Quei troppi detenuti lasciati morire perché sospettati di “simulare” un malessere inesistente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 dicembre 2021 Erano detenuti che avevano tumori, leucemie, distrofie muscolari, ulcere sanguinanti, anoressia, ma non curati in tempo perché gli operatori credevano che simulassero. Non è un caso raro quello di Antonio Raddi, detenuto nel carcere le Vallette di Torino, che morì il 30 dicembre 2019 a 28 anni per una infezione polmonare dopo avere perso 25 chili di peso, ma che nessuno l’ha curato in tempo perché gli operatori credevano che simulasse. Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno, dei quali un terzo circa per suicidio, un terzo per cause immediatamente riconosciute come “naturali”, e il restante terzo per “cause da accertare”, che indicano tutti i casi nei quali viene aperta un’inchiesta giudiziaria. È difficile credere che in tutti questi casi la morte sia stata un evento improvviso, inatteso e imprevedibile; più probabilmente ha rappresentato l’epilogo di una malattia che progressivamente si aggrava, con segni clinici e sintomi via via più evidenti che avrebbero dovuto allarmare i sanitari, far disporre il ricovero in ospedale e, quanto meno, dare l’avvio alle procedure per l’ottenimento del rinvio della pena o della detenzione domiciliare. Perché questo non accade? Spesso non viene prestata sufficiente attenzione ai sintomi della malattia, ai detenuti non sempre vengono creduti quando lamentano un malessere. Tanti, tantissimi sono casi del genere. Il caso emblematico, denunciato già da Il Dubbio, riguarda la morte di Roberto Jerinò, detenuto nel carcere calabrese di Arghillà e morto dopo dolori lancinanti a dicembre del 2014 presso l’ospedale di Reggio Calabria. L’allora sessantenne Jerinò, durante la detenzione, cadde per terra perché la sua gamba perse la memoria dei movimenti, poi il braccio e infine la bocca. Venne portato di corsa in ospedale: ischemia, fu la diagnosi, con paresi facciale degli arti. L’avvocato, come logico, chiese la concessione dei domiciliari. Rigettato. Subito riportato in carcere, nonostante la diagnosi. Secondo la testimonianza di alcuni detenuti, alle 3 di notte del 12 dicembre del 2014, Jerinò sentì assottigliarsi e allargarsi una vena in testa; era un movimento continuo, lievemente doloroso. Chiamò un suo compagno di cella chiedendogli una camomilla; credeva avesse bisogno di tranquillizzarsi. Non riuscì a dormire quella notte. La mattina si segnò in elenco per l’infermeria: gli misurarono la pressione, nessuna anomalia. Fu così per l’intera giornata: un dolore costante, ritmato; la pressione era stabile. Il 13, tutto uguale: dolore e pressione, stabili. Non facevano altro che misurargli la pressione e riportarlo in cella. Stava impazzendo Jerinò, sentiva quella vena come se fosse una sanguisuga. Lamentava dolore. Dopo aver trascorso tre giorni di lamenti, e richieste di soccorso, rimase paralizzato nel letto. Lo portarono in ospedale che era già in coma. Non si risvegliò più. Morì il 23 dicembre del 2014. Ripeschiamo un altro caso lontanissimo nel tempo, ma particolarmente emblematico. Si chiamava Uzoma Emeka, detenuto nigeriano di 32 anni, il quale muore nel carcere di Teramo il 18 dicembre 2009 per un tumore al cervello mai diagnosticato. Dalla relazione dell’avvocato Alessandro Gerardi, che ha potuto visitare il carcere di Teramo e raccogliere la testimonianza dei compagni di cella di Emeka al seguito di una delegazione di parlamentari radicali, si legge che venti giorni prima di morire, aveva già cominciato ad avvertire alcuni forti capogiri: perdeva i sensi all’improvviso, sveniva in cella e nelle docce, vomitava, non riusciva ad alzarsi dal letto, non mangiava, deperiva a vista d’occhio. Ogni volta che perdeva i sensi, i compagni di cella lo conducevano in infermeria sulle spalle, ma il medico di guardia, dopo pochi minuti, senza fare né disporre ulteriori accertamenti, lo rimandava in cella prescrivendogli tutt’al più qualche “pillola” per dormire. Anche la notte prima di morire Emeka era stato rispedito dall’infermeria nella cella, ma stava talmente male da non riuscire a rimanere nemmeno steso sul letto e cadeva continuamente a terra. Dopo alcuni tentativi è stato lasciato privo di sensi per terra, con un lenzuolo, per l’intera nottata, nonostante avesse vomitato più di una volta e gli altri detenuti ne chiedessero l’immediato ricovero in infermeria. Risultato: la mattina seguente lo hanno trovato con la bava alla bocca, rigido e privo di coscienza. Solo dopo qualche ora è stata finalmente chiamata l’ambulanza, ma ormai i medici non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Nelle carceri italiane quando si verificano casi di mancato ascolto del paziente, esami clinici non effettuati, diagnosi sbagliate, in definitiva cure non prestate, il vero motivo è spesso lo stereotipo che vuole il detenuto manipolativo e falso, che simula un malessere (o ne esagera i sintomi) allo scopo di ottenere dei “benefici”. Inoltre i medici sono consapevoli che per un detenuto la libertà vale più della salute, quindi spesso “sospettano” che possa aver messo in atto pratiche autolesionistiche per auto- provocarsi i disturbi che lamenta e che, comunque, non seguirà le terapie prescritte in quanto gli “conviene” lasciare che la malattia si aggravi, nella speranza di ottenere l’incompatibilità con il regime detentivo. Tutto ciò porta a un’amara conclusione: tante morti in carcere potevano (e possono) essere evitate. Carceri, la vera pandemia sono i suicidi: in 21 anni sono stati 1.221 di Gioele Urso torinotoday.it, 30 dicembre 2021 Un terzo delle morti dietro le sbarre. Negli ultimi 21 anni i suicidi che si sono consumati all’interno delle carceri sono stati 1.221 su un totale di 3.309 decessi. Dal 2000 a oggi si è tolto la vita oltre un terzo di chi è morto in carcere. Un trend che, se si analizzano attentamente i numeri, è stato rispettato ogni anno. Nel 2021 per esempio su 130 morti registrate, ben 53 sono a seguito di suicidio; nel 2020 erano 62 su 152; nel 2019, 53 su 143; nel 2018, 67 su 148; nel 2017, 52 su 123. E così via. Segno che la vera pandemia nelle carceri sono i suicidi, senza nulla togliere al Covid che è stato un altro dei tanti problemi. Numeri che fotografano una delle conseguenze, la più tragica, del degrado in cui versano le carceri in Italia e in Piemonte. “Mi vergogno un po’ a essere qui per il sesto anno consecutivo a denunciare gli stessi problemi”, ha detto Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino, all’inizio del suo intervento durante il consueto bilancio annuale sullo stato delle carceri piemontesi. I problemi, che sono sempre gli stessi, sono anche tanti: sovraffollamento, ratti e scarafaggi dentro le celle, muffe e inagibilità delle strutture. A Torino i detenuti presenti presso la casa circondariale Lorusso e Cutugno sono 1.378 a fronte di 1.060 posti a disposizione. Numeri, anche in questo caso, che raccontano di 318 detenuti presi in custodia a Torino, ma che a Torino non dovrebbero essere, perché per loro presso la casa circondariale in teoria il posto non ci sarebbe. A Torino però ci sono e sono costretti a vivere in condizioni igienico sanitarie traballanti: “Mi vergogno di essere qui per il sesto anno a dire che la circondariale è invasa da topi e blatte che continuano a persistere in una situazione che dal punto di vista igienico e sanitario diventa complessa per detenuti e agenti della polizia penitenziaria”, spiega la garante Monica Gallo, “In quasi tutte le sezioni i bagni sono ricoperti di muffa; in alcuni lati dell’istituto le celle sono inagibili”. E poi ancora: “Desta molta preoccupazione la zona filtro, che è quella che denunciamo da anni e che è la sezione occupata da chi ingoia ovuli di sostanze stupefacenti”, continua Gallo, “Dovrebbero essere trattati in ambiente sanitario, ma a Torino questa gestione viene affidata alla polizia penitenziaria e a una sezione che non ha un presidio sanitario h24”. “Se non ora, quando attivarsi per risolvere questi problemi strutturali?”, si domanda Bruno Mellano il garante regionale dei detenuti. “Se non ora quando? Come non pensare di utilizzare i 132,9 milioni di euro previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e i fondi messi a disposizione dal Governo per far compiere un salto di qualità alla sanità e all’edilizia penitenziaria?”. Soldi che potrebbero essere spesi per dare dignità a chi sta scontando una pena al termine della quale dovrà rimettersi in gioco. Ecco le 30 azioni per rendere il carcere più umano di Viviana Lanza Il Riformista, 30 dicembre 2021 Sette aree chiave: diritti, lavoro, salute, tecnologie, strutture, sicurezza, formazione del personale. E trenta proposte per un carcere più umano. Dopo tre mesi di studio, la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nominata a settembre dalla ministra Marta Cartabia ha consegnato il risultato dei suoi lavori. È una relazione di 226 pagine nella quale sono indicate criticità e proposte del sistema penitenziario. Le criticità sono quelle di sempre, dal sovraffollamento alla inadeguatezza delle strutture e del personale. Un quadro desolante a cui fa da cornice una quotidianità inumana, tensioni e violenze che si alternano a suicidi e drammi vari. Come mettere fine a tutto questo? Secondo la Commissione, al cui interno ci sono anche magistrati e direttori di carceri che conoscono bene le condizioni delle carceri campane (Gianluca Guida direttore dell’istituto minorile di Nisida, Raffaello Magi consigliere di Cassazione e per anni magistrato a Napoli e Caserta), bisogna partire da una diversa concezione di carcere, in base alla quale l’intero perimetro di ciascun istituto di pena andrebbe sfruttato per attività di studio, di sport, di formazione, di lavoro (insomma per tutte quelle attività finalizzate a dare alla pena una funzione di riabilitazione e risocializzazione) e la cella andrebbe utilizzata esclusivamente come camera di pernottamento, non come accade adesso come unico luogo della pena che per questo diventa esclusivamente e ingiustamente punitiva. Di qui trenta proposte ora al vaglio della ministra Cartabia. Saranno mai attuate? Serviranno davvero a rendere il carcere più vivibile? O finiranno in un cassetto come accaduto per le proposte studiate dalle Commissioni che lavorarono agli Stati generali dell’esecuzione della pena? Attenderemo fiduciosi. Intanto, vediamo queste proposte. Una riguarda la possibilità di estendere l’esempio del Serd e del Tribunale di Milano per applicare un programma alternativo alla carcerazione in caso di convalida dell’arresto per chi risulta tossicodipendente. Un’altra proposta è finalizzata a favorire “il reinserimento lavorativo dei detenuti semplificando i passaggi burocratici con una più proficua collaborazione pubblico/privato”. Secondo la Commissione, quindi, le aziende private dovrebbero essere informate sulle agevolazioni contributive per l’assunzione di lavoratori detenuti o internati o per le attività di formazione, agevolazioni valide dai 18 ai 24 mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione. E per rendere più saldo il rapporto tra carcere e mondo delle imprese, e quindi del lavoro, si è pensato a degli open day e di istituire una struttura regionale di monitoraggio e coordinamento. Inoltre, si è pensato a un protocollo tra Ministeri dell’Istruzione e della Giustizia per migliorare e potenziare le opportunità di studio in carcere, anche facendo ricorso alla Dad sperimentata nelle scuole durante la pandemia. E ancora: “liberalizzazione” delle telefonate per i detenuti della media sicurezza rivedendo, tranne che in casi particolari, il regolamento che prevede una telefonata di dieci minuti a settimana e consentendo ai detenuti di acquistare telefonini configurati ad hoc per evitare utilizzi indebiti. Introdurre, inoltre, servizi a pagamento come accade in altre carceri d’Europa come, per esempio, lavatrici a gettoni, e la possibilità di avere computer in cella con connessione a Internet attraverso una piattaforma protetta e con appositi filtri per limitare i contenuti. E ancora, l’informatizzazione dei registri e l’introduzione del totem touch per gestire le richieste dei detenuti con un terminale multimediale risparmiando carta e tempo. L’uso delle tecnologie è incentivato anche per i sistemi a presidio della sicurezza, quindi della cinta muraria delle carceri, gli impianti di videosorveglianza, metal detector e body scanner. Inoltre, un’App faciliterebbe la prenotazione dei colloqui tra detenuti e familiari e l’uso di parabole satellitari permetterebbe ai detenuti stranieri di attivare i canali delle loro tv nazionali e non perdere il contatto con il proprio territorio. E ancora, proposte per introdurre come elementi del trattamento penitenziario in ciascun istituto sport e teatro facendo in modo che vi siano operatori abilitati a insegnare queste materie. E inoltre: puntare sull’edilizia penitenziaria migliorando celle e strutture; ridisegnare gli istituti per tipologia e “vocazione”; potenziare i reparti di medicina protetta. E ultima, ma non meno importante, la proposta di rimodulare i programmi di formazione del personale penitenziario, quindi degli agenti, in materia di gestione degli agiti violenti, degli eventi critici, in materia di salute mentale, di giustizia restaurata di cultura mediativa, di trattamento dei detenuti minorenni, di tutela delle identità, di organizzazione dell’esecuzione penale esterna. Commissione Ruotolo, le proposte che ridanno un senso al carcere di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 30 dicembre 2021 Finalmente! Nelle pagine della relazione conclusiva resa pubblica dalla “Commissione per l’innovazione penitenziaria” voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e presieduta dal prof. Marco Ruotolo si intravede quella visione della pena che invece ci è sembrata drammaticamente smarrita negli ultimi anni. La Relazione si muove su più piani: quello delle proposte di riforma legislativa, quello delle proposte di riforma regolamentare e quello della gestione amministrativa. Nel nome di un pragmatismo, che non è in contraddizione con un’idea di pena fondata sul pieno rispetto della dignità umana, vengono nel dettaglio delineate le norme che dovrebbero essere approvate, a tutti i livelli, affinché il carcere non sia luogo di mera sofferenza, di vessazioni ingiustificate, di violenza. Indico qui, a scopo esemplificativo, tre proposte elaborate dalla Commissione che potrebbero avere un impatto significativo in termini di riduzione del danno prodotto dalla carcerazione. 1) Viene prevista la possibilità per lo straniero di accedere dalla detenzione alle procedure per il rinnovo del permesso di soggiorno e per chiedere la protezione internazionale, pratica che oggi in non pochi istituti è vietata così aprendo la porta a espulsioni ingiustificate. Inoltre viene proposta la modifica della legge Bossi Fini nel senso che l’espulsione non dovrebbe essere mai disposta quando va a pregiudicare i risultati del percorso di reinserimento sociale del condannato. Un bel segnale in contro-tendenza rispetto alle tante cattiverie dette e fatte sul corpo dei migranti. 2) La Commissione raccomanda l’installazione dei totem in ogni istituto per tutte le richieste dei detenuti così da cancellare quell’obbrobrio medievale che è la domandina cartacea alla quale lo stesso raramente riceve risposta. Si prevede altresì la possibilità di allargare la possibilità di effettuare telefonate e videochiamate, nonché l’uso dei computer nelle celle. 3) Viene dedicata la giusta attenzione alla sofferenza psichica. Non è passato un mese da quando Antigone aveva denunciato le condizioni di vita nella sezione di osservazione psichiatrica Sestante di Torino. Viene così proposta una norma che apre all’affidamento in prova per i condannati con infermità psichica, superando tutti quei limiti che oggi invece sussistono. Dunque, la direzione proposta dalla Commissione del prof. Ruotolo è quella giusta, si intravede finalmente, come detto, una visione costituzionale della pena. Ora si tratta di dare gambe a proposte, alcune delle quali ricalcano quelle che Antigone aveva elaborato e inviato alle autorità competenti. Molte delle proposte sono nella disponibilità diretta della Ministra o del Dap. Non c’è il rischio del pantano parlamentare e non ci sono scuse per non farle camminare velocemente, ossia allo stesso ritmo con cui ha lavorato la Commissione (costituita il 13 settembre scorso). Il carcere nell’era Covid, il carcere visto in quei video tragici di Santa Maria Capua Vetere, il carcere della sezione Sestante di Torino, non può più aspettare. *Presidente di Antigone Quello del cibo in carcere è ancora un affare per pochi di Nello Trocchia Il Domani, 30 dicembre 2021 La magistratura ha bloccato la procedura di assegnazione per vitto e sopravvitto che da decenni favoriva sempre gli stessi privati. L’amministrazione penitenziaria, però, non ha fatto niente. E ora è guerra di ricorsi. “Io compravo il bagnoschiuma a quasi tre euro, quando sono uscito l’ho trovato a novanta centesimi. Il sopravvitto è sempre stato caro e inaccessibile”, dice un ex detenuto che racconta lo scandalo della vendita di cibo e generi di prima necessità all’interno degli istituti di pena. Una vicenda che Domani aveva raccontato lo scorso settembre elencando i costi esorbitanti dei prodotti che i detenuti hanno la possibilità di comprare (sopravvitto) integrando il vitto distribuito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il caso sollevato riguardava il carcere romano di Rebibbia dove tra i costi dei prodotti del supermercato all’esterno dell’istituto e quelli dello spaccio interno c’era sempre una differenza che variava tra il 25 e il 100 per cento. La Corte dei conti è intervenuta bocciando (prima era intervenuto anche il Consiglio di stato) la gara indetta dal provveditore regionale del Lazio. Successivamente sono state annullate le gare in tutta Italia. In questi giorni si sono chiuse le buste per le nuove assegnazioni (gare ponte), finalmente il vitto e il sopravvitto sono stati separati e sono diventati oggetto di due diverse gare. Ma la base d’asta resta molto bassa, le imprese sono sempre le stesse, nostalgiche del sistema delle assegnazioni secretate, in vigore fino al 2017. L’intervento dei magistrati - Negli ultimi anni qualcosa è cambiato, ma solo grazie alla giustizia amministrativa e contabile. Nel 2019 il Consiglio di stato ha censurato la base d’asta a 3,19 del vitto, insufficiente per garantire una qualità minima dei pasti. Finalmente è stato messo in discussione l’automatismo che concedeva la gestione del sopravvitto alle stesse imprese che si aggiudicavano la gara per il vitto. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha così emanato un disciplinare che aumentava la base d’asta a 5,70 euro e lasciava ai provveditorati la possibilità di scorporare vitto e sopravvitto. Ma nel 2020 molti bandi non recepivano ancora questa indicazione. Così la Corte dei conti è dovuta intervenire sulla gara del Lazio producendo annullamenti a cascata in tutta Italia. L’esposto della garante - Gabriella Stramaccioni è la garante dei detenuti di Roma. A metà a novembre ha presentato un esposto alla procura di Roma descrivendo il disastro gestionale intorno alla “fornitura del vitto e sopravvitto agli stessi detenuti e internati”. Il primo di scarsa qualità, il secondo dal costo esagerato. L’esposto riguardava la gara indetta dal provveditore del Lazio nel giugno 2020 per il servizio di vitto ai detenuti nel carcere di Rebibbia. Il costo esorbitante genera di norma due anomalie. La prima è nell’accesso. Solo i detenuti che hanno una disponibilità economica possono accedere al sopravvitto “rincarato”. La seconda riguarda la violazione dell’ordinamento penitenziario che prevede testualmente che “i prezzi non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è sito l’istituto”. Nell’esposto vengono riportati i reclami che i detenuti hanno inviato alle autorità competenti. “Se ogni anno le direzioni degli istituti, provvedono a legittimare il prosieguo del fornitore alla somministrazione di cibi inadeguati, anzi pessimi a dire il vero, il provveditore proseguirà ancora per anni a rinnovare un contratto ormai scaduto da tempo, inadeguato e senza vigilanza alcuna per la qualità distribuita”, scrivevano nel giugno scorso. Nonostante le rimostranze e le proteste, nello stesso mese Carmelo Cantone, provveditore regionale del Lazio, Molise e Abruzzo, ha firmato i decreti che confermavano gli affidamenti per l’approvvigionamento e consegna delle derrate alimentari. Ma a inizio settembre la Corte dei conti, sezione regionale del Lazio, non ha registrato i decreti di approvazione dei contratti perché, in merito all’affidamento alla ditta Domenico Ventura srl, i magistrati contabili avevano rilevato perplessità “sulla legittimità a monte delle modalità di determinazione dell’oggetto del servizio”. Un rilievo che riguarda la pratica, nuovamente confermata nel contratto, di assegnare alla stessa ditta il vitto e il sopravvitto. Pratica che può produrre, per come concepita dal bando di gara, “un potenziale conflitto di interesse a discapito della qualità dei servizi alimentari primari offerti ai detenuti”. Insomma anche per i giudici contabili, come i detenuti, evidenziano che se il vitto ha una base d’asta di 5,70 euro l’effetto è che per compensare il basso guadagno si produca un aumento del costo del sopravvitto. Nel caso in esame l’azienda ha offerto un ribasso del 58 per cento impegnandosi a consegnare una colazione, un pasto e una cena a 2,39 euro. Il caso è finito in parlamento, sollevato dalla senatrice Margherita Corrado (ex M5s oggi al gruppo Misto) che ha parlato di “lucro sulle spalle dei detenuti”. Il risveglio dello Stato - La ministra della Giustizia Marta Cartabia, a inizio novembre, dopo la denuncia della Corte dei conti, ha annunciato la separazione delle gare di vitto e sopravvitto, l’annullamento delle assegnazioni e l’indizione di nuovi bandi. Sul sito del ministero sono elencate le gare annullate, non solo quella del Lazio, ma anche di Campania, Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta, Sardegna, Puglia e Basilicata, tutte basate sullo stesso disciplinare. Sul caso Lazio e dopo l’esposto della garante per i detenuti di Roma, la procura ha aperto un fascicolo. “Non sono stato sentito dalla procura”, dice il provveditore Cantone che dal luglio scorso è anche provveditore ad interim della Campania visto che l’ex provveditore, Antonio Fullone, è a processo per il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (è lui ad aver disposto la perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020 trasformatasi in una mattanza di stato). Perché nel 2020 viene bandita una gara che replica lo schema del vitto e del sopravvitto? “Questo discorso arriva adesso con l’intervento della magistratura, tenere insieme vitto e sopravvitto è una pratica che non è mai stata contestata all’amministrazione”, risponde Cantone. Ma ci volevano i magistrati per capirlo? “La domanda è mal posta, i disciplinari non li crea il provveditore, ma il Dipartimento che fino a quando non si è materializzata questa bocciatura non è mai stato soccombente”. Ma i detenuti hanno sempre segnalato vitto scadente, sopravvitto costoso anche in passato? “Le segnalazioni le abbiamo avute adesso e siamo intervenuti”. Ha mai segnalato qualcosa anche rispetto a una gara aggiudicata con un ribasso di quasi il 60 per cento? “Mi riservo di comunicarlo nelle sedi ufficiali, non voglio fare polemiche giornalistiche, nelle sedi opportune dirò cosa ho fatto per evidenziare le anomalie, comunque il disciplinare di gara viene predisposto dal Dipartimento”. Quello che è successo nel Lazio è successo anche altrove, ma come hanno fatto a non accorgersi di quanto poi rivelato dalla Corte dei conti e dal Consiglio di stato? “L’amministrazione penitenziaria non è capace di attivarsi autonomamente su queste vicende, aspetta di essere costretta dalla giurisdizione. Da quando mi occupo di carcere, una trentina di anni, si pone il tema del vitto e del sopravvitto”, dice Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio. Dal Dipartimento fanno sapere che di certo la giustizia amministrativa e contabile hanno dato uno scossone al sistema, ma dall’eliminazione della segretezza delle gare è iniziato un nuovo corso. Le prime gare ponte del sopravvitto, in Calabria, sono andate alla grande distribuzione rompendo il monopolio che, invece, persiste nel segmento del vitto premiando sempre le solite dieci imprese. Imprese, già riunite in un’associazione, che da decenni si dividono l’affare milionario e che ora fanno ricorsi sulle assegnazioni perché vogliono bloccare quello che sembra l’inizio della fine del grande scandalo del carrello, tollerato per decenni dallo stato. Il carcere chiuso in un cassetto. Ora tiratelo fuori di Giulio Cavalli Il Riformista, 30 dicembre 2021 Escluse pure dai decreti che impongono le ffp2 nei luoghi sovraffollati, le prigioni vengono continuamente nascoste. Invece bisogna farle esistere. Le proposte sul tavolo ci sono: quelle di Rita Bernardini, quelle della commissione Ruotolo. Forse ha ragione Rita Bernardini quando si augura che i politici cambierebbero idea se visitassero un carcere “girandolo veramente, e andando in tutti i luoghi”: “direbbero che non è possibile, che non si può accettare questo in Italia nel 2021”. A proposito, Rita Bernardini è in sciopero della fame, ancora una volta, “per chiedere ai parlamentari di tutti i gruppi politici cosa intendano fare per superare lo stato di illegalità delle nostre carceri, a partire dal sovraffollamento; illegalità tanto più grave con la ripresa dei contagi Covid, illegalità che genera trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti”. Lo so, dello sciopero della fame di Bernardini ne leggete solo sui giornali che quotidianamente scrivono di carcere, come se l’umanità e il rispetto dei diritti umani fosse una materia da specialisti rivolta a un ristretto pubblico di appassionati. Del resto tra i danni del marcimento del garantismo in Italia c’è anche la vendicativa indifferenza con cui si trattano i colpevoli (sia veri che presunti) che non meritano di essere considerati appartenenti alla nostra cerchia sociale di innocenti (o non ancora indagati, a seconda della professione che vi capita di fare). C’è un cassetto nella sensibilità pubblica in cui vengono chiusi gli “altri” che riteniamo di poter trattare con antipatia (nel senso letterale dell’avversione istintiva più o meno immotivata) senza sentirci ingiusti: lì dentro i carcerati ci sono da sempre. Poi un giorno (e forse sarà tardi) ci accorgeremo che lo sdoganamento dell’antipatia porta alla vendetta, la vendetta va sempre per mano con la violenza e che lo stadio finale è una guerra permanente in cui tutti sono vinti, senza vincitori. Tra l’altro si dovrebbe ripetere dappertutto che la battaglia di chi ha a cuore i diritti di tutti (e quindi anche dei carcerati) ha proposte sul tavolo precise, elementi di cui discutere animatamente. Bernardini chiede l’approvazione delle proposte di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata: “la prima, “speciale”, chiede di elevare da 45 a 75 i giorni di liberazione anticipata ogni semestre a partire dal 31 dicembre 2015; la seconda, “strutturale”, chiede di modificare l’ordinamento penitenziario per portare stabilmente i giorni di liberazione anticipata da 45 a 60 giorni”. Lo spiega benissimo lei. La Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario istituita il 13 settembre di quest’anno, presieduta da Marco Ruotolo, ha messo nero su bianco una serie di proposte, la revisione di molte disposizioni e la rimozione di alcuni “ostacoli” presenti nella normativa primaria che incidono su uno svolgimento della quotidianità penitenziaria che possa dirsi conforme ai principi costituzionali e agli standard internazionali. Scrive la Commissione (che c’è da sperare non finisca come tutte quelle Commissioni che redigono solo un elenco di buone intenzioni) che la pena, quale che sia la forma dell’espiazione, deve tendere a restaurare e a ricostruire quel legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato. Deve avere l’obiettivo di re-includere, di avviare un processo potenzialmente in grado di ridurre il rischio di ricaduta nel reato. Il suo perseguimento determina il soddisfacimento non soltanto dell’interesse del reo, ma dell’intera società, rispondendo a quel bisogno di sicurezza spesso avvertito come priorità dai consociati. Perché ciò accada occorre garantire una qualità della vita non solo “decente”, ma idonea all’attivazione di un processo di autodeterminazione che possa permettere al singolo di “riappropriarsi della vita”. Occorre, in altre parole, creare condizioni di sistema che consentano finalmente di considerare la risposta di giustizia come tesa a responsabilizzare in vista del futuro, più che a porre rimedio al passato. Sono cose anche minime che permettono un ritorno di civiltà, come la previsione della presenza, per almeno un giorno al mese, di un funzionario comunale per consentire il compimento di atti giuridici da parte di detenuti e internati, rivedere la disciplina sulla fornitura di vestiario e corredo e sull’alimentazione, approfondire il tema dell’autorizzazione per visite e ricoveri ospedalieri, la modifica del regime di sorveglianza particolare, evitare che i bambini vivano in carcere, la previsione per cui i permessi possano essere concessi non solo nei casi di “particolare gravità”, ma anche in quelli di “particolare rilevanza”, l’intervento rivolto ad assicurare una più adeguata e tempestiva organizzazione del processo di preparazione alla dimissione della persona detenuta. Rivedere insomma il carcere secondo i principi di autonomia, responsabilità, socializzazione e integrazione che dovrebbero essere la stella polare della gestione carceraria secondo la Costituzione. Fare esistere il carcere, smettere di nasconderlo sarebbe un buon proposito per l’inizio dell’anno. Magari inserendo il carcere anche nei Decreti come l’ultimo chiamato “Festività”, quello che prevede la mascherine Ffp2 obbligatorie nei luoghi chiusi e sovraffollati ma che si è dimenticato del carcere, luogo chiuso e contemporaneamente sovraffollato per definizione. “Vogliamo ricordare - dice il Segretario della Uilpa PP Gennarino De Fazio - che l’utenza carceraria e i visitatori non hanno obbligo alcuno, neanche del green pass “semplice”, che il sovraffollamento continua a crescere e raggiunge punte del 194% a Brescia Canton Mombello, del 187% a Brindisi e del 165% a Busto Arsizio, solo per fornire alcuni dati”. La variante Omicron, a differenza di certa classe dirigente e di molta opinione pubblica, sa benissimo che le carceri sono un luogo ghiotto per espandersi. Tenere conto dei detenuti e dei lavoratori penitenziari sarebbe già un buon passo per non alimentare questa tragica sensazione che siano isole esenti dalle leggi vigenti e dai diritti sociali. Fare esistere il carcere, smettere di nasconderlo sarebbe un buon proposito per l’inizio dell’anno. Storia di Eva, che a due anni ha “perso” il suo papà, arrestato a cura di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 30 dicembre 2021 Oggi di anni ne ha quasi 30 e, da allora, lo ha sempre incontrato in carcere. “Non siamo fotocopie, siamo tutti originali” dice Papa Francesco ai giovani dell’Azione Cattolica. Poche semplici parole che andrebbero ripetute e ancora ripetute a chi si diletta a ragionare per categorie. Abitudine molto diffusa e molto nociva a tutti i livelli e in tutti i contesti. Dopo più di vent’anni di impegno volontario (e talvolta professionale) in carcere di cui quasi 7 spesi nel coordinamento della redazione di Ristretti Orizzonti a Parma composta da una decina di detenuti di AS1, mi sento di poter affermare con sicurezza che nessuna storia è fotocopia di un’altra, nessuna famiglia, nessuna persona. Solo avvicinando queste vite e queste persone, solo ponendo loro domande e prestando ascolto, si potrà pensare di coglierne l’autenticità e l’originalità. E di pensare a un futuro per loro, che non sia soltanto la prigione per sempre. La storia di Eva R. non è una storia semplice; quando ha due anni arrestano il suo papà, ora ne ha quasi 30 e, da allora, lo ha sempre incontrato in carcere. Eva è farmacista, ama il suo lavoro ed è molto legata alla sua famiglia; alla mamma e al papà. Fin da piccola ha capito che il luogo dove andava a trovarlo era una prigione e non un ospedale come tentavano di farle credere, sa che ha commesso reati gravi e non lo giustifica ma sa anche che dopo 28 anni di detenzione non è più quell’uomo del 1994. Ho conosciuto Eva perché conosco Gianfranco che da più di sei anni si impegna nella redazione di Ristretti Orizzonti a Parma e questa figlia, che è evidentemente la luce dei suoi occhi, mi ha insegnato tante cose. La pazienza innanzitutto. Così descrive i colloqui al 41 bis che hanno segnato la sua infanzia dai 7 ai 14 anni. “È stato brutto per le perquisizioni, ti devi spogliare, togli le scarpe, i calzini, il giubbino, la guardia che ti tocca ovunque, è il loro mestiere però lì per lì è anche un po’ invadente… Poi si entrava in questa sorta di cabina bianca con pareti altissime che, considerando lo spazio di una seduta di ferro di un metro appena, ci entravano due persone a malapena. Poi c’era il marmo, questo vetro grandissimo tipo quelli delle poste, che sono spessi e non si sente niente, con soli tre forellini e diverse telecamere puntate. Mi davano 10 minuti in più per poter stare sola con papà oltre l’ora di colloquio in una stanza sempre vuota, sempre con tante telecamere. La mente credo che poi certe cose le cancelli perché non ricordo tutto, soltanto diversi frames di questi 7 anni che pure sono tanti. In quei 10 minuti eravamo soli ma poi, arrivata a 12 anni, anche questi minuti erano finiti perché a 12 anni eri considerato un bambino grande, un adulto. Ma a 12 anni ero ancora piccola…”. E la maturità con cui parla della sua storia. Le ho chiesto: - Ogni volta che ti ascolto, sento che non hai rabbia. Ma tutto questo percorso non ti ha mai vista arrabbiata, neanche da bambina, neanche con il carcere che deteneva il tuo papà? “No, un po’ per senso di colpa perché se lui è là vuol dire che ha provocato del dolore ad altre persone. Io non c’entro niente, ma mi sono abituata a stare un po’ china, pensando che comunque abbia senso l’espiazione della pena. Non sono mai stata arrabbiata ma indignata sì, quando ho capito che non sempre la giustizia è giusta, perché molte volte non è stato ben giudicato. Non mi hanno mai fatto addentrare in tutta questa situazione giudiziaria, ma so che, magari, c’erano volte in cui non era nemmeno presente, ed è stato condannato lo stesso. Ma rabbia no, mai, mai avuta verso nessuno, nemmeno in casa e papà non si è mai arrabbiato con chi lo ha accusato. Gli ultimi tempi però si è accorto di essere stato un capro espiatorio, ma l’importante è di non pensare più al passato. L’importante è che prima o poi ci sia un termine… Che poi essere associati a un reato di mafia è molto pesante, sicuramente per chi lo ha commesso, ma anche per la sua famiglia, perché hai un marchio addosso che ancora oggi mi porta a presentarmi solo con il nome. So che può sembrare maleducato perché di solito ci si presenta per nome e cognome, ma quando dico “Eva R.” e qualcuno indietreggia, è brutto. Così dico “Io sono Eva, sono così, così, così” ridiamo, scherziamo e dico il cognome solo dopo che mi hanno conosciuto, perché sì c’è stato il reato, è stato commesso e mio padre lo sta scontando, ma io non c’entro e cerco sempre di far capire che sì, è il mio papà, che le persone cambiano e se io sono così è anche perché sono il riflesso del cambiamento di mio padre”. La speranza. “L’importante è che ci sia una speranza, anche se con l’ergastolo ostativo il suo pensiero è cambiato. Perché da quel momento ha iniziato a dire che la sua vita è questa, che continua a essere questa e che non spera più, non vuole più chieder niente. Si è rassegnato. Ma non va bene, io parlo egoisticamente, non va bene a me perché io lo voglio a casa, e, anche se a lui va bene così, lo rivoglio in casa perché sono certa che è cambiato. Io lo conosco benissimo”. L’intervista a Eva sarà interamente pubblicata sul prossimo numero della rivista Ristretti Orizzonti *Giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Parma Approvato ordine del giorno per potenziare gli Uffici dell’Esecuzione Penale Esterna di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2021 La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha ringraziato il Parlamento ed espresso soddisfazione. Un ordine del giorno, per impegnare il Governo ad interventi urgenti, “con il primo veicolo utile”, per incrementare l’organico degli Uffici dell’esecuzione penale esterna. Lo hanno sottoscritto tutti i capigruppo di maggioranza della Commissione giustizia della Camera, su sollecitazione della sottosegretaria alla Giustizia, Anna Macina. Gli interventi a sostegno dell’Uepe erano tra le richieste del ministero della Giustizia rimaste fuori dall’ultima legge di Bilancio. “Rafforzare l’organico dell’esecuzione penale esterna era ed è una priorità - ha commentato la ministra della Giustizia Marta Carabia - sto già verificando con il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, quale possa essere la prima occasione per tener fede a quest’importante impegno preso oggi”. Le iniziative normative serviranno a coprire le attuali scoperture e permettere un aumento del personale, alla luce anche degli obiettivi del Pnrr e del coinvolgimento degli Uffici dell’esecuzione penale esterna sia nella riforma del processo penale che nel disegno di legge governativo sul contrasto alla violenza di genere. Al 15 dicembre, erano in corso di esecuzione 68.830 sanzioni di diversa tipologia, misure alternative alla detenzione, messa alla prova, misure di sicurezza non detentiva (45.290 in fase istruttoria e complessivamente 114.120 procedimenti); 54.593 invece erano a fine novembre i detenuti all’interno degli istituti penitenziari. Giustizia: il 2022 sarà l’anno della svolta? Oggi, come ieri, le stesse denunce, carenze, lacune di Valter Vecellio lindro.it, 30 dicembre 2021 È avvilente, e anche inquietante. In occasione di questa che è l’ultima nota sui temi della giustizia per l’anno 2021, si è andati a ritroso: la prima, e poi la seconda, la terza, fino all’undicesima. Il senso di avvilimento, di sgomento, di inquietudine non deriva dall’aver commesso errori. Quelli non sono un problema, se ne fanno sempre, anche se in questo caso, per fortuna, nessuno grave e irreparabile. In nessuna della cinquantina di note di quest’anno una smentita. Tutto bene, allora? Al contrario: tutto male; proprio per questo il senso di sgomento: praticamente nulla da emendare, nulla di che pentirsi, nulla che sia stato smentito. Quelle note le si potrebbero riproporre tali e quali, modificandone solo la data. Certo: oggi abbiamo un ministro della Giustizia, Marta Cartabia e prima s’aveva Alfonso Bonafede; ora c’è Mario Draghi, prima s’aveva Giuseppe Conte; con tutti i limiti, le lacune, le incapacità, le incomprensioni che questi personaggi, e altri che se ne possono citare, hanno; con tutti gli errori commessi e quanti ne commetteranno, non c’è dubbio che siano meno peggio di chi c’era prima. Quando si dice ‘Si stava meglio quando si stava peggio’, si fa un grosso errore: la verità è che quando si stava peggio, si stava peggio. Però lo sgomento, l’avvilimento sta nel fatto che ancora, come allora, ci si trova a osservare che non viene assicurato come sarebbe giusto e doveroso il diritto al diritto; ci sono temi, problematiche sistematicamente, pervicacemente eluse: la giustizia, come viene amministrata; la condizione delle carceri, la detenzione: riguarda non solo i detenuti, ma anche chi li custodisce e li assiste, la più generale comunità penitenziaria, tutta in ‘sofferenza’. Tra qualche mese, a Corte Costituzionale piacendo, e se le Camere non saranno sciolte, si andrà a votare su un discreto numero di referendum che hanno per tema la giustizia. Sono referendum ‘invisibili’. È scattato un ordine secondo il quale non se ne deve parlare? Forse no; comunque c’è un tacito, ferreo blackout informativo, e massimamente nelle televisioni private o pubbliche che siano. In una delle prime note del gennaio scorso si è parlato di Leonardo Sciascia, in occasione del centenario della nascita: le sue coraggiose posizioni per la difesa del diritto e la giustizia giusta. Il modo migliore per ricordare Sciascia è leggerlo, fare tesoro dei suoi tanti ‘insegnamenti’, a partire dalla sua ‘ossessione’ la Giustizia, la necessità di giudicare; la cattiva amministrazione. Riflettere sui suoi allarmi, ‘ammonimenti’ validi anche oggi. L’affilata, precisa analisi dell’errore giudiziario, che spesso non si può definire tale: “ E’ da dire, innanzi tutto, che la parola ‘errore’ è alquanto approssimativa…”, perché spesso è invece “un trasgredir le regole ammesse anche da loro…”, da coloro che prima le hanno elaborate e hanno poi il compito di applicarle; cosicché “L’errore è nel vagare sulla verità senza riuscire a scorgerla, nel mancare dei principi, delle regole, degli strumenti che consentono di scorgerla; ma quando i principi ci sono, le regole si conoscono e degli strumenti si dispone, di errore non si può più parlare vuol dire semplicemente, che dei principi non si vuole tener conto, le regole non si vogliono applicare, gli strumenti non si vogliono usare”. E comunque si possono catalogare come errori giudiziari non aver controllato se non dopo settimane e mesi (fatti trascorrere dalla vittima in carcere) una data e un luogo di nascita, per accorgersi che si tratta di un’omonimia? È errore giudiziario aver ritardato il controllo di un alibi, di un confronto con un testimone? Ci sono persone che si sono uccise, per questi ritardi, per questo differire di indagini che si potevano risolvere nel giro di pochi minuti, e facilmente. Si può considerare un errore il caso della signora che fa un mese di carcere perché nella sua automobile i carabinieri trovano una pistola giocattolo del figlio? È possibile che tra le mani esperte di un carabiniere una pistola-giocattolo continuasse a sembrare una pistola vera e che per un mese intero quella finta arma abbia vagato da un ufficio all’altro senza che nessuno la riconoscesse per quello che era, mentre la signora vagava da un carcere all’altro? Osserva Sciascia: “Innegabile la crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto”. A quel punto si era, Sciascia vivo. A quel punto si era nel gennaio scorso quando quella confidenza si è riproposta in una delle prime note per ‘L’Indro’; a questo punto siamo ancora. E a questo punto ci si ritroverà tra un anno? Ci si deve imporre, come una sorta di dovere, l’aforisma coniato da Romain Rolland: “Il pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà”. Ma ecco che ci scivola sotto gli occhi un editoriale per il sito ‘Cremonasera.it’ scritto dal magistrato milanese, il giudice per le indagini preliminari Guido Salvini. ‘Piccola’ storia, ‘piccola’ vicenda, ma estremamente indicativa, significativa. “Buone notizie dalla magistratura”, esordisce Salvini con perfida ironia. “C’è la prima mossa per recuperare appeal ed affrontare finalmente la crisi che l’ha tramortita. Il segretario di Magistratura Indipendente, una delle correnti più colpite dallo scandalo dell’Hotel Champagne, ha annunciato sulle mailing-list dell’Associazione una nuova ed importante iniziativa: è stato siglato un accordo con Italo grazie al quale gli iscritti avranno uno sconto del 30% sull’acquisto di tutti biglietti per qualsiasi tratta. In realtà i magistrati quando viaggiano per servizio sono già rimborsati dal Ministero. Ma ora potranno usufruire del cospicuo sconto anche quando viaggiano per diletto, per soggiorni balneari o nei luoghi d’arte, e forse l’accordo si estende anche ai familiari, chissà. Comunque da oggi iscriversi alla corrente è diventato ancora più vantaggioso, non solo per fare man bassa di uffici direttivi e di incarichi prestigiosi. I magistrati non sono sottopagati, al contrario, ma il beneficio servirà a riaffermare giustamente il loro status, diverso da quello dei comuni cittadini e dei comuni pendolari ad esempio, uno status e una credibilità che ultimamente si sono un po’ appannati. Era certamente quello che, per cominciare ad uscire dalla crisi della giustizia, tutti si aspettavano. Altro che riforma del CSM. Comunque buone feste e buon viaggio a tutti”. Si sarebbe tentati di pensare che i lupi, per quanto spelacchiati, non tradiscono comunque la loro natura; ma ci si intende di magistrati, non di lupi; per cui questo parallelismo lo si rinnega subito. Comunque tutto depone a favore delle ragioni del pessimismo. Forza e coraggio. Chi è senza reato scagli la prima pietra di Massimo Donini Il Riformista, 30 dicembre 2021 La tendenza del diritto a rappresentare l’etica pubblica ha sviluppato la patologia di identificare il diritto penale con tale etica. E questo eccesso si è accompagnato all’illusione collettiva di riservare l’infamia penalistica agli altri. Col processo di secolarizzazione del diritto e della morale le etiche di partito, di chiesa e di schieramento, laici e cattolici, liberali e socialisti, credenti e atei, onnivori e vegani, sono tutte quante divenute sempre più, se non categorie storiche, quanto meno visioni private del mondo: visioni che tuttavia è vietato assumere come quelle pubbliche della legge in chiave monopolistica e totalizzante. Sono concezioni del mondo accolte da gruppi che restano stranieri totali tra loro, come emerge a tutto campo nelle questioni paradigma fiche della bioetica. In un contesto di pluralismo dei valori, infatti. solo il diritto può adottare punti di vista rispettosi delle differenze e non contrassegnati da una specifica identità ideologica che sarebbe ad esso vietata da principi superiori. È vero dunque, oggi, che solo il diritto può rappresentare ormai l’etica pubblica. Ma poiché le leggi non obbligano in coscienza, e dunque formalmente non sono un parametro di moralità, se un’etica pubblica va individuata, dovrà essere ritagliata dal perimetro di ciò che è giuridicamente consentito o regolato, ma possa venire avvertito anche come doveroso moralmente. L’etica pubblica è dunque ciò che, della forma-ius, ci obbliga in coscienza. Più singolare e distorcente è la declinazione penalistica del fenomeno, che muove dalla convinzione che il diritto penale è quel ramo del diritto che ha più capacità censoria, è il più intollerante dei diritti, pur restando (in ipotesi) laico e non confessionale, non di partito o di parte. In una situazione di assenza di parametri pubblici di valutazione morale, per disapprovare una condotta la via più sicura è di qualificarla come reato, mancando altrimenti un sistema di valori davvero eloquente o condiviso: una censura in termini non penalistici o perfino non giuridici, ha un impatto assai modesto in un sistema privo di un codice di comportamento autonomo. È diffusa la percezione che “se non è penale, si può fare”, se un certo comportamento non configura un reato, la norma-precetto che lo vieta non si avverte come un obbligo veramente vincolante. Quando una condotta integra un illecito civile o amministrativo, la relativa sanzione può essere vista come una sorta di onere: la si può metter in conto, in cassa, quale tributo da pagare se vi vuole commettere il fatto. Se la sanzione è penale, invece, la regola ha un impatto censorio assai più forte, esprimendo un divieto assoluto, il cui castigo non è riducibile a tassa. Questo dato è poi accentuato da una peculiare debolezza della politica, incapace di esprimere una propria scala di valori, un proprio codice etico. Fenomeno che in Italia ha accentuazioni specifiche. La popolarità della giustizia penale è dovuta molto anche all’illusione forse più grande della coscienza collettiva: l’idea che il reato riguardi gli altri, che si possa normalmente non commettere. L’esperienza del penalista dimostra invece il contrario: è inevitabile che ognuno di noi commetta (e subisca) qualche reato. Si tratta di una dimensione umana, sociale, politica di carattere universale. Occorre infatti una nuova cultura per rappresentarla e promuoverne una acquisizione pubblica. I reati più comuni, di cui a seconda delle inclinazioni tutti siamo stati autori o vittime, sono gli oltraggi, le percosse, le diffamazioni, le violenze private, le appropriazioni o i piccoli furti, alcune forme di stalking, di disturbo alle persone, di minaccia, di ricatto, di frode e di falso, di comportamento pericoloso alla guida, o di guida in condizioni alcooliche vietate, di porto senza giustificato motivo di cose o strumenti atti ad offendere la persona, di consumo con cessione di droghe, di abuso di ufficio, di reticenza in giudizio, di omissione di soccorso, di abuso edilizio, o di discriminazione per motivi razziali, religiosi, sessuali, di violazione di corrispondenza, di ricevimento di cose provenienti da reati altrui, o di complicità in reati altrui etc. L’ingiuria, gli atti osceni e il danneggiamento doloso semplice sono stati da qualche tempo depenalizzati, altrimenti vi rientrerebbero. Nella vita privata, dalla scuola materna alla casa di riposo, nella circolazione stradale, nei luoghi di lavoro, in famiglia, nella vita pubblica, nei pubblici uffici, nelle imprese, tutti abbiamo rischiato di fare male ad altre persone violando anche involontariamente regole di prudenza, o di correttezza, e solo perché fortunati non ci è accaduto di commettere lesioni od omicidio colposi, qualche abuso o violazione di obblighi occorsi invece ad altri meno fortunati di noi. L’informazione giuridica dovrebbe dare conto che i reati, nel nostro sistema, non sono inferiori a 6000 fattispecie (una ricerca finanziata dal Ministero della ricerca scientifica di una ventina di anni fa conteggiava 5431 norme- precetto solo fuori dai codici), e dunque nessuno li conosce tutti, mentre tutti possono commetterne qualcuno senza saperlo. È dunque importante che si riconosca che nessuno è immune, nessuno è immacolato, nessuno può pensare che il penale riguardi solo gli “altri”. E non sarebbe neppure necessario ricordarlo se non fosse diffusa la dimenticanza che anche i dieci comandamenti riguardano tutti come capaci di colpa, e tra questi il più universale, il “non uccidere”, che anche inteso in senso stretto è toccato alla maggior parte di noi di non violarlo perché non c’è stata l’occasione per farlo, non perché ci manca la fossetta occipitale mediana di Lombroso. La tendenza del diritto a rappresentare l’etica pubblica ha dunque sviluppato la patologia di identificare il diritto penale con tale etica, ma a sua volta questo eccesso si è accompagnato all’illusione collettiva di riservare l’infamia penalistica agli altri, ora per interesse a usare questo etichettamento contro avversari politici (ciò che esprime l’aspetto più inquietante del giustizialismo), ora invece per una mancata percezione dell’oggettività del dato che il rischio penale è un fenomeno di massa. Questa situazione paradossale rende oggi necessario il passaggio da una democrazia penale populista, come quella che si lascia alle spalle l’anno ora trascorso, a una democrazia penale informata. La democrazia penale qui intesa non è solo quella (in un’accezione un po’ negativa) della maggioranza disinformata e telecomandata a odiare a turno i pedofili, i corrotti, gli immigrati clandestini, i dei datori di denaro, gli automobilisti ubriachi, gli stupratori soprattutto se stranieri, gli imprenditori che risparmiano sulla sicurezza, i violenti allo stadio, gli evasori dell’Iva europea, i bancarottieri, gli hackers, i negazionisti, i giovani bulli e violenti, e ovviamente tutti gli associati per delinquere (un’imputazione alla portata di tutti, i benpensanti non lo sanno e devono apprenderlo): quella maggioranza occhiuta che ha sostenuto a lungo populisticamente i programmi legislativi e la macchina da guerra giudiziaria contro il crimine e che l’attuale scontro sui “doveri informativi” delle Procure della Repubblica vuole rimettere in gioco. La democrazia penale informata è quella che garantisce più conoscenze e più controllo critico, che si basa su dati controllabili di altro tipo. Non è il sapere di una parte del processo che informa unilateralmente i cittadini prima delle decisioni di un organo terzo, ma la democrazia dove la scienza condivide le conoscenze che il Parlamento utilizza nel costruire le leggi (non solo l’Air, l’analisi di impatto della regolamentazione, ma controlli di legittimità, predittività degli effetti, impiego di culture ed esperienze non giudiziarie, attenzione al conflitto sociale e alle cause che favoriscono il delitto) e le trasmette anche ai giudici e ai media, dove la divisione dei poteri si attua attraverso una condivisione dei saperi che la limita: affinché non accada come nell’antica Cina quando l’imperatore, dalle segrete stanze della Città Proibita, esercitava almeno simbolicamente un potere assoluto sul tempo e sul peso, di cui poteva stabilire l’unità di misura. La Città Proibita quale monumento dell’inaccessibilità del Potere e del suo Sapere. Questa misura potrebbe oggi riguardare il peso della colpa e la durata della pena, due dati scarsamente accessibili allo stesso sapere scientifico. Se si conoscesse meglio il male intrinseco della macchina della giustizia, o si conoscessero le sue inevitabili sconfitte, anche se non si manifestano in violazioni terrificanti o disumane dell’integrità dei corpi, o nell’indifferenza alle anime, la popolarità di quella macchina da guerra sarebbe minore, e ciò le farebbe solo bene, rendendola più controllata e attenta, più umana, e anche la retorica della giustizia, e la celebrità di alcuni suoi attori, si dimostrerebbero spesso patetiche e ingannevoli. Un sano ridimensionamento di quelle illusorie aspettative potrebbe solo giovare a ridurre l’uso populistico dell’informazione, che costituisce uno dei mali della società contemporanea. Sopprimere l’appello del pm può aiutare a salvare la giustizia di Paolo Ferrua Il Dubbio, 30 dicembre 2021 Mentre l’appello dell’imputato è previsto dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, quello del pm non è tutelato né dalla Costituzione né dalle fonti sovranazionali. 1. Non v’è dubbio che l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di assoluzione e, di conseguenza, la possibilità di una condanna pronunciata per la prima volta in sede di appello rappresentino una grave ed insanabile contraddizione all’interno dell’ordinamento processuale. Premessa necessaria del discorso è che, mentre l’appello dell’imputato trova espresso riconoscimento nell’art. 14 comma 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici che garantisce ad ogni condannato il diritto al “riesame della colpevolezza”, l’appello del pubblico ministero non è tutelato né dalla Costituzione, che garantisce solo il ricorso per Cassazione avverso ogni sentenza, né dalle fonti sovranazionali. L’imputato condannato per la prima volta in appello subisce un grave pregiudizio, potendo esperire contro la sentenza solo il ricorso in Cassazione. Anche ad ammettere che il “riesame della colpevolezza”, garantito dal Patto internazionale, non implichi necessariamente una rinnovazione totale del giudizio, resta del tutto evidente che quel “riesame” non possa essere soddisfatto dal solo ricorso in Cassazione: sia perché il controllo del giudice di legittimità verte sulla motivazione della sentenza, anziché direttamente sul tema della colpevolezza, sia perché in terza istanza è esclusa l’assunzione di prove, diverse da quelle documentali. 2. Si obietterà che la Corte costituzionale con la sentenza n. 26 del 2007 dichiarò illegittima la soppressione dell’appello del pubblico ministero. Vero, ma fu una sentenza poco convincente, emanata in un clima politico avvelenato dai processi a Berlusconi. Basti pensare alla clamorosa contraddizione in cui incappò allora la Corte costituzionale. Il ricorso per Cassazione del pubblico ministero contro la sentenza di assoluzione fu ritenuto inadeguato a soddisfare gli interessi dell’accusa; ma, con una stupefacente inversione di prospettiva, il ricorso dell’imputato contro la condanna pronunciata per la prima volta in appello fu, invece, considerato sufficiente a garantire gli interessi della difesa. La discriminazione tra accusa e difesa, a fronte dello stesso mezzo di impugnazione, in spregio alla logica e al principio costituzionale della parità tra le parti, non avrebbe potuto essere più evidente. Nessuno può negare che un’ingiusta condanna sia più grave rispetto ad un’ingiusta assoluzione. Sarebbe, quindi, del tutto ragionevole che l’impugnazione del pubblico ministero contro l’assoluzione fosse limitata al solo ricorso per Cassazione, mentre quella dell’imputato contro la condanna fruisse della doppia garanzia dell’appello e del ricorso. Non riusciamo ad immaginare un solo caso in cui un’assoluzione gravemente ingiusta non possa trovare adeguato rimedio attraverso il ricorso in Cassazione del pubblico ministero. Certo, l’inevitabile vaghezza della formula dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”‘ lascia una certa discrezionalità decisoria. Esistono casi limite - i c.d. casi difficili - nei quali la nebulosità dell’aggettivo “ragionevole” consegna di fatto al giudice il potere discrezionale di assolvere quanto di condannare: discrezionalità sta appunto a significare la possibilità di una scelta fra più opzioni, ciascuna del tutto legittima. Questa discrezionalità funge da limite al controllo della Cassazione che, da un lato, è tenuta a verificare se il giudice abbia violato la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, travalicandone i limiti, ma, dall’altro, deve rispettare i margini di opinabilità connaturati alla regola; in altri termini, può sanzionare la scelta del giudice, quando superi quei margini, non quando sia rimasta al loro interno. Ora, proprio nei casi in cui siano ipotizzabili opposte decisioni - in sé parimenti legittime, quindi insindacabili in Cassazione - mentre appare equo che il giudice d’appello possa, in base al proprio convincimento, riformare la condanna in proscioglimento, sarebbe decisamente iniqua l’ipotesi inversa, di riforma del proscioglimento in condanna. 3. Ulteriori motivi di perplessità nei riguardi della condanna pronunciata in secondo grado derivano dal terzo comma dell’art. 111 Cost. che riconosce all’accusato la facoltà, “davanti al giudice, di interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa”. Se il giudice, davanti a cui va garantito il diritto alla prova, è il giudice investito del potere di condannare o assolvere, appare incongruo che una condanna possa essere inflitta in appello da un giudice diverso da quello che ha avuto il completo e diretto contatto con le fonti di prova. L’imputato ha sì esercitato il suo diritto alla prova in primo grado; ma in quella sede è stato assolto, mentre a pronunciare la condanna è un giudice autorizzato a decidere sulla base di un esame almeno in parte cartolare o, comunque, anche in caso di rinnovazione della prova, non altrettanto efficace quanto quello svolto in primo grado (la testimonianza perde progressivamente di credibilità con il decorso del tempo e, soprattutto, ad ogni sua ripetizione). Si obietterà che analoghi problemi potrebbe porre, dal punto di vista dell’accusa, la riforma in senso assolutorio della condanna pronunciata in primo grado. Ma, a prescindere dalla circostanza che il diritto alla prova è espresso dall’art. 111 comma 3 Cost. come garanzia dell’imputato, la sensibile differenza è che, mentre la conversione di una condanna in assoluzione implica un’attività essenzialmente demolitiva, la conversione di un’assoluzione in condanna esige un’attività costruttiva per la quale è più che mai importante il rapporto diretto con le fonti di prova. 4. Come rimediare all’anomalia? Le soluzioni possibili sono due. La prima, a mio avviso da privilegiare, è sopprimere l’appello avverso le sentenze di proscioglimento. La seconda, più laboriosa, è trasformare l’appello avverso le medesime sentenze in una fase puramente rescindente, destinata ad aprire per il giudice di secondo grado l’alternativa tra il rigetto dell’impugnazione (id est, la conferma del proscioglimento) e il suo accoglimento; in quest’ultimo caso, la sentenza sarebbe annullata e gli atti restituiti ad un giudice di primo grado per la rinnovazione del giudizio. Resta il fatto che il passaggio da un’assoluzione pronunciata in primo grado ad una condanna irrevocabile implicherebbe ben cinque gradi di giudizio, salvo rinunce dell’imputato: troppi nella logica di una ragionevole durata del processo. Pecorella: “Se un giudice assolve e l’altro condanna c’è già il ragionevole dubbio” di Simona Musco Il Dubbio, 30 dicembre 2021 Intervista a Gaetano Pecorella, ex presidente della Commissione Giustizia della Camera e padre della legge (poi bocciata dalla Consulta) che impediva la possibilità di impugnare le sentenze di assoluzione pronunciate in primo grado. “L’unica ragione che giustifica storicamente la bocciatura della legge che eliminava l’appellabilità delle sentenze di assoluzione è che non si è voluto dar torto ai pm che non volevano perdere questo potere”. A dirlo, al Dubbio, è Gaetano Pecorella, avvocato e padre della legge che, 15 anni fa, aveva impedito la possibilità di impugnare le sentenze di assoluzione pronunciate in primo grado, norma poi bocciata dalla Consulta. Il caso Burzi riapre il dibattito sulla possibilità di impedire l’appello per le sentenze di assoluzione... È bene ricordare che la Commissione Lattanzi aveva predisposto un progetto di riforma generale per il ministro Cartabia che prevedeva nuovamente, tra le altre cose, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado da pm. Non è da poco sapere che Lattanzi sia stato non solo presidente della Corte costituzionale, ma anche magistrato presidente di sezione di Cassazione e che abbia scritto moltissimi lavori di grande interesse. Questo per dire che evidentemente la mia proposta dell’epoca non era affatto isolata e non lo è neanche oggi. La cosa grave è che il ministro Cartabia abbia del tutto ignorato questa proposta, il che fa pensare che, ancora una volta, la pressione della magistratura abbia avuto i suoi effetti. Questa vicenda ci racconta come i tempi della giustizia e anche le sue modalità d’azione possano influire sulla vita delle persone in modo tragico. In questo caso con gesti estremi, che ci riportano indietro ai tempi di Tangentopoli. Come commenta questo caso? Come sappiamo, non è il primo suicidio collegato a inchieste. Alcuni hanno segnato la storia della nostra magistratura in modo pesante, senza considerare che quelli in carcere aumentano ogni anno e sono il segno di una giustizia che invece di garantire alla fine uccide coloro che ne sono vittime. È una giustizia che non avrei difficoltà a definire assassina, senza dare la colpa a nessuno, visto che se la gente si uccide qualcuno ne ha determinato la morte con qualche persecuzione o con tempi lunghi. Le vite delle persone rimangono appese a un filo in attesa di sapere cosa altri uomini decideranno del loro futuro. Da cosa era nata la sua proposta di legge? Una delle ragioni che aveva determinato la mia proposta, che peraltro traeva spunto da un congresso di Magistratura democratica, era quella di ridurre i tempi del processo. Il giudizio di appello contrasta nettamente con il sistema processuale che abbiamo adottato, perché si basa sulle carte e non sulla formazione della prova direttamente nel contraddittorio delle parti. Dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la legge sull’inappellabilità, la giurisprudenza è stata costretta a trovare dei rimedi a una situazione che era obiettivamente contraria al principio della formazione della prova in contraddittorio e alle direttive dell’Unione europea. I rimedi sono però abbastanza grotteschi: nel caso in cui la Corte d’Appello intenda modificare l’assoluzione deve rinnovare la prova dichiarativa. Ma il punto è la struttura generale del processo. Con la stessa legge era stato introdotto il principio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio, che per fortuna non è stato dichiarato incostituzionale. E non si vede come sia possibile, laddove in primo grado i giudici hanno ritenuto, sulla base di prove raccolte direttamente, che la persona sia innocente, che quegli stessi elementi in appello diventino prova di colpevolezza. Tant’è vero che la legge che all’epoca fu approvata consentiva l’appello solo nell’ipotesi in cui il pm avesse indicato prove nuove. Il presidente vicario del Tribunale di Milano ha definito una cattiva idea quella di impedire l’appello delle sentenze di assoluzione, in quanto esse stesse potrebbero rappresentare un errore giudiziario. Come risponde a questa affermazione? Nelle regole del nostro processo, la prova che conta è quella che viene formata nel contraddittorio delle parti e davanti al giudice che deciderà. Il processo accusatorio non prevede mai un appello da parte del pm. E questo perché un errore giudiziario è più facile si faccia sulle carte che non davanti a un giudice che ha visto in faccia i testimoni, li ha sentiti e ha posto loro domande. È una furbizia quella di dire che l’errore potrebbe essere fatto in primo grado. Se accade in secondo grado cosa facciamo? Estraiamo a sorte chi ha ragione? Questo non è accettabile e lo è così poco che la stessa giurisprudenza dice che nell’ipotesi bisognerebbe rinnovare le audizioni. Ma io mi domando: se sulla base di quelle audizioni una persona è stata assolta, com’è possibile che sulla base delle stesse possa reggersi una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio? Soprattutto dopo anni gli stessi testimoni potrebbero non ricordare più cos’è successo... Non è pensabile che in secondo grado si avvicinino alla verità più di quanto lo facessero in primo grado, visto che il tempo incide sulla memoria e sui particolari. Direi che l’unica ragione che giustifica storicamente quello che è avvenuto è che non si è voluto dar torto ai pm, che non volevano perdere questo potere. La Consulta bocciò però la sua legge. Come giudica quella sentenza? Come una delle più inaccettabili. Il ragionamento si basò sull’articolo 3, cioè sulla parità delle parti. Ma quando mai si può dire che c’è una parità delle parti, nel processo penale, tra accusa e difesa? Il pm ha giustamente dei poteri che la difesa non può avere, però mentre la difesa come diritto costituzionale ha quello di difendersi sempre fino alla sentenza definitiva, perché c’è l’articolo 24, nulla prevede la Costituzione per quanto riguarda il potere del pm di appellare. L’appello non è un diritto costituzionale. L’unica obbligatorietà è quella di iniziare l’azione penale, ma non quella di andare avanti, altrimenti il pm dovrebbe appellare sempre. Con la riforma del processo penale è cambiato qualcosa? Aver eliminato l’inappellabilità è un grave torto che il ministro Cartabia ha fatto alle garanzie individuali. Una persona resta sotto processo per tempi enormi, incalcolabili, tant’è che poi alla fine la sua resistenza fisica si logora e una persona perbene può arrivare al suicidio. Perché il problema è quello: un innocente che per anni viene indicato come presunto colpevole può anche perdere fiducia in tutto, in se stesso, nelle istituzioni. Può perdere la famiglia, l’onore… Se avessero un po’ più di cultura alcuni magistrati andrebbero a vedere come nei Paesi anglosassoni, da cui noi abbiamo mutuato il modello, l’appello del pm non esiste. Il pg di Torino ha quasi ipotizzato il vilipendio nei confronti della magistratura per chi ha associato il suicidio di Burzi alla sua vicenda giudiziaria... Questa tecnica delle “minacce”, in un Paese in cui c’è la libertà di pensiero e la libertà di criticare le sentenze e la magistratura non è solo inopportuna, ma anche un grave abuso, secondo me. Ho vissuto tante vicende giudiziarie e posso dire che un assolto in primo grado vive un eventuale capovolgimento della sentenza in appello in maniera molto più traumatica di una condanna in primo grado. Quando dopo anni tutto si capovolge si immagini qual è il dramma interiore che una persona perbene può vivere. Più che minacciare chi ha delle critiche da fare, forse sarebbe più opportuno che si valutasse più a fondo quello che certi magistrati fanno e come lo fanno. Una critica non può essere considerata vilipendio. Il “no” del detenuto agli oggetti condivisi giustificato dal rischio Covid di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 dicembre 2021 Accolto il ricorso di un carcerato che chiedeva l’acquisto di 2 mazzi di carte: un diritto giustificato dall’allarme legato alla diffusione dei contagi. In tempi di pandemia c’è un rischio legato all’uso di oggetti in comune. Partendo da questa considerazione, la Cassazione (sentenza 47184) ha accolto il ricorso di un detenuto contro il no del giudice di sorveglianza alla sua richiesta di acquistare 2 mazzi di carte, uno francese uno napoletano, da tenere nella cella di detenzione. Per il giudice che aveva negato il permesso la richiesta di aver delle carte in camera era immotivata, visto che per lo svago l’amministrazione penitenziaria le metteva a disposizione dei detenuti. Il no del magistrato di sorveglianza - Il Magistrato di sorveglianza aveva espresso il suo diniego con un decreto adottato de plano e dunque senza indagini o approfondimenti. E questo proprio perché la domanda era stata bollata come poco più che un “capriccio”, come una comodità personale e quindi come tale al di fuori della tutela effettiva che l’ordinamento giudiziario garantisce quando è in gioco la lesione di diritti o la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Il sì dei giudici di legittimità - Nel caso esaminato i giudici di legittimità affermano invece che alla base dell’istanza del detenuto c’era un diritto soggettivo, “la domanda - si legge nella sentenza - era collegata alla richiesta esplicita del reclamante di garantire una forma di tutela del diritto alla salute, posizione legittimante di presidio super-primario”. La Suprema corte sottolinea, infatti, le giuste preoccupazioni del detenuto “in relazione alle condizioni di impiego in socialità, dei mazzi stessi, esistenti e messi a disposizione dei detenuti, da parte dell’Amministrazione, in una congiuntura di pieno allarme legato al pericolo di diffusione del virus Covid-19”. Piemonte. Il Garante regionale: “Utilizzare i fondi del Pnrr per rinnovare le carceri” ilcorriere.net, 30 dicembre 2021 Se non ora quando? Come non pensare di utilizzare i 132,9 milioni di euro previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e i fondi messi a disposizione dal Governo per far compiere un salto di qualità alla sanità e all’edilizia penitenziaria?”. Con questo doppio interrogativo il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano ha aperto questa mattina, nella Sala Viglione di Palazzo Lascaris, la conferenza stampa di presentazione del Sesto dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi. “La pandemia - ha aggiunto - ha esasperato e aggravato i problemi esistenti. Va riconosciuto alle Istituzioni e all’Amministrazione penitenziaria di aver compiuto qualche passo per porvi rimedio, ma è indispensabile proseguire il potenziamento strutturale e infrastrutturale in modo omogeneo in tutti gli Istituti. Così come è necessario provvedere alla cronica carenza di personale nelle aree educativo-trattamentali, di polizia penitenziaria e di personale amministrativo, financo dei ruoli apicali come direttori e comandanti”. Il documento, elaborato dal garante regionale in collaborazione con il Coordinamento piemontese dei garanti, verrà indirizzato al ministro della Giustizia Marta Cartabia, ai sottosegretari di Stato Francesco Paolo Sisto e Anna Mancina, al capo e al vicecapo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia, al provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Rita Russo, al capodipartimento della Giustizia minorile e di comunità Gemma Tuccillo e al responsabile del Centro di giustizia minorile del Piemonte Antonio Papalardo. All’evento sono intervenuti i garanti comunali di Alba Alessandro Prandi, Alessandria Alice Bonivardo, Asti Paola Ferlauto, Biella Sonia Caronni, Cuneo Alberto Valmaggia, Ivrea Raffaele Orso Giacone, Saluzzo Paolo Allemano e Torino Monica Cristina Gallo, che hanno denunciato come gli istituti carcerari siano stati negli anni abbandonati a se stessi e necessitino d’interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria troppo a lungo attesi e non più rimandabili. “È necessario operare in fretta per adeguare gli ambienti - ha insistito Mellano - affinché il carcere possa sempre più essere vissuto come un’occasione di recupero, di formazione, di reinserimento nella società per trasformare il tempo della detenzione in un’occasione di riscatto personale e sociale”. Oltre alle criticità, il Coordinamento piemontese dei garanti ha annunciato una serie di iniziative per il 2022, tra cui un rinnovato impegno per la sanità penitenziaria, che prevede anche momenti di incontro e di confronto con la Commissione Sanità del Consiglio regionale. All’incontro hanno preso parte anche il componente dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale Gianluca Gavazza, il consigliere Diego Sarno, il direttore dell’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Torino Domenico Arena e Matilde Chareum dell’Ufficio osservazione e trattamento del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria (Prap). Campania. Covid, nelle carceri campane 86 detenuti e 45 agenti positivi Corriere del Mezzogiorno, 30 dicembre 2021 Allarme dei Garanti: “Tra poco non ci saranno più celle per l’isolamento”. In Campania attualmente in sei istituti penitenziari (Poggioreale, Secondigliano, Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino, Salerno e Sant’Angelo dei Lombardi) sono stati contagiati dal Covid 86 detenuti, di cui uno solo ricoverato in ospedale, e 45 agenti di polizia penitenziaria. Questi i dati diffusi dai garanti dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, di Napoli Pietro Ioia, Caserta Emanuela Belcuore, e Avellino Carlo Mele. “C’è il rischio concreto - denunciano - che in alcune carceri non ci siano a breve nemmeno le celle per l’isolamento sanitario o per i contagiati o per isolamenti precauzionali per coloro che hanno avuto contatti con i contagiati”. “Pur non essendoci l’obbligo di esibizione di Green pass e tamponi a carico sia dei familiari che degli avvocati, raccomandiamo agli stessi - chiedono - una vigilanza, un’attenzione e rispetto della funzione di prevenzione, che è fondamentale per evitare il dilagare del Covid in quanto il diritto alla salute dei detenuti è prioritario”. “Ci auguriamo - proseguono i garanti - che all’interno degli stessi istituti vengano adoperate misure di prevenzione sociosanitarie, vadano intensificati da parte delle Asl la disponibilità a somministrare in tempo utile e ragionevole i tamponi, oltre che dare la possibilità ai detenuti di vaccinarsi in tempi brevi”. “In questo periodo speciale vanno intensificate le misure alternative al carcere - aggiungono - così come il numero delle scarcerazioni da Covid, che per il momento è stato molto contenuto nei numeri e ci auguriamo che sia detenuti in attesa di giudizio che definitivi con particolari situazioni sanitarie, con patologie oncologiche, cardiologiche o mentali possano ricevere arresti domiciliari o detenzione domiciliare. Il carcere non può essere una discarica sociale né una vendetta, ci auguriamo che tutti i soggetti istituzionali, a partire dalla politica, evitino immobilismi delle norme e il distanziamento carcerario (continuando a non fare nessun decreto di ristoro per i detenuti e atti di clemenza). La politica faccia qualcosa, subito”. Torino. Monica Gallo: “Il carcere non è un posto per giovani come Antonio” di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 dicembre 2021 Intervista alla Garante comunale dei detenuti. “Quando arrivano in prigione è troppo tardi. Lì sono sempre considerati “tossici”, nessuno gli crede. E sono sempre di più: un numero cresciuto a dismisura con la pandemia”. “Il carcere non è assolutamente il luogo adatto per curare questi ragazzi. L’anno prossimo prenderò la lista di questi giovani, nati alla fine degli anni 90 o all’inizio del nuovo millennio, con disturbi comportamentali importanti, spesso con doppia diagnosi, di cui non si occupa nessuno, e lavorerò per loro. Quando arrivano in carcere è troppo tardi, bisogna prevedere percorsi psichiatrici e trattamentali all’esterno. Giovani che nei periodi critici - di solito estate e dicembre - compiono reati. E sono sempre di più: un numero cresciuto a dismisura con la pandemia”. È quasi un appello, quello di Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti di Torino, che oggi parteciperà alla conferenza stampa dei familiari di Antonio Raddi, a due anni dalla sua morte. Era detenuto nel carcere torinese delle Vallette, Antonio, tossicodipendente di 28 anni quando morì il 30 dicembre 2019 per un’infezione polmonare dopo aver perso 25 chili di peso nel giro di tre mesi. La mamma Rosalia, il padre Mario e la sorella maggiore Natascia, con i nipotini che lo adoravano, si sono opposti alla richiesta del pm di archiviare l’indagine che vede accusati quattro medici penitenziari di omicidio colposo, per non aver fatto abbastanza per salvare la vita del giovane. La famiglia è in attesa della decisione del Gip. Dottoressa Gallo, chi era Antonio Raddi? Un ragazzo bello, con un bel sorriso, e dalla mente brillante, ma con un passato di tossicodipendenza importante. E, come spesso avviene, quando le famiglie chiudono i rubinetti, per poter comperare le dosi cadono in percorsi di illegalità. Lui aveva già scontato parte della pena in carcere, poi era stato trasferito in una comunità esterna dove stava procedendo bene, come testimoniato da tutti gli operatori SerD. Aveva ancora da scontare poco tempo. Ma un giorno evade per andare a casa dai suoi. Perciò torna in carcere dove ricomincia tutto da capo: un anno di pena. Lui non lo accetta, lo sente come un fallimento, per sé e per la sua famiglia. Comincia a stare male, manifesta rabbia e sofferenza, qualche volta fa uso di farmaci, subisce alcune sanzioni disciplinari, e il pregresso percorso non gli consente di entrare nella comunità interna al carcere, Arcobaleno. Peggiora. Inizia un dimagrimento repentino, racconta di vomitare sangue, ha degli svenimenti, i compagni di cella riferiscono una condizione drammatica. La prima volta che l’ho visto, per richieste di routine, stava sulle sue gambe, poi su una sedia a rotelle. In quei giorni è stato visitato? Ha ricevuto un supporto psicologico? Il diario clinico riporta le visite e il supporto ricevuto ma, a mio avviso, con uno sguardo assuefatto. Un tossicodipendente in carcere resta solo un “tossico”, che infastidisce, ha pretese, e il malessere non viene creduto. Lui in passato aveva avuto episodi di anoressia, che non vennero presi in considerazione. Il 10 dicembre venne trasferito nel “repartino” penitenziario dell’ospedale torinese Molinette, con piccole stanze senza bagno, sempre chiuse, dove non può fumare e con all’interno anche malati psichiatrici. Antonio non ce la fa, firma per uscire e torna nel penitenziario. Ho sollecitato più volte la direzione dell’istituto di una presa in carico più adeguata, anche psicologica, perché il ragazzo non reggeva la carcerazione. Dissi che Antonio non era in condizione di poter scegliere consapevolmente. Dopo quattro giorni venne ricoverato in un altro ospedale dove venne sottoposto ad alcune terapie e poi riportato nuovamente in carcere. Fino a quando entrò in uno stato di coma irreversibile. Io facevo da spola tra lui e i genitori, per cercare di fare da collegamento tra i sanitari e la famiglia, perché purtroppo - ed è un gravissimo problema - a loro non era concesso parlare con i medici. Credo veramente di non aver mai utilizzato così tanta energia “istituzionale” per far sì che questo ragazzo venisse salvato. Perché questo caso viene fuori solo adesso? C’era un’indagine in corso che noi abbiamo rispettato, come da indicazione del Garante nazionale, il cui ufficio si è anche occupato della vicenda. Una linea che è stata condivisa dalla famiglia con la quale ho instaurato un rapporto di fiducia. Due anni fa gli avvocati Massimo Pastore e Gianluca Vitale, legali della famiglia, mi chiesero di raccogliere i documenti e i dati riguardanti Antonio, e con il dossier che fornii loro andarono in procura. Ma ora, con la richiesta di archiviazione la situazione è cambiata. Il Dap ha definito la casa circondariale Lorusso e Cutugno, “le Vallette”, la più complessa d’Italia. Perché lo è? Innanzitutto perché c’è una grandissima varietà di circuiti: collaboratori di giustizia, alta sicurezza, sex offender, comunità per tossicodipendenti, l’istituto di custodia attenuata per le madri con i bambini, l’articolazione di salute mentale, il famoso “Sestante”. Con così tanti e differenti percorsi trattamentali diventa di difficile gestione. E poi, come molti istituti, soffre di carenze di personale: ad oggi ci sono 1378 detenuti su 1096 posti disponibili, di cui 672 stranieri, con 12 educatori ed un solo direttore. Nell’articolazione psichiatrica oggi ci sono 26 persone. Ma c’è una sofferenza psichica che non è certificata. Fino a che non esplode. È di quella che ci dobbiamo occupare. Roma. La morte di Abdel: “Al San Camillo gravi irregolarità” di Romina Marceca La Repubblica, 30 dicembre 2021 I risultati dell’inchiesta della Regione confermano “rilevanti criticità nella documentazione sanitaria”. Se Wissem Ben Abdel Latif ha mangiato o ha bevuto, se la pressione arteriosa era regolare o se lo erano i battiti del suo cuore nei tre giorni di ricovero all’ospedale San Camillo, molto probabilmente non lo sapremo mai. Dopo la rivelazione di Repubblica sulla documentazione mancante nella cartella clinica del tunisino morto a 26 anni nel Servizio psichiatrico arriva anche il sigillo da parte della Regione. “Soprattutto al Servizio psichiatrico del San Camillo, la qualità della documentazione sanitaria ha mostrato rilevanti criticità”, scrivono in una nota dal Centro regionale Rischio clinico al termine dell’inchiesta interna voluta dalla direzione regionale Salute. L’inchiesta interna della Regione ha messo in luce anche dell’altro. Wissem non avrebbe avuto sin da subito la possibilità di parlare con un mediatore culturale nella sua lingua. Tanto che gli ispettori hanno scritto: “È emersa la difficoltà nel reperimento del servizio di mediazione culturale”. E, con molta probabilità, non sapremo nemmeno se le fasce che tenevano costretto il migrante a letto erano posizionate in modo corretto. Uno dei dati di maggior rilievo per un paziente che viene ricoverato in “contenzione” come era Wissem Abdel. Su questo monitoraggio e su altri parametri non riportati in una apposita scheda, la Regione scrive ancora: “Viene segnalato alla Asl Roma 3 l’importanza di revisionare le procedure clinico-operative per la corretta gestione delle complicanze gestite nel reparto comprese le attività di monitoraggio, segnalazione e gestione di eventuali eventi avversi”. Dall’inizio di dicembre gli avvocati della famiglia del migrante morto e il legale del Garante nazionale dei detenuti hanno chiesto un’integrazione degli atti in loro possesso dove c’è soltanto il “registro di contenzione”. C’è la data di inizio della procedura di immobilizzazione, il 25 novembre. Ma non sono indicati gli orari in cui è stata interrotta. Viene scritto che il paziente era “sedato”, aveva un “comportamento aggressivo”, era “confuso” e “disorientato” in ogni giorno di degenza. Per ogni giorno, poi, viene scritto “contenzione” o “contenuto”, il 28 novembre viene indicato alle 4,20 “arresto cardiocircolatorio”. Ma se quel paziente aveva dormito o se stava bene o male, nessuno lo ha scritto in quel registro. Perché quei dati dovevano essere annotati nella scheda mancante: quella di “utilizzo della contenzione fisica”. Ma che fine ha fatto quella scheda? Non è mai stata compilata o è andata persa? Nella relazione, la Regione spiega che ha concentrato l’inchiesta “dal momento del ricovero presso il Servizio psichiatrico del Grassi fino all’exitus (decesso, ndr) verificatosi presso il Servizio psichiatrico, di competenza della Asl Roma 3 all’interno dell’azienda ospedaliera San Camillo”. Wissem era arrivato al Grassi il 23 novembre con una diagnosi di disagio “schizo-affettivo”. Aveva rifiutato la terapia che gli avevano prescritto al Cpr di Ponte Galeria dove si trovava dai primi di ottobre. “Non accettava quella condizione”, hanno raccontato i suoi compagni di viaggio. Dal 25 novembre è stato trasferito al San Camillo, per competenza territoriale. Al termine della loro relazione gli ispettori della Regione danno delle indicazioni: “Si segnala alla Asl Roma 3 l’importanza di attivare il servizio di mediazione culturale che è stato possibile solo dopo alcuni giorni dal ricovero”. La relazione è arrivata all’Asl 3 che adesso dovrà “mettere immediatamente in atto le azioni di miglioramento e il superamento delle problematiche rilevate entro il 31 gennaio 2022”. Vibo Valentia. Detenuto si cosparge di alcol e si dà fuoco, è gravissimo ilvibonese.it, 30 dicembre 2021 Trasferito a Napoli, è molto grave ma ce la farà. Si ripropone il tema drammatico dei suicidi in carcere e della detenzione dei pazienti psichiatrici. Diverse cicatrici sul suo giovane corpo, segni di una sofferenza che dura da sempre. La prova che a togliersi la vita ci ha provato più volte, anche di recente. Stavolta non ha usato una lama improvvisata, ma l’alcol. Se l’è versato addosso e s’è dato fuoco. A salvarlo, la prontezza degli agenti della Polizia penitenziaria del carcere di Vibo Valentia e, soprattutto, il personale del Pronto Soccorso ed i medici del reparto di Chirurgia, Anestesia e Rianimazione dello Jazzolino di Vibo Valentia, che l’hanno curato, stabilizzato, intubato e preparato per il trasferimento nel Centro Grandi Ustionati del Cardarelli di Napoli. È molto grave, ma ce la farà, anche se le conseguenze saranno devastanti alla luce della gravità delle ferite lasciate dal fuoco. Protagonista e vittima di una vicenda che ripropone il tema dei suicidi nelle carceri e della cura dei detenuti affetti da patologie psichiatriche, un trentenne di origini magrebine, recluso nella media sicurezza per reati comuni. Una emergenza che da Nord a Sud viene denunciata, oltre che da settori della politica, anche dalle organizzazioni sindacali della Polizia penitenziaria e dalle associazioni. Solo nel 2021 sono stati 53 i suicidi consumati, su 130 morti totali nelle carceri italiane. Una lieve flessione rispetto al 2020 (62 suicidi e 152 morti) Numeri comunque alti, troppo alti. Che nascondono drammi e, talvolta, anche responsabilità del sistema. Come quelle ravvisate dalla sezione civile della Corte d’Appello di Catanzaro che appena nello scorso agosto, con una sentenza storica, ha condannato il Ministero della Giustizia a risarcire la moglie ed i quattro figli di Salvatore Giofré, morto suicida nel 2008, a 50 anni, proprio nel carcere di Vibo Valentia. Biella. “Nessuna cura in cella per il malato di tumore”: 4 medici indagati di Mauro Zola La Stampa, 30 dicembre 2021 È stato fissato per le prime settimane del nuovo anno l’incidente probatorio, richiesto dal gip, che dovrebbe concludere le indagini sulla morte di Ioan Gal, per cui quattro medici dell’Asl di Biella sono accusati di omicidio colposo e falsità ideologica. Gal, che oggi avrebbe 56 anni, è morto nell’agosto 2016 nell’hospice “Orsa Maggiore” di Biella, in cui era stato ricoverato non appena uscito dal carcere di via dei Tigli, dove aveva scontato meno di due anni di pena per furto. In quel lasso di tempo l’uomo, originario di Timisoara, era stato colpito da un tumore, la sindrome di Ciuffini Pancoast, che l’avrebbe consumato in pochi mesi, facendogli perdere oltre venti chili di peso. Tumore per cui, secondo la Procura, non sarebbe stato adeguatamente curato in carcere. A sollevare il caso era stato un altro detenuto, compagno di cella e amico di Gal. Questi, dopo la sua morte, aveva consegnato ai carabinieri della sezione di polizia giudiziaria una lettera dell’uomo, in cui spiegava le condizioni in cui versava nel periodo in cui era detenuto. Il luogotenente Tindaro Gullo aveva subito iniziato le indagini, coordinate prima dal sostituto procuratore Maria Bambino e poi direttamente dal procuratore Teresa Angela Camelio, interrogando i compagni di cella e sequestrando le cartelle relative al paziente e il diario clinico dell’infermeria della casa circondariale, ricostruendo in pochissimi giorni i mesi di tormento vissuti da Gal. Dalle testimonianze e dalla lettera era emerso un quadro devastante: Gal per mesi non riusciva neppure ad alzarsi dalla branda ed erano gli altri detenuti a doversi occupare di lui, lavandogli i vestiti, cercando di farlo mangiare e accompagnandolo in sedia a rotelle alle visite. Quando nelle docce aveva avuto una copiosa perdita di sangue dal retto, il detenuto suo amico avrebbe chiesto ai medici dell’infermeria che gli venisse fatta una gastroscopia, sentendosi rispondere di farsi gli affari propri. Una volta scarcerato Gal era crollato a terra già nell’ingresso e aveva dovuto essere trasportato in ambulanza fino all’ospedale, dove era stato confermato che il tumore aveva già causato delle estese metastasi. Inizialmente le indagini avevano riguardato una dozzina di sanitari, per poi focalizzarsi su quattro soggetti: la responsabile dell’infermeria del carcere, un altro medico che lavorava nella struttura e due che avrebbero visitato l’uomo in quel periodo senza però avviare le cure necessarie. A confermare la ricostruzione degli investigatori sarebbero state ben quattro perizie ordinate dalla Procura. Dopo l’ultimo accertamento da parte del professionista nominato dal giudice per le indagini preliminari scatterà la richiesta di rinvio a giudizio. Torino. Cpr, il recluso fantasma che neppure l’avvocato è riuscito a incontrare di Carlotta Rocci La Repubblica, 30 dicembre 2021 Mistero in corso Brunelleschi. È stato un fantasma alle sue stesse udienze, ora lo è, probabilmente, per le vie della città, con il suo carico di problemi evidenti. Così evidenti da essere stato rilasciato, il 28 dicembre, dal Cpr dove era trattenuto dal 25 ottobre. Un caso anomalo, quello di Abdel, marocchino di 42 anni, che ha destato la preoccupazione non solo del suo difensore, l’avvocato Alessandro Praticò, ma anche della garante dei detenuti, Monica Gallo. Come stia e cosa gli sia successo, soprattutto dove sia ora, sono i quesiti a cui non è stata data risposta: un mistero che ancora una volta coinvolge una persona fragile portata e lasciata per mesi nella struttura al centro delle polemiche dopo il suicidio di Moussa Balde, e diventata anche oggetto di un’inchiesta della procura. “Quello che colpisce in questo caso sono le coincidenze molto strane” spiega l’avvocato Praticò. Ricapitolando i fatti: a ottobre il marocchino, che non risulta avere precedenti penali, viene fermato. È in Italia dal 2005, ma è irregolare e così viene portato al Cpr. Viene fissata una prima udienza, il 25, entro le 48 ore da quando è stato sorpreso senza documenti, in cui Abdel compare davanti al giudice e spiega di avere problemi psichici, ma non è in grado di dimostrarlo, in quanto la documentazione medica sarebbe rimasta in Spagna. Il suo trattenimento al Cpr viene convalidato. Dopo trenta giorni si svolge la seconda udienza davanti al giudice. Nel frattempo lui ha nominato di fiducia l’avvocato Praticò che già l’aveva assistito per la precedente udienza come difensore d’ufficio. Stranamente però, il 24 novembre, Abdel non si presenta in aula, e nemmeno viene portato davanti al giudice. Il legale rimarca la stranezza e spiega che dovrebbe quanto meno esserci una rinuncia scritta alla sua comparizione. Tuttavia il giudice convalida ugualmente senza dar troppo peso alla mancata presenza. Due giorni dopo l’avvocato si reca al Cpr per incontrarlo e capire la situazione: “Non vuole vedere nessuno, forse non sta bene” gli viene detto, senza che così possa verificare le sue condizioni. L’avvocato tuttavia non viene revocato e continua ad assisterlo. Terza udienza dopo altri trenta giorni: anche questa volta Abdel non compare davanti al giudice. E ancora una volta, sempre più stupito, il difensore chiede come sia possibile che non sia stato portato con la forza, e di disporre una consulenza psichiatrica. Il giudice convalida il trattenimento per altri trenta giorni. La Garante Monica Gallo si interessa al caso e chiede al Cpr informazioni su Abdel. Il suo avvocato riprova ad andare a trovarlo. E qui la sorpresa: il Cpr, dopo 60 giorni, a soli 4 giorni dall’udienza, spiega solo che “è stato dimesso dal centro il 28 dicembre, per sopraggiunta incompatibilità alla vita in una comunità ristretta”. Ragusa. Carcere: per fare un orto ci vuole… un dono di Antonella Barone gnewsonline.it, 30 dicembre 2021 L’orto della Casa circondariale di Ragusa, che oggi produce una variegata quantità di verdure, legumi, piante aromatiche e pure qualche frutto tropicale, ha una storia recente, iniziata ad aprile 2020 con uno scambio di doni all’apparenza modesti: mascherine contro semi di zucchine lunghe. Le prime, confezionate dai detenuti su iniziativa dei volontari dell’associazione ‘Ci ridiamo su’ dei clown dottori, furono regalate durante il lockdown (quando ancora non si trovavano ed erano preziose per difendersi dal virus) a case di riposo e ad altre strutture. Come ringraziamento per la delicatezza del gesto ai detenuti furono inviati semi di zucchine ‘tinnirume’ (tenerezze), tipiche della Sicilia e utilizzate in diversi piatti tradizionali. Da qui il titolo del progetto “Libere tenerezze” che si è sviluppato in breve tempo e con la stessa facilità con cui hanno attecchito le prime coltivazioni. Una crescita avvenuta non solo in estensione (la direzione dell’istituto ha concesso tre appezzamenti) e varietà degli ortaggi, ma anche in obiettivi e valori. L’orto è un’attività agricola a “ciclo chiuso” utilizza cioè gli scarti della cucina e quelli organici del terreno, tutto realizzato attraverso una compostiera in modo da evitare la dispersione nel terreno di minerali aggressivi, che possono essere fonti inquinanti delle falde acquifere. Contro batteri o funghi vengono usati macerati di ortica, di aglio e preparati organici mentre è bandito l’uso sostanze chimiche, anticrittogamici e antibiotici. “Il progetto è stato dedicato all’enciclica di Papa Francesco “Laudato si” del 2015 - racconta Fabio Ferlito, presidente dell’Associazione ‘Ci Ridiamo Su’ -in cui ci rispecchiamo perché trasmette alle persone detenute un messaggio di equilibrio dell’uomo con la natura. E, tra l’altro, gli addetti all’orto stanno acquisendo una competenza veramente molto alta, utilizzabile in futuro e che può servire anche come opportunità di riqualificazione personale”. I detenuti sono formati e seguiti da un agronomo esperto: “Uno di loro - raccontala direttrice Giovanna Maltese - ha visitato un’azienda che produce piante tropicali quando uscirà vuole coltivare un terreno e avviare un’impresa. L’obiettivo - aggiunge - è valorizzare tutto il buono che c’è nella persona detenuta per evitare che una volta in libertà torni a delinquere”. Sono numerose le esperienze di orti avviate in istituti penitenziari e coltivati da detenuti, molti dei quali, come quelli nelle carceri di Ascoli Piceno, Ancona Barcaglione, Ancona Montacuto, Pesaro e Volterra destinati al consumo interno di personale e detenuti o a una vendita limitata. In altre realtà, come in Sicilia, dove un’iniziativa analoga a quella di Ragusa è sorta nella casa circondariale di Giarre, si è scelto di privilegiare coltivazioni tipiche del territorio. Gli ortaggi di “Libere tenerezze” hanno già trovato una prima strada di commercializzazione in una rete di vendita locale, aggiungendosi ai raffinati dolci di ‘Sprigioniamo i sapori’, alle conserve e agli altri prodotti provenienti dall’istituto ibleo realizzati con materie prime di eccellenza del territorio. Roma. Il Natale “dentro”, la speranza da accendere di Lucio Boldrin* Avvenire, 30 dicembre 2021 Il Natale dovrebbe essere pieno di gioia, sorrisi e luci. In carcere, però, è da sempre un giorno malinconico e quest’anno anche di più. Tra le motivazioni, sicuramente, il prolungarsi della pandemia e le tante incertezze che si porta dietro, anche se cerchiamo d’illuderci che sia tutto nomale. Ad appesantire l’atmosfera, a un mese esatto dal Natale, la morte improvvisa di uno dei cappellani, don Roberto Guernieri: un infarto ha posto fine alla sua esistenza terrena a 62 anni, 28 dei quali vissuti al servizio dei detenuti e degli ultimi. Era sempre dalla loro parte, li sentiva e li amava come fratelli. Un punto di riferimento e di guida, don Roberto, anche per noi cappellani. La sua morte, oltre a essere un grande dolore, ci ha destabilizzati tutti e ha rallentato le varie iniziative in atto. Ma per onorarlo e ricordarlo al meglio cercheremo di portare avanti tutto quanto lui amava fare per aiutare i detenuti e farli sentire meno soli. Grazie di cuore, don Roberto, per l’esempio e il dono che sei stato per i detenuti e per me. I reclusi raccontano come il Natale possa diventare uno dei periodi più pesanti dell’anno. I pensieri e i sentimenti sono rivolti ai propri familiari lontani, ma anche al dolore provocato dai reati commessi. L’incontro e il colloquio di qualche ora nell’area verde, la videochiamata o la telefonata a casa per 10 minuti (quando va bene) non possono bastare a colmare quel vuoto di affetto che la carcerazione impone a chi è dentro e a chi è fuori. Questo ci fa capire una volta di più la necessità urgente di un miglioramento delle condizioni di vita all’interno del carcere, con l’incremento di attività sociali, lavorative, ricreative, e del contatto con il territorio. Anche il riconoscimento del diritto all’affettività è una questione da mettere in pratica se si vuole finalmente cominciare a parlare di dignità e umanità nelle carceri. Andrebbe inoltre bandita ogni presunzione legale di irrecuperabilità sociale, riconoscendo al condannato il diritto alla speranza, il solo motore in grado di promuovere atteggiamenti positivi, di autentico cambiamento. Concludo perciò con un saluto e un augurio per il Santo Natale e il nuovo anno, di ogni bene alle detenute e ai detenuti di tutte le case circondariali italiane: non perdete mai la speranza, impegnatevi a tirare fuori il meglio di voi stessi, a essere donne e uomini migliori quando uscirete. Con il proposito di non cadere più negli stessi errori, perché il carcere fa capire a tutti quanto di più importante si è perso. Un augurio anche a coloro che lavorano nelle carceri e alla Polizia penitenziaria: che il 2022 sia migliore, sotto ogni aspetto, e che il rispetto umano sia la base per migliorare tutti quanti insieme. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Mirea, la pittrice che non ha paura di Nisida di Alessandra Di Dio Corriere del Mezzogiorno, 30 dicembre 2021 In un docu-film le storie dei giovani dell’istituto minorile. Il regista Sannino: il riscatto è possibile. La storia di Mirea è una realtà che racchiude tante storie. Una fotografia reale del carcere minorile di Nisida con le sue contraddizioni, speranze e sogni. Quello più importante è sperare di vivere “fuori”. Dove c’è il mare che porta lontano. Il racconto di una ragazza di 16 anni, arrestata con sua madre per spaccio di cocaina, si intreccia ad altre vicende simili o peggiori. Mirea incontrerà una compagna di cella che ha ucciso sua madre e il compagno, entrambi criminali e dai quali lei scapperà. Sono adolescenti in un tunnel buio. C’è chi ha trovato la luce o ne ha visto solo uno spiraglio. Giorni fa è stato il docufilm (Mirea, appunto) è stato presentato presso Università Partenope. A moderare l’incontro la docente Maria Luisa Iavarone. Mirea, dal latino mirari (guardare con stupore) è il nome di fantasia attribuito alla giovane protagonista, l’attrice Giovanna Sannino. Ne abbiamo parlato con lei e la sua “famiglia teatrale”, la compagnia “Sannino”. “La vicenda scritta da me e mia madre, Vera Ponticiello, con Roberto Azzurro, è un collage di storie reali viste da noi per cinque anni a Nisida - ha dichiarato l’attrice. I finanziamenti non arrivavano e solo nell’estate del 2021 abbiamo potuto presentare il progetto. La Fondazione Banco di Napoli ha creduto in noi e adesso stiamo continuando a presentarlo in Campania. Ci hanno chiamato per svolgere un laboratorio teatrale nel carcere di Nisida. Avevo 14 anni e i detenuti erano tutti miei coetanei. Ho avvertito la responsabilità di rappresentare al meglio ciò che ho visto - continua -. Nisida ha salvato molti adolescenti che hanno compiuto reati gravi. Oggi ho vent’anni. Ho avuto l’onore di partecipare anche alla fiction Rai Mare Fuori, ambientata a Nisida. Interpreto Carmen, una ragazza madre. Per salvarsi quei ragazzi devono avere la convinzione di farsi aiutare o non ne usciranno mai. Io la chiamo capa tosta”. “Nei loro occhi vedevo immagini di storie terribili ma anche voglia di ricominciare da zero”, afferma la docente Ponticiello. “Alle riprese ha preso parte un giovane attore, realmente detenuto a Nisida ma che adesso lavora. Mi sono ispirata a varie storie senza etichettare nessuno. È così che si può dare una seconda occasione di rinascita anche a chi è ormai morto dentro. Non credevo che ragazzi così giovani avessero storie così difficili, ma la vita è più forte della morte. Una giovane detenuta ha dipinto realmente per noi magliette, durante un laboratorio su Shakespeare”, dice Ponticiello. “Mirea si salva, dipingendo quadri e creando sculture”, spiega Salvatore Sannino, regista del corto. Il maestro Lello Esposito, realmente impegnato a Nisida le insegnerà quest’arte. “Abbiamo assistito a storie forti ma che hanno trasmesso molta umanità - riprende il regista -. Grazie all’aiuto di educatori e associazioni alcuni ragazzi hanno potuto ricominciare a vivere. Per altri è un percorso in salita. Quando a volte si nasce in famiglie legate alla criminalità non è facile cambiare il proprio destino. Ma non è così per tutti. C’è chi nasce due volte come i personaggi del nostro docufilm e sceglie il bene per sconfiggere il male. Dopo tutto quello che ho visto credo sia importante che questi ragazzi, una volta scontata la loro pena, rientrino nell’apparente “inferno” di Napoli per trasformarlo in “paradiso”, scegliendo di rischiare solo per realizzare i loro sogni, in una città meglio collegata a realtà nazionali anche grazie al contributo delle Istituzioni”. Leonardo Sciascia e Enzo Tortora, storia di un’amicizia contro il giustizialismo di Lucio D’Alessandro Il Riformista, 30 dicembre 2021 “Sciascia, un maestro oltre la letteratura”. Questo è il titolo con cui Roberto Andò ha scelto di ricordare nei giorni scorsi all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli l’amico Leonardo Sciascia in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita. L’intendimento è stato chiaro da subito: guardare allo scrittore puntando all’intellettuale nel senso che lo stesso Sciascia volle dare al termine già in un articolo uscito su La Stampa il 25 novembre 1977: “L’intellettuale è uno che esercita nella società civile […] la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze sociali”. Tra i molti fatti a cui lo scrittore diede spazio e interpretazione mi piace ricordare (anche per la rimbombante attualità del tema tutto italiano della calpestatissima presunzione costituzionale di innocenza in rapporto al comportamento dei media) quello che coinvolse Enzo Tortora. Quando il 17 giugno 1983 Tortora viene arrestato (sarà poi condannato in primo grado senza prove) come spacciatore e sodale di Cutolo con quello che fu definito da Giorgio Bocca “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese”, Sciascia pubblica a poche settimane di distanza (7 agosto 1983) un articolo sul Corriere della sera su quel caso eclatante di alterazione della verità. Lo scrittore prende subito posizione in termini difensivi, senza tentennamenti: “E se Tortora fosse innocente? Sono certo che lo è”. Già chiuso in un “tunnel assurdo, demenziale, basato sul niente”, Tortora commosso gli indirizzerà un telegramma, ringraziandolo per aver visto con “occhi profetici la tremenda realtà che lo imprigiona”. Da quel momento i rapporti tra i due si consolidano e Tortora affida allo scrittore i suoi tormenti di detenuto. Le sue riflessioni, registrate con precisione nelle lettere a lui indirizzate dove la descrizione puntuale dei fatti e dei movimenti a Regina Coeli prima, poi agli arresti domiciliari nell’appartamento di via Piatti 8 a Milano, fa da sfondo a una lucida, disincantata e amara constatazione dell’uso alterato della legge in un Paese che non solo ha perso il senso della Giustizia ma ha distrutto con la vita di un uomo la sua stessa civiltà. Per Sciascia sono quegli gli anni di composizione di Porte aperte (1987), in cui affronta proprio il tema della giustizia e della libertà sopraffatte da un giustizialismo che rende la pressione dell’opinione pubblica più efficace dell’azione di un giudice onesto. Protagonista ne è un giudice limpido servitore della giustizia, in questo caso, a mettere a repentaglio la sua carriera, pur di difendere, seppur invano, l’imputato dalla pena capitale. Il suo punto di vista è che opporsi alla pena di morte - invocata a gran voce, dalle autorità così come da una città che ha aperto le porte della follia “è un principio di tal forza che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo”. “L’ho visto come il punto d’onore della mia vita, dell’onore di vivere” dichiarerà con fermezza il “piccolo giudice”. Si tratta di difendere la propria visione dei fatti nella convinzione di perseguire la giustizia, anche quando si è soli contro l’opinione più diffusa. Frattanto Tortora era stato assolto dalla Corte d’appello di Napoli nel 1986, proprio in quella città che era stata palcoscenico e punto di inizio dell’irrisolta scomparsa di Majorana a cui Sciascia dieci anni prima aveva voluto offrire una possibile, sebbene artificiosa, soluzione. La relazione intrecciata con solidità e rafforzata dalla comune militanza nel partito radicale non durerà che qualche anno stroncata dalla morte prematura di entrambi (Tortora nel 1988, l’anno seguente lo scrittore). Ne resta però traccia nelle disposizioni testamentarie di Tortora che volle che le sue ceneri fossero riposte accanto a una copia della Storia della colonna infame nell’edizione con prefazione per l’appunto di Leonardo Sciascia, pubblicata nel 1981 dalla casa editrice Sellerio. Se la Storia manzoniana ha un senso nella nostra storia attuale, nelle parole di Sciascia, questo risiede proprio nel suo continuo ammonimento rivolto alle generazioni future. La responsabilità personale per i gesti di ciascuno non può mai essere obliterata dal comodo riparo delle circostanze, dall’oscuro rifugio dei contesti. Ciascuno di noi è chiamato in ogni momento a rispondere di fronte al più severo dei tribunali, quello della propria coscienza. E la coscienza va oltre la Storia. Certamente in questa battaglia di responsabilità Sciascia e Tortora s’incontrano, così come pure condividono un medesimo disincanto rispetto a una realtà che appare ostile al vero e al giusto. Un disincanto segnato dall’epitaffio scritto da Sciascia per l’amico che recita quasi a memento o forse ad augurio per le battaglie di giustizia “che non sia un’illusione”. Libertà, diritti e pandemia: così i giudici del mondo decidono sulle misure anti Covid di Alessio Sgherza La Repubblica, 30 dicembre 2021 Nasce dall’università di Trento in collaborazione con l’Oms un database aperto con sentenze giudiziarie di tutto il mondo riguardanti le misure adottate dai governi per combattere la pandemia. Perché con il coronavirus “tutto il mondo è paese”. Racconta la coordinatrice del progetto: “Colpisce come le corti di sistemi diversi arrivino a bilanciamenti molto simili tra i diritti”. In Austria, il tampone rapido agli studenti e l’obbligo di mascherina non violano il diritto allo studio anche se può costringere parte degli studenti alla dad. In Australia, la limitazione agli assembramenti è lecita anche se impatta sulle celebrazioni religiose. In Zambia, il governo può limitare i comizi in campagna elettorale, ma non può usare il covid come scusa per limitare la par condicio in radio e tv. Dire “tutto il mondo è paese” non è mai stato così vero come durante la pandemia di Covid-19. Governi, cittadini e giudici dalla Nuova Zelanda al Canada si sono trovati tutti ad affrontare - seppure all’interno di sistemi sociali, politici e giuridici differenti - la stessa emergenza. Con misure simili e sfide simili ai diritti. Tutti abbiamo rinunciato a porzioni della nostra libertà, che sia di movimento o di autodeterminazione nei provvedimenti sanitari o ancora nel diritto allo studio (fare la dad non è come andare a scuola, non c’è niente da fare). Nasce da questa consapevolezza il progetto Covid-19 litigation, un database ad accesso libero che raccoglie tutte le sentenze e decisioni degli organi giudiziari di tutto il mondo. Nato per volontà dell’università di Trento e con la collaborazione dell’Oms, il progetto è coordinato dalla professoressa Paola Iamiceli, docente di Diritto privato all’ateneo trentino. I casi sono identificati attraverso una rete internazionale di giudici e studiosi costruita ad hoc, con il supporto di banche dati pubbliche e ricerche media trasversali ed estensive. È stato inoltre attivato uno strumento di crowd sourcing, che permette un coinvolgimento più ampio della comunità. “Stiamo lavorando da oltre un anno a questo progetto - racconta Iamiceli - e abbiamo coinvolto moltissime persone”. La banca dati sarà continuamente aggiornata per riflettere gli sviluppi del diritto di ogni giurisdizione. Una ricerca interattiva è resa disponibile in modo che gli utenti possano anche fornire suggerimenti per l’integrazione del database, la sua fruizione e utilità. “In questi due anni - continua Iamiceli - ci siamo abituati a rinunciare a qualcosa dei nostri diritti. La pandemia ci mette di fronte a questa necessità, con un’intensità e una forza che non avevamo conosciuto. In ogni Paese legislatori e giudici stanno mettendo di fronte salute pubblica e diritti. Rispetto al pre pandemia, ragiona la professoressa, sembra quasi che i diritti ‘minacciati’ dall’emergenza siano tornati di moda. “Perché i diritti non possono essere dimenticati nel medio e nel lungo periodo, è un bene vedere i cittadini che si fanno avanti per difenderli”. Ma attenzione: non stiamo parlando di no-vax o di chi nega l’esistenza dell’emergenza. Ma di una rinvigorita attenzione verso quelle che sono le nostre libertà fondamentali. “Questa pandemia ci ha anche ricordato l’esistenza di tanti diritti, l’importanza di alcune libertà, per la libertà religiosa, il diritto all’istruzione, alla privacy. Solo ora riusciamo ad apprezzarle”. Non ci si può nascondere che molte delle tematiche no-vax si basano proprio su questa difesa della libertà. “dimensione individuale della salute e una dimensione collettiva. E secondo le norme e le costituzioni, la prima può essere limitata per la salute pubblica. Serve trovare un equilibrio tra libertà e solidarietà. E in tutte le decisioni analizzate dal database la solidarietà è preponderante”. Eppure sembra strano che Paesi così diversi possano imparare l’uno dall’altro. L’India è molto diversa dagli Stati Uniti, che sono molto diversi dall’Italia. Continua Iamiceli: “Serve consapevolezza della diversità dei sistemi. Ma quello che si vede studiando le decisioni presenti nel database è che gli Stati e i giudici hanno usato principi diversi per affrontare problemi molto simili e alla fine hanno definito bilanciamenti molto simili. E in altri Paesi, ad esempio alcuni in Sud America, dove la consapevolezza dell’importanza di misure emergenziali era più bassa, sono proprio i giudici con le loro decisioni ad aver stimolato i governi ad affrontare i problemi, e adottare certe misure. Dove c’è stata più lentezza a volte sono state proprio le corti a contribuire. Anche in India ci sono molti esempi”. L’obiettivo di questo progetto è fornire uno strumento di guida e di confronto per chi deve prendere decisioni, ma si rivolge indirettamente anche ai policy makers, che devono adottare questi provvedimenti. “E vedrete che inizieranno a crescere le richieste di risarcimento da parte di individui o gruppi per i danni subiti dalla limitazione delle proprie libertà. Con questo database vogliamo fornire strumenti anche a coloro che devono prendere decisioni per capire come le scelte sono valutate dai giudici e fornirgli elementi di riflessione”. C’è stato un tempo, in cui il diritto romano era considerato una fonte unica, valida e sovranazionale. Per secoli l’Europa e non solo si è affidata alle norme di Roma come base delle decisioni giudiziali. La pandemia ci riporta lì. “O almeno ci stiamo provando”, chiosa ridendo Iamiceli. Boldrini: “Dalla tutela dei migranti al fine vita: l’Italia è ancora ferma sui diritti” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 30 dicembre 2021 “Bisogna tenere bene a mente il fatto che riguardo ai fenomeni come l’immigrazione e l’emergenza climatica nel mondo globale i confini non esistono. O anche la politica della destra più chiusa si rende conto che bisogna mutare prospettiva o saremo condannati a non risolvere i problemi”. Parole chiare, nette, quelle dell’ex Presidente della Camera - ora Presidente del Comitato permanente sui diritti umani nel mondo della Camera dei deputati - Laura Boldrini, in coerenza con quell’orizzonte valoriale di inclusione e rispetto dei diritti che da sempre ne caratterizza la vita politica (e privata), ripercorsa, nel volume “Una storia aperta. Diritti da difendere, diritti da conquistare” (Edizioni Gruppo Abele), nella lunga e preziosa intervista a cura della giornalista Eleonora Camilli. Presidente Boldrini, dall’affossamento del ddl Zan al diritto di cittadinanza e al suicidio assistito: l’Italia è in ritardo sui diritti? Ci sono tanti diritti che sono in attesa di essere affermati, ed è veramente molto triste che una parte di questo Parlamento ne sia allergica. Ne abbiamo avuto conferma quando la parte destra dell’emiciclo del Senato ha inteso affossare il ddl Zan: la trovo una pessima immagine, esemplificativa di come certa politica, votando contro una legge che contrasta i crimini d’odio, non consideri alcuni diritti - come il diritto delle persone a sentirsi sicure - meritevoli di essere sostenuti. Come si fa a votare contro una legge che contrasta i crimini d’odio? È giusto quindi istigare discriminazioni e violenze contro donne, omosessuali, transessuali, persone disabili? Per la destra oscurantista non è un problema che queste persone non abbiano una protezione specifica, e ciò, a mio avviso, è molto preoccupante. Ci sono molti diritti in attesa di essere riconosciuti: la Corte costituzionale si è pronunciata sul suicidio medicalmente assistito, così come sul cognome delle madri ai figli. Inoltre c’è anche la legge sulla cittadinanza, che risale al 1992, datata e non più corrispondente alla realtà perché nel frattempo il mondo e l’Italia sono cambiati. Tutti provvedimenti fermi perché a rischio di non trovare in aula una maggioranza e di subire le sorti del ddl Zan. Purtroppo in Italia manca una destra moderata e liberale con cui ragionare e con la quale collaborare per portare avanti il Paese su temi delicati come questi. I diritti sociali e quelli civili sono davvero in contrasto o questa è una lettura distorsiva? Non sono in contrasto: sono collegati. Si possono proporre alcuni provvedimenti che riguardano il lavoro e, al tempo stesso, altri a favore dei diritti civili. Non esiste una contrapposizione di tal genere, se non nella narrazione della destra, abile nell’affermare in modo manipolatorio che i veri problemi sono sempre altri: il famoso “benaltrismo”. In Afghanistan la donna sembra relegata ad una condizione di evidente marginalità. Noi possiamo realmente permetterci di guardare la questione dall’alto in basso, con superiorità? Come ribadisco nel libro “Una storia aperta”, un diritto non è sicuro se non è affermato e consolidato ovunque nel mondo. Se i diritti delle donne - in Afghanistan, Arabia Saudita, Yemen e altrove - sono calpestati, ciò va a incidere anche sulla solidità dell’uguaglianza di genere in altri Paesi. Noi donne europee non possiamo sentirci davvero al sicuro con la consapevolezza che in gran parte del pianeta le donne soffrono una disparità di trattamento così grave. Per arrivare alla vera parità, dobbiamo fare in modo che ovunque nel mondo le donne riescano a ottenere gli stessi diritti e le stesse opportunità degli uomini, perché, fintanto che ci saranno luoghi dove questo non avviene, anche qui da noi quei diritti saranno precari. Insomma, i diritti delle donne devono essere considerati universali. Lei ha istituito le due commissioni parlamentari su Internet e digitale e per il contrasto dei fenomeni di odio in rete. Bisogna fare di più per opporsi al cyberbullismo e altre forme di violenza veicolate dalla rete? La rete è un luogo in cui la violenza sta avendo la meglio: è necessario mettere degli argini a questa deriva. Disponiamo di proposte di leggi - ce n’è una anche a mio nome - contro questi fenomeni, ma finora non sono state calendarizzate. La mia - elaborata, insieme ad esperti, professori universitari e rappresentanti delle authority, sulla falsariga di una legge tedesca - purtroppo è ferma. Nel testo, oltre a ribadire che chi veicola forme di violenza attraverso la Rete commette un reato così come chi lo commette offline, chiama in causa le piattaforme digitali, che devono rispondere del loro agire. Se non intervengono immediatamente e non presentano dei report puntuali sull’impegno profuso per bloccare la diffusione di messaggi offensivi, incorrono in multe ingenti. È importante che il legislatore intervenga prima possibile, perché se non facciamo nulla è come se accettassimo la degenerazione quotidiana del dibattito pubblico e ci rassegnassimo al peggio. L’obiettivo di queste campagne d’odio è limitare la libertà di espressione delle persone, quelle che esprimono opinioni considerate sgradevoli ai professori dell’odio, intimidirle ed estrometterle dalla sfera pubblica e politica. E questo incide sulla qualità della democrazia: non può essere più trascurato. Nel libro ha tracciato una distinzione fra democrazia e democratura. Alcuni Paesi che costituiscono l’Unione europea si pongono come vere e proprie democrature. Ritiene che, per quanto concerne il progetto europeo, qualcosa sia da rivedere? L’Unione Europea, che finora è stata troppo tollerante, oggi può contare su una leva potente per ripristinare lo stato di diritto in alcuni Paesi: non concedere i fondi, inclusi quelli del Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ndr). Un Paese dell’Unione europea come la Polonia non può avere zone Lgbt+ free, cioè luoghi in cui la comunità Lgbt non è gradita e in cui le discriminazioni sono di fatto legittimate: questo è contro la democrazia. Alcuni Stati stanno strumentalizzando la gestione dei flussi migratori in maniera discutibile, come ci testimonia quanto avviene al confine tra Polonia e Bielorussia o il ricatto della Turchia all’Unione europea. Pensa che la situazione potrebbe migliorare? La situazione potrebbe migliorare qualora l’Unione europea si dotasse di una politica comune sull’immigrazione, che al momento non ha poiché non è materia su cui le istituzioni europee hanno una delega. Quindi ogni Stato fa per sé e tenta di scaricare sugli altri il problema. Non si può essere ipocriti: impedire a tutti i migranti di entrare nel territorio dell’Unione equivale a impedire l’accesso all’asilo a chi fra loro ha realmente bisogno di protezione. Un diritto previsto dai trattati dell’Unione. Serve quindi alle frontiere un sistema efficace di identificazione delle persone, informazione sui loro diritti e anche sui loro doveri: chi ha titolo di fare domanda d’asilo deve poterla fare, mentre, in caso contrario, chi entra in violazione alle leggi sull’immigrazione verrà rimandato indietro, sempre nel rispetto dei propri diritti. L’Unione europea non può più permettersi di rimandare i vari problemi che oggi esistono: se per cambiare i Trattati è necessaria l’unanimità, ci saranno sempre Stati che impediranno questo passaggio, quindi bisogna cambiare il meccanismo di voto. Verrà poi anche il momento di decidere cosa fare con Polonia e Ungheria, che da tempo non rispettano più i principi fondanti dell’Ue, considerandola semplicemente un bancomat e rallentando l’integrazione politica europea. Non funziona così: da condividere ci sono vantaggi ma anche responsabilità. Nel mondo si ravvisa una certa disomogeneità per quanto riguarda le possibilità d’accesso alla vaccinazione: in Africa una percentuale esigua di popolazione ha ricevuto la prima dose - anche a nostro detrimento, come la diffusione della variante Omicron insegna. Ha fiducia che i Paesi ricchi supereranno la loro miopia? Sono molto rattristata dalla decisione di non concedere la liberalizzazione dei brevetti, le cui conseguenze paghiamo tutti. Com’è possibile per noi europei pensare di salvarci senza interessarci della sorte di milioni di persone nel resto del mondo? Il virus si modifica, mettendoci sempre nuovamente in crisi, per cui o i brevetti di questi vaccini possono essere ceduti ad aziende che possiedono il know how per poterli riprodurre in dosi sufficienti, oppure ci condanniamo tutti a vivere in perenne stato d’emergenza. Immigrazione, il decreto flussi non supera la logica di Salvini di Vitalba Azzollini Il Domani, 30 dicembre 2021 L’ultimo decreto flussi ha raddoppiato il numero di lavoratori stranieri che possono fare ingresso in Italia. Ma le politiche in tema di immigrazione continuano a essere carenti e improntate a burocrazia. Va rivalutata una proposta di legge del 2017: permessi temporanei per attesa occupazione, il sistema dello sponsor (legge Turco-Napolitano), la regolarizzazione individuale di stranieri che lavorano o hanno legami familiari. Vi sono esempi di “burocrazia discriminatoria” nella legge e in procedimenti per la concessione della cittadinanza. La logica dei decreti Sicurezza non è ancora stata superata. Qualche giorno fa, il governo ha deliberato il cosiddetto decreto flussi, vale a dire il provvedimento che determina quanti lavoratori stranieri possono fare ingresso in Italia in un determinato anno. Può essere utile valutare come questo decreto concorra alle politiche nazionali in tema di immigrazione e segnalare alcune distorsioni. Decreto flussi 2022 - Il decreto ha disposto per il 2022 l’entrata di un numero massimo di 69.700 persone non comunitarie per lavoro subordinato (stagionale e non stagionale) e per lavoro autonomo. Nell’àmbito di questo ammontare, ci saranno 42mila ingressi per motivi di lavoro subordinato stagionale, nei settori agricolo e turistico-alberghiero; 27.700 ingressi, invece, per motivi di lavoro subordinato non stagionale e di lavoro autonomo, nei settori dell’autotrasporto merci per conto terzi, dell’edilizia e turistico-alberghiero. Ma non tutti saranno nuovi ingressi. Infatti, una quota di permessi è destinata alle conversioni da permesso per studio (2mila), per lavoro stagionale (4.400) e per altre causali, quindi riguarderà persone che già si trovano in Italia. Il decreto flussi nel tempo è andato perdendo consistenza, arrivando ad autorizzare - come nel 2020 - circa la metà dei lavoratori rispetto a quest’anno, e per gran parte stagionali o già presenti in quanto titolari di altri permessi di soggiorno. Il potenziamento di quest’anno è quanto mai opportuno. Infatti, “quando si pongono forti restrizioni all’immigrazione regolare, aumenta l’immigrazione clandestina - come riportato da Tito Boeri nella relazione Inps del 2018. A fronte di una riduzione del 10 per cento dell’immigrazione regolare, quella illegale aumenta dal 3 al 5 per cento”. Tuttavia, questo strumento è stato usato talora in modo improprio, per legittimare l’entrata “formale” di chi fosse già presente in Italia e lavorasse in modo irregolare. Del resto, il decreto flussi consente l’assunzione di stranieri appena arrivati, probabilmente non formati e che forse hanno anche difficoltà con l’italiano. Questo è il principale limite del decreto, nonché il motivo per cui si è prestato a usi distorti. Resta comunque valido il principio per cui, al fine di ridurre l’arrivo di stranieri irregolari, serva l’ampliamento di canali regolari. E il decreto flussi non basta. Una proposta alternativa - Servirebbe rivalutare la proposta di legge di iniziativa popolare del 2017 avanzata nell’àmbito della campagna “Ero straniero”. Innanzitutto, un permesso di soggiorno temporaneo (12 mesi) da rilasciare a lavoratori stranieri per facilitare l’incontro con i datori di lavoro italiani, anche attraverso intermediari. In secondo luogo, il sistema dello sponsor, originariamente previsto dalla legge Turco-Napolitano, per l’inserimento nel mercato del lavoro di persone straniere con la garanzia di risorse finanziarie e di un alloggio, agevolando quanti abbiano già lavorato in Italia oppure frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale. In terzo luogo, la regolarizzazione individuale di stranieri in situazione irregolare, quando sia dimostrabile - tra le altre cose - che lavorano o hanno legami familiari. Favorire l’entrata di stranieri irregolari non è “buonismo”. Il nostro sistema previdenziale regge fin quando i contributi pagati dai lavoratori in un certo anno riescono a finanziare la spesa per le pensioni nel medesimo anno. Il crollo della natalità rende necessario reperire altre fonti di finanziamento: l’entrata di immigrati regolari - generalmente giovani o, comunque, nelle fasce attive - permetterebbe di aumentare il numero dei contribuenti. L’ultima sanatoria di stranieri irregolari, prevista dal governo nel maggio 2020, è stata un fallimento. Essa avrebbe dovuto consentire, tra le altre cose, di colmare immediatamente la mancanza di lavoratori nel settore agricolo. I ritardi hanno inficiato l’intento. Alla fine di ottobre scorso - secondo i dati divulgati da “Ero straniero” - su 230mila domande presentate, solo poco più di un terzo era stato finalizzato e appena 38mila permessi di soggiorno erano stati rilasciati. La gestione delle pratiche da parte del Viminale è stata non solo inefficiente, ma anche improntata alla burocrazia più deleteria. Domande di regolarizzazione sono state rigettate con la motivazione che gli instanti non avevano risposto alla richiesta di documenti integrativi da parte del Viminale o alla convocazione da parte dello Sportello unico del lavoro. Nessuna richiesta o convocazione era pervenuta, ma gli interessati non potevano ovviamente dimostrarlo, trattandosi di una prova impossibile da fornire (la cosiddetta “probatio diabolica”). E così le relative istanze sono naufragate. La burocrazia a volte assume connotati “discriminatori”. È il caso della norma, ancora vigente, del primo decreto legge Sicurezza voluto da Matteo Salvini (n. 113/2018), ai sensi della quale, “per il rilascio degli estratti e dei certificati di stato civile occorrenti ai fini del riconoscimento della cittadinanza italiana” si prevede un termine di sei mesi dalla presentazione della richiesta da parte degli stranieri. Si tratta di documenti che gli italiani normalmente ottengono a vista. Una sorta di burocrazia discriminatoria è anche quella che si riscontra in tema di cittadinanza italiana. Il primo decreto Sicurezza aveva raddoppiato i termini già previsti per l’acquisizione, portandoli da 24 a 48 mesi, e con efficacia retroattiva. Nell’ottobre 2020, un nuovo decreto (n. 130) ha abrogato la norma precedente, fissando a 36 mesi il termine di durata massima del procedimento. È palese che, venuta meno la norma retroattiva che stabiliva i 48 mesi, alle domande di cittadinanza presentate prima del decreto Sicurezza si tornasse ad applicare il termine di 24 mesi sancito della disciplina previgente. Ma il Viminale è di diverso avviso, e così le prefetture si adeguano e prolungano i termini del procedimento per la cittadinanza. Insomma, la logica dei decreti Salvini non è ancora stata superata. Si “gioca” sulla successione delle leggi nel tempo, ma di fatto si “gioca” con la vita delle persone. Quanti se ne rendono conto, ora che Salvini non è più al ministero dell’Interno? Bosnia, dove s’infrangono i sogni e le vite dei migranti di Marco Montedori* Il Dubbio, 30 dicembre 2021 Respingimenti, abusi e violazioni dei diritti umani ai confini dell’Ue. La gran parte di loro viene dall’Afghanistan e ha meno di 18 anni. Colpiti dalle immagini del campo profughi di Lipa, andato in fiamme a dicembre del 2020, nei mesi scorsi abbiamo organizzato la nostra prima missione in Bosnia, dove siamo tornati pochi giorni fa. È trascorso un anno esatto da quel rogo che aveva impressionato - per brevissimo tempo - l’opinione pubblica europea, e costretto centinaia di persone a passare i mesi invernali nelle tende, senza acqua né elettricità. La Bosnia Erzegovina, uno dei paesi più poveri d’Europa, è da almeno tre anni il luogo di passaggio (e di stallo) di una delle principali direttrici della “rotta balcanica” che dal Medio Oriente conduce verso il nostro continente. Ma i sogni di una vita migliore si infrangono contro le frontiere dei paesi dell’Unione che, molto spesso, respingono i migranti con brutalità e senza rispetto dei diritti umani. Il nostro viaggio ha avuto come meta Bihac e Velika Kladuša, nella Bosnia nordoccidentale, a un passo dal confine con la Croazia, dove abbiamo trasportato un carico di aiuti umanitari. Qui abbiamo visitato i campi di accoglienza come quello di Lipa, dove le condizioni sono notevolmente migliorate rispetto a un anno fa, ma soprattutto abbiamo distribuito viveri e vestiario nelle sistemazioni di fortuna: nei boschi, nelle tende, in edifici o baracche abbandonate. Si stima che in questo periodo, solo nei dintorni di Bihac, siano accampati in questo modo più di 400 migranti. Al freddo, in mezzo al fango e alla neve, senza servizi igienici. Condizioni ben oltre i limiti di ciò che si può definire accettabile. Perché sopportano tutto questo? La risposta è semplice e al tempo stesso terribile. La ricostruiamo ascoltando le testimonianze toccanti dei ragazzi che incontriamo in queste “tendopoli” di fortuna: sono spesso giovanissimi, hanno meno di 18 anni, hanno già viaggiato per mesi o anni sfidando condizioni di viaggio spaventose e le polizie di frontiera di mezzo mondo. La maggior parte di loro arriva dall’Afghanistan, in fuga dal terribile regime dei Talebani, dal Pakistan, dalla Siria e da altri paesi. Il loro obiettivo non è quello di trovare una sistemazione, più o meno comoda, nei campi di accoglienza finanziati a suon di milioni dall’Europa, isolati da tutto e recintati - non si sa perché - con il filo spinato. L’obiettivo è quello di tentare quello che loro definiscono, con amara ironia, “The game”: l’attraversamento delle frontiere di Croazia, Slovenia e Italia nella speranza di ottenere il diritto d’asilo in Europa, di trovare un lavoro, di rifarsi una vita lontano da povertà estrema, guerre, persecuzioni. Partono di notte, con poco cibo, un sacco a pelo, uno smartphone per consultare le mappe, dormono qualche ora nei boschi e poi camminano per chilometri cercando di non essere visti. È per questo che preferiscono accamparsi nei boschi, più vicino possibile al confine, appunto per essere pronti a tentare il “game” non appena le condizioni meteo lo consentano. È proprio nel “game” che naufraga l’Europa della dignità e dei diritti umani. La maggior parte dei migranti presenti nei dintorni di Bihac ci racconta che ha provato ad attraversare i confini più volte, anche decine di volte. Spesso vengono individuati e presi dalla polizia croata che, dopo averli privati di tutto ciò che hanno, inclusi vestiti e scarpe, li rispedisce in Bosnia. Uno schema simile si ripete quando arrivano in Slovenia e in Italia: come hanno denunciato inchieste giornalistiche e report delle organizzazioni internazionali, non di rado le persone vengono prese, caricate nei furgoni della polizia e riportate nei paesi vicini senza avere la possibilità di richiedere il diritto d’asilo, come prevede l’articolo 10 della nostra Costituzione. Così, mentre in Italia si parla sempre più di “inverno demografico”, centinaia di persone rimangono bloccate per mesi o anni in questo lembo di terra nella Bosnia nord- occidentale. Non sono solo ragazzi, ci sono anche famiglie e bambini. Portare aiuti materiali dona un po’ di sollievo, così come prestare attenzione alle loro storie, promettere che faremo conoscere questa situazione in Italia. Quello che predomina, però, è il senso di impotenza, la mancanza di una prospettiva, l’ipocrisia di un’Unione europea che appalta la gestione dei flussi migratori ai paesi esterni per non affrontare la questione. I volti che abbiamo incrociato e le testimonianze commoventi che abbiamo ascoltato ci spingono comunque ad andare avanti. Siamo convinti che il rispetto delle leggi e dei confini di stato non possa portare a situazioni disumane, dove le persone rischiano di morire di fame o di freddo per fuggire da guerre e persecuzioni da cui, peraltro, molti stati europei non sono estranei, più o meno direttamente. È di alcuni giorni fa la notizia della morte di una bambina di dieci anni, tra Croazia e Slovenia: stava tentando di attraversare un fiume con la sua famiglia, ma è stata travolta dalla piena. Il suo cadavere è stato ritrovato 400 metri più a valle. Per questi motivi con l’associazione Altotevere senza frontiere Onlus, nata nel 2009 all’indomani del terremoto dell’Aquila e oggi attiva in Italia e in vari contesti di cooperazione internazionale, continueremo a monitorare la situazione e a promuovere iniziative di sensibilizzazione e di solidarietà. *Volontario Altotevere senza frontiere Onlus I due virus d’Africa: il Covid e la povertà di Danilo Taino Corriere della Sera, 30 dicembre 2021 Secondo il Centro di Controllo delle Malattie dell’Unione Africana, l’anno si chiude invece con meno del 14% di persone che hanno ricevuto la prima dose, con il 9% che ne ha avute due e meno dello 0,5% coperto anche dal booster. Della lentezza e della scarsità con le quali i vaccini sono arrivati nel continente, a differenza che nei Paesi più ricchi, si sa. Nel 2022, però, i problemi saranno diversi. Il 2021 si chiude con una situazione che non può non essere definita un fallimento. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) aveva posto l’obiettivo di vaccinare con due dosi contro la Covid-19 il 40% degli africani entro la fine di dicembre. Secondo il Centro di Controllo delle Malattie dell’Unione Africana, l’anno si chiude invece con meno del 14% di persone che hanno ricevuto la prima dose, con il 9% che ne ha avute due e meno dello 0,5% coperto anche dal booster. Della lentezza e della scarsità con le quali i vaccini sono arrivati nel continente, a differenza che nei Paesi più ricchi, si sa. Nel 2022, però, i problemi saranno diversi. Nei prossimi mesi dovrebbe arrivare in Africa un miliardo di dosi e la preoccupazione è che ci siano difficoltà serie a inocularle: finora, delle forniture totali ne è stato somministrato il 67%. Nelle settimane scorse, per esempio, l’Algeria ha rifiutato una fornitura dalla Francia perché su oltre 22 milioni di dosi ricevute finora ne ha utilizzate meno di 12,5 milioni e il resto si sta avvicinando alla data di scadenza. Il problema è diffuso, in Africa; per diversi motivi. L’Unicef ha avvertito che si sta andando verso una penuria di siringhe, valutata in 2,2 miliardi per l’intero 2022. Ci sono poi difficoltà logistiche, di trasporto e di conservazione dei vaccini, soprattutto quelli che richiedono di essere mantenuti a temperature molto basse, come Pfizer-Biontech e Moderna. E c’è una realtà della quale si parla poco: l’esitazione a farsi vaccinare in parte della popolazione, in alcuni casi con percentuali più alte di quelle dei No Vax in Europa. La Banca mondiale ha pubblicato stime su questa esitazione per alcuni Paesi: mentre in Etiopia e in Tunisia siamo sotto al 10% di scettici o contrari, in Camerun siamo sopra al 60%, in Algeria tra il 52 e il 63%, in Angola sopra al 40%. Ci sono freni strutturali, ad esempio la distanza dai centri di somministrazione che fa perdere giornate di lavoro. C’è la sfiducia nei governi e nelle autorità sanitarie, spesso inefficienti. C’è scetticismo anche culturale sui vaccini, precedente la pandemia. E ci sono dubbi su quelli anti Covid-19, alimentati anche dalle azioni e dalla comunicazione di alcuni governi dei Paesi ricchi sulla bontà del vaccino Astra Zeneca-Oxford, quello meno costoso e meglio trasportabile. Pur sperando in una variante Omicron depotenziata, c’è molto da fare in Africa. Non bastano più vaccini: anche la povertà e il poco sviluppo sono virus veri. Congo. Omicidio Attanasio, l’agenzia Onu resiste: “No al processo” di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 30 dicembre 2021 Il Pam, l’agenzia delle Nazioni Unite, non vuole dare giustizia all’ambasciatore italiano Luca Attanasio e il carabiniere della sua scorta Vittorio Iacovacci, uccisi in Congo il 22 febbraio del 2021 in un agguato. Il processo del Tribunale di Roma che deve accertare le responsabilità di quanto accaduto potrebbe arenarsi ancora prima di cominciare per l’immunità diplomatica pretesa dalle Nazioni Unite per i suoi dirigenti sotto inchiesta. Una questione che l’ufficio legale dell’Onu ha posto ufficialmente ma che la Procura di Roma non ritiene fondata. Il pericolo è assistere a un braccio di ferro con istituzioni e Paesi esteri come quelli già in corso su casi delicati: l’omicidio di Giulio Regeni in Egitto e la morte di Mario Paciolla, il cooperante napoletano che lavorava per l’Onu, trovato impiccato in Colombia. Le indagini dei magistrati romani sull’assassinio di Attanasio e Iacovacci sono infatti ormai terminate: nelle prossime settimane, dopo un ultimo confronto con i carabinieri del Ros, il procuratore aggiunto di Roma, Sergio Colaiocco, procederà con l’avviso di conclusione. La procura ritiene di aver individuato gravi responsabilità del Programma alimentare mondiale (Pam), l’agenzia delle Nazioni Unite che organizzò il viaggio in un villaggio nel Nord-Est del Congo. Non sarebbero state rispettate alcune norme basilari di sicurezza (era noto che la zona fosse soggetta ad attacchi di predoni, serviva dunque una scorta armata) e, addirittura, alcuni documenti della trasferta risultano alterati. Per questo è stato iscritto nel registro degli indagati Mansour Rwagaza, responsabile della sicurezza del convoglio, con l’accusa di omicidio colposo per omessa cautela. Sono state messe in fila tutta una serie di mancanze attribuibili al dirigente del Pam: non avrebbe chiesto con l’anticipo dei cinque giorni, come prevedeva la legge, l’autorizzazione al trasferimento in modo da avere la scorta armata; ha fatto spostare l’ambasciatore e gli altri in auto non blindate, con i giubbotti antiproiettile nel bagagliaio; circostanza ancora più grave, avrebbe falsificato i nomi dei partecipanti alla missione, omettendo quelli di Attanasio e Iacovacci. Se fossero stati specificati, infatti, avrebbe dovuto essere predisposta in automatico una scorta armata. Col senno di poi, avrebbe salvato la vita ai due italiani e al loro autista, Mustafa Milambo. Il convoglio è stato oggetto di un agguato su una strada, la N2 che parte da Goma e taglia la provincia congolese di Kivu da Sud a Nord, già teatro di diversi conflitti a fuoco: tra il 2018 e il 2021 i nostri investigatori ne hanno contati almeno 20, tra milizie criminali e guardie del Parco. Davanti al procuratore Colaiocco, Rwagaza non ha saputo offrire spiegazioni adeguate. Motivo per cui, nel corso dell’interrogatorio, lo ha iscritto nel registro degli indagati. È in quel momento che è iniziato l’attrito con l’agenzia dell’Onu: l’ufficio legale del Pam ha immediatamente fatto presente che sulla base di due diverse norme (la Convenzione del 1947 sulle agenzie delle Nazioni Unite e l’accordo del 1994 con il quale il Pam, scegliendo l’Italia come sede, estendeva le guarentigie ai suoi funzionari), tutti i dirigenti godrebbero di immunità. Una teoria però contestata dalla procura di Roma, che oppone un’interpretazione giuridica condivisa anche dalla Farnesina: è vero che la convenzione estende l’immunità ai funzionari del Pam, ma è altrettanto vero che lo prevede soltanto per quelli accreditati in Italia. Mansour lo era in Congo, non nel nostro Paese. La questione è tecnica, ma, evidentemente, anche di sostanza: l’Italia non può e non vuole assolutamente permettere che la morte di due servitori dello Stato resti orfana di responsabilità. Non lo vuole il ministero degli Esteri e non lo vuole la Procura di Roma. Anche per questo le indagini, prima di arrivare a conclusione, approfondiranno ulteriormente le posizioni di altre persone, compresa quelle dell’italiano Rocco Leone, numero due della missione del Pam in Congo e scampato miracolosamente all’agguato. Iraq. Saddam 15 anni dopo, lo spettro è ancora qui di Domenico Quirico La Stampa, 30 dicembre 2021 Il 30 dicembre 2006 il Saladino di Baghdad veniva impiccato. Il Califfato è la sua vendetta. Terrorismo, stragi, guerriglia e carneficine: in Iraq continua l’età dell’oro di sofferenza e odio. La morte di Saddam, l’esecuzione di Saddam: anche quindici anni dopo ecco immagini davanti a cui non è giusto chiudere gli occhi. No: bisogna tenerli spalancati e maledirla e ancora maledirla quella morte. Occorrerebbe per lei restaurare il lamento funebre, la cosa più antica che ci resta degli esseri umani: frutto della giudiziosa paura del morto, del terrore che potesse tornare indietro. Lo si tributava non solo agli eroi, ma soprattutto ai reprobi. Serviva a inchiodarli alla dimenticanza come un esorcismo definitivo. E infatti quindici anni dopo lo spettro è ancora qui, ci bracca, non ci dà pace. Non ci siamo liberati di questo Ercole macellaio, di questo pignolo del Male neppure consegnandolo alla umiliante e macabra mediocrità di una impiccagione. I suoi delitti e le complicità che ci hanno per decenni legato a lui non sembrano appartenere alla Storia ma al libro dei canti del demonio. Ci ingarbuglia nelle sottigliezze del rimorso la bugia che è stata usata per farlo cadere, che possedesse cioè micidiali arsenali di armi di distruzione di massa. Ma l’unico delitto non realizzato, rimasto velleitario, è solo la prova della nostra inadeguatezza morale, non un elemento a discarico del sanguinario Saladino di Baghdad. Conosceva troppo bene i nostri limiti e i nostri difetti, lui, ci inchiodava alla nostra esatta figura. Sforziamoci di non dimenticare, mai, evocandolo cosa è scritto nel registro dei peccati di quel regime criminale: popolazioni irrorate di gas, massacri, torture, guerre sciagurate e senza fine, la sicurezza del potere che si ottiene solo al prezzo di innumerevoli ingiustizie. Ora possiamo ripensare a quel 30 dicembre del 2006, allo scorrere del film girato con un telefonino nella prigione dove il tiranno condannato a morte incontrò il suo destino. È davvero una tragedia classica che non consente alcuna distrazione. Perché la morte di un uomo singolo vi acquista tutto il suo peso, omicidio esecuzione punizione vendetta dannazione e sepolcro: tutto è lì, esemplare, nudo e senza fronzoli legulei o sacrali, retorica, mistificazione. Alcuni uomini corpulenti, i volti coperti da cappucci neri, senza divise o simboli, si affannano su una stretta balaustra in ferro attorno a un uomo invece elegante, cappotto nero e camicia bianca, la barba ben curata. Le mani non si vedono strette dietro la schiena dalle manette. Lo sfondo è anonimo, sa di garage, di locale abbandonato recuperato come scenografia provvisoria per non lasciare indizi o prove. Gli officianti il rito della morte si muovono in modo febbrile, scomposto, sembrano loro aver paura. E fretta. Li diresti una banda di sequestratori che temono l’arrivo della polizia più che l’autorità incaricata di una sentenza. Il più grasso, forse il capo, spinge Saddam verso il parapetto della piattaforma, dove si intravede una botola, gli infila al collo un enorme cappio, fa prove, stringe il nodo attorno al collo. L’immagine si allarga. Sotto la pensilina appaiono altri uomini di schiena che insultano, urlano il nome del capo sciita Moqtaba Al Sadr, il cui padre e due fratelli furono assassinati su ordine di Saddam. Il Raiss è incredibilmente calmo. È il personaggio più dignitoso in questa recita umiliante. Per questo bisogna essere attenti, anche ad anni di stanza. La visione dei personaggi, come avviene per le figure di Dante, trae il suo aspetto essenziale dalla loro morte. Restano straordinariamente vivi perché sono morti in un certo modo. È questa la loro più sbalorditiva (e pericolosa) vittoria sulla morte. Quando lo spingono verso la botola pronuncia la “chahada”, la professione di fede musulmana. La botola si spalanca. Primo piano di due minuti e 38 secondi di agonia. Uno dei boia urla: “Nessuno lo stacchi, deve restare appeso per otto minuti...”. Il giorno dopo un pick up portò il cadavere a Aujia, vicino a Tikrit, in un piccolo mausoleo che era stato trasformato in tomba. Gli americani avevano consentito che vi fossero già sepolti i due figli di Saddam caduti nella battaglia di Baghdad. Speravano, invano, che il padre mosso da pietas funebre uscisse dal suo nascondiglio. Ressa, molti prudentemente a viso coperto con le kefiah, uno sceicco regola il tumulto, invita alla austerità della preghiera. Gli americani erano ovunque ma si tennero nascosti. Con le tenebre risuonarono le raffiche di mitra del saluto funebre, e le grida: Saddam, ti vendicheremo, gli americani la pagheranno. Si diffuse la voce che i parenti dei due generi che il dittatore aveva fatto eliminare avessero trafugato la salma per darla in pasto ai cani. Fu necessaria una smentita governativa. Bush rimproverò agli alleati la mancanza di “dignità” di quella esecuzione così sconciamente filmata. Il premier iracheno Al Maliki replicò: siamo stati anche troppo pietosi, Saddam non aveva diritto neppure a un processo. Era già pomposamente in vigore il dopo Saddam: annunciato come l’avvento dell’evo democratico e del medio oriente americano costruito a misura delle necessità dello Zio Sam, in particolare come scudo contro l’intatto Satana iraniano. Garantivano i due sciagurati ideologi dell’impero non più tanto riluttante, Cheney e Rumsfeld. E invece... disordine da fine del mondo, sommosse settarie e estremiste, Al Qaeda scatenata, guerriglie, imboscate, autobombe e kamikaze, carneficine inaudite di innocenti, la vergogna del lager di Abu Ghraib, cinquemila morti solo tra gli americani. La sofferenza e l’odio qui contano su una età dell’oro che continua. L’Iraq come l’Afghanistan è stata una dura lezione di come una vittoria possa essere più pericolosa di una sconfitta: se l’accompagnano una catena di errori grossolani, l’incomprensione della realtà locale e le cattive lezioni tratte dalla storia. Ovvero i piani del dopo Saddam tracciati confidando in modo fideistico sulla presunta attrazione irresistibile della democrazia. Si utilizzarono le informazioni fornite da oppositori incompetenti e corrotti che accudivano ai loro concretissimi interessi, ovvero i 450 miliardi di dollari che hanno rubato. Si pensava che il regime fosse solo Saddam e i suoi accoliti: bastava dunque smantellare il partito Baath e l’esercito. Invece c’erano altre forze a cui il vuoto spalancato dagli americani apriva enormi occasioni. Bastava vezzeggiare le inclinazioni al fanatismo, alla intolleranza e alla vendetta contro gli invasori occidentali. Un ufficiale di Saddam, Haji Bakr, lavorava paziente a un nuovo progetto, costruire, tra la Siria e l’Iraq, su nuove basi, impastando il fanatismo jihadista con competenze militari e criminali dei reduci del regime, la macchina sanguinaria di Saddam. Sì: il califfato è la vendetta di Saddam. Haiti. Oltre mille persone rapite per estorsione nel 2021 di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 30 dicembre 2021 Le bande dedite ai rapimenti sono state molto attive nel 2021 ad Haiti catturando, dall’1 gennaio al 27 dicembre, 1.002persone. A scriverlo è il quotidiano Le Nouvelliste di Port au Prince che cita una ricerca del Centro di analisi e ricerca sui diritti umani (Cardh). Il giornale ha precisato che nessun settore sociale è stato risparmiato, compresi i cittadini stranieri, 81 dei quali di sei Nazioni sono finiti nelle mani dei rapitori, che per rilasciarli hanno chiesto ingenti somme di denaro. Il dato del 2021, ha indicato peraltro il Cardh, è allarmante perché rappresenta un forte aumento rispetto al 2020, quando i sequestri di persona erano stati 796. Uno dei gruppi più importanti di sequestrati, si è infine appreso, è stato quello dei religiosi. Almeno 40 membri di varie chiese sono finiti nelle mani di gente senza scrupoli, che ha ricattato le organizzazioni e gli Stati di appartenenza, nonché i famigliari, con l’obiettivo di ottenere la maggior quantità di denaro possibile. Il caso più clamoroso è stato il sequestro a metà ottobre di 17 missionari, e dei loro famigliari, di nazionalità statunitense e uno canadese. Per la loro liberazione, avvenuta due settimane fa, la banda “400 Mawozo” è giunta a chiedere fino a un milione di dollari per ciascun ostaggio. Tutti gli ostaggi sono tornati in libertà a metà dicembre.