Il carcere è un pericolo per la società: va abolito di Luigi Manconi* Il Riformista, 31 dicembre 2021 È mia convinzione che oggi il carcere non abbia alcun senso. Nessuna razionalità e nessuna utilità. Un sistema totalmente fallimentare rispetto allo scopo indicato dalla Carta costituzionale. Una macchina insensata: criminogena e patogena. Criminogena perché il suo effetto principale è quello di riprodurre all’infinito crimini e criminali. Sono tentato di fare mio quel “sono un detenuto” di Totò Cuffaro perché convinto, come lui, che chi è stato recluso lo è in qualche modo per sempre. Nel senso che chi ha conosciuto la prigione ne subisce gli effetti e i condizionamenti per tutta la vita. Anch’io sono stato in cella per sette mesi, ma richiamare una durata tanto breve suona quasi ridicolo quando si parla davanti a “lungodegenti”: persone che il carcere lo patiranno per anni e per decenni. D’altra parte, cinquant’anni fa, io ero un detenuto politico, arrestato a seguito di gravi scontri con militanti neofascisti. Questo è un dato importante perché io, quei sette mesi, non solo li ho trascorsi in diverse carceri italiane il cui livello di decoro era superiore a quello attuale, ma perché vivevo la reclusione con un atteggiamento di tranquillità operosa; e perché, soprattutto, la prigionia era conseguenza di una consapevole scelta politica e ciò dava al carcere un suo senso: un effetto collaterale, non voluto ma non sorprendente della militanza politica. All’opposto, è mia convinzione che oggi il carcere non abbia alcun senso. Nessuna razionalità e nessuna utilità. Un sistema totalmente fallimentare rispetto allo scopo indicato dalla Carta costituzionale. Una macchina insensata: criminogena e patogena. Criminogena perché il suo effetto principale è quello di riprodurre all’infinito crimini e criminali. La sola ricerca attendibile sulla recidiva ci dice che, per chi sconta interamente la pena in carcere, la reiterazione del reato sfiora il settanta percento. Patogena in quanto genera malattia, autolesionismo, morte. Il tasso di suicidi, secondo uno studio condotto insieme al professor Giovanni Torrente, è superiore di sedici-diciassette volte rispetto a quello registrato nella corrispondente fascia d’età tra le persone libere. Da qui la convinzione profonda che il carcere vada abolito. Nel 2015, con Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, abbiamo scritto un libro con questo titolo: Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, pubblicato da Chiare Lettere, di cui stiamo curando una nuova edizione per i primi mesi dell’anno. Dico subito che la nostra non è una provocazione né un palpito profetico. È, invece, un programma politico e una strategia normativa. Abolire il carcere significa, cioè, mettere in atto una serie di misure e provvedimenti capaci progressivamente ma concretamente di rendere la cella superflua, di ridurre la sua apparente necessità e ineludibilità: e di lavorare affinché costituisca davvero l’extrema ratio. Quando, qualche tempo fa, mi capitò di essere Sottosegretario alla Giustizia con delega al carcere, insieme al magistrato Sebastiano Ardita, responsabile dell’ufficio Detenuti e trattamento del Dap, commissionammo un’indagine che evidenziò come la quota di reclusi “socialmente pericolosi” superasse di poco il dieci percento dell’intera popolazione detenuta. Per quella minoranza il carcere rappresenta, probabilmente, la sola possibile misura di contenimento. Ma per tutti gli altri? Un programma alternativo è possibile, secondo i seguenti punti. Depenalizzazione. Va prevista una depenalizzazione generale, che sostituisca la sanzione penale con quella amministrativa o civile rispetto a reati non espressione di una particolare pericolosità dell’autore, e per il contrasto dei quali l’adozione di misure alternative non penali possa ritenersi sufficientemente dissuasiva. Decarcerizzazione. Il ricorso al carcere dev’essere limitato ai delitti di gravità e pericolosità tali da far temere il “pericolo della libertà” del loro autore. In sostituzione vanno previste la detenzione domiciliare o sanzioni interdittive, prescrittive e pecuniarie. In alcuni ordinamenti, quali quello tedesco, greco e danese, l’ambito di applicazione della multa è talmente ampio (si stima dell’85% delle pene irrogate in Germania), da limitare le pene detentive ai soli condannati socialmente pericolosi (stimati al 15% nella stessa Germania). Va da sé che le sanzioni pecuniarie debbano essere modulate in rapporto alla capacità economica dei condannati. Una ulteriore e drastica riduzione della popolazione detenuta si può ottenere attraverso misure che riguardino tre “gruppi” vulnerabili, particolarmente numerosi nelle carceri: tossicomani, pazienti psichici, stranieri che, privi di regolari titoli di ingresso e soggiorno in Italia, finiscono col precipitare, per varie ragioni, nell’illegalità e nel circuito penale. Se questi provvedimenti e la prospettiva nella quale vanno inseriti appaiono irrealizzabili è solo perché manca la volontà politica di tradurli in concreti progetti di riforma. E manca la consapevolezza di un dato generalmente trascurato, eppure rivelatore: la Costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere, forse l’avevano conosciuto tanto bene sulla propria pelle da non voler aggettivare le pene, lasciando campo libero a un legislatore che volesse cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni. Siamo dunque autorizzati a osare. O, almeno, a sperare. Auguro un grande successo a Nessuno Tocchi Caino. *Intervento al Congresso di Nessuno tocchi Caino Carcere, nessuna riforma se non cambiamo prima Dap e Sorveglianza di Riccardo Polidoro Il Riformista, 31 dicembre 2021 La Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, istituita dal Ministro della Giustizia Marta Cartabia, ha in questi giorni concluso i lavori. È questa senz’altro una buona notizia. Ora toccherà al Parlamento e al Governo realizzare in concreto quelle proposte finalizzate a migliorare - ma sarebbe meglio dire a legalizzare - l’esecuzione penale. È questa la conseguenza naturale e logica e potrebbe essere anch’essa una buona notizia, ma l’esperienza di quanto è già avvenuto non ci rende affatto ottimisti. E non possiamo e non vogliamo esserlo, perché gli anni trascorsi sono stati pieni di speranze e delusioni. L’ottimo lavoro svolto dalla Commissione, infatti, riprende, in parte, quanto già elaborato - e poi dalla politica ignorato - dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e dalle successive Commissioni Ministeriali, che a loro volta si rifacevano a principi costituzionali e a quanto già, per lo più, scritto nell’Ordinamento Penitenziario vigente. Norme che, dal 1975, non trovano applicazione e vengono continuamente disapplicate. Invero, le proposte indicate dalla Commissione prevedono anche la revisione di molte disposizioni del regolamento penitenziario del 2000 potenzialmente subito realizzabili e che consentirebbero di migliorare la vita quotidiana non solo dei detenuti, ma dello stesso personale dell’amministrazione penitenziaria. Il Riformista ha già indicato, ieri, molte di queste proposte che vanno condivise, mentre suscita preoccupazione quella che consentirebbe ai detenuti l’acquisto, allo spaccio dell’istituto, di apparecchiature tecnologiche, quali cellulari o computer, per favorire il rapporto con i familiari ed il lavoro informatico, evitando comunque ogni utilizzo indebito. Ed ancora l’introduzione di servizi a pagamento, come lavatrici a gettoni. Tali soluzioni non farebbero altro che aumentare la discriminazione sociale che già c’è all’interno degli istituti di pena, dove il detenuto che può concedersi il sopravvitto - il cibo cioè acquistato allo spaccio - gode del “rispetto” di altri che non sono nelle condizioni di farlo. Rispetto che spesso si concretizza in favori leciti e illeciti e in vere e proprie aggregazioni a gruppi criminali. Il carcere - almeno il carcere - dovrebbe essere il luogo dove le persone non hanno alcun privilegio economico e dove lo Stato garantisce l’uguaglianza nella vita quotidiana, che deve essere finalizzata al futuro reinserimento sociale. Tema questo, scolpito nella nostra Costituzione, nell’Ordinamento Penitenziario e costantemente ribadito in tutti questi anni, nonché ripreso, ancora una volta, nei lavori della Commissione. Un Paese che non possa fornire strumenti di lavoro, ovvero apparecchi per incrementare il rapporto con la famiglia o per consentire una condizione detentiva più agevole, ma che lo permette solo a coloro che ne hanno la capacità economica, persevera a seguire una strada sbagliata ed in senso contrario a quella tracciata in Costituzione. Più che fiumi d’inchiostro, o meglio pagine stampate, che vanno a formare volumi destinati agli scantinati del Ministero della Giustizia, che, come più volte abbiamo detto, vengono lasciati alla corrosiva attenzione dei topi, occorre una visione del carcere del tutto diversa. Non più commissioni, finalizzate ad allentare le tensioni e a “prendere tempo” ma un decisivo cambio di rotta, che parta anche dalla riforma di quello che già esiste e non funziona. Nei primi giorni di dicembre, l’Unione Camere Penali, nel convegno proprio sulla Riforma carceraria, ha promosso un radicale cambiamento dei Tribunali di Sorveglianza e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, uffici ai quali è affidata l’esecuzione della pena. Se c’è davvero la volontà politica di riformare - e non possiamo dubitare delle parole del Ministro della Giustizia - è da qui che è necessario avviare l’effettiva svolta. Un DAP finalmente diverso, ad esempio, consentirebbe senz’altro una vita detentiva orientata ai principi costituzionali e non ci sarebbe bisogno di commissioni che propongano soluzioni, in parte già scritte. Sovraffollamento, l’esempio francese e la liberazione anticipata speciale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 dicembre 2021 Se nel primo momento della pandemia i contagi nelle prigioni erano molto contenuti, è bastato poco perché la situazione esplodesse. L’Italia, come tutti gli altri paesi Ue ha affrontato la questione introducendo una serie di misure iper restrittive, prima ancora dell’introduzione del lockdown generale. La cosa provocò le rivolte avvenute in alcune carceri da parte dei detenuti che pretendevano chiarezza sulle ulteriori restrizioni dietro le sbarre, anche per via di situazioni socio- sanitarie non prese in carico a dovere. Ricordiamo gli epiloghi tragici: le rivolte hanno infatti coinvolto circa 6mila prigionieri in 49 diversi istituti e che hanno portato alla morte di 14 di loro, oltre che al ferimento di più di 40 agenti della polizia penitenziaria, alla distruzione di intere sezioni di alcune strutture carcerarie e all’evasione di decine di persone detenute nel carcere di Foggia. Grazie a una elaborazione di Openpolis, si viene a sapere che in Europa, il miglior risultato l’ha ottenuta la Francia ed è un esempio da cui l’Italia avrebbe potuto - e potrebbe prendere spunto. Oltralpe la popolazione detenuta è scesa da 72.575 detenuti del 15 marzo 2020 (dopo aver ricevuto una condanna da parte della Cedu nel gennaio 2020 proprio per il sovraffollamento e le condizioni di detenzione) a 58.695 detenuti il primo luglio 2020. Questo risultato è stato ottenuto grazie a un utilizzo più esteso della liberazione anticipata per i detenuti a fine pena e la riduzione dell’attività giudiziaria. Tuttavia questo fenomeno - anche se con numeri inferiori - è avvenuto in Italia, ma dopo la prima ondata pandemica, la popolazione detenuta è tornata a crescere. E allora si ritorna alla proposta, finora rimasta inevasa, del deputato Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. L’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, in sciopero della fame da quasi un mese, lo ha sospeso al 25esimo giorno, proprio su invito di Giachetti. “Nei prossimi giorni - ha dichiarato Bernardini lavoreremo gomito a gomito affinché la sua proposta di legge sia approvata”. D’altronde parliamo di una delle proposte avanzata dalla conferenza - tenutasi a novembre scorso - dei Garanti territoriali per la riforma e l’innovazione del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale. Hanno sostenuto che nel piano dei ristori dovuti a seguito della pandemia, non può mancare il risarcimento delle condizioni di detenzione particolarmente gravose subite durante l’emergenza, attraverso forme di liberazione anticipata speciale. Quest’ultima, già varata a suo tempo nel 2013 dopo la sentenza Torreggiani che condannò l’Italia per il sovraffollamento, si tratta di una detrazione di 75 giorni (anziché 45) per ogni singolo semestre di pena scontata interamente in carcere. La liberazione anticipata speciale ha avuto effetti solamente dal primo gennaio 2010 al 23 dicembre 2015, periodo di tempo durante il quale il detenuto che ha mostrato di mantenere una buona condotta ha appunto potuto ottenere uno sconto di 75 giorni ogni semestre, anziché 45 giorni. Carceri sovraffollate, non si ferma lo sciopero della fame di Rita Bernardini di Davide Varì Il Dubbio, 31 dicembre 2021 La radicale Rita Bernardini al venticinquesimo giorno di sciopero della fame per protestare contro il sovraffollamento nelle carceri. “Domani andrò a Brescia: è il più “popoloso” d’Italia”. “Domani pomeriggio/notte sarò a Brescia, il carcere più “popoloso” d’Italia, quasi al 200% di sovraffollamento, insieme a Sergio d’Elia e a Elisabetta Zamparutti di “Nessuno tocchi Caino”, al Senatore Rampi, a Roberto Giachetti e a Matteo Angioli. L’1 gennaio, invece, avevamo in programma una visita a Opera, a Milano, ma ci è stato chiesto di rimandarla a causa della presenza di diversi positivi tra gli agenti. Le visite negli istituti penitenziari, però, non si fanno solo alle feste comandate ma tutto l’anno, come ci ha insegnato Marco Pannella, per verificare le condizioni di vita dietro le sbarre, oggi ancora più preoccupanti in considerazione della incredibile diffusione della variante Omicron”. Lo dice all’Adnkronos la radicale Rita Bernardini, oggi al suo venticinquesimo giorno di sciopero della fame. Una manifestazione di dissenso pacifica e solitaria, proprio per sollecitare un intervento serio da parte della politica sul sovraffollamento nelle carceri, oggi particolarmente pericoloso in vista del picco di contagi e di positivi al Covid non solo tra i detenuti ma anche tra gli agenti della Polizia Penitenziaria. “I dati sono quasi raddoppiati da una settimana all’altra (al 27 dicembre sono 510 i reclusi e 564 i poliziotti, ndr) - Ora sembra che qualcosa si sia smosso, prima di Natale sono stata ricevuta dal ministro Cartabia che si è mostrata preoccupata per la questione Covid e per il sovraffollamento”. “Il professor Marco Ruotolo (docente di Diritto Costituzionale all’Università Roma Tre e presidente della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario per il Ministero della Giustizia) al termine dei lavori della Commissione ha detto che uno dei suggerimenti che darà al governo sarà quello di varare provvedimenti come la liberazione anticipata speciale: un punto di vista notevole” prosegue Rita Bernardini. “Anche molti parlamentari sostengono l’iniziativa, i detenuti a partire dalle donne del carcere di Torino Le Vallette hanno fatto una settimana di sciopero del carrello, poi quelli di Salerno e Saluzzo, i garanti, anche loro preoccupati del sovraffollamento sempre grave. È anche per questo che abbiamo promosso il referendum sull’abuso della custodia cautelare” conclude Rita Bernardini. Aumentano i contagi Covid, scarseggiano i posti per l’isolamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 dicembre 2021 “C’è il rischio concreto che in alcune carceri non ci siano a breve nemmeno le celle per l’isolamento sanitario!”. È il grido di allarme lanciato dai garanti territoriali campani dei detenuti, in merito al dilagare dei detenuti contagiati dal Covid che va però pari passo con l’aumentare del sovraffollamento. L’appello dei garanti alle istituzioni è quello di incentivare le misure alternative, in maniera tale di permettere l’isolamento sanitario e contenere le infezioni. Il Garante regionale Samuele Ciambriello, quello napoletano Pietro Ioia, di Caserta Emanuela Belcuore e di Avellino Carlo Mele, spiegano che in Campania, attualmente, in 6 istituti penitenziari (Poggioreale, Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino, Salerno e Sant’Angelo dei Lombardi) ci sono 86 detenuti contagiati da Covid, di cui uno solo ricoverato in ospedale, e 45 agenti di polizia penitenziaria. I garanti denunciano che c’è il rischio concreto che in alcune carceri non ci siano a breve nemmeno le celle per l’isolamento sanitario o per i contagiati o isolamento precauzionali per coloro che hanno avuto contatti con i contagiati. Per questo motivo, i garanti territoriali della regione Campania lanciano una raccomandazione e delle proposte operative: “Pur non essendoci l’obbligo di esibizione del green pass e di tamponi a carico sia dei familiari che degli avvocati, raccomandiamo agli stessi una vigilanza, un’attenzione e rispetto della funzione di prevenzione che è fondamentale per evitare il dilagare del Covid in quanto il diritto alla salute dei detenuti è prioritario”. Nel contempo i garanti si augurano che all’interno degli stessi istituti vengano adoperate misure di prevenzione socio-sanitarie, vadano intensificati da parte delle asl la disponibilità a somministrare in tempo utile e ragionevole i tamponi oltre che dare la possibilità ai detenuti di vaccinarsi in tempi brevi. In una dichiarazione congiunta, i garanti territoriali della Campani lanciano un appello alla magistratura e alla politica: “In questo periodo speciale vanno intensificate le misure alternative al carcere, così come il numero delle scarcerazioni da Covid che per il momento è stato molto contenuto nei numeri e ci auguriamo che sia detenuti in attesa di giudizio che definitivi con particolari situazioni sanitarie, con patologie oncologiche, cardiologiche o mentali possano ricevere arresti domiciliari o detenzione domiciliare”. E concludono: “Il carcere non può essere una discarica sociale né una vendetta, ci auguriamo che tutti i soggetti istituzionali a partire dalla politica evitano immobilismi delle norme e il distanziamento carcerario (continuando a non fare nessun decreto di ristoro per i detenuti e atti di clemenza!). La politica faccia qualcosa, subito!”. Il problema si ripresenta come a inizio pandemia. A fronte della mancata riforma organica dell’ordinamento penitenziario volta ad estendere l’applicazione delle misure alternative, la scelta di privilegiare il carcere come principale strumento di sicurezza nei confronti del crimine, ha determinato il perdurare dello stato di sovraffollamento all’interno delle strutture penitenziarie: atavico problema a fronte di nuove emergenze all’orizzonte. Questa cronica condizione di sovraffollamento, infatti, non ha potuto che acuire le problematicità della pandemia, che vede come primo protocollo di prevenzione il distanziamento sociale. È infatti evidente come all’interno delle carceri sovraffollate sia impossibile garantire quel distanziamento interpersonale richiesto per impedire e rallentare il diffondersi del virus e imposto alla società libera come misura indispensabile per far fronte all’emergenza che è ancora in corso. Inutile ricordare che il secondo problema è rappresentato dalle difficili condizioni di vita in carcere e, in particolare, dai bassi standard igienico-sanitari. Come rilevato dall’Associazione Antigone, in diversi istituti non vi sono docce in cella, ma solo in comune a tutta la sezione; inoltre, non sempre è presente l’acqua calda e in alcuni casi i servizi igienici sono a vista e non in apposito ambiente separato. Un conto essere contagiati e quindi rimanere in casa stando in quarantena con tutti i confort, un conto è farlo in cella. Il 2021 nei dati di Antigone: fondamentale rilanciare la strada delle riforme di Andrea Oleandri Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2021 Il 2021 è stato un anno di attesa per quanto riguarda il sistema penitenziario italiano. Colpito e sconvolto dal Covid-19 nel corso del 2020, quello che abbiamo potuto verificare nel corso di quest’anno è stato un tentativo di ritorno alla normalità che, purtroppo, non in tutti gli istituti è stato tale e non in tutti con la prontezza necessaria. Nel corso del 2021 l’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione ha visitato 99 carceri per adulti, più della metà di quelli presenti in Italia, da Sciacca in Sicilia a Bolzano in Alto-Adige. Il più grande Napoli Poggioreale, con oltre 2.200 presenze, i più piccoli Lanusei in Sardegna e Grosseto in Toscana, entrambi con 28 presenti. Tra gli istituti visitati alcune delle situazioni più difficili da segnalare sono state rilevate nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove sono stati registrati in media in un anno 105 atti di autolesionismo ogni 100 detenuti, o nel Lorusso Cotugno di Torino, dove nel reparto Sestante erano ristretti in condizioni inaccettabili 17 pazienti psichiatrici. Dalle nostre visite è emerso che in un terzo degli istituti visitati c’erano celle in cui i detenuti avevano meno di 3 mq a testa di spazio calpestabile, quindi al di sotto del limite per il quale la detenzione viene considerata inumana e degradante. Ma non è solo il dato dei metri quadri a destare preoccupazione. Nel 40% delle carceri che abbiamo monitorato c’erano infatti celle senza acqua calda e nel 54% celle senza doccia, come pure sarebbe previsto dal regolamento penitenziario ormai in vigore dal 2000. Mentre in 15 istituti non ci sono riscaldamenti funzionanti e in 5 il wc non è in un ambiente separato rispetto al luogo dove si dorme e vive. Altro dato importante è il fatto che il 34% degli istituti non abbia aree verdi per i colloqui nei mesi estivi. Se si guarda al personale, le cose non vanno di certo meglio. Solo il 44% delle carceri aveva un direttore incaricato solo in quell’istituto e solo nel 21% degli istituti c’era un qualche servizio di mediazione linguistica e culturale. In media, nelle strutture che abbiamo visitato, gli stranieri erano il 32,6%. Ogni 100 detenuti erano in media disponibili 8 ore di servizio psichiatrico e 17 di servizio psicologico, anche se, sempre in media, il 7% dei detenuti aveva una diagnosi psichiatrica grave e il 26% faceva uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Segno di un carcere che oggi, ancor più del passato, è un contenitore dell’emergenza sociale, della povertà e dell’esclusione. Per quanto riguarda infine il lavoro, in media lavorava nel 2021 il 43,7% dei detenuti. La maggior parte di loro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e con mansioni che spesso non hanno alcuna spendibilità all’esterno. Inoltre, per far lavorare più detenuti possibili, il numero di ore lavorate è molto basso, come dimostra lo stipendio lordo medio percepito che è di 560 € al mese. “Il sistema penitenziario italiano ha bisogno di importanti riforme” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Proprio negli ultimi giorni la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, voluta dalla Ministra Cartabia e presieduta dal Prof. Marco Ruotolo, ha presentato una relazione che contiene diverse proposte in tal senso. Alcune di queste proposte - prosegue Gonnella - erano state inserite anche nel nostro documento che alcune settimane fa avevamo presentato pubblicamente: dalla previsione di più contatti telefonici e visivi con l’esterno, al maggiore spazio assegnato alle tecnologie; dalla previsione di garanzie nei procedimenti disciplinari nei confronti delle persone detenute, fino all’attenzione prestata alla sofferenza psichica. È importante che le autorità politiche e amministrative si adoperino affinché nel più breve tempo possibile possano essere rese operative. Ma è al contempo importante - conclude il presidente di Antigone - che venga bloccata la volontà dell’Amministrazione Penitenziaria di riformare il circuito di media sicurezza, cosa che farebbe fare un passo indietro preoccupante all’intero sistema trattamentale e rieducativo”. Negli ultimi giorni dell’anno sono nel frattempo partiti tre processi per violenze nelle carceri italiane: Monza, Santa Maria Capua Vetere e Torino. Per tutti e tre Antigone aveva presentato degli esposti ai competenti Procure della Repubblica e nei procedimenti è presente con i propri avvocati. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Noi ergastolani, navi di Teseo di Giuseppe Grassonelli* Il Riformista, 31 dicembre 2021 Questo è il mio 30esimo Natale in carcere. In questi decenni io e i miei compagni abbiamo affrontato un lungo viaggio. Siamo cambiati, ma per la legge dobbiamo restare ancorati allo stesso porto. Il laboratorio di “Spes contra spem” si rinnova nel carcere di Opera con cadenza mensile da anni, grazie a Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, che ne sono ideatori e artefici. Sono stati gli ultimi a sospendere le attività nel marzo 2020 e i primi a riprenderla, e sono sempre loro i primi a tornare “dentro” ogni volta che è possibile; tornano per prendersi cura di un “ritorno” più grande, che si avvera come una nuova nascita, quello di noi ergastolani ostativi. Io sono al mio trentesimo Natale in carcere e ho sperimentato che le persone possono trasformarsi grazie agli incontri speciali, che io chiamo relazioni significanti, perché arricchiscono il senso della nostra vita, inducendoci alla riflessione e all’esercizio del senso critico. Sono queste relazioni a renderci partecipi di una comunità da cui nei fatti siamo esclusi. In carcere si è soli e anche privati dell’intimità con se stessi, per questo io ho imparato a farmi compagnia studiando, ho appreso come esprimermi e scrivere, per poi ricevere la lezione più grande: comprendere la gravità dei miei errori. Allo stesso tempo ho scoperto anche che le parole che avevo studiato sarebbero rimaste uno strumento inutile in assenza di comunicazione e per questo gli amici di Nessuno tocchi Caino, che ci ascoltano e combattono in nome della fiducia nel nostro cambiamento, hanno tutta la nostra gratitudine. “Abolire il carcere” è l’argomento principale del Congresso e immagino chi obietta che io, che sono stato un criminale, non abbia il diritto di parlare di abolizione del carcere. Ebbene, non solo costui ha ragione, ma al suo valido argomento aggiungo che, se non mi avessero arrestato trent’anni fa, avrei continuato a commettere crimini. Per questo io non sono per l’abolizione del carcere in sé, ma solo di quel carcere che continua a essere tale con persone che sono diverse rispetto al loro passato. Io sono contrario al carcere che uccide i detenuti tenendoli in condizione di disumanità, ma auspico un’istituzione che rieduchi i criminali e li restituisca alla società come persone nuove. Nei mesi scorsi con alcuni miei compagni abbiamo partecipato a un seminario di filosofia tenuto dall’Università Statale di Milano incentrato sull’identità personale sotto il profilo storico, filosofico, letterario. In una di queste lezioni abbiamo affrontato il paradosso della nave di Teseo, che narra di un’imbarcazione di legno sulla quale viaggiò il mitico eroe greco. La storia vuole che questa nave si sia conservata intatta nel corso degli anni, ma davvero pensate che questo sia possibile? La realtà dei fatti è che ogni parte dell’imbarcazione che si logorava veniva sostituita, una tavola dopo l’altra, una trave e poi un’altra ancora. Al suo ritorno la nave fu riconosciuta come la nave di Teseo, ma sotto quella apparente identità c’era una nave nuova. Questo paradosso è una metafora della nostra condizione, perché i miei compagni e io, ognuno con i suoi decenni di detenzione, siamo tutti ancora delle navi di Teseo; eppure molte cose sono mutate nel frattempo. Come quella nave anche noi abbiamo affrontato un lungo viaggio e siamo cambiati da un punto di vista culturale, psicologico, sociale. Noi siamo trasformati da un punto di vista umano, siamo altri, ma per la legge rispondiamo sempre alla stessa identità e dunque dobbiamo restare qua, ancorati allo stesso porto, come navi di Teseo, per effetto di norme ostative che, ignorando e rifiutando la nostra trasformazione, impediscono ogni sviluppo. Chi sostiene queste norme ci ripete che noi abbiamo commesso il male più grande, che noi abbiamo tolto la vita ad altri, perciò si giustifica la nostra condanna a vita. Io ho sbagliato e ogni giorno, da trent’anni, chiedo perdono ai familiari delle mie vittime e a loro rinnovo il mio profondo cordoglio, e continuerò a farlo ogni giorno. E chiedo perdono alla collettività per averla resa insicura a causa delle mie azioni violente e penso altresì alle persone che hanno assistito alle mie azioni violente. Anche a loro io chiedo perdono. Le norme ostative ci dicono che non abbiamo il diritto di chiedere nulla, ma noi ostinatamente continueremo a chiedere alle persone per bene e alla società civile, alla comunità e alle istituzioni proprio quello che noi non abbiamo avuto. Noi chiediamo quella pietà che noi non abbiamo avuto, la capacità di perdonare che noi non abbiamo avuto, vi chiediamo quell’umanità che noi non abbiamo avuto. Noi vi chiediamo la capacità di amare che noi non abbiamo avuto. *Intervento al Congresso di Nessuno tocchi Caino Giustizia, un anno di Cartabia: tante luci e qualche ombra di Angela Stella Il Riformista, 31 dicembre 2021 “Ha segnato ima svolta rispetto all’era Bonafede”, dice il leader dei penalisti Caiazza, ma dalla riforma della prescrizione a quella del Csm, “troppi condizionamenti di toghe e partiti” concorda Spangher. Il 5 marzo 2021 la Ministra Marta Cartabia illustrava alla Commissione Giustizia della Camera le sue linee programmatiche. Ufficialmente si chiudeva l’era Bonafede e ne iniziava una nuova, dai presupposti più costituzionalmente ispirati. Ma cosa è cambiato da allora? Abbiamo chiesto un parere ad alcuni degli osservatori più acuti della riforma della giustizia: il professor Giorgio Spangher e l’avvocato Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere Penali. L’Anm non ci ha voluto rilasciare dichiarazioni. Per Caiazza “l’avvento della Cartabia ha segnato senza dubbio una inversione di tendenza rispetto alla politica giudiziaria di Bonafede. Nel suo discorso alla Camera abbiamo sentito invocare tutti i principi costituzionali negletti nei due anni precedenti”. Ciò nonostante riguardo a quello che la Ministra è riuscita a realizzare occorre una valutazione diversa per il leader dei penalisti: “per i condizionamenti fortissimi della propria maggioranza ha dovuto pagare dei prezzi altissimi rispetto a quelle linee programmatiche”. Non dimentichiamo, prosegue Caiazza, che “la Ministra sta governando a parlamento invariato, ossia con lo stesso di quando a via Arenula c’era il suo predecessore”. L’avvocato si riferisce in particolare alla riforma della prescrizione: “Se è vero che ha superato la barbarie della Bonafede, tuttavia ha dato vita ad una soluzione pasticciata, complessa, anche a causa delle pressioni dei procuratori antimafia, su cui quasi sicuramente interverrà la Corte Costituzionale a partire dalla discrezionalità affidata al giudice di decidere sulla complessità dei procedimenti e quindi sulla loro durata”. Che la Ministra abbia preso le distanze da questa soluzione si era capito quando lei stessa ha invitato i commentatori a definire la riforma del processo penale non come “riforma Cartabia” ma come “mediazione Cartabia”. La differenza tra le due “ossia tra un coerente programma riformista e il risultato finale - ci dice Caiazza - equivale grosso modo allo scollamento tra il testo della Commissione Lattanzi e quello della legge delega”. Le critiche più esplicite e nette Caiazza le rivolge però alla riforma dell’ordinamento giudiziario, di cui ancora non si conoscono gli emendamenti governativi: “Pensiamo che la Ministra abbia mostrato un atteggiamento troppo remissivo nei confronti della magistratura associata. Questa riforma non può essere scritta dalla magistratura” che pure è stata audita diverse volte al Ministero. “Noi invece non siamo mai stati ascoltati in merito - sottolinea aspramente Caiazza - E non è un caso. Su questo la delusione è molto forte”. Diversamente da quanto avvenuto per la fase di riforma del processo penale, durante la quale l’Unione Camere Penali è stata tra le maggiori interlocutrici della Commissione ministeriale e della Guardasigilli. L’unico aspetto positivo che il presidente dell’Ucpi registra su questo fronte “è la diminuzione dei fuori ruolo nel Ministero della Giustizia. Non basta, ma è già un segnale di cambiamento per un nostro cavallo di battaglia”. Sul versante carcere Caiazza rileva una grande attenzione della Ministra: “La visita a Santa Maria Capua Vetere con Draghi ha rappresentato un importante gesto dal forte simbolismo. Però bisogna andare oltre. Ora che la Ministra sarà chiamata a valutare il lavoro della Commissione Ruotolo, auspichiamo che, rispondendo anche alle sollecitazioni della Relazione finale, faccia proprie le indicazioni già contenute nel progetto della Commissione Giostra e degli Stati Generali. Così come ci auguriamo che i decreti attuativi della riforma del penale rispettino le previsioni della delega”. Anche per il professor Spangher “è chiaro che dal momento in cui è cambiata la maggioranza di Governo è cambiato anche il mood sui temi della giustizia, prima segnato da una impostazione fortemente autoritaria. Basti ricordare le scuse di Di Maio ad Uggetti. Quando nella maggioranza, che non è più quella Pd-Cinque Stelle, sono entrate forze politiche di segno diverso, non necessariamente tutte garantiste, alcuni esponenti, ad esempio come Enrico Costa, hanno trovato più spazio e costituito il traino di alcune importanti iniziative legislative, come quella sul recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza”. Non c’è dubbio anche per l’accademico che “è chiaramente emersa una impostazione garantista sulla giustizia. Se da un lato molte riforme attuate in questi mesi sono state imposte dall’Europa è evidente che si avverte l’impronta di spinte opposte a quelle del precedente dicastero. Non scordiamoci che i precedenti Governi non avevano voluto introdurre nell’ordinamento la norma sulla presunzione di innocenza. Cartabia invece l’ha inserita nelle sue linee programmatiche e quindi è stato più facile il lavoro parlamentare. In pratica alcune idee circolano più facilmente, riscontrando meno ostruzionismo. Questi rappresentano sicuramente gli elementi positivi” ma ci sono anche le ombre per Spangher: “la Ministra cerca di accreditarsi come garantista, i suoi intenti sono più favorevoli rispetto a quelli di Bonafede ma volendo giudicare il suo operato in termini di effettività i limiti sono piuttosto forti, se solo pensiamo alle soffocate spinte innovative della Commissione Lattanzi e alla improcedibilità. La Cartabia è una costituzionalista e sul terreno dei principi si muove molto bene, ma i meccanismi della giustizia penale sono strumenti molto sofisticati. E poi tutte le iniziative delle commissioni ministeriali sono state azzerate, non si sa ancora se per effetto dell’apparato ministeriale o di alcune forze politiche; come è accaduto quando Costa ha chiesto tre giudici per autorizzare l’utilizzo del trojan ma il Governo ha espresso parere negativo. E, nonostante l’emergenza che vive il carcere, ancora non vediamo azioni concrete. Evidentemente ci sono delle dinamiche politiche e delle incrostazioni ministeriali che neanche la Ministra riesce a scardinare. E se a ciò aggiungiamo la difficoltà di tradurre le idee in atti normativi, di sottoporli al Cdm tutto si allontana dai desiderata iniziali”. Si rischia che l’appello sia un cavallo di Troia per ridurre le impugnazioni di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 31 dicembre 2021 La riforma Cartabia fa discutere per i criteri di accesso al secondo grado. Oltre alla prescrizione, per la quale è stato scelto un sistema a tre vie, la riforma Cartabia fa ampiamente discutere anche in ordine al tentativo di restringere le maglie criteriali di accesso al secondo grado di giudizio. Già la riforma Orlando - con l’introduzione della locuzione “specificità dei motivi” in seno all’art. 581 c. p. p. - aveva limitato le impugnazioni dei provvedimenti emessi all’esito del primo grado di giudizio ed ora l’attuale Legge Delega, ancora in discussione, sta tentando di introdurre un secondo ed ulteriore criterio che richiede la “puntuale enunciazione dei motivi” in seno all’atto di ricorso. Sul tema, il Presidente dell’Unione delle Camere Penali, il collega Gian Domenico Caiazza, ha recentemente manifestato la propria preoccupazione, sottoscritta dallo scrivente, che la riformulazione dell’art. 581 c. p. p. - con l’introduzione di ulteriori avverbi ed aggettivi - rischi di tradursi in un restringimento delle maglie di accesso al secondo grado di giudizio, offrendo alla magistratura uno strumento con il quale dichiarare inammissibili i ricorsi. Tali censure sono tutt’altro che infondate. Come noto, è desiderio espresso da tempo dalla magistratura quello di limitare l’accesso al secondo grado di giudizio e, non a caso, la riforma Cartabia - così come licenziata in prima battuta dalla Commissione Lattanzi - rischiava di trasformare il secondo grado di giudizio in un gravame a critica vincolata. Già in passato chi scrive aveva espresso preoccupazioni in tal senso, evidenziando come le modifiche proposte dalla Commissione Lattanzi, in ordine all’istituto dell’Appello, rischiassero di creare un “terremoto” in seno all’Ordinamento giudiziario, che vive oramai di anni e anni di stratificazioni di articoli ed interpretazioni, nei quali il secondo grado di giudizio è istituto ampiamente accessibile e vanto di un sistema garantista come quello nostrano. Oltre tutto è anche nota la volontà estremamente deflattiva della riforma in commento, che ha l’ambizioso e quanto mai difficile scopo di ridurre i tempi della giustizia, dal momento che l’ottenimento degli interi fondi Europei destinati all’Italia (che si ricorda ammontano a circa 191 mld!) è vincolato al successo della riforma stessa. Nel perseguire tale scopo, il legislatore ha, tuttavia, talvolta voluto o dovuto sacrificare i diritti processuali delle parti, come nel caso di specie dove vi è l’ennesimo tentativo di restringere le maglie di accesso all’appello, sul quale, come anticipato, era già intervenuta la riforma Orlando, introducendo un nuovo criterio di ammissibilità che già soddisfa ampiamente la necessità che l’atto di impugnazione sia strettamente ancorato al provvedimento impugnato, esponendo le proprie ragioni con specificità. Di parere opposto, il primo Presidente Emerito della Corte Suprema di Cassazione, Giovanni Canzio, il quale rassicura che il tentativo di modifica è solo e puramente volto a rendere l’atto di appello specifico, pena l’inammissibilità, ricordando come sia contrario alla natura del nostro ordinamento e alle finalità dell’appello rendere quest’ultimo un gravame a critica vincolata. Il Presidente Emerito continua affermando che l’intervento riformista si limita a positivizzare quanto già sostenuto dalla stessa Suprema Corte nella sentenza Galtelli del 2016. È pacificamente accettabile quanto sostenuto dal presidente Canzio sulla natura dell’atto di appello e sulla necessaria specificità dei motivi; tuttavia, chi scrive, condividendo quanto sostenuto anche dal collega Domenico Caiazza, ritiene che il principio di specificità abbia già trovato piena concretizzazione ed esplicazione con gli emendamenti introdotti dalla riforma Orlando. Pertanto, l’attuale modifica oggetto di discussione rischia solamente di trasformarsi in un cavallo di Troia dotato di ampia discrezionalità, a mezzo del quale far passare nuovi e più stringenti criteri di valutazione dell’impugnazione. Il rischio è quello di aumentare vertiginosamente l’inammissibilità dei ricorsi, i quali risultano già ampiamente vagliabili sotto la lente dell’art. 581 c. p. p. È importante lo sforzo dell’Unione delle Camere Penali: in rappresentanza dei penalisti tutti, fa passare chiaramente il messaggio che i diritti delle singole posizioni processuali non sono sacrificabili in virtù di una ragione deflattiva. Questa finalità - come chi scrive ha ampiamente sostenuto in più sedi, anche istituzionali - va ricercata in investimenti strutturali dell’intero sistema giustizia, in particolare apportando nuovi fondi e, soprattutto, organico, come la riforma ha tentato di effettuare in maniera claudicante con l’istituzione dell’Ufficio del processo, sulla cui efficacia vi sono dubbi non indifferenti. Ad ogni modo, sarà certamente interessante tornare sul tema prossimamente, quando i lavori nelle commissioni si saranno sviluppati ulteriormente, auspicando che il presidente Caiazza riesca a far valere le autorevoli voci di tutti gli avvocati penalisti. È ora che la parte sana della magistratura si ribelli di Iuri Maria Prado Il Riformista, 31 dicembre 2021 Sulla notizia di ogni scandalo giudiziario, di ogni caso di malversazione togata, di ogni gratuito rastrellamento antimafia, di ogni soverchieria inquisitoria, di ogni vita rovinata dall’abuso di giustizia, ci costringiamo alle solite precisazioni: e cioè che lo scandalo riguarda una parte minoritaria per quanto potente del potere giudiziario, mentre la gran parte dei magistrati è specchiata; che la malversazione è in una subdola nicchia, ma non coinvolge i tanti che adempiono con cura ai doveri del proprio ufficio; che la giustizia “a strascico”, con la militarizzazione di intere regioni trasformate nel giocattolo del PM rivoluzionario, costituisce pratica preoccupante, ma alla quale non si abbandonano i molti che al contrario fanno uso più cauto del proprio armamentario; che la noncuranza cinica con cui si assiste alla distruzione della vita altrui per effetto del proprio errore, del proprio abuso, della propria brama di affermazione, è caratteristica di pochi, non dei tanti che invece risentono intimamente e con cruccio di poter far tanto male a un proprio simile. Ma rischia ormai di essere ipocrita questo affrettarsi a tanto precisare. Rischia di accantonare una verità che ormai si è piantata al centro della faccenda: e cioè che proprio la sanità del grosso della magistratura, proprio la preponderanza, tra i magistrati, di gente che lavora coscienziosamente per l’applicazione della legge uguale per tutti e non partecipa al trafficare dell’eversione giudiziaria né si lascia andare alla strafottenza con cui le star della magistratura televisiva e giornalistica ridacchiano delle proprie vittime, proprio insomma l’estraneità di tanti al malcostume impunitamente esibito da pochi, è ciò che dovrebbe spingere quella maggioranza a farsi sentire, a costituirsi parte interessata nel processo di riordino e riconduzione a legalità dell’azione giudiziaria di cui da tempo, ma ormai improrogabilmente, ha bisogno il nostro ordinamento democratico. Altrimenti l’essere inerte “parte buona” di quel sistema diventa, da condizione assolutoria, motivo di condanna. Caso Burzi, perché i magistrati dovrebbero ripassare la Costituzione di Tiziana Maiolo Il Riformista, 31 dicembre 2021 “Non si possono scaricare le falle di un sistema solo sulle spalle della magistratura”. Chi parla non è una di quelle toghe firme abituali del Fatto, di quelle che difendono la corporazione a prescindere, ma un magistrato moderato e in genere ragionevole come Fabio Roia, vicepresidente vicario del tribunale di Milano, ex membro del Csm e che fu segretario di una corrente di centro della magistratura, Unicost. Parla dalle colonne della Stampa, intervistato dallo stesso giornalista, Paolo Colonnello, che il giorno precedente aveva dialogato, con ben altro risultato, con Giuliano Pisapia, avvocato e parlamentare europeo. È un vero peccato che non si possa individuare una sia pur flebile voce di magistrato che, dopo la tragedia che ha visto suicida l’ex consigliere e assessore regionale del Piemonte Angelo Burzi, sappia discostarsi dal formale “doveroso rispetto” per chi non c’è più, per capirne invece le ragioni esplicite e trasparenti messe nero su bianco nelle lettere d’addio. Un’occasione persa. Quasi come se l’intera magistratura avesse delegato una sorta di pensiero unico di casta al procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo. Il quale, nelle due pagine di autodifesa dalle critiche per la conduzione della procura di Torino nei diversi gradi di giudizio che hanno visto alla sbarra come imputati una serie di consiglieri regionali piemontesi, aveva ipotizzato il reato di vilipendio dell’intera magistratura a carico di chi avesse osato avanzare certe critiche. Eppure non c’è bisogno di conoscere i processi, di aver letto le carte, per tentare qualche ragionamento elementare. Basta la conoscenza della Costituzione. Come fa Giuliano Pisapia, che ricorda prima di tutto come già il processo, soprattutto se prolungato negli anni, sia una sofferenza per l’imputato. Cui immediatamente il Presidente Roia replica che anche le vittime e le parti civili soffrono. Il che è più di un’ovvietà, è un modo astuto di mettere le cose a posto nel mondo dei puri e degli impuri. Anche se innocenti secondo la Costituzione. Ma è proprio la legge delle leggi che impone anche la ragionevole durata del processo. Quindi, restare otto o dieci anni, o anche più, in attesa di un verdetto è o no una violazione di legge, oltre che sofferenza atroce, anche quando non ci siano vittime sul selciato? Il secondo dettato costituzionale evocato da Giuliano Pisapia è che per poter condannare, occorre la ragionevole certezza della colpevolezza. Se un imputato è ritenuto innocente “oltre ogni ragionevole dubbio”, su quali basi un pubblico ministero chiede di ricominciare daccapo, di fare un altro processo? Voglia di vincere a tutti i costi? E ancora: sulla base di quali nuove prove, di quali elementi, di quali testimonianze, in processi come quello che ha riguardato Angelo Burzi, la corte d’appello ha riformato la sentenza di primo grado e ha condannato? Oltre a tutto c’è un dubbio di fondo, in queste vicende di scontrini e rimborsi, e riguarda lo stesso intervento dello strumento penale. “Se si ritiene - è il ragionamento di Pisapia - che certi comportamenti di amministratori pubblici, magari in buona fede, creino dei danni erariali, la sede non è quella penale”. È questo il punto cruciale di un discorso generale, di un momento della storia in cui ci sta precipitando addosso come una valanga un eccesso di giurisdizione, in cui tutto pare diventare reato. Come se i nostri comportamenti, anche i più banali, fossero spiati da qualcuno che cerca i reati, che li costruisce per noi. Per decenni i gruppi regionali, come quelli parlamentari, hanno distribuito i fondi destinati ai rimborsi delle spese per la propria attività politica e di rappresentanza ai singoli esponenti politici con controlli basati sull’autocertificazione. I famosi scontrini. Non c’erano elenchi rigorosi e specifici sulla tipologia di spese rimborsabili. Spettava a ogni capogruppo ammettere o respingere ogni documentazione, e in genere vigeva una certa flessibilità. C’è stato qualcuno che si è allargato? Sì, ma sono stati pochi, e quei pochi hanno riempito i titoloni dei giornali. Le inchieste penali su “Rimborsopoli” sono iniziate quando la situazione politica lo sollecitava (onestà, onestà), proprio come nel 1992 era scoppiata “Tangentopoli”. Ma trent’anni fa si parlava di mazzette e di finanziamento illecito ai partiti di milioni di lire. Non di scontrini per spese di qualche migliaio di euro per cene elettorali o piccole consulenze. Non è un caso se ci sono state sentenze a macchia di leopardo in tutta Italia. Perché la verità è quella di Pisapia (e ci saremmo aspettati la condivisione di un magistrato come Roia): che cosa c’entrano il codice penale e il peculato? Ci sono stati giudici che hanno condiviso questo dubbio di fondo e lo hanno scritto, mentre assolvevano gli imputati “perché il fatto non sussiste”, come la presidente della prima sezione penale di Torino Silvia Begano Bergey. Oggi ne possiamo citare un altro - come ha ricordato sul Foglio Carmelo Palma, giornalista ed ex consigliere regionale piemontese-, il gip bolognese Letizio Magliaro. Il quale si rammaricava del fatto che certi comportamenti politici autopromozionali eccessivi non avessero trovato altra forma di sanzione fuori delle aule di giustizia. E così concludeva: “L’amara constatazione che ciò normalmente non accade non può però indurre a una impropria sostituzione della responsabilità penale a quella politica; su ciò di cui il giudice penale non può parlare, occorre tacere”. Bologna, sentenza 2191/15. Da incorniciare. Mani Pulite e il valore del principio di imparzialità e terzietà di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 31 dicembre 2021 Lascia perplessi l’accordo, tra l’Ufficio Gip e la Procura, di attribuire a un unico fascicolo e affidare a un solo magistrato tutte le posizioni riconducibili alla vicenda. “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”: il principio menzionato trova il proprio fondamento nell’art. 25 della Costituzione ed è uno degli strumenti di cui l’ordinamento si avvale al fine di perseguire l’ideale dell’Organo Giudicante, terzo e imparziale, e che, concretamente, trova attuazione nelle norme relative alla competenza e alle linee guida dettate dal Consiglio Superiore della Magistratura in ordine ai criteri di attribuzione dei fascicoli, il cosiddetto sistema tabellare. Tale sistema trova compimento con il R. D. 30 gennaio 1941, n. 12 e ha lo scopo di dettare criteri oggettivi e predeterminati al fine di individuare il Magistrato competente per la specifica controversia, sì da evitare che tali attribuzioni restino governate dalla discrezionalità dei singoli. L’art. 7 bis del succitato Regio Decreto precisa che le tabelle vengono costituite dai singoli uffici, sulla base del decreto emanato ogni triennio dal ministro della Giustizia, in conformità delle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura, assunte sulle proposte dei presidenti delle Corti di appello e sentiti i Consigli giudiziari. L’art. 7 ter determina, invece, le regole di assegnazione ai singoli uffici, secondo criteri “oggettivi e predeterminati”. L’ultima circolare emessa con delibera di plenum in data 23 luglio 2020 - per il triennio 2020/ 2022, eventualmente prorogabile ai sensi dell’art. 7 bis R. D. 30 gennaio 1941, n. 12 - al capo V, art. 157, dispone, altresì, che l’articolazione dei criteri di assegnazione degli affari spetta al Dirigente dell’ufficio, sotto sorveglianza del Presidente di sezione o del Magistrato che dirige ai sensi dell’art. 47 quater, R. D. 12/ 1941, per poi ribadire, al successivo articolo, che tali assegnazioni alle singole sezioni, Collegi e Giudici, debbano avvenire secondo criteri oggettivi e predeterminati. Il compendio sull’attività di assegnazione degli affari agli Organi Giudicanti posto in premessa è doveroso e funzionale - tanto per chi scrive, quanto per il lettore - al fine di approcciarsi all’interessante intervista rilasciata su queste stesse pagine dal giudice Guido Salvini, Gip presso il Tribunale di Milano. Il dottor Salvini, in particolare, ripercorre l’assai nota vicenda che aveva interessato l’Ufficio Gip nel caotico periodo di inizio anni 90, allorquando il Paese attraversava i violenti scandali originati dai fatti riconducibili agli episodi corruttivi che avevano interessato tutto il mondo politico: inchiesta “Mani pulite”. Il dottor Salvini ricorda come l’allora Ufficio Gip e la Procura si accordarono per far sì che ogni singola vicenda legata a fatti di corruzione nella Pubblica Amministrazione fosse riconducibile al medesimo procedimento, rispondente al numero di registro 8655/1992. A quel fascicolo, pertanto, venivano ricollegate le vicende giudiziarie più disparate, anche senza che vi fosse alcun collegamento soggettivo e/ o oggettivo. L’obiettivo perseguito era quello di affidare ad un singolo Magistrato, il dottor Italo Ghitti, tutte le posizioni processuali anche solo potenzialmente riconducibili alla più larga vicenda Mani pulite, sì da agevolare, come ovvio, l’attività della Procura. Meno Sezioni e Giudici differenti dell’Ufficio Gip conoscevano la vicenda e meno probabile era il rischio che vi fosse una disparità delle decisioni assunte. In altre parole, il meccanismo ideato dalla Procura e dal pool, che allora seguì la vicenda, era quella di accentrare tutti gli affari su una singola figura, già nota all’Ufficio di Procura, nonché in un unico fascicolo, estendibile a piacere, al punto che, allora, l’Ufficio Gip del Tribunale di Milano si vide assegnare fascicoli su cui non poteva vantare nemmeno la competenza territoriale. Alla luce dell’allora normativa - non troppo dissimile dall’attuale - non può non evidenziarsi come venne posta in essere una complessa violazione del principio posto in apertura del presente articolo. Pur comprendendo le ragioni del pool operante alle indagini - le vicende che allora investirono il Paese richiesero uno sforzo immenso della macchina giudiziaria - non si può non rilevare come i criteri dettati dal R. D. 21 del 1942, in attuazione del principio ex art. 25 Cost., vennero completamente e sistematicamente disapplicati dall’Ufficio Gip del Tribunale di Milano, forse per un più alto scopo. Risulta quasi superfluo, a parere di chi scrive, evidenziare come un accordo tacito tra la Magistratura Inquirente e Giudicante, sia lesivo del principio di imparzialità e terzietà del Giudice, così come lesivo appare l’aggiudicazione di ogni singolo fascicolo non sulla base di criteri predeterminati ed oggettivi, ma per una mera questione di comodo. Con ciò non si vuol certo dire che il dottor Ghitti allora non svolse un lavoro che, si è di questo certi, avvenne nel massimo rispetto del dettato costituzionale e della Legge; tuttavia, non si può certamente sottacere come meccanismi procedurali posti a tutela del principio di imparzialità e terzietà vennero adattati alla necessità. Proprio su questa necessità è il caso di riflettere se fosse proprio indispensabile o, quantomeno, perfettibile con correttivi quali quelli di individuare una squadra di magistrati da applicare ai noti fatti. “Giusto scarcerare il ceceno accusato dell’omicidio Ciatti: vi spiego perché” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 dicembre 2021 Parla il difensore di Rassoul Bissoultanov, uno dei due ceceni accusati dell’omicidio di Niccolò Ciatti, il 22enne fiorentino pestato a morte nell’agosto 2017 in Spagna. La risposta alle polemiche sulla scarcerazione di Rassoul Bissoultanov, uno dei due ceceni accusati dell’omicidio di Niccolò Ciatti, il 22enne fiorentino pestato a morte l’11 agosto 2017 in una discoteca di Llorret de Mar in Spagna, sta tutta nell’articolo 10 del codice penale (Delitto Comune dello straniero all’estero). Ce lo spiega nel dettaglio il suo avvocato Francesco Gianzi in questa intervista. In pratica il nostro Paese, nel caso di un cittadino straniero che commette un reato contro un cittadino italiano all’estero, può richiedere l’arresto solo se lo straniero è presente in Italia nel momento in cui viene emessa l’ordinanza. Avvocato ci spiega bene tecnicamente da dove deriva questa scarcerazione? È stata fatta una richiesta di revoca della misura cautelare che si basava su diversi punti, tra cui l’improcedibilità dell’azione penale e quindi dell’arresto. La Corte di Assise di Roma ha ritenuto assorbente il primo punto e quindi ha accolto la nostra istanza condividendo l’impostazione difensiva per cui la misura della custodia cautelare in carcere non poteva essere emessa mancando la condizione di procedibilità ex art. 10 c.p., relativa alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato, atteso che Bissoultanov, al momento dell’emissione dell’ordinanza di misura cautelare in carcere non si trovava in Italia, essendo sul territorio dello Stato solamente successivamente all’emissione dell’ordinanza e cioè in sede di consegna in esecuzione del mandato di arresto europeo da parte dell’Autorità Giudiziaria tedesca, dove era detenuto a tal fine. In sostanza è stato trasferito in Italia e posto in custodia cautelare in carcere sulla base di una violazione di legge. Il processo comunque inizierà il 18 gennaio... Il processo si potrà comunque celebrare, salvo questioni di giurisdizione. Bisognerà capire se la giurisdizione è quella italiana o quella spagnola. Questo è un problema che verrà affrontato alla prima udienza dibattimentale. Noi riteniamo che la giurisdizione sia dello Stato spagnolo, e già i giudici spagnoli hanno fatto ricorso in sede europea perché è stata sottratta loro, con questa iniziativa dell’arresto da parte del nostro Paese, la giurisdizione in quanto mentre in Italia il processo in absentia è possibile, in Spagna invece no. Che problema ci sarebbe a processarlo in Spagna piuttosto che in Italia, considerato che il reato che viene contestato, ossia l’omicidio volontario, è lo stesso e che in caso di condanna la pena edittale massima prevista è sempre quella dell’ergastolo? Voglio però ricordare una cosa. Prego... Bissoultanov è stato detenuto oltre quattro anni in custodia cautelare preventiva in Spagna in attesa di giudizio e per oltre quattro mesi dagli arresti in Germania fino alla revoca della misura. Tuttora si è in attesa di celebrare il processo, che doveva iniziare in Spagna nel mese di novembre, ed è stato sospeso invece proprio in conseguenza del provvedimento emesso dall’Autorità Giudiziaria in Italia. Questo arresto ha provocato a mio avviso diversi danni: al ragazzo che ha subìto una ingiusta carcerazione in Italia e alla famiglia della vittima perché così si è ritardato l’inizio del processo in Spagna. Ora quindi ci saranno ulteriori ritardi finché non si deciderà in merito alla giurisdizione. Lamentiamoci pertanto del fatto che il processo non sia ancora iniziato e non della scarcerazione del mio assistito. Sono state molte le polemiche per questa scarcerazione sintetizzate dalla formula “un assassino è libero per un cavillo. Vergogna!”. Come si può rendere accettabile socialmente questa decisione? Non si tratta di un cavillo, ma di rispettare le regole. Il ragazzo è stato arrestato in violazione della normativa italiana vigente. Per di più questo provvedimento italiano interviene a quattro anni dal fatto. Può sembrare scandalosa la scarcerazione, ma prima di pronunciarsi bisogna conoscere tutta la storia dall’inizio. A proposito di polemiche, vorrei chiarire un altro aspetto. Dica... Terminata la carcerazione preventiva in Spagna, gli è stato imposto l’obbligo di dimora lì. Ho letto su diverse testate che poi sarebbe fuggito. Non è così: gli è stato concesso un permesso di pochi giorni da un giudice spagnolo per andare a trovare i suoi genitori in Francia, a Strasburgo. Mentre si spostava nell’area metropolitana della città per arrivare a Kehl per mangiare una pizza, città che, seppur tedesca, fa parte dell’area metropolitana di Strasburgo, è stato preso in consegna dalla polizia tedesca. Ammanettato mani e piedi, è stato trattenuto lì due mesi prima di essere estradato in Italia. In sostanza, il mio assistito in attesa di un processo ha scontato quattro anni e mezzo di carcerazione preventiva. Capisco le ragioni dei genitori della vittima, ma anche trascorrere tutto questo tempo in prigione in attesa di essere processato mi sembra eccessivo. Avvocato, un altro elemento della storia che ha suscitato critiche è che forse il suo assistito potrebbe non partecipare al processo. Non vedo nulla di strano che un processo si possa celebrare con l’imputato a piede libero. Cosa cambia per la parte offesa? Non sarebbe questo il primo caso. Anche qualora fosse stato detenuto, si sarebbe comunque potuto rifiutare di partecipare alle udienze. Dopo di che un uomo libero decide di stare dove ritiene più opportuno: in Italia, Francia, Germania, dove vuole insomma in attesa della conclusione del processo. Però mi pare che il vero problema è che Bissoultanov possa lasciare l’Italia, se non lo ha già fatto, e sottrarsi alle sue eventuali responsabilità, in caso di condanna... Non so se sia rimasto in Italia ma non mi stupirei se fosse altrove perché non ha mai vissuto qui. Nel caso in cui venisse condannato e qualora si rendesse irreperibile scatterebbe il mandato di arresto europeo e la richiesta di estradizione. Comunque chi può dire come andrà a finire il processo se ancora non è neanche iniziato? Al momento è innocente, come prevede la nostra Costituzione. Il padre della vittima ha scritto al Presidente della Repubblica Mattarella. Che ne pensa? Rispetto tutte le scelte difensive e soprattutto quelle personali di un padre che ha perso un figlio. Qui però nessuno può violare le leggi vigenti. Noi abbiamo richiesto semplicemente che venissero rispettate le norme del codice penale. Campania. Covid, boom di positivi in carcere di Viviana Lanza Il Riformista, 31 dicembre 2021 Ciambriello: “Di questo passo non ci saranno più celle per isolamento sanitario”. Il Covid fa paura anche in carcere. L’emergenza sanitaria che è fuori dalle mura penitenziarie si ripresenta con le stesse allarmanti proporzioni anche all’interno. In Campania la situazione è critica negli istituti di Poggioreale, Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino, Salerno e Sant’Angelo dei Lombardi. Si registrano 86 detenuti contagiati, di cui uno solo ricoverato in ospedale, più 45 agenti di polizia penitenziaria. “E c’è il rischio concreto che in alcune carceri a breve non ci saranno più le celle per l’isolamento sanitario dei contagiati e per l’isolamento precauzionale di chi ha avuto contatti con i contagiati”, spiegano il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, quello napoletano Pietro Ioia, di Caserta Emanuela Belcuore e di Avellino Carlo Mele, lanciando una raccomandazione e una serie di proposte operative. “Pur non essendoci l’obbligo di esibire il Green pass e l’esito dei tamponi sia per i familiari che per gli avvocati, raccomandiamo agli stessi una vigilanza, un’attenzione e il rispetto della funzione di prevenzione che è fondamentale per evitare il dilagare del Covid in quanto il diritto alla salute dei detenuti va considerato prioritario”. La richiesta, dunque, è di dare una stretta alle misure di prevenzione senza che queste gravino solo sui detenuti, ma estendendole a chi da fuori accede all’interno dei locali penitenziari. “Ci auguriamo - aggiungono i garanti - che all’interno degli istituti vengano adoperate misure di prevenzione sociosanitarie e da parte delle Asl sia intensificata la disponibilità a somministrare in tempo utile e ragionevole i tamponi oltre che i vaccini per i detenuti”. Non sono fuori da questo discorso politica e magistratura. I garanti hanno ricordato i numeri esigui dei detenuti che durante la pandemia hanno ottenuto misure alternative, e quindi lo scarso effetto delle misure emergenziali sul grave problema del sovraffollamento carcerario. Anche per questo i garanti hanno rivolto un appello anche a politici e magistrati: “In questo periodo speciale vanno intensificate le misure alternative al carcere, così come il numero delle scarcerazioni da Covid che per il momento è stato molto contenuto e ci auguriamo che sia detenuti in attesa di giudizio sia i detenuti definitivi con particolari situazioni sanitarie, con patologie oncologiche, cardiologiche o mentali, possano ricevere arresti domiciliari o detenzione domiciliare. Perché il carcere - affermano in una nota congiunta - non può essere una discarica sociale né una vendetta. E ci auguriamo che tutti i soggetti istituzionali, a partire dalla politica, evitino immobilismi delle norme. È ora di pensare a un decreto di ristoro per i detenuti e ad atti di clemenza”. Torino. “Portatemi via, qui muoio”: le lettere di Antonio Raddi di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 31 dicembre 2021 Era in carcere dove perse oltre 25 chili. “Antonio ha scritto molte lettere in cui chiedeva aiuto. Nei colloqui mi diceva: “Non ce la faccio più”. Vogliamo che venga fuori la verità, perché cose del genere non capitino più a nessuno”. A parlare sono i genitori di Antonio Raddi. “Portatemi via, qua dentro ci muoio”. Antonio Raddi, 28 anni, lo ripeteva in continuazione ai propri genitori quando lo andavano a trovare in carcere. E lo scriveva nelle decine di lettere che tra l’aprile e il dicembre 2019 ha inviato alla famiglia. “Non ho ammazzato nessuno, perché mi trattano così?” si domandava mentre il suo fisico lo abbandonava. Un deperimento progressivo e veloce, che ha minato il suo corpo. Ma anche il coraggio e la voglia di resistere. Nelle lettere descrive con calligrafia sempre più incerta il disagio e la malattia che stavano prendendo il sopravvento. Racconta di come non riuscisse più a mangiare. “Bevo caffè e fumo”, confessava nei colloqui. Per poi rivelare come il cibo che i genitori gli portavano lo distribuiva ai compagni di sezione perché tanto lui “non riusciva a mangiare”. E mentre soffriva ogni giorno di più, dal carcere Lorusso e Cutugno rispondevano alle note della garante dei detenuti che lui “stava simulando”. Quando è entrato in carcere Antonio pesava 80 chili. Quando è morto, il 30 dicembre 2019, ne pesava poco più di 50. E ieri nel giorno del secondo anniversario della sua scomparsa i genitori, papà Mario e mamma Rosalia, hanno rinnovato il loro appello affinché l’inchiesta per omicidio colposo - nella quale sono indagati 4 sanitari dell’istituto penitenziario - non venga archiviata: “Lo hanno ricoverato il 13 dicembre perché era collassato. I suoi organi interni erano compressi, il primario di rianimazione ci disse che in 40 anni di lavoro non aveva mai visto una cosa del genere. A uccidere nostro figlio sono stati l’indifferenza e il pregiudizio. Di testimoni ce ne sono tanti e l’omertà in questi casi dovrebbe essere messa da parte: le persone dovrebbero dire come sono andate le cose e non raccontare falsità. Non è vero che nostro figlio ha rifiutato il ricovero. E non ha mai fatto lo sciopero della fame”. La sola a raccogliere il grido di aiuto di Antonio è stata la garante per i detenuti Monica Gallo: “Quali autorità hanno effettivamente visitato quel ragazzo? Domanda alla quale ancora oggi non ho risposta”. Agli atti dell’inchiesta c’è anche un diario realizzato dalla garante, nel quale sono scandite le date e le tante segnalazioni inviate all’asl e alla direzione del carcere perché venissero presi provvedimenti. Segnalazioni cadute nel vuoto. “Non ci sono particolari criticità” rispondeva il 20 agosto l’asl a una nota di Gallo. E ancora, il 19 novembre di fronte a un’ulteriore sollecitazione i medici replicavano: “Pare essere strumentale, ma programmato ricovero”. Ma il 3 dicembre Antonio non era stato ancora ricoverato. “Il sistema carcere ha fallito - commenta l’avvocato Gianluca Vitale, che insieme al collega Massimo Pastore assiste la famiglia Raddi. Adesso speriamo che anche la giustizia non debba ammettere il proprio fallimento”. Torino. Dimenticati in cella, un nuovo caso: “Salvate Francesco, ormai è come uno zombie” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 31 dicembre 2021 Appello di Garante dei detenuti e avvocato per un rapper di 27 anni con turbe psichiche che aggredì il padre: “Si sta lasciando andare, dopo 10 giorni in ospedale è stato riportato in carcere ma il suo posto è un istituto”. Una situazione così critica da somigliare a quella di Antonio Raddi, la stessa apparente indifferenza alle condizioni di estrema vulnerabilità, un’analoga richiesta di aiuto che al momento è inascoltata. “Ma dobbiamo salvarlo, non può accadere di nuovo” è l’allarme della garante dei detenuti Monica Gallo e dell’avvocato Alessandro Dimauro che si stanno muovendo con segnalazioni su segnalazioni per evitare che a Francesco G., 27 anni, accada la stessa sorte del detenuto morto per setticemia due anni fa dopo essere dimagrito di 30 chili. “La situazione è davvero critica: lui è uno zombie, attualmente è da poco stato dimesso dal repartino ed è tornato in carcere - racconta l’avvocato Dimauro - ho mandato comunicazioni ovunque senza avere riscontro”. Il suo assistito è Francesco, giovane rapper affetto da gravi problemi mentali. Una schizofrenia, una vita difficile, voci nella testa che, a suo dire, l’hanno portato a tentare di uccidere suo papà, a Santhià, a settembre. Un padre disabile che lui ha cercato di accoltellare dopo un litigio. Per questo è stato arrestato e portato in carcere, prima a Vercelli, dove ha anche aggredito alcune guardie, e poi a Torino. Reparto Sestante. Ed è qui che inizia l’incubo di Francesco. Non mangia più con regolarità, inizia a deperire sempre più: dimagrisce a vista d’occhio. Lo sguardo sempre più spento, si trasforma nel fantasma di se stesso. “Andavo in carcere per incontrarlo e non parlava più. Muto, solo ogni tanto qualche gesto - spiega il difensore - i suoi problemi psichiatrici sono evidenti. Eppure c’è chi ha continuato a pensare che fosse un atteggiamento per ottenere per avere dei benefici o uscire. La verità è che non può stare in quelle condizioni lì dentro”. Francesco non si lava per tre mesi, mangia quello che trova per terra. E non ha nemmeno la forza di andare in bagno. Viene ricoverato nel repartino delle Molinette dove resta dieci giorni. Per poi tornare alle Vallette, e ripiombare nell’incubo. Francesco nella sua vita ne ha viste di tutti i colori. Ha un fratello anch’egli affetto da problemi psichiatrici, il padre che ha cercato di uccidere è in carrozzina. Ha un legame forte con la madre che è convinta che abbia bisogno di un esorcismo, tanto da aver persino chiesto al giudice di farglielo fare. Il suo avvocato si è limitato, in questo caso, a chiedere per lui un’assistenza spirituale. Ma dal punto di vista formale il legale ha già tentato ogni strada: conosce da anni quel ragazzo, da quando era stato selvaggiamente picchiato per strada da un gruppo di sette balordi che avevano insultato suo fratello. “Senza motivo” continuava a ripetere Francesco, tanto da farne anche una canzone diventata per certi versi famosa. Di lui si erano interessate trasmissioni televisive, tra cui anche “Chi l’ha visto?”. Eppure, quattro anni dopo, la sua condizione di fragilità sembra non suscitare allarme tra chi potrebbe cambiare le sue sorti. “Il suo posto è chiaramente una struttura sanitaria - spiega l’avvocato - L’istanza che ho presentato ha visto come risposta il diniego, con la spiegazione che non era stata indicata una clinica. Nelle Rems non c’è posto. Ma in carcere sta morendo: bisogna agire prima che sia troppo tardi”. Asti. Focolaio Covid in carcere: test a tutti i detenuti, sospesi i colloqui La Stampa, 31 dicembre 2021 Il Covid è entrato in carcere ad Asti. Al momento sono una cinquantina i positivi tra detenuti e personale della polizia penitenziaria. Il dato è emerso durante la presentazione del sesto dossier sulle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi, fatto dal garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. I contagi non riguardano solo il carcere di alta sicurezza di Asti ma anche altri istituti piemontesi. Ad Asti tutti detenuti e una parte dei lavoratori sono stati sottoposti a tampone dall’Asl. È scattato il piano di emergenza Covid e sono state attuate le direttive del Sisp e del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. In questo modo i positivi sono stati isolati. Pesa la questione del Green Pass. Mentre è obbligatorio per i poliziotti e i volontari che operano in carcere non lo è per i parenti dei detenuti e gli avvocati. E questo in un momento in cui i contagi sono in crescita può essere un altro veicolo di contagi. Paola Ferlauto, garante comunale dei detenuti, spiega: “Il carcere è un luogo che deve essere protetto. È vero che si applica una normativa ministeriale, ma ritengo sia necessaria una riflessione e prevedere il Green Pass anche per i parenti dei detenuti. Generalmente arrivano da lontano e con la possibilità di venire in contatto con tante persone”. Intanto i colloqui di presenza sono stati sospesi da alcuni giorni come anche i permessi premio. Al posto dei colloqui sono state garantite le videochiamate. Il problema Covid va influire pesantemente sul problema degli organici e del sovraffollamento carcerario. Oltre al Covid ci sono altre questioni che attanagliano il carcere di Quarto. Sono elencate nel dossier regionale. Tra queste la necessità di potenziare la rete informatica e telematica per poter intensificare i colloqui a distanza e garantire da remoto le attività scolastiche. Inoltre i medici chiedono di realizzare un nuovo ambulatorio nel corridoio di servizio e collegamento tra i vari percorsi. Sull’annunciata e contrastata costruzione di un secondo padiglione carcerario ci sarà un aggiornamento martedì 4 gennaio in Comune. Rita Monica Russo, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, i garanti Bruno Mellano (regionale) e Paola Ferlauto (comunale) spiegheranno al sindaco Rasero e all’assessore Cotto, gli sviluppi della vicenda. Brescia. Covid e sovraffollamento preoccupano anche a Canton Mombello giornaledibrescia.it, 31 dicembre 2021 Si conferma critica la situazione del sovraffollamento a Canton Mombello, il carcere di Brescia dove la percentuale sfiora quota 200%, anche alla luce dell’emergenza Covid-19 e della mancanza di restrizioni ufficiali per il contenimento dei contagi. La situazione emergenziale aveva causato, nei mesi scorsi, diverse proteste da parte dei detenuti. Nelle carceri italiane, infatti, non è istituzionalmente previsto l’obbligo di Green pass per utenti e visitatori, né l’utilizzo di mascherina Ffp2, come invece è prescritto in altre situazioni di assembramento. L’attenzione resta alta anche al Nero Fischione, ma fonti interne al carcere bresciano assicurano che non ci sono al momento situazioni di allarme. Ogni persona che fa ingresso in carcere, come da protocollo, è sottoposta a tampone. In caso di positività, il detenuto viene trasferito nel carcere milanese di San Vittore. Fabio Pagani, segretario della Uilpa Polizia penitenziaria, nelle scorse ore ha reso noto che a causa dell’aumento costante di detenuti positivi nel carcere della Spezia è stato istituito un “piano detentivo Covid-19”, sottolineando un vuoto normativo che potrebbe avere preoccupanti conseguenze. “A fronte del dilagare dei contagi da Covid-19 nel Paese, come sempre accade, e della consequenziale crescita sostenuta dei casi di positività nelle carceri, luogo chiuso e sovraffollato e nel quale gli assembramenti sono istituzionalizzati, non è previsto Green Pass per utenza e visitatori, niente mascherine Ffp2 obbligatorie, insomma, niente di niente”. “È inaccettabile - prosegue Pagani: la Polizia penitenziaria, per la quale neppure la legge di bilancio che sta per essere definitivamente varata dalla Camera prevede alcunché di significativo e specifico, non può essere considerata carne da macello”. Desta particolare apprensione infatti la costante crescita del sovraffollamento nelle case circondariali in tutta Italia, “raggiungendo punte del 194% a Brescia Canton Mombello, del 187% a Brindisi e del 165% a Busto Arsizio, solo per fornire alcuni dati. A far le spese di tutto questo - conclude Pagani - sono gli appartenenti del corpo di Polizia penitenziaria e gli altri operatori che, se vorranno proteggersi dal contagio, dovranno acquistare in proprio le mascherine Ffp2 vanificando gli effetti dei rinnovi contrattuali appena ottenuti e togliendo altro all’esiguo stipendio”. Brescia. Nel Def ci sono 50 milioni per il nuovo carcere di Verziano giornaledibrescia.it, 31 dicembre 2021 La strada da percorrere è ancora lunga, ma un passo in avanti è stato fatto. E non è un passo da poco. Il progetto di un nuovo carcere a Verziano può finalmente contare su ulteriori 50 milioni di euro, che vanno ad aggiungersi ai 15 stanziati dall’allora governo Renzi e che sono indicati nel Documento di economia e finanza 2021 del governo Draghi. “È senza dubbio una buona notizia per un intervento fermo da troppo tempo” commenta il sindaco Emilio Del Bono. “È davvero una buona notizia - rilancia l’on. Alfredo Bazoli, parlamentare Pd che siede in Commissione Giustizia alla Camera - perché conferma la volontà dell’esecutivo di dotare finalmente Brescia di strutture carcerarie adeguate. Certo, ora bisognerà monitorare perché si riduca la distanza fra progetto e realizzazione”. Il tema di una dismissione di Canton Mombello non è nuovo. La struttura è stata progettata nel 1880 e aperta nel 1914. Ed è del tutto incompatibile con una esecuzione di pena che punti concretamente al recupero del detenuto alla società. Non bastassero le strutture ultrasecolari, infatti, l’istituto di pena “Nerio Fischione” di Canton Mombello fa i conti con un drammatico e cronico sovraffollamento. I dati del Ministero di Grazia e giustizia aggiornati a fine novembre scorso parlano di 367 detenuti (156 dei quali di origine straniera) a fronte di una capienza formalmente limitata a 189. Meglio - ma comunque oltre i limiti - sta il carcere di Verziano: 101 detenuti (44 le donne) di cui 23 stranieri a fronte di una capienza che il ministero stesso fissa in 71. Il progetto di ampliare il carcere di Verziano si sviluppa lungo due direttrici: da un lato la ristrutturazione dell’attuale struttura, dall’altro la realizzazione di un nuovo padiglione da 400 posti. Il tutto all’interno del perimetro dell’attuale struttura. Sono però previsti anche locali destinati alle attività rieducative e di riavviamento al lavoro, per i quali sarà necessario acquisire aree attualmente non di proprietà del ministero e al di fuori del perimetro attuale. “Dopo la risposta a una mia interrogazione da parte del sottosegretario Sisto - conclude l’on. Bazoli - resto in contatto con le strutture del ministero di Grazia e giustizia e con i Provveditorati alle opere pubbliche chiamati a dar corso al progetto. Il cammino è lungo, ma i fondi appostati nel Def sono la conferma della volontà di percorrelo”. Rovigo. Due nuovi padiglioni nel carcere, i posti raddoppieranno di Francesco Campi Il Gazzettino, 31 dicembre 2021 “Gli spazi detentivi gravano sulla condizione della detenzione e della vita dei detenuti, ma anche di chi lavora in quelle carceri: è per questo che si sta intervenendo e con i fondi del Pnrr è prevista la costruzione di nuovi padiglioni”: con queste parole il ministro della Giustizia Marta Cartabia, rispondendo ad un’interrogazione della senatrice del Movimento 5 stelle Angela Anna Bruna Piarulli, durante il question time al Senato, il 4 novembre scorso, ha riproposto un tema che interessa da vicino anche Rovigo. Perché la casa circondariale del capoluogo polesano dovrebbe veder sorgere addirittura due nuovi padiglioni da 120 posti ciascuno. Altri 240 posti che farebbero, quindi, più che raddoppiare la capienza del carcere entrato in funzione appena cinque anni fa, che attualmente non ha un direttore di ruolo e che, viste le necessità di aree di isolamento Covid, ha una capienza di 208 posti. Circa metà dei quali per detenuti As3, “Alta sorveglianza di terzo livello”, ovvero persone che hanno commesso reati legati alla criminalità organizzata, anche se di minore gravità. Il tutto, mentre sono partiti i lavori che porteranno Rovigo ad ospitare il nuovo istituto di pena per minori del Triveneto, con la dismissione di quello di Treviso. Nel giro di pochi anni, quindi, Rovigo si ritroverebbe una “città per reclusi”, con una proporzione di circa un detenuto e mezzo ogni cento abitanti. Il “minorile” sarà realizzato nell’ex carcere di via Verdi, nonostante le resistenze della città, che a più riprese l’aveva rivendicato come spazio per l’allargamento del Tribunale. Il 28 novembre 2018 il raggruppamento di imprese guidato dalla 3TI Progetti Italia con un’offerta attorno ai 350mila euro si è aggiudicata la progettazione, mentre un anno fa, il 29 dicembre 2020, l’aggregazione temporanea di imprese formata dalle ditte molisane Nidaco Costruzioni, capogruppo, ed Ici Impresa Costruzioni Industriali, si è aggiudicata l’esecuzione dell’opera per un importo di 8.935.985 euro. I lavori sono stati consegnati lo scorso 15 ottobre, come attesta il pannello all’ingresso dell’ex carcere via Mazzini-via Verdi, dal quale si evince anche che la durata prevista dei lavori è di 645 giorni, quasi due anni. Per quanto riguarda, invece, l’ampliamento della nuova casa circondariale, il progetto ancora non è stato definito, ma già giugno il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto in un’audizione alla Commissione Bilancio del Senato ha sottolineato come “il fondo complementare del Pnrr, alla lettera G, prevede 132,9 milioni di euro, dal 2022 al 2026, per la costruzione di padiglioni e il miglioramento di spazi per le strutture penitenziarie. L’Amministrazione penitenziaria aveva individuato, in origine, 8 siti in altrettanti istituti penitenziari dove edificare i padiglioni da 120 posti ciascuno: Rovigo, Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Santa Maria Capua Vetere, Asti e Napoli Secondigliano. Il Dap sta, comunque, rivalutando alcune delle sedi per evitare di incidere su istituti già sovraffollati o evitare di sottrarre alla struttura, con la nuova edificazione, spazi trattamentali”. A Rovigo non sussisterebbe né il primo, né il secondo problema. E, infatti, i progetti vanno avanti. Anche il 21 luglio il ministro Cartabia alla Camera ha sottolineato che Rovigo è uno dei siti interessati dalle nuove realizzazioni. Ribadendolo a novembre. Già ad agosto il segretario della Fp Cgil Davide Benazzo aveva evidenziato le preoccupazioni per i progetti di ampliamento. Ribaditi oggi da Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale Fp Cgil Polizia penitenziaria: “Il carcere di Rovigo sconta la cronica mancanza di un direttore in pianta stabile e di una scarsa generale considerazione, con problemi che si trascinano. Anche dal punto di vista del personale ci sono alcune scoperture. Ma, oltre ai problemi legati agli organici ed all’impatto generale sulla struttura esistente e sulla città dei due nuovi padiglioni, non siamo d’accordo sul principio: non è creando nuove cattedrali nel deserto che si risolvono i problemi di sovraffollamento, ma con una riforma che estenda le pene alternative”. Ivrea (To). Carcere vecchio, senza manutenzione e sovraffollato quotidianocanavese.it, 31 dicembre 2021 “Utilizzare i fondi del Pnrr per rinnovarlo”. Manca anche la videosorveglianza: al momento il sistema è stato attivato solo per il primo e terzo piano, mentre mancano ancora il secondo ed il quarto. Oggi sono 202 i detenuti in una struttura che ne può ospitare al massimo 194. “Se non ora quando? Come non pensare di utilizzare i 132,9 milioni di euro previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e i fondi messi a disposizione dal Governo per far compiere un salto di qualità alla sanità e all’edilizia penitenziaria?”. Con questo doppio interrogativo il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano ha aperto la conferenza stampa di presentazione del Sesto dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi. “La pandemia - ha aggiunto - ha esasperato e aggravato i problemi esistenti. Va riconosciuto alle Istituzioni e all’Amministrazione penitenziaria di aver compiuto qualche passo per porvi rimedio, ma è indispensabile proseguire il potenziamento strutturale e infrastrutturale in modo omogeneo in tutti gli Istituti. Così come è necessario provvedere alla cronica carenza di personale nelle aree educativo-trattamentali, di polizia penitenziaria e di personale amministrativo, financo dei ruoli apicali come direttori e comandanti”. Il documento, elaborato dal garante regionale in collaborazione con il Coordinamento piemontese dei garanti, verrà indirizzato al ministro della Giustizia Marta Cartabia, ai sottosegretari di Stato Francesco Paolo Sisto e Anna Mancina, al capo e al vicecapo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia, al provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Rita Russo, al capodipartimento della Giustizia minorile e di comunità Gemma Tuccillo e al responsabile del Gentro di giustizia minorile del Piemonte Antonio Papalardo. Urgente intervento sui serramenti dell’istituto, anche solo con la completa sostituzione delle guarnizioni delle finestre sia per una miglior coibentazione dei locali ma che per evitare le infiltrazioni di pioggia che spesso allagano le celle maggiormente esposte alle intemperie; adeguata sistemazione campo sportivo al fine di poterlo utilizzare tutto l’anno, e non solo nella bella stagione: indispensabili il rifacimento del fondo, magari con materiale tecnico specifico, e il ripristino della recinzione. Completamento del sistema di videosorveglianza delle aree comuni interne dell’istituto: al momento il sistema è stato attivato solo per il primo e terzo piano, mentre mancano ancora il secondo ed il quarto, dei quattro piani in cui si articola l’edificio detentivo; completo ripensamento e risistemazione logistica delle attività di servizio alla struttura detentiva o di formazione per un utilizzo più funzionale e meno conflittuale degli spazi: da anni si propone di spostare gli uffici dedicati al lavoro del sopravvitto dal terzo piano e piano terra, liberando spazi preziosi per le attività e la socialità dei detenuti. Potenziamento dei locali di formazione e scolastici, con lo sfruttamento migliore degli spazi ed eventualmente anche l’utilizzo di un cortile attiguo alle aule esistenti, anche con la previsione di strutture prefabbricate; completamento ed ulteriore potenziamento dell’area dedicata all’accoglienza dei parenti in visita; prevedere la completa riverniciatura delle recinzioni esterne, non solo con finalità di decoro, ma anche di prevenzione dell’erosione; interventi di consolidamento della copertura dei tetti al fine di evitare le infiltrazioni piovane. Rimini. La visita dell’Ausl in carcere: “Rischio sanitario per i detenuti” corriereromagna.it, 31 dicembre 2021 “Riscontrate condizioni igieniche molto scadenti, con rischio sanitario per i detenuti”. E ancora: “Le criticità si ritengono non risolvibili con interventi di ordinaria manutenzione”. Si tratta di un passaggio della relazione fatta dall’Ausl Romagna dopo l’ultima visita fatta al carcere dei Casetti, in cui la situazione emersa è decisamente allarmante. Tanto che ancora una volta, nella giornata di oggi, alle 10, è previsto un nuovo sopralluogo che vedrà assieme i rappresentanti del Partito radicale, quelli della Camera penale di Rimini e dell’amministrazione comunale, con il sindaco Jamil Sadegholvaad, e la vice Chiara Bellini. Prima sezione fatiscente - Ad accendere i riflettori sulle condizioni in cui versano i detenuti è Ivan Innocenti, del Consiglio generale dei Radicali che fa un’analisi dettagliata: “Nella prima sezione presenti 37 detenuti per 23 posti previsti: la condizione della struttura è risultata ammalorata e insana denotando un degrado molto avanzato dei locali di detenzione e degli impianti”. Inoltre “le celle sono prive di docce e la cucina è nello stesso angusto spazio in cui si trovano a defecare le persone detenute”. Per quanto riguarda le docce comuni “sono in un locale fatiscente e consunto e 3 delle 5 presenti risultano guaste e non funzionanti; viene poi segnalata la continua presenza di scarafaggi e l’unico frigorifero presente nel corridoio della sezione è in condizioni di funzionamento precari”. Garante da nominare - Tra gli obiettivi prefissati c’è una “ordinanza sulla situazione carceraria e soluzione delle problematiche”. Inoltre si richiede “una nomina garante delle persone private delle libertà del comune di Rimini”, e anche il “rinnovo della convenzione per le esecuzioni delle pene alternative, oltre a rendere operativo l’istituto Consiglio di aiuto sociale”. L’ultima visita fatta in agosto aveva fatto emergere, ancora una volta delle “condizioni inumane nelle zone in condizioni peggiori”. E come ha sottolineato il presidente della Camera penale di Rimini, Alessandro Sarti, “il modello di esecuzione della pena va profondamente riformato”, visto che più della metà dei carcerati è di origine straniera, i tossicodipendenti rappresentano oltre il 40 per cento del totale. L’avvocato, che oggi sarà presente al sopralluogo, ha ribadito: “Pagano sempre gli stessi, ci sono perfino malati psichici per i quali non è stata trovata adeguata collocazione”. Bologna. “Così aiutiamo i detenuti a fine pena a reinserirsi nella società e nel lavoro” di Massimo Selleri Il Resto del Carlino, 31 dicembre 2021 Una nuova casa per l’esecuzione penale esterna. Saltati gli ultimi ostacoli burocratici le porte dovrebbero aprirsi a gennaio in zona Corticella, vicino alla Casa della Carità. Il progetto ‘L’accoglienza è la vera sfida’ nasce per la volontà del cardinale Matteo Zuppi di offrire un sostegno ai detenuti che affrontano l’ultima parte della pena, ed è affidato al consorzio gruppo Ceis (Centro di Solidarietà). “Chi esce dal carcere - spiega padre Giovanni Mengoli, presidente del consorzio e responsabile della comunità - rischia di tornare a delinquere in tempi brevi perché non ha la formazione necessaria per inserirsi rapidamente nel mondo del lavoro. Le statistiche dicono che chi non usufruisce di pene alternative ha una recidiva di circa il 90%. Per questo vogliamo offrire un percorso e uno spazio per accompagnare la persona a un pieno reinserimento”. Il progetto nasce nel 2017 con i fondi dell’otto per mille messi a disposizione dalla Conferenza episcopale italiana. Al Villaggio del Fanciullo “è stata allestita una struttura per ospitare quattro detenuti. Grazie alla collaborazione con enti, istituzioni e privati si sono attivati tirocini o corsi di formazione professionale. E oggi c’è già chi ha un’occupazione stabile”. La costruzione della nuova casa di Corticella, che potrà accogliere otto persone, è stata finanziata dalla parrocchia dei Santi Savino e Silverio grazie a una donazione. “Mentre l’accoglienza - spiega padre Giovanni - è finanziata dalla diocesi attraverso i fondi Faac. Ma uno dei traguardi da raggiungere è individuare fondi pubblici e privati per arrivare a un suo sostentamento che responsabilizzi tutti. Qualche donazione privata, come quella di Villa Torchi, è già arrivata e dimostra che il tema è sentito”. Il costo complessivo della struttura, stima padre Giovanni, “è di circa 100mila euro all’anno. Va detto che non si tratta di una semplice assistenza: l’obiettivo è far raggiungere lentamente l’autonomia agli ospiti. Significa che chi risiede in questa casa ne contribuisce alle spese appena ne ha la possibilità”. Anche a causa di alcuni fatti di cronaca, oggi si vive un certo risentimento verso le pene alternative. “In realtà - afferma padre Giovanni - sono quelle che consentono una maggiore sicurezza per cittadini e detenuti. Come detto, la percentuale di chi, finita una pena, torna a delinquere, è molto alta. Questo perché in carcere non è possibile una formazione mirata al singolo. Per usufruire dell’affidamento ai servizi sociali è necessario un progetto ad hoc. E la persona ‘in prova’ deve rispettare obblighi ben precisi per non tornare in carcere. Ad esempio non può uscire dalla sua residenza dalle 7 di sera alle 7 di mattina, non può far uso di sostanze stupefacenti, ed è sottoposto a controlli periodici per il rispetto di queste condizioni fino alla fine della pena”. Cremona. Fragili e detenuti: l’esperienza di “Dolce e salato” di Francesca Morandi La Provincia di Cremona, 31 dicembre 2021 Don Roberto Musa, cappellano del carcere di Cà del Ferro: “Qui nessuno viene lasciato indietro”. Farina, lievito, zucchero, sale, margarina. Soprattutto, passione, amore, entusiasmo. È da questo straordinario impasto che nascono i prodotti sfornati da ‘Dolce e salato’, pasticceria - panetteria della cooperativa ‘Fratelli Tutti’, inaugurata in via Buoso da Dovara il 13 novembre scorso, Sant’Omobono. Un negozio laboratorio inedito, perché qui imparano il mestiere i ragazzi disabili e i detenuti che hanno imboccato un percorso di giustizia ripartiva. Don Roberto Musa, cappellano del carcere di Cà del Ferro, è presidente di “Fratelli Tutti”; vice è Maria Pia Rosani, lei presidente della onlus Futura. Il bancone pieno di bontà, alla parete la frase di San Francesco d’Assisi: “Chi lavora con le mani, è un operaio. Chi lavora con le mani e la testa, è un artigiano. Chi lavora con le mani, la testa e il cuore, è un artista”. “Fratelli Tutti - spiega don Roberto - è stata fondata all’inizio dell’anno, ispirandoci un po’ alle parole di Papa Francesco nell’Enciclica dove in diversi punti parla di una realtà sia economica che sociale che sia inclusiva. Il Papa raccomanda che nessuno venga lasciato indietro, che nessuno venga dimenticato. E, allora, abbiamo pensato a due realtà che, purtroppo, spesso risultano un po’ ai margini della nostra società: persone che stanno facendo o hanno appena terminato un’esperienza di detenzione e persone con disabilità. Abbiamo pensato che le persone che stanno vivendo un’esperienza di detenzione, potessero essere una risorsa utile a sostegno delle altre realtà che potessero includere persone con disabilità. Da qui l’idea di partire con la panetteria-pasticceria”. A ‘Dolce e Salato’ lavora un detenuto in affidamento, la settimana prossima ne arriveranno altri due. “C’è una grande collaborazione con la dottoressa Padula, direttrice del carcere, e gli educatori”. Una decina, invece, sono i ragazzi con fragilità, età media trent’anni. Alcuni stanno facendo un percorso di tirocinio, altri sono già assunti. Nel laboratorio, ad insegnare ai ragazzi ci sono Giancarlo, maestro pasticcere assunto, Cesare, Angelo e Costantino, “tre bravissimi pasticceri in pensione che si sono rimessi in gioco. Tutta la biscotteria la fanno i ragazzi sotto la loro guida”, prosegue il don. Un mese intenso, dicembre. “C’è stata una buona risposta da parte di tante persone - spiega don Roberto -. Quello che a noi serve, adesso, è potenziare ancora di più la possibilità di collaborazione con altre realtà, producendo tanti biscotti, il pane, i pasticcini magari per bar, mense. Il nostro interesse non è produrre utile, però più lavoriamo, più possiamo dare. Alcuni stanno facendo un percorso di tirocinio, altri sono già assunti. I numeri non sono grandissimi, ma cerchiamo di coinvolgere il più possibile in questo progetto. Con Futura c’è una bella e attivissima collaborazione, uno scambio di volontari, perché nei giorni frenetici del Natale abbiamo avuto bisogno di volontari”. Due le commesse assunte: Monnalisa e Noemi. “A chi viene qui, chiediamo sensibilità e consapevolezza di lavorare con persone piene di entusiasmo, con voglia di fare”. Come Simone, 32 anni che in laboratorio sta pesando e confezionando i biscotti. “Sembra un gioielliere”, dice don Roberto. “In una pasticceria di Casalbuttano avevo già fatto tirocinio, qui imparo da pasticcere”. E come Valentina, 30 anni, alle prese con farina e margarina, mentre il maestro Giancarlo inforna i cannoncini. Valentina ha fatto della sua passione un lavoro. “Ho fatto formazione anche con il maestro Iginio Massari”. Lei fonde arte e pasticceria. “Io sono la terza”, dice, indicando la terza frase di San Francesco. Nel laboratorio si sperimenta. La settimana dopo l’Epifania, si creeranno biscotti inerenti la Pasqua e la linea per la primavera. “La nostra intenzione, se il commercio prende piede, è trasformare, come abbiamo già fatto con altri, il contratto di formazione lavoro in contratto di assunzione in modo tale che abbiano un lavoro - prosegue don Roberto. Poi, sarebbe il massimo se ci ‘rubassero’ i ragazzi: vuol dire che sono bravi. Se restano qui ci fa piacere, ma vuol dire che abbiamo colto nel segno, che il percorso formativo è stato fatto in maniera adeguata. E così anche per i detenuti. Sono persone che vengono, lavorano, si portano a casa il loro stipendio, imparano un mestiere, però, inserite in questa dimensione, danno un contributo a costruire una realtà diversa. È bello pensare che due realtà che vengono considerate un problema, fuse insieme diventino una risorsa”. Pizze, pane e focacce, bignè torte. E per specialità, i pasticciotti pugliesi con crema pasticcera, nutella, crema e amarena. Si fanno solo qui, a ‘Dolce e salato’. Lucca. Percorsi alternativi al carcere, coinvolti 946 adulti di Vincenzo Brunelli luccaindiretta.it, 31 dicembre 2021 Sono 791 uomini e 156 donne. In aumento la fascia d’età tra i 18 e i 24 anni. A fronte di circa 70 detenuti presenti attualmente nel carcere cittadino ci sono 946 persone, a lunedì 20 dicembre, prese in carico dall’Uepe (Uffici di esecuzione penale esterna) per quanto riguarda il territorio di competenza del tribunale di Lucca. Secondo gli ultimi dati pubblicati dal ministero della giustizia si tratterebbe di 791 uomini e 156 donne, che seguono percorsi alternativi alla detenzione in carcere. Dall’inizio dell’anno ne sono state prese in carico circa mille e 600 in tutta la lucchesia di cui ne sarebbero rimaste circa 950 che tuttora usufruiscono dei servizi alternativi. Persone maggiorenni, adulti, perché i minori seguono percorsi specifici. Il principale campo di intervento degli uffici di esecuzione penale esterna è quello relativo all’esecuzione delle misure e sanzioni di comunità; gli Uepe elaborano e propongono alla magistratura il programma di trattamento da applicare e ne verificano la corretta esecuzione da parte degli ammessi a tali sanzioni e misure. I compiti ad essi attributi sono indicati dall’articolo 72 della legge 26 luglio 1975 numero 354 e dalle altre leggi in materia di esecuzione penale si esplicano in quattro aree di intervento: attività di indagine sulla situazione individuale e socio-familiare nei confronti dei soggetti che chiedono di essere ammessi alle misure alternative alla detenzione e alla messa alla prova; attività di elaborazione e verifica dei programmi trattamentali nelle misure e sanzioni di comunità; svolgimento delle inchieste per l’applicazione, modifica, proroga o revoca delle misure di sicurezza, su richiesta della magistratura di sorveglianza; esecuzione del lavoro di pubblica utilità e delle sanzioni sostitutive della detenzione; attività di consulenza agli istituti penitenziari per favorire il buon esito del trattamento penitenziario. Nello svolgimento di tali attività, gli Uepe operano secondo una logica di intervento di prossimità e di presenza nel territorio, a supporto delle comunità locali e in stretta sinergia con gli enti locali, le associazioni di volontariato, le cooperative sociali e le altre agenzie pubbliche e del privato sociale presenti nel territorio, per realizzare l’azione di reinserimento ed inclusione sociale e con le forze di polizia, per l’azione di contrasto della criminalità e di tutela della sicurezza pubblica. Si tratta per lo più di uomini e di italiani che statisticamente per la maggior parte sta usufruendo di: affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, e semilibertà. Seguono poi tutti quelli che hanno beneficiato della messa alla prova, libertà vigilata e lavoro di pubblica utilità, tra cui il numero maggiore per violazione del codice della strada e poi della normativa sugli stupefacenti. Sono più italiani che stranieri e i Paesi di provenienza con i numeri più alti sono nell’ordine: Marocco, Albania, Romania, Tunisia, Nigeria, Senegal e Cina. Per quanto riguarda l’età, la fascia compresa tra i 25 e i 49 anni è quella statisticamente più rilevante. Spicca però il dato in aumento, rispetto al passato, della fascia d’età compresa tra i 18 e i 24 anni, considerati dal ministero giovani adulti e che possono usufruire anche di servizi aggiuntivi rispetto agli adulti, come avviene per i minori. Il mondo penale e penitenziario è da sempre focalizzato sulla pena detentiva, tant’è che il primo pensiero che spesso viene alla mente in ognuno di noi quando sentiamo parlare di esecuzione penale è il carcere, con i suoi sistemi di sicurezza. In realtà, l’esecuzione penale esterna non può essere subordinata all’istituzione carceraria, come qualcosa che viene dopo la pena detentiva. A seguito di recenti impianti normativi, soprattutto di stampo internazionale, ci invitano a una riconsiderazione della sanzione penale da intendersi come community sanction, ossia una misura da vivere nella comunità e con la comunità, al fine di raggiungere l’obiettivo rieducativo sancito dalla Costituzione. Livorno. Un corso di cucina per i detenuti quilivorno.it, 31 dicembre 2021 Progetto del Rotary Club Mascagni di Livorno in collaborazione con l’associazione italiana cuochi. Un corso di cucina per i detenuti. Questa è l’idea nata dal Rotary Club Mascagni di Livorno, rapidamente trasformata in un progetto concreto nel quale sono stati coinvolti il dottor Carlo Mazzerbo, direttore della casa circondariale “Le Sughere”, e la sua collaboratrice, la dottoressa Marcella Gori. “La nostra iniziativa - spiega Vito Vannucci, presidente del Rotary - propone questo corso di formazione di cucina, per fornire ai partecipanti un attestato di frequenza spendibile fuori della struttura carceraria, col preciso scopo di agevolare un eventuale inserimento nel mondo del lavoro”. Un progetto divenuto realtà grazie alla collaborazione con l’associazione italiana cuochi (A.I.C.) che si è resa disponibile ad effettuare un corso di panificazione e pizza all’interno della struttura carceraria usufruendo di una delle due cucine messe a disposizione. Un percorso strutturato in otto lezioni settimanali della durata di quattro ore ciascuna, al quale potranno partecipare fino ad un massimo di 10 detenuti dell’area media sicurezza, selezionati dalla struttura medesima. Le prime quattro lezioni si svolgeranno nei giorni 17, 24, 31 gennaio (14.30 - 18.30), e il 9 febbraio (14-18). I partecipanti indosseranno dei grembiuli speciali, con impressi i loghi del Rotary Club Mascagni e dell’Associazione cuochi livornesi. Firenze. Appello per intitolare uno spazio pubblico a Sandro Margara Ristretti Orizzonti, 31 dicembre 2021 L’Archivio Sandro Margara, costituito da Fondazione Giovanni Michelucci, Associazione Volontariato Penitenziario e La Società della ragione onlus, promuove un appello alle autorità cittadine affinché la figura e l’impegno di Sandro Margara, insigne magistrato, tra i padri della Riforma penitenziaria, vengano riconosciuti mediante l’intitolazione di un significativo luogo pubblico nella Città di Firenze. Appello - Chiediamo che a Sandro Margara, insigne Magistrato di Sorveglianza e tra i padri della Riforma penitenziaria, sia intitolato uno spazio pubblico della Città di Firenze Sandro Margara è stato Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Direttore generale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, Presidente della Fondazione Giovanni Michelucci e, infine, Garante della Regione Toscana per la tutela dei diritti delle persone private della libertà personale. La sua azione per ricondurre il sistema dell’esecuzione penale nell’alveo della Costituzione e il suo forte impulso al rafforzamento delle misure alternative alla detenzione hanno rappresentato un punto di riferimento per il movimento della Riforma penitenziaria. Le Murate e gli altri Istituti carcerari fiorentini, periodicamente oggetto della protesta dei detenuti negli anni Sessanta e Settanta, videro più volte l’impegno di Sandro Margara, volto al dialogo ed al rispetto dei diritti umani e civili dei detenuti, dare un forte impulso al cambiamento delle condizioni di detenzione nella ricerca di una maggiore aderenza ai principi costituzionali della pena e di un diverso rapporto con la città. Questo suo impegno continuo, lucido, competente, sempre animato dal senso di giustizia e di umanità, è testimoniato sino agli anni più recenti dall’amplissima rete di relazioni intessute con numerosissime istituzioni pubbliche, associazioni operanti nel sociale, nel volontariato, e sempre tese al dialogo, alla ricerca di opportunità autentiche di reinserimento sociale, capaci di promuovere l’incontro tra il carcere e mondi come la scuola, l’università, il lavoro. L’intitolazione a Sandro Margara di un luogo pubblico nella Città di Firenze, caratterizzato come luogo rappresentativo della sua azione e “crocevia” d’incontro nella città tra giustizia e senso di umanità, appare un giusto riconoscimento per l’alto valore del suo impegno ed anche un segno per rafforzare nella memoria collettiva l’importanza del recupero delle persone e dell’inclusione in una visione della giustizia ispirata al principio di umanità e di una pena costituzionalmente orientata. Il bel processo di rigenerazione urbana degli spazi e dei cortili del “Complesso delle Murate”, compiuto dal Comune di Firenze in anni recenti, ha aperto un interessante percorso di riflessione sui luoghi della memoria, oltre che sull’esigenza di ripensare l’istituzione penitenziaria con capacità prospettica e riformatrice, processo che troverebbe degna prosecuzione con l’intitolazione di uno spazio pubblico cittadino a Sandro Margara. Promotori: Saverio Migliori, Grazia Zuffa, Franco Corleone, Corrado Marcetti, Ignazio Becchi, Patrizia Meringolo, Susanna Rollino, Stefano Anastasia, Marcello Bortolato, Silvia Botti, Carla Cappelli, Beniamino Deidda, Antonietta Fiorillo, Francesco Maisto, Mariella Orsi, Katia Poneti, Massimiliano Signorini, Antonio Vallini. È possibile aderire all’appello fino al 31 gennaio 2022 tramite il link: https://bit.ly/appellomargara “Non tutti sanno”, il Covid in carcere raccontato da dentro di Roberta Barbi vaticannews.va, 31 dicembre 2021 Il nuovo libro di suor Emma Zordan, religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo e da otto anni volontaria nell’istituto romano di Rebibbia, raccoglie le paure e le emozioni dei reclusi durante la pandemia. Edito dalla Libreria Editrice Vaticana, vanta la prefazione del cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’Aquila. “Non tutti sanno che chi è in carcere può cambiare e provare dolore per le vittime del reato che ha commesso; non tutti sanno che la solitudine è il sentimento costante che gli ospiti provano, dovuto alla lontananza dalla famiglia specie ora in tempo di Covid; non tutti sanno che l’indifferenza della società nei confronti di chi è detenuto può uccidere più di ogni altra cosa; non tutti sanno che in carcere ci sono anche persone innocenti e persone meritevoli che potrebbero avere dei benefici che puntualmente non ottengono”. È un fiume in piena questa piccola grande religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo, suor Emma Zordan, da otto anni volontaria nel carcere romano di Rebibbia dove organizza, tra le altre cose, laboratori di scrittura per i detenuti, i cui lavori vengono poi raccolti e pubblicati affinché anche fuori, finalmente, si sappia davvero come si vive lì dentro. L’ultimo si intitola: “Non tutti sanno”, racconta la pandemia all’epoca del primo lockdown e la prefazione è stata scritta dal cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’Aquila grande amico dei detenuti. L’indifferenza uccide più del pregiudizio - Raccontare il carcere attraverso la voce di chi lo vive, quotidianamente, sulla propria pelle, è fondamentale secondo la religiosa: “Gli scritti delle persone ospiti mettono in luce la realtà carceraria dall’interno e servono ad abbattere i pregiudizi e soprattutto l’indifferenza della società nei loro confronti”. Un’indifferenza che può uccidere: “Gli ospiti sanno, quando vengono reinseriti nel lavoro, che nei loro confronti c’è tanta diffidenza, che il carcere è un marchio che non riescono a levarsi di dosso, che li accompagnerà sempre, e questo è mortificante. Importante è invece riscoprire l’umanità di queste persone, considerarle, appunto, persone”. Per questo, ci anticipa suor Emma, la prossima pubblicazione che curerà avrà per tema proprio l’indifferenza nei confronti dei reclusi. Il carcere al tempo del Covid: un abbandono totale - Nel libro si racconta come si vive in carcere al tempo del Covid, la paura, la solitudine, a partire dal primo lockdown, ormai quasi due anni fa: “Non riuscimmo a spiegare a chi stava dentro cosa stava succedendo fuori perché non ci è stato più consentito di entrare a causa dell’emergenza sanitaria - ricorda suor Emma - scrivevo ad alcuni, ricevevo risposte, ma era tanta l’angoscia di non poter stare vicino a queste persone che hanno tanto bisogno, mi sentivo a disagio così lontana, il disagio di chi si sente fuori da casa propria”. Oggi il lockdown è lontano, ma purtroppo non la pandemia, che è tornata a colpire forte in Italia, tanto è vero che i contagi salgono ovunque, istituti di pena compresi: “Il carcere ancora oggi è abbandonato a se stesso, i progetti sono fermi, i volontari pochissimi, e questo ha un impatto molto forte sui sentimenti dei reclusi, trasforma tutto in passività, dolore, rabbia, sofferenza, mancanza di desiderio di futuro. Il tempo sembra non scorrere più”, è la testimonianza della religiosa. Il periodo di Natale: solitudine e senso di colpa - “Il carcere è sempre brutto, ma se possibile durante le feste ancora di più - spiega suor Emma - la distanza dalla famiglia, il ricordo dei Natali passati con i propri cari acuisce il senso di colpa per gli errori commessi. Non riescono a perdonarsi”. La religiosa anche quest’anno ha organizzato per gli ospiti una festa con dolci e regali: “Ma è molto di più quello che ho ricevuto io da loro, ho imparato la pazienza, la resilienza, la solidarietà e il senso dell’umorismo, che nonostante la situazione in cui vivono, è una loro caratteristica”. “Oggi il carcere è casa mia” - Suor Emma va con la memoria a otto anni fa, al giorno in cui per la prima volta ha messo piede in un carcere: “Anch’io avevo i miei pregiudizi che erano quelli della gente comune, mi esprimevo per stereotipi ben poco evangelici - racconta - poi quando sono entrata tra quelle mura mi si è stretto il cuore. Pian piano ci siamo avvicinati e ho iniziato ad ascoltarli. Oggi queste persone, con cui passo la maggior parte del mio tempo, per me sono fratelli, amici e compagni di viaggio. Il carcere è casa mia: entrarci mi dona gioia e tanta pace”. E ora questo lo sanno tutti. Quando la politica fugge dalla realtà di Stefano Cappellini La Repubblica, 31 dicembre 2021 La pandemia ha avuto tra le sue conseguenze collaterali, non però meno dannose, l’esasperazione dei difetti di una classe politica molto abituata a rimandare e poco a decidere. E l’obbligo vaccinale è una possibile sveglia. C’è un passaggio dell’intervista rilasciata ieri a Repubblica da Enrico Letta che va letto nel suo pieno significato: “Il 2022 non può essere un anno elettorale”. Il segretario del Pd non intende solo che va esclusa ogni tentazione di tornare al voto prima della scadenza naturale della legislatura. Vuole anche diffidare quanti coltivano l’idea, non sono pochi, che i mesi successivi all’elezione del nuovo capo dello Stato si trasformino in una campagna elettorale permanente, con i partiti della maggioranza non più impegnati a governare bensì solo a preparare la rincorsa alle urne del 2023. Si tratta di un rischio concreto. Anche per questo, probabilmente, e non solo per l’emergenza sanitaria, Letta ha scelto di lanciare la proposta dell’obbligo vaccinale. Necessaria per affrontare la nuova fase della lotta alla pandemia quanto per ricordare alla maggioranza che al Paese serve un governo nel pieno delle sue funzioni, capace di prendere decisioni forti e non scontate. Sempre non a caso Letta ha aggiunto che Draghi, quale che sia il suo destino personale, riesca cioè o meno ad andare al Quirinale, deve essere “tutelato”. L’elezione di un capo dello Stato a larga maggioranza, coerente con quella che sostiene l’esecutivo, è una condizione necessaria ma non sufficiente a garantire che il Paese abbia la guida che occorre in un momento simile. Si respira tra i partiti un’aria di rompete le righe, ultimi giorni di Pompei, verrebbe da dire, non fosse che non è il tempo più adatto per metafore apocalittiche. L’impressione - fondata - è che qualcuno speri di cogliere in un colpo solo l’occasione di frustrare l’ambizione quirinalizia di Draghi e costringerlo a restare in una versione depotenziata, azzoppato nella corsa al Colle e dunque funzionale solo a garantire una sorta di ordinaria amministrazione, un disbrigo degli affari correnti, però tra veti, slogan e impuntature elettorali. La paralisi, in una parola. Intendiamoci, non si tratta di alimentare la vulgata - sbagliata per più ragioni - che vuole Draghi buono e i partiti cattivi. È più che lecito, è auspicabile che le forze politiche abbiano voglia e interesse a chiudere la parentesi eccezionale dell’unità nazionale e a tornare a una competizione tra i poli che non necessiti più di uscire dallo stallo assoluto chiamando a Palazzo Chigi un avvocato pronto a ogni formula né un super-tecnico che commissari i partiti. Però questa strada non può passare dal sacrificio del vitello buono e quindi dalla rimozione, in senso psicanalitico prima ancora che politico, della necessità di continuare a governare il Paese mentre si affilano le armi per la legislatura successiva. L’obbligo vaccinale è una possibile sveglia. La pandemia ha avuto tra le sue conseguenze collaterali, non però meno dannose, l’esasperazione dei difetti di una classe politica molto abituata a rimandare e poco a decidere, attenta al (presunto) consenso di giornata e perciò sempre tentata dal rilancio velleitario o dal benaltrismo. Veniamo da mesi in cui è stata costantemente spostata l’asticella dell’irresponsabilità, con alcuni partiti che hanno fatto la guerra a qualsiasi misura anti-Covid, dal lockdown alle mascherine (incredibile solo a dirsi), dal Green Pass semplice a quello rafforzato, al punto da lasciare dedurre all’opinione pubblica che alcuni leader non credono all’esistenza di una pandemia o, più verosimile, non hanno mai una ricetta concreta, solo strepiti, garbugli, invettive da bar. Se chiudi, devi aprire, se apri, devi chiudere, se introduci il Green Pass è perché non hai coraggio di fare l’obbligo vaccinale, ma se chiedi l’obbligo vaccinale non va bene comunque (quest’ultimo esempio non è generico, è esattamente ciò che ha fatto Fratelli d’Italia nelle ultime ore). Per tornare alla politica non basta togliere di mezzo l’ingombrante attuale presidente del Consiglio trovando altrove il nuovo capo dello Stato. Per tornare alla politica servirebbe la politica, quella che da tempo fa più difetto alla gran parte dei partiti italiani. Il lavoro povero di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 31 dicembre 2021 Il 2020 è stato l’anno della sovrapposizione della crisi pandemica e di quella economico- sociale, dell’aumento della mortalità e del crollo dell’occupazione. Il 2021 si configura come l’anno della risalita, con l’arrivo dei vaccini, e del recupero di gran parte dell’occupazione persa. Le statistiche ci dicono che giovani, donne e stranieri sono stati i soggetti più colpiti dal punto di vista del lavoro. Ma i giovani hanno superato i tassi di occupazione pre-pandemia, le donne e gli stranieri no. Il punto minimo del livello di occupazione è stato raggiunto nel mese di gennaio 2021. Il crollo è stato pesante. Gli occupati erano diminuiti di 878 mila unità in 12 mesi. Ma nei primi 10 mesi del 2021 si recuperano 625 mila occupati. Il recupero del 2021 ha riguardato ambedue i sessi. Ma le donne devono ancora recuperare in proporzione più degli uomini, sono l’1,2% di occupate in meno di gennaio 2020 contro lo 0,9% degli occupati. Anche i giovani da 25 a 34 anni sono stati colpiti dalla crisi pandemica. Il loro tasso di occupazione era passato dal 62,8% al 59,6% nel gennaio 2021. Ma a ottobre 2021 il tasso di occupazione risale, superando quello pre-pandemia. Anche se, va detto, rimane una distanza significativa di addirittura 6,6 punti di tasso di occupazione dal lontano 2007, mai più recuperata negli anni. E il recupero riguarda molto di più la componente maschile. Non vanno sottovalutati i 535 mila disoccupati da 50 a 64 anni. È un numero elevato per un segmento di popolazione particolarmente vulnerabile a cui prestare attenzione. Il tasso di occupazione delle persone di questa fascia di età non è tornato ai livelli pre-pandemia. La maggiore caduta di occupazione nel 2020 è avvenuta in proporzione tra gli indipendenti e i dipendenti con contratti a tempo determinato. A ottobre 2021 non si sono ancora recuperati i livelli di occupazione dei lavoratori indipendenti. 347 mila in meno rispetto a gennaio 2020. Un crollo che penalizza soprattutto le donne, che sono più frequentemente a capo di imprese molto piccole e più vulnerabili. Nei periodi di crisi gli occupati a tempo determinato sono i primi a diminuire. Ma nella ripresa sono anche i primi a crescere, perché le imprese in una prima fase di uscita dalla crisi preferiscono non rischiare con l’assunzione di dipendenti a tempo indeterminato. E così è stato anche in questi due anni. A ottobre 2021 ci ritroviamo con 100 mila occupati a tempo determinato in più rispetto a gennaio 2020. Dinamica che contribuisce a spiegare il recupero dell’occupazione giovanile, particolarmente caratterizzata da precarietà. Analizzare i dati non destagionalizzati del III trimestre del 2021, fa emergere elementi di interesse non presenti nei dati mensili commentati sinora. Intanto va detto che la situazione più critica tra le donne riguarda le straniere. Nel terzo trimestre 2021 le donne italiane hanno raggiunto lo stesso livello di tasso di occupazione del terzo trimestre 2019, anzi un +0,1. Le straniere sono sotto di 3,5 punti. Recuperano più lentamente, dopo essere state colpite maggiormente, perché penalizzate dal fatto di essere concentrate nel settore dei servizi alle famiglie. La loro situazione è più critica anche degli uomini stranieri che, essendo inseriti molto nell’edilizia, nella manifattura, hanno potuto assorbire meglio il contraccolpo della crisi. Stiamo recuperando, non c’è dubbio nel 2021. Ma attenzione: mai come ora il nostro futuro dipenderà da come indirizzeremo le nostre risorse. Non possiamo permetterci una crescita senza inclusione. E soprattutto abbiamo bisogno della crescita di occupazione strutturale, che riduca le enormi disuguaglianze territoriali, di genere, e generazione nel nostro mercato del lavoro. *Direttora centrale dell’Istat Gli ex bambini invisibili: “Svizzera, ora chiedici scusa” di Raffaele Oriani La Repubblica, 31 dicembre 2021 Erano figli dei lavoratori emigrati italiani. Considerati per anni clandestini, vivevano nascosti in casa per paura che i vicini li denunciassero. Ma oggi, ormai adulti, hanno deciso di farsi sentire. Siamo zucconi. Ci riesce difficile capire, e quando capiamo è quasi impossibile sentire che i migranti siamo noi. In America tanto tempo fa. In Svizzera appena l’altro ieri. È svizzero Max Frisch, lo scrittore che negli anni Sessanta trova la formula giusta: “Volevamo braccia, sono arrivati esseri umani”. Ed è italiano Egidio Stigliano, che oggi ha sessant’anni, si siede in un caffè di Zurigo, ordina l’acqua tonica in una delle sue due lingue e comincia a raccontare nell’altra: “Mamma e papà arrivarono dalla Basilicata il primo marzo 1963, faceva freddo e non avevano dove dormire”. Stigliano è quello che si dice un uomo arrivato, fa il neuropedagogo in una clinica di San Gallo, è console onorario nel principato del Liechtenstein. Ma è soprattutto un bambino, un ex bambino che ha una storia da raccontare: “Papà faceva il muratore, la mamma era operaia in fabbrica, alla Svizzera servivano lavoratori che alimentassero il boom, non famiglie che iniziassero una nuova vita”. Tra i 500 mila immigrati italiani che in quegli anni vivono in Svizzera, Egidio non è contemplato: “I lavoratori stagionali non avevano diritto a portare con sé i figli, e così tanti di noi vissero per anni in assoluta clandestinità: quando la mattina mamma e papà andavano a lavorare, io sgusciavo dalla porta ma invece di andare a scuola mi inoltravo da solo nel bosco”. In questo caffè dove tutto sa di benessere svizzero, Egidio tira su le maniche del suo bel maglione e mostra l’avambraccio leggermente storto: “Un giorno mi ruppi il braccio, ma non si poteva andare in ospedale: un medico mi visitò di nascosto, anche l’ingessatura doveva essere clandestina”. Sono storie di tanti anni fa. Ma in Svizzera si continuano a raccontare a mezza voce e a dimenticare subito dopo: lo scorso primo ottobre, un gruppo di ex bambini clandestini ha fondato a Zurigo l’associazione Tesoro. Dopo tanto non detto, vogliono che il Paese in cui stanno passando la vita riconosca la brutalità dello statuto dello stagionale che fino al 2002 ha diviso genitori e figli: “Non è più tempo di testimonianze, oggi chiediamo le scuse ufficiali della Confederazione e un risarcimento simbolico per questa ingiustizia” dice Paola De Martin, docente all’Accademia delle Arti di Zurigo e presidente dell’associazione delle ex famiglie clandestine. Lontano dalle finestre - Non è ancora acqua passata, sono ferite sempre vive. Marina Frigerio è nata a Lugano e vive a Berna. Da psicoterapeuta ha una lunga consuetudine con i figli degli stagionali: “Fino agli anni Novanta ho continuato a ricevere ragazzini in difficoltà di cui era molto difficile ricostruire la storia personale e famigliare”. Una bambina di otto anni aveva paura di tutto, e la mamma non sapeva che dire: “La incontravo nel consultorio cantonale, e la mamma era talmente reticente che il primo sospetto fu che la piccola fosse vittima di abusi in famiglia”. Poi Frigerio cambia ambulatorio e comincia a ricevere nella sede del sindacato italiano: “Lontano dai locali dell’autorità costituita, la mamma cominciò a parlare e a raccontarmi che la piccola era stata chiusa per anni in casa con la consegna di non far rumore e di non avvicinarsi alle finestre perché la polizia avrebbe potuto portarla via: parlava pianissimo, aveva paura della sua stessa voce”. Un’altra bambina oggi ha settant’anni, e ricorda bene i mesi passati da sola in mansarda muovendosi in punta di piedi per non fare scricchiolare il parquet: “Come figlia di stagionali avevo diritto a stare qui per sei mesi, poi sarei dovuta tornare in Italia” racconta Catia Porri, che vive a Zurigo ed è tra le più attive promotrici di Tesoro. “Per tenermi con loro, i miei genitori mi fecero rientrare in Svizzera nel bagagliaio dell’auto, e mi nascosero per i successivi sei mesi”. Così per tre anni: sei mesi di vita normale, e sei mesi di confino in attesa che papà e mamma tornassero dal lavoro. Catia Porri è lapidaria: “Eravamo in migliaia a vivere così, e il boom economico svizzero si è nutrito anche di questa sofferenza”. È passato tanto tempo, non tutti l’hanno retto nello stesso modo: “Negli anni Ottanta e Novanta le piazze dell’eroina di Zurigo parlavano spesso italiano” spiega Marina Frigerio. “Gli spacciatori erano legati alla mafia, ma tra i tossici si contavano soprattutto tanti figli di stagionali segnati da quegli anni di paura e isolamento forzato”. In attesa di giustizia - Nel Novecento la Svizzera ha avuto un rapporto difficile con l’infanzia: in questi ultimi anni sono stati riconosciuti ufficialmente i drammi dei bambini nomadi sottratti ai genitori, e dei bambini di famiglie disagiate dati in affido in condizioni di semischiavitù. L’associazione Tesoro vorrebbe che le prossime scuse andassero alle famiglie dei migranti stagionali: “Nella mia vita c’è un buco di diciotto mesi in cui la memoria famigliare mi vuole a Zurigo, ma le carte ufficiali mi danno ancora in Italia” ci racconta Paola De Martin. “Avevo tre anni, le foto di quel periodo mi ritraggono spesso in interni con le tapparelle abbassate, ma nonostante sia trascorso mezzo secolo se chiedo lumi a mia mamma lei si irrigidisce impaurita”. Alla mamma mancano le parole, ma è fiera che la figlia abbia fondato un’associazione per fare chiarezza e ottenere giustizia per lei e il padre che non c’è più: “Sono convinta che le scuse della Confederazione la pacificherebbero e le permetterebbero di parlarmi finalmente di quel periodo che la tormenta ancora”. Tre anni fa, De Martin pubblica un’accorata lettera aperta all’allora ministra della Giustizia, Simonetta Sommaruga. Nella sua risposta, Sommaruga definisce “disumano” il modo in cui furono trattati gli immigrati stagionali. Non sono ancora le scuse ufficiali, ma all’Università di Neuchâtel è appena iniziata la prima indagine sullo statuto degli stagionali finanziata interamente dalla Confederazione: “Uscita indenne dalla guerra, la Svizzera aveva un gran bisogno di manodopera” ci spiega la storica Magali Michelet. “Ma puntò a isolare i lavoratori dalle loro famiglie per tre ragioni fondamentali: non si voleva che gli stranieri si stabilissero definitivamente, si temeva il contagio comunista dei lavoratori italiani e si preferiva approfittare della manodopera senza sobbarcarsi le spese di Welfare che le famiglie portano inevitabilmente con sé”. Era la quadratura del cerchio: tutta l’energia delle braccia, senza la seccatura degli esseri umani. Oggi gli italiani in Svizzera vanno di moda, e a Zurigo il vecchio, offensivo epiteto Tschingg (da cinque, gridato tra i giocatori di morra) dà addirittura il nome a una lussuosa catena di fast food. Ma gli ex bambini non dimenticano: “Quegli anni di paura passati a sbirciare i coetanei che giocavano in strada sono sempre con me” dice Stigliano. “E ogni volta che qualcuno equipara clandestini e delinquenti sento come una coltellata”. Nella sua lettera aperta Paola De Martin notava che da qualche anno gli italiani sono considerati dei migranti-modello: “È solo un trucco per dividerci da chi oggi subisce quello che subimmo noi allora”. Sul treno che ci porta a Zurigo salgono i poliziotti di frontiera: in tutta la carrozza chiedono i documenti solo a una ragazza di colore. Qualcosa non va, lei protesta, la fanno scendere con il suo bambino. Ecco, quelli di Tesoro sanno che i migranti siamo noi. E che le scuse ai bambini di ieri aiuterebbero anche i bambini di oggi. Mediterraneo, il bilancio tragico dei migranti: nel 2021 quasi 2mila vittime di Giansandro Merli Il Manifesto, 31 dicembre 2021 Il bilancio. La strage non si ferma. Record di intercettazioni dei libici, mentre le violazioni dei diritti crescono a ovest e a est. Negli ultimi dodici mesi 144.400 cittadini stranieri hanno attraversato le frontiere Ue “senza permesso”: sono appena lo 0,03% della popolazione europea. A poche ore dalla fine dell’anno i migranti giunti in Italia attraversando il Mediterraneo sono meno di 70mila. Ieri i dati del ministero dell’Interno segnavano 67.040 sbarchi. In un caso su sette si è trattato di minori stranieri non accompagnati: 9.478. Tra le nazionalità svetta quella tunisina con 15.671 individui. Distaccate le altre: Egitto (8.352), Bangladesh (7.797), Iran (3.903). Il primo paese dell’Africa subsahariana è la Costa d’Avorio, con 3.807 persone. La Tunisia è in testa anche alla classifica delle espulsioni: al 15 novembre erano 3mila, di cui oltre la metà verso il paese nordafricano. Nel corso del 2021 almeno 1.864 persone hanno perso la vita nel Mediterraneo. Più delle 1.448 del 2020 e meno delle 1.885 del 2019. Dal 2014, quando l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) ha avviato il monitoraggio “Missing migrants”, mancano all’appello in 23.150. La rotta più mortifera è ancora quella centrale con 1.506 vite perse. Quel tratto di mare segna un altro triste record. Le catture di migranti in fuga dalla Libia da parte della sedicente “guardia costiera” di Tripoli sono state 32.425 fino a Natale. Quasi il triplo delle 11.891 dello scorso anno. Circa 20mila migranti sono stati invece riportati a terra dalle autorità di Tunisi, “sotto le pressioni esercitate dal governo italiano che ha fornito delle motovedette a questo scopo”. Lo afferma il Forum tunisino per i diritti economici e sociali in un rapporto pubblicato il 20 dicembre. Lo sforzo di Roma nel fornire mezzi, finanziamenti, assistenza e formazione alle guardie costiere degli Stati nordafricani per ostacolare partenze e arrivi da mare sta dando i suoi frutti. A quale prezzo? Se tutte le persone che hanno provato a raggiungere l’Italia e attraverso di essa l’Europa fossero arrivate a destinazione, gli sbarchi sarebbero stati circa 121mila. Può sembrare un numero alto se paragonato al triennio precedente: 34.154 nel 2020; 11.471 nel 2019; 23.370 nel 2018. Eppure, guardando più indietro, sarebbero stati meno dei 181.436 del 2016, dei 153.842 del 2015 e dei 170.100 del 2014. I migranti toccano terra in Italia, ma spesso hanno come obiettivo altri paesi europei. Nonostante il Regolamento di Dublino stabilisca la competenza del paese di approdo per la procedura d’asilo 397mila degli 867mila migranti sbarcati dal 2011 si sono diretti autonomamente altrove (dati: Ispi, Matteo Villa). Sullo sfondo resta il generale decremento della popolazione che nel 2020, per la prima volta, ha riguardato anche il segmento straniero: l’Istat calcola il 7% di cittadini di paesi terzi in meno rispetto al 2019. Non è un caso che per il prossimo anno il governo abbia previsto un decreto flussi per 70mila lavoratori migranti (il doppio dell’anno precedente). Il prezzo dell’allarme su una presunta “emergenza” e su un’inesistente “invasione” lo paga chi perde la vita in mare o chi è riportato a forza nelle prigioni in Libia. Nessun memorandum ne ha determinato la chiusura, né si è impegnato a garantire il rispetto dei diritti umani nel paese nordafricano. A ottobre l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Ohchr) ha parlato esplicitamente di “crimini di guerra” e violazioni contro migranti e rifugiati commesse “su vasta scala da attori statali e non, con un alto livello di organizzazione e con l’incoraggiamento dello Stato”. Se a sud del vecchio continente le politiche di contrasto della mobilità umana hanno contribuito a creare l’inferno libico, la situazione dei diritti umani è peggiorata anche a ovest e a est. Il tratto di oceano Atlantico che unisce l’arcipelago spagnolo delle Canarie alle coste occidentali dell’Africa è il nuovo cimitero marino. Gli effetti sociali del Covid-19 e le tensioni geopolitiche nell’area, combinati con la chiusura dei passaggi su Ceuta e Melilla e attraverso il Mediterraneo occidentale, hanno fatto moltiplicare traversate e morti: circa un migliaio quelli accertati dall’Oim, molti di più quelli stimati dalla Ong Caminando Fronteras. A EST il braccio di ferro tra il dittatore bielorusso Alexander Lukashenko e il premier polacco Mateusz Morawiecki, sostenuto dalle autorità europee, ha causato vittime e respingimenti di massa. Alla fine la Commissione Ue ha proposto di sospendere per sei mesi le garanzie per i richiedenti asilo attraverso: semplificazione dei rimpatri, limitazioni ai passaggi di frontiera e trattenimento di chi cerca protezione. Nel 2021, secondo l’Oim, 144.440 migranti (compresi i richiedenti asilo) hanno attraversato “senza permesso” le frontiere Ue di mare e di terra. Lo 0,03% della popolazione europea. Quando i droni (turchi) vincono le guerre di Franco Venturini Corriere della Sera, 31 dicembre 2021 L’ultima arma vincente, dall’Africa all’Azerbaigian si chiama Bayraktar TB2, è fabbricato interamente in Turchia, svolge efficacemente missioni di ricognizione e di attacco, e soprattutto costa poco. L’ultimo clamoroso esempio viene dalla interminabile e feroce guerra d’Etiopia. Quattro settimane fa le forze ribelli della regione del Tigré, inizialmente vittime della guerra che il Nobel par la Pace Abiy Ahmed aveva scatenato contro di loro nel novembre 2020, si erano riprese, erano avanzate per centinaia di chilometri, e si accingevano ormai a conquistare la capitale Addis Abeba. Poi sono arrivati i droni. Qualcuno cinese via Emirati, qualcuno iraniano per altre vie traverse. Ma il vero trionfatore della battaglia che il 5-6 dicembre ha consegnato la vittoria al traballante Abiy Ahmed portava una sola firma: quella di Erdogan. Si chiama Bayraktar TB2, è fabbricato interamente in Turchia, svolge efficacemente missioni di ricognizione e di attacco, e soprattutto costa poco. In Italia lo conosciamo perché nel 2019 fu lui a salvare Tripoli dall’attacco del cirenaico Haftar. E da allora il TB2 ha viaggiato molto. Ha consentito all’Azerbaigian di battere l’Armenia. È stato veduto all’Irak e alla Somalia. È entrato a far parte dell’aviazione militare marocchina e anche di quella del Qatar. E poi, colpo grosso e paradossale vista la sostanziale collaborazione tra Ankara e Mosca, è stato fornito all’Ucraina. Sollevando l’ira di Putin, che riguarda sì la complessiva espansione della NATO fino ai confini della Russia, ma visto che la Turchia fa parte della NATO anche quei temibili droni dovranno essere messi sul tavolo. Le vendite del TB2 continuano soprattutto in Africa, dove Erdogan ha fatto un lungo viaggio con gli abiti del piazzista: comprate, e vincerete le guerre. Intendiamoci, le armi le vendono tutti e i turchi sono stati bravi a creare il TB2, con videocamere, bombe o missili. La legge del mercato è da sempre più forte degli scrupoli etici e anche delle considerazioni strategiche. Ma ora la nuova regola è che sono loro, i droni, a decidere chi vince i conflitti convenzionali. Se poi costano anche poco… La Russia scioglie la Ong che indaga sui crimini sovietici: un cinismo a cui non siamo estranei di Paolo Ercolani Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2021 L’errore più grande che si può compiere nell’atto di giudicare fatti storici e politici è quello di applicare il criterio morale. Il più grave per due ragioni sostanziali: la prima conduce a pensare che taluni soggetti politici siano mossi dal “bene”, per cui la ragione starebbe sempre e comunque dalla loro parte, a prescindere dalle azioni che compiono in nome di quella medesima ragione. La seconda spinge a convincersi che il bene e il male siano effettivamente individuabili con infallibile certezza, e soprattutto separabili nettamente: per cui da una parte ci sono i buoni e dall’altra i cattivi. Da una parte i depositari di tutte le ragioni e dall’altra i titolari di tutti in torti. La nostra epoca sciagurata, in cui domina la logica binaria e manichea dei social network (“mi piace”/”non mi piace”), ha finito con l’esaltare in maniera parossistica l’atteggiamento erroneo di cui sopra. Mai come oggi ci si schiera a prescindere, come la tifoseria di uno stadio. La posizione a cui si aderisce diventa una maglia da indossare al posto della pelle, una bandiera da sventolare, una fede incrollabile da proclamare. Chiunque provi ad avanzare un ragionamento critico e complesso - capace di utilizzare la categoria hegeliana della “distinzione”, per mettere in risalto luci e ombre delle due fedi opposte - viene ricoperto di insulti da entrambe le tifoserie, con l’accusa infamante di avere qualche interesse personale che lo spinge a non aderire alla verità del “Verbo”. Un tempo si sarebbe utilizzato il termine “dogmatismo” per definire tale atteggiamento mentale, mentre oggi si può parlare tranquillamente di cretinismo. Quest’ultimo alimentato dalla logica egocentrica e quantitativa promossa dalla Rete: quella per cui il soggetto di un’opinione deve entusiasmare i tifosi e la loro sete di messaggi netti e banali, se vuole essere seguito da molti follower ed ottenere un buon numero di like. Il ragionamento articolato, la riflessione profonda, la critica bilanciata sono tutti elementi di disturbo. Servono alla comprensione, ma ostacolano il consenso. E oggi il consenso numerico che anche gli opinionisti o intellettuali ottengono in Rete può tradursi in benefici economici o in qualche maniera comunque quantificabili. Ecco perché l’odierno “tradimento dei chierici” consiste prevalentemente nell’abbandono del ragionamento complesso e, con esso, dell’opinione pubblica alla logica “cretinistica” del tifo da stadio. Questa lunga premessa per dire che si può giudicare in due modi la decisione della Corte suprema russa di sciogliere la Ong “Memorial”, quella nata nel 1989 per svelare i crimini compiuti dal regime sovietico. Il primo è quello moralistico, per cui alla condanna del comunismo tout court (quello di regime insieme a quello rivoluzionario) si accompagna la facile lamentela per l’ennesimo caso di autoritarismo e diritti umani lesi da parte di un sistema autoritario (nel caso specifico quello di Putin). Tutto vero, tutto condivisibile, tutto facile. Come i like guadagnati. Oppure si può applicare un pensiero più complesso, e allora scopriremmo che il governo autoritario di Putin - con le sue decisioni e pratiche liberticide - rappresenta piuttosto l’ennesimo colpo al cuore di quella “gigantesca avventura umana per cambiare il mondo” che è stata il comunismo rivoluzionario. Né più e né meno di Boris Eltsin - altro fenomeno di autoritarismo, però appoggiato dall’Occidente liberale in nome di quella che è stata una trasformazione selvaggia della società russa (passata dalla miseria collettiva del regime sovietico alla ricchezza sfrenata di pochissimi propria di un regime liberista) - Vladimir Putin è un dittatore di Stato che non solo non ha più bisogno dell’Occidente liberista, ma oggi lo avversa frontalmente. Anche e soprattutto ideologicamente: di qui il suo utilizzo cinico delle vittime dei gulag per marcare una distanza da chi oggi è nuovamente nemico. Lo stesso cinismo che l’Occidente liberale aveva utilizzato nell’appoggiare Eltsin - in nome del superamento del regime comunista - quando in realtà si trattava di stringere affari con i pochissimi neomiliardari russi (mentre la stragrande maggioranza del popolo faceva la fame peggio che sotto il comunismo). Lo stesso cinismo che oggi, proprio oggi, gli Stati Uniti mettono in pratica nel colpire con una violenza devastante - e in un silenzio quasi generalizzato che risulta agghiacciante - Julian Assange, privato della libertà e con la vita distrutta in virtù della colpa più imperdonabile: aver svelato i segreti del governo americano. Bisognerebbe spiegarglielo, ai complottisti nostrani e non, che è perfino comico gridare al regime per un vaccino, un green pass o delle politiche che cercano di contenere una pandemia oggettiva. Certo che c’è un regime, ma quello è davanti ai nostri occhi, nei nostri stati che fingono di battersi per i diritti civili pur di poter distruggere incontrastati quelli politici e sociali. Non è certo nascosto nei meandri di una “Spectre” farmacologica o di una élite di mostri. Certo anche che è meglio far finta di non vederlo questo regime. Come fecero i liberali quando esplodeva il nazifascismo, o i comunisti occidentali quando fingevano che in Urss si era realizzato il paradiso. Perché se lo individui sul serio quel regime, poi non hai scuse per non combatterlo. *Filosofo, Università di Urbino “Carlo Bo” Bashar al Assad ha vinto in Siria, ma l’Unione europea ancora non lo sa di Vittorio Da Rold Il Domani, 31 dicembre 2021 A che punto è la situazione in Siria stravolta da una sanguinosa guerra civile? Un rapido passo indietro nel passato recente può servire a capire meglio il complesso quadro attuale. Il 15 marzo 2011 iniziano le proteste popolari in Siria contro il presidente Bashar al Assad, nato nel 1965 a Damasco e subentrato a suo padre Hafez, morto il 17 luglio 2000 dopo 30 anni di potere ininterrotto. Le proteste di piazza, all’inizio pacifiche, si trasformano ben presto in guerra civile con un bilancio di almeno 350mila morti e 11 milioni di profughi secondo le più recenti statistiche dell’Onu. Il 15 agosto del 2011 le potenze occidentali chiedono al presidente Bashar al Assad di dimettersi e di farsi da parte, ma il regime alauita, una minoranza religiosa musulmana vicina agli sciiti, resiste alle pressioni e chiede aiuto alla Russia di Vladimir Putin, che per rientrare nel gran gioco mediorientale dopo la caduta dell’Unione sovietica, nel 2015 manda armi, navi, caccia e militari sul terreno a sostegno del regime. Anche l’Iran degli ayatollah, che cerca uno sbocco al Mediterraneo, manda truppe scelte, i pasdaran, le guardie della rivoluzione khomeinista, a sostegno del governo siriano. A questo punto la situazione gradualmente volge a favore di Assad. Nel 2016 c’è la svolta del conflitto, quando a nord il regime riconquista la strategica città di Aleppo che era in mano ai gruppi ribelli dal 2012. Il 5 marzo 2020 viene firmato un cessate il fuoco a Idlib, ultimo bastione di ribelli e jihadisti. Il 27 maggio 2021 Bashar al Assad viene rieletto per un quarto mandato presidenziale con il 95,1 per cento dei voti, nonostante l’occidente e le ong accusino il regime che le elezioni non siano state né libere né tanto meno regolari. Dopo dieci anni di guerra civile, devono essere ricordati tre dati per capire la situazione siriana: la minaccia dell’Isis è stata ridotta ma non è scomparsa del tutto; le premesse del rovesciamento del regime di Assad si sono rivelate illusorie e, infine, i curdi siriani sono stati abbandonati dagli Stati Uniti ai tempi di Donald Trump. L’ex presidente ha dato il via libera all’invasione turca di aree cuscinetto in territorio siriano fino a 30 chilometri dal confine, dopo che le milizie curde siriane avevano combattuto come uniche truppe sul terreno contro l’Isis. Nell’inventario della sanguinosa storia siriana va ricordato che dopo 12 anni di esclusione, soprattutto su pressione degli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, la Siria potrebbe rientrare nella Lega araba nel vertice previsto a marzo in Algeria. Insomma Assad è rimasto saldamente al potere mentre i suoi oppositori interni e internazionali hanno dovuto riconoscere lo status quo a Damasco. Recentemente gli Emirati Arabi Uniti, un tempo ostili alla Siria, hanno fatto sapere di voler rafforzare i rapporti con Damasco. Anche il presidente turco Erdogan, nemico di Assad ma che in passato passava insieme alle rispettive famiglie le vacanze estive al mare con Bashar, ha dovuto ricredersi e venire a patti con Damasco. E soprattutto dimenticare di annettersi Aleppo. Che la presa politica turca sulla Siria, in linea con la politica estera neo-ottomana, si stia allentando è sempre più evidente anche a causa della svalutazione della moneta turca e della politica monetaria di Erdogan. A questo proposito l’ex ala siriana di al Qaida, che guida una coalizione di milizie cooptate di fatto dalla Turchia nel nord ovest della Siria, ha deciso di adottare il dollaro statunitense nelle transazioni petrolifere e di abbandonare la lira turca, sempre più svalutata. A riferirlo è il The Syria Report, portale di approfondimento economico e finanziario sulla Siria, secondo cui i vertici di Hay’at Tahrir ash-Sham (Hts, Ente per la liberazione della Siria), la coalizione di gruppi armati guidata da Jabhat an Nusra, l’ex ala siriana di al Qaida, ha deciso di passare al “biglietto verde” invece della lira turca negli scambi commerciali da e per la Turchia di carburante, benzina e altri derivati del petrolio. Pecunia non olet. Un segnale importante di distacco graduale dalla Turchia del presidente Erdogan che è stata la nazione protettrice di questa area. Hts controlla ampie porzioni della Siria nord occidentale fuori dal controllo di Damasco. La stessa zona è sottoposta da anni a una forte influenza politica ed economica turca. La Turchia ambisce a estendere la sua influenza in territori dell’ex impero ottomano e ha infatti truppe militari dispiegate nella zona di Idlib e a nord di Aleppo e si coordina di fatto con le milizie qaidiste nella zona. Alla luce della svalutazione della lira siriana, Hts aveva due anni fa adottato la lira turca nei territori siriani sotto tutela di Ankara. Ma dopo la drammatica svalutazione della lira turca a causa dei continui tagli dei tassi di interesse, la dirigenza qaidista siriana ha deciso di usare il biglietto verde. Hts controlla direttamente la compagnia Watad, che gestisce il redditizio business dell’importazione dalla Turchia dei derivati del petrolio e della distribuzione a Idlib e aree limitrofe. Anche Israele monitora il quadrante siriano con molta attenzione. Tel Aviv ha colpito due volte gli impianti di armi chimiche in Siria negli ultimi due anni in una campagna per impedire alla Siria di rinnovare la produzione di armi chimiche, secondo quanto riportato dal Washington Post. Molti ricorderanno le fumose “linee rosse” evocate dall’allora presidente Barack Obama sull’uso di armi chimiche da parte del regime siriano, linee puntualmente superate senza gravi conseguenze. L’accuratezza del rapporto, che citava non identificati ex funzionari dell’intelligence statunitense e occidentale, è stata confermata a Reuters da una persona a conoscenza dell’operazione che ha rifiutato di essere identificata per nome o nazionalità. L’esercito israeliano ha rifiutato di commentare ma ci sono buone probabilità che lo scenario descritto dal Washington Post sia reale. Poi c’è la “bomba” rilanciata recentemente dall’inchiesta del New York Times sull’impero della droga che la famiglia Assad avrebbe costruito in Siria per cercare finanziamenti, pagare le armi e i soldati per riconquistare i territori perduti. Secondo il New York Times la droga commercializzata in Siria è il Captagon, un composto sintetico di anfetamina e altre sostanze. Ma c’è di più. La produzione e la distribuzione di questa droga sintetica sarebbe saldamente nelle mani dell’esercito siriano e in particolare della quarta divisione corazzata dell’esercito comandata da Maher al Assad, fratello minore del presidente Bashar. Maher è di fatto capo anche della Guardia repubblicana, il nucleo dei pretoriani del regime. Il fratello maggiore della famiglia Assad, Basil, che avrebbe dovuto prendere il posto in linea ereditaria del padre Hafez, morì prematuramente in un incidente d’auto nel 1994 e questo fatto tragico aprì la strada al vertice del regime al fratello Bashar richiamato da Londra dove viveva e dove aveva conosciuto la moglie Asma. Un altro fratello di Assad, Majad, è morto nel 2009. Ma torniamo alle attività legate alla droga e al ruolo del clan Assad in una attività su cui resta difficile fare stime economiche. Il fatto, denunciato dal New York Times, trasformerebbe la Siria in un narco stato. Un paese dove paradossalmente mancano i medicinali e il presidente Bashar al Assad ha disposto nei giorni scorsi l’aumento dei prezzi di più di 12mila qualità di farmaci, come riporta il quotidiano panarabo Al Arabi al Jadid. La decisione è stata presa dopo il crollo della produzione di medicinali locali e l’aumento del contrabbando. Da quanto emerso, gli aumenti vanno dal 30 al 50 per cento del prezzo. Antidolorifici e medicinali per bambini sono stati risparmiati dall’aumento dei prezzi. È dunque evidente che la commercializzazione della droga sintetica di cui parla il New York Times sta diventando uno strumento rilevante per finanziare il governo centrale di Damasco in una situazione di bilanci pubblici sempre più in rosso. Non a caso il Consiglio del popolo, il parlamento monocamerale della Siria, ha approvato a fine dicembre la legge finanziaria per l’anno 2022. I fondi stanziati superano i 13 miliardi di lire siriane (poco più di quattro milioni e mezzo di euro). Poca cosa rispetto alle reali esigenze delle famiglie siriane provate da dieci anni di guerra civile. Ma a pesare sul futuro del paese sono anche le sanzioni europee contro il regime di Bashar al Assad in vigore dal dicembre 2011. Esse includono un embargo petrolifero e il congelamento degli asset della Banca centrale siriana entro i confini dell’Ue. Nessuno, però, a Bruxelles è in grado di rispondere alla domanda cruciale per il futuro dei siriani e dei milioni di profughi: fino a quando durerà questo stato di cose? Afghanistan, la crisi umanitaria porterà più vittime della guerra di Giuliano Battiston Il Manifesto, 31 dicembre 2021 23 milioni di persone (60 per cento della popolazione) soffre di insufficienza alimentare. “So che i miei figli dovrebbero andare a scuola, ma non abbiamo niente, né casa, né terra, né soldi. Devo mandarli ogni giorno per strada a raccogliere qualche spicciolo”, racconta Mohammad Agha, 39 anni, fuori dalla tenda in cui si è trasferito da qualche mese a Jalalabad, nella provincia orientale di Nangarhar, dove la temperatura è più mite che nel resto dell’Afghanistan, alle prese con un rigido inverno. “I commerci si sono ridotti del 50 per cento. Prima qui era un continuo via vai di camion, ora ci sono pochi mezzi al giorno”, nota Abdullah, responsabile a Mazar-e-Sharif, nella provincia settentrionale di Balkh, di un grande parcheggio per i camion provenienti dall’Asia centrale e dalle province settentrionali. “Abbiamo tante competenze ma anche tante necessità. Per questo c’è bisogno dell’aiuto della comunità internazionale”, conferma il ministro di fatto della Salute, il dottor Qalandar Abad, all’ospedale Mirwais di Kandahar, nel profondo sud del Paese, prima di una visita al reparto pediatrico in cui è accolta una parte di quel milione di bambini sotto i 5 anni che secondo l’Onu rischiano di morire per malnutrizione. “Non c’è più lavoro e ogni cosa, dal riso alla farina al pane alle uova, costa più di prima: me ne torno al villaggio dai miei, a Ghazni”, racconta Yahya a Kabul. “Sono costretta a vendere mia figlia più grande per far sopravvivere le altre tre”, spiega Marziah, gli occhi bassi, nel suo appartamento di Ghazni, mentre poco più in là un funzionario dei Talebani accusa un attivista locale di aver fatto propaganda contro l’Emirato, per aver portato all’attenzione pubblica il caso della donna, poi risolto, provvisoriamente, grazie alla solidarietà di tanti e tante, fuori e dentro il Paese. Sono cinque dichiarazioni raccolte nel nostro ultimo viaggio in Afghanistan tra la fine di ottobre e la fine di novembre del 2021. Cinque tra tante. Sufficienti a rendere l’idea della profondissima crisi in corso. Una crisi che ha radici lontane. Non nasce il 15 agosto, quando i Talebani conquistano Kabul, portando al collasso della Repubblica islamica e alla fuga del presidente Ashraf Ghani, che proprio ieri è tornato a farsi vivo con un’intervista alla Bbc in cui difende la sua scelta. “Non avevo alternative”. Ci sono alternative, invece, alla crisi afghana. Perché è una crisi che dipende in buona parte dalle recenti scelte politiche dei governi occidentali, incluso quello italiano. Per capirle meglio, occorre partire dal dato di fondo, strutturale: dal 2001, la comunità internazionale ha edificato un sistema statuale completamente dipendente dalle risorse esterne. Nell’estate 2021 gli aiuti dei donatori stranieri rappresentavano ancora il 43% del Prodotto interno lordo e ben il 75% della spesa pubblica. In Afghanistan - uno Stato-rentier - i servizi fondamentali, a partire da istruzione e sanità, dipendono dunque dai donatori internazionali. In questi anni i bisogni statuali sono stati sostenuti da una media di 8,5 miliardi di dollari all’anno in aiuti. Scegliendo l’opzione militarista anziché quella negoziale, a metà agosto i Talebani hanno messo a repentaglio il legame tra lo Stato afghano e i governi che ne alimentavano la sopravvivenza, in particolare quello con Washington, peso massimo in ambito militare e finanziario. E i governi euro-atlantici non hanno perso tempo: Washington ha congelato alla Federal Reserve di New York circa 9 miliardi di dollari di riserve della Banca centrale afghana; le sanzioni precedenti contro singoli Talebani sono diventate sanzioni contro il governo di fatto; gli aiuti allo sviluppo sono stati perlopiù interrotti; Banca centrale e Fondo monetario internazionale hanno congelato i trasferimenti previsti. Da qui, il tracollo economico, il collasso del sistema bancario, la mancanza di liquidità nel Paese, gli stipendi non pagati a insegnanti, medici, la contrazione dell’economia. E l’aggravarsi della crisi umanitaria: 23 milioni di persone (60 per cento della popolazione) soffre di insufficienza alimentare, il 95 per cento è sotto la soglia di povertà. In poche parole, come ricordato nell’ultimo rapporto dell’International Crisis Group: le vittime di questa fase rischiano di essere superiori a quelle del conflitto in sé. La strada scelta finora dalle cancellerie è la più facile. Salvarsi la coscienza con qualche aiuto umanitario, che non implica rischi politici, soprattutto in ambito domestico: chi vorrebbe essere accusato di aiutare i Talebani? Così, il Dipartimento del Tesoro degli Usa ha adottato delle “licenze”, valide solo per l’ambito umanitario, rispetto alle sanzioni in vigore. Il 22 dicembre lo stesso ha fatto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Mentre la Banca mondiale ha reso disponibile una parte del miliardo e mezzo di dollari dell’Afghanistan Reconstruction Trust Fund, limitandone l’uso al settore sanitario e alimentare. E l’Onu fa sapere che l’appello-richiesta fondi per il 2022 sarà il più ingente della storia: 4,5 miliardi di dollari. La strada scelta è però insufficiente. L’aiuto umanitario non libera l’economia afghana dallo strangolamento finanziario voluto dai governi occidentali. E non li svincola dalla responsabilità di compiere scelte politiche difficili ma necessarie, a partire da una domanda: è più importante salvare la popolazione afghana o colpire il regime dei Talebani?