Carcere, è emergenza senza fine: in crescita suicidi e sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2021 Cresce il sovraffollamento carcerario, aumentato i suicidi, ma nessuna misura deflattiva per arginare le criticità. Secondo gli ultimi dati pubblicati dal ministero della giustizia, alla fine di novembre risultano detenute nelle nostre carceri 54.593 persone, 2.313 sono le donne, 17.302 gli stranieri. Rispetto a fine settembre, risultano 286 detenuti in più. La crescita nell’ultimo mese è stata dello 0,5% a livello nazionale, ma se si guarda alla sola Basilicata la crescita è stata del 4,1%, dell’1,8% in Abruzzo. Il tasso di affollamento ufficiale medio in Italia è oggi del 107,4%, ma è del 134,1% in Friuli-Venezia Giulia, del 131,5% in Puglia e del 128,4% in Lombardia. In Italia gli istituti più affollati sono Brescia ‘ Canton Mombello’ (194,2%), Grosseto (186,7%) e Brindisi (176,3%). In tutto sono 16 gli istituti con un affollamento superiore al 150%. Dati che confermano l’allarme dato recentemente dal Garante nazionale delle persone private della libertà: ha rivelato che l’aumento riguarda anche le persone ristrette per pene inflitte (non residue) molto brevi, inferiori a 3 anni. Secondo i dati recenti, sono detenute in carcere per scontare una pena inferiore a un anno ben 1211 persone, altre 5967 per una pena da uno a tre anni. Sono ancora 19 le madri in carcere con i loro 21 figli di meno di 3 anni. L’associazione Antigone, a proposito di quest’ultimo dato, chiede al governo di trovare delle soluzioni alternative per queste 19 persone, perché - sottolinea l’associazione - “siamo certi non comprometterebbe la sicurezza del paese”. E a proposito del sovraffollamento e delle misure deflattive ancora non varate, Rita Bernardini del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino, annuncia sulle pagine de Il Riformista che riprenderà lo sciopero della fame a partire dalla mezzanotte di domenica. Lo fa soprattutto per sé stessa, per ricordarsi in ogni momento che in un Paese democratico quel che avviene nell’inerzia istituzionale ci riguarda tutti. Bernardini, aggiunge che lo fa ‘per’ e ‘con’ le ragazze detenute del carcere di Torino che hanno annunciato lo sciopero del carrello dal 17 al 23 dicembre affinché, almeno per Natale, si approvi la proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata speciale per tutti quei detenuti e detenute che, nonostante tutto, in carcere si comportano bene. L’esponente del Partito Radicale, ricorda anche la carenza dei direttori delle carceri. Risulta che sono senza direttore le Case circondariali di Trapani, Voghera e Arezzo; le Case di reclusione di Altamura, Tempio Pausania e San Cataldo; l’Icam (Istituto a Custodia Attenuata per Detenute Madri) di Lauro. 27 Direttori dirigono due istituti, 1 Direttore ne dirige addirittura 3. Nelle carceri più grandi, sono stati ridotti drasticamente i vice- direttori, i quali non di rado hanno incarichi a scavalco. Vero che in palio, ci sono 45 posti di dirigenti penitenziari messi a concorso il 5 maggio 2020, ma - secondo Rita Bernardini - sono del tutto insufficienti a ricoprire i posti rimasti scoperti dai tanti pensionamenti passati e prossimi. Nel frattempo aumentano ancora i suicidi. Il Dubbio era rimasto a 50 detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Se ne aggiunge un altro, avvenuto ancora una volta al carcere di Pavia: siamo al terzo suicidio nello stesso carcere. L’osservatorio di Antigone era stato nel carcere lunedì, poche ore prima dell’ultimo suicidio. La situazione dell’istituto glie era apparsa seriamente preoccupante. Moltissime le criticità: strutturali, di sovraffollamento, legate al personale sottodimensionato (medico, in primis, ma anche penitenziario e trattamentale). Connesse ad una popolazione detenuta particolarmente sofferente che si trova ristretta tra quelle mura, in parte composta da detenuti cosiddetti ‘protetti’, ovvero isolati dagli altri per tutelarli dai rischi di aggressione (uno dei più grandi reparti protetti del nord Italia con oltre 300 presenze) e in parte portatrice di una fragilità sociale e psichica, situata nella struttura per la presenza dell’articolazione di salute mentale lombarda. “Se ogni suicidio è un caso a sé e va considerato nella sua complessità, valutando anche la disperazione individuale di chi commette questo atto è anche vero che quando il numero dei suicidi supera una certa soglia è necessario indagare oltre, per capire se ci sono delle cause di tipo sistemico”, denuncia Antigone. Da Aldo Moro a Papa Francesco, l’evidente assurdità del “fine pena mai” di Angelo Picariello Avvenire, 4 dicembre 2021 Presentato l’altro ieri alla Camera il volume “Contro gli ergastoli” curato da Anastasia, Corleone e Pugiotto. “L’ergastolo è costituzionale solo se non è ergastolo”. È paradossale, ma è quanto sancito di recente dalla Consulta, in base al dettato costituzionale che sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. C’è un filo rosso che unisce l’insegnamento di Aldo Moro, Salvatore Senese e Aldo Masullo, fino a papa Francesco, che hanno parlato dell’intollerabilità, giuridica e umana insieme, del “fine pena mai”. “Contro gli ergastoli” è il libro a cura di Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto (Futura edizioni) presentato ieri alla sala stampa della Camera. “Le misure detentive senza fine - conferma il presidente emerito della Consulta Valerio Onida, autore della prefazione - possono definirsi costituzionali solo se esiste una possibilità di accesso alla libertà condizionata”. Questo può avvenire dopo 26 anni di pena scontati, “ma - chiarisce Onida - il condannato deve essere messo a conoscenza di questa possibilità sin dall’inizio della pena detentiva”. Di “pena di morte nascosta”, parla Corleone, e cose molto simili sosteneva Moro, nelle sue lezioni di Diritto penale alla Sapienza. C’è preoccupazione per il testo base in discussione alla Camera, che sembra voler aggirare le prescrizioni della Consulta, “occorre tornare alla responsabilità del magistrato di sorveglianza”, chiede Corleone. La Consulta, chiamata a vagliare la costituzionalità delle norme che escludono l’accesso alla liberazione condizionale all’ergastolano condannato per delitti di mafia, ha pronunciato l’ordinanza 97 del 2021 e ha rinviato il giudizio al 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo termine per affrontare la materia. Il no all’ergastolo ostativo “non è un “liberi tutti” per la mafia”, assicura la deputata Vincenza Bruno Bossio, del Pd. “Ma nella proposta unificata in discussione non è stata tenuta in conto la mia”, lamenta. C’è un asse securitario di destra e di giustizialismo di sinistra che sembra voler neutralizzare la spinta della Consulta. Tornano alla mente le parole di Turati e Calamandrei che definivano le carceri italiane “il cimitero dei vivi”. La normativa vigente per i soggetti condannati per alcuni reati di particolare gravità come, ad esempio, mafia e terrorismo prevede che l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione sia precluso detenuti non collaboranti. Per cui il condannato all’ergastolo per i reati in questione che decidesse di non collaborare sarà destinato a morire in carcere senza alcuna possibilità di risocializzazione. Per Onida, “la Corte indica una strada diversa”, rispetto all’obbligo di collaborazione, “vanno acquisiti elementi che indichino un effettivo distacco e che non ci sia rischio di ricaduta”. Elementi oggettivi, senza che tocchi al detenuto l’onere di una “probatio diabolica”, che a volte può anche non rispondere alla realtà dei fatti. L’avvocato Emilia Rossi ricorda che dei 1.807 condannati all’ergastolo attualmente in carcere, il 70 per cento (1.267) è sottoposto a ergastolo ostativo, ossia senza via d’uscita. Si contano 111 decessi in carcere di ergastolani, in aperto contrasto con il dettato costituzionale e della Corte Europea dei diritti dell’uomo. E intanto invece di alleggerire il carico sugli istituti di pena, “con 17 proposte di modifica al codice penale si continua a legiferare come in balia di una bulimia panpenalistica”, denuncia Ricardo Magi, di +Europa. Quanto alle richieste della Consulta sull’ergastolo, “si continua a ragionare come se la Corte si fosse sbagliata, andando in una direzione diversa”. “Contraddire la Consulta? No: sull’ergastolo, noi 5S guardiamo alla sicurezza” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 dicembre 2021 Il deputato del Movimento 5 Stelle Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia, e relatore del testo base elaborato per dare seguito alla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo, tiene a chiarire: “Non è nell’intenzione di nessuno sabotare l’orientamento della Consulta”. E quando gli facciamo notare che forse è impresa impossibile per un detenuto dimostrare a suo solo carico la certezza di assenza di legami con la criminalità, replica: “In fase emendativa verranno chiarite certamente le perplessità interpretative emerse sulla locuzione “escludere con certezza”. Per me è un problema che non si pone”. Sull’accentramento delle istanze presso il solo Tribunale di Sorveglianza di Roma, aggiunge: “L’accentramento è una soluzione possibile che, in caso di proposte emendative in tal senso, verrà valutata, al pari delle altre. Vero è che comporterebbe ad esempio uniformità di giudizio”. Presidente, se da un lato il testo base è meno restrittivo rispetto a quello dell’onorevole Vittorio Ferraresi, è pur vero che resta l’allegazione a carico del detenuto, il quale deve escludere “con certezza” l’attualità dei collegamenti con l’organizzazione criminale nonché il ripristino degli stessi. Non le sembra di imporre al detenuto una condizione forse impossibile da rispettare? Questa è una interpretazione del testo inesatta, anche se molto diffusa. Infatti, in perfetta coerenza con le argomentazioni della Consulta, si vuole prevedere una prova rafforzata, e cioè si chiede al detenuto un onere di allegazione di fatti e circostanze concrete che consentano, nell’ambito del procedimento di sorveglianza, di raggiungere la prova della effettiva rottura con la criminalità organizzata. La previsione, quindi, è in linea non solo con la sentenza della Consulta 253/ 2019 e con l’ordinanza 97/ 2021, ma anche con la costante giurisprudenza di legittimità in tema di collaborazione impossibile o inesigibile. Non è certo intenzione del legislatore distorcere i principi dettati dalla Corte. In fase emendativa verranno chiarite certamente le perplessità interpretative emerse sulla locuzione “escludere con certezza”. Per me è un problema non si pone. L’attuale presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, nel sollevare in qualità di giudice il dubbio di legittimità costituzionale, sul quale poi si è espressa la Corte costituzionale con la nota ordinanza 97/ 2021, scrisse: “L’esistenza di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante, soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la risocializzazione; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza”. Lo spirito sotteso a queste parole è stato fondamentalmente accolto dalla Corte che, nel pieno bilanciamento tra rieducazione e sicurezza, apre alla liberazione. Lei condivide questo principio? Quelle del presidente Santalucia sono certamente parole di grande spessore giuridico ed etico. Non dimentichiamo che il principio di bilanciamento è uno dei principi cardine del nostro ordinamento, cui anche il legislatore deve ispirarsi. Piero Grasso, intervenendo all’Agorà organizzata dal Partito democratico, a cui ha partecipato anche lei, ha detto: “A mio giudizio la Cedu ha sottovalutato la peculiarità delle organizzazioni mafiose, e la Corte costituzionale, dovendosi muovere in quel solco, ha lasciato al Parlamento il tempo per intervenire”. Condivide questo pensiero, per cui la Consulta tecnicamente non poteva fare altrimenti? Tecnicamente la Consulta avrebbe anche potuto pronunciarsi direttamente nel merito. Invece, con la famosa ordinanza del maggio scorso, ha lasciato spazio e tempo al legislatore perché si possa intervenire organicamente senza smantellare l’impianto che ci ha consentito di tener testa alla criminalità. Un altro punto cruciale di cui si discute è la possibile centralizzazione delle istanze presso il Tribunale di Roma. Nino Di Matteo è favorevole a questa previsione. Lei è d’accordo e quindi presenterete emendamenti in tal senso? E come replicherebbe a chi sostiene che si tratterebbe di una totale alterazione della giurisdizione di prossimità. Le preoccupazioni di Di Matteo in merito alla sicurezza dei giudici di sorveglianza dovrebbero valere allora anche per i giudici della cognizione: per lo stesso motivo si dovrebbero accentrare sull’ufficio Gip del Tribunale di Roma tutte le richieste di misure cautelari nei confronti dei mafiosi. Le stesse preoccupazioni dovrebbero valere per il giudice di primo grado che emette la condanna... L’accentramento è una soluzione possibile che, in caso di proposte emendative in tal senso, verrà valutata, al pari delle altre. Vero è che comporterebbe ad esempio uniformità di giudizio, ma in ogni caso mi permetta di sottolineare che il giudice della cognizione ha funzioni diverse dal giudice dell’esecuzione e quindi non sono equiparabili. Non ritiene che sia sbagliata la narrazione di chi sostiene che appoggiare la linea della Consulta significhi vanificare la lotta alla mafia? Non condivido la narrazione a fazioni contrapposte e non intendo parteciparvi in alcun modo. La linea della Consulta non è certo tesa a vanificare la lotta alla mafia. Presidente, il Movimento 5 Stelle è stato il primo, dopo la decisione della Consulta, a presentare una proposta di legge, dal titolo “Il nuovo ergastolo ostativo”. Senza timore di equivoci, il Movimento 5 Stelle vuole contrastare, sabotare l’orientamento della Consulta? Ribadisco che non è nell’intenzione di nessuno sabotare l’orientamento della Consulta. Tutti hanno riconosciuto l’esigenza di un intervento legislativo che non comprometta le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva per contrastare il pervasivo radicato fenomeno della criminalità mafiosa, e la proposta del Movimento si inserisce con decisione e fermezza proprio su questa linea. Il metodo Cartabia non funziona quando da riformare c’è il Csm di Giulia Merlo Il Domani, 4 dicembre 2021 Gli emendamenti ministeriali al ddl non sono ancora pronti, nonostante questa settimana la commissione Giustizia alla Camera fosse convocata e li stesse aspettando. “La ministra ci sta lavorando, non manca molto”, è l’unico messaggio che filtra dal ministero della Giustizia. L’unica certezza, ad oggi, è che il metodo Cartabia - quello felpato di certosina costruzione di convergenza politica lontano dallo scontro per poi approvare a pacchetto emendamenti condivisi - con la magistratura non sta funzionando, nonostante i moniti di Mattarella e di Ermini. Se Cartabia perdesse l’occasione storica di una riforma di sistema della magistratura, per altro promessa anche al Consiglio europeo, sarebbe una macchia non da poco nel suo curriculum. Ma per approvarla serve uno scatto di coraggio e anche la consapevolezza di scontentare qualcuno. “La ministra ci sta lavorando” e alla presentazione degli emendamenti al ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario “non manca molto”. Sono queste le uniche due risposte, le stesse da settimane, che si riescono a strappare dall’entourage della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Insomma il testo sarebbe quasi pronto - mancherebbero le ultime limature e il via libera di palazzo Chigi - ma di tempi certi non si può parlare. Il 2 dicembre la commissione Giustizia era stata convocata per discuterli, ma da via Arenula è arrivato solo l’imbarazzato sottosegretario Francesco Paolo Sisto che ha chiesto ancora un po’ di tempo. L’unica certezza, ad oggi, è che il metodo Cartabia - quello felpato di certosina costruzione di convergenza politica lontano dallo scontro per poi approvare a pacchetto emendamenti condivisi - con la magistratura non sta funzionando. Come mai i tempi si siano così dilatati è difficile da capire: la commissione presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani e incaricata di relazionare le correzioni al testo base ha concluso il lavoro il 31 maggio e da allora il ministero è al lavoro per produrre il maxiemendamento. Intanto, il limite temporale diretto fissato dal Pnrr è già ormai superato perchè fissava la data di approvazione entro dicembre 2021. Il tempo ormai è agli sgoccioli anche per tentare di rispettare la scadenza delle elezioni del prossimo Consiglio superiore della magistratura a luglio 2022. Il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario, infatti, contiene anche la nuova legge elettorale del Csm che dovrebbe neutralizzare il correntismo che ha caratterizzato la stagione del caso Palamara. Eppure le sollecitazioni a velocizzare i tempi sono arrivate da più parti: la magistratura associata, pur divisa nelle soluzioni da adottare, è stata compatta nel chiedere una rapida presentazione degli emendamenti così da poterli discutere in audizione e anche i partiti si sono messi a disposizione per procedere a tappe forzate. Una richiesta decisa è arrivata anche dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, che dal 2019 auspica una riforma del Csm dopo il caso Palamara e la settimana scorsa, davanti a una platea di magistrati, ha usato parole chiarissime rispetto al solito, dicendo che “è indispensabile che la riforma venga al più presto realizzata, tenendo conto dell’appuntamento ineludibile del prossimo rinnovo del Consiglio superiore. Non si può accettare il rischio di doverne indire le elezioni con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili”. Lo stesso ha chiesto anche il vicepresidente del Csm, David Ermini, intervenuto a un evento sulla giustizia nel Meridione organizzato dal Consiglio nazionale forense a Reggio Calabria. Invece, gli appelli sembrano caduti nel vuoto e per ora dal ministero tutto continua a tacere, tranne generiche rassicurazioni che manchi poco al deposito. Per riuscire a fare in tempo ad approvare la riforma entro luglio 2022, i tempi sono strettissimi. Perchè sia possibile, gli emendamenti della ministra dovrebbero arrivare in commissione Giustizia entro Natale, poi verrà fissato il termine per i subemendamenti e, nella migliore delle ipotesi, la commissione Giustizia della Camera potrebbe iniziare a procedere all’esame del testo a gennaio. Ma con il voto per la presidenza della Repubblica di mezzo è difficile immaginare che il ddl possa arrivare in aula a Montecitorio prima di marzo. E questo immaginando che gli emendamenti del ministero vengano accolti senza particolari approfondimenti e si trovi immediatamente l’accordo politico per votarli. Un accordo politico che ad oggi non esiste. Tra i partiti di maggioranza, il Partito democratico condivide la bozza Luciani che prevede un sistema proporzionale con il “singolo voto trasferibile”, Forza Italia e tutto il centrodestra spinge per il sorteggio temperato e il Movimento 5 Stelle è ancora fermo al testo base di Alfonso Bonafede, che prevede un sistema maggioritario a doppio turno. altrettanta divisione c’è tra i gruppi associativi: le toghe progressiste di Area e Magistratura democratica insieme a quelle centriste di Unità per la Costituzione condividono la soluzione Luciani, anche Autonomia e Indipendenza gradisce un sistema di tipo proporzionale, Magistratura indipendente invece la avversa perché ritiene che esalti il correntismo, Articolo 101 spinge per il sorteggio temperato. Con parlamento e magistratura così balcanizzate, allora, è evidente perché da via Arenula si tentenni a presentare il maxiemendamento che sicuramente scontenterà almeno una delle parti. Eppure, non ci sono notizie di incontri nemmeno riservati per avvicinare le posizioni e trovare una sintesi sul testo in modo da non rischiare il fiume di emendamenti in Commissione e le proteste delle toghe. Eppure, più l’attesa si prolunga, più la situazione politica si complica: ogni riforma, anche la più delicata e ineludibile perché compresa nel Pnrr, finisce invischiata nello scontro che si sta consumando dentro la maggioranza in prospettiva di un ritorno alle urne e dell’elezione del presidente della Repubblica. Con il risultato che anche la riforma del ddl sul Csm - che non contiene solo la legge elettorale ma anche le nuove regole per gli incarichi direttivi dei magistrati e quelle per disciplinarne l’ingresso in politica - potrebbe finire nel tritacarne della contesa. E rischiare anche di non venire approvata. Se Cartabia perdesse l’occasione storica di una riforma di sistema della magistratura, per altro promessa anche al Consiglio europeo, sarebbe una macchia non da poco nel suo curriculum. Ma per approvarla serve uno scatto di coraggio e anche la consapevolezza di scontentare qualcuno. Altrimenti, il rischio è anche peggiore: che, anche dopo gli scandali Palamara e della presunta loggia Ungheria, una riforma non ci sia e allora sia i partiti che le toghe scaricheranno sull’esecutivo la responsabilità del fallimento. Riforma del Csm, Cartabia snobba la commissione e manda Sisto di Paolo Comi Il Riformista, 4 dicembre 2021 La riforma “epocale” che dovrebbe porre fine al mercato delle nomine e alla lottizzazione degli incarichi delle toghe sta diventando una farsa. Il rischio, sempre più concreto, è che alla fine ci sarà solo un maquillage, neppure ben riuscito. Dopo vari rinvii, ieri sembrava infatti essere arrivato il giorno tanto atteso, con la convocazione dei componenti della Commissione giustizia della Camera per discutere con il governo, come indicato nell’ordine del giorno, della riforma dell’ordinamento giudiziario, dei magistrati in politica e dell’Organo di autogoverno della magistratura. Il testo di questa riforma “epocale” era stato presentato dall’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede all’indomani dello scoppio del Palamaragate a maggio del 2019. Al posto della ministra della Giustizia Marta Cartabia si è però materializzato, a mani vuote, il sottosegretario di via Arenula Francesco Paolo Sisto di Forza Italia. La discussione si è svolta in un clima surreale: non avendo depositato il governo dopo tutti questi mesi gli emendamenti al testo Bonafede, i rappresentanti dei partiti non hanno potuto far altro che ripetere i loro. Con una sostanziale perdita di tempo, essendo le posizioni dei partiti sul punto note da tempo. Il primo ad intervenire è stato Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia, che ha stigmatizzato il ritardo con viene affronta la discussione su materie molto delicate come queste pur a fronte dei richiami a fare presto da parte del capo dello Stato Sergio Mattarella. Si rischia di non fare in tempo, ripetono tutti, ad iniziare dal vicepresidente del Csm David Ermini che aveva addirittura indicato come data ultima per il voto in Aula la fine del mese scorso. Con l’inizio della sessione di Bilancio e con l’elezione del capo dello Stato alle porte non ci sono più molte date in calendario. Soprattutto in considerazione del fatto che si tratta di un disegno di legge per il quale saranno poi necessari dei decreti delegati, da approvare prima della prossima estate, quando sono già in programma le elezioni per il rinnovo del Csm. “Non vorremmo che il governo volesse metterci con le spalle al muro”, hanno detto a microfoni spenti alcuni parlamentari presenti. Per evitare discussioni con la variegata maggioranza che sostiene l’esecutivo, il governo starebbe pensando, ipotizzano diversi deputati, di arrivare sotto la scadenza temporale prevista per la presentazione degli emendamenti. La ministra si affiderebbe allora al lavoro della Commissione Luciani, che non cambia alcunché, prima del voto, con la fiducia, in Aula. Uno scenario da brividi. Va detto comunque non ci sono precedenti nella storia della Repubblica di voti di fiducia su argomenti come quello del sistema elettorale dei componenti di un Organo di rilevanza costituzionale. Ma visto che il governo Draghi non può presentarsi a Bruxelles, per incassare i fondi del Recovery, senza la tanto attesa riforma della magistratura e del Csm, può succedere di tutto. “Io vorrei ricordare che non è solo il sistema elettorale del Csm in discussione. Nel ddl ci sono argomenti importantissimi. Penso alla carriera dei magistrati, agli incarichi, al sistema disciplinare, al ruolo degli avvocati nelle valutazioni di professionalità delle toghe”, aggiunge Zanettin. “Sul rapporto toghe e politica, poi, serve mettere un punto. La toga che ha fatto il parlamentare, ad esempio, allo scadere del mandato non deve più tornare in magistratura. Potrà andare al ministero, all’Avvocatura dello Stato, ma non tornare in una Procura o in un Tribunale”, ricorda il parlamentare azzurro, invitando il governo a risolvere una volta per tutte la questione delle porte girevoli in magistratura. Sul sistema elettorale, anche alla luce del successo alle recenti elezioni per l’Anm di Articolo 101, il gruppo di magistrati contro le correnti (vedasi il Riformista di ieri, ndr) Zanettin è tornato sulla necessità del sorteggio temperato per arginare lo strapotere correntizio. Dello stesso avviso la rappresentante della Lega Ingrid Bisa. L’ultimo a prendere ieri la parola prima dell’interruzione dei lavori è stato il pentastellato Mattia Ferraresi. La discussione proseguirà la prossima settimana. Si spera con maggiore fortuna. “Stop ai fuori-ruolo: così le toghe hanno colonizzato tutti gli apparati” di Simona Musco Il Dubbio, 4 dicembre 2021 Costa: “Sovrapposizione tra potere giudiziario ed esecutivo da superare”. Ce n’è uno in Perù, esperto giuridico nell’ambito di un progetto di cooperazione internazionale. Un altro si trova in Tunisia, come “prosecutor adviser” nella missione di assistenza alle frontiere dell’Unione europea in Libia. E un altro ancora a Rabat, come magistrato di collegamento con il ministero della Giustizia in Marocco. E poi toghe dislocate a Parigi, Bruxelles, L’Aja e decine sparse per i vari ministeri, in particolare a via Arenula. Si tratta di alcuni esempi pescati dal lungo elenco dei magistrati fuori ruolo, 161, stando alle informazioni consultabili sul sito del Csm e aggiornate al 30 aprile 2021. Numeri dei quali ieri ha chiesto conto il deputato di Azione Enrico Costa, in un’interpellanza urgente indirizzata al governo e alla quale ha risposto la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, che ha ricordato norme vigenti e impegni futuri, senza però entrare nel merito delle questioni evidenziate dall’ex ministro. Che ha denunciato il “pericolo” di una sovrapposizione dei poteri dello Stato, con una colonizzazione, di fatto, della politica della giustizia da parte delle toghe. “La commissione presieduta dal professor Luciani ha proceduto a formulare proposte integrative del disegno di legge pendente, miranti alla razionalizzazione delle tipologie di incarichi da svolgere fuori dal ruolo organico della magistratura, e condizionando il collocamento fuori ruolo ad un interesse dell’amministrazione di appartenenza”, ha affermato Macina nel concludere il proprio intervento. Nel quale ha ricordato che il limite di tempo massimo fuori ruolo è di dieci anni complessivi e che il trattamento economico rimane identico a quello goduto da magistrato, salvo specifiche indennità. Ma il nocciolo dell’interpellanza di Costa è ben altro, dal momento che sono un centinaio i magistrati che operano all’interno del ministero della Giustizia. Il che significa, evidenzia Costa, che “noi avremo sempre dei pareri, delle soluzioni, degli emendamenti e delle valutazioni orientati in una certa direzione”. Ma c’è di più: “Il potere giudiziario si inserisce nel potere esecutivo, attraverso questo nucleo e attraverso questa struttura. E io sono certo, sottosegretaria Macina - ha affermato - che quello che mi risponderà lei oggi saranno documenti e atti scritti proprio da quell’ufficio legislativo”. Nel suo intervento Costa ha tirato in ballo anche l’Associazione nazionale magistrati, silente, ha evidenziato, di fronte ad un fenomeno che lascia un peso eccessivo sulle spalle dei magistrati che, invece, lavorano nei tribunali. E che sono troppo pochi, come ha evidenziato ieri, a Reggio Calabria, il vicepresidente del Csm David Ermini: “Attualmente il numero dei posti scoperti nella pianta organica dei magistrati ordinari raggiunge le 1.300 unità - ha evidenziato il numero due di Palazzo dei Marescialli - e sono posti che andrebbero coperti con urgenza per far funzionare al meglio le riforme messe in campo”. Certo, 161 toghe in più forse non risolverebbero il problema e comunque rimane forte l’esigenza di nuove assunzioni, per le quali sono state appostate delle risorse nella legge di Bilancio. Ma di certo sarebbe un’iniezione di forze non di poco conto, data l’urgenza di ridurre i tempi della giustizia, richiesta che l’Europa ha ribadito e che necessita di una risposta. L’occasione per cambiare le cose è, dunque, la riforma del Csm, che però procede a rilento, tanto da spaventare i partiti, che non nascondono i dubbi sulla possibilità di arrivare alla prossima elezione dell’organo di autogoverno (prevista a luglio) con una nuova legge elettorale. “Penso che ci sia veramente un’intersecazione, un incrocio, che costituzionalmente non è accettabile - ha evidenziato Costa -, soprattutto per quello che attiene al ministero della Giustizia”. Alcune domande formulate dal deputato di Azione sono rimaste senza risposta, come quella relativa ai criteri di scelta. E l’ipotesi di Costa è che anche in questo caso le correnti possano avere un ruolo nella selezione delle toghe. Così l’idea potrebbe essere quella di procedere per sorteggio, “perché mi risulta che in molte circostanze ci siano state assegnazioni finalizzate a rispettare quegli equilibri correntizi, gli stessi equilibri correntizi che il Governo, con un’altra mano, ci dice di volere scongiurare attraverso un disegno di legge”. C’è poi un altro aspetto: anche in questo caso sono le toghe inquirenti quelle “preferite”. Come per il Dap, a capo del quale, “anche se non c’è la legge che dice questo, abbiamo solo dei magistrati” e solo pubblici ministeri, “guai a chiamare dei giudici”. E poi l’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, dove a fianco di 10- 12 toghe siede solo un’unità “laica”. “Mi spiace perché, quando faccio una proposta, come mi è capitato l’altro giorno, di un ordine del giorno, ovviamente arriva il parere negativo del ministero della Giustizia. Si diceva, semplicemente, che le sentenze di assoluzione devono avere sui giornali lo stesso spazio dedicato alle inchieste; e non va bene. Perché le inchieste chi le fa? Le fanno i magistrati - ha sottolineato Costa - le fanno i procuratori della Repubblica che fanno le loro belle conferenze stampa; non vogliamo mica togliere questo palcoscenico”. Negli uffici del ministero scarseggiano, invece, gli avvocati. “Chiediamoci perché”, ha aggiunto Costa, che ha provato anche a rispondere: “Perché probabilmente, gli avvocati li dovrebbero pagare con quel budget ministeriale. Invece, i magistrati sono già pagati come se svolgessero funzioni giurisdizionali e, quindi, si distoglie la persona ma non si distoglie la risorsa e se ne possono prendere di più. Questa è la vera ragione, è una ragione di convenienza. Lei viene dal M5S, sottosegretaria: questa dovrebbe essere una vostra battaglia”, ha concluso, a tutela di “quelli che lavorano e sgobbano nei tribunali. Quindi la invito anche ad affrontare questo tema nel tempo che ci rimane prima dell’approvazione della riforma del Csm, perché penso che tutti insieme potremmo fare un buon lavoro. Ma, per fare questo, dovremo accantonare quei pareri che vengono da quegli uffici e costruirci un’identità, costruirci un’idea, costruirci delle conoscenze, costruirci delle competenze su questo tema”. Un primo passo per processi civili più rapidi di Priamo Siotto Il Riformista, 4 dicembre 2021 Negli ultimi mesi, due importanti provvedimenti legislativi sono stati emanati dal Parlamento. Il primo riguarda la conversione nella L. 108/2021 del DL n. 77/2021 che ha esteso il processo di digitalizzazione al procedimento relativo alla proposizione dei referendum previsti dalla Carta Costituzionale (abrogativo, costituzionale e inerente le modifiche delle circoscrizioni degli enti nel territorio), nonché dei procedimenti di iniziativa legislativa, provenienti dalla base dell’elettorato passivo. Detto provvedimento era stato inizialmente concepito per favorire la partecipazione dei soggetti disabili nel momento di raccolta delle sottoscrizioni per la proposizione dei referendum e delle iniziative legislative. Senonché il legislatore ha esteso la misura ad ogni soggetto, così ampliando enormemente la sfera di coloro che potranno usufruire della raccolta delle firme in via telematica. La misura, di per sé condivisibile, deve tuttavia fare i conti con lo storico contrasto, che in passato si è verificato, tra l’esito dei referendum e la loro mancata attuazione in sede legislativa che costituisce il vero problema in ordine agli strumenti di democrazia diretta. Troppe volte l’esito referendario è stato travolto in sede legislativa dal Parlamento. Gli esempi sono tanti ma, a titolo meramente esemplificativo, va qui ricordato il Referendum sul finanziamento pubblico ai partiti o quello inerente la responsabilità civile dei magistrati. L’altro provvedimento è costituito dalla L. n. 113, del 6.8.2021 che ha convertito in legge il DL n. 80/2021: “misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per l’efficienza della Giustizia”. Per ciò che attiene all’intervento nel settore giudiziario, particolare attenzione riveste l’Ufficio per il processo esteso anche alla giustizia amministrativa. È noto che la costituzione dell’Ufficio per il processo presuppone la formazione di un pool di collaboratori con il magistrato che agevoli il lavoro di quest’ultimo mediante la gestione del ruolo, la ricerca giurisprudenziale e dottrinale, che si attaglia al caso in esame, nonché la redazione di bozze dei provvedimenti che dovranno poi essere visti e sottoscritti dal magistrato. La normativa in esame (capo 2 della Legge) è diretta al reclutamento di personale qualificato da assumersi a tempo determinato. Lo stesso art. 14 indica i titoli valutabili per l’assunzione del personale idoneo alla collaborazione con il magistrato, tra i quali figura il conseguimento di diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali nonché presso le Sezioni specializzate in materia di immigrazione. La L. n. 113/2021 interviene, come detto, anche nel campo della giustizia amministrativa, modificando il codice del processo amministrativo, introducendo una particolare disciplina per i ricorsi “di immediata definizione” per i quali si prevede, anche su input dell’Ufficio del processo, la trattazione alla prima Camera di Consiglio utile ed in tempi quindi molto ristretti. La stessa sentenza dovrà essere redatta in forma semplificata. La normativa in esame va raccordata con il Ddl AS-1662 approvato dal Senato il 31.9.2021. In un’ottica di snellimento della organizzazione giudiziaria sicuramente, l’istituzione dell’Ufficio del Giudice costituisce una delle maggiori novità in quanto comporterà l’assunzione di un numero rilevante di laureati, inclusi avvocati, il cui unico compito sarà quello di contribuire alla riduzione dell’arretrato. La legge in oggetto riguarda anche la magistratura onoraria la cui riforma, allo stato, risulta essere incompleta e che dovrà essere comunque raccordata con i vari progetti di legge al fine di giungere ad un assetto definitivo dello status dei giudici onorari. Appare superfluo ricordare che la magistratura onoraria svolge già da anni un ruolo di supplenza della magistratura togata e che, allo stato dell’arte, il suo ruolo è indispensabile per il funzionamento della giurisdizione. La riforma del codice di procedura civile, che prevede l’istituzione dell’Ufficio del processo, dovrebbe costituire un elemento rilevante per un miglior funzionamento della giurisdizione e pur con le sue lacune, di cui in questa sede non ci si può occupare richiedendo l’argomento una separata trattazione, costituisce comunque un fattivo tentativo di velocizzare la durata dei processi civili. In buona sostanza si tenta di dare attuazione a quel principio di stretta compenetrazione tra giustizia ed economia contenuto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, con il quale il Governo dovrebbe ottemperare agli obiettivi stabiliti in sede europea. È detto esplicitamente nel corpo del PNRR che una giustizia rapida e di qualità stimola la concorrenza e che una riduzione della durata dei processi civili può fare accrescere la dimensione media delle imprese manifatturiere italiane di circa il 10%. E sempre in seno al menzionato piano è pure evidenziato che una riduzione dei tempi da nove a cinque anni per la definizione delle procedure fallimentari possa generare un incremento della produttività dell’economia italiana dell’1,6%. Gratteri: meno carcere e più misure amministrative e inibitorie contro le mafie modena2000.it, 4 dicembre 2021 “Gli studi sulle mafie li abbiamo, sono i controlli che mancano e le sanzioni che sono troppo blande in un mondo di spregiudicati con l’etica sotto i piedi. Perché delinquere non rimanga conveniente, non serve inasprire le pene detentive, ma prevedere automatismi sul piano delle sanzioni amministrative, creando ad esempio inibitorie realmente efficaci”. È la ricetta del procuratore capo della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, questa mattina al centro Malaguzzi per l’XI edizione di Noicontrolemafie, il Festival della legalità promosso dalla Provincia di Reggio con la direzione scientifica di Antonio Nicaso. “Aziende, mafia e pandemia” il tema del convegno, organizzato in collaborazione con l’Ordine dei commercialisti e degli esperti contabili di Reggio, da tempo partner di Noicontrolemafie. Con Gratteri e Nicaso presenti anche Claudio Clemente, direttore dell’Unità Investigazione finanziaria della Banca d’Italia, e il pro rettore dell’Università di Padova Antonio Parbonetti, mentre ad aprire la giornata è stato il consigliere provinciale Nico Giberti, che ha sottolineato come “il processo Aemila abbia rappresentato uno spartiacque culturale, ma certo non una diga”. “I problemi ci sono ancora, molti sono stati accentuati dalla pandemia e noi pubblici amministratori abbiamo bisogno di sostegno, di non sentirci soli e abbandonati - ha aggiunto il sindaco di Albinea - Quando affrontiamo un appalto, vogliamo verificare da dove arrivano i nostri interlocutori, non scoprire interdittive antimafia quando i lavori sono stati già assegnati…”. Dopo il bel video realizzato da 3 classi del Galvani-Iodi e premiato dalla Fondazione Falcone, il pro rettore dell’Università di Padova Antonio Parbonetti ha presentato lo studio sulle infiltrazioni nelle aziende che un gruppo di ricerca dell’ateneo sta portando avanti, partendo dalle ordinanze di custodia cautelare e dalle condanne per il 416bis per individuare connessioni con le aziende. “Emerge una presenza di imprese criminali con effetti distorsivi rilevanti, a partire dalla concorrenza sleale, che impoveriscono le comunità - ha detto - Sono anche in Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia, operano in tutti i settori, non solo nell’edilizia o nella ristorazione, e si presentano a noi in un modo in cui non ci aspettiamo, si mimetizzano senza destare preoccupazione”. “Sono imprese anche di una certa dimensione, con fatturati che beneficiano di attività illecite o drogati dal meccanismo di false fatturazioni che riescono a creare all’interno di vere e proprie filiere - ha concluso Parbonetti - Le mafie non sono altrove e impongono elevati costi sociali ed economici, limitando le libertà anche in questo campo: le mafie ci sono vicine e la lotta contro di loro dipende dall’impegno di tutti”. Claudio Clemente, direttore dell’Unità Investigazione finanziaria della Banca d’Italia, ha quindi illustrato la preziosa opera di intelligence che Palazzo Koch svolge, all’interno di una rete internazionale, “per intercettare tracce del denaro che ci conduca a chi ha commesso delitti, favorire la cultura dell’antiriciclaggio e far accrescere il livello della legalità del Paese “. Fondamentale l’incrocio dei dati, a partire di quello con l’archivio della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che ha portato a raddoppiare dal 2019 al 2020 il numero di operazioni sospette segnalate: “Ora siamo sulle 20.000 circa all’anno, in particolare in Campania, Lombardia e Lazio, il 5,3% delle quali in Emilia-Romagna”, ha spiegato Clemente, illustrando anche i risultati di “una mappatura di 14 milioni di imprese italiane che ci ha portato ad individuarne 150.000 se non mafiose, comunque contigue o in contatto con la criminalità organizzata”. La provincia di Reggio Emilia, con un dato del 3% sul totale di imprese iscritte al Registro, supera la media nazionale del 2,4% e si colloca a livello di Salerno, Trapani e Brescia. “Forniture di Dpi, finanziamenti garantiti dallo Stato e usura i tre fronti che abbiamo segnalato come sensibili durante la pandemia, fin dall’aprile 2020, mentre ora l’attenzione deve essere posta sui 191,5 miliardi in arrivo con il Pnrr: le pubbliche amministrazioni devono collaborare di più, perché se si inserirà la criminalità organizzata sprecheremo parte di queste fondamentali risorse”, ha concluso. “Sono entrambi studi molto interessanti ed utili anche a noi investigatori, perché del Veneto ad esempio si parla poco, ma questa regione rappresenta la nuova frontiera del riciclaggio - il commento di Nicola Gratteri - Sì, è vero, sono venuti a cercarvi loro, ma da imprenditori ingordi a cui la ricchezza non basta mai, i veneti li hanno accolti ed abbracciati: e questo è preoccupante perché significa che in tante zone del Nord etica e morale ce le siamo messe sotto i piedi nel nome del dio denaro…”. Il procuratore capo di Catanzaro ha quindi sollecitato l’Europa “a darsi una mossa perché le mafie non sono un problema solo italiano e tanti Paesi non si sono ancora dotati di un sistema giudiziario forte o non contrastano con sufficiente energia il riciclaggio, magari perché sotto sotto sono contenti di ricevere fiumi di denaro”. “Nella vicina Austria è estremamente facile riciclare, la Germania è il secondo Paese del mondo per presenza mafiosa, ma non fanno indagini e non hanno nemmeno gli strumenti normativi per contrastare la mafia, in nome della privacy non possono ad esempio fare registrazioni ambientali”, ha detto Gratteri, incitando i parlamentari europei italiani a proporre norme più stringenti contro il riciclaggio. Rispondendo alle domande degli studenti, il magistrato ha infine definito il suo lavoro “il più bello del mondo, perché non dobbiamo rispondere a nessuno se non alla legge e perché ci permette di migliorare il contesto dei territori in cui operiamo”. “Noi uomini delle istituzioni dobbiamo però essere più presenti, ascoltare di più anche i cittadini, ma soprattutto essere coerenti: la gente va accompagnata, incoraggiata, più che con le parole con i nostri comportamenti”, ha aggiunto, affermando infine che il “problema delle mafie si può risolvere all’80%: serve la volontà politica e alla politica serve coraggio”. Norme più severe contro la violenza sulle donne di Adriana Pollice Il Manifesto, 4 dicembre 2021 Il Cdm ha approvato il disegno di legge che passa ora al parlamento. Il testo introduce la procedibilità d’ufficio, l’uso del braccialetto elettronico e la sorveglianza dinamica per le vittime. “La necessità è far emergere i molti casi di violenza che non vengono denunciati”: così la ministra Mariastella Gelmini ha riassunto la ratio del ddl per la prevenzione e il contrasto della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica, approvato ieri in Consiglio dei ministri. Al testo ha lavorato tutta la pattuglia femminile del governo, a cominciare dalle due componenti tecniche, Marta Cartabia e Luciana Lamorgese. I numeri rendono la gravità del fenomeno: 109 vittime in 11 mesi con una percentuale di casi denunciati appena del 15, 16%. Un dato così basso che ha finito per rendere poco incisivo il Codice rosso, che nel 2019 ha modificato la disciplina penale e processuale della violenza domestica e di genere, ma che dipende dalla querela di parte. Il disegno di legge (che passa adesso in parlamento) prevede invece la procedibilità d’ufficio per reati come percosse, lesioni, violenza privata, minacce aggravate, violazione di domicilio e danneggiamento “quando il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito”. Tra le novità, il fermo in presenza di gravi indizi, anche senza la flagranza di reato, in caso di pericolo; l’uso del braccialetto elettronico; l’inasprimento delle pene per i reati di percosse, lesioni, minacce, violazione di domicilio e danneggiamento per chi è già stato ammonito; indennizzi per le vittime già nella fase delle indagini preliminari. Il testo, frutto del lavoro delle ministre Elena Bonetti, Lamorgese e Cartabia, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Fabiana Dadone ed Erika Stefani, prevede una nuova ipotesi di fermo che “permette l’intervento tempestivo alla polizia giudiziaria qualora l’urgenza della situazione non consenta di attendere il provvedimento del giudice. La misura viene prevista per categorie di reati quali i maltrattamenti in famiglia, le lesioni e lo stalking, che normalmente preludono alla commissione di condotte criminose più gravi”. Si estendono i reati per i quali scatta l’obbligo di informare la vittima sui centri antiviolenza presenti sul territorio e di metterla in contatto qualora ne faccia richiesta. Braccialetto elettronico: è previsto un uso più estensivo; in caso di manomissione scatta il carcere. Si stabilisce inoltre che in caso di rifiuto del braccialetto elettronico il giudice preveda una misura più grave. Il ddl estende l’applicabilità delle misure di prevenzione personali anche ai soggetti indiziati di alcuni gravi reati commessi nell’ambito dei fenomeni della violenza di genere e domestica (violenza sessuale, omicidio, lesioni permanenti al viso). I provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva devono essere immediatamente comunicati alla persona offesa. I percorsi di recupero diventano più stringenti, la mancata partecipazione o l’elusione degli obblighi comportano la revoca della sospensione condizionale. Infine, l’organo di polizia, qualora emergano concreti e rilevanti elementi di pericolo, ne dà comunicazione al prefetto che può adottare misure di vigilanza dinamica, da sottoporre a revisione trimestrale, a tutela della persona offesa. Alla fine del Cdm le ministre si sono presentate in conferenza stampa: “Il ddl contiene un ventaglio di misure - ha spiegato Cartabia - che hanno un duplice obiettivo: rafforzare gli strumenti di prevenzione e di protezione. Due punti previsti dalla convenzione di Istanbul, insieme alla punizione e alle politiche integrate. Forse la misura più forte è quella del fermo di fronte al pericolo per l’incolumità delle donne. Il ddl, inoltre, rafforza l’applicabilità delle misure cautelari coercitive. Con la violazione del divieto di avvicinamento ora è previsto l’arresto obbligatorio a cui deve seguire una misura cautelare coercitiva per evitare che la persona possa essere rimessa in libertà in vista del processo”. E Lamorgese: “Ci sarà un aiuto economico già nella fase delle indagini. Abbiamo esteso la misura prevista in materia di estorsioni: le donne, o gli orfani, potranno avere un terzo dell’indennizzo totale. Le donne spesso non denunciano perché si trovano in una condizione economica difficile”. Sulla proposta di dare la scorta alle vittime non si è raggiunto l’accordo, troppo limitativo della libertà personale tanto da sembrare una ulteriore punizione nei confronti di chi è perseguitato. Si è scelta la tutela dinamica. Carfagna ha posto l’accento sulla necessità di reintervenire sul tema: “Il ddl incide su una serie di disposizioni normative il cui combinato disposto, fino ad oggi, ha indebolito l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine”. Insoddisfatta la presidente della Rete nazionale Dire, Antonella Veltri: “Il governo procede senza consultare i centri antiviolenza. Il ddl contiene elementi, quali ad esempio l’ammonimento per il reato di violenza sessuale, che destano preoccupazione. Continua un approccio di tipo emergenziale, che porta a un proliferare di norme penali ma la loro effettiva applicazione è a discrezione del singolo magistrato, la cui cultura ne condiziona l’efficacia”. E La senatrice di Leu, Loredana De Petris: “La legge si muove sul fronte della repressione e dei controlli ma occorre anche restituire ai centri antiviolenza quei fondi che sono stati erosi e rifinanziare il reddito di libertà”. Via libera al Ddl contro la violenza sulle donne. Cartabia: “Rafforzate prevenzione e protezione” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2021 Il provvedimento proposto anche dalle Ministre per le pari opportunità Elena Bonetti e dell’interno Luciana Lamorgese modifica il codice penale, il Codice di procedura penale, il Codice delle leggi antimafia e le misure di prevenzione (Dlgs 6 settembre 2011, n. 159) ed alcune leggi speciali. “Abbiamo sempre creduto in questo provvedimento che contiene un ventaglio di interventi che hanno un obiettivo chiaro: rafforzare gli strumenti di prevenzione e protezione delle donne”. Così la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, commenta durante la conferenza stampa alla presenza di tutte le Ministre del Governo e del premier Mario Draghi l’approvazione in Consiglio dei ministri del Ddl contro la violenza sulle donne “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica”. “Un pacchetto di misure contiene la possibilità di applicare il fermo di fronte a gravi indizi di reati che facciano sospettare un pericolo per la vita delle donne - ha specificato la Guardasigilli - un secondo blocco di interventi permette di rafforzare l’applicabilità delle misure cautelari coercitive”. Il provvedimento proposto anche dalle Ministre per le pari opportunità Elena Bonetti e dell’interno Luciana Lamorgese modifica il codice penale, il Codice di procedura penale, il Codice delle leggi antimafia e le misure di prevenzione (Dlgs 6 settembre 2011, n. 159) ed alcune leggi speciali. Il disegno di legge si concentra sulle violenze in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza, ma anche sui casi di particolare vulnerabilità delle vittime e sugli specifici rischi di reiterazione e multilesività. Ammonimento - Il provvedimento estende l’applicabilità dell’ammonimento del Questore per violenza domestica ad ulteriori condotte che possono assumere valenza sintomatica rispetto a situazioni di pericolo per l’integrità psico-fisica delle persone, nel contesto delle relazioni familiari ed affettive. Si stabilisce che le pene dei reati suscettibili di ammonimento sono aumentate quando il fatto è commesso da soggetto già ammonito e si procede d’ufficio per taluni reati qualora commessi da soggetto già ammonito. Nel caso di violazione dell’ammonimento, cioè di reiterazione delle condotte, i reati procedibili a querela diventano procedibili d’ufficio (ad es percosse, lesioni e violenza sessuale non aggravata) ed è previsto un aumento di pena fino ad 1/3. Misure di rafforzamento di obblighi informativi - Si estendono i reati per i quali scatta l’obbligo - da parte delle forze dell’ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche che ricevono dalla vittima notizia dei reati considerati - di informare la vittima sui centri antiviolenza presenti sul territorio e di metterla in contatto con questi centri qualora ne faccia richiesta. Braccialetto elettronico - È prevista la revoca della misura cautelare e la sostituzione con la custodia cautelare in carcere in caso di manomissione dei mezzi elettronici, come il braccialetto. Si stabilisce che, nel disporre la misura coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare con le modalità di controllo mediante mezzi elettronici, il giudice preveda l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo elettroniche. Stessa misura si prevede nel caso di divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa stabilendo che le modalità di controllo con mezzi elettronici possono essere disposte anche al di fuori dei limiti di pena di cui all’articolo 280 c.p.p. Misure di prevenzione personale - Il Disegno di legge interviene anche sul Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159). In particolare estende l’applicabilità, da parte dell’Autorità giudiziaria, delle misure di prevenzione personali ai soggetti indiziati di alcuni gravi reati commessi nell’ambito dei fenomeni della violenza di genere e della violenza domestica (violenza sessuale, omicidio, deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso) e ai soggetti che, già ammoniti dal Questore, risultino indiziati dei delitti di percosse, lesioni, violenza privata, minacce aggravate, violazione di domicilio e danneggiamento, commessi nell’ambito di violenza domestica. Fermo - Viene introdotta un’ulteriore ipotesi di fermo disposto dal pubblico ministero, con decreto motivato, nei confronti della persona gravemente indiziata di maltrattamenti contro i familiari, lesioni personali e stalking. Comunicazione immediata in caso di scarcerazione - Il testo prevede che i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva “emessi nei confronti dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato o dell’internato” devono essere immediatamente comunicati alla persona offesa. L’intervento è volto a chiarire che nel caso di scarcerazione, disposta nel corso del procedimento di cognizione o disposta in fase esecutiva dal giudice dell’esecuzione (o dal pubblico ministero) o dal magistrato di sorveglianza, alla persona offesa deve essere immediatamente comunicato il relativo provvedimento. Sospensione condizionale della pena - Si modifica la disciplina della sospensione condizionale della pena, prevedendo in particolare, che l’ufficio di esecuzione penale esterna e gli enti e le associazioni che organizzano i percorsi speciali di recupero debbano accertare lo svolgimento dei suddetti corsi; nel caso in cui sia accertata anche solo la mancata partecipazione del condannato al percorso di recupero o di uno degli obblighi imposti allo stesso sia data immediata comunicazione dell’inadempimento ai fini della revoca della sospensione condizionale. Tutela della vittima e provvisionale - Infine, il provvedimento stabilisce che la vittima o, in caso di morte, gli aventi diritto che, in conseguenza di alcuni gravi reati commessi nell’ambito dei fenomeni della violenza di genere e della violenza domestica (omicidio, violenza sessuale o lesione personale gravissima, deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso commessi dal coniuge anche separato o divorziato o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, vengano a trovarsi in stato di bisogno), possono chiedere una provvisionale da imputarsi nella liquidazione definitiva dell’indennizzo. Infine, l’organo di polizia che procede a seguito di denuncia o querela per fatti riconducibili ad alcuni reati commessi in ambito di violenza domestica, qualora dai primi accertamenti emergano concreti e rilevanti elementi di pericolo di reiterazione della condotta, ne dà comunicazione al prefetto che può adottare misure di vigilanza dinamica, da sottoporre a revisione trimestrale, a tutela della persona offesa. Pavia. Suicidi in carcere: “Un’emergenza” di Stefano Zanette Il Giorno, 4 dicembre 2021 Laura Cesaris, Garante dei detenuti della Provincia di Pavia, spiega la situazione problematica di Torre del Gallo. “I tre suicidi in poco più di un mese sono solo la punta dell’iceberg, vorrei che l’attenzione di spostasse sulla situazione nel complesso, che si protrae non da un mese ma da anni”: Laura Cesaris, garante dei detenuti della Provincia di Pavia, spiega la situazione a dir poco problematica che si è venuta a creare nel carcere pavese di Torre del Gallo, arrivata anche all’opinione pubblica con la tragicità degli ultimi ravvicinati gesti di autolesionismo che hanno portato alla morte di tre detenuti. “Ma ci sono anche tanti altri atti di autolesionismo - prosegue la garante provinciale dei detenuti - che non assurgono agli onori delle cronache, ma che sono ugualmente un grave e forte segnale di disagio”. Nei mesi precedenti i sindacati di polizia penitenziaria avevano segnalato, oltre a detenuti salvati da tentativi di suicidio, anche molti episodi di aggressioni e danneggiamenti. “Oltre agli atti di autolesionismo - conferma Laura Cesaris - c’è chi invece scarica rabbia e frustrazione su altro, sugli arredi della camera di pernottamento oppure sul personale di sorveglianza. Sono tutte manifestazioni di disagio fisico e psicologico, grave e gravissimo. Mi chiedo come l’amministrazione non abbia colto questi segnali e come non abbia pensato di reagire”. In questi giorni la direttrice del carcere, Stefania D’Agostino, risulta in congedo e dovrebbe rientrare la prossima settimana. Ma anche nei mesi scorsi, a quanto riferivano i sindacati della polizia penitenziaria e ora conferma anche la garante dei detenuti, non ci sarebbe stata la possibilità di un confronto con la direzione e l’amministrazione per affrontare i problemi che già si presentavano prima dei tragici eventi dell’ultimo mese. “Mi sono trovata di fronte - ammette Laura Cesaris - una sorta di muro, di sbarramento, di non possibilità di interloquire, salvo con il responsabile sanitario, a cui va tutta la mia stima per i grandissimi sacrifici che sta facendo. Con gli altri i rapporti erano già estremamente limitati, dopo il secondo suicidio sono venuti meno del tutto. C’è stata una chiusura burocratica, completamente infondata: al terzo suicidio, del quale sono venuta a conoscenza in modo casuale, non potevo più stare zitta”. “Vedo limiti, vedo carenze - prosegue ancora la garante provinciale dei detenuti - che non sono solo dell’ultimo anno. Ci sono situazioni di inagibilità, dovute a incuria protratta nel tempo. Il polo psichiatrico è al limite della vivibilità. Può darsi che il Dipartimento stia assumendo decisioni, ma è necessario dare anche un segnale all’esterno, per chi questi problemi li vive, non solo i detenuti ma anche gli operatori. Il Dap una risposta la deve dare”. Pavia. Dal carcere assenti direttore, sostituta e vertici della Polizia penitenziaria di Manuela D’Alessandro agi.it, 4 dicembre 2021 A pochi giorni dal terzo suicidio nel giro di un mese, non c’è nessuno nel carcere di Pavia: né la direttrice in carica che però è in congedo, né chi ne fa le veci e nemmeno il Comandante della Polizia penitenziaria e la sua vice. È quanto risulta da un ordine di servizio letto dall’AGI e diffuso dall’associazione Antigone che per il 3 dicembre aveva ottenuto l’autorizzazione a una visita nella casa circondariale Torre del gallo. “Non conosco le ragioni di queste assenze - commenta Valeria Verdolini, rappresentante lombarda di Antigone - ma certamente è un episodio sintomatico della situazione di disagio. In casi come questo è presumibile che, se assenti tutte e quattro le figure apicali, la gestione passi agli ispettori. Riproveremo comunque a tornare”. Tre persone, di 47, 36 e 37 anni, si sono tolte la vita nel giro di un mese, tra il 25 ottobre e il 30 novembre. “Si rappresenta che occorre individuare altra data - si legge nella nota firmata dalla direttrice sostituta - vista l’assenza del direttore titolare e l’impossibilità del direttore in missione di essere presente e stante l’assenza temporanea in sede del Comandante e del vice Comandante”. Tanti atti di autolesionismo - Non solo i suicidi. “Sono numerosissimi gli atti di autolesionismo - spiega Laura Cesaris, garante dei detenuti in provincia di Pavia -. Due casi molto pesanti risalgono all’estate scorsa con una persona che è andata in arresto cardiaco per avere perso troppo sangue”. Dei tre reclusi che si sono tolti la vita uno, di 47 anni, “aveva dei problemi psichiatrici gravi tanto che gli era stato concesso di scontare la misura all’esterno del carcere ma aveva commesso dei reati mentre era ‘fuori’”. Nessuno dei tre avrebbe lasciato dei messaggi per spiegare il gesto. “Quello che mi lascia più amarezza - dice Cesaris - è che l’ultimo che si è suicidato, 37 anni, aveva un fine pena vicino, ad aprile 2023, e il fatto che si sia ucciso indica che nel suo futuro vedeva il nulla. In questo carcere sono quasi completamente assenti le attività finalizzate alla rieducazione della pena”. “Mancano medici, lo psichiatra cuce le ferite” - Uno dei problemi che Cesaris sottolinea è quello della mancanza dell’assistenza sanitaria. “Siamo al lumicino, non è pensabile che lo psichiatra debba cucire le ferite. Ci sono solo due medici che si alternano. Ad agosto tutti e sei i medici che c’erano si sono dimessi perché hanno avuto accesso alla scuola di specialità. Del resto se si sa che un medico vaccinatore guadagna di più di uno che sta in carcere si può capire quanto non sia appetibile come posto”. Santa Maria Capua Vetere. Focolaio Covid in carcere, sale a 20 il numero dei detenuti positivi casertanews.it, 4 dicembre 2021 Il nodo dei permessi natalizi e dei vaccini nel mirino della Garante Belcuore: “Serve open day all’interno del penitenziario”. Sale a 20 il numero dei positivi tra i detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo il primo giro di tamponi - che aveva fatto emergere la positività al coronavirus di 13 reclusi - la seconda serie di test ha fatto salire il numero dei contagiati. Ulteriori tamponi saranno somministrati nei prossimi giorni tra il 4 ed il 9 dicembre. E proprio in virtù dei controlli che i colloqui all’indomani dell’Immacolata saranno con ogni probabilità sospesi, con la possibilità comunque di ricevere il “pacco” dall’esterno e di effettuare la videochiamata. Una situazione che preoccupa e non poco l’amministrazione penitenziaria al punto che lo stesso capo del Dap, Bernardo Petralia, sta seguendo personalmente la vicenda. “Si tratta di positività asintomatiche”, ha detto Petralia nel corso della presentazione del calendario della Polizia Penitenziaria nella sala della protomoteca del Campidoglio. Ma l’isolamento cui ora sono sottoposti i detenuti positivi pone una serie di problematiche relative ai permessi che molti dei detenuti sammaritani hanno richiesto per trascorrere qualche giorno a casa durante le festività natalizie. “Ho chiesto al magistrato di sorveglianza di scaglionare i permessi natalizi già da ora e fin dopo Capodanno - ha spiegato la garante provinciale per i detenuti Emanuela Belcuore - In pratica sia dopo i permessi di 12 ore sia per quelli di qualche giorno al rientro in carere il detenuto viene messo in isolamento per qualche giorno per scongiurare focolai Covid. Il problema è che le celle di isolamento possono contenere un numero limitato di detenuti. Per questo ho chiesto la dilazione dei permessi in un periodo più lungo ed evitare che i permessi vengano sospesi”. Ma il nodo permessi non è l’unico. “È necessario che ci sia un open day vaccinale dedicato ai detenuti all’interno del carcere - prosegue Belcuore - Ho chiesto all’Asl di attivarsi in tal senso perché la maggioranza dei detenuti non ha la prima dose, mentre alcuni che l’hanno fatta non hanno ricevuto la seconda. Al momento non abbiamo ricevuto alcuna risposta”. Cremona. In visita alla Casa circondariale il capo del Dap Bernardo Petralia laprovinciacr.it, 4 dicembre 2021 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, ha visitato oggi la Casa circondariale di Cremona. Accompagnato dal Direttore generale del Personale e delle Risorse del Dap Massimo Parisi, dal Provveditore regionale della Lombardia Pietro Buffa, dalla Direttrice dell’istituto Rossella Padula e dal Comandante del reparto di Polizia Penitenziaria Mauro Cardarelli, ha visitato alcune sezioni del carcere lombardo, che ospita attualmente 436 detenuti, fra cui 322 di nazionalità straniera. Nell’istituto non si registrano, al momento, casi di positività al Covid-19 fra la popolazione reclusa; mentre due sono i contagiati fra il personale di Polizia Penitenziaria. Al termine della visita, il Capo del Dap ha avuto un lungo incontro con il personale in servizio nell’istituto lombardo e, a seguire, una riunione con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali. Bologna. I detenuti parlano di salute. Da radio carcere di Chiara Pazzaglia Avvenire, 4 dicembre 2021 Confermata, anche per il 2022, l’iniziativa che coinvolge la Casa circondariale “Rocco D’Amato” e trenta professionisti. Mentre la Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna fa i conti con il sovraffollamento e le difficoltà pandemiche, si conferma l’attenzione della direzione e dell’Usi alla salute dei reclusi. Il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria ha denunciato al Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche una grave carenza di prestazioni sanitarie, a fronte di un crescente bisogno da parte dei carcerati, che lamentano un peggioramento delle proprie condizioni fisiche e psichiche. Diversi ambulatori sono stati distrutti durante le rivolte di primavera, dovute alla paura dei contagi da Covid e permane la carenza di personale medico e di educatori. Di contro, è stata confermata per il 2022 la diffusione, tra le sbarre, del programma radiotelevisivo, avviato durante il lockdown, che prevede l’intervento di professionisti su temi di prevenzione e promozione della salute. Il programma viene proposto all’interno della trasmissione Liberi dentro, diffusa dalle frequenze di Radio Città Fujiko e su LepidaTu e TeleTricolore. Ora l’Azienda Usl è divenuta parte attiva del progetto, coordinato da Asp Città di Bologna con il coinvolgimento di alcune associazioni, e sostiene con 12mila euro le attività, per proseguire la collaborazione tra istituzioni e volontariato per rafforzare l’integrazione socio-sanitaria. Il progetto ha ricevuto l’apprezzamento del ministro della Giustizia Marta Cartabia. La rubrica Liberi dentro, in un anno e mezzo, ha coinvolto una trentina di professionisti dell’Usi e del policlinico Sant’Orsola affrontando temi come alimentazione, diabete, fumo, salute mentale e dipendenze. Inoltre è stato possibile spiegare la corretta applicazione delle misure di prevenzione per contrastare la diffusione del Covid e di altre malattie infettive. Proposta anche una formazione a distanza per sostenere la necessità di aderire alla campagna vaccinale, anche da parte dei detenuti. Altra funzione della rubrica è indirizzare i reclusi, in vista della loro scarcerazione, perché siano in grado, una volta liberi, di fare ricorso ai servizi sanitari pubblici, cui dovranno rivolgersi in caso di bisogno. Sono state trasmesse puntate per mostrare come accedere ai servizi ed è stato spiegato come attivare il Fascicolo sanitario elettronico. Il palinsesto della rubrica, gestito dall’équipe sanitaria, prevede puntate dedicate anche agli screening oncologici. Giovani detenuti e giornalismo, il servizio in onda oggi su Rai 3 di Mauro Vignola cronachedi.it, 4 dicembre 2021 Il corso di giornalismo tenuto da Cronache di Napoli, Cronache di Caserta e Cronachedi.it (i giornali editi dalla Libra Editrice) all’Istituto penale per Minorenni di Airola (Bn) sarà al centro di un servizio giornalistico video, realizzato dal giornalista Rai Pasquale Piscitelli e dalla troupe del Tgr Campania, che andrà in onda oggi su Rai Tre nell’ambito della trasmissione di approfondimento Mezzogiorno Italia, a partire dalle 13:25. La serie di lezioni, curata dal direttore editoriale di Cronache Ugo Clemente e dalla giornalista Sabrina Pietrantonio, è stata avviata lo scorso maggio di concerto con il direttore dell’IPM Marianna Adanti, con la collaborazione della coordinatrice dell’area tecnica Cinzia Comune e del comandante della Polizia penitenziaria Giovanni Salvati. Si protrarrà fino al giugno 2023. Nel servizio Rai ci saranno gli interventi, tra gli altri, del Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello e del presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania Ottavio Lucarelli. Durante il corso gli 8 ragazzi coinvolti leggono i giornali insieme a un giornalista di Cronache e discutono delle principali notizie del giorno. Poi si passa al confronto sui temi giuridici, sociali, politici, economici e culturali che animano il dibattito pubblico in occasione di eventi di cronaca nera, politica, sportivi o culturali. Quindi si passa agli aspetti tecnici: l’organizzazione del lavoro nella redazione di un giornale, le regole per la composizione di un articolo e degli elementi della titolazione, la scelta delle notizie più interessanti e delle fotografie, la redazione del menabò e l’impostazione della pagina di un quotidiano, le regole della professione giornalistica in materia di diffamazione, privacy, diritto di proprietà intellettuale e deontologia professionale. Una parte del corso è riservata al mondo del web, dalla scelta delle notizie all’organizzazione del lavoro, fino all’utilizzo dei canali social. Gli obiettivi sono diversi. Primo tra tutti, lo sviluppo di una coscienza civica nei giovani detenuti, attraverso la riflessione e il confronto su temi controversi e di pubblico interesse, ma anche su concetti e valori come legalità, giustizia, rispetto del prossimo e democrazia. Questo nell’ottica del reinserimento sociale dei ragazzi coinvolti, spesso detenuti per reati gravi. Non secondario l’obiettivo della formazione professionale, in vista dell’inserimento lavorativo una volta scontata la pena. Un progetto ambizioso, accolto con grande entusiasmo sia dalle istituzioni carcerarie sia dagli stessi detenuti, che partecipano con vivo interesse agli incontri settimanali. Il corso si svolge anche grazie alla collaborazione del Centro Provinciale Istruzione Adulti, diretto da Antonio Gaita, che ha fornito i personal computer necessari per le lezioni. La disponibilità di un’aula multimediale, allestita presso la biblioteca dell’istituto, ha permesso ai ragazzi di scrivere articoli che sono stati pubblicati in una pagina di Cronache di Napoli e di Caserta dedicata proprio a questo progetto, sotto la rubrica “Cronache dal Carcere”. Le copie del giornale sono state distribuite ai detenuti e al personale dell’Ipm nei giorni successivi alla prima pubblicazione, dedicata proprio alle numerosissime attività di formazione che si svolgono nell’istituto. La prossima pubblicazione degli articoli dei giovani detenuti è prevista per gennaio. La nuova povertà ha origine anche nella disuguaglianza digitale di Nadia Urbinati Il Domani, 4 dicembre 2021 Una fonte di disagio sociale è direttamente connesso al rapporto con il digitale, che è penalizzante per larghe fasce di popolazione che non possiedono la materia prima. La digitalizzazione che il nostro governo porta come fiore all’occhiello del Pnrr, tiene fuori milioni di cittadini, lavoratori e studenti. Se ne preoccuperanno a Palazzo Chigi? La connettività a Internet è una delle condizioni perché ci siano pari opportunità - nella scuola come nel lavoro, come nella vecchiaia, come nella vita quotidiana di tutti - visto che gli sportelli dell’amministrazione pubblica si stanno di fatto trasferendo dai luoghi fisici alla rete. Il cinquantacinquesimo rapporto Censis 2021 sulla situazione sociale del paese ha un capitolo sul “boom della povertà.” Nel 2020 due milioni di famiglie italiane vivono in povertà assoluta, più del doppio rispetto a dieci anni fa - una crescita del +104,8 per cento. La crescita della povertà è legata prima di tutto alla diminuzione dell’occupazione e a pensioni insufficienti. L’aumento è sostenuto soprattutto al Nord (+131,4 per cento) rispetto al Centro (+67,6 per cento) e al Sud (+93,8 per cento). La pandemia ha dato il colpo di grazia alla debolezza strutturale del sistema economico del paese. Tra le famiglie cadute in povertà assoluta durante il 2020, il 65 per cento risiede al Nord, il 21 per cento nel Mezzogiorno, il 14 per cento al Centro. Una fonte di disagio sociale deriva dal rapporto con il digitale, che è penalizzante per larghe fasce di popolazione che non possiedono la materia prima. La digitalizzazione che il nostro governo porta come fiore all’occhiello del Pnrr, tiene fuori milioni di cittadini, lavoratori e studenti. Se ne preoccuperanno a Palazzo Chigi? Il problema era già stato osservato nei primi mesi del lockdown 2020 quando è emerso il dislivello di opportunità materiali tra studenti in ragione dell’appartenenza di classe. Senza un computer, un modem e una linea wi-fi oggi si rischia l’analfabetizzazione di massa. Il rapporto Censis ci dice che il 35,2 per cento degli studenti degli ultimi anni delle superiori e dell’università ha avuto difficoltà nella formazione a distanza per questa ragione; e che l’11 per cento degli occupati in urgente necessità di tenere le proprie attività lavorative in versione digitale, è stato penalizzato. La povertà viaggia sul web. Difficoltà scolastica e povertà stanno insieme. Il calcolo è che per il 60,7 per cento degli italiani, “in assenza di interventi adeguati”, il digitale aumenterà le disuguaglianze e sarà un fattore decisivo di povertà. La connettività a Internet è una delle condizioni perché ci siano pari opportunità - nella scuola come nel lavoro, come nella vecchiaia, come nella vita quotidiana di tutti - visto che gli sportelli dell’amministrazione pubblica si stanno di fatto trasferendo dai luoghi fisici alla rete. I nostri ministri tecnologici intimano rimproverano al sistema scolatico di far studiare le guerre puniche invece che l’informatica. Sarebbe desiderabile, piuttosto, che i ministri competenti si interrogassero su che cosa fanno o stanno facendo loro per rendere quello strumento che tanto magnificano (giustamente) un bene di base, un diritto essenziale. Che si prendessero la responsabilità di rendere il possesso e l’uso di questo mezzo alla portata di tutti i cittadini. E’ chiedere troppo di studiare sia le guerre puniche che i rudimenti informatici? E’ chiedere troppo pretendere per tutti e tutte l’opportunità materiale e conoscitiva di studiare e lavorare? Ovviamente non lo è. Meno dichiarazioni roboanti più azione concreta, celere e utile. Patto sui migranti: un’Europa più forte deve agire unita (come sui vaccini) di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 4 dicembre 2021 Quando cadde il Muro di Berlino, nell’autunno 1989, ci prese una giustificata euforia. L’Europa si ricuciva in tempo per la fine di un secolo breve e tragico, il Novecento, che in Germania aveva mostrato il peggio dell’età moderna. Il nuovo, sovrapposto al nuovo millennio, avrebbe visto l’Unione dei Paesi europei - allargata a est - portarsi in pole position per guidare un’era di armonia geopolitica dimentica dei missili incrociati, di prosperità economica in spazi riaperti al mercato, di leadership “gentile” nutrita dalla consapevolezza di errori da non ripetere. Addio a Check-Point Charlie, che sarebbe presto diventato museo per turisti. Bentornata alla cattedrale di Dresda, in macerie dal 1945, che un’operazione di crowdfunding avrebbe rimesso insieme pezzo per pezzo. Che cos’è stato di quel sogno? Che cosa della nostra speranza di cittadini europei affrancati dai moduli prestampati della guerra fredda e riconsegnati a una possibilità di storie libere? Ha senso tentare di rispondere ora che la pandemia ha messo alla prova quell’Unione già descritta nei Trattati come destinata a essere “sempre più stretta”. Ora che poche migliaia di profughi mediorientali vengono rimbalzati al confine polacco, trasformati in proiettili umani da Lukashenko, un dittatore la cui unica tattica è l’escalation (come racconta il servizio di Francesca Basso a pagina 34). L’Europa fa i conti con sé stessa, con le sue vulnerabilità interne ed esterne. Sulla crisi generata da un virus che ancora si muove a ondate, l’Unione ha cercato (e cerca) di dare il meglio. Gli Stati membri si inseguono nell’annuncio di inizio/fine restrizioni, ma sopravvive il tentativo centrale di condividere le strategie sanitarie come gli investimenti per la ripresa. Davanti al Covid-19, è scattata la consapevolezza dell’utilità - della necessità - di un ragionamento e di un’operatività multilaterali. Non è poco, anzi è tantissimo. Perché riconoscere l’efficacia di una regia condivisa sarà fondamentale davanti alle prossime sfide, in particolare con la Cina, quando verrà il momento di applicare standard di sostenibilità ambientale agli accordi commerciali. Se recuperiamo i titoli dei giornali (o i contenuti dei social) di un anno fa sui ritardi vaccinali e li confrontiamo con i risultati di questi mesi rispetto all’America di Trump-Biden, vediamo che l’Europa può riafferrare la bandiera stellata e guardare avanti. Come ha scritto Maurizio Ferrera sulla Lettura, “magari non per dirigere il mondo intero, ma almeno per recuperare la capacità di guidare sé stessa”. Ma se rivolgiamo lo sguardo a quelle tombe desolate appena al di là della nostra frontiera comunitaria con la Bielorussia, a quei cumuli di terra coperti dalle fronde degli abeti, ci chiediamo dove sia finita la nostra volontà di riproporci come una civiltà antica e tuttavia promettente. Non sarà un perimetro di muri a proteggere il benessere degli Stati membri. Le migrazioni sono un flusso continuo, non un’emergenza intermittente. Per questo la fine dell’interregno pandemico deve avere davanti a sé tre strade. Verso il rilancio di Next Generation Ue nel 2016; verso un Patto di Stabilità rimodellato, che sia leva e non bastone; verso un secondo Patto, un patto sulle migrazioni, che permetta ai singoli governi di non esporsi a contraccolpi sovranisti e aiuti l’Unione intera a non perdere l’anima nelle foreste dell’est. Come lungo la diagonale che unisce il Canale della Manica a quello di Sicilia. Migranti. “La visita del Papa a Lesbo ricorderà al mondo che ci sono persone chiuse nei campi” Vita, 4 dicembre 2021 Insieme ad altre organizzazioni presenti in Grecia, Intersos ha firmato una lettera indirizzata al Papa. “Vostra Santità”, si legge, “crediamo che la permanenza di questi esseri umani per molti mesi in luoghi di isolamento li privi dei diritti fondamentali, non aiuti la loro integrazione e spesso crei loro problemi vitali, esistenziali e mentali” “La visita del Papa a Lesbo ricorderà al mondo che ci sono bambini, donne e uomini chiusi nei campi senza dignità e sicurezza”, dice Apostolos Veizis, direttore di Intersos in Grecia, alla vigilia dell’arrivo sull’isola greca di Papa Francesco. “In questi giorni le autorità hanno lavorato per il suo arrivo e si sono visti diversi cambiamenti, vorremmo che venisse più spesso così da non vedere i più i campi” aggiunge. Nel campo cosiddetto Moria 2.0 vivono attualmente 2119 persone su un totale sull’isola di Lesbo di 2340 abitanti. Questo insediamento è stato allestito dopo l’incendio del grande campo di Moria il 9 settembre dello scorso anno. Da allora l’organizzazione umanitaria Intersos ha avviato progetti sulla salute mentale e assistenza psicosociale per le donne sole o con figli, spesso sopravvissute a violenze o in stato di forte malessere fisico-mentale risultato dei mesi o anni di permanenza nei campi, in condizioni di vita non dignitose, e in costante attesa di un ricollocamento. Ci sono donne sopravvissute a violenze domestiche, abusi sessuali, matrimoni precoci nei paesi di origine o durante il viaggio verso l’Europa, ma molte raccontano anche al nostro team di aver subito abusi nel campo a Lesbo. “L’Europa deve porre fine alle politiche di respingimento, contenimento e carceri e deve mostrare solidarietà alle persone in cerca di asilo. Non stiamo affrontando una crisi dei rifugiati ma stiamo affrontando una crisi fatta di politiche e mancanza di volontà politica” afferma Veizis. Intersos, insieme ad altre organizzazioni presenti in Grecia ha inviato una lettera al Papa. La sua visita a Lesbo ci riempie di gioia e speranza. Per noi è molto importante che la Chiesa cattolica mostri così il suo grande interesse per i rifugiati, i più deboli e perseguitati di questo mondo. Ricordiamo con grande emozione la sua precedente visita e assistiamo alla sua costante mobilitazione personale per i profughi che attraversano il Mediterraneo cercando di raggiungere soprattutto i paesi del Sud Europa. Indipendentemente dall’atteggiamento di ciascuno di noi in materia di fede e di religione, questo indirizzo della sua Chiesa verso l’Altro, nel quale cerca il Prossimo, è uno dei segni più confortanti del nostro tempo. La crisi dei rifugiati, come ben sapete, non è finita. I recenti eventi in Afghanistan, così come i drammatici sviluppi in altre parti del nostro mondo, che non ricevono la stessa pubblica attenzione, come lo Yemen e l’Etiopia, accrescono costantemente i rischi per la propria vita e la propria libertà di sempre più persone. Queste persone hanno bisogno e hanno diritto alla protezione internazionale, come stabilito/concordato da tutte le nazioni nella Convenzione di Ginevra dopo la dolorosa esperienza della seconda guerra mondiale. Questo diritto non deve essere relativizzato o contestato. I paesi europei non possono e non devono negare la loro parte di responsabilità nella protezione dei rifugiati. Spostare la responsabilità su altri paesi in cambio di aiuti finanziari aumenta le disuguaglianze globali ed è moralmente deplorevole. Allo stesso tempo, espone spesso i rifugiati al rischio di maltrattamenti o li pone in uno stato di protezione soggetta a limitazioni. Un’Europa fondata sui valori dell’umanità, della democrazia e della solidarietà non può essere legittimata nello spostare costantemente altrove le sue responsabilità. Lo stesso vale per certi governi europei che negano, da se stessi, la propria parte di responsabilità. Sappiamo che Lei, Santità, fa ogni sforzo e influenza per cambiare. A Lesbo vedrà migliaia di rifugiati dall’Afghanistan, dall’Iraq, dal Congo e da decine di altri paesi. Alcuni di loro rimarranno in Grecia per sempre e lo Stato greco deve elaborare immediatamente un piano per la loro integrazione. Un’altra parte, nell’ambito della ripartizione delle responsabilità, sarebbe a nostro avviso necessario l’intervento degli altri Paesi europei nell’ambito di un nuovo piano di ricollocazione, come quello che ha funzionato, in una certa misura all’interno dell’Unione Europea, negli anni 2015-2017. Probabilmente noterà che la popolazione di rifugiati di Lesbo è inferiore a quella del 2016. In effetti, migliaia di persone sono state trasferite nell’entroterra e in numero minore negli altri paesi europei. Tuttavia, c’è chi non ha potuto raggiungere la Grecia. Ci sono denunce, che le organizzazioni internazionali considerano comprovate e fondate, secondo le quali vengono perpetrate gravi violazioni dei diritti dei rifugiati al confine europeo che arrivano al loro respingimento in Turchia. Questa tattica mette in pericolo immediato la vita delle persone, compresi i bambini piccoli, che spesso sono lasciati senza protezione in mare. Questa tattica illegale deve cessare immediatamente e vi invitiamo a esercitare tutta la vostra influenza affinché si fermi, ma anche affinché ci siano strumenti di indagini indipendenti su tali incidenti. Verrete probabilmente informato dalle competenti autorità greche sui nuovi Centri di Accoglienza e Identificazione “chiusi e controllati” che si stanno preparando su cinque isole dell’Egeo per l’accoglienza dei richiedenti asilo. Il primo è già stato inaugurato ed è operativo a Samos. Vorremmo condividere le nostre opinioni su questi. Crediamo che la permanenza di questi nostri simili per molti mesi in luoghi di isolamento, lontano dalle città e dalla popolazione locale, li privi dei diritti fondamentali, non aiuti la loro integrazione e spesso crei loro problemi vitali, esistenziali e mentali. Per noi, l’integrazione nella futura società di accoglienza è un processo che dovrebbe iniziare dal primo giorno. L’isolamento delle persone in queste condizioni significa che non hanno un facile accesso ai servizi sanitari, ma anche - molto spesso - i bambini sono privati del diritto all’istruzione. In effetti, stare in queste condizioni è, purtroppo, più simile a una prigione a cielo aperto. Questa caratterizzazione è supportata anche dalle significative restrizioni poste alla libertà di movimento dei richiedenti asilo che vivono in questi centri. Riteniamo che questi nuovi centri, finanziati esclusivamente dall’Unione Europea, debbano essere completamente riformati e che cambi la filosofia che li ispira, al fine di garantire il rapporto vivo dei richiedenti asilo con le comunità locali e la loro normale integrazione in esse. Allo stesso tempo, occorre compiere ogni possibile sforzo per assicurarsi che i richiedenti asilo non perdano i loro diritti fondamentali, come l’accesso alla salute e all’istruzione. E, soprattutto, non perdano la loro libertà e dignità. Vostra Santità, Vorremmo avere l’opportunità di condividere con voi queste preoccupazioni nostre e di altri che per brevità non presentiamo qui, in un incontro con voi. Infine, desideriamo esprimere la nostra gratitudine per il fatto che, come leader religioso di miliardi di credenti, lei si oppone con coerenza a qualsiasi fenomeno di xenofobia e razzismo, ricordando - a credenti e non credenti - il valore fondamentale su cui si basa la nostra convivenza comune, cioè la nostra comune specie umana”. I firmatari: A Drop in the Ocean; Actionaid Hellas; ARSIS - Association for the Social Support of Youth; ?abel Day Center; Caritas Hellas; Centre Diotima; Changemakers Lab; Community Pope John XXIII; Danish Refugee Council (DRC); ECHO100PLUS; ELIX; Equal Rights Beyond Borders; Europe Must Act; Fenix - Humanitarian Legal Aid; Greek Council for Refugees (GCR); Greek Forum of Migrants; Greek Forum of Refugees; Hellenic League for Human Rights; HIAS Greece; Humanrights360; INTERSOS; INTERSOS Hellas; Irida Women’s Center; Jesuit Refugee Service Greece (JRS Greece); Lesvos Solidarity; Médecins du Monde - Greece; Network for Children’s Rights; Mobile Info Team (MIT); Odyssea; Refugee Legal Support; Refugee Support Aegean (RSA); Samos Advocacy Collective; Samos Volunteers; SolidarityNow; Still I Rise; Symbiosis-School of Political Studies in Greece, Council of Europe. Gli Usa respingono la richiesta dell’Onu di bandire i “robot killer” di Marina Catucci Il Manifesto, 4 dicembre 2021 Anche la Russia minimizza i rischi delle armi letali autonome, che possono uccidere senza intervento umano. Gli Stati uniti hanno respinto le richieste delle Nazioni unite di impegnarsi con un accordo vincolante che regoli o vieti l’uso dei sistemi di armi letali autonome comunemente indicati come “robot killer”, proponendo invece di adottare un “codice di condotta”. “Secondo noi, il modo migliore per fare progressi - ha detto il funzionario del Dipartimento di Stato Usa Josh Dorosin - sarebbe attraverso lo sviluppo di un codice di condotta non vincolante”. Dorosin ha aggiunto che un tale codice “aiuterebbe gli stati a promuovere un comportamento responsabile e il rispetto del diritto internazionale”. È dal 2017 che le Nazioni Unite tengono colloqui sulla questione dei “robot killer”, riconosciuti come armi distinte dai droni, e il segretario generale dell’Onu António Guterres si è unito alle richieste degli attivisti e dei gruppi di pressione che chiedono un divieto generale da tre anni. Il Washington Post ha riportato che almeno 30 paesi hanno chiesto il divieto dei robot killer, che, secondo il Future of Life Institute, possono “selezionare e ingaggiare obiettivi senza intervento umano”. Nel 2018, 160 organizzazioni e 2.460 individui, tra cui il Ceo di Tesla Elon Musk, hanno firmato un impegno scritto a non collaborare allo sviluppo di armi letali autonome. “Migliaia di ricercatori di intelligenza artificiale concordano sul fatto che rimuovendo il rischio, l’attribuibilità e la difficoltà di togliere vite umane, le armi letali autonome potrebbero diventare potenti strumenti di violenza e oppressione, specialmente se collegate a sistemi di sorveglianza - si legge nell’impegno - Inoltre, le armi letali autonome hanno caratteristiche molto diverse dalle armi nucleari, chimiche e biologiche e le azioni unilaterali di un singolo gruppo potrebbero facilmente innescare una corsa agli armamenti che la comunità internazionale non ha gli strumenti tecnici e i sistemi di governance globale per gestire”. La Nuova Zelanda ha annunciato che spingerà per un divieto internazionale sui sistemi di armi autonome, e almeno 30 paesi sono dello stesso avviso, tra questi però non risultano alcune delle principali potenze militari mondiali, inclusi Stati uniti e Russia, che hanno minimizzato i rischi di queste armi. La Cina, la cui spesa militare è in aumento ormai da decenni, ha affermato di sostenere il divieto di utilizzare armi autonome, ma non quello di svilupparle e produrle. Stati Uniti. Sopravvissuto all’iniezione letale muore di cancro, il dramma di Hamm di Valerio Fioravanti Il Riformista, 4 dicembre 2021 Un film giapponese del 1968, L’Impiccagione, raccontava la storia di un uomo che veniva impiccato, e una volta tirato già dal patibolo si scopre che il cuore batteva ancora. Lo fanno rinvenire e vogliono impiccarlo di nuovo. L’uomo però ha perso la memoria, non ricorda il crimine che ha commesso e, quindi, si crea il dilemma: si può giustiziare un uomo una seconda volta, soprattutto se non ha più memoria di quello che ha fatto? Nel 2013 Nessuno tocchi Caino aveva riportato che una cosa molto simile era accaduta in Iran: Alireza, impiccato per reati di droga, al momento del funerale si era risvegliato e anche in quel caso le autorità, d’impulso, sostenevano che andasse impiccato di nuovo, perché, si disse, lo Stato deve essere inflessibile. Montarono forti polemiche e l’uomo, che comunque stava molto male, venne risparmiato “per motivi umanitari”. Sempre in Iran, nel febbraio di quest’anno, portarono una donna al patibolo. Prima di lei avevano impiccato altre persone e Zahra Esmaili, mentre attendeva il suo turno, morì per infarto. Nessuno ritenne di avere l’autorità di disattendere un ordine del tribunale e la donna fu impiccata lo stesso, anche se era già morta. E anche un mese fa, sui siti che seguono la difficile situazione dei diritti umani in Iran, era comparsa una notizia, non ben delineata, di un uomo che sembra fosse stato trovato vivo dopo la sua impiccagione. Il 28 novembre mattina, in Alabama, in una nazione che ritiene di essere molto più civile dell’Iran, è morto di cancro un uomo, Doyle Hamm, 64 anni, bianco, che tre anni fa era sopravvissuto alla sua esecuzione per iniezione letale. Non che lui fosse particolarmente forte, anzi. Erano i suoi “giustizieri” ad aver sbagliato tutto. Hamm era un tossicodipendente, ed aveva ucciso un uomo durante una rapina. Aveva ammesso il fatto, limitandosi a chiedere le attenuanti per un’infanzia sventurata e le ridotte capacità mentali aggravate dall’abuso di sostanze. Il lungo passato di tossico e due chemioterapie per un cancro al cranio e un linfoma in fase terminale avevano indotto molti a prevedere che le vene di Hamm sarebbero collassate prima di riuscire a veicolare il cloruro di potassio dentro il cuore, per fermarlo definitivamente. Il procuratore generale aveva disatteso il parere di tutti i medici consultati, limitandosi a sostenere che nel corpo umano le vene sono tante e una adatta doveva pur esserci. In fin dei conti doveva resistere, la vena, solo due o tre minuti. E a chi suggeriva allo Stato che sarebbe stato più semplice attendere l’ormai imminente morte naturale del reo, le corti di grado più alto risposero che quello non era un argomento “giuridico” e, quindi, non sospesero il mandato di esecuzione. Alle 9 di sera, il 22 febbraio 2018, Hamm è stato legato a una barella e gli agenti hanno iniziato a inserire aghi nelle sue vene, vene che regolarmente si rompevano, riempiendo il condannato di ematomi, ma soprattutto rendendo chiaro che i 3 farmaci, prima un narcotico leggero, poi uno pesante e infine il veleno, non avrebbero circolato. Dopo 2 ore e mezzo, dopo aver perforato per sbaglio anche la vescica, dopo aver danneggiato tutte le vene, gli agenti mostrano segni di fortissimo stress (così narrano le cronache, senza accennare a un altro stress che si presume non fosse lieve: quello di Hamm), e interviene un funzionario: la mezzanotte era ormai prossima e la legge vuole che il condannato muoia nel giorno prefissato, non in un altro. L’esecuzione viene sospesa, o come dicono in America, “abortita”. Un gruppo di giornali ha fatto causa allo Stato, chiedendo di avere più informazioni su come viene selezionato e formato il personale, ed altre cose che invece le amministrazioni preferiscono tenere segrete. Una giudice federale assegnò il primo round della contesa ai media: “Il modo in cui l’Alabama compie le sue esecuzioni è una questione di grande interesse pubblico, e, valutando le leggi del nostro Stato, il diritto che ha l’opinione pubblica di conoscere è superiore al diritto dell’Amministrazione di nascondere”. Lo Stato, in difficoltà, ha raggiunto un accordo “informale” con i media: per Hamm si sarebbe attesa la morte naturale e loro, almeno per un po’, avrebbero smesso di fare domande scomode. I giornali, che almeno loro hanno mostrato un poco di pietà per Hamm, avevano accettato il compromesso. Ma dalle ultime parole di Hamm capiamo che qualcun altro aveva avuto compassione: la dottoressa Connie Uzel, l’oncologa, paracadutista, canoista, madre di tre figlie, che Hamm ha voluto ringraziare per averlo assistito gratuitamente in questi ultimi anni. E, così come Pannella avrebbe ringraziato quel giudice che ha scritto che il diritto a conoscere è superiore al diritto a nascondere, Nessuno tocchi Caino ringrazia, qui, la dottoressa Uzel, in parte per la sua scienza, ma molto di più per la sua coscienza. Il carcere di Cipro: dignità e umanità raccontate al Papa di Nikos Tzoitis vaticannews.va, 4 dicembre 2021 L’esperienza vissuta nel carcere dell’isola è raccontata a Francesco dalla Direttrice Anna Aristotelous. Un approccio che tiene conto del valore della persona e che ha portato finora tanti frutti. Ieri mattina, dopo la Messa allo stadio di Nicosia, il Santo Padre ha incontrato, in un fuori programma, la Direttrice del carcere di Cipro, Anna Aristotelous. Una vera riformatrice del sistema carcerario cipriota che da quando ha assunto, quasi sette anni fa, la direzione dell’Istituto penitenziario della città, è riuscita a dare un volto umano e dignità ai detenuti. Risultato di questa politica è stata la fine dei suicidi e dei tentavi di fuga. Al contrario, è in continuo aumento il numero dei detenuti che seguono corsi di formazioni e anche studi teologici in collaborazione con la scuola teologica di Cipro, oltre a varie attività culturali. Finora trenta sono stati i diplomati e i laureati. Nei programmi di recupero la Direttrice ha inserito anche dei detenuti condannati per ingresso illegale in territorio cipriota. E dieci di loro, saranno nel gruppo di persone che il Santo Padre porterà con sé in Italia. In questa sua funzione Anna Aristotelous è coadiuvata dalla vice direttrice Athina Dimitriou,esperta del mondo ottomano: Direttrice, quali sono i vostri sentimenti dopo l’incontro con Papa Francesco? La visita del Papa a Cipro è stata un fatto storico straordinario che ci ha riempiti di gioia e di ammirazione. Per me personalmente incontrare il Santo Padre è stato anche un grande onore in quanto, come direttrice del carcere, ho avuto la possibilità di esprimere tutta la mia ammirazione e la mia stima per la sua instancabile attività e il suo sincero interesse per i bisognosi e la gente più semplice. Ho potuto raccontare al Papa l’approccio umano che noi attuiamo nei confronti dei nostri reclusi. Negli ultimi anni, ho avuto l’occasione di condividere quella che è la nostra convinzione circa l’importanza e la cura che richiede il benessere della persona nella sua totalità, senza alcuna distinzione culturale o religiosa e nel pieno rispetto delle diversità e dell’unicità di ciascuno. Che messaggio porterà ai vostri reclusi dopo questo incontro? Il messaggio che porterò ai detenuti del carcere è che il Santo Padre prega per loro, come per tutti gli uomini, e trasmetterò anche la sua benedizione e il suo profondo amore. Allo stesso tempo il Papa ha espresso il desiderio che ciascuno di loro continui a coltivare dei valori, a migliorare e ad acquisire coscienza di sé, senza perdere l’umiltà e la semplicità e rispettando tutti, come d’altra parte il Santo Padre ha sempre fatto. L’Onu lascia appesi i generali birmani e il governo talebano di Emanuele Giordana Il Manifesto, 4 dicembre 2021 Punizione diplomatica. Rinviata a data da destinarsi la decisione sui rappresentanti legittimi di Myanmar e Afghanistan al Palazzo di Vetro. Intanto un rapporto di Human Rights Watch accusa i golpisti di Naypyidaw per il massacro di marzo dei sostenitori di Aung San Suu Kyi. È una storia di stragi quella che costella la presa del potere dei generali birmani che da dieci mesi tengono il Myanmar sotto il tallone dell’ennesima giunta. L’uccisione pianificata e premeditata di almeno 65 manifestanti il 14 marzo scorso nell’ex capitale è solo l’ultima in ordine di tempo, come denuncia un rapporto pubblicato da Human Rights Watch che accusa le forze di sicurezza birmane di aver deliberatamente ucciso chi protestava (allora pacificamente) chiedendo il ripristino del governo democraticamente eletto di Aung San Suu Kyi. Nel dossier Myanmar: Protesters Targeted in March Massacre Hrw racconta come le forze di sicurezza birmane abbiano deliberatamente circondato un gruppo di manifestanti contro cui “hanno usato forza letale durante le proteste anti-giunta del 14 marzo 2021 a Hlaing Tharyar, Yangon… Soldati e polizia armati di fucili d’assalto hanno sparato sui manifestanti intrappolati e su coloro che cercavano di assistere i feriti, uccidendo almeno 65 tra dimostranti e passanti”. È un tassello che si aggiunge alla denuncia del Nug, il governo di unità nazionale clandestino, secondo cui in questi dieci mesi i militari avrebbero ucciso circa un centinaio di bambini e almeno 89 donne. Al 3 dicembre, secondo Assistance Association for Political Prisoners (Burma), il bilancio delle persone uccise dal regime è di 1302 morti, una media di 130 persone al mese. Oltre 10 mila gli arrestati con più di 340 condanne esecutive e due migliaia di mandati cui ieri si sono aggiunti quelli ai funzionari di livello intermedio dell’Uffico elettorale che certificò la vittoria del partito di Suu Kyi nelle elezioni del novembre 2020. Anche per la Lady si dovrebbe presto arrivare a sentenza, scelta che aggraverà la posizione della giunta che contro di lei ha montato una vera e propria campagna giudiziaria, fasulla quanto denigratoria. Elementi che non sono sfuggiti alla Commissione Onu che decide chi deve rappresentare diplomaticamente a Palazzo di Vetro i diversi Paesi. Il caso, risoltosi il 1 dicembre scorso con l’ennesimo rinvio, riguardava infatti gli ambasciatori delle due nazioni al centro delle guerre più sanguinose dell’Asia: il Myanmar appunto e l’Afghanistan. Risolto il problema della rappresentanza durante l’annuale Assemblea generale dell’Onu - dove si è deciso di non far parlare né i rappresentanti dei vecchi governi (quello di Win Mint e Suu Kyi e quello di Ashraf Ghani) né gli ambasciatori nominati da quelli nuovi (un militare birmano e un portavoce dei Talebani) - la Commissione di nove membri (tra cui Russia, Cina e Usa), incaricata di decidere sulle credenziali, ha infatti rinviato la decisione sui legittimi rappresentanti di entrambi i Paesi. A data da destinarsi. I Talebani hanno reagito con durezza mentre i birmani del Nug, più sostenuti da gran parte della diplomazia internazionale, hanno fatto buon viso a cattivo gioco. A differenza dei Talebani, il governo ombra birmano trova sempre più posto nei consessi internazionali (a Roma i suoi esponenti sono invitati a un convegno organizzato il 7 dicembre dai sindacati e da Italia-Birmania Insieme) e così nei corridoi della diplomazia internazionale anche se per ora il Nug (come i Talebani ma forse con più chance) resta in sala d’attesa. Qualcosa comunque si muove. Lo dimostrano due episodi recenti solo apparentemente secondari: a fine novembre la giunta è stata esclusa da due summit internazionali. Il primo organizzato dall’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico di cui anche il Myanmar fa parte. E al meeting virtuale Asia-Europa (Asem) la giunta non è stata invitata. O meglio, l’Asean ha fatto sapere che avrebbe accettato solo osservatori birmani e non rappresentanti politici tanto che Naypyidaw ha poi deciso di non mandare nessuno. Ma forse ancora più sonoro è stato lo schiaffo arrivato dai cinesi. Prima del vertice Asem infatti, Pechino ha escluso i golpisti dall’Asean-China special summit. La Cina avrebbe cercato di convincere gli altri ad accettare al tavolo i generali salvo poi scegliere l’esclusione dopo le proteste soprattutto di Malaysia, Filippine, Singapore e Indonesia, che tra l’altro assume adesso la presidenza del G20. Resta aperturista la Cambogia il cui leader ha detto di voler visitare il Myanmar.