesi dell’Est o del Nordafrica. Vivono in un contesto che prova a non essere un grigio e desolato vero e proprio carcere, ma che nella realtà resta un luogo di restrizione della libertà personale. Rispetto allo scorso mese una novità c’è: un neonato di due mesi è stato “scarcerato” insieme alla sua mamma e un altro bimbo, la cui nascita è prevista tra pochi giorni, potrà vivere in un luogo diverso dall’Icam di Lauro perchè anche la sua mamma è stata scarcerata. Per il resto, quante battaglie, quanti proclami, quante parole si sono spese in questi anni su questo aspetto del regime penitenziario. E quante volte abbiamo sentito dire che in carcere i bambini non ci dovrebbero stare, per poi constatare che negli istituti di pena i bambini non solo continuano a viverci ma alcuni addirittura ci nascono. “Anche un solo bambino in carcere è di troppo”, ha affermato la ministra della Giustizia Marta Cartabia intervenendo ieri alla Quarta Conferenza nazionale sulla famiglia. “L’obiettivo primario della riforma - ha spiegato - è realizzare gli interessi superiori del minore. L’espressione anglosassone primigenia di best interests of the child è non a caso declinata al plurale. Gli stessi interessi che mi hanno già portato ad occuparmi anche dei bambini in carcere con le loro madri e di cui, anche insieme al garante dell’infanzia, presto tornerò ad occuparmi concretamente”. “Non è possibile - ha aggiunto la ministra - che bambini di tenerissima età, innocenti per definizione, scontino la pena che è stata inflitta alla madre. Occorre trovare una soluzione definitiva a questo problema, che grazie a Dio riguarda ormai pochissimi casi anche per la generosa disponibilità di tanti operatori del terzo settore”. Grazie all’iniziativa del deputato Paolo Siani, il Governo ha previsto fondi da destinare alle Regioni per la realizzazione di case protette in cui ospitare le donne detenute con i propri figli al seguito. Per la Campania sono stati previsti 240mila euro all’anno per i prossimi tre anni ma al momento non c’è alcuna casa famiglia avviata. Il Garante campano Samuele Ciambriello ha sottolineato la carenza di case protette nella nostra regione. In Italia ce ne sono a Roma e a Milano. Sarebbe quindi ora di passare davvero dalle parole ai fatti ed evitare che d’ora in poi anche un solo bambino debba vivere i suoi primi anni di vita in un luogo di reclusione. Quanta strada c’è ancora da percorrere per la piena tutela dei diritti dei bambini. In Campania il 17,4 % della popolazione è minorenne eppure per bambini e ragazzi si fa ancora troppo poco in termini di opportunità di studio, di sport, di salute, di diritti. Ieri il Riformista si è occupato dell’ultimo report stilato dal gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti per l’infanzia e l’adolescenza, un bilancio dal quale la Campania ne esce piuttosto male con un alto tasso di mortalità infantile, bassi livelli di servizi legati al mondo dei più piccoli e disuguaglianze territoriali. “Sarebbe molto utile - ha commentato Siani - avere un’agenzia che si occupi di infanzia, in grado di monitorare gli interventi a livello nazionale e locale così da poter meglio comprendere la condizione dei bambini a livello territoriale e organizzare politiche di reale tutela e garanzia dei loro diritti”. Treviso. Se la condanna è aiutare i poveri, gli insospettabili della Caritas Corriere del Veneto, 5 dicembre 2021 Devono solitamente espiare piccole condanne, la maggior parte delle quali sono per guida in stato di ebrezza o per reati minori, o vogliono semplicemente arrivare alla sospensione del procedimento penale nei loro confronti. C’è la messa alla prova tra le misure alternative sempre più utilizzata e scelta da chi si trova ad avere a che fare con la giustizia, magari solo per una serata in cui si è alzato un po’ troppo il gomito. Sono normali cittadini, operai ma anche insospettabili professionisti. Grazie a questa possibilità, dopo un periodo dedicato al volontariato, è possibile estinguere il reato. In molti scelgono la Caritas di Treviso, grazie ad una convenzione da tempo esistente con il tribunale. Sono al massimo tre le persone che contemporaneamente possono prestare servizio per l’organismo pastorale dopo l’ok del giudice che fissa quanti giorni o quante ore debbano essere svolte dall’imputato. “Le richieste sono tantissime e riguardano, per la stragrande maggioranza, persone a cui è stata sospesa la patente - spiega il direttore della Caritas Tarvisina, don Davide Schiavon - nel corso del 2021 sono state circa 25 le persone che hanno svolto servizio di volontariato qui da noi”. Cosa fanno? “Dipende, alcuni seguono il servizio mensa, altri hanno compiti più logistici ma quasi mai hanno relazioni dirette con i più poveri sottolinea il direttore alcuni si occupano anche di sistemare le stanze o aiutano nel giro di recupero delle eccedenze alimentari. Il percorso da seguire è un progetto individualizzato e personale: io sono il responsabile del tutoraggio e quando la persona ha eseguito le ore previste, firmo e le certifico”. Nei giorni scorsi il tribunale di Treviso ha ammesso ai lavori socialmente utili, proprio alla Caritas un’avvocatessa friulana, finita a processo per truffa e sostituzione di persona per una vicenda riguardante un immobile di proprietà della figlia che la 72enne aveva messo in affitto a sua insaputa, falsificandone la firma. La messa in prova dovrà concludersi entro il 27 gennaio 2023, data in cui il giudice ha fissato l’udienza per verificare che il periodo di volontariato dell’avvocata abbia avuto buon esito. “Non appena ci sarà un posto libero disponibile potrà cominciare” dice don Davide. Gela. “Un garante cittadino per i diritti dei detenuti”, Nuova Dc porterà mozione in consiglio di Rosario Cauchi quotidianodigela.it, 5 dicembre 2021 La Nuova Dc, che in città si è presentata ufficialmente la scorsa estate e in giunta schiera l’assessore Giuseppe Licata, è in piena fase di organizzazione. Questa mattina, lo stesso Licata, il coordinatore cittadino Natino Giannone e l’avvocato Floriana Cacioppo (neo responsabile del dipartimento legale e giustizia del partito locale) hanno preso parte, insieme ad altri esponenti del partito cittadino, ad una tavola rotonda sui diritti dei detenuti, che si è tenuta all’Ars, su convocazione dei vertici regionali del partito, ad iniziare dall’ex presidente della Regione Totò Cuffarò, leader della Nuova Dc. A seguito di una proposta che i centristi della Nuova Dc stanno perorando sull’intera isola, anche in consiglio comunale verrà chiesta la nomina di un garante cittadino dei diritti dei detenuti. I responsabili regionali del dipartimento giustizia del gruppo hanno scritto anche al sindaco Lucio Greco. “Reinserire i detenuti che hanno espiato le loro pene - dicono Licata, Cacioppo e Giannone - è molto importante, nel pieno rispetto dei loro diritti ma anche delle norme che regolano questa delicata materia. In consiglio comunale, porteremo una mozione, che impegnerà l’amministrazione comunale, proprio per arrivare alla nomina di un garante cittadino”. La proposta verrà avanzata, probabilmente, dal consigliere comunale Vincenzo Cascino, che a breve potrebbe ufficializzare la sua adesione alla Nuova Dc. “Stiamo lavorando per un incontro, a Balate, con il garante regionale dei diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca - spiegano ancora Licata e Cacioppo - che nel corso del dibattito di oggi ha esposto in maniera sicuramente chiara l’esigenza di assicurare i diritti che la nostra Costituzione e le leggi in materia prevedono per chi sconta la pena e non può essere dimenticato. Non escludiamo la stipula di convenzioni con il Comune, per attività da destinare ai detenuti”. Anche l’adesione dell’avvocato Cacioppo viene visto come un passo in avanti nella fase di strutturazione del gruppo locale del partito, rilanciato da Cuffaro. Palermo. Ieri il convegno “Né pena di morte, ne morti per pena” di Marco Gullà Giornale di Sicilia, 5 dicembre 2021 Situazione all’interno delle carceri italiane, dal sovraffollamento ai servizi primari fino all’aspetto educativo. Di questo si è parlato durante il convegno “Né pena di morte, ne morti per pena” che si è svolto ieri presso l’Aula Mattarella di Palazzo dei Normanni, a Palermo. L’incontro è stato presentato da Eleonora Gazziano, responsabile regionale degli art. 3 e 27 della Costituzione Italiana per la Dc, da Lidia Licata, dirigente provinciale di partimento Giustizia della Dc e da Sabrina Renna, componente del direttivo “Nessuno Tocchi Caino”. Presente il commissario regionale della Democrazia Cristiana nuova, Salvatore Cuffaro e Turi Lombardo. “Le carceri italiane sono un incubo da tempo, sono luoghi dove la gente non viene rieducata ma posti di pena e, a volte, anche tutto il sistema è vessatorio - dichiara Cuffaro. Il problema non è solo per il sovraffollamento, con stanze con il 30-40% di gente in più rispetto a quanto le celle ne potrebbero contenere, ma perché tutto il sistema che riguarda i servizi primari è vessatorio. Le celle purtroppo diventano luoghi dove la gente si lascia morire. Nel nostro Paese è sempre più in aumento, infatti, il numero di suicidi in cella: ci sono più suicidi nelle carceri italiane di quanto ne faccia la pena di morte negli Stati dove è ammessa. Un paese di diritti come il nostro non può non attenzionare ed umanizzare un luogo dove la gente, anche se ha sbagliato va rieducata, salvando dignità”. “È un momento particolare per la giustizia e la questione carceri non deve essere abbandonata - dichiara Eleonora Gazziano. Ci sono numeri aberranti sui suicidi in carcere. Vogliamo accendere un faro di speranza verso tutti i cittadini e cittadine detenuti perché possono anche morire, con l'aggravante che esiste un ergastolo ostativo che è la prossima nostra battaglia”. Volterra (Pi). I detenuti fanno i contadini, nasce “Olivocultura sociale” La Nazione, 5 dicembre 2021 Il progetto è rivolto a soggetti svantaggiati e punta alla formazione di personale qualificato. Imparare a potare gli olivi e a partecipare alla raccolta delle olive, ma anche a curare i vigneti e a dare il proprio contributo alla vendemmia. Il primo step del progetto “Olivocultura Sociale”, promosso da Confagricoltura Toscana e presentato a Volterra, è rivolto a dodici persone (disabili, detenuti, ex tossicodipendenti) selezionate dalla cooperativa La Torre e da altre cooperative sociali che si occupano di disabilità, dal Serd della Asl, e dall’amministrazione carceraria di Volterra, che in due anni seguiranno corsi di formazione tecnico-pratica per essere poi inserite in due aziende agricole del Comune di Peccioli: la Banti Ruffo e la Fattoria di Monti. Il progetto coinvolge anche l’associazione di produttori Olivicoli Toscani Apot (capofila del progetto) e la Fondazione Crv. “Auspichiamo che questo sia solo un primo step di un progetto in cui crediamo. Questa iniziativa ha un interesse sociale perché il primo obiettivo è quello di dare degli strumenti a persone svantaggiate per aiutarli a raggiungere una propria autonomia - spiega il presidente di Confagricoltura Toscana Marco Neri - Pensiamo che questa sia un’opportunità per le aziende agricole alla continua ricerca di manodopera. È importante poter contare su personale qualificato che possa essere inserito in azienda”. Inchiesta di Stella Pende sulle “Donne dietro le sbarre” di Davide Falco dietrolanotizia.eu, 5 dicembre 2021 Domenica 5 dicembre, in seconda serata, su Retequattro, nuovo appuntamento con le inchieste di “Confessione Reporter”, il programma di Stella Pende, a cura di Sandra Magliani. La nuova edizione è interamente dedicata alle donne: ai loro diritti, ai loro sogni, al loro coraggio. La seconda puntata è un reportage sulle carceri femminili. Anche se il carcere è maschio. Così come le rivolte e le condanne, il dolore e la quotidianità, che sono sempre raccontati dagli uomini. Primi anche in prigione. Ma come vivono la prigionia le donne? Il viaggio del programma Mediaset nelle carceri femminili è senza filtri. Emerge una verità dura e una realtà dimenticata da troppi. Le carceri dedicati alle donne sono solo cinque: Empoli, Pozzuoli, Rebibbia, Venezia e Trani. Le altre, secondo la Legge 354, sono sparse in 52 altri istituti che ospitano detenuti maschi. Un’ulteriore prova che il carcere femminile è una sorta di alieno, in una realtà pensata solo per gli uomini. L’invita Giulia Pezzolesi ha raccolto le testimonianze di alcune carcerate, persone che hanno preso coscienza del male fatto e recuperato la forza per riaffiorare dall’abisso. Una resilienza emersa in particolare a Venezia, nel carcere della Giudecca, un simbolo una speranza che, prima o poi, ogni luogo di pena possa diventare uno spazio di ripensamento e di voglia di futuro. Studenti e detenuti protagonisti del film doc Rebibbia Lockdown ansa.it, 5 dicembre 2021 Da un'idea di Paola Severino, in prima assoluta nello Speciale Tg1. Quattro studenti universitari della Luiss e un gruppo di detenuti del reparto di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia. È il film documentario Rebibbia Lockdown - diretto da Fabio Cavalli e nato da un'idea della vicepresidente della Luiss, Paola Severino - che sarà proposto in prima visione assoluta da Speciale Tg1, in collaborazione con Rai Cinema, domenica 5 dicembre alle ore 23.40 su Rai1. Il film dà voce alle paure e alle inquietudini generate dalla pandemia all'interno dell'universo carcerario e l'impatto sui detenuti e sul personale di Polizia Penitenziaria. Nel periodo in cui il Covid-19 ha costretto tutti all'isolamento, tra i protagonisti del film documentario si instaura un fitto scambio epistolare nel quale ognuno sceglie di raccontare a cuore aperto sogni, speranze e sacrifici. Solo alla fine del lockdown, tutti i protagonisti avranno modo di rincontrarsi personalmente nell'aula universitaria di Rebibbia, sentendosi più legati di prima. Rebibbia lockdown è anche la naturale prosecuzione del progetto “Legalità e Merito nelle scuole”. Nato nel 2017, il progetto è da sempre pensato per gli studenti delle scuole secondarie di II grado e per i giovani detenuti presso gli Istituti Penali Minorili di tutta Italia, per sensibilizzarli sui valori della legalità e del merito, sulla cultura della corresponsabilità, delle regole e del senso civico, della trasparenza e del rispetto dei beni comuni. “Legalità e Merito nelle scuole” è un'iniziativa sviluppata in collaborazione con il Ministero della Giustizia, il Ministero dell'Istruzione, il Ministero dell'Università e della Ricerca, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e l'Autorità Nazionale Anticorruzione. Rebibbia Lockdown - una produzione Clipper Media con Rai Cinema, in collaborazione con la Luiss Guido Carli, con il sostegno della Regione Lazio/Fondo regionale per il cinema, realizzato grazie alla disponibilità del Ministero di Giustizia - Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria - approda all'interno dello Speciale TG1, dopo essere stato presentato in Venice Production Bridge alla 78/a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. “Non tutti sanno”. Quelle voci di dentro di Ritanna Armeni L'Osservatore Romano, 5 dicembre 2021 Una suora Emma Zordan, della Congregazione delle adoratrici del Sangue di Cristo, ha lavorato per sei anni come volontaria nel carcere penale di Rebibbia. Ha ascoltato i detenuti, si è occupata della preparazione dei sacramenti, ha organizzato un laboratorio di scrittura. Non tutti sanno è il risultato di tante giornate passate con loro, di discussioni, confidenze e preghiere. Voci dal carcere che provano a comunicare con chi è fuori. Che raccontano, che spiegano, che ricordano, che gemono. A volte sono grida di dolore. Ma sono soprattutto voci che insegnano. Che cosa? Lo scrive nella sua introduzione il cardinale Giuseppe Petrocchi. Ci dicono che “la persona non coincide con il male che ha compiuto”, che “nessuno può essere rinchiuso irreversibilmente nell’errore”. Che - come ha ricordato di recente Francesco nella sua visita a Regina Coeli “nessuno può condannare l’altro per gli errori che ha commesso, né tanto meno tantomeno infliggere sofferenze offendendo la loro dignità umana”. Eppure la maggior parte di noi nei confronti di chi ha perduto la libertà si limita a condannare. Con durezza, persino con ferocia. E a emettere giudizi inappellabili cancellando la pietà e il perdono. “Per la società - denuncia nel suo scritto accorato M.L - tra detenuto ed ex detenuto cambia poco, anzi nulla, comunque siamo visti dal pregiudizio come “avanzi di galera”, delinquenti pregiudicati all’infinito, senza possibilità di trovare anche un piccolo spazio per rifarsi la vita”. Tristezza? Angoscia? Pessimismo? Questi sentimenti ci sono tutti nelle pagine raccolte con cura e amore da suor Emma Zordan. Ma c’è anche molto altro. C’è la speranza. “Sarà dura, molto più di quanto immaginassi - scrive A.R. nel suo primo giorno di carcere - ma questa vita insegna che ci si può piegare, ma non spezzare”. C’è la conoscenza. “Fin dal giorno in cui ho superato la porta del primo carcere mi sono trovato nel mezzo di una nuova umanità fatta di un crogiolo di razze”. C’è la fiducia nell’amore. C’è la richiesta di aiuto. C’è infine - importantissima - la voglia di riscatto. G.S. racconta di un traguardo insperato. “Ho 75 anni, ma sono orgoglioso di per dire che la scorsa estate ho preso il diploma anch’io. Vorrei dire ai lettori che il carcere può diventare un luogo di riscatto”. R.L. aggiunge: “Quando sono entrato non sapevo quasi scrivere, ma sono riuscito a diplomarmi. Attualmente sono iscritto al primo anno di Giurisprudenza”. Le voci, nelle testimonianze raccolte da Emma Zordan nel carcere di Rebibbia si inseguono, si incrociano, a volte si sovrappongono. Chiare o confuse, arrabbiate o rassegnate, tristi o ostinate hanno bisogno di ascolto. Sapremo darglielo? Per il Terzo settore non celebrazioni ma rispetto di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 5 dicembre 2021 La Giornata internazionale del Volontariato costituisce l’occasione per porsi il problema del sostegno agli enti che continua a slittare. Uno sberleffo. Anche il mondo del Terzo settore ha pagato economicamente gli effetti del Covid: per questo gli enti non profit avevano chiesto di poter accedere al Decreto Ristori e per questo, prendendo atto dei servizi che le realtà hanno continuato a garantire durante i mesi difficili della pandemia, era stato dato il via all’operazione. Peccato che il documento, che il ministero del Lavoro aveva varato la scorsa primavera, abbia avuto una lunghissima gestazione nelle stanze di altri ministeri, al Mef in particolare. Risultato: a fine novembre è arrivato il decreto che consente agli enti del Terzo settore di chiedere l’atteso sostegno. E la richiesta va presentata entro l’11 dicembre: neppure due settimane di tempo per organizzarsi, capire, accedere al portale e mandare avanti la pratica. Lo sberleffo in realtà è doppio: oltre ad essere arrivati in zona Cesarini e ad aver gettato volontarie e volontari in un discreto panico (dal momento che non sempre hanno strutture e personale in grado di gestire pratiche burocratiche, più o meno complesse), i soldi anche per il 2021 non ci saranno. E quindi: il 2020 li ha messi in ginocchio, nel 2021 hanno aspettato i soldi, i soldi arriveranno, forse e per chi sarà velocissimo, nel 2022. Ma è giusto? Stiamo parlando di centinaia di migliaia di enti che anche durante la pandemia hanno rappresentato la sola àncora di salvezza per famiglie, bambini, anziani, poveri, disabili. Enti che si sorreggono spesso soltanto con le donazioni di privati e aziende e che nell’anno dell’emergenza hanno visto decimate le entrate perché a loro volta privati e aziende hanno dovuto fare i conti con la crisi. Qualcuno ha dovuto chiudere servizi, tutti si sono adoperati per evitare il tracollo e per non far mancare il sostegno ai più fragili. Ma lo Stato ha dimenticato proprio loro. Oggi 5 dicembre è la Giornata internazionale del Volontariato: invece di pacche sulle spalle, medaglie, celebrazioni, al Terzo settore diamo rispetto e considerazione. Ddl Zan, la promessa di Letta: “La nostra battaglia continua, arriverà a un risultato positivo” La Repubblica, 5 dicembre 2021 Il segretario dem durante l'Agorà dedicata ai diritti della comunità Lgbtqi: “È una missione per la modernizzazione della società”. Il leghista Ostellari: “La bocciatura della legge al Senato? È stata colpa sua”. “Questa battaglia è una missione, che sentiamo come tale, importante per tutti noi. È una missione che travalica i confini del nostro ambito politico, di modernizzazione della società”. Il segretario del Pd, Enrico Letta, torna a parlare della legge contro l'omofobia e della necessità della sua approvazione. Lo fa intervenendo all'Agorà organizzata dai dem sul tema dei diritti delle persone Lgbtqi e l'occasione diventa per il leader del partito il modo per ribadire che il Pd continuerà a dare battaglia in Aula per arrivare all'approvazione del ddl Zan, bocciato al Senato nei mesi scorsi a causa dell'ostruzionismo dei partiti di destra. “La nostra battaglia, che è diventata ormai europea, continua - avverte Letta - Quanto accaduto in Senato è solo una tappa di una battaglia che arriverà a risultato positivo. La società è lì, più avanti”. Parole a cui però replica infastidito il leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia del Senato. “Letta non ha ancora capito che se la maggioranza del Senato ha bocciato il ddl Zan la colpa è principalmente sua”, attacca l'esponente del Carroccio. “Dopo aver rifiutato per mesi il confronto proposto da Salvini e dal centrodestra - prosegue Ostellari - e soprattutto ignorando le richieste della Santa Sede e di quanti chiedevano di modificare quel testo, ora vuole alzare nuovamente i toni. Il centrodestra in commissione Giustizia ha un testo pronto per la discussione. Noi ci siamo, senza imposizioni e bandiere ideologiche”. Migranti. Il pm indaga su Abdel, morto in ospedale. “Era legato da giorni” di Romina Marceca La Repubblica, 5 dicembre 2021 L'arrivo ad Augusta, in Sicilia, su un barcone di migranti, la quarantena su una motonave dove non sarebbe riuscito a richiedere la protezione internazionale e il trasferimento nel Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria, a Roma. Poi, una settimana fa, il tunisino Wissem Ben Abdel Latif, è morto a 26 anni nel Centro psichiatrico del San Camillo dove era stato legato a un lettino braccia e gambe per almeno due giorni, forse tre. Cosa è accaduto a questo giovane? È quanto chiede di sapere il Garante nazionale per i detenuti Mauro Palma, che ha già chiesto e ottenuto le carte sanitarie di Latif. “Va chiarito - dice - se al momento della morte fosse legato perché nelle carte sanitarie non è indicato. Gli esami del sangue erano regolari, non sembrava ci fossero problemi di salute”. Quella di Abdel è stata una voce inascoltata? “Le sue condizioni erano compatibili con il regime carcerario? Perché non si è tenuto conto della sua fragilità psichica sin dallo sbarco?”, si chiede il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Sulla fine del ragazzo la procura di Roma ha aperto un'inchiesta e ha disposto l'autopsia. Cosa è accaduto dai primi di ottobre in poi, dopo che Abdel Latif mette piede in Sicilia e viene dichiarato idoneo alla vita di comunità? I tre giorni trascorsi legato al letto possono avere avuto effetti sulla sua salute? E, ancora, la terapia per i problemi psichiatrici diagnosticati a Roma era adeguata? Di certo, al momento, c'è che per quel ragazzo, tre giorni dopo il suo arrivo al Cpr di Ponte Galeria, è stato chiesto un consulto psichiatrico all'Asl 3 di Roma. Dieci giorni dopo Abdel, che era in attesa di sapere se la sua richiesta di protezione venisse accolta, ha iniziato una terapia con farmaci per problemi “prima ansiogeni e poi comportamentali”. Era diventato aggressivo. Ma quella terapia non avrebbe avuto buoni effetti e lui a un certo punto l'avrebbe rifiutata. I medici hanno disposto allora un ricovero all'ospedale Grassi il 23 novembre, due giorni dopo il paziente è stato trasferito al Centro psichiatrico ospitato al San Camillo. Lì la sua aggressività avrebbe convinto i medici al cosiddetto “lettino di contenzione”. La mattina del 28 novembre è stato trovato morto su quel letto. Se fosse legato o meno non emerge dalla cartella. Sul corpo non sarebbero stati trovati segni di violenza. La denuncia del caso è arrivata in prima battuta dal garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, e da Alessandro Capriccioli, consigliere regionale Radicali/+Europa, che insieme sono andati al Cpr. “Dalla documentazione che abbiamo ottenuto risulta che il giovane era affetto da problemi psichiatrici. Il decesso è per “arresto cardiocircolatorio”. Ma su questa vicenda deve essere fatta piena luce. Obiettivo per il quale continuerò a impegnarmi”, ha scritto in una nota Alessandro Capriccioli. “Conoscevo Abdel, era in salute. Aveva anche una discreta preparazione scolastica, suo padre è un funzionario del ministero dell'istruzione in Tunisia. Dal Cpr è uscito con le sue gambe, non ho idea di cosa sia successo dopo. Alle 4,20 del 28 novembre mi hanno telefonato per dirmi che era morto”, racconta il direttore del Cpr Enzo Lattuca. L'ambasciata di Tunisi è già stata informata. E anche al San Camillo si cerca di comprendere cosa è accaduto. Il direttore generale, Narciso Mostarda, assicura: “Non ho alcun dubbio sui nostri professionisti. Stiamo raccogliendo tutta la documentazione per arrivare a una risposta”. Migranti. Il sogno italiano di Abdel Latif finisce al reparto psichiatrico di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 5 dicembre 2021 Abdel Latif ha 26 anni, è originario di Kebili nel sud della Tunisia e il 28 novembre scorso è morto all’ospedale San Camillo di Roma in circostanze ancora da chiarire. Della sua storia personale sappiamo ancora poco: arrivato a Lampedusa a fine settembre, ha passato dieci giorni in una nave quarantena ad Augusta prima di essere trasferito al Cpr di Ponte Galeria. Alessandro Capriccioli, consigliere regionale di +Europa Radicali, insieme al Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio Stefano Anastasia ha effettuato ieri una visita ispettiva al Centro di permanenza per i rimpatri e ha potuto visionare anche i documenti sanitari. “Abdel Latif arriva al Cpr previa certificazione dell’idoneità della vita in comune, un certificato che serve per dire che la persona è idonea a essere messa in una struttura del genere - è la ricostruzione che Capriccioli fa al manifesto. Qui il personale medico si accorge che il ragazzo ha un problema psichiatrico a cui segue una prima terapia prescritta da uno psichiatra della Asl. Passano alcuni giorni e questa volta lo psichiatra della Asl richiede che la seconda valutazione venga effettuata mediante ricovero ospedaliero. Latif arriva così in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale Grassi il 23 novembre, dove passa due giorni prima di essere trasferito al reparto psichiatrico del San Camillo. Il 26enne ha subito misure di contenzione il 25, 26 e 27 novembre, però non è specificato per quanto tempo. Per quanto si capisce dalla documentazione potrebbe anche essere continuativa, non si sa”. Dal Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria arriva anche un’altra notizia: Abdel Latif non mostrava segni di aggressività nei confronti delle altre persone presenti al Cpr e non era considerato un soggetto pericoloso. Nelle annotazioni presenti all’interno della contenzione, si cita l’aggressività come uno degli elementi che hanno reso necessario questo tipo di intervento. Al momento è da verificare se il 26enne avesse presentato o meno domanda di protezione internazionale durante il suo periodo in Italia. A una vicenda che già di per sé presenta diversi punti di domanda, si aggiunge la chiamata del consolato tunisino alla famiglia di Latif per annunciare la morte del ragazzo, avvenuta la mattina del 3 dicembre, quasi una settimana dopo il decesso. Uno squarcio nella vita dei genitori e dei suoi parenti più stretti per una persona che fino a quel momento non aveva mai dato segni di particolari problemi fisici che potessero portare, secondo i familiari, a una morte prematura. “Ho solo le urla della madre al telefono”, sono le parole del deputato tunisino Majdi Karbai (Attayar), da sempre attivo sul tema migratorio e contattato da un cugino di Latif una volta appresa la notizia. “Quando ha chiamato mi ha riferito del consolato e del fatto che si trattasse di morte naturale. Il ragazzo è uno sportivo e non soffre di malattie croniche. È una storia che mi ha stupito molto”, prosegue Karbai che ha già segnalato il caso al Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale e alla campagna “LasciateCIEntrare”. Non è un caso che Abdel Latif si trovasse al Cpr di Ponte Galeria. La Tunisia è il primo paese per i rimpatri dall’Italia. Una procedura che avviene attraverso pratiche chiare e ben definite dopo il riconoscimento consolare all’aeroporto di Palermo e un periodo di fermo amministrativo in uno dei centri di permanenza per il rimpatrio. Un processo che si era fermato durante l’emergenza sanitaria e che è ripreso con forza dopo l’incontro dell’agosto 2020 dei ministri Di Maio e Lamorgese in Tunisia con il presidente della Repubblica Kais Saied e l’allora primo ministro Hichem Mechichi. A seguito di quell’incontro venne firmato un accordo di 8 milioni di euro tra i due ministeri degli Esteri per la manutenzione ordinaria di sei motovedette già in possesso della guardia costiera tunisina, in cambio del ripristino delle procedure di rimpatrio. Da agosto a dicembre 2020 i rimpatri sono stati oltre 2mila, mentre da gennaio 2021 a novembre dello stesso anno sono stati più di 1600. Secondo i dati forniti dal Dipartimento della pubblica sicurezza elaborati dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, sempre nel 2021 meno del 50% delle persone transitate nei Cpr è stata effettivamente rimpatriata, la maggior parte di queste (più del 70%) era di origine tunisina. Il deputato Majdi Karbai il 30 novembre scorso ha riportato un cospicuo aumento dei voli di ritorno verso l’aeroporto di Tabarka, città a nord della Tunisia: al momento sarebbero tre a settimana, 40 persone alla volta. Grecia. L’Europa senza diritti di Kara Tepe il campo profughi di Lesbo di Carlo Lania Il Manifesto, 5 dicembre 2021 Più di 2.000 i migranti presenti. E oggi arriva il pontefice. Realizzato con i soldi dell’Ue, è di fatto una prigione per coloro che vi sono richiusi. Quasi sei anni dopo è cambiato poco o niente. Certo, sono più piccole le dimensioni del campo nel quale si trovano i migranti e, di conseguenza, il numero dei disperati che vi sono richiusi oggi è molto inferiore rispetto ad aprile 2016, quando papa Francesco arrivò per la prima volta a Lesbo. Ma le differenze rischiano davvero di finire qui. Quella nella quale atterra oggi il pontefice è un’isola in cui da troppo tempo alcuni diritti che fino a qualche anno fa sembravano intoccabili in Europa - come la libertà di movimento - sono invece sospesi, accantonati insieme alla solidarietà per i più deboli. Un’isola che, suo malgrado, ha accettato di farsi “scudo” per fermare uomini, donne e bambini in fuga da guerra e miseria. La definizione - infelice - di Grecia come “scudo d’Europa” necessario a fermare i migranti la coniò la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a marzo del 2020, quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan minacciava di aprire la frontiere turche permettendo così a decine di migliaia di profughi di attraversare l’Egeo. Oggi la minaccia è rientrata e la Turchia è l’unica cosa che i migranti riescono a vedere dalle loro tende nel campo di Kara Tepe, la struttura realizzata con i soldi dell’Unione europea dopo che nel settembre dell’anno scorso un incendio ha completamente distrutto il campo di Moria, il più grande d’Europa con oltre 10 mila persone ammassate al suo interno. Attualmente a Kara Tepe ci sono invece 2.200 persone tra migranti e rifugiati, il 72% di origine afghana e un terzo rappresentato da bambini, ma le condizioni in cui sono costrette a vivere restano uguali a quelle, vergognose, del passato. “Le persone sono esposte a venti gelidi e a ogni tipo di condizione atmosferica perché il campo sorge a ridosso del mare. I bagni chimici sono in cattive condizioni, mentre le poche docce disponibili non hanno l’acqua calda”, ha denunciato pochi giorni fa Medici senza frontiere, proprio in vista della visita di oggi di papa Francesco. Come se non bastasse il campo è di fatto una prigione. Circondato da recinzioni e sorvegliato a vista da numerosi poliziotti che ne controllano il perimetro e gli accessi vietando l’ingresso ai giornalisti. A parte tre ore per due volte a settimana, ai migranti è proibito uscire se non per emergenze sanitarie o altri motivi medici. “Le politiche di contenimento mettono a rischio la salute delle persone costringendole a vivere in una condizione paragonabile a una prigionia, con conseguenze devastanti”, spiega Augusto Cezar Meneguim, responsabile medico di Msf a Lesbo. Mentre secondo un’altra ong, Intersos, nel campo si trovano donne sopravvissute a violenze domestiche, abusi sessuali, matrimoni precoci subiti nei paesi di origine o durante il viaggio verso l’Europa. Abusi che, spiega sempre l’ong, sarebbero avvenuti anche nel campo di Lesbo. In una situazione simile, dove l’assistenza è lasciata di fatto alle sole organizzazioni umanitarie, le conseguenze dal punto di vista psicologico sono pesantissime. Msf ha fornito i dati di quanti si sono rivolti alle equipe di medici e psicologi. Tra questi anche 70 bambini, più della metà dei quali presentava disturbi post traumatici da stress, tra cui ansia e depressione. Quasi la metà di loro, inoltre, ha assistito a episodi di violenza e omicidi (40%), mentre il 44% ha vissuto almeno un episodio che ha messo a rischio la loro vita. Circa il 20% dei pazienti ha invece subito abusi o violenze. Vittime anche di torture che, denuncia Msf, non hanno ricevuto alcun aiuto da parte delle autorità. Siria. Nell'inferno di al-Hol “Rinchiusi 27mila minori” di Asmae Dachan Avvenire, 5 dicembre 2021 La situazione è drammatica. Amnesty International ha lanciato nei giorni scorsi un appello in favore di almeno 27mila bambini prigionieri nel campo di al-Hol, nella regione di Hassaké, nel nord-est della Siria, per chiederne il rilascio immediato. Le condizioni di vita nel famigerato campo che ospita un totale di oltre 70mila profughi, denuncia Amnesty, sono disumane. Mancano assistenza medica e umanitaria e l'imminente inizio di un nuovo inverno fa temere per l'incolumità dei bambini. Nella zona vivono circa due milioni di sfollati interni, in un'area montagnosa e ostile dove l'accesso a rifugi, servizi igienici, cibo, acqua e assistenza sanitaria è limitato. “Abbiamo visto bambini indossare vestiti estivi e non indossare nemmeno le scarpe, mentre fuori si gelava”, ha raccontato Shatha Folfola, responsabile della promozione della salute di Medici senza frontiere (Msf), al termine di una attività svolta in un campo a fine novembre. “I campi, situati in aree montuose, sono esposti a venti forti e precipitazioni intense durante l'inverno”, ha spiegato Ousama Joukhadar, responsabile per la logistica di Msf. “Ogni anno, le tende devono essere attrezzate per prevenire le infiltrazioni delle piogge”. Anche prima del diffondersi della pandemia di Covid-19 gran parte della popolazione soffriva di problemi respiratori, denuncia Msf. “Le insopportabili condizioni di vita hanno dato luogo a gravi problemi di salute mentale, aggravati dalla mancanza di servizi di sostegno sociopsicologico”, sottolinea invece Amnesty. Il 94% degli abitanti del campo sono bambini e donne. Si tratta di minori e adolescenti figli di miliziani del Daesh e di madri, siriane, irachene, ma anche europee, che si sono unite al cosiddetto Califfato. Un recente rapporto di Save the Children ha rivelato che tra quelle tende solo il 40% dei bambini tra 3 e 17 anni riceve una qualche forma di istruzione. Nel campo, controllato dall'ala siriana del Partito di lavoratori curdi Pkk, con sostegno statunitense, si contano almeno sessanta nazionalità diverse e tra le persone che vi sono detenute ci sono anche vittime dei sequestri operati dai miliziani integralisti, che si trovavano nei territori occupati dal Daesh tra il 2014 e il 2019, in particolare a Deir ez-Zor. Oggi siriani e iracheni si trovano in un'ala, mentre le donne e i bambini stranieri sono concentrati in un campo a parte, chiamato “L'aggiunta”. Tra i pericoli che corrono i più giovani c'è quello dell'indottrinamento e della radicalizzazione. Molte delle madri, infatti, non sono pentite delle loro scelte e continuano a trasmettere idee fanatiche e parole piene di odio. Proprio per questo i dodicenni ritenuti a rischio radicalizzazione vengono spostati in quelli che sono definiti “centri di riabilitazione” al di fuori del campo. Nel campo le violenze sono all'ordine del giorno. Reclutamento di minori, matrimoni forzati, violenze di genere e traffico di esseri umani sono tra le tragedie a cui sono esposte le bambine e i bambini. Save the Children ha denunciato che nel 2021 ad al-Hol sono state uccise 79 persone e 14 bambini sono morti in circostanza non chiarite. Secondo una denuncia dell'Osservatorio siriano per i diritti umani venerdì scorso alcuni uomini armati legati al Daesh hanno attaccato una zona del campo riuscendo a forzare un posto di blocco di Asayish, la polizia curda. Nella sparatoria sono morti due giovani e un terzo è stato ferito. Gran Bretagna. Il prigioniero politico Julian Assange finisce in “Camera caritatis” di Gian Giacomo Migone Il Manifesto, 5 dicembre 2021 È attualmente detenuto nel Regno Unito ed è a forte rischio di estradizione negli Stati Uniti, con conseguenze fisiche e morali che non è difficile prevedere. La Camera dei Deputati ha appena respinto, con 225 voti contrari, 22 favorevoli e 137 astenuti, una risoluzione presentata dal gruppo di Alternativa (fuorusciti dal M5S in occasione della costituzione del governo Draghi), prima firma Pino Cabras, vice presidente della Commissione Esteri, che impegnava il governo italiano a intervenire per la tutela di Julian Assange, attualmente prigioniero politico nel Regno Unito e a forte rischio di estradizione negli Stati Uniti, con conseguenze fisiche e morali che non è difficile prevedere. Se risulta scontata l’opposizione di Forza Italia - il suo portavoce di politica estera, Valentino Valentini, ha denunciato il fondatore di Wikileaks quale autore di “un atto di sabotaggio sistemico” - e della Lega, come anche il parere contrario del governo Draghi, risulta lesivo di ogni elementare diritto umano e di diritto democratico alla conoscenza di atti governativi il voto negativo compatto dei deputati del Pd e, a dir poco, contradditorio, quello di astensione da parte dei loro colleghi del M5S e di LeU che pur continuano a dichiararsi solidali con Assange. Sgombriamo, innanzitutto, il campo da una pur colpevole ignoranza da parte di parlamentari della materia in oggetto, anche se, forse, relativamente poco interessante perché non attinente alla durata della legislatura. Assange e, successivamente, Frank Snowden, con l’aiuto di Chelsea Manning - più recentemente, proprio pochi mesi Daniel Hale, il giovane esperto di guerra dei droni che ne ha rivelato l’uso criminale nella guerra afghana ed è stato condannato da una Corte militare a 4 anni di carcere - , sono stati i protagonisti di una grande operazione di trasparenza democratica, rivelando la documentazione, abusivamente secretata dal governo degli Stati Uniti, che ha messo a disposizione del pubblico fatti occultati riguardo alle guerre condotte, in alleanza con la Nato, Italia compresa, in Afghanistan, Iraq e Libia, con esiti tragici ancora in atto. Sulla scia della pubblicazione dei Pentagon Papers, ad opera di Daniel Ellsberg, che in tempi lontani contribuirono in maniera importante a segnare la fine della guerra contro il Vietnam, la nuova documentazione è stata messa a disposizione di un più vasto pubblico, per opera di alcune delle più importanti testate mediatiche internazionali, anche se quelle italiane, con poche eccezioni virtuose, rimasero cospicuamente silenti. In questi, come in altri casi, hanno rotto questo silenzio, oltre che le forze politiche oggi astenute, alcune testimonianze importanti quali quelle generate dalle iniziative di una commissione del Senato presieduta dal senatore Giovanni Marilotti (anch’egli ex M5S, ora indipendente nel gruppo Pd) e dall’opera d’inchiesta giornalistica di Stefania Maurizi, culminata con la pubblicazione di un libro dedicato al caso Assange (cfr. “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks”, Chiarelettere, 2021); che, in maniera serena e documentata, tra l’altro ricostruisce il non luogo a procedere, da parte della magistratura svedese, per una accusa di stupro, accertata come non sussistente che, in una fase precedente, avrebbe potuto determinare l’estradizione di Assange, agognata dalle autorità di Washington. Sicuramente più diffusa, alla Camera dei Deputati, anche tra le forze di centro sinistra, è la perdurante “ibidine di servilismo” nei confronti degli Stati Uniti, per usare una definizione coniata, all’epoca della Costituente, da Vittorio Emanuele Orlando, ex presidente del consiglio, liberale. Un fenomeno, o atteggiamento, che si ripropone puntualmente ogni volta che si affaccia anche lontanamente una possibile divergenza di orientamento politico con il pur declinante alleato di Washington. In questo caso vi è di più. Il caso Assange mette in gioco il diritto democratico dei cittadini alla conoscenza delle scelte di governo e le motivazioni che lo accompagnano. I paladini della Ragion di stato, che a parole si dichiarano favorevoli ad ogni possibile trasparenza, lo temono quale pericoloso precedente. Ad esempio, quale seguito intende dare Mario Draghi ai suoi impegni di accesso ad atti del passato, tuttora politicamente rilevanti, anche recentemente invocati dal presidente Mattarella?