Celle strapiene e zero rieducazione: si chiama prigione, ma è l’inferno di Rita Bernardini Il Riformista, 3 dicembre 2021 Attualmente 54.307 detenuti sono pigiati in 47.371 posti, con un sovraffollamento medio del 114,64%. Ma a Poggioreale 2.242 persone sono costrette a vivere in 1.476 posti. La legge prevede dal 1975 i Consigli di aiuto sociale per reinserire i prigionieri, ma dopo quasi 50 anni è inattuata. Niente di nuovo sul fronte delle carceri e dell’esecuzione penale. O quasi. Zerocalcare ha appena fatto uscire un libro intitolato “Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia” e, a milioni, abbiamo nel cuore il bellissimo libro di Erich Maria Remarque “Niente di nuovo sul fronte occidentale” sui giovanissimi volontari di guerra tedeschi andati a morire senza comprendere le ragioni vere del primo conflitto mondiale che ha insanguinato l’Europa. Niente di nuovo sul fronte delle carceri e dell’esecuzione penale? Sì, niente di nuovo. O quasi. Sul sovraffollamento degli istituti penitenziari, i dati al 31 ottobre scorso ci dicono che in 47.371 posti regolamentari effettivamente disponibili sono presenti 51.307 detenuti, con mi sovraffollamento nazionale effettivo pari al 114,64%. Il dato nazionale va però ulteriormente approfondito. Infatti dei 189 istituti che costituiscono il patrimonio immobiliare carcerario italiano, ben 129 hanno più detenuti che posti disponibili portando il sovraffollamento medio al 128%; 78 istituti hanno un sovraffollamento superiore al 120% con un tasso medio del 142%, fino ad arrivare a ben 20 istituti che hanno un sovraffollamento superiore al 150% con un tasso medio del 163%. Per fare solo qualche esempio tra i più scandalosi, possiamo citare la Casa Circondariale di Brescia-Canton Mombello dove in 189 posti sono accalcati 374 detenuti con un sovraffollamento del 198%; Milano-San Vittore, dove in 486 posti sono “sistemati” 918 detenuti (189%); Foggia, dove in 345 posti ce ne hanno messi 569 (165%) o Napoli-Poggioreale, dove in 1.476 posti sono costretti a vivere 2.242 detenuti con un tasso di affollamento del 152%. Poi ci sono le carceri “quasi” vuote come in Sardegna sono le Case di reclusione di Mamone (dove 112 detenuti hanno a disposizione 242 posti) e Arbus Is Arenas dove per 53 detenuti presenti ci sono a disposizione ben 126 posti. Da decenni il nostro Stato fa vivere decine di migliaia di reclusi in condizioni inumane e degradanti a causa del sovraffollamento, come sancito nel 2013 dalla condanna che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha inflitto all’Italia. Da anni il nostro Stato fa finta di niente evitando di approvare una normativa idonea a rimuovere le cause che generano questa violazione sistematica dei diritti umani. E sul fronte della rieducazione prevista dall’art. 27 della Costituzione, cosa c’è di nuovo? Niente di nuovo, o quasi. Alzi la mano chi sa che da 46 anni lo Stato italiano non ha mai attuato quanto previsto dagli articoli 74, 75, 76, 77 e 78 dell’Ordinamento Penitenziario (Legge n. 354/75). Si tratta dei Consigli di Aiuto Sociale, organismi dotati di personalità giuridica che hanno lo scopo di seguire i detenuti fino al loro reinserimento sociale. Il “quasi” sta nell’eccezione del Tribunale di Palermo che ha istituito il primo Consiglio di Aiuto sociale, grazie al suo illuminato Presidente, il Dott. Antonio Balsamo il quale non ha lasciato cadere nel vuoto le nostre proteste per la mancata formazione di tali organismi. Negli altri circondari ricadenti sotto la giurisdizione dei 165 Tribunali italiani, silenzio assoluto, pur in presenza di un’interrogazione parlamentare presentata da Roberto Giachetti che attende da mesi una risposta. Parlando di “rieducazione” uno si chiede chi svolga all’interno del carcere quest’opera fondamentale. La pianta organica ministeriale dei funzionari giuridico-pedagogici (educatori) ne prevede pochissimi, solo 999! Ma a conti fatti, la dotazione è in realtà di 903 educatori e gli effettivamente assegnati nei 189 istituti sono 710. Questo vuoi dire che, in media, ogni educatore dovrebbe seguire 76 detenuti conoscendoli approfonditamente uno per uno. Poi c’è da considerare la distribuzione di quei 710 e qui assistiamo a discrepanze fra istituti che lasciano letteralmente a bocca aperta si va dagli 11 detenuti per ogni educatore di Arbus e Isili in Sardegna, ai 194 detenuti per ogni educatore di Busto Arsizio, ai 202 per Sulmona, ai 204 per Poggioreale, ai 208 per Velletri! Possiamo essere più tranquilli sul fronte dei Direttori? Nemmeno per sogno! Sono senza direttore le Case circondariali di Trapani, Voghera e Arezzo; le Case di reclusione di Altamura, Tempio Pausania e San Cataldo; l’Icam (Istituto a Custodia Attenuata per Detenute Madri) di Lauro. 27 Direttori dirigono due istituti, 1 Direttore ne dirige addirittura 3. Nelle carceri più grandi, sono stati ridotti drasticamente i vice-direttori, i quali non di rado hanno incarichi a scavalco. Del resto non si fa un concorso pubblico per i dirigenti penitenziari dal 1996, quindi, da 25 anni! I 45 posti di dirigenti penitenziari messi a concorso il 5 maggio 2020 sono del tutto insufficienti a ricoprire i posti rimasti scoperti dai tanti pensionamenti passati e prossimi. Anche la Polizia penitenziaria sta messa malissimo e chiunque può intuire come la sua presenza sia indispensabile per garantire le attività che dovrebbero svolgersi all’interno delle carceri. La pianta organica del Corpo degli agenti di polizia penitenziaria, dopo le rideterminazioni della legge Madia del 2015, prevede una dotazione di 41.595 unità per gli istituti penitenziari, il Dap e i Provveditorati. Per gli istituti penitenziari la pianta organica stabilisce una dotazione di 36.777 agenti, ma gli effettivamente assegnati nei 189 istituti sono 32.275 con una carenza di 4.502 unità. Ma anche per il numero degli agenti ci sono realtà diversissime l’una dall’altra. Si passa da situazioni dove gli agenti effettivi sono più dei detenuti presenti come ad Alba, Potenza o Venezia “Giudecca” a contesti come quelli di Siracusa, Rieti, Bollate o Poggioreale dove i detenuti sono il triplo degli agenti. Infine - ed escludendo da questo quadro le problematiche centrali riguardanti la débâcle della sanità penitenziaria o la carenza di altre figure professionali indispensabili per la vita detentiva come gli assistenti sociali, gli psicologi e i mediatori culturali - è utile fornire un quadro anche della magistratura di sorveglianza che dovrebbe essere messa in grado di prendere decisioni tempestive sull’intera esecuzione penale, compresa quella che si svolge fuori delle mura del carcere. Ecco, la già striminzita Pianta Organica, registra una scopertura di 7 Presidenti di Tribunali di Sorveglianza (22 anziché 29) e di 19 Magistrati degli Uffici di Sorveglianza (206 anziché 225). Questo quadro, seppure incompleto, ci racconta moltissimo di quanto le istituzioni italiane tengano in conto il dettato costituzionale sulla finalità delle pene. Principi, che non principiano niente, diceva Marco Pannella. E, a proposito del “niente di nuovo sul fronte delle carceri”, annuncio la non-notizia della ripresa del mio sciopero della fame a partire dalla mezzanotte di domenica prossima 5 dicembre. Lo faccio soprattutto per me stessa, per ricordarmi in ogni momento che in un Paese democratico quel che avviene nell’inerzia istituzionale ci riguarda tutti. Lo faccio “per” e “con” le ragazze detenute del carcere di Torino che hanno annunciato lo sciopero del carrello dal 17 al 23 dicembre affinché, almeno per Natale, si approvi la proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata speciale per tutti quei detenuti e detenute che, nonostante tutto, in carcere si comportano be ne. per il bene che vogliono conquistare e alimentare. Manconi: “Che tristezza la politica che sconfessa la Consulta sull’ergastolo ostativo” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 dicembre 2021 Secondo Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici, già alla guida della commissione Diritti umani del Senato, presidente di A Buon Diritto Onlus, “il Parlamento, in tema di ergastolo ostativo, invece di sviluppare coerentemente il principio indicato dalla Corte, sembra impegnato alacremente a disattenderne l’indirizzo, a contraddirne le finalità, a incepparne la piena attuazione. Non un sabotaggio, bensì un lavoro ai fianchi piccino e mediocre”. La sensazione è che si voglia sabotare la decisione della Consulta, per tornare a un ‘ nuovo ergastolo ostativo’. Condivide questa preoccupazione? Condivido, anche se non userei il verbo “sabotare”, perché questo presupporrebbe una potenza compatta e determinata, un progetto alternativo e un’intelligenza aggressiva e lungimirante: tutte cose che fatico a individuare. Ciò che emerge è, piuttosto, un umore profondo che percorre il Paese, non solo accettato supinamente, ma enfatizzato e galvanizzato dalla classe politica: ed è un umore tutto ispirato a propositi di rivalsa e a pulsioni di rancore e di vendetta. Da questo punto di vista, l’ergastolo è un tema cruciale: quante volte abbiamo letto e ascoltato, persino da persone stimabili, che in Italia nessuno sconta l’ergastolo. Eppure, non è difficile trovare i dati: quelli che ho qui sotto mano dicono che complessivamente i condannati all’ergastolo sono 1.800, dei quali 1.271 sottoposti a ergastolo ostativo. E la costante crescita del numero complessivo delle condanne a vita si deve principalmente all’aumento di quelle ostative. Ma chi ricorda questi numeri inequivocabili? I soliti quattro gatti, oltre che Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto, autori di un libro fondamentale come Contro gli ergastoli, edito da Futura. E mi piace ricordare un episodio della vita bella e appassionata di Bianca Guidetti Serra, grande avvocato torinese. Nel 1957 si era offerta di difendere gratuitamente in appello un condannato all’ergastolo, un pluriomicida reo confesso che non aveva mai conosciuto: non già per sottrarlo a una inevitabile condanna, ma al suo esito, come occasione di pubblica denuncia dell’incostituzionalità di una pena senza fine, inaccettabile quale che sia la colpa. Altri tempi! Non sarebbe stato meglio se la Consulta avesse deciso senza lasciare al Parlamento il compito di approvare una legge? Forse. Ma è tema per i costituzionalisti e io non lo sono. In ogni caso, resta che la Consulta è stata, a mio avviso, assai limpida nella sua pronunzia. Ma, come nel caso certo diverso, eppure altrettanto e forse più scandaloso, dell’aiuto al suicidio, la Corte costituzionale è stata di un ottimismo quasi irenista: direi spensierato, se non temessi di offendere quei valorosi giudici. Il Parlamento, per tornare alla sua prima domanda, invece di sviluppare coerentemente il principio indicato dalla Corte, sembra impegnato alacremente a disattenderne l’indirizzo, a contraddirne le finalità, a incepparne la piena attuazione. Come dicevo, non un sabotaggio, bensì un lavoro ai fianchi piccino e mediocre. Non ritiene sia sbagliata la narrazione di chi sostiene che appoggiare la linea della Consulta significhi vanificare la lotta alla mafia? Se posso rivolgere una preghiera a una cronista valente come lei, le chiedo di non ricorrere al termina “narrazione”. Tanto abusato da risultare ormai incapace di esprimere un qualsivoglia significato minimamente congruo. Detto questo vorrei richiamare un concetto base. Il regime di 41- bis e lo stesso dispositivo dell’ergastolo ostativo si fondano su una, e una sola, ragione costitutiva. Si considerino il comma 2, il comma 2-bis e il 2-quater dell’articolo in questione e si troverà come la finalità di quel regime sia dichiaratamente quello di impedire la “sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva”, di “mantenere i collegamenti con l’associazione” e di “prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento”. Questa è la ratio di quella norma. Aggiungo: la sola ed esclusiva motivazione, puntualmente e tassativamente definita e circoscritta dalla legge. Ne consegue che tutto ciò che a quella finalità di legge viene aggiunto, in termini di afflizione e privazione, è semplicemente illegale. Ne discende ancora che anche quella formula che tutti tendiamo a utilizzare, “carcere duro”, non ha alcun fondamento. Il regime di 41- bis non comporta, non deve comportare, una detenzione particolarmente pesante e, tanto meno, inumana e vessatoria. Il suo scopo, va detto e ridetto, è solo quello di troncare e impedire qualsiasi relazione tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza. E per quanto riguarda l’ergastolo ostativo, la pronuncia della Consulta nel merito, è stata limpida: la norma è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione italiana e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani: proprio perché fa della collaborazione con la magistratura l’unico modo per il condannato di ottenere la liberazione condizionale, “anche quando il suo ravvedimento risulti accertato”. Quel contrasto, tra la norma “ostativa” e Costituzione e Cedu, dal punto di vista del condannato, appare come privazione della sua “stessa possibilità di sperare nella fine della pena”. Dunque, chi pensa che per il condannato all’ergastolo per mafia vi sia solo l’alternativa “o la collaborazione o la morte in cella” (Rosy Bindi, ndr), replica un po’ mestamente l’espressione di Ignazio Di Loyola: perinde ac cadaver. Ma, notoriamente, il fondatore della Compagnia di Gesù, certo grande santo, non ha preso parte ai lavori della Costituente. Secondo il consigliere Csm Nino Di Matteo nel testo base in discussione alla Camera ‘manca la previsione della specifica attribuzione di competenze (per decidere sulla concessione dei benefici, ndr) a un unico Tribunale di sorveglianza, che potrebbe essere quello di Roma. Preoccupa invece la frammentazione delle competenze che potrebbe produrre effetti pericolosi sotto il profilo della sicurezza dei giudici di sorveglianza chiamati a decidere’. Ma lo stesso rischio non lo corrono anche i giudici che condannano, ad esempio? Stupirò qualcuno dicendo che provo stima e affetto per Nino Di Matteo e per il suo amico Sebastiano Ardita, pur se non condivido alcunché della loro concezione della giustizia. D’altra parte è tutta la vita che coltivo “relazioni pericolose” con persone dalle quali tutto o quasi mi divide, sul piano ideologico e politico. Nel merito non sono proprio d’accordo. Mi sembrerebbe che, se accolta, la proposta di Di Matteo sulla magistratura di sorveglianza potrebbe sottrarre il condannato al suo giudice naturale. Che, oltretutto, è quello maggiormente in grado di verificare la condotta dello stesso, di esaminarne il comportamento carcerario, di esprimere una valutazione, per quanto fallibile, sul processo di emancipazione del reo dal proprio reato. Dunque di concedere o negare motivatamente benefici e opportunità. In generale, condivide l’impressione che sul tema carcere non si stiano facendo grandi passi avanti dal punto di vista politico e culturale? Sì, penso proprio che non si stiano facendo grandi passi avanti, ma nemmeno modesti progressi. Il forte slancio innovativo e garantista, promosso dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, e alcuni gesti davvero importanti, come la visita della stessa ministra e del presidente del Consiglio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo i noti fatti, non sembrano aver smosso quell’enorme corpaccione torpido che è l’amministrazione della giustizia e quella sua articolazione rappresentata dal Dap. Ancor meno ha contenuto le tentazioni regressive che sembrano prevalere all’interno della classe politica. Di conseguenza, la situazione interna delle carceri, nella sua materialità e nella sua ruvida concretezza, non sembra aver conosciuto alcun mutamento significativo. Prova ne è, tra le tante, il fatto che la pandemia non ha determinato, se non in maniera minimale e contingente, quei provvedimenti deflattivi “di salute pubblica” che la condizione congestionata e patogena degli istituti avrebbe richiesto. Si pensi, ancora, alla situazione del reparto di osservazione psichiatrica del carcere di Torino, denunciata da Susanna Marietti di Antigone e da La Stampa, e che, infine, sembra sia stata affrontata dal Dap. Ma non riesco a dimenticare che la prima denuncia delle condizioni inumane di quella sezione risale all’ottobre del 2016. E non è difficile immaginare quanto dolore inutile, se pure mai vi fosse un dolore utile, e totalmente “illegale”, questo intollerabile ritardo abbia prodotto. Insomma, devo dire che più invecchio e più sono convinto del fatto che si debba operare per rendere il carcere una istituzione superflua. Sia chiaro: progressivamente, gradualmente, attraverso tutte le riforme realizzabili e già oggi possibili: ma la galera si conferma un’istituzione patogena e criminogena, inutile e pericolosa. Ridurne al minimo il ricorso è una urgenza morale e una prospettiva di elementare buon senso. Nei tempi necessari, ovviamente. Persuasi di questo, proprio in queste settimane, stiamo scrivendo con Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta una nuova edizione di “Abolire il carcere”, che verrà pubblicata da Chiarelettere tra qualche mese. Servirà a qualcosa? Probabilmente no, ma testimoniare e lasciare una traccia non è mai esercizio futile. L’agonia di Iannazzo: lasciato al 41bis nonostante fosse gravissimo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 dicembre 2021 Gli appunti del diario clinico di Vincenzino Iannazzo, morto al regime duro lo scorso 13 novembre: nelle ultime ore di vita lo avevano trovato in condizioni disumane e raccapriccianti al 41 bis di Parma. Vincenzino Iannazzo, durante l’ultimo periodo della sua vita, viene trovato in condizioni sempre più disumane e raccapriccianti al 41 bis del carcere di Parma. Drammatici gli appunti del diario clinico: viene ritrovato spesso nudo e sporco di feci. “Ha evacuato per terra - si legge - e ha spalmato per tutto il pavimento della cella, sporco da capo e piedi di feci”. Ancora: “Visto le condizioni scarsi di igiene personale del paziente con demenza a corpi di Lewy, per la profilassi delle malattie infettive della persona e di tutta la sezione, si richiede assistenza h24 alla persona per supervisione e aiuto nell’espletamento delle necessità personale quotidiane”. Un’assistenza h24 che non ci sarà mai. Iannazzo, nonostante le innumerevoli segnalazioni da parte dei suoi famigliari e dell’associazione Yairaiha onlus, verrà lasciato al 41 bis. Solo quando le sue condizioni si erano ulteriormente aggravate, verrà trasferito d’urgenza in ospedale, sempre in regime duro, e morirà il 13 novembre scorso. Il caso di Vincenzino Iannazzo arriva in Parlamento - Il drammatico caso arriva in parlamento grazie all’interrogazione parlamentare presentata dalle deputate del gruppo misto Doriana Sarli, Yana Chiara Ehm e Silvia Benedetti. Rivolgendosi alla ministra della giustizia e al ministro della salute, chiedono se si ravvisa l’opportunità di “avviare un’indagine amministrativa interna al fine di appurare se, con riferimento al decesso dell’uomo, non siano ravvisabili eventuali profili di responsabilità disciplinare in capo alla direzione dell’istituto di Parma”. “Come il giornale on line “Il Dubbio” riporta in un suo articolo - si legge nell’interrogazione parlamentare - Iannazzo era stato fatto rientrare in carcere al 41-bis, dopo il decreto cosiddetto “antiscarcerazioni” ed era andato ai domiciliari nel periodo di aprile/maggio del 2020, causa emergenza COVID- 19, in quanto trapiantato di rene”. Le deputate del gruppo misto sottolineano che l’associazione Yairaiha onlus, nell’ultimo anno, ha più volte denunciato alle autorità competenti l’isolamento forzato del detenuto deceduto e l’evidente, oltre che certificata, incompatibilità con il regime carcerario e men che meno con il regime di 41bis. “Tale isolamento - prosegue l’interrogazione - ha rappresentato uno degli elementi negativi del processo di aggravamento della sua patologia (demenza a corpi di Lewy, con allucinazioni e incapacità di svolgere gli atti della vita quotidiana già diagnosticata dai sanitari di Belcolle - Viterbo, prima del trasferimento a Parma). Iannazzo è stato ricoverato in ospedale a settembre 2021, dopo l’ennesima segnalazione della stessa associazione”. L’interrogazione parlamentare prosegue evidenziando le drammatiche relazioni dei medici. C’è quella del 7 gennaio 2021 sottoscritta dal responsabile sanitario del carcere di Parma dove si esprimevano preoccupazioni per i ritardi nella somministrazione della terapia prescritta al paziente e nell’organizzazione delle visite specialistiche esterne. Nella relazione del medico legale del 10 febbraio 2021 sulle condizioni di Vincenzino Iannazzo si legge: “per parte mia ribadisco nuovamente le esigenze cliniche del soggetto esorbitano grandemente le possibilità di cura sino ad oggi messe in atto e dunque il signor Iannazzo deve essere posto al di fuori delle mura del carcere”. Come se non bastasse, come sottolinea l’interrogazione, dalle note della cartella clinica legale redatta dal personale medico e infermieristico in servizio al carcere di Parma emergono particolari raccapriccianti sulle condizioni di detenzione del signor Iannazzo: completamente abbandonato a sé stesso e in condizioni disumane, nonostante la gravità del suo stato. Spesso nudo e sporco delle proprie feci che espletava sul pavimento della cella; le terapie che non venivano assunte perché lo stesso era incapace di compiere qualsiasi azione. Nelle note emerge la prescrizione medica di assistenza h24 indirizzata all’amministrazione penitenziaria, che non risulterebbe esser stata mai evasa. Se il regime duro “rischia” di vacillare - “Il giornale “Il Dubbio” del 22 aprile 2021 - prosegue l’interrogazione parlamentare - riporta una denuncia del responsabile sanitario del carcere in cui si evidenzia che, a causa dei continui arrivi di detenuti malati, che provengono da diversi istituti penitenziari, lo standard esistenziale del centro clinico del carcere (Servizio assistenza intensiva), è messo in seria difficoltà. Lo stesso responsabile sanitario del carcere ha segnalato la difficoltà oggettiva nel poter fornire adeguate cure e assistenza h24, non solo a Iannazzo, ma anche agli altri detenuti che richiedono tale assistenza”. I deputati sottolineano che l’effettività del regime speciale carcerario dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario ha natura esclusivamente preventiva, volta a impedire che taluni associati continuino a interloquire con le organizzazioni criminali di appartenenza. L’interrogazione conclude con le richieste rivolte ai ministri della giustizia e della salute: “Quali iniziative, anche normative, si intendano intraprendere per rafforzare l’assistenza medica ai detenuti malati, in regime di 41-bis; quali iniziative di competenza si intendono adottare, eventualmente, per appurare se il carcere di Parma sia dotato di strutture idonee e di personale sanitario adeguato per numero e competenze, affinché venga garantita l’assistenza sanitaria a tutti i detenuti; se non intendano avviare un’indagine amministrativa interna al fine di appurare se, con riferimento al decesso dell’uomo, non siano ravvisabili eventuali profili di responsabilità disciplinare in capo alla direzione dell’istituto di Parma”. Il decreto “antiscarcerazioni” dell’ex guardasigilli Bonafede - Ricordiamo che Iannazzo era uno dei tre uomini al 41 bis mandati in detenzione domiciliare per i loro gravi motivi di salute e con l’aggravante del Covid 19 che incombeva e incombe tuttora. Su quelle misure si scatenò una feroce indignazione, veicolata dai media, tanto che l’allora ministro della Giustizia Bonafede per accontentare gli umori varò un decreto che, di fatto, li fece rientrare subito dopo in carcere. Una ferocia che si scontra contro il buon senso e logica. I fatti hanno sconfessano l’accanimento. Pasquale Zagaria, affetto da tempo da una grave neoplasia, è tornato libero per fine pena. Francesco Bonura, gravemente malato, a breve finirà la pena poiché gli mancano pochi mesi. Il terzo però, ovvero Iannazzo, lo Stato lo ha tenuto con fermezza al 41 bis nonostante l’evidente incompatibilità con il regime duro. Iannazzo e gli altri, un caso emblematico - L’atroce vicenda di Vincenzino Iannazzo è emblematica, perché rende di difficile comprensione il senso del 41 bis nei confronti di chi è in queste condizioni. Oltre alle gravi patologie dovute dal trapianto di un rene, Iannazzo aveva la demenza a corpi di Lewy. Una patologia molto simile all’Alzheimer e che comporta anche delle vere e proprie allucinazioni. Quindi non solo era incompatibile con il 41 bis perché gravemente malato, ma anche per i problemi cognitivi che lo rendevano incapace di dare eventuali ordini all’esterno: il 41 bis nasce perché ha come unico scopo quello di evitare che un boss dia ordini al proprio clan di appartenenza. Se viene meno questo pericolo, il 41 bis non può essere giustificato. Ma questa è solo teoria visto che nell’immaginario collettivo il regime duro non è considerato emergenziale e con uno scopo ben specifico, ma un mezzo che va utilizzato a prescindere. Magari fino alla morte come è accaduto con Iannazzo. Garante dei detenuti e Cnf: protocollo d’intesa per rafforzare la tutela di madri recluse e minori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 dicembre 2021 Gli effetti delle novità giuridiche introdotte dalla riforma penale relativamente all’esecuzione, il ruolo degli “attori” (magistratura di sorveglianza, amministrazione penitenziaria e avvocatura istituzionale) coinvolti nell’esecuzione delle pene sia carcerarie che alternative, la tutela dei diritti fondamentali di migranti e persone vulnerabili (detenute madri e minori). Sono le quattro linee di intervento individuate dalla presidente facente funzioni del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, e dal presidente dell’Autorità garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, per rinnovare la collaborazione istituzionale tra il Cnf, con la Commissione per le persone private della libertà personale coordinata dal consigliere Piero Melani Graverini, e il Garante. L’esigenza comune, si legge in una nota dell’istituzione forense, “è di aggiornare il protocollo d’intesa sottoscritto nel 2017 e determinare le direttrici di lavoro alla luce del mutato quadro normativo e del perdurare dello stato sanitario emergenziale, con l’obiettivo comune di tutelare la dignità dell’essere umano e garantire il principio rieducativo e riabilitativo della pena. Il nuovo protocollo, che sarà sottoscritto e presentato a gennaio 2022, si svilupperà”, prosegue il comunicato, “in azioni congiunte per creare una rete informativa e una interlocuzione costante tra l’avvocatura e il Garante. Nello specifico l’impegno si concretizzerà anche nella diffusione, tramite il Cnf, delle iniziative del Garante delle persone private della libertà ai 140 Ordini territoriali degli avvocati; nella formazione giuridica congiunta del personale addetto agli uffici del Garante e degli avvocati sull’esecuzione penale; nel coinvolgimento degli Ordini degli avvocati nella designazione del Garante comunale. L’accordo”, ricorda quindi la noita, “intende individuare anche la più corretta modalità di interlocuzione indirizzata alle categorie più fragili: le donne madri detenute e i minorenni privati della libertà. Tutte le attività saranno condivise con i soggetti istituzionali interessati, a partire dal ministero della Giustizia con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il Dipartimento giustizia minorile e di comunità”. Giustizia riparativa, al via progetto dell’Autorità garante sull’impatto nel penale minorile garanteinfanzia.org, 3 dicembre 2021 Insediato il comitato scientifico. L’iniziativa sarà svolta in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti e il Ministero della giustizia. La giustizia riparativa come risposta ai reati commessi dai minorenni. Su questo tema l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ha avviato oggi, con l’insediamento del comitato scientifico, un progetto che mira a favorirne lo sviluppo. Oggetto dell’indagine saranno i programmi di giustizia riparativa in uso in Italia e l’impatto che essa produce per la vittima, per l’autore del reato e per la comunità. La ricerca sarà condotta in collaborazione con l’Istituto degli Innocenti e il Ministero della giustizia che, assieme all’Autorità garante, promotrice del progetto, comporranno la cabina di regia. Il comitato scientifico è costituito dal criminologo Adolfo Ceretti, dalla mediatrice penale Maria Pia Giuffrida e dal professore di filosofia morale Giovanni Grandi. Previsti focus group con magistrati, assistenti sociali, mediatori e altri esperti oltre che interviste con ragazzi. Dal lavoro scaturiranno un report, delle raccomandazioni e seminari di sensibilizzazione. “La giustizia riparativa aiuta a gestire la conflittualità sociale in modo pacifico, educando al dialogo e al rispetto e dando un nuovo significato alle regole” sottolinea l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti “è nostro compito diffonderla e per farlo occorre anzitutto conoscere in cosa consiste e qual è il suo impatto sulle persone e sulla comunità. Proprio per questo abbiamo deciso di avviare questo progetto, che parte oggi con l’insediamento del comitato scientifico”. La telemedicina nelle carceri di Gianluca Salcioli laltramedicina.it, 3 dicembre 2021 “Il carcere è un luogo malsano e le persone detenute hanno spesso bisogno, anche a causa dei contesti di provenienza, di interventi di cura rilevanti e urgenti. Ma ancora oggi ci sono troppi ostacoli per un dignitoso diritto alla cura”, è la denuncia di Alessio Scandurra dell’Osservatorio diritti e garanzie Associazione Antigone, nel suo intervento in occasione dell’evento sul tema: “L’ecosistema integrato della Digital Health nei diversi istituti” - La telemedicina e il teleconsulto come miglioramento dell’accesso alle cure in regime di restrizione”. Scandurra ha evidenziato che: “nelle strutture penitenziarie manca il personale e le risorse adeguate per garantire all’interno tutti i servizi necessari e non è facile organizzare scorte e traduzioni per portare fuori i detenuti. Inoltre non tutte le carceri sono vicine a un ospedale e molti grandi istituti, come Gorgona, sono piuttosto isolati. In un quadro simile la telemedicina, ed in generale un rafforzamento di tutti i servizi digitali, dovrebbe essere scontato, ma nella realtà il carcere vive ancora una anacronistica arretratezza informatica”. La convention ha avuto l’obiettivo di avviare un dibattito su un tema importante come quello della telemedicina e del teleconsulto all’interno delle carceri italiane, ma anche nelle Rsa, e sul contributo che questi nuovi strumenti possono apportare per migliorare la qualità di cura e della salute dei detenuti e degli anziani. Dato allarmante di partenza è che il 70% dei detenuti ha almeno una malattia Il 70% fuma, quasi il 45% è obeso o sovrappeso, oltre il 40% è affetto da almeno una patologia psichiatrica, il 14,5% da malattie dell’apparato gastrointestinale, l’11,5% da malattie infettive e parassitarie, circa il 53% dei nuovi detenuti è stato valutato a rischio suicidio (Fonte Dap concessi da Antigone). A oggi lo Stato spende oltre 8 miliardi per l’amministrazione della giustizia e il 35% di queste risorse sono destinate al carcere che, attualmente, ospita circa 53.000 persone, un anno fa erano oltre 61.000. Tra il 2017 e il 2021, il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) è cresciuto del 18,2% passando da 2,6 a 3,1 miliardi, una cifra che batte ogni record negli ultimi 14 anni e rappresenta il 35% del bilancio del Ministero della Giustizia. Entrando nel dettaglio di alcune voci si nota che, rispetto al 2020, aumentano i fondi, tra gli altri, per il funzionamento del servizio sanitario e farmaceutico, il mantenimento detenuti tossicodipendenti presso comunità terapeutiche (da 152 a 168 milioni), 4,5 milioni sono destinati a professionisti psicologi per le attività di osservazione e trattamento dei detenuti (fonte XVII rapporto sulle condizioni di detenzione Ass. Antigone). Alcune delle criticità più evidenti del SNN penitenziario sono la disomogeneità delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione; la farraginosità, obsolescenza e lentezza delle procedure per l’erogazione delle prestazioni sanitarie; l’inefficiente programmazione della spesa sanitaria e assenza di dati statistici sul “fabbisogno di salute”. Dal confronto è emerso che l’uso telemedicina e del teleconsulto può contribuire in maniera determinante ad abbattere le barriere geografiche e temporali, facilitare la comunicazione e l’interazione tra il medico e il paziente, e più in generale per raggiungere un maggior numero di persone, comprese quelle che vivono in zone non dotate di adeguate strutture sanitarie, assistere i malati cronici o anziani direttamente a casa, eliminare le lunghe liste di attesa riducendo l’accesso a strutture già affollate e risparmiando quindi sui costi. Il moderatore Giuseppe Assogna (Presidente Società Italiana per Studi di Economia ed Etica sul Farmaco e sugli interventi Terapeutici), ha rilevato che, tra le barriere all’accesso della telemedicina, c’è la questione che: “i sanitari non si sentono ancora sicuri nell’utilizzo delle tecnologie digitali per erogare prestazioni sanitarie, inoltre il sistema sanitario è in grave ritardo nella definizione dei processi organizzativi necessari, anche per la lentezza nella formulazione di norme specifiche di settore”. Giuseppe Emanuele Cangemi (Vicepresidente Consiglio Regionale Lazio), ha ricordato: “fui il primo rappresentante istituzionale in veste di assessore regionale a promuovere e portare nelle carceri del Lazio insieme al Garante dei detenuti un progetto pilota di telemedicina, in quella occasione i detenuti dell’istituto Regina Coeli affetti da problemi cardiaci hanno potuto contare su un nuovo servizio di telemonitoraggio e teleconsulto specialistico gestito da una struttura di eccellenza, il Dea cardiologico dell’ospedale San Giovanni di Roma”, ha poi evidenziato che: “occorre creare un fascicolo sanitario elettronico e una cartella clinica digitale e mettere in funzione una piattaforma informatica a livello nazionale che consenta ad Asl e istituti di detenzione di dialogare e avviare un servizio di teleassistenza in ambito carcerario, sia adulto che minorile”. Sergio Pillon (Coordinatore della trasformazione digitale ASL di Frosinone), ha spiegato che “la Telemedicina negli istituti penitenziari funziona bene solo se è una costola della Telemedicina dell’azienda sanitaria che eroga i servizi clinici, con gli stessi meccanismi con cui vengono offerti sul territorio” - e ha poi sottolineato: “la telemedicina ha un ruolo importantissimo per gli aspetti psichiatrici. Stiamo sviluppando un progetto pilota per le REMS (Residenze per Esecuzione in Misure di Sicurezza) che, tramite un sistema di Teleconsulto, consente di avere uno psichiatra presente anche dal suo smartphone H24 che interagisce con il paziente e con gli infermieri presenti nella struttura. Parallelamente stiamo avviando un percorso di teleconsulto psichiatrico e cardiologico per gli istituti penitenziari della nostra ASL”. La senatrice Maria Rizzotti, in rappresentanza dell’Ass. di iniziativa Parlamentare e Legislativa per la Salute e la Prevenzione presieduta dal Sen. Antonio Tomassini, che ha patrocinato l’incontro, ha rilevato che si si occupa di questo tema dal 2017 e ha riconosciuto che: “nel privato sono stati fatti passi più veloci nella digitalizzazione” e che “la telemedicina deve entrare nel sistema medicina territoriale e tutti i sistemi sanitari dovranno ragionare con lo stesso criterio”. La Rizzotti ha poi sottolineato che: “il PNRR con il contributo di 7 miliardi di euro apporterà sicuramente numerosi benefici allo sviluppo delle reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale”. Cartabia: “Basta processi mediatici” di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 dicembre 2021 Contro le indagini trasformate in sentenze definitive. Contro la barbarizzazione delle carceri. Contro i negazionisti del sovraffollamento. La discontinuità sulla giustizia è possibile. Dialogo con Marta Cartabia. Ministro, noi, come sa, siamo ottimisti a volte anche in maniera un po’ irresponsabile, e cerchiamo di vedere opportunità ovunque, anche laddove è molto complicato vederne qualcuno. Quando parliamo di giustizia però un po’ ci blocchiamo e tendiamo a essere più preoccupati che ottimisti. E d’altronde, ministro, se si guarda a quella che è la situazione della giustizia in Italia in questo momento ci sono alcuni dati che colpiscono e che persino spaventano. L’Italia è il paese delle 1.202 condanne per durata irragionevole dei processi. L’Italia è il paese dei 3 milioni di procedimenti pendenti. L’Italia è il paese dove, in tribunale, un procedimento dura 348 giorni, 627 giorni in appello e due anni e quattro mesi se non ricordiamo male in Cassazione. Ministro, onestamente: come si fa a essere ottimisti sulla giustizia oggi in Italia? “Come si fa a essere ottimisti in generale, io direi, perché l’ottimismo deve radicarsi in qualcosa di molto solido nel presente, per cui parlare con uno sguardo positivo all’ottimismo, uno sguardo positivo sul futuro, credo che sia ragionevole soltanto offrendo alla riflessione dei cittadini e degli osservatori qualche dato concreto di ciò che è frutto del lavoro di questi mesi e che ci fa recuperare un senso di fiducia simile a quello che io respiro quando visito le Corti d’appello. È un compito che mi sono data, quello di andare a vedere la situazione nelle varie realtà italiane. Quello che io vedo è non solo fiducia, ma anche una gran voglia di rinnovamento. Mi sembra che siano ingredienti sufficienti per guardare con positività verso il nostro futuro”. Una delle caratteristiche di questo di questo governo è la discontinuità con il passato. E il tentativo di costruire una giustizia un po’ più garantista e un po’ meno giustizialista è senz’altro una discontinuità importante rispetto a stagioni precedenti. Può spiegarci perché introdurre una dose maggiore di garantismo in Italia potrebbe aiutare a rendere il paese più giusto e anche più attrattivo dal punto di vista economico? “L’unico faro che io ho sempre in tutte le azioni e le proposte che abbiamo fatto è la Costituzione. La Costituzione è la mia cultura, io vengo da lì, sono una costituzionalista, ho avuto un’esperienza di nove anni alla Corte costituzionale. L’impostazione che naturalmente ho è ‘la Costituzione fondamento del potere e limite al potere’. Serve un potere giudiziario, è necessario, altrimenti avremmo la legge del più forte, che non ha argini, quindi il potere giudiziario fa parte di una delle funzioni fondamentali di ogni stato. Ma trattandosi di uno dei poteri come gli altri, anzi, forse più severo degli altri per la possibilità di incidenza che ha nella vita delle persone e degli attori economici, come tutti i poteri deve incontrare limiti e garanzie per i diritti dei cittadini, degli imputati ma anche delle vittime. Il lavoro che stiamo facendo è connotato da un obiettivo molto chiaro: è l’obiettivo che ci siamo presi con l’Europa, è l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi. I dati che lei ha letto all’inizio sono dati che potrebbero essere ancora più corroborati: la situazione che abbiamo trovato era molto grave, e per questo nel Pnrr ci siamo impegnati a ridurre del 40 per cento la durata del processo civile in cinque anni e del 25 per cento la durata del processo penale in cinque anni. Lo stiamo facendo con investimenti, interventi di organizzazione, di digitalizzazione e anche con tre riforme già messe in atto. Io credo che questo tipo di interventi non soltanto debba nutrire l’ottimismo, ma anche quella fiducia da parte degli investitori e degli operatori economici che mi auguro presto possano vedere un cambio di passo nel nostro paese. Devo dire, andando in giro per il mondo, che già lo vedono”. Ci fa un esempio? “Sono appena tornata da un viaggio negli Stati Uniti dove ho incontrato i vertici dell’amministrazione giudiziaria americana, sia l’Attorney general che il Chief Justice della Corte Suprema. In questo viaggio, a parte l’attenzione, abbiamo parlato proprio delle riforme. Volevano sapere, volevano conoscere. Ma questa stessa curiosità, piena di aspettative, l’ho incontrata anche in tanti operatori economici, sia a Washington che a New York. Abbiamo fatto diversi incontri, almeno tre, con operatori finanziari, imprenditori, professionisti, e il loro interesse è capire in che direzione ci stiamo muovendo, cosa stiamo facendo, quali sono le cose che sono in campo. Devo dire che c’è una grande ammirazione perché in nove mesi sono state approvate dal Parlamento tre riforme importanti: la riforma del processo penale, quella della crisi d’impresa e quella del processo civile, che si è conclusa proprio la scorsa settimana. Ma soprattutto il livello di trasformazione organizzativa della giustizia, questa strutturazione dell’ufficio del processo per cui la scorsa settimana abbiamo concluso già i concorsi (manca una sede che ha avuto un rallentamento per il maltempo) l’assunzione di 8.250 giovani giuristi che vanno ad affiancarsi ai quasi 10.000 giudici è un cambiamento importante, soprattutto per quanto riguarda il modo di lavorare. Il giudice non lavora più da solo, ma ha uno staff che dovrebbe aiutarlo ad abbattere gli arretrati, ad abbattere i tempi e, se possibile, garantire di aumentare la qualità della risposta della giustizia”. In questi ultimi vent’anni qual è stato il grande tabù sulla giustizia con cui l’Italia deve finalmente fare i conti? “Non saprei dirle qual è il tabù, forse lei ce l’ha in mente… mi dica lei qual è quello a cui sta pensando perché sinceramente non so quale sia”. Ministro, io credo che il grande tabù di questi anni sia stata la non consapevolezza che vi è in Italia di un problema enorme che è quello della separazione dei poteri. Non oso pensare a cosa potrebbe scrivere oggi Montesquieu osservando l’Italia... “Secondo me la nostra magistratura ha una forte indipendenza e autonomia dal potere politico. È diversa la situazione che si sta ponendo per esempio in paesi come l’Ungheria o la Polonia, dove invece c’è un problema serio di separazione dei poteri che l’Europa sta monitorando in modo molto attento e su cui sta intervenendo in un modo incisivo perché lì davvero c’è, come combatteva Montesquieu, un governo, una struttura politica che sta togliendo spazi di azione alla magistratura. Ciononostante, qual è il problema che si è creato nel nostro paese? È un problema della garanzia dell’indipendenza del singolo giudice all’interno della stessa magistratura. Da noi, sin dal primo anno delle lezioni di Giurisprudenza, si insegna che l’indipendenza della magistratura deve essere esterna verso gli altri poteri ma anche interna, di ciascun giudice, di ciascun ufficio giudiziario. È il lavoro che si sta cercando di fare, lo faremo con la prossima riforma del Csm, che ci è stata sollecitata anche in modo molto energico dal presidente della Repubblica”. La mia domanda, ministro, non era legata a quanto la magistratura sia indipendente dalla politica, ma quanto la magistratura riuscirà nei prossimi anni a non cedere a una tentazione importante: quella di esercitare un ruolo di supplente della politica. Oggi in Italia credo che sia questo il tema: in che modo un piccolo pezzo della magistratura ha avuto talvolta la tentazione di esercitare in modo spregiudicato un potere di supplenza... “Lei ha ragione a notare il fatto che c’è una grande corpo della magistratura che fa un lavoro straordinario. Non dobbiamo farci abbagliare da alcuni casi clamorosi. Teniamo ben distinti quelli che sono alcuni casi da stigmatizzare e che sono sotto gli occhi di tutti. Quello che io vedo andando in giro per gli uffici giudiziari è che non ci sono uno, due o tre nomi di magistrati, ma ci sono migliaia di persone che sono operosissime e secondo me la maggiore garanzia per la vera autonomia e indipendenza della magistratura è l’alta qualità professionale, perché più c’è amor proprio nel lavoro che si fa, meno attaccabili si è dal punto di vista di tentazioni di tipo diverso”. In diverse occasioni abbiamo colto nella sua azione di governo una sensibilità sul tema del processo mediatico, una volontà quasi di eliminare alcune circostanze che possono favorire il processo mediatico. Ci spiega perché questo, secondo lei, è un problema per l’Italia? “C’è stato anche in questo caso uno spunto molto forte che è venuto da una direttiva europea che non era stata attuata in Italia, ed è una direttiva sulla presunzione di innocenza. Noi nella nostra Costituzione parliamo di presunzione di non colpevolezza. È interessante perché questa direttiva europea, alla quale noi abbiamo dato seguito con un decreto legislativo che è quello che ha suscitato l’attenzione nel dibattito pubblico, collega la garanzia di questo principio, che è un diritto storico, di quelli nati con l’inizio del costituzionalismo, proprio con il problema mediatico. All’inizio non era così. All’inizio la presunzione di non colpevolezza voleva dire che la persona non poteva avere sanzioni, non poteva essere punita giuridicamente fino alla fine del processo, fino alla sentenza definitiva. Perché c’è questo collegamento? Perché nonostante tutte le garanzie giuridiche siano lì da molto tempo, oggi è cambiato il contesto: il solo fatto di una notizia di indagini, oppure che siano stati aperti determinati filoni di inchiesta, se viene immediatamente proposto sulla stampa come se si fosse già individuato l’esito di quel processo, può pregiudicare nei fatti quel principio che noi vogliamo garantire, cioè il fatto che la persona non è considerata colpevole fino alla fine della sentenza di condanna. Se posto male dal punto di vista mediatico, il processo può arrecare un danno alla reputazione - e quindi anche a tutta la vita professionale, alla vita di una persona o alle sue attività economiche - pressoché irreversibile. Questo non vuol dire che non serva parlare delle indagini: è importantissimo che si preservino spazi di riservatezza e spazi di trasparenza così come sono nel processo. Tutto il processo penale ha l’udienza pubblica che da sempre è aperta e deve poter essere raccontata, ma ha anche dei momenti di riservatezza che debbono rimanere tali. È cambiato il mondo mediatico, è cambiata la possibilità di far circolare informazioni: bisogna farlo con delle nuove garanzie per preservare questo che è un caposaldo del rapporto tra il cittadino e il potere giudiziario. Occorre un bilanciamento diverso, un equilibrio diverso”. Lei, ancor prima di diventare ministro, ha dedicato molta attenzione al tema delle carceri. Durante la pandemia, se non ricordo male, ci sono stati 18-19 morti all’interno delle carceri: è una cosa che non è capitata in nessun paese occidentale in un numero così elevato. Che cosa dice oggi a chi nega che in Italia vi sia un problema di sovraffollamento delle carceri? “L’unica cosa che vorrei dire è: leggete i dati. Il punto saldo da cui possiamo partire è il dato della realtà. Quanti sono i detenuti oggi? Circa 54.500. La capienza regolamentare delle carceri è di poco superiore a 50 mila posti per l’ospitalità, di cui circa 3.500 non sono attualmente disponibili per problemi di struttura, di inagibilità di determinati settori, di determinate carceri. Quindi il problema sussiste: se abbiamo tra i 4.000 e i 7.000 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, evidentemente c’è un problema di sovraffollamento. Spesse volte si dice: ‘Sì, ma è un sovraffollamento calcolato sulla base di alcune indicazioni della Corte europea che, anni fa, nel caso Torreggiani, chiese di avere almeno a disposizione per ogni detenuto 3 metri quadrati’. Certo, è così, il sovraffollamento va calcolato alla luce degli standard europei. Quella sentenza ha messo in atto nel nostro ordinamento delle riforme, se non sbaglio fu proprio il governo Monti - e saluto il presidente Monti che vedo qui in prima fila - che dovette affrontare quella emergenza straordinaria insieme ad altre emergenze, proprio perché fino a quell’epoca non c’erano nemmeno 3 metri quadri disponibili per ogni detenuto. Il che significa che il problema del sovraffollamento carcerario c’è. Si sta lavorando tantissimo sul settore delle carceri, però il bisogno è immenso. Ci sono istituti che gridano vendetta. Ho promesso al sindaco Nardella che ci fermiamo un attimo dopo per prendere un accordo per una visita a Solliciano. Vorrei poter veramente andare a visitare quel carcere al più presto perché, lo dico sempre, bisogna aver visto. Come abbiamo visto con il presidente Draghi la situazione di Santa Maria Capua Vetere, quando si vede che cos’è la vita in un carcere poi ci si va piano a fare certi commenti”. Qualche giorno fa, ministro, quando è stato dato l’ok alla riforma della giustizia civile, lei ha ringraziato il Parlamento per, così ha detto, “l’alto senso di responsabilità dimostrato”. Ora, il Parlamento avrà qualche mese di tempo per trasformare in realtà questa legge. Lei è ottimista sulla capacità che la politica, sulla giustizia, riesca a imparare dagli errori del passato? “Io parlo con i fatti. Quando si parla soprattutto della giustizia penale, parliamo di un argomento che ha diviso, ha polarizzato in modo estremo il nostro dibattito politico. Con fatica, non neghiamolo, ai primi di agosto abbiamo approvato una riforma del processo penale. Abbiamo approvato una riforma del processo civile che aveva meno sensibilità politiche, ma tante divergenze di punti di vista, ci sono anche tante sensibilità dei vari stakeholders della giustizia, gli avvocati, i giudici pubblici ministeri, i tribunali dei minorenni… abbiamo fatto un pezzo di riforma importante della giustizia di famiglia, che è un terreno sensibilissimo per altre ragioni nel nostro paese. Certo, abbiamo fatto un lavoro di convergenza verso obiettivi possibili. Io non credo che queste riforme siano perfette, definitive, però le abbiamo fatte. Abbiamo fatto queste due grosse leggi delega della riforma del processo penale e del processo civile, il Parlamento, con uno sforzo anche quantitativo, ha assecondato diciamo così i tempi del governo che erano tempi imposti dall’Europa: se non finivano entro il 31 dicembre queste grosse riforme sarebbe stata compromessa l’erogazione dei fondi di tutto il Pnrr, non solo di quelli per la giustizia: i 209 miliardi sarebbero stati a rischio. C’è stato questo input dall’esterno che ci ha molto aiutati, ma alla fine, con un po’ di pazienza e, non lo nego, con una certa disponibilità alla mediazione perché forse io avrei voluto fare qualcosa di più in una certa direzione o in un’altra, si sono trovate l’energia e la forza di arrivare a un consenso comune. Non era scontato: il clima politico sulla giustizia era forse il clima più infiammato di tutti. Eppure, devo dire che i fatti dicono che si può fare, perché è stato fatto. Quindi sì, sono fiduciosa. Adesso il compito è nostro, non è del Parlamento: i decreti legislativi sono del governo, sul penale abbiamo già all’opera vari gruppi di lavoro, abbiamo un anno di tempo per attuarli ma io spero di far prima, di metterci qualche mese”. Qual è, secondo lei, l’elemento più importante di discontinuità sulla giustizia portato avanti da questo governo nella sua azione quotidiana? “Poterne parlare e poter costruire trovando una strada condivisa. Io però non so se parlerei proprio di discontinuità: questo governo ha dentro di sé delle componenti politiche che sono anche dei governi precedenti, al plurale. I governi precedenti avevano visioni molto diverse sulla giustizia, l’uno dall’altro. L’elemento di cui io sento di dire sia il risultato politicamente più significativo è l’essere ritornati a parlare di giustizia e a parlarne per fare delle riforme condivise. Questo mi sembra l’elemento diverso rispetto al passato a breve termine, ma anche più a lungo termine. La storia che non si potevano fare le riforme della giustizia pesca lontano nella nostra storia. A me sembra il dato più significativo: un inizio di condivisione di un percorso”. “Csm, tempi troppo stretti”. La riforma adesso agita i partiti di Simona Musco Il Dubbio, 3 dicembre 2021 Dopo l’appello di Mattarella, la Commissione Giustizia fa ripartire la discussione sul Csm. Scontro sul sorteggio in attesa degli emendamenti della ministra Marta Cartabia. Riparte la discussione in Commissione Giustizia alla Camera sulla riforma del Csm. Un incontro interlocutorio, convocato dopo l’appello lanciato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in attesa che la ministra della Giustizia Marta Cartabia depositi gli emendamenti governativi sulla proposta di legge. Sui tempi, al momento, non c’è alcuna certezza. Ma affinché sia possibile portare in Aula la proposta in tempo utile per votare il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura con una nuova legge elettorale è necessario che le proposte governative arrivino ai deputati prima di Natale. Dopodiché verrà dato un termine per la presentazione dei subemendamenti, in modo che a inizio gennaio si possa votare in Commissione. I partiti, nel corso della riunione di ieri, non hanno nascosto la propria preoccupazione per gli stretti margini di manovra, dal momento che si tratta di una legge delega e dato anche il prossimo impegno del Parlamento con il voto per l’elezione del Capo dello Stato. “Il rischio è che siamo già fuori tempo massimo”, conferma il deputato Pierantonio Zanettin, di Forza Italia. Che nel suo intervento di ieri ha ribadito la necessità di introdurre il sorteggio temperato come forma di sistema elettorale, per evitare lo strapotere delle correnti che ha portato ad una gestione poco trasparente delle nomine. Zanettin ha evidenziato quanto accaduto a Palermo, dove Articolo 101, il gruppo nato in aperta polemica con le correnti tradizionali della magistratura, ha vinto l’elezione per il rinnovo della giunta locale. Un risultato che rappresenta anche un cambiamento culturale, dal momento che le toghe “dissidenti” propongono il sorteggio e la rotazione degli incarichi direttivi come antidoto al “sistema” descritto da Luca Palamara. “Credo che il governo debba tenere conto di queste manifestazioni di interesse che provengono anche dal mondo della magistratura ha sottolineato Zanettin -. Solo la parte più conservatrice delle toghe reagisce con sdegno”. La proposta viene condivisa anche dalla Lega, come confermato ieri in aula da Ingrid Bisa, mentre il M5S, per il quale è intervenuto l’ex sottosegretario Vittorio Ferraresi, sostiene la bontà della riforma scritta dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, che prevedeva l’introduzione di sistema maggioritario a doppio turno. Alla discussione di ieri ha assistito il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, che però non si è sbilanciato sulle proposte ribadite ieri in Commissione. Quel che è certo, al momento, è che finora la ministra ha sempre manifestato parere contrario all’ipotesi sorteggio, ma la speranza dei forzisti è che i risultati di Palermo possano indurre “ad un atteggiamento di maggiore apertura”. Ma il tema non è solo quello del sistema elettorale: la riforma dovrà riguardare anche i fuori ruolo, la separazione delle carriere, le valutazioni di professionalità, il ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari e le porte girevoli con la politica, temi finora assenti dal dibattito con la ministra. Sul tema delle porte girevoli Zanettin ha ricordato una risoluzione del Csm del 2015, con la quale viene auspicato che una volta terminata l’esperienza in politica le toghe non possano tornare a svolgere attività giudiziaria. E Forza Italia ha presentato un emendamento che prevede il transito obbligatorio di questi magistrati nell’avvocatura dello Stato, “idea che non sarebbe penalizzante dal punto di vista della carriera e consentirebbe di evitare il ritorno alla funzione giurisdizionale”. Una prima risposta potrebbe arrivare stamattina, quando il governò risponderà all’interpellanza urgente presentata dal deputato di Azione Enrico Costa, con la quale chiede di rinforzare l’attività giurisdizionale riducendo il numero dei fuori ruolo. Ma il problema riguarda anche il “condizionamento che l’ordine giudiziario esercita fattivamente sul potere legislativo ed esecutivo”, che è “strategicamente organizzato, mediante il distacco di centinaia di magistrati presso i dicasteri governativi”, dei quali circa un centinaio a via Arenula, “quasi a rappresentare plasticamente una concezione proprietaria della giustizia stessa”. Un fenomeno senza eguali, “che assicura alla magistratura un livello di ingerenza assolutamente decisivo nella politica giudiziaria del Paese, così vanificando il fondamentale principio della separazione tra i poteri dello Stato”. Secondo Costa è dunque necessaria “una proposta di legge che assicuri il supporto di competenze esterne ai ministeri, ricorrendo a soggetti che non esercitino altri poteri statuali, quali, ad esempio, il personale amministrativo, i dirigenti pubblici, i docenti universitari, gli avvocati”. La riforma del Csm rappresenta dunque l’occasione per affrontare il tema, ma prima è necessario conoscere “da quanto tempo, in media, i magistrati fuori ruolo si trovino in tale posizione”, “quale sia la loro retribuzione media”, nonché se e quali iniziative il governo “intenda adottare a livello normativo per modificare le disposizioni che disciplinano gli incarichi in posizione di fuori ruolo dei magistrati ordinari”. La Commissione Giustizia, ieri, ha anche spostato dal 7 al 10 dicembre i termini per la presentazione degli emendamenti sulla riforma dell’ergastolo ostativo. Giustizia, la riforma più necessaria. Vietato non riformare il Csm di Danilo Paolini Avvenire, 3 dicembre 2021 È ripresa giovedì in commissione Giustizia alla Camera, e subito è stata aggiornata, la discussione generale sul disegno di legge delega di riforma del Consiglio superiore della magistratura. Una riforma chiave, insieme alle altre due messe in campo dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e già approvate dal Parlamento. Ma, senza nulla togliere alle revisioni dei processi penale e civile - alle quali è affidato l’ambizioso compito di restituire rapidità ed efficienza al nostro sistema giudiziario - si può dire che la riforma del Csm sia la ‘vera’ riforma della giustizia: senza una magistratura libera dai vizi del correntismo, dal protagonismo di alcuni suoi membri e dall’appannamento della sua immagine agli occhi dei cittadini, infatti, non avremo mai un sistema in grado di fornire un buon servizio, né di infondere fiducia agli investitori stranieri. Per capirne l’importanza, è il caso di ricordare che al Consiglio superiore spettano le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati. Il Csm, dunque, va riformato. E in fretta, visto che a luglio verrà rinnovato e le sue elezioni rischiano di svolgersi con il medesimo meccanismo messo sotto accusa in seguito al cosiddetto ‘caso Palamara’. Scriviamo cosiddetto perché si illuderebbe chi (molto distratto, molto ingenuo o molto ipocrita) pensasse che, radiato Luca Palamara dalla magistratura, siano finite in soffitta certe note dinamiche che hanno fin qui presidiato all’assegnazione di incarichi apicali negli uffici giudiziari, soprattutto (e ci sarà un perché) nelle più importanti Procure della Repubblica. Palamara, insomma, sarà stato pure un caso, ma non un caso isolato. Come per altro ben dimostra l’effetto domino che la sua caduta ha provocato, tra dimissioni in serie, provvedimenti disciplinari e procedimenti penali che hanno investito toghe anche di primo livello. A due anni da quel terremoto, però, ancora niente si è mosso. E il tempo stringe. Lo ha ricordato qualche giorno fa, con la consueta puntualità, il presidente della Repubblica e dello stesso Csm, Sergio Mattarella: “Il dibattito sul sistema elettorale dei componenti del Consiglio superiore deve ormai concludersi con una riforma che sappia sradicare accordi e prassi elusive di norme che, poste a tutela della competizione elettorale, sono state talvolta utilizzate per aggirare le finalità della legge. È indispensabile, quindi, che la riforma venga al più presto realizzata, tenendo conto dell’appuntamento ineludibile del prossimo rinnovo del Consiglio superiore”. E ancora, a scanso di equivoci: “Non si può accettare il rischio di dover indire le elezioni con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili”. Questo intervento del capo dello Stato, pronunciato alla Scuola superiore della magistratura, ha dunque rimesso in moto l’iter del ddl delega. Ma non va dimenticato che, appunto, si tratta di una legge delega: una volta approvata in via definitiva dal Parlamento, occorrerà lasciare al governo il tempo necessario per i decreti delegati e allo stesso Csm per adeguare alle nuove norme i suoi regolamenti interni. La tabella di marcia prevede (ma forse prevedeva, a questo punto) di arrivare a gennaio con la legge delega approvata, per lasciare un discreto margine agli adempimenti delle fasi successive. Tuttavia, la citata tabella risale a ottobre, mentre a inizio dicembre siamo ancora alla discussione generale in commissione, nel primo ramo del Parlamento chiamato a occuparsene. Mentre l’esame della legge di bilancio (anche se avrà inizio dal Senato) e poi l’elezione del nuovo presidente della Repubblica sono destinati a impegnare gran parte dei lavori parlamentari da qui a febbraio. Non si stanca di far notare l’urgenza di procedere la guardasigilli Cartabia, che ha tra l’altro sottolineato un punto importante e forse mai illuminato così esplicitamente: la posta in gioco non è tanto l’autonomia della magistratura né la sua indipendenza dal potere politico, bensì “la garanzia dell’indipendenza del singolo giudice anche all’interno della stessa magistratura”. Un elemento che dovrà essere determinante per immaginare il Csm di domani, perché non si può pensare di riparare tutti i guasti emersi soltanto cambiando la legge elettorale. Una riforma che voglia essere minimamente incisiva, per esempio, non potrà tralasciare il capitolo relativo ai procedimenti disciplinari. Luglio, per i tempi della nostra politica, è davvero dietro l’angolo. Ma il fallimento, su un tema come questo, non può essere un’opzione. Violenza contro le donne, indagini senza denuncia e braccialetti elettronici di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 3 dicembre 2021 Le nuove misure per fermare i femminicidi. C’è un pacchetto di norme molto dure che arriva oggi sul tavolo del governo. Un giro di vite sulle violenze domestiche, quelle perpetuate da mariti, fidanzati, compagni. La violenza contro le donne non accenna a diminuire. È una dramma quotidiano. Per questo il governo ha pensato addirittura di dare alle vittime la scorta come per i testimoni di mafia. Per una tutela così stringente, tuttavia, c’è un rovescio della medaglia che probabilmente oggi porterà un ripensamento: non è giusto incidere sulla libertà delle vittime, imporle movimenti limitati. Si può tutelare la vittima anche con un pattugliamento sotto casa, ad esempio. Procedibilità d’ufficio - Ma arriverà un aiuto ancora più importante per le vittime: non costringerle a denunciare il proprio carnefice. Troppe volte le donne non riescono ad uscire di casa per raccontare ai giudici i loro drammi, domestici, pietrificate dal terrore. Ecco perché si è deciso di estendere la procedibilità di ufficio alle molestie e le violenze domestiche che adesso sono a querela di parte. Con la procedibilità di ufficio lo stalker sarà accerchiato. Le forze dell’orine potranno intervenire direttamente, magari perché avvisati dai vicini delle urla dentro la casa. C’è un unico presupposto per questa procedibilità: il patner violento deve aver già avuto un monito per questo stesso tipo di reati, ma non necessariamente nei confronti della vittima, il monito sarà valido anche se il reato è avvenuto altrove. Cartabia e Lamorgese le ideatrici - Le norme del pacchetto sono state volute e confezionate principalmente dai ministeri dell’Interno Luciana Lamorgese e da quello della Giustizia Marta Cartabia, anche se le idee sono arrivate da più parti, da più ministri. L’obiettivo è quello di rendere la vita impossibile al massacratore: il braccialetto elettronico contribuirà a questo scopo. E’ la sua libertà che deve essere sacrificata. Braccialetto elettronico - Su disposizione del giudice il braccialetto elettronico verrà messo ai polsi dei patner che violano i divieti di allontanamento dalla casa familiare e quelli di avvicinamento dei luoghi frequentati dalla vittima. Qualunque siano: palestra, scuole dei figli, scuole di ballo, supermercato. Il braccialetto elettronico, già usato per altri reati, non può essere applicato se non con il consenso dell’interessato. E, come è facilmente prevedibile, l’interessato spesso rifiuta la misura. Ed ecco la novità. Il giudice potrà mettere il violento davanti a un bivio: o accettare il braccialetto elettronico oppure venire sottoposto a misure alternative più pesanti. Come ad esempio gli arresti domiciliari, ma anche l’obbligo stringente di dover firmare in questura tre volte al giorno. Gps per localizzare i violenti - Il braccialetto elettronico è dotato di un gps per la geolocalizzazione. A disposizione ce ne sono tanti. Ovvero ce ne è per tutti i violenti. In questa maniera sarà molto facile individuare lo stalker che viola il divieto voluto dal questore di allontanamento dalla casa familiari e di avvicinamento i luoghi della vittima: in questo caso per lui scatta immediata la custodia cautelare. E sarà difficile ottenere le misure alternative: il violento dovrà dimostrare di aver compiuto un percorso di riabilitazione con esito positivo, certificato. Tutela psicologica per le donne - Tutto il pacchetto arriverà sul tavolo del consiglio dei ministri di oggi, con la benedizione del premier Mario Draghi e l’impegno in prima persone di un po’ tutte le ministre del governo. Anche per questo motivo si è arrivati ad un’altra tutela psicologica nei confronti delle donne: si dovrà informarle sui dove si trovano i centri anti violenza più vicini. Un altro modo per far capire alle vittime che non sono sole. Pavia. Tre suicidi in un mese nel carcere: “La situazione è gravissima” di Manuela D’Alessandro agi.it, 3 dicembre 2021 Tanti anche gli atti di autolesionismo, spiega la Garante dei detenuti. “Manca l’assistenza sanitaria e il principio della rieducazione della pena è dimenticato”. C’è un carcere dove tre persone, di 47, 36 e 37 anni, si sono tolte la vita nel giro di un mese, tra il 25 ottobre e il 30 novembre. Dove “la rieducazione non esiste, manca l’assistenza sanitaria e anche chi è vicino a finire di scontare la pena vede davanti a sé solo il baratro”. Siamo alla Casa circondariale della Torre del gallo di Pavia e l’atto di accusa più pesante arriva dalla garante locale dei detenuti, Laura Cesaris. “A ottobre - racconta all’AGI - ho scritto due volte al Provveditorato per segnalare una situazione che è gravissima senza riceverne una risposta”. Non solo i suicidi. “Sono numerosissimi gli atti di autolesionismo - spiega la docente di Esecuzione Penale. Due casi molto pesanti risalgono all’estate scorsa con una persona che è andata in arresto cardiaco per avere perso troppo sangue”. Dei tre reclusi che si sono tolti la vita uno, di 47 anni, “aveva dei problemi psichiatrici gravi tanto che gli era stato concesso di scontare la misura all’esterno del carcere ma aveva commesso dei reati mentre era ‘fuori’”. Nessuno dei tre avrebbe lasciato dei messaggi per spiegare il gesto. “Quello che mi lascia più amarezza - dice Cesaris - è che l’ultimo che si è suicidato, 37 anni, aveva un fine pena vicino, ad aprile 2023, e il fatto che si sia ucciso indica che nel suo futuro vedeva il nulla”. “Mancano medici, lo psichiatra cuce le ferite” - Uno dei problemi che Cesaris sottolinea è quello della mancanza dell’assistenza sanitaria. “Siamo al lumicino, non è pensabile che lo psichiatra debba cucire le ferite. Ci sono solo due medici che si alternano. Ad agosto tutti e sei i medici che c’erano si sono dimessi perché hanno avuto accesso alla scuola di specialità. Del resto se si pensa che un medico vaccinatore guadagna di più di uno che sta in carcere si può capire quanto non sia appetibile come posto”. Una particolarità di Pavia “è l’elevata presenza di sex offender e collaboratori di giustizia, persone che hanno problematiche particolari. Inoltre, più del sessanta per cento ha condanne definitive ed elevate e non dovrebbe stare quindi in una casa circondariale dove non ci sono trattamenti per la rieducazione. È la negazione di ogni principio costituzionale”. E a infiammare ancora di più il disagio, “il Covid che ha allargato la distanza tra i detenuti e il mondo”. Silenzio, secondo Cesari, anche dalla direttrice di lungo corso del carcere, Stefania D’Agostino, che al momento risulta essere in congedo fino al 5 dicembre. “In queste condizioni - è la preoccupazione della Garante - è facile che i più forti prendano la supremazia sugli altri detenuti in carcere. Spero che la Procura indaghi. Come si sono potuti uccidere tre reclusi senza che l’agente della polizia penitenziaria se ne accorgesse?”. Gli avvocati di Pavia, mai così tanti suicidi in poco tempo - “Sono molto preoccupata, non si sono mai verificati tanti suicidi in un arco così ristretto di tempo. Siamo in contatto con la direttrice del carcere con la quale avevano già programmato un accesso al carcere ai primi di gennaio - prosegue la rappresentante degli avvocati -. Alla luce di quello che sta succedendo, vogliamo capire le cause che hanno spinto questi reclusi a togliersi la vita e quali siano le difficoltà nell’esercitare il controllo che deve essere garantito”. Per Grossi, “è importante che non cali il silenzio su queste morti e andare a fondo della questione. Ci chiediamo per esempio se sia diminuito il numero di agenti penitenziari, magari anche per il Covid. Non vogliamo accusare nessuno ma vogliamo trovare soluzioni. Tra i problemi del carcere c’è che una parte di chi è ospitato sta nella struttura vecchia dove, proprio a causa della fatiscenza, spesso si verificano problemi come l’acqua calda che manca o altri disagi che possono provocare tensioni”. Antigone: “Necessario indagare le cause di tipo sistemico” (redattoresociale.it) L’osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone era stato in visita nell’istituto di pena lunedì 29 novembre. Verdolini: “Il carcere di Pavia presenta moltissime criticità: strutturali, di sovraffollamento, legate al personale sottodimensionato. Infine, criticità connesse ad una popolazione detenuta particolarmente sofferente”. “Siamo sgomenti per il terzo suicidio avvenuto in un solo mese nel carcere di Torre del Gallo di Pavia, il secondo nell’ultima settimana”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. L’osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione era stato in visita nell’istituto di pena lunedì 29 novembre, poche ore prima di questo ennesimo gesto estremo. “Il carcere di Pavia - sottolinea Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia e una delle osservatrici che ha effettuato la visita - presenta moltissime criticità: strutturali, di sovraffollamento, legate al personale sottodimensionato (medico, in primis, ma anche penitenziario e trattamentale); infine criticità connesse ad una popolazione detenuta particolarmente sofferente che si trova ristretta tra quelle mura, in parte composta da detenuti cosiddetti ‘protetti’, ovvero isolati dagli altri per tutelarli dai rischi di aggressione (uno dei più grandi reparti protetti del nord Italia con oltre 300 presenze) e in parte portatrice di una fragilità sociale e psichica, situata nella struttura per la presenza dell’articolazione di salute mentale lombarda”. “Certo ogni suicidio è un caso a sé e va considerato nella sua complessità, valutando anche la disperazione individuale di chi commette questo atto - ricorda Patrizio Gonnella -. Ma è anche vero che quando il numero dei suicidi supera una certa soglia è necessario indagare oltre, per capire se ci sono delle cause di tipo sistemico”. Venerdì l’osservatorio di Antigone sarà di nuovo nel carcere di Pavia, a breve distanza dalla precedente visita. Volterra (Pi). Agricoltura sociale, progetto di formazione per detenuti ed ex tossicodipendenti confagricoltura.it, 3 dicembre 2021 Imparare a potare gli olivi e a partecipare alla raccolta delle olive, ma anche a curare i vigneti e a dare il proprio contributo alla vendemmia. Il primo step del progetto “Olivocultura Sociale”, promosso da Confagricoltura Toscana, è rivolto a dodici persone, selezionate dalla Cooperativa La Torre e da altre cooperative sociali che si occupano di disabilità, dal Serd (Servizio Dipendenze) della Usl e dall’amministrazione carceraria di Volterra, che in due anni seguiranno corsi di formazione tecnico-pratica per essere poi inserite in due aziende agricole della zona di Peccioli: la Banti Ruffo e la Fattoria di Monti. Il progetto coinvolge anche l’Associazione di Produttori Olivicoli Toscani Apot (capofila del progetto), la Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra. Il convegno iniziale di presentazione del progetto che si avvale di finanziamenti europei del piano di sviluppo rurale (Bando PSR Toscana 2014-2020 - Reg (UE) 1305/2013 - Misura 16.9 - Annualità 2018 - Diversificazione attività agricole in attività riguardanti l’assistenza sanitaria, l’integrazione sociale, l’agricoltura sostenuta dalla comunità), si è svolto sabato 27 novembre al Centro Studi Santa Maria Maddalena di Volterra. All’evento ha partecipato il sindaco di Volterra Giacomo Santi che si è reso disponibile a dare il patrocinio al progetto, la responsabile per l’Agricoltura Sociale di Confagricoltura Pina Romano che ha illustrato il progetto e l’impegno che da anni svolge Confagricoltura nel settore, il Presidente Rete Fattorie Sociali Marco Berardo Di Stefano che ha condiviso la propria esperienza e il proprio impegno nell’agricoltura sociale, il Professor Andrea De Dominicis dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” che ha illustrato l’importanza della formazione e gli sviluppi futuri. “Auspichiamo che questo sia solo un primo step di un progetto in cui crediamo. Questa iniziativa ha un interesse sociale perché il primo obiettivo è quello di dare degli strumenti a persone svantaggiate per aiutarli a raggiungere una propria autonomia, a investire sul proprio futuro - spiega il presidente di Confagricoltura Toscana Marco Neri - Pensiamo però anche che questa sia un’opportunità per le aziende agricole alla continua ricerca di manodopera. È importante per il mondo agricolo poter contare su personale qualificato che possa essere inserito in azienda e contribuire attivamente alle operazioni manuali in campo”. Vibo Valentia. L’industria conserviera aiuta il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro di Daniela Guaiti linkiesta.it, 3 dicembre 2021 Per il sesto anno consecutivo Callipo coinvolge nel lavoro i detenuti di Vibo Valentia per il confezionamento di idee regalo. Una scelta etica e consapevole che si aggiunge all’attenzione per la qualità. È molto più di una moda: ormai da anni le sbarre di molte carceri si piegano per lasciar entrare (e uscire) prodotti e sapori legati al mondo dell’enogastronomia. Progetti ideati per favorire il reinserimento dei carcerati attraverso il lavoro, la cui validità è testimoniata proprio dall’abbassarsi dei tassi di recidiva. Così a Padova un laboratorio che opera all’interno della Casa di Reclusione Due Palazzi rifornisce di dolcezze gli scaffali e le vetrine della Pasticceria Giotto, a Milano il progetto Buoni Dentro si rivolge ai giovanissimi dell’istituto penale minorile Beccaria e si estende ai giovani adulti della casa circondariale di San Vittore, coinvolti in un laboratorio di panificazione con punto vendita. E a Vibo Valentia si rinnova per il sesto anno consecutivo la collaborazione con il penitenziario, all’interno del quale Callipo delocalizza un comparto della propria produzione per formare e dare lavoro ai detenuti. Sono sette i detenuti del penitenziario di Vibo Valentia che vengono assunti per due mesi da Callipo con il compito di confezionare 14.000 idee regalo che possono essere acquistate sullo shop dell’azienda per le prossime festività natalizie. Una parte della filiera produttiva si sposta fisicamente all’interno del carcere, dove si svolgono le operazioni di confezionamento. Si tratta di un progetto di inclusione sociale fortemente voluto dall’azienda conserviera e dalla casa circondariale calabrese: l’importanza di dare una seconda possibilità ai detenuti e di trasformare la detenzione in una reale occasione di recupero va oltre le difficoltà legate allo stato di emergenza covid-19, grazie ai rigidi protocolli di sicurezza attivati con la collaborazione della polizia penitenziaria locale per consentire al personale Callipo di accedere alla struttura detentiva. La formazione dei lavoratori è infatti parte integrante del progetto, “nato con l’obiettivo di offrire a chi ha sbagliato la possibilità di un riscatto sociale, ma diventato un’esperienza preziosa anche per noi e per i nostri dipendenti coinvolti, infatti, è anche un momento di riflessione e confronto”. Così commenta Giacinto Callipo, quinta generazione della famiglia, che pone l’attenzione alle tematiche sociali e ambientali al primo posto nella politica aziendale, accanto alla cura per una qualità che sia sempre totale e indiscutibile. Altro tratto fondante di Callipo è la passione per il territorio: un aspetto intimamente legato all’impegno sociale, e che si fonde con quest’ultimo proprio nel progetto di realizzazione delle confezioni natalizie. I cofanetti regalo hanno infatti una grafica accattivante, disegnati come sono dal noto designer calabrese Antonio Aricò: la collezione racconta sette Storie di mare attraverso illustrazioni che si ispirano al rito e alla tradizione della pesca del tonno. Così la box Tonnaroti è un omaggio alle antiche tonnare e ai loro lavoratori, i “contadini del mare”, detti tonnaroti, appunto; Tonnazzo è il nome che veniva dato al tonno più grosso pescato, che veniva offerto in voto a San Francesco, protettore della gente di mare; non manca l’anima femminile, con Bagnarote, le donne del mare, forti ed instancabili, dai tratti mediterranei e dal temperamento fiero, che portavano in testa grosse ceste con il pescato del giorno; e poi l’amore, con Fuitina, che immortala una scena leggendaria in cui il tonnaroto scappa via su una barca con una sirena del Mediterraneo; Levata, rievoca la prima “levata” del tonno al grido dei tonnaroti “leva, leva, tira!”; Marinaresco ritrae Barbe Calabresi e corpi mitologici; infine Tarantella, che rappresenta la danza delle sirene mediterranee con ceste e pesci sulla testa. Il contenuto non è da meno: un vero e proprio inno alla terra di Calabria: le box, oltre al pregiato tonno dell’azienda conserviera, in tranci o in filetti, sott’olio o in acqua di mare, racchiudono una selezione degli altri prodotti d’eccellenza del territorio come il peperoncino. Così si possono degustare specialità come la ‘nduia, la cipolla rossa di Tropea IGP in composta, la colatura di alici, l’olio extravergine di oliva, e poi delizie come i peperoncini ripieni di formaggio, la crema di tonno, e dolci confetture che raccolgono e conservano i frutti di questa terra, fichi, arance, bergamotto, melograno, solo per citarne alcuni. Milano. Iniziative green per il Pianeta: tra i protagonisti, i detenuti del carcere di Bollate fanpage.it, 3 dicembre 2021 Portare un vecchio smartphone nei Vodafone store per accedere a un progetto di economia circolare: questa una delle nuove iniziative targate Vodafone. Sarà inoltre possibile consegnare il materiale ai detenuti del carcere di Bollate, che daranno nuova vita ai prodotti ricondizionati. Un’economia circolare è possibile ma soprattutto necessaria. I nuovi progetti green targati Vodafone permetteranno a chiunque di dare nuova vita ad un vecchio smartphone. Come fare? Sono due le possibilità della nuova iniziativa di Vodafone: se il dispositivo ha un valore residuo, l’azienda offrirà uno sconto sull’acquisto contestuale di un nuovo smartphone nell’ambito dell’iniziativa Smart Change. Se invece lo smartphone, seppur funzionante, non ha un valore residuo, potrà essere donato dal cliente e avviato così al ricondizionamento integrale o di eventuali parti a opera dei detenuti del Carcere di Bollate - previa consegna all’impresa sociale Fenixs - nell’ambito di un progetto per il reinserimento nel mondo del lavoro. Ai detenuti sarà trasmesso il know how del processo per smaltire e recuperare il tutto; un modo pratico che permetterà loro di sviluppare nuove competenze utili e che incentiverà al riuso, piuttosto che all’aumento di nuovi rifiuti. Nell’attività di Fenixs viene privilegiata la lavorazione manuale, più efficace nel perseguire l’obiettivo sociale e che consente di ottenere una più fine selezione delle materie rispetto a quanto generato dai mulini di triturazione solitamente presenti negli impianti di smaltimento. Ma non solo smartphone inutilizzati… d’altro canto, con Smart Change, se il cellulare usato è ancora ben funzionante e in buone condizioni, sarà possibile ricevere una valutazione del dispositivo per l’acquisto contestuale di un nuovo smartphone, sia in soluzione unica sia con pagamento rateizzato. L’iniziativa proprio a ridosso del periodo natalizio vuol essere un promemoria per far si che nell’acquisto di nuovi strumenti tech i vecchi apparecchi non vengano lasciati a marcire nei cassetti di casa… bensì utilizzati nuovamente, incentivando peraltro l’inserimento nel mondo del lavoro. La possibilità di svolgere un’attività lavorativa nel corso della detenzione è infatti estremamente importante: è uno degli strumenti fondamentali per la riabilitazione e risocializzazione del recluso. Il progetto favorisce non solo nuove dinamiche di aggregazione ma anche una collaborazione costruttiva che si basa su un continuo scambio di informazioni tecniche tra il personale. Smart Change e non solo: un’altra iniziativa che già da tempo Vodafone mette in campo è la rigenerazione delle Vodafone Station, grazie alla quale i clienti hanno la possibilità di restituire le Station e altre apparecchiature utilizzate per la linea fissa permettendo così a Vodafone di dar loro nuova vita, in modo che siano riutilizzabili, evitando anche in questo caso che diventino rifiuti. L’impegno di Vodafone nell’economia circolare va ancora oltre: nel 2021 l’azienda ha aderito alla Circular Electronics Partnership, che riunisce i leader di tutta la catena del valore per promuovere soluzioni di circolarità per i prodotti elettronici, e ha lanciato insieme a quattro dei principali operatori di rete europei il nuovo programma di etichettatura Eco Rating, per aiutare i consumatori a identificare e confrontare i telefoni cellulari più sostenibili e incoraggiare i fornitori a ridurre l’impatto ambientale dei loro dispositivi. Essere parte del cambiamento significa accrescere il proprio business ma restando in linea con i modelli di sviluppo sostenibili. Cagliari. Detenuto in isolamento da 8 mesi chiede trasferimento cagliaripad.it, 3 dicembre 2021 L’uomo, S. C., 43 anni, sposato e padre di due bambine di 6 e 11 anni, si trova in isolamento volontario perché ritiene la sua vita in pericolo. Detenuto in Sardegna dal 2018, dopo essere stato estradato dalla Spagna in Italia nel 2015, attualmente nella casa circondariale di Cagliari, un cittadino nigeriano chiede insistentemente al Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria, senza avere risposta, il trasferimento nella Penisola. L’uomo, S. C., 43 anni, sposato e padre di 2 bambine di 6 e 11 anni, si trova in isolamento volontario perché ritiene la sua vita in pericolo. Effettua colloqui in videochiamata perché la moglie e le figlie vivono in Nigeria. “La mia situazione - ha detto ai volontari dell’associazione Socialismo Diritti Riforme - è divenuta insostenibile e non riesco più a gestire il mio stato d’ansia. Sono arrivato in Sardegna, da Napoli, su mia richiesta perché avevo appreso che qui sarei potuto andare in una colonia penale dove avrei lavorato e aiutato i miei familiari rimasti in Nigeria. In realtà niente di ciò che mi aspettavo è risultato veritiero. Nel 2018 sono stato trasferito nel carcere di Alghero, dove però non potevo lavorare. Successivamente nel 2019-2020 sono arrivato a Oristano, dove ho subito un’aggressione, quindi a Nuoro e adesso mi trovo nella casa circondariale di Cagliari-Uta. La Sardegna per me è diventata un incubo. Faccio continue domande per essere trasferito ma non ottengo alcuna risposta. Sono in isolamento dal 5 ottobre scorso, una condizione che mi pesa moltissimo perché non posso incontrare nessuno, ma mi sento in pericolo di vita e ho paura”. “La vicenda di S. C. - osserva Maria Grazia Caligaris, esponente di SDR - ripropone in termini oggettivi la questione della finalità della pena detentiva. Il detenuto è sicuramente un cittadino problematico, ma non è aggressivo verso le persone. La sua richiesta di trasferimento, seppure motivata in modo singolare, non appare insensata. Una persona che non riesce a trovare una motivazione a permanere in un Istituto Penitenziario e, nella fattispecie, in un carcere dell’isola, vanifica il ruolo della Istituzione. Ovviamente si tratta di un caso molto particolare ma appare singolare che un isolamento protratto per così tanto tempo, benché voluto, contrasti con le finalità della pena sancite dall’ordinamento penitenziario e dalla Costituzione. Non può infatti essere garantito il suo recupero sociale”. “Il nostro appello al Dipartimento - sottolinea Caligaris - vuole rappresentare una condizione umana preoccupante per i risvolti che può assumere. S.C. nella sua caparbia determinazione manifesta una grande fragilità, accentuata anche dalla difficoltà di gestire la lingua italiana e di comprendere i modi e i tempi dell’iter burocratico relativo alle istanze. È certo però che una richiesta di trasferimento avanzata al DAP a luglio potrebbe avere una qualche risposta. Il detenuto non sta chiedendo la libertà ma di essere trasferito fuori da un’isola che ritiene ormai incompatibile per episodi reali o sentiti come tali di intolleranza nei suoi riguardi. Accordare un atto di umanità da parte del Dipartimento - conclude l’esponente di SDR - può dare luogo a una svolta nella vita di una persona che potrebbe davvero affrontare il suo percorso riabilitativo nel pieno rispetto della finalità della pena”. Grosseto. “Cosa c’è dentro al cilindro”: un video sulla vita dei detenuti durante la pandemia ilgiunco.net, 3 dicembre 2021 La giunta comunale ha deliberato la realizzazione di un video dal titolo “Cosa c’è dentro al cilindro” relativo al progetto Teatro in carcere 2021 attuato nella Casa circondariale di Grosseto. Il video, utile per favorire la socializzazione della popolazione detenuta attraverso le attività teatrali e musicali e conseguentemente anche per il reinserimento dei detenuti nella società al termine della loro pena detentiva, sarà incentrato sulla narrazione da parte dei protagonisti di quanto il periodo della pandemia da Covid-19 abbia influenzato il loro quotidiano, acuendo il loro stato di isolamento e determinando una chiusura più marcata dei rapporti tra detenuti e famiglie. “Un importante messaggio socio-culturale per la città ed un grande valore aggiunto per la candidatura di Grosseto a Capitale italiana della Cultura 2024 - affermano gli assessori alla Cultura e al Sociale, Luca Agresti e Sara Minozzi - progetti come questo sono fondamentali per sottolineare l’importanza della cultura come strumento utile sia a favorire la socializzazione tra persone che condividono una situazione di “convivenza forzata” sia al reinserimento sociale dei detenuti”. La realizzazione dello stesso, che sarà presentato e pubblicato nel 2022, è affidata all’associazione onlus Sobborghi impresa sociale. Messina. Bisogna far spiccare il volo al “Teatro in carcere” esportandolo in contesti più ampi di Letizia Barbera Gazzetta del Sud, 3 dicembre 2021 L’incontro promosso dal Rotary club Messina sull’esperienza molto positiva di Gazzi. Far spiccare il volo al progetto del teatro in carcere lanciandolo in contesti più ampi. È l’auspicio di Gianfranco De Gesu, direttore generale del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, intervenuto ad un incontro promosso dal Rotary club Messina sull’iniziativa che vede detenuti e attori professionisti impegnati in laboratori teatrali nel carcere di Gazzi. Il “Teatro per sognare” è un lavoro nell’ottica della rieducazione. “L’esperienza teatrale della casa circondariale di Messina è un’eccellenza che va valorizzata e l’amministrazione centrale si impegnerà per questo”, ha detto De Gesu a margine dell’incontro aggiungendo che gli sforzi necessari affinché tutto funzioni bene non devono rappresentare un impedimento. Aprendo l’incontro De Gesu, rotariano, ha ricordato che in Italia il teatro entra nelle carceri a partire dagli anni Ottanta e che oggi sono numerose le compagnie teatrali. “In questo quadro si inserisce Messina che rappresenta sotto molti aspetti un unicum positivo anche perché è una casa circondariale e inoltre è riuscita a tessere una tela di collaborazioni con enti teatrali importanti come il Piccolo e la Scala di Milano. L’auspicio - ha concluso - è vedere il teatro carcerario di Messina nella prossima rassegna teatrale penitenziaria, è arrivato il tempo di uscire dalla regione per potersi lanciare in un contesto più ampio”. L’evento è stato aperto da Isabella Palmieri, presidente del Rotary club Messina che ha rinnovato il sostegno al progetto: “Lo avevamo supportato negli anni passati e continuiamo a farlo”. Durante la serata è stato anche evidenziato il protocollo di intesa tra il Tribunale di sorveglianza, la casa circondariale e il Club Rotary Messina grazie al quale sono già stati impiegati tre detenuti a cui è stato affidato il compito di eseguire lavori di pubblica utilità all’interno degli uffici del tribunale di sorveglianza. La presidente Palmieri si dice “orgogliosa in nome di tutti i soci di poter sostenere la realizzazione di questo progetto che il club attua attraverso il pagamento della assicurazione per la responsabilità civile dei detenuti coinvolti nel programma di trattamento rieducativo”. Il club aveva già donato un computer. Daniela Ursino, presidente dell’associazione D’Arteventi, direttore artistico del teatro Piccolo Shakespeare e ideatrice del progetto, ha raccontato l’origine dell’esperienza del teatro in carcere. Un’idea del 2017 “all’inizio considerata folle”, poi diventata realtà grazie al sostegno della Caritas diretta da padre Nino Basile e cresciuta tanto da avere al suo fianco importanti teatri nazionali. Adesso c’è anche l’università con il progetto “Liberi di essere Liberi” con il coordinamento delle prof. Lucia Risicato e Annamaria Citrigno. Attraverso foto e video emozionanti ha raccontato spettacoli e momenti più significativi. Un risultato possibile grazie all’impegno di tante professionalità come la direttrice del carcere Angela Sciavicco, la presidente del Tribunale di sorveglianza Francesca Arrigo, la comandante della polizia penitenziaria Antonella Machì, rappresentata dalla comandante f.f. Caterina Pacileo e la capo area degli educatori Letizia Vezzosi. Il prossimo obiettivo è replicare l’esperienza anche nel carcere di Barcellona. La presidente del Tribunale di sorveglianza Francesca Arrigo ha ricordato la convenzione che ha consentito a tre detenuti di svolgere lavori di pubblica utilità al tribunale, evidenziando l’importanza dell’attività trattamentale, mentre Angela Sciavicco, direttrice della casa circondariale, ha detto come il laboratorio teatrale è stato un modo per abbattere i pregiudizi degli stessi detenuti e di chi sta all’esterno. L’aiuto regia Antonio Previti ha interpretato un intenso brano sulla dimensione del tempo scritto da Angelo, un detenuto. Il brano è tratto da un nuovo spettacolo in allestimento con la Libera Compagnia del Teatro per Sognare maschile, diretta dall’attore e regista Giampiero Cicciò, quella femminile invece, è diretta dall’attore e regista Tindaro Granata, oggi neo direttore artistico del Teatro greco di Tindari. Le conclusioni sono state affidate all’avvocato Alfonso Polto: “Questa esperienza- ha detto - è un primo passo per attuare quella giustizia riparativa di cui si sente tanto parlare, sottolineando che il teatro può essere utile ai detenuti per prendere coscienza dei loro eventuali errori e da qui avviare una riconciliazione con la società”. “Più libri più liberi”, la fiera compie 20 anni e celebra la libertà di Francesco Castagna L’Espresso, 3 dicembre 2021 Torna “Più libri più liberi”, l’evento organizzato a Roma dal 4 all’8 dicembre dalla Piccola e Media editoria. Quest’anno, dopo uno di stop, la fiera compie vent’anni e li celebra nella Nuvola di Fuksas con un tema cruciale: la libertà. Quattrocento incontri e 500 editori che hanno deciso insieme di scommettere sul futuro, reduci da due anni di emergenza sanitaria che ha peggiorato la situazione già poco stabile dell’editoria italiana. L’artista Lorenzo Mattotti ha firmato il manifesto di questa edizione, promossa e organizzata dall’Associazione Italiana editori, alla quale parteciperanno diversi ospiti tra cui Roberto Saviano, Alessandro Baricco, Zerocalcare. Nel manifesto di Lorenzo Mattotti, celebre artista bresciano, la Nuvola di Fuksas è stata trasformata in una mongolfiera. Un oggetto statico, rinchiuso in un padiglione dell’Eur, che prende vita e ospita a bordo due lettori, metafora di come la lettura possa portarci verso altri scenari con la fantasia. I libri sono oggetti che ci elevano, che ci liberano e che ci hanno permesso in un periodo di privazioni di esprimere la nostra libertà di espressione e di stampa. Diritti irrinunciabili. Qui, le libertà collettive e personali si incontrano in molteplici spazi di discussione, dove ogni ospite rifletterà su quale è stato il libro che lo ha liberato dalle paure, dagli schemi ma anche dai tabù. I libri citati verranno poi offerti alla fiera, che li donerà nei luoghi dove la libertà è sospesa: le carceri. I ragazzi dei 17 istituti per la Giustizia Minorile riceveranno un libro ciascuno. Il confronto, che avverrà attraverso tavole rotonde, stand e letture, serve a celebrare un momento di ripresa ma anche e soprattutto di condivisione. All’evento interverranno importanti ospiti del panorama culturale mondiale, tra cui il premio Nobel Mario Vargas Llosa, la scrittrice e poetessa americana Sandra Cisneros, l’autrice spagnola Sara Mesa, che insieme a Sabina Minardi presenterà il suo nuovo libro “Un amore”, ma anche la giornalista e attivista turca Ece Temelkuran, che affronterà insieme a Francesca Mannocchi la questione curda e armena. Da non perdere la presentazione del libro di Jill Abramson, la prima direttrice esecutiva donna del New York Times, con un’analisi della crisi e la trasformazione di due storici giornali americani: il New York Times e il Washington Post. E ancora, tra gli ospiti Miguel Gotor, Elly Schlein, Michela Marzano e Francesco Piccolo. Il 4 dicembre, con una Lectio Magistralis all’Auditorium, aprirà la scena l’evento con Alessandro Baricco: “Il potere liberatorio dei libri”. Il giorno successivo l’attore Pietro Turano leggerà nella sala Verga “Sex Education”, con interventi di Licia Troisi. In collaborazione con Amnesty International, la fiera ha organizzato inoltre un evento il 5 dicembre, dove si terrà un collegamento dal Cairo con Marise Zaki, sorella di Patrick. E lo stesso giorno Amnesty presenterà il suo libro per celebrare i 60 anni di attivismo per i diritti umani. La manifestazione ospiterà anche un padiglione della Rai, main media partner, dove il 6 dicembre Valerio Renzi presenterà “Il Fascismo mainstream”, insieme a Marco Damilano. E poi ospiti della musica e del mondo dello spettacolo. Il presidente della Siae Mogol, Lillo e Greg, Paolo Virzì, Carlo Verdone, Corrado Guzzanti e altri ancora. Per i ragazzi, infine, da non perdere è l’appuntamento del 7 dicembre: “Un silent book per raccontare la via dei migranti”. Seguirà l’8 dicembre il dialogo “Sono ancora vivo”, tra Roberto Saviano e Michela Murgia e lo stesso giorno, in collaborazione con Netflix, Zerocalcare dialogherà con Chiara Valerio sulla sua serie tv “Strappare lungo i bordi”. Ricco di eventi, l’8 dicembre Riccardo Cottumaccio presenterà nella sala Luna il suo libro “W gli haters” con Michela Giraud, Valerio Lundini, Diletta Parlangeli e Angelo Maggi. Mentre alla sala Elettra Lilo e Greg metteranno in scena la loro “Biografia. Non autorizzata”. Con Netflix il garantismo è uscito dalla nicchia ed è diventato popolare di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 3 dicembre 2021 Il garantismo, i diritti della difesa, il giusto processo sono pilastri dello Stato di diritto, ma nell’immaginario giustizialista (che troppo spesso coincide con il senso comune) si tratta di pedanterie, capziosità, cavillosi distinguo o “gargarismi” per citare un noto direttore di giornale, che avrebbero l’unico scopo di proteggere i “colpevoli” dal tocco dritto e virtuoso della giustizia. L’egemonia culturale di questa concezione è stata innegabile, andando ben al di là delle cronache di politica giudiziaria e costituendo una vera e propria narrazione, con magistrati e procuratori eroi contrapposti ad avvocati cinici e in malafede. Ma adesso qualcosa scricchiola in questo immaginario manipolato. Basta scorrere il catalogo della piattaforma Netflix (230 milioni di abbonati nel mondo) per trovare infatti decine di film, serie e soprattutto documentari che raccontano la giustizia penale da tutt’altra angolazione, mostrando l’approssimazione delle inchieste, il bullismo dei procuratori, la fallacia delle testimonianze, la spietata superficialità delle sentenze. Anche se non mancano incursioni in Brasile, Francia, Italia, la gran parte delle opere naturalmente mette a fuoco le distorsioni del sistema giudiziario americano, il più forcaiolo e carcerocentrico tra le grandi democrazie. La più emblematica e allo stesso tempo rigorosa è senza dubbio “Innocence files”, minserie in nove episodi che parla di otto errori giudiziari, tra i quali anche alcune condanne alla pena capitale. Tutto ruota attorno al lavoro degli avvocati di The Innocence Project, una ong che da anni si batte per far ribaltare sentenze che gridano vendetta, frutto di indagini corrotte, di giurie manipolate, di violazioni continue dei diritti degli imputati, del continuo processo mediatico messo in scena dai media. Otto casi in cui degli innocenti hanno subito una ingiusta condanna e che tra mille difficoltà sono riusciti a ottenere giustizia. Molti di loro dopo decenni passati a marcire in prigione. Una goccia nel mare visto che solamente l’1% dei ricorsi legali viene accolto ogni anno e che solamente una minima percentuale di questi ultimi può essere seguita da The Innocence Project: “Siamo una specie di Tribunale di ultima istanza per i pochi che riusciamo ad assistere, sempre troppo pochi”, spiegano gli avvocati che spono riusciti a raccogliere nuove prove e far annullare i verdetti. “Si può passare una vita dietro le sbarre o finire giustiziati con un’iniezione letale per le parole di un dentista?”, si chiede polemicamente l’avvocato Ken Murrow, difensore di un marinaio condannato per omicidio e violenza sessuale per la perizia di in odontotecnico molto rinomato nell’ambiente forense che “senza ombra dubbio” ha riconosciuto il morso dell’imputato sul corpo della vittima. “Appena una giuria vede un camice bianco gli crede senza margine di dubbio, lo chiamo “effetto Csi”, dalla serie tv dedicata alla polizia scientifica. Ma spesso i periti sbagliano, la scienza forense non è una vera scienza e le giurie spesso non hanno strumenti per sgomberare la mente dai pregiudizi”. Le analisi su lesioni da morso, sono spesso ingannevoli e l’odontologia forense è una disciplina poco affidabile come hanno dimostrato i legali della ong: “I morsi non sono impronte digitali, pensare questo è un’assurdità, non dovrebbero neanche far parte delle prove processuali”. Un altro caposaldo nelle sentenze di colpevolezza è la testimonianza oculare che raramente le giurie mettono in discussione. Qualcuno che afferma di aver “visto” personalmente tale persona compiere tale atto è di solito l’asso nella manica della pubblica accusa, un elemento che nella stragrande maggioranza dei casi porta a un verdetto di colpevolezza. Nelle interviste ai giurati che avevano contribuito alle condanne in quanto “assolutamente certi” emerge lo stupore, lo smarrimento di persone che hanno agito in perfetta buonafede Ma tutti i moderni studi di neurologia spiegano che la memoria è una facoltà fallace, che il nostro cervello è continuamente preda dei tranelli e degli scherzi che ci giocano i ricordi e le emozioni. Quasi tutti gli errori giudiziari di cui si occupa Innocence files sono frutto di testimonianze “sicure” che poi si sono rivelate inattendibili e piene di contraddizioni. Su questa fallacia endemica si innesta poi un sistema giudiziario vizioso, in cui gli sceriffi e gli agenti di polizia manipolano impunemente le testimonianze, forzando di fatto il riconoscimento degli accusati. Oppure di persone chiamate a testimoniare mesi e mesi dopo i fatti, il che, spiegano sempre i neurologi, non può che produrre brandelli confusi di memoria travestiti da certezze. Le stesse certezze dela cultura giustizialista che serie coraggiose come Innocence files stanno contribuendo a sgretolare. L’Italia e il mondo, attraverso la lente dei diritti: Boldrini racconta “una storia aperta” di Chiara Ludovisi redattoresociale.it, 3 dicembre 2021 Nel libro, appena pubblicato da GruppoAbele, un dialogo con Eleonora Camilli. Si parla di immigrazione, cittadinanza, ma anche lavoro, salute, hate speech: dall’Italia all’Afghanistan, passando per Polonia e Ungheria, un viaggio intorno al mondo, dalla parte dei diritti sociali e civili. I diritti in Italia sono “una storia aperta”: ed è attraverso la lente di questi diritti che Laura Boldrini ripercorre e rilegge gli anni del suo impegno sociale, civile, politico. “Una storia aperta” (edizioni GruppoAbele, 2021. A cura di Eleonora Camilli. Postfazione di Giorgia Serughetti) è una conversazione sull’Italia e sul mondo, un dialogo che si snoda proprio intorno al tema dei diritti: quelli da difendere, quelli da conquistare, quelli affermati e da proteggere, perché un passo indietro è sempre possibile. Anzi, proprio ora viviamo una “fase storica delicata, di regressione e di crisi della democrazia”, afferma Laura Boldrini, presidente del Comitato permanente sui diritti umani nel mondo della Camera dei deputati, rispondendo alla prima domanda di Eleonora Camilli, giornalista di Redattore Sociale, esperta di immigrazione e diritti umani, civili e sociali: un botta e risposta che diventa dialogo sull’Italia e sul mondo: un libro, edito da GruppoAbele, che in poco più di 130 pagine sintetizza le principali questioni che, negli ultimi decenni, hanno messo alla prova il nostro Paese proprio sul tema dei diritti. Lo sguardo è prima ampio, come richiede anche il “curriculum” internazionale di Laura Boldrini, per decenni impegnata in missioni per le agenzie delle Nazioni Unite: si parla quindi di Europa, a partire dall’Ungheria e dalla Polonia e dalle loro allarmanti carenze nel riconoscimento dei diritti umani. Si parla di mondo, con un’attenzione particolare per l’Afghanistan, per un momento sotto i riflettori, qualche mese fa, ma ora di nuovo dimenticato, vittima di quella “ingloriosa ritirata” della Nato, che “rischia di cancellare anche quel poco di buono che si intravedeva nella missione internazionale. E cioè i traguardi raggiunti nelle città dove le ragazze hanno potuto studiare, le donne hanno avuto più accesso al lavoro e le minoranze hanno tirato il fiato”. L’immigrazione e le vie legali che non ci sono - Si parla, tanto, di immigrazione, nella conversazione tra Boldrini e Camilli. Dal punto di vista umano, innanzitutto, perché “basterebbe mettersi, anche solo per cinque minuti, nei panni di chi si trova a vivere questa condizione per assumere atteggiamenti più dialoganti e comprensivi”. Invece, i migranti sono divenuti “il nemico perfetto”, contro il quale si fa valere un principio, quello del respingimento, chiaramente condannato dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Mancano invece, ancora oggi, quelle “vie legali e sicure” grazie alle quali, spiega Boldrini, “le persone non sarebbero costrette a rischiare la vita in mare”. Idee ce ne sono, come quella contenuta nella proposta di legge “Ero straniero”, che “ha proprio l’obiettivo di cambiare il sistema d’ingresso e di regolarizzare la posizione dei cittadini stranieri”, ma “la destra osteggia l’introduzione di vie legali e preferisce che regnino caos e disfunzioni”. Così, si continuano a contare i morti, tra chi è determinato, in un modo o nell’altro, a lasciare il suo Paese, in cui non si sente sicuro. E dopo la fine di Mare Nostrum, nel 2014, “le missioni Frontex a essa succedute non garantivano lo stesso livello di ricerca e di soccorso in mare”. Le Ong sotto attacco e la cittadinanza - Ci provano quindi le Ong, a compiere salvataggi diretti, attirando le critiche di una parte politiche e una vera e propria “criminalizzazione”, un “duro contraccolpo di reputazione con evidenti conseguenze anche sulle donazioni”. Intanto, in Italia e in Europa, si chiudono i porti e “si moltiplicano chilometri di muri, barriere di filo spinato, recinzioni ai confini e tra Stati membri, per esempio in Polonia, Lituania e Grecia”. Accanto e parallelo al tema delle migrazioni, c’è quello della cittadinanza per chi in Italia è nato (o cresciuto fin da piccolo), ma da genitori stranieri: “La legge che oggi regola l’acquisizione della cittadinanza è del 1992 - ricorda Boldrini - In trent’anni è cambiato il mondo”. Occorre quindi cambiare anche la procedura per l’ottenimento della cittadinanza e andare nella direzione indicata dalla proposta di legge di iniziativa popolare portata avanti dalla campagna “L’Italia sono anch’io”, che Boldrini ha “deciso di ripresentare in questa legislatura”. I diritti civili e il rischio della “retromarcia” - E poi ci sono i diritti civili, rispetto ai quali anche in Italia “non siamo immuni dal rischio di retromarcia”. Boldrini fa riferimento agli “attacchi verso le donne, verso chiunque non risponda ai canoni consolidati e tradizionali, verso chi non p omologabile, verso gay, lesbiche, trans, migranti”. La stessa Boldrini è stata vittima di attacchi e insulti di natura sessista e ha lanciato la campagna di sensibilizzazione #AdessoBasta, “in cui ho invitato chi subiva attacchi, minacce e derisioni a non desistere”, perché “non bisogna soccombere di fronte a violenza e bullismo, ma denunciare, senza farsi intimidire”. L’obiettivo dunque è minare quel linguaggio dell’odio, spesso sottovalutato, a cui Boldrini ha voluto dedicare, nel 2006, un’apposita “Commissione sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio”, che colpiscono soprattutto donne, migranti, lesbiche e gay. Il recente affossamento in Senato della legge Zan è stato, in questo senso, “una pietra sopra a una legge contro i crimini d’odio” e dimostra “quanta resistenza vi sia in Parlamento da parte delle forze politiche conservatrici che non vogliono neanche ammettere l’esistenza del problema”. Lavoro, salute e malattia - Le ultime pagine del libro sono dedicate, inevitabilmente, all’impatto della pandemia e alle emergenze sociali che questa ha prodotto. “La questione prioritaria è quella del lavoro”, afferma Boldrini, riferendosi tanto a “oltre un milione di posti di lavoro perduti”, quanto al permanere di “forme di sfruttamento lavorativo” e alla “scarsa occupazione femminile”, quanto all’aumento degli incidenti sul lavoro. Altro tema cruciale, nell’epoca della pandemia, è quello sanitario: “Abbiamo capito l’importanza di avere un sistema sanitario pubblico in grado di rispondere alle emergenze e basato sulla medicina di prossimità in tutto il territorio nazionale”. Ma “avremo imparato la lezione?”. In questo ambito, c’è forte e urgente la questione dei vaccini, per la quale Boldrini sollecita “la liberalizzazione dei brevetti”, perché “solo quando il vaccino sarà disponibile per tutti e tutte, potremo dire di essere al sicuro”. Chiude il libro un tema che è sociale, ma anche personale: la malattia, di cui recentemente Laura Boldrini ha fatto esperienza diretta. “Molte persone vivono la malattia come uno stigma. Io credo che faccia parte della condizione umana e, dunque, è giusto non nasconderla, quindi ho pensato che farlo sapere potesse essere utile. Io non mi vergogno di stare male e nessuno dovrebbe farlo”. Le ultime parole sono un auspicio e una speranza: “Possiamo immaginare un futuro diverso, più inclusivo e sostenibile, se i giovani si faranno carico dei diritti e della loro salvaguardia. Non c’è alcun dubbio che per evitare un ulteriore indebolimento ella nostra democrazia, dobbiamo invertire la marcia. Prima ci riusciremo, meglio sarà per tutti e tutte”. La “controfinanziaria” che punta a potenziare i servizi sociali redattoresociale.it, 3 dicembre 2021 Sbilanciamoci chiede 20 mila assunzioni tra assistenti sociali e domiciliari, educatori e psicologi in 5 anni, oltre a un intervento deciso per rafforzare l’assistenza semi-residenziale leggera e domiciliare rivolta agli anziani. Immigrazione: chiesta la chiusura di Cas e Cpr a favore di un sistema di accoglienza unico e pubblico. Inoltre, “diminuire in modo netto le spese militari, con un risparmio di 5 miliardi di euro”. Per Sbilanciamoci la vera emergenza è quella ambientale. La “controfinanziaria” presentata oggi a Roma, tra le varie cose, intende affermare una visione e un piano d’azione che puntino in maniera decisa sulla transizione ecologica e la decarbonizzazione dell’economia, la lotta ai cambiamenti climatici e il contrasto del rischio idrogeologico, la tutela della biodiversità e del nostro patrimonio naturale. “In particolare si afferma -, proponiamo di avviare un programma capillare di piccole e medie opere pubbliche volto a migliorare la qualità della vita, promuovendo occupazione e cura del territorio: a tal fine, chiediamo di destinare oltre 1,7 miliardi per la promozione e installazione di impianti fotovoltaici con accumulo, la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio residenziale pubblico, per rafforzare il sistema di ricerca e innovazione nel campo della transizione ecologica e anche il potenziamento dei controlli ambientali e sanitari”. Inoltre, tali risorse dovrebbero andare a interventi di rigenerazione e riqualificazione urbana e di mitigazione dei cambiamenti climatici. “È urgente promuovere misure di fiscalità ambientale - afferma Sbilanciamoci -: a tal proposito, chiediamo la progressiva cancellazione dei Sussidi Ambientalmente Dannosi, che ammontano a quasi 20 miliardi l’anno (con un’entrata per le casse pubbliche di 4 miliardi nel 2022) e la loro trasformazione, entro il 2025, in Sussidi Ambientalmente Favorevoli”. “Occorre inoltre sostenere i Comuni per la messa in sicurezza dei territori rispetto al dissesto idrogeologico e promuovere una seria lotta all’abusivismo edilizio. In campo energetico, proponiamo uno stanziamento di 200 milioni a favore degli impianti fotovoltaici e la riqualificazione energetica del patrimonio residenziale pubblico, dell’introduzione della rendicontazione dei cambiamenti climatici nelle politiche di investimento, della cancellazione di royalties e canoni per le trivellazioni offshore”. Welfare e solidarietà alla base del sistema sociale - Afferma Sbilanciamoci nella sua “controfinanziaria”: “Per migliorare il sistema dei servizi sociali chiediamo un piano di 20 mila assunzioni tra assistenti sociali e domiciliari, educatori e psicologi in 5 anni, oltre a un intervento deciso per rafforzare l’assistenza semi-residenziale leggera e domiciliare rivolta agli anziani (540 milioni per coprire un bacino di utenza di 15 mila anziani)”. In materia di politiche per la disabilità, “chiediamo di stanziare oltre 125 milioni per incrementare le dotazioni del Fondo nazionale per la non autosufficienza, per la creazione di un Fondo per la vita indipendente”. In tema di sanità, “proponiamo di integrare con oltre 690 milioni le risorse per il rafforzamento del Servizio sanitario nazionale. Chiediamo poi che oltre 300 milioni vadano all’implementazione dei servizi di assistenza domiciliare”. Sul fronte delle migrazioni e dell’asilo, i promotori della “controfinanziaria” chiedono la chiusura delle “navi quarantena” e la chiusura dei CPR. “Chiediamo inoltre la chiusura dei Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas) entro la fine del 2022 e il contestuale impegno di risorse per un sistema di accoglienza unico, pubblico, diffuso sul territorio e gestito dai Comuni. E proponiamo infine di dotare il paese di una nuova legge sulla cittadinanza e di un nuovo Piano nazionale contro il razzismo”. “Sul fronte delle politiche abitative, sono riprese le esecuzioni forzate degli sfratti senza che i comuni abbiano risorse e strumenti per intervenire”, si afferma. Si propone un intervento immediato che consenta ai comuni di poter prendere in locazione e/o acquistare gli alloggi liberi degli Enti Previdenziali Pubblici e di altri enti pubblici o privatizzati. “Chiediamo misure urgenti al fine di garantire il passaggio da casa a casa, l’incremento del Fondo per la morosità incolpevole e del Fondo sociale per gli affitti (370 milioni). Il costo di tali misure può essere coperto introducendo una tassazione sugli immobili sfitti (400 milioni), misure di contrasto al canone nero (300 milioni), l’eliminazione della cedolare secca sul libero mercato (1 miliardo)”. Capitolo carceri: “Proponiamo di incrementare le misure alternative alla detenzione e realizzare interventi di edilizia sociale che facilitino il ricorso a tali misure da parte dei più svantaggiati, insieme a un aumento dell’organico degli operatori civili nei penitenziari. Il costo complessivo di queste proposte, 700 milioni, potrebbe essere interamente finanziato dalla legalizzazione della cannabis e la depenalizzazione delle condotte meno gravi relative alle altre droghe, con effetti positivi anche sul sovraffollamento delle carceri”. Una moratoria sulle spese militari - Anche per il bilancio previsionale dello Stato per il 2022 continua la robusta crescita del budget per il ministero della Difesa e della spesa militare complessiva. “Le voci interne del Bilancio della Difesa vedono aumenti tra i 150 e i 200 milioni di euro per Marina Militare e Carabinieri, una flessione di 90 milioni per l’Aeronautica Militare e una sostanziale conferma del budget per l’Esercito”, sottolinea Sbilanciamoci. Che propone di diminuire in modo netto le spese militari, con un risparmio di 5 miliardi sulla base di 4 misure: la riduzione del personale della difesa (750 milioni); il taglio degli stanziamenti diretti e dei finanziamenti pluriennali per l’acquisizione di nuovi sistemi d’arma (2 miliardi); il taglio dei programmi militari finanziati dal MISE (1 miliardo e 700 milioni); il ritiro delle nostre truppe dalle missioni militari all’estero con chiara proiezione armata in conflitti (500 milioni). “Una parte delle risorse così risparmiate potrebbe finanziare vere politiche di pace e cooperazione internazionale - si afferma -, con un potenziamento degli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (640 milioni); con l’implementazione di una più larga sperimentazione dei Corpi Civili di Pace (50 milioni); con la riconversione a fini civili dell’industria a produzione militare (100 milioni) e di 20 servitù militari (100 milioni)”. Per quanto riguarda infine il Servizio Civile, “chiediamo stanziamenti aggiuntivi pari a 100 milioni, e l’abrogazione dell’articolo 42 della legge di bilancio, che comporterebbe una entrata di 5 milioni”. Promuovere l’economia locale, sociale e solidale - “Chiediamo che 50 milioni vadano ad istituire un Fondo per le Municipalità eco-equo-solidali”. Lo chiede Sbilanciamoci!, che guarda con interesse alle esperienze di città europee come Madrid, Barcellona, Amsterdam e Siviglia, che hanno elaborato piani di Sviluppo ed innovazione sociale locale mettendo al centro l’economia sociale e solidale come strategia per la costruzione di “eco-sistemi” urbani solidali e sostenibili allo stesso tempo. “Auspichiamo poi uno stanziamento di 30 milioni per la riconversione cooperativa eco-equo-solidale di aziende in crisi, per cooperative di lavoratori interessate a forme di mutualismo e di tutela dei beni comuni, oltre che di riconversione eco-equo-solidale nel ciclo produttivo, studio di nuovi prodotti, catena di forniture, approvvigionamento energetico, riqualificazione di luoghi in disuso a fini produttivi. A questo si deve aggiungere la promozione dell’agricoltura sostenuta dalle comunità (10 milioni): un modello di organizzazione territoriale “alla pari” tra aziende agricole e consumatori attraverso il quale si decide insieme che cosa finanziare e produrre per l’annata in corso e quelle avvenire, sostenendo insieme gli investimenti e le rotazioni in una prospettiva agroecologica e di sovranità alimentare”. Dieci milioni dovrebbero andare a sostegno di una rete nazionale di Atenei cooperativi eco-equi. “L’Ateneo Cooperativo è un’iniziativa, concepita come spazio di incontro, coordinamento, apprendimento e discussione, cooperazione e trasformazione sociale con principi comuni: giustizia sociale, democrazia diretta, deliberativa e partecipativa, decrescita e sostenibilità, equità e solidarietà - conclude Sbilanciamoci -. Chiediamo infine di finanziare il Fondo per il commercio equo e solidale (1 milione) e di adottare un Piano strategico nazionale per la piccola distribuzione organizzata (10 milioni), che valorizzi le filiere corte nell’approvvigionamento collettivo grazie all’implementazione di almeno 100 progetti pilota”. Suicidio assistito, testo di mediazione ma la destra dice no di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 dicembre 2021 Nelle commissioni Affari sociali e Giustizia approvato il cuore del pdl, sbilanciato sulle posizioni di Lega e Fd’I. Che votano contro. Il progetto di legge che introduce anche in Italia la possibilità per un malato terminale di ricorrere al suicidio assistito, sotto il controllo del Ssn, è quai pronto. I primi quattro degli otto articoli del testo sono stati già approvati nelle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera, riunite congiuntamente, dove l’iter sarà completato giovedì prossimo. Il pdl emendato - frutto di una mediazione sbilanciata sui desiderata del centrodestra, la quale però non è ancora soddisfatta - approderà in Aula per la discussione generale il 13 dicembre, come ha stabilito ieri la conferenza dei capigruppo. Il cuore della legge è già scritto, anche se tra i punti rilevanti manca ancora la norma sull’obiezione di coscienza, contenuta nell’articolo 5 bis che verrà analizzato il 9 dicembre. Fin qui il testo approvato è più arretrato di quanto richiesto dalla Corte costituzionale con le pronunce e le raccomandazioni inviate al legislatore fin dal 2019. Eppure Forza Italia, Lega, Coraggio Italia e Fd’I hanno espresso il loro no ad ogni votazione, con il risultato di una legge che, se non verrà corretta in Aula, rischia di essere modificata prima o poi di nuovo dalla Consulta. Per esempio, mentre i giudici costituzionalisti scrivevano nella sentenza del 22 novembre 2019 che nulla osta l’aiuto al suicidio della persona che tra i requisiti abbia l’essere “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” e sia “affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili”, nell’articolo 1 del pdl messo a punto con la mediazione dei relatori Alfredo Bazoli, Pd, e Nicola Provenza del M5S, il quadro clinico dell’aspirante suicida si restringe ad “una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile”. Nell’articolo 3 si riprende il concetto e si pongono ulteriori paletti: la patologia deve essere attestata da ben due medici - il curante e lo specialista - e deve cagionare “sofferenze fisiche e psicologiche” considerate “assolutamente intollerabili”. Inoltre, non basta informare il paziente riguardo la disponibilità delle cure palliative: la persona deve invece “essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente”, e deve anche essere stata “coinvolta in un percorso di cure palliative” ed averle “esplicitamente rifiutate”. Nell’articolo 2 invece si precisa che per “morte volontaria medicalmente assistita” si intende “il decesso cagionato da un atto autonomo”, risultato di una “volontà attuale, libera e consapevole” di un soggetto maggiorenne “pienamente capace di intendere e di volere”. Dunque non si tratta di eutanasia, che invece è oggetto del quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni e sottoscritto da circa 1,3 milioni di persone. Mentre l’articolo 4 puntualizza che “la richiesta può essere revocata in qualsiasi momento senza requisiti di forma e con ogni mezzo idoneo a palesarne la volontà” ma deve essere “manifestata per iscritto e nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata”, o con una registrazione che attesti “inequivocabilmente” la volontà del paziente manifestata “alla presenza di due testimoni”. Il relatore Bazoli si dice “soddisfatto del lavoro, anche per il segnale di vitalità del parlamento”, e spera che in Aula il centrodestra si attenga alle questioni di merito, senza usare l’occasione per equilibri politici. È possibile che FI - ma non Lega né Fd’I - lasci libertà di coscienza nel voto, suggerisce Bazoli. Ma il problema di accettare o meno una così stretta convergenza verso le posizioni del centrodestra si potrebbe aprire anche nel Pd, lacerato al proprio interno su ogni questione che riguardi i diritti civili ed individuali. Un brutto segnale viene anche dal ministro alla Salute, Speranza, che ha risposto ad una interrogazione di Riccardo Magi (+Europa) riguardante l’ostacolo posto dalla Regione Marche all’iter di suicidio assistito richiesto da “Mario”, il 43enne tetraplegico che ha ottenuto - primo in Italia - il via libera dal comitato etico regionale. “Posso assicurare che il ministero continuerà il suo lavoro di vigilanza e monitoraggio affinché la sentenza della Consulta possa trovare piena applicazione”, ha detto Speranza invitando le Regioni ad individuare entro 60 giorni i comitati etici competenti, ma evitando di rispondere nel merito, come gli ha fatto notare lo stesso Magi. “Di fronte alla violazione di diritti costituzionali legati alla salute, il governo non ha solo il compito di “vigilare” e “monitorare” - è la risposta di Marco Cappato (Ass. Coscioni) - Ha il dovere di intervenire”. Approvato il divieto di finanziare le aziende che producono mine antiuomo e bombe a grappolo di Lisa Di Giuseppe Il Domani, 3 dicembre 2021 Dopo dodici anni, l’iter della legge che vieta il finanziamento delle imprese produttrici di mine antiuomo e bombe a grappolo si è concluso alla Camera. Il percorso tortuoso del testo, che nel frattempo aveva ottenuto il primo sì al Senato, rischiava di arenarsi di nuovo a causa di un appunto del governo che sollevava dubbi sul finanziamento dei nuovi oneri economici che ricadono sugli organismi che gestiranno i controlli degli intermediari finanziari. Lo stallo era poi stato risolto da un parere della Commissione bilancio che fa riferimento al fatto che gli organismi di controllo si collocano al di fuori del perimetro della finanza pubblica. La Camera ha approvato la legge che vieta il finanziamento di aziende che producono mine antiuomo o bombe a grappolo. La proposta è stata votata all’unanimità con 383 voti a favore. Si tratta di un voto atteso da dodici anni: la legge era già arrivata al traguardo nel 2017, salvo essere poi rinviata alle camere dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per un vizio di incostituzionalità. Da allora, l’iter era ripartito dal Senato a inizio legislatura nel 2018. I problemi in Commissione - Nell’ultimo mese la legge era a lungo rimasta bloccata in Commissione finanze per un’obiezione del governo. Il problema riguardava i controllori degli intermediari che potrebbero dare denaro alle aziende produttrici. Nella lista di chi sarà oggetto della vigilanza proposta nel testo ci sono le società di intermediazione mobiliare (le Sim), le banche italiane, le società di gestione del risparmio (Sgr), le società di investimento a capitale variabile (Sicav), gli intermediari finanziari iscritti nell’albo di cui all’articolo 106 testo unico finanziario, inclusi i confidi, le banche dei paesi membri dell’Ue, le imprese di investimento dei paesi membri dell’Ue, le banche extracomunitarie, gli agenti di cambio, nonché le fondazioni bancarie e i fondi pensione. A tenere d’occhio i flussi sospetti di questi intermediari saranno l’Unità di informazione finanziaria di Banca d’Italia, l’Istituto per la vigilanza sulle Assicurazioni (Ivass) e Commissione di Vigilanza sui fondi Pensione (Covip). Durante la discussione in Commissione, il governo aveva chiesto di evitare l’assegnazione di questo compito agli enti individuati dal testo: i maggiori costi che questo compito avrebbe implicato non sarebbero, secondo le obiezioni del ministero dell’Economia, coperti dalla norma. Modificando gli enti preposti al controllo, si sarebbe però dovuta riscrivere tutto il testo. Un cambiamento della legge avrebbe annullato il lavoro del Senato e richiesto un ulteriore voto a palazzo Madama. Alla fine però la Camera è riuscita a conservare il testo così com’è grazie a un parere della Commissione bilancio che ha disinnescato le osservazioni del governo: il testo spiega come i costi ricadranno sulle spalle di organismi di vigilanza fuori dal perimetro della finanza pubblica, quindi non soggetti al controllo del ministero. Il parere della Commissione è stato cruciale per sbloccare la questione, permettendo di mandare il testo in aula. A questo punto, dopo la firma di Mattarella, se i controllori individuati dalla norma dovessero riscontrare finanziamenti sospetti, sono previste per i trasgressori severe sanzioni, tra cui anche “la perdita temporanea dei requisiti di onorabilità per i rappresentanti legali degli intermediari finanziari, nonché per i revisori e i promotori finanziari”. La storia travagliata - Il voto è l’esito di una vicenda complessa. Il relatore Massimo Ungaro di Italia viva nel suo intervento in aula ha ripercorso l’iter della legge: “Depositata nel 2010; approvata dal Senato nel 2016 e dalla Camera nel 2017; poi rinviata alle Camere dal presidente della Repubblica; approvata nuovamente dal Senato nel 2019, secondo i rilievi del presidente della Repubblica, e giunta alla Camera nell’autunno 2020, un anno fa”. La pandemia ha imposto un ulteriore rallentamento dei lavori e alla fine l’analisi del testo è ripresa solo poche settimane fa. La legge arriva a dieci anni dall’adesione dell’Italia alla convenzione di Oslo, che vieta la produzione di bombe a grappolo. Roma aveva già firmato nel 1997 alla Convenzione di Ottawa, passando dall’essere uno dei maggiori produttori al mondo di mine antiuomo al divieto totale. Era rimasto però, anche nella legge di ratifica dell’adesione, un vuoto per quanto riguarda il finanziamento di chi produce e vende questi due tipi di armi, oggi colmato. La Commissione europea è complice degli abusi alla frontiera polacca di Francesca De Benedetti Il Domani, 3 dicembre 2021 La Commissione Ue avalla e sostiene le politiche respingenti e disumane della Polonia alla frontiera d’Europa. La Polonia ha già legalizzato i respingimenti illegali, ora Bruxelles si attiva a sua volta per dare un quadro di legalità a quanto fatto da Varsavia. Lo fa usando quei dispositivi di emergenza che invece ha lasciato volutamente inutilizzati in estate, quando l’emergenza era dare accoglienza ai rifugiati afghani. Solerte nel facilitare alla Polonia i respingimenti e complicare il diritto di asilo a chi lo chiede, Bruxelles è invece inerte di fronte alle limitazioni messe in pratica da Varsavia alla frontiera nei confronti di ong, media, deputati e persino degli eletti Ue. La Commissione europea avalla e sostiene le politiche respingenti e disumane della Polonia alla frontiera d’Europa. Lo fa usando gli stessi dispositivi di emergenza che invece ha lasciato volutamente inutilizzati questa estate, quando l’emergenza era dare accoglienza ai rifugiati afghani. Solerte nel facilitare alla Polonia i respingimenti e complicare il diritto di asilo a chi lo chiede, Bruxelles è invece inerte di fronte alle limitazioni messe in pratica da Varsavia alla frontiera nei confronti delle ong, dei media, dei deputati e persino degli stessi europarlamentari, ai quali pure la Polonia ha impedito di vedere cosa accade alla frontiera Ue. La Polonia ha già legalizzato i respingimenti illegali. Ora la Commissione si attiva per dare un quadro di legalità a quanto fatto da Varsavia. A metà ottobre, la coalizione di governo polacca si è compattata in parlamento per l’espulsione di chi prova a entrare nel paese - e quindi nell’Ue - anche se è richiedente asilo. Significa ignorare che chi prova a entrare abbia una domanda di protezione internazionale, a dispetto della convenzione di Ginevra sui rifugiati. Mercoledì la commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson, pur sollecitata sul tema dai giornalisti, non ha espresso parole di condanna per questa “legge polacca sull’espulsione”. Al contempo ha presentato una proposta che accompagna e asseconda proprio la linea di Varsavia. Alla Polonia, come a Lituania e Lettonia che confinano con la Bielorussia “responsabile di un attacco ibrido all’Ue”, Bruxelles vuol consentire per almeno sei mesi di rinviare la registrazione delle domande di asilo: invece dei 3-10 giorni regolari, ci sarà un intero mese di tempo. La procedura di asilo alla frontiera può essere applicata entro quattro mesi. Mentre i tempi vengono dilatati, i luoghi vengono ristretti: agli stati in questione è consentito circoscrivere la possibilità di registrare la richiesta di asilo a specifici punti. Oltre a complicare le cose ai richiedenti asilo, Bruxelles facilita i rimpatri: “Procedure semplificate e più rapide”. Le espulsioni concordate - La proposta di Bruxelles si avvicina molto alla legalizzazione dei respingimenti, nota il giornalista polacco Witold G?owacki, che conclude: “Questa è l’ennesima conferma che la Commissione Ue sta autorizzando informalmente almeno una parte della dura politica applicata dal governo Pis al confine”. A ciò si accompagna l’iperattivismo di Bruxelles per evitare che chi vuol chiedere asilo riesca anche solo ad arrivare alla frontiera europea; e se ci arriva, che se ne vada. È scritto nella proposta stessa: “La Commissione, l’Alto rappresentante, gli stati membri hanno intrapreso un intenso sforzo diplomatico coi paesi di origine e transito per prevenire ulteriori arrivi attraverso la Bielorussia”. A metà novembre, Ursula von der Leyen ha “incaricato il vicepresidente Schinas di impegnarsi immediatamente con i paesi chiave. È stato in Iraq, Emirati Arabi Uniti, Libano, Turchia e Uzbekistan”. In quella stessa fase, l’Iraq ha cominciato i voli di rimpatrio. Una scelta di campo - A chiarire ancor più la volontà politica che sta dietro la proposta di Bruxelles, c’è il raffronto con altri casi. La premessa è che, stando ai dati dello stesso gabinetto Ue, “nel 2021 ci sono state 6.730 richieste di asilo in Polonia”. Come ha notato Piotr Buras, che dirige l’ufficio di Varsavia dell’Ecfr, questi numeri sono gestibili; negli anni Novanta i polacchi hanno assorbito senza problemi l’arrivo molto più massiccio dei rifugiati ceceni. A ogni modo la Commissione ha ritenuto che bisognasse far ricorso a un dispositivo di emergenza. “Qualora uno o più stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio degli stati interessati”: questo è il Trattato di Lisbona, articolo 78, paragrafo 3. Proprio questo stralcio è anche la base giuridica utilizzata da Bruxelles per avanzare la sua proposta mercoledì. Quando questa estate è cominciato l’esodo dall’Afghanistan, la Commissione è stata sollecitata da eurodeputati e difensori dei diritti perché invocasse quello stesso paragrafo d’emergenza per garantire a livello europeo un’accoglienza immediata. Non lo ha fatto. Nel 2011, quando il governo italiano si è rivolto alla Commissione per una redistribuzione a livello europeo di circa 10mila tunisini, l’allora commissaria Cecilia Malmström ha risposto che “non vedo un afflusso massiccio” e nessuna leva di emergenza è stata attivata, per l’accoglienza in Ue. La zona d’ombra - La linea della Commissione, che introietta gli argomenti della destra sovranista, è in sintonia coi governi riuniti nel Consiglio europeo, al quale ora spetta deliberare sulla proposta; l’Europarlamento può solo dare un parere, e protestare come stanno infatti già facendo socialdemocratici, sinistra e verdi. L’approccio securitario di Bruxelles è esasperato dal fatto che “da una dozzina di anni il tema migratorio è in mano a chi ha la delega agli Interni, e affronta la cosa solo in questa chiave”, dice Emilio De Capitani, ex segretario della commissione Libertà civili (Libe) dell’Europarlamento e ora visiting professor alla Queen Mary University di Londra. Il tema migratorio è in mano ai ministri dell’Interno Ue e alla Commissaria Ylva Johansson, la stessa che manifesta condivisione per la politica dei muri praticata dalla Polonia. A tirare le fila nella Commissione poi è il vicepresidente Margaritis Schinas, che viene dalla destra di Nea Dimokratia. “Proprio lui di recente ha gongolato perché finalmente l’Ue aveva una “agenzia per le espulsioni”, così l’ha chiamata”, ricorda Capitani. L’europarlamentare del Pd Pierfrancesco Majorino è appena tornato dal confine polacco; anche lui, come i deputati polacchi, i media, le ong, non ha potuto entrare nella “zona rossa” stabilita dal governo a ridosso della frontiera. La Commissione almeno su questo reagisce? “Macché. E intanto chi porta acqua o coperte nella zona rossa rischia la galera”, dice Majorino. Il paradosso è che mentre i respingimenti diventano norma, “l’attività umanitaria viene criminalizzata”. E la Commissione? “Se ne frega”. Confine polacco, “Quando si scioglierà la neve troveremo molti cadaveri” di Alessandra Fabbretti La Repubblica, 3 dicembre 2021 La denuncia dei volontari di un’organizzazione umanitaria. In viaggio lungo la frontiera dell’Unione Europea con le testimonianze “Grupa Granica” il movimento che si oppone alle risposte del governo polacco al confine bielorusso. “Nonostante la neve e il gelo, ci sono ancora profughi nei boschi. Si nascondono per sfuggire alla polizia e trovare un passaggio per superare il confine, evitando i respingimenti. Quando l’inverno sarà finito e le limitazioni all’accesso rimosse, siamo certi che scopriremo tanti cadaveri: nessuno può sopravvivere a un freddo simile”. Marysia Zlonkiewicz è una volontaria di Grupa Granica, un’alleanza di 14 Associazioni che si occupano di migranti in Polonia. Fa avanti e indietro tra Varsavia e le zone di confine da agosto. L’Agenzia Dire la intervista al confine con la Bielorussia, nei pressi di Bialowieza, dove una delegazione di quattro eurodeputate e di alcuni giornalisti ha cercato di entrare nella zona per documentare la situazione umanitaria ma anche denunciare il diniego all’accesso imposto dal governo del primo ministro Mateusz Morawiecki. Nei villaggi i profughi bussano alle porte delle case. Sull’attuale numero di rifugiati e richiedenti asilo, Zlonkiewicz dice: “Non abbiamo dati certi, possiamo solo fare stime. Pensiamo siano alcune migliaia. Stiamo notando un calo negli arrivi, il freddo e l’aumento di esercito e polizia lungo la frontiera scoraggiano, ma gli arrivi restano comunque tanti”. Secondo la volontaria, in un giorno nella regione vengono eseguiti in media dieci interventi di soccorso. Si tratta di profughi che chiedono cibo, cure, abiti asciutti perché “sono anche costretti a guadare i fiumi”, sottolinea Zlonkiewicz, che con Grupa Granica agisce assieme ai residenti. “Gli abitanti dei villaggi di frontiera si sono trovati a ricevere profughi sulla porta di casa. Le leggi polacche vietano di aiutare - anche se si è perseguiti solo se si dà cibo o altro in cambio di denaro - e così all’inizio la gente era restia. Ma poi in tanti hanno deciso di non accettare compromessi e di restare fedeli ai propri valori. L’unico problema sono i bambini, che a scuola potrebbero raccontare che mamma e papà aiutano i migranti”. La volontaria aggiunge: “C’è chi ha lasciato il lavoro per aiutare a tempo pieno”. Il problema del tracciamento delle famiglie. Perché le grandi organizzazioni umanitarie non sono qui? “Bisogna chiederlo a loro” risponde Zlonkiewicz. “Noi per esempio abbiamo chiesto a Croce Rossa di intervenire, soprattutto per la questione del tracciamento delle famiglie”. Molte persone infatti sono date per disperse dai familiari. Questo apre il tema dei centri di detenzione: “Sono stati arrestati centinaia di profughi, anche donne o bambini, che spesso non riescono ad avvertire amici e parenti” dice l’attivista di Grupa Granica. “Il problema è che le autorità non erano pronte a così tanti migranti e anche ai detenuti e così sono stati cambiati in fretta pure i regolamenti carcerari. Se prima ad esempio erano riconosciuti quattro metri quadri a detenuto per cella, ora sono solo due. Si arriva a 25 persone per cella, con le latrine poste in un angolo, senza porta né pareti. I migranti poi sono costretti ad aspettare i pasti in fila all’aperto, non hanno accesso a internet e a colloqui con gli avvocati così non sanno quali reati vengono loro contestati e quali alternative hanno”. La rabbia per non poter chiedere asilo. Secondo Zlonkiewicz, si tratta di “continue violazioni della legge”, non ultimo perché “la detenzione non dovrebbe durare più di 90 giorni ma è già successo che venisse riconfermata”. Nei giorni scorsi, in un centro a Wedrzyn, che ospita 600 migranti, nell’Ovest della Polonia, c’è stata una protesta per denunciare le condizioni di vita all’interno della struttura. Alcuni migranti hanno rotto vetri e arredi per chiedere di poter fate domanda d’asilo in Germania oppure di essere rimandati nei loro Paesi di origine. Zlonkiewicz però avverte: “Molti fuggono da Paesi in guerra o in conflitto come Iraq o Siria e sanno che se torneranno, potrebbero essere rinchiusi di nuovo o, peggio, uccisi”. Richiedenti asilo detenuti illegalmente in Grecia in un nuovo campo finanziato dall’Ue amnesty.it, 3 dicembre 2021 A seguito di una decisione assunta dal ministro per l’Immigrazione e per l’asilo della Grecia, dal 17 novembre le persone prive del documento che consente di chiedere asilo sono illegalmente detenute in un nuovo campo costruito sull’isola di Samo e finanziato dall’Unione europea. Lo ha denunciato oggi Amnesty International, segnalando che secondo stime non ufficiali il provvedimento riguarda 100 dei circa 450 ospiti del campo: persone la cui domanda d’asilo è stata respinta o che, appena arrivate, non sono ancora in possesso del documento. “Questo campo somiglia più a una prigione che a un luogo per persone in cerca di salvezza. Siamo di fronte a un pessimo uso dei fondi dell’Unione europea e a una grave violazione dei diritti delle persone interessate”, ha dichiarato Adriana Tidona, ricercatrice di Amnesty International sull’immigrazione. Il Kedn (“centro chiuso e controllato”) finanziato dall’Unione europea è stato costruito in un sito isolato e distante sei chilometri dalla città principale di Samo, Vathi. Può ospitare fino a 3000 persone ed è dotato di rigidi sistemi di confinamento e sorveglianza: pattugliamento delle forze di polizia e di guardie private 24 ore su 24 sette giorni su sette, doppio filo spinato e telecamere a circuito chiuso. I movimenti da e per il campo sono consentiti solo dalle 8 alle 20 e sono soggetti a controlli di sicurezza attraverso varchi magnetici. Le singole persone e le famiglie colpite dal provvedimento del 17 novembre non possono raggiungere Vathi, svolgere piccoli lavori quotidiani o partecipare alle attività educative e comunitarie dell’Alpha land, un centro gestito da una Ong nei pressi del campo. Una delegazione di Amnesty International ha visitato il Kedn di Samo il 22 novembre, quinto giorno dall’entrata in vigore delle restrizioni, incontrando alcune delle persone colpite dal provvedimento. A., un afgano originario di Kabul, residente nel campo con la moglie e i figli, si trova in Grecia dal gennaio 2020. La sua domanda d’asilo è stata respinta più volte e il suo documento gli è stato ritirato. Prima di essere trasferito al Kedn, da cui ora non può più uscire, si trovava con la famiglia nella “giungla”, un campo informale sorto nei pressi di quello originario di Samo, noto per le pessime condizioni di vita. Dal container dove vive attualmente coi suoi familiari, ha raccontato ad Amnesty International che nel nuovo campo c’è più sicurezza ma “ci trattano come prigionieri. C’è da diventare pazzi qui. Non puoi muoverti. Non riesco più a dormire. In questo modo non abbiamo più un obiettivo e monta l’ansia”. Nei cinque giorni precedenti, solo i figli erano stati autorizzati a uscire dal campo per andare a scuola. H., un altro afgano arrivato in Grecia nel febbraio 2020 e la cui domanda d’asilo è stata respinta due volte, non usciva dal campo da cinque giorni: “Prima del 17 novembre studiavo inglese e facevo volontariato fuori dal campo. Ora mi sento prigioniero. Era meglio nel vecchio campo”. Amnesty International ha più volte espresso preoccupazione alle autorità greche per la decisione di sostituire i campi aperti con i Kedn, sottolineando che tale prassi non si concilia con gli standard sui diritti umani in materia di privazione della libertà. Secondo il diritto internazionale e la normativa europea, la detenzione dei richiedenti asilo dev’essere considerata come estrema risorsa, deve essere preceduta da un dettagliato esame delle situazioni individuali, deve durare il minor tempo possibile e deve essere basata su una procedura che ne permetta la contestazione. Al contrario, le persone all’interno del Kedn di Samo sono private della libertà in modo automatico e in modo massivo, per motivi illegittimi e privi di trasparenza, per periodi indefiniti di tempo senza poter fare ricorso. “Come temevano, le autorità greche si stanno trincerando dietro il concetto, giuridicamente ambiguo, di centri chiusi e controllati per privare illegalmente richiedenti asilo della loro libertà. Chiediamo al governo di Atene di annullare la sua decisione e di rimuovere le limitazioni ai danni dei residenti del campo di Samo. Chiediamo inoltre alla Commissione europea di assicurare rispetto per i diritti fondamentali nelle strutture finanziare dai fondi europei”, ha concluso Tidona. Ulteriori informazioni - Il Kedn di Samo è stato costruito grazie a 276 milioni di euro stanziati dalla Commissione europea per la costruzione di nuove strutture per richiedenti asilo nelle isole greche, al posto delle strutture aperte precedenti. Il 27 novembre le autorità greche hanno inaugurato i nuovi Kedn di Lero e Coo. Altri Kedn saranno aperti sulle isole di Lesbo e Chio. Oltre alle restrizioni di movimento nel campo di Samo, i richiedenti asilo che si trovano in Grecia non ricevono assistenza economica da due mesi da quando la gestione del programma di assistenza finanziato dall’Unione europea è passata dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati alle autorità greche. Secondo le Ong locali, questa situazione riguarda circa 34.000 richiedenti asilo. Sempre secondo le Ong locali, dall’ottobre 2021 le autorità greche hanno sospeso la fornitura di acqua e cibo alle persone riconosciute rifugiate e ai richiedenti asilo la cui domanda è stata respinta. Svizzera. Se la classe è in carcere, benvenuti a InOltre di Guido Grilli La Regione, 3 dicembre 2021 Gli esami non finiscono mai. Nemmeno dietro le sbarre. La formazione non conosce limiti e, nell’interminabile scorrere del tempo, rappresenta un’opportunità per le persone in detenzione: imparare l’italiano, apprendere le basi fondamentali per un mestiere. C’è anche chi insegue mete grandiose: è il caso di quattro detenuti che frequentano un vero e proprio apprendistato - la struttura carceraria come datore di lavoro - e ambiscono a conseguire l’agognato attestato federale di capacità. Benvenuti alla scuola InOltre. Fondata da Mauro Broggini, ideatore della formazione in penitenziario, da tre anni è guidata da Cecilia Beti, direttrice del Centro professionale tecnico di Lugano-Trevano, scuola post-obbligatoria professionale del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport. La scuola InOltre è coordinata da Lorenzo Cairoli, il quale possiede una duplice esperienza di docente di cultura generale, nelle sedi cosiddette normali, e che per due anni ha insegnato in carcere, perlopiù a donne e minorenni che si portano addosso esperienze fuorilegge e si trovano a espiare condanne, confrontati alla prigionia e alla sofferenza. Quali sono le differenze tra questi due universi? “Le differenze sono tante”, assicura Lorenzo Cairoli. “Non risiedono nella materia insegnata, ma nel luogo di lavoro: se nella scuola cosiddetta normale sono abituato a fare un miliardo di cose e in totale libertà, in un carcere invece gli spostamenti sono limitati, regolamentati. Già le procedure d’ingresso sono diverse. Entrando in carcere, c’è il metal detector: devo lasciare tutto quanto non è strettamente indispensabile all’insegnamento, sostanzialmente posso portare solo i documenti cartacei, previo controllo da parte del personale. Telefonino cellulare, chiavetta usb e tutto quanto di elettronico non possono entrare nella struttura per ovvi motivi. L’ingresso sul posto di lavoro è diverso anche dal profilo delle sensazioni. E anche gli spostamenti all’interno sono differenti. Le porte non posso aprirle io. All’ingresso mi viene consegnata una tessera magnetica che dà accesso ad alcune porte. Poi ce ne sono altre che devono essere sbloccate dalla centrale operativa. C’è una sorta di citofono da suonare, una telecamera che sorveglia l’ingresso e, una volta date le informazioni richieste, la porta si apre. Quindi si passa alla stanza successiva, quasi alla stregua di un videogioco”. Le lezioni in carcere devono dunque essere forzatamente frontali? “Non necessariamente. Nelle mie lezioni ho spesso favorito le discussioni e le argomentazioni, dopo una breve esposizione di un tema. Discussioni che hanno sempre assunto una portata ampia. Facile immaginarne i motivi: in carcere ci sono persone con storie, ritmi, età diverse. E quindi la discussione si arricchisce dell’esperienza di tutti e si riescono ad affrontare argomenti davvero importanti”. Un tratto peculiare che non si riscontra altrimenti all’interno delle scuole professionali? “Come in tutte gli ordini scolastici, il punto è che c’è un programma da portare a termine. Anche in carcere ci sono i percorsi di apprendistato, alla Stampa e il programma è identico, esami inclusi. Nella mia esperienza d’insegnamento ho lavorato alla Farera con le donne e i minorenni e nella mia lezione di Cultura generale, materia del programma scolastico, ho avuto più libertà. Spesso gli spunti sono venuti persino dalle corsiste. Si è spaziato dalla politica, alla civica. Mi è capitato di dedicare pomeriggi interi ai ricordi d’infanzia. Nell’insegnamento in carcere si cerca di favorire lo spazio per momenti personali. Scritto e parlato rimangono le due principali attività”. La differenza tra il carcere penale e giudiziario? “La Farera è un carcere giudiziario, quindi ci sono detenuti in attesa di giudizio, in detenzione preventiva. Sono coinvolti in un’inchiesta che non è ancora terminata, e per evitare pericoli di recidiva e collusione devono stare in carcere. Alle donne e ai minorenni che sono in regime ordinario, vale a dire che stanno scontando la loro pena, è dato prioritariamente il diritto alla formazione”. A livello di sensazione, all’interno del carcere, quali sono i sentimenti che passano nelle ore d’insegnamento? Non ha mai avvertito paura? “All’inizio, prima di iniziare, la paura c’è stata, ma era dovuta alla non conoscenza del luogo in cui mi apprestavo a lavorare. Associ il carcere a tutti i pericoli di cui si sente parlare. Poi, una volta dentro, sin dalla prima lezione nel penitenziario mi sono sentito subito a mio agio, sono stato accolto benissimo. C’è un ambiente di condivisione di esperienze, di interesse da parte dei corsisti. L’idea negativa del carcere sparisce in breve tempo”. Prosegue Lorenzo Cairoli: “In un carcere giudiziario le condizioni di detenzione sono particolarmente rigide, hanno solo un’ora d’aria. E chiaramente la scuola rappresenta un’opportunità di incontro anche fra gli stessi partecipanti, per una intera giornata si confrontano, parlano, discutono. La scuola diventa momento di socialità e accoglienza, ti ricevono con un tè e i biscotti preparati da loro durante la lezione di cucina, in un clima di spontaneità”. In carcere il ruolo del docente si avvicina dunque più a quello del mediatore? “Assolutamente sì. Si diventa anche confessori. Molto spesso mi confidano le loro preoccupazioni, legate in particolare a questioni giuridiche”. E i temi culturali riescono ad attecchire e suscitare interesse fra i detenuti? “Eccome. Mi sono laureato in letteratura e, anche per interesse personale, propongo spesso testi letterari, poesie, racconti. Che hanno costituito spesso il punto di partenza della lezione. Abbiamo letto assieme romanzi brevi, come Novecento di Baricco. Abbiamo visto anche la sua trasposizione cinematografica di Tornatore. Chiaro che in carcere si è chiamati ad affrontare problematiche a livello linguistico, dal momento che molti dei corsisti sono stranieri. Mi è capitato anche di compiere un insegnamento bilingue. Ricordo una corsista di origini turche che viveva nella Svizzera interna che parlava turco e un po’ di tedesco. Con l’aiuto della classe alla traduzione c’era un coinvolgimento totale. In una lezione di un’ora e tre quarti c’è uno scambio davvero ricco: dal plurilinguismo, alla multiculturalità”. Detenuti e detenute, d’altro canto, hanno loro malgrado più tempo teoricamente per studiare. Questo li favorisce nell’apprendimento? “Chi vuole ha il tempo di riflettere e di leggere. Hanno accesso alla biblioteca. Molto spesso le loro letture in cella sono diventate motivo di approfondimento in aula”. Sono sorvegliate le lezioni? “No. Abbiamo tuttavia degli strumenti che consentono un rapido intervento da parte del personale in caso di bisogno. Succede molto raramente. In un caso, in modo preventivo, quando il tono delle discussioni si è fatto eccessivamente acceso, ho richiesto l’intervento degli agenti di custodia. Sotto il tavolo c’è un pulsante da premere, che tuttavia io non ho mai utilizzato. Quella volta sono uscito dall’aula e tramite i citofoni ho richiesto l’intervento delle guardie carcerarie che hanno ripristinato l’ordine”. Ha un aneddoto relativo all’esperienza d’insegnamento in carcere? “Mi è capitato di avere a lezione due minorenni, uno tunisino e l’altro algerino, che chiaramente non parlavano italiano, ostentavano solo un po’ di francese. Soggiornavano al Centro richiedenti l’asilo di Balerna. La comunicazione con loro era molto difficile e ho chiesto se volessero imparare qualche parola di italiano, dal momento che poteva essere utile per loro. Li avevo a lezione separatamente, dal momento che erano coinvolti nella stessa inchiesta penale e non potevano incontrarsi. Il più timido dei due sapeva solo due parole d’italiano: “avvocato” e “mamma”, perché voleva sempre tornare a casa. Un pomeriggio, in un momento di abbattimento, si è messo a piangere. Ho cercato di confortarlo. E mi sembra mi abbia detto qualcosa del tipo, “sei bravo, grazie”. È una cosa che mi ha fatto estremamente piacere, soprattutto che me lo abbia detto in italiano. Perché significa che di quel poco che abbiamo svolto insieme, qualcosa è rimasto. Mi ha restituito il senso del lavoro che abbiamo compiuto insieme”. Julian Assange, la Camera boccia la mozione per dichiararlo rifugiato politico Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2021 Alternativa: “Atto di vigliaccheria e subalternità agli Usa”. Il testo - su cui il governo aveva espresso parere contrario - è stato bocciato con 225 no, 22 sì e 137 astenuti. Ad astenersi sono stati i parlamentari di Liberi e uguali, 5 Stelle e Fratelli d’Italia, contro si sono espressi tutti gli altri gruppi. Alternativa: “È un giorno triste per la democrazia e le nostre libertà”. L’Aula della Camera ha respinto la mozione dei deputati di Alternativa (il gruppo formato in gran parte da ex M5s fuoriusciti alla nascita del governo Draghi) che impegnava il governo italiano a concedere lo status di rifugiato politico a Julian Assange, il fondatore di Wikileaks di cui gli Stati Uniti chiedono l’estradizione al Regno Unito, dov’è detenuto dal 2019. Il testo - su cui il governo aveva espresso parere contrario - è stato bocciato con 225 no, 22 sì e 137 astenuti. Ad astenersi sono stati i parlamentari di Liberi e uguali, 5 Stelle e Fratelli d’Italia, contro si sono espressi tutti gli altri gruppi. “In nome di un’inesistente fratellanza atlantica, il Parlamento ha consumato l’ennesimo atto di vigliaccheria nei confronti della libertà di informazione. La totale subalternità a Washington che detiene italiani falsamente accusati e si è sempre fatta beffe della giustizia italiana, come nel caso della strage del Cermis, ha spinto la gran parte dei deputati a disinteressarsi della persecuzione che Assange sta subendo da anni dalla democrazia di Guantanamo”, attaccano i parlamentari di Alternativa. Assange, “che oggi langue da troppo tempo in una prigione britannica - proseguono -, ha contribuito ad aumentare la consapevolezza di larghi strati della pubblica opinione mondiale rispetto a governi, uomini di potere, grandi lobby, reti di relazioni ed eventi ben oltre le narrazioni ufficiali. La sua WikiLeaks ha consentito alla democrazia contemporanea di superare e mostrare i limiti del giornalismo tradizionale. Lasciare che Assange sia soggetto alle sue dure condizioni carcerarie è l’attentato definitivo, oltre che alla sua persona, al giornalismo investigativo e la sconfessione da parte del Parlamento e del governo italiano del diritto di tutti i cittadini di essere informati su ciò che li circonda, diritti sanciti dalla nostra Costituzione, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Oggi - concludono - è un giorno triste per la democrazia e per le nostre libertà. Perché non salvaguardare l’incolumità di Julian Assange equivale a rinunciare a difendere le libertà individuali di ognuno di noi e i valori su cui si fonda la nostra società”. “Per alcuni Julian Assange è un pericoloso criminale internazionale, per noi del MoVimento 5 Stelle è un simbolo da difendere per un’informazione indipendente e libera. Siamo convinti, infatti, sia vittima di una grande e grave ingiustizia. Non a caso tutte le principali organizzazioni per la difesa dei diritti umani e della libertà di stampa, da Amnesty International, Human Rights Watch fino a Reporters Sans Frontiéres, si oppongono alla sua estradizione negli Stati Uniti dove rischierebbe 175 anni di carcere”, ha detto intervenendo in Aula Iolanda Di Stasio, capogruppo M5s in commissione Esteri. “Pur esprimendo massima solidarietà a Julian Assange e ai suoi familiari, da poco incontrati anche dalla nostra delegazione europarlamentare - ha però aggiunto - pensiamo sia controproducente vincolare il Governo italiano a promuovere atti di natura giudiziaria di competenza stretta di un altro Paese, in questo caso la Gran Bretagna che attualmente detiene Assange: preferiamo altre forme di sostegno. Ma una cosa è sicura: il Movimento 5 Stelle è sempre stato e sarà al fianco della battaglia di Assange e di tutti i whistleblower perché tutelare chi denuncia soprusi e corruzione è, innanzitutto, garanzia di democrazia”, ha concluso. Contrario il punto di vista espresso da Forza Italia, con il vicecapogruppo Valentino Valentini: “La pubblicazione di 250mila telegrammi diplomatici è un atto di sabotaggio sistemico. Perché questi strumenti sono il mezzo con il quale avvengono le comunicazioni tra gli Stati. Insomma, bisogna chiedersi fino a che punto è lecito violare la riservatezza dei messaggi diplomatici e militari, ovvero fino a che punto è lecito mettere a repentaglio la vita di coloro che sono oggetto o che hanno redatto queste comunicazioni. Ma anche, chi stabilisce cosa possa essere pubblicato e soprattutto fino a che punto è lecito diffondere materiale che è stato rubato”. Esprimendo il voto contrario del gruppo, la deputata del Pd Marina Berlinghieri ha invece sottolineato “la necessità di continuare a sostenere iniziative in raccordo con i partner dell’Unione europea e in linea con le convenzioni dei diritti dell’uomo, finalizzate a garantire che siano tutelati i diritti umani e le libertà fondamentali nel rispetto dell’autonomia e delle prerogative della magistratura britannica di cui abbiamo pieno rispetto e fiducia”.