Contro gli ergastoli torniamo all’Illuminismo di Franco Corleone Il Riformista, 2 dicembre 2021 Il dibattito nell’Agorà sull’ergastolo ostativo è stato condizionato dal timore di indebolire la lotta alla mafia. Ma il condannato ha diritto alla speranza. Ho partecipato con curiosità all’Agorà del Partito democratico organizzata da Pietro Grasso sul nodo indifferibile della proclamata incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Da troppo tempo prevale una tendenza a sfuggire dai temi interessanti, qualificandoli come divisivi. In questo caso la Corte costituzionale ha posto al Parlamento un aut aut, dando un anno di tempo per approvare una legge. Il termine scade il 10 maggio ed è un segno di cattiva retorica imputare alla Consulta di cassare le norme costruite in nome della lotta alla mafia, proprio in contemporanea con l’anniversario della strage di Capaci. Per questi spacciatori di propaganda, la Corte avrebbe dovuto avere la furbizia da concedere alle Camere undici o tredici mesi? In realtà molti interventi, a cominciare dal Presidente emerito De Siervo, hanno messo in luce la difficoltà di sciogliere i nodi dovuti a una stratificazione di norme causata da un eccesso di panpenalismo che ha condizionato la politica criminale per decenni e che ora dovrebbe essere smontata con assoluta celerità. Tutti hanno dovuto riconoscere che avere utilizzato a dismisura l’art. 4bis dell’Ordinamento penitenziario inserendo reati diversissimi da quelli legati alle organizzazioni criminali e alle mafie è stato un errore che ha indebolito anche la scelta di quella sorta di doppio binario, discutibile forse, ma con ragioni comprensibili nell’emergenza. Posto che, però, le nonne emergenziali dovrebbero avere sempre durata limitata. Ho iniziato il mio intervento ricordando la coincidenza della data scelta per l’Agorà, quella del 30 novembre, con il giorno del 1786 in cui il Granduca di Toscana Pietro Leopoldo decise l’abolizione della pena di morte e della tortura. L’illuminismo deve tornare ad essere il riferimento per la giustizia e lo stato di diritto. Quando una leader di partito assai vezzeggiata, di fronte a una dichiarazione solenne della Corte di incostituzionalità di una nonna, reagisce proponendo di cambiare la Costituzione e in particolare l’art. 27 che rappresenta un pilastro della costruzione civile, si dovrebbe insorgere per denunciare mia tendenza all’eversione contro la democrazia. Devo dire che ho colto nelle persone presenti una sentita condivisione per una denuncia che deve costituire un discrimine. La discussione è stata condizionata dalla preoccupazione di non indebolire la lotta contro la mafia, come ha fatto Rosy Bindi addirittura criticando la Cedu per l’incomprensione di un fenomeno criminale che merita leggi speciali. Altri interventi come quelli della prof.ssa Stefania Carnevale e di Mauro Palma hanno messo in luce la forza del diritto per affermare la differenza con i criminali. Si è fatta strada anche la convinzione che la pretesa della collaborazione per accedere a eventuali benefici non può essere una condizione aprioristica. Quello che va abbattuto è il muro dell’automatismo. Occorre trovare una modalità che dia responsabilità al magistrato e speranza al condannato. Guai se la riforma fosse aggredita con la menzogna - peraltro ricorrente - di una uscita immediata dal carcere dei capi di Cosa Nostra. Se più di dieci anni fa potevamo pubblicare un volume intitolato “Contro l’ergastolo”, ora abbiamo dovuto intitolare un nuovo libro “Contro gli ergastoli”, come risposta a un pasticcio intollerabile. Ho voluto ricordare che il confronto deve anche affrontare il tema dell’ergastolo tout court. Nel 1998 il Senato approvò con una netta maggioranza l’abolizione del fine pena mai. Nel volume che ho curato con Stefano Anastasia e Andrea Pugiotto, abbiamo dedicato una sezione alle parole al riguardo di Aldo Moro, Salvatore Senese, Papa Francesco e Aldo Masullo per una riflessione umana e civile che deve impegnare intelligenze e coscienze. D’altronde, occorre fare i conti con un paradosso incomprensibile: in Italia continuano a diminuire gli omicidi, 315 nel 2019, 271 nel 2020 e contestualmente si manifesta una bulimia di condanne all’ergastolo. Oggi alla Camera dei deputati discuteremo con il prof Valerio Onida, autore della prefazione al libro edito da Futura editrice, l’avv. Emilia Rossi, garante dei diritti delle persone private della libertà personale, i deputati Enza Bruno Bossio e Riccardo Magi del testo base che inizia l’esame in Commissione Giustizia. Alle 18 presso la Libreria Il Libraccio presenteremo il libro con Luigi Ferrajoli, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali e con Silvia Albano di Magistratura Democratica. Con l’auspicio che finalmente la paura lasci il campo alla ragione. Ergastolo ostativo, così i partiti sfidano la Corte costituzionale di Errico Novi Il Dubbio, 2 dicembre 2021 Summit tra Pd, M5S e Leu per concordare la linea dura sulla legge che dovrebbe attuare l’ordinanza della Consulta, “sbagliata per colpa della Cedu”. C’è un clima strano, attorno alla legge sull’ergastolo ostativo. Segnato da una implicita tentazione di “correggere” la Corte costituzionale, che a maggio ha bollato come illegittima la preclusione assoluta della liberazione condizionale per i mafiosi (e per i terroristi) condannati al “fine pena mai” e non disponibili alla “collaborazione”. C’è una ostilità latente, innanzitutto nella “vecchia” alleanza giallorossa, all’idea di una legge che applichi fino in fondo il dettato della Consulta. Ergastolo ostativo, come si muove la politica - L’eco politica mainstream di tale orientamento è per esempio nelle parole pronunciate martedì scorso da Enrico Letta alla “agorà” voluta dai dem con M5S e Leu, oltre che con magistrati e giuristi, proprio sull’ergastolo ostativo: “L’occasione del Recovery va colta, ma la cosa peggiore è farlo senza avere alta l’asticella verso l’aggressione mafiosa”. Il titolo dell’incontro, organizzato dal Pd senza “pubblico”, è in realtà correttissimo: “Combattere le mafie difendendo la Costituzione”. La legge in materia di ergastolo ostativo in discussione alla Camera è dettata da un’ordinanza della Corte costituzionale: la numero 97 dello scorso 11 maggio. In quella occasione il giudice delle leggi ha chiarito che dalla mancata collaborazione con la giustizia non si può far discendere una presunzione assoluta di mancato ravvedimento, e di persistente pericolosità, a carico del boss (o del terrorista) detenuto in regime di 4 bis, cioè di ostatività, rispetto alla concessione dei benefici. Perché è illegittimo l’articolo 4 bis - Ecco: la Corte ha definito illegittimo l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui esclude sempre e comunque dalla liberazione condizionale chi non collabora con i magistrati. È stata chiara, ha ricordato che in gioco ci sono l’articolo 27 della Costituzione (ossia l’umanità e il fine rieducativo della pena) e il principio di ragionevolezza riconducibile all’articolo 3. Ha chiesto al Parlamento non di aggirare la Carta, ma di specificare le misure necessarie a tutelare, con quei principi, anche la sicurezza collettiva. Semplice. Eppure, la legge che è all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio annovera vari passaggi in cui si cerca di snaturare la decisione della Consulta. E proprio all’agorà dell’altro giorno, l’intervento di Pietro Grasso ha confermato l’impressione di una “sfida latente” che, col testo adottato alla Camera, si pensa di lanciare al giudice delle leggi. L’ex presidente del Senato, attuale esponente di Leu a Palazzo Madama, non critica frontalmente l’ordinanza della Corte costituzionale. Però sostiene che la precedente pronuncia della Cedu in materia, sempre “demolitoria” rispetto alla preclusione assoluta dei benefici per gli ergastolani che non collaborano, è in sostanza un errore: la Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo Grasso, “ha sottovalutato la peculiarità delle organizzazioni mafiose”. Giudizio legittimo, anche se poco coerente con i principi di umanità della pena che sono contenuti anche nella Convenzione europea. Ma Grasso ha detto anche un’altra cosa: “La Corte costituzionale”, la Corte italiana, “dovendosi muovere nel solco tracciato dalla Cedu, ha lasciato al Parlamento il tempo per intervenire”. Ergast0lo ostativo, cosa aveva scritto la Consulta - Sembra un modo per dire che anche il giudice delle leggi italiano ha prodotto una pronuncia sbagliata, ma che ha almeno l’attenuante di esservi stato costretto, perché non poteva discostarsi, appunto, dall’organismo sovranazionale. In realtà la Consulta è stata netta nel dire, con l’ordinanza di maggio ma già con una precedente sentenza sui permessi premio, che considerare assoluta la presunzione di persistenza dei legami tra il detenuto e la mafia in virtù della mancata collaborazione contraddice il principio di ragionevolezza, oltre che il fine rieducativo della pena sancito all’articolo 27. Leggere l’ordinanza 97 come se fosse il prodotto di un’imposizione della Cedu è un modo per sfidare quasi le ragioni di diritto alla base della decisione. In generale il clima sulla legge, in Parlamento, sembra proprio alludere alla necessità di correggere la Corte costituzionale. Il testo base adottato lo scorso 17 novembre dalla commissione Giustizia è un po’ meno estremo della proposta iniziale presentata dal Movimento 5 Stelle, ma è comunque irrigidito da previsioni al limite dell’irragionevole. Su tutte, l’idea per cui l’ergastolano ostativo che non scelga di collaborare e aspiri alla liberazione condizionale debba fornire elementi tali da dare al giudice la “certezza” dell’assenza di legami, presenti e futuri, con l’organizzazione criminale. In pratica il magistrato di sorveglianza, secondo il testo adottato alla Camera, avrebbe modo di concedere il beneficio solo di fronte a elementi in realtà impossibili da acquisire. Una sorta di trappola giuridica che porterebbe alla disapplicazione dell’ordinanza di maggio. Ergastolo ostativo, se ne riparla il 7 dicembre - Il testo è stato messo a punto da Mario Perantoni, deputato 5 Stelle e presidente della commissione Giustizia. Perantoni ha preso parte all’agorà del Pd sull’ergastolo ostativo, e ha detto una cosa aderente al vero: sulla sua proposta c’è stato “il consenso di tutti”. Certo, si tratta dell’articolato di partenza, ma spesso le trattative sul testo base più serrate: e invece, il comitato ristretto individuato nella commissione ha visto convergere il Pd come Forza Italia. Dagli azzurri, e da pochi altri partiti, per esempio Italia viva, viene ribadita l’intenzione di proporre emendamenti migliorativi del testo. Il termine è vicino, è fissato al 7 dicembre. Ma l’impressione è che gli snodi cruciali dell’articolato non verranno più toccati. Chi ci provasse, rischierebbe di passare per colluso. Ci sono altri aspetti discutibili. Fra gli altri, il superamento di un principio che finora aveva lasciato aperto uno spiraglio per gli ergastolani: quello relativo alle “collaborazioni inesigibili”, cioè ai casi in cui, per esempio, il detenuto non rivela alcunché alla magistratura semplicemente perché la cosca non esiste più da decenni. Ma colpisce anche l’assimilazione, al “fine pena mai”, delle condanne a termine: non potrebbe accedere alla liberazione condizionale, per esempio, l’ex calciatore Fabrizio Miccoli, come spiegato ieri sul Dubbio da Simona Giannetti. Sullo sfondo c’è anche il tentativo di reintrodurre l’esonero dei giudici di sorveglianza territoriali, inizialmente proposto dai 5S: il Movimento depositerà certamente un emendamento sul punto, a maggior ragione dopo le sollecitazioni arrivate dal consigliere Csm Nino Di Matteo. Verrebbe tradito il principio della prossimità del giudice rispetto al luogo di detenzione. Un altro stravolgimento che confermerebbe la logica di sfida alla pronuncia costituzionale. Stavolta, le posizioni garantiste sono ridotte al limite dell’afasia. Mauro Palma: “Purtroppo la prigione è la soluzione più facile” di Roberto Zichittella Famiglia Cristiana, 2 dicembre 2021 “Aumenta il numero dei reclusi. Molti scontano pene brevi. Per loro sarebbero auspicabili altre soluzioni nei luoghi di accoglienza previsti”. Dal 2016 Mauro Palma, nel ruolo di presidente dell’Autorità garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, tasta il polso delle carceri italiane. Lo fa dal suo ufficio di Trastevere alle spalle del carcere di Regina Coeli e con le visite periodiche nelle strutture carcerarie. In una mattina di novembre, mentre sorseggia un caffè, Palma ci spiega che oggi, parlando di carceri in Italia, si vedono luci e ombre. “L’aspetto positivo”, dice Palma, “riguarda i buoni propositi e l’impostazione ideale sia della ministra Cartabia sia del capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Apprezzo, per esempio, che nel semestre appena iniziato di Presidenza italiana del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, sia programmato a Venezia per il 13 e 14 dicembre un vertice dei ministri della Giustizia dedicato al tema della giustizia riparativa, intesa anche come ricomposizione sociale e non solo come alternativa alla pena. Il problema, però, è tradurre i buoni propositi in una realtà che resta molto negativa”. Un primo aspetto negativo è l’aumento delle persone che vanno in carcere. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 ottobre erano presenti nei 189 istituti di pena 54.307 detenuti. “I numeri hanno ripreso a crescere, con oltre 300 persone in più solo nel mese di ottobre”, osserva Palma, “e mi preoccupa soprattutto la crescita delle persone che sono dentro per scontare pene brevissime. A fine ottobre erano detenute in carcere per scontare una pena inferiore a un anno ben 1.211 persone, altre 5.967 per una pena da uno a tre anni. Questo aspetto richiama non solo la responsabilità del ministero della Giustizia e la cultura dei giudici, ma anche quella del territorio, perché queste sono persone che non hanno trovato risposte nel territorio e sono finite in cella. Eppure sono previsti luoghi di accoglienza per chi ha bisogni sociali, ma si stenta a mandarci le persone”. Per il garante, uomo di lunga esperienza nel campo della giustizia e dei diritti umani, sempre attento al contesto sociale che c’è attorno al carcere, questo fenomeno è la spia di un timore diffuso verso chi viene percepito come una minaccia. Alla fine chiudere in cella una persona diventa la soluzione più facile. “È una tendenza culturale, ormai riproponiamo nel carcere l’abbandono sociale che molti vivono all’esterno”. Palma cita l’articolo 32 del Regolamento carcerario, in base al quale “i detenuti e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni, sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più agevole adottare le suddette cautele”. “Ormai”, spiega Palma, “le cosiddette sezioni 32 si stanno realizzando in tutte le carceri. Dovevano essere un’eccezione del sistema, invece stanno diventando la regola, in base al principio che più sei difficile più devi stare dentro. Ma stare sempre dentro una cella innesca fenomeni di regressione; invece ribadisco che le persone in carcere devono avere un altrove, per esempio trascorrendo la mattina non nei corridoi, ma in attività scolastiche o lavorative, ovviamente sempre in sicurezza”. Tra i fragili ci sono i detenuti con problemi mentali, e di recente ha destato clamore la situazione del reparto psichiatrico Sestante nel carcere di Torino. In ben sette visite fra il 2017 e il 2021 il Garante aveva denunciato l’esistenza di “condizioni materiali e di vivibilità ben inferiori agli standard di salubrità e dignità delle persone ospitate”, poi è arrivata la denuncia dell’associazione Antigone. “È grave”, osserva Palma, “che nonostante le continue sollecitazioni, la situazione sia rimasta immutata per tanto tempo. Purtroppo molti dei problemi letti come psichiatrici sono comportamentali, non tutto è psichiatria. Bisognerebbe avere più strumenti per decodificare, invece prevale sempre e soltanto la tendenza a non vedere le difficoltà delle persone. Rispetto al matto ci sono atteggiamenti che sembrano appartenere all’epoca pre-Basaglia”. Palma vede anche luci e ombre nelle risposte alle raccomandazioni che invia alla ministra Cartabia. “Sul vitto nelle carceri ho avuto risposte positive. Dopo la violenza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, la richiesta di avere la videosorveglianza in tutti i corridoi e il mantenimento delle immagini per 90 giorni è stata accolta, ma entrerà in vigore solo nel 2024. Chiederò di accelerare i tempi. Infine avevo richiesto di avere per la Polizia penitenziaria caschi identificabili con un numero, altrimenti il doveroso equipaggiamento difensivo diventa camuffamento. Ma su questo ho avuto una risposta negativa”. “Riforma delle carceri: commissioni tante, fatti zero” di Angela Stella Il Riformista, 2 dicembre 2021 Parla il presidente dell’Unione camere penali italiane Gian Domenico Caiazza. Alla vigilia della due giorni sulla riforma penitenziaria, il leader dei penalisti accusa: “Troppi tentennamenti. Si prende tempo istituendo commissioni ministeriali, ma il lavoro degli Stati generali e della commissione Giostra è un prodotto chiavi in mano”. Venerdì 3 e sabato 4 dicembre l’Unione delle Camere Penali italiane, attraverso il suo Osservatorio carcere, ha organizzato un evento a Roma dal titolo “Riforma penitenziaria: dove eravamo rimasti? - L’urgenza di un intervento”. Ne parliamo con il presidente Gian Domenico Caiazza. Perché questa due giorni di dibattito? Essa nasce dalla necessità che noi avvertiamo di rilanciare i temi del carcere e dell’esecuzione penale, per lasciarci alle spalle la stagione politica del Governo giallo-verde, populista e giustizialista, che ha letteralmente bruciato in piazza il lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione penale e della Commissione di Glauco Giostra, che pure sarà ospite ovviamente del nostro evento. Al tempo stesso però non dimentichiamo che nelle piazze quel lavoro straordinario fu abbandonato irresponsabilmente dal Governo Gentiloni. Abbiamo voluto pertanto rimettere insieme intorno ad un tavolo fisicamente molti dei principali protagonisti di quella stagione di studio sulle carceri, che hanno accolto con entusiasmo il nostro invito. Avete sottotitolato l’evento “L’urgenza di un intervento”. Il carcere non ha più bisogno di commissioni e belle parole, ma di azioni immediate? Certamente, la scelta del titolo non è casuale. Il lavoro teorico e di scrittura della riforma di cui ha bisogno il sistema penitenziario è già pronto da anni. Quanto elaborato dagli Stati Generali e della Commissione Giostra è pronto per essere applicato. Noi conosciamo la sensibilità della Ministra Cartabia sui temi del carcere, però ci siamo interrogati sulla necessità di una nuova commissione istituita presso il Ministero quando si aveva già un prodotto di altissimo livello chiavi in mano. Forse la Ministra ha dovuto prendere atto di equilibri politici all’interno della maggioranza. Nella due giorni non è presente nessun politico, tranne il Sottosegretario Francesco Paolo Sisto… Esattamente. Noi abbiamo voluto dare spazio solo al Governo con la presenza dell’onorevole Sisto, che è vicino e sempre attento alle posizioni dell’Unione. Con lui ci vogliamo confrontare ma allo stesso tempo abbiamo scelto di evitare inutili passerelle dei politici. Il nostro obiettivo è rilanciare un progetto di riforma già esistente, dialogando con l’Accademia, con i magistrati di sorveglianza, con il Garante dei detenuti. Il Garante Palma qualche settimana fa ha sottolineato che “oggi sono detenute in carcere per scontare una pena inferiore a un anno ben 1.211 persone, altre 5.967 per una pena da uno a tre anni”… Quello delle pene brevi è sicuramente un problema che va affrontato e ha rappresentato uno degli snodi principali della Commissione Giostra che aveva proposto anche delle soluzioni a partire da quello che ci disse la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella famosa sentenza Torreggiani: “L’applicazione della custodia cautelare e la sua durata dovrebbe essere ridotte al minimo compatibile con gli interessi della giustizia”, inducendo gli Stati a favorire un uso più ampio possibile delle alternative alla custodia cautelare. Purtroppo quello delle misure alternative al carcere è un tema che soffre molto di niet politici. Da destra a sinistra, il carcere non suscita interesse nella classe politica? Sì, è così. Il carcere è un tema scomodo in termini di consenso politico. Anche la sinistra tergiversa gravemente su questi temi. In particolare il Partito democratico, pur avendo il merito di aver lanciato gli Stati Generali, porta su di sé la grossa responsabilità di aver affossato quell’enorme lavoro e non ha ancora riacquisito la determinazione per fare ammenda. Appunto, si prende tempo con le commissioni invece di proporre, soprattutto da parte di chi potrebbe rivendicare la paternità di quello sforzo culturale, politico e tecnico, di attingere dal lavoro già fatto. Evidentemente anche la partnership con il Movimento Cinque Stelle condiziona l’agire politico del Pd. La seconda sessione è intitolata “Sorveglianza e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: uffici da riformare?”. Qual è il significato di questo panel? Si tratta di una novità rispetto anche alla Commissione Giostra. Le criticità sono due. Si parla tanto di riforma, ma non si sono mai toccati questi due uffici. Sulla sorveglianza c’è un grosso carico di lavoro e a causa di questo essa non riesce a svolgere un compito fondamentale: quello di entrare in carcere per valutare e sorvegliare la situazione, come previsto dall’articolo 69 dell’ordinamento penitenziario, con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo. Inoltre all’interno del Dap dovrebbe essere a nostro avviso rafforzata la presenza di figure professionali più orientate verso la rieducazione che verso la punizione. Non si ha traccia della posizione del Governo sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario… Ci si continua a focalizzare sul tema del nuovo sistema di voto del Csm. Immaginare che il problema della crisi di credibilità della magistratura si risolva intervenendo esclusivamente sul sistema elettorale è qualcosa che si avvicina alla irresponsabilità. Come spesso abbiamo evidenziato gli aspetti dirimenti sono altri: responsabilità professionale, magistrati fuori ruolo, consigli giudiziari. Non avere consapevolezza che occorra una riforma strutturale del sistema significa non aver capito, o far finta di non volere capire, la gravità della situazione. Invece ho molto apprezzato le parole del vice presidente Emani che ha detto in una recente intervista che “la valutazione di professionalità dovrebbe prevedere controlli sulla qualità e sulla tenuta dei provvedimenti”. Paola Severino: “La pandemia può insegnarci una giustizia più umana” di Eugenio Arcidiacono Famiglia Cristiana, 2 dicembre 2021 “Con le videochiamate molti detenuti hanno potuto rivedere dopo tanti anni la loro casa o conoscere per la prima volta i nipotini. È un servizio che deve restare”. Un documentario che avesse come protagonisti quattro suoi studenti universitari scelti per accompagnare un gruppo di reclusi nei reparti di massima sicurezza (quelli riservati ai crimini più gravi) del carcere romano di Rebibbia verso la laurea in Giurisprudenza. Era questa l’idea iniziale di Paola Severino, ex ministra della Giustizia e vicepresidente della Luiss “Guido Carli”. Le riprese sono iniziate a inizio 2020: studenti e detenuti hanno iniziato a scriversi per conoscersi con l’idea di incontrarsi poi in carcere. Ma l’arrivo del Covid-19 ha travolto tutto e così il progetto si è trasformato in Rebibbia Lockdown, un documentario, diretto da Fabio Cavalli, che racconta i mesi più duri della prima ondata della pandemia dalla parte di chi li ha vissuti dentro a una cella. Presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia, sarà prossimamente trasmesso dalla Rai, che lo ha prodotto con la Luiss. Professoressa, quando è scoppiata la pandemia non ha avuto la tentazione di mollare il progetto? “Ho detto ai miei studenti che proprio per questo motivo era necessario andare avanti, perché so bene quanto un detenuto possa sentirsi abbandonato. Perciò ho detto loro di continuare a scrivere, finché l’amministrazione penitenziaria non ha consentito a noi e soprattutto ai familiari di effettuare delle videochiamate. È stata una vera svolta. Tanti detenuti hanno potuto rivedere non solo i loro familiari, ma anche la loro casa, che magari non vedevano da trent’anni, e i loro animali domestici. Qualche nonno ha potuto vedere per la prima volta i nipotini. Questa modalità di comunicazione continua anche ora. Spero sia estesa ad altre strutture e che duri anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria”. Il documentario ricostruisce, attraverso l’uso di disegni animati e di testimonianze raccolte a posteriori, i drammatici giorni delle rivolte avvenute a Rebibbia e in molte altre carceri in Italia… “I detenuti protestavano contro la sospensione dei colloqui e per la paura di contagiarsi. Un recluso scrisse una lettera a uno studente: “Caro Giacomo, provo a farti capire lo sgomento e la rabbia qui dentro. Hai presente i galeotti incatenati ai remi delle galee romane? Quando vedevano i bagliori di un incendio a bordo, pregavano Dio che la nave affondasse prima di bruciare: per morire, meglio l’acqua del fuoco”. Nei giorni successivi, alcuni agenti del carcere di Santa Maria Capua a Vetere, per ritorsione contro i rivoltosi, si lasciarono andare a violenze inaudite. Che lezione trarre da tutto questo? “Innanzitutto vorrei sottolineare il comportamento esemplare degli agenti di Rebibbia che, senza ricorrere alla violenza, sono riusciti a evitare che la situazione degenerasse e al tempo stesso a rassicurare chi non partecipava alla rivolta. Detto questo, molti agenti sono molto stressati perché, passando così tanto tempo tra le celle, finiscono con il sentirsi essi stessi dei carcerati. Per questo penso sia fondamentale portarli il più possibile fuori, organizzando per esempio degli incontri nelle scuole per realizzare quel confronto di idee che, come si vede nel nostro film, è molto fecondo”. Alcuni dei protagonisti del documentario sono ergastolani. Cosa pensa del dibattito sul “fine pena mai”, cioè sull’ergastolo ostativo? “La questione è molto delicata perché da un lato c’è l’idea dettata dal sentimento secondo la quale chi si è macchiato di crimini orrendi non dovrebbe essere più riammesso nella società civile, anche per il rischio che possa commetterne altri, dall’altro ci sono la ragione e la Costituzione secondo cui la pena deve avere una finalità rieducativa e quindi prevedere per ogni detenuto la possibilità di dimostrare di aver compreso i propri errori. Comunque, una recente sentenza della Corte costituzionale è intervenuta proprio su questo aspetto, dando al Parlamento un anno di tempo per trovare un punto di equilibrio”. Due detenuti presenti nel documentario affermano di essere vittime di errori giudiziari. Prescindendo dai loro casi, quanto è diffuso secondo lei questo fenomeno? “Mi colpisce sempre l’elevato numero di detenuti in attesa di giudizio, una realtà tremenda che intacca il senso stesso della giustizia. D’altra parte, non cambierei mai il nostro sistema giudiziario, per quanto contorto sia, con quello statunitense dove puoi essere condannato a morte da una giuria dopo un solo grado di giudizio”. Da questo punto di vista, la recente riforma della giustizia approvata dal Governo va nella giusta direzione? “Sì, perché cura molto il tema delle garanzie e potenzia il ricorso alle pene alternative”. Cosa la colpisce di più quando entra in un carcere? “Il modo in cui i detenuti ti accolgono. Loro sono abituati a visite che avvengono in contesti sempre molto controllati. Io invece, anche da ministra, ho chiesto più volte di essere lasciata sola e questo li sconcerta perché non sono abituati al fatto che qualcuno possa aver fiducia in loro. Anche quando, proprio a Rebibbia, ho accompagnato Benedetto XVI in visita, ho chiesto di non avere attorno a noi agenti di Polizia penitenziaria. E il Papa fu straordinario: rispose alle loro domande con parole semplici e allo stesso tempo profonde, che donarono a quegli uomini grande conforto”. Diritto all’affettività, l’esempio toscano non scuote il governo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 dicembre 2021 “Ci è stata presentata una ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale che ci ha portato la voce dei detenuti sul tema della propria vita affettiva. L’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale del Lazio sarà il motore per tradurre le conclusioni legislative di questo lavoro in un disegno di legge da inviare al Parlamento”. Così il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio Devid Porrello, a conclusione dell’incontro per la presentazione “Affettività e carcere, un progetto di riforma tra esigenze di tutela contrapposte” che si è svolto martedì scorso alla Pisana. È questa la risposta all’appello della senatrice Monica Cirinnà, relatrice in commissione Giustizia del Senato di un disegno di legge d’iniziativa del Consiglio regionale della Toscana, volto appunto a modificare le norme in materia di relazioni tra le persone detenute e i propri familiari e i propri affetti, “persone innocenti all’esterno che scontano anche loro una pena”, come ha sottolineato Cirinnà durante il suo intervento in sala Mechelli del Consiglio. La senatrice ha riferito anche delle difficoltà che incontra il disegno di legge di cui è relatrice. “Non credo che il Parlamento approverà mai la legge della Regione Toscana, ma chiedo a tutte le regioni e di presentarne una analoga, a cominciare dal Consiglio regionale del Lazio”. Di qui la risposta di Porrello e del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, secondo il quale “durante la pandemia si è rotto il tabù del digitale con le videochiamate, adesso è tempo di rompere il tabù delle sessualità nelle carceri, così avviene in molti paesi del mondo spesso considerati meno avanzati del nostro”. Anastasìa, dal canto suo, ha auspicato che la commissione per la riforma del sistema carcerario istituita dalla ministra Marta Cartabia tenga conto delle necessità emerse dalla ricerca dell’Università di Cassino presentata alla Pisana. Dopo i saluti del presidente del Consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi, e del Rettore dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, Marco Dell’Isola hanno illustrato i risultati della ricerca “Affettività e carcere”, Sarah Grieco, responsabile della ricerca, e Simone Digennaro. Dalla ricerca nel corso della quale sono stati intervistati duecento detenuti e operatori penitenziari di quattro istituti penitenziari del Lazio sono emersi numerosi disagi socio- affettivi e relazionali, dovuti soprattutto al sovraffollamento che non consente la predisposizione di locali adeguati, dove poter effettuare colloqui con i propri familiari. Insufficienti sono considerati gli spazi verdi dotati di attrezzatura per bambini e i colloqui telefonici, di soli dieci minuti ciascuno, con costi sproporzionati e in assenza di privacy. Inadeguati gli spazi per l’affettività, inesistenti quelli per l’intimità, considerata dalle persone detenute fondamentale per preservare il rapporto con il proprio partner. Gestite da operatori esterni, sono a pagamento le email sia in uscita sia in entrata. Le restrizioni e i contatti con il mondo esterno sono considerati inadeguati dalla maggior parte delle persone detenute intervistate. Di qui la proposta dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, volta a modificare la normativa vigente in modo da poter permettere il colloquio intimo, a prevedere soluzioni differenti per gli incontri tra adulti e per quelli tra persone detenute adulte e bambini, e a istituzionalizzare il colloquio pranzo, oggi nella discrezionalità della direzione dell’istituto penitenziario, nonché a rivedere la disciplina delle comunicazioni telefoniche. Nel corso dell’incontro, sono intervenuti anche Leonardo Circelli, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Roma e Ottavio Casarano, direttore della casa di reclusione di Roma Rebibbia. “Eliminare subito il sovraffollamento nelle prigioni cadute in quarantena” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 dicembre 2021 Approvato dall’esecutivo l’ordine del giorno presentato da Riccardo Magi di +Europa. Il governo ha approvato un ordine del giorno per richiamare l’esigenza di eliminare il sovraffollamento in carcere, almeno dove vige la quarantena. Lo aveva presentato il deputato Riccardo Magi di +Europa il quale chiedere al governo di impegnarsi nell’adottare tutte le misure necessarie a rientrare nel rispetto della capienza regolamentare, a partire dagli istituti nei quali sono in atto focolai di contagio. Magi, nell’ordine del giorno premette che nel provvedimento in esame sono contenute numerose norme volte a regolare l’accesso alle attività culturali, sportive e ricreative al fine di contenere la diffusione dell’epidemia da Covid-19 e l’efficacia delle disposizioni della disciplina emergenziale in ambito penitenziario è cessata il 31 luglio scorso. “Nelle carceri italiane - viene sottolineato nell’ordine del giorno di Magi - il tasso di sovraffollamento continua a essere preoccupante, così come il rischio di contagio tra i detenuti e gli agenti, come segnalato dal Garante nazionale dei detenuti il 29 ottobre scorso, infatti, aumenta ormai con costanza il numero dei detenuti, giunti a 54.240, con 310 nuove presenze soltanto negli ultimi 28 giorni; un dato in controtendenza rispetto alla riduzione che si era avuta nel 2020, anche a seguito dell’emergenza sanitaria”. L’aumento, come ha rilevato il Garante nazionale delle persone private della libertà - riguarda anche le persone ristrette per pene inflitte (non residue) molto brevi, inferiori a 3 anni; oggi sono detenute in carcere per scontare una pena inferiore a un anno ben 1211 persone, altre 5967 per una pena da uno a tre anni. Magi, nell’ordine del giorno, osserva che “parallelamente aumentano i contagi, sia tra detenuti che tra il personale della polizia penitenziaria, e il numero di istituti in quarantena; secondo i dati del monitoraggio del ministero della Giustizia diffusi il 22 novembre, attualmente i positivi sono 150 tra i detenuti e 152 tra gli agenti”. Quindi sono sempre di più i casi in cui ad essere messi in quarantena sono interi istituti penitenziari, con conseguenze sul diritto dei detenuti a ricevere le visite dei propri familiari e a svolgere volte al reinserimento lavorativo e sociale. Per questo l’ordine del giorno impegna il governo di avvalersi dei servizi di prevenzione delle Asl al fine di verificare che siano rispettate negli istituti penitenziari le condizioni volte a prevenire i contagi, e in particolare il distanziamento tra i detenuti all’interno delle celle. Inoltre chiede l’impegno del governo affinché adotti tutte le misure necessarie a rientrare nel rispetto della capienza regolamentare, a partire dagli istituti nei quali sono in atto focolai di contagio. Ancora in sospeso invece la possibilità di adottare misure di ristoro quali l’aumento dei giorni di liberazione anticipata e di applicazione delle misure alternative. Animali in carcere: una terapia per i detenuti di Maurizio Gazzoni dolcevitaonline.it, 2 dicembre 2021 Sono diversi ormai gli studi che dimostrano l’apporto positivo degli animali sui detenuti. Un dato di cui le carceri di domani dovranno tenere conto. Non avevo mai pensato alla possibilità, per i reclusi, di tenere animali in carcere. Voglio troppo bene agli animali per immaginarli a condividere la prigionia, anche se probabilmente, loro lo farebbero di buon grado. Forse in qualche film americano ho visto un detenuto che teneva un canarino, ma il ricordo è sfocato e non so se la memoria m’inganna. Così ho telefonato a un amico con cui 20 anni fa ho condiviso pane e prigionia e che ora ha un cane, per sapere cosa ne pensava. La sua opinione era scontata, ma mi ha suggerito spunti intelligenti. Vi sono aspetti logistici che rendono complicatissima l’introduzione di animali nel contesto carcerario, ma se ci fosse la volontà coinvolgere gatti abbandonati o i cani del canile sarebbe un’operazione win-win. Nell’ottica di un ripensamento del sistema carcerario, che sappiamo necessario, e di un’opinione comune che ritiene i detenuti “in vacanza” e liberi dopo pochi giorni che va smentita, bisognerebbe partire da un presupposto: chi sbaglia dovrebbe essere rieducato e questo si può ottenere con il lavoro, con la cultura e soprattutto con l’amore. In quest’ottica, prendersi cura degli animali ha senza dubbio una funzione rieducativa. Questo non vuol dire rendere possibile, in caso di arresto, portarsi in cella il proprio pitbull, ma se i “penitenziari” venissero ripensati come “correttori” e fossero dotati di stalle, scuole, forni per il pane, orti e via di seguito, allora “gli animali” assumerebbero una funzione preziosa. Diverse realtà penitenziarie, in Italia come all’estero, hanno già compreso l’importanza dell’apporto favorevole della mediazione animale nel contesto detentivo allo scopo di attenuare il disagio psichico e ridurre il tasso di recidiva al ritorno nella società civile. Uno studio sperimentale, ad esempio, ha dimostrato come nei programmi di reinserimento socio lavorativo e per migliorare la qualità della vita dei detenuti, gli animali siano di fatto un’opportunità. Il disegno sperimentale ha messo a confronto un gruppo di controllo composto da detenuti che hanno affrontato solo il programma intramurario versus soggetti coinvolti nel percorso standard integrato con le sedute di terapia assistita con il cane. Ciò ha permesso di dimostrare come questi interventi comportino un miglioramento delle capacità sociali dei detenuti, riducendo i sintomi quali ansia e depressione in modo statisticamente significativo rispetto al gruppo di controllo. In rete si trova nota di diverse iniziative che vedono l’introduzione a vario titolo degli animali negli istituti di pena, tutte con esito positivo. Presunzione d’innocenza, arriva il “gognometro” contro magistrati e giornalisti di Liana Milella La Repubblica, 2 dicembre 2021 A colpi di tweet il deputato di Azione Enrico Costa vuole imporre l’applicazione della nuova legge “misurando” caso per caso gli spazi dati dai giornali ad arresti e assoluzioni per verificare fin dove può arrivare la gogna mediatica. Magistrati e giornalisti attenti, arriva il “gognometro”. Lo strumento che vuole scoprire il (presunto) tasso di gogna mediatica che si nasconde nell’informazione italiana. Tanto spazio agli arresti, quasi nessuno alle assoluzioni, è il punto di partenza. L’inchiesta finisce in fumo? E allora non è una notizia. Questo al deputato Enrico Costa di Azione non va giù. E proprio per questo ha inventato il “gognometro” dopo aver fatto la battaglia sulla legge per la presunzione d’innocenza che entra in vigore il 14 dicembre. Lui la considera la sua Bibbia. Ed è intenzionato a farla rispettare. A tutti i costi. Non gli bastava quel successo, frutto di una campagna che è partita a marzo e che è durata settimane, d’ora in poi “misurerà”, notizia per notizia, gli spazi dati all’esplosione di un’inchiesta, magari con tanto di manette, e quelli successivi in caso di assoluzione. Il suo “gognometro” funzionerà tutte le volte che un processo finisce in fumo, e lui andrà indietro nel tempo per vedere quante colonne o quanti minuti di Tg o quanto spazio sui siti è stato dedicato alla news dell’arresto o dell’iscrizione sul registro degli indagati, e quante righe invece ha meritato l’assoluzione oggi. Non è certo un passatempo, quello di Costa, perché - state attenti - l’ex sottosegretario e ministro berlusconiano ha un duplice obiettivo. Ottenere, nella prossima legge sul Csm e sull’ordinamento giudiziario, di condizionare la carriera delle toghe. Sulla quale, per Costa, dovrebbe avere un peso determinante anche un’indagine che poi si conclude con un nulla di fatto. Tante assoluzioni? Niente carriera, si resta al palo. Quanto ai giornalisti lo spauracchio è finire in mano al Garante della Privacy. Ancora ieri Costa lo ha chiesto alla Camera con un ordine del giorno su cui però ha avuto la peggio, perché Francesco Paolo Sisto, suo ex collega di partito e oggi sottosegretario alla Giustizia con Marta Cartabia, si è messo di traverso. Ma la richiesta di Costa era perentoria: “Il direttore o il responsabile della testata giornalistica, radiofonica, televisiva o online che non dia pubblicità alla sentenza di assoluzione o di proscioglimento, ovvero non lo faccia con le stesse modalità e la stessa evidenza data alla notizia dell’avvio del procedimento penale o alle dichiarazioni, informazioni e atti oggetto del processo” finisce nelle mani del Garante della privacy che si regolerà di conseguenza. Non è affatto ironico Costa quando spiega che “il gognometro è lo strumento che d’ora in poi misurerà il livello di gogna mediatica nell’ambito di un procedimento penale”. E come si calcola questa gogna? Risposta subito pronta: “Il risultato si ottiene facendo la differenza tra lo spazio e il risalto dato alle indagini, alle dichiarazioni, alle conferenze stampa, all’uscita di verbali e intercettazioni, a volte pruriginose, rispetto poi alla notizia dell’eventuale assoluzione dell’imputato, che ovviamente arriva anni dopo”. Siamo al super garantismo portato alle estreme conseguenze. Un garantismo che, secondo Costa, è scritto ben chiaro nella Costituzione, “nessuno è colpevole fino alla sentenza definitiva”, e nelle decisioni della Corte dei diritti umani di Strasburgo. Nonché in questa direttiva sulla presunzione d’innocenza del 2016 che “l’Italia ha recepito ben 5 anni dopo”. E solo perché lui ne ha sollecitato la discussione. Dai principi Costa passa ai fatti, e ogni giorno li twitta. Due giorni fa ecco la storia di Cesa, l’ex segretario dell’Udc. “Un quotidiano ha dedicato alla perquisizione a casa dell’allora segretario in carica dell’Udc Cesa, il 22 gennaio 2021, durante la crisi del governo Conte, sei pagine. A novembre, quando Cesa da impuntato è passato allo stato di prosciolto, quello stesso quotidiano ha dedicato a Cesa 19 righe in un angolino a pagina 13”. Inutile spiegargli che - ovviamente - le regole del giornalismo sono queste, un intervento giudiziario come quello su Cesa fa notizia, soprattutto se incide sulla crisi politica in atto. Ma se poi tutto si sgonfia la notizia non c’è più. Costa non è affatto d’accordo, anzi si arrabbia: “Ma come? Ma vi rendete conto? Di casi di scuola come questo ce ne sono tutti i giorni, e non riguardano solo esponenti politici, ma imprenditori e semplici cittadini che vengono sbattuti in prima pagina, e la vera sentenza diventa la notizia dell’indagine, mentre la sentenza vera arriverà dopo anni, e non interesserà più nessuno”. Proprio così. Ma Costa vuole sfruttare la doppia anima del governo - Pd, M5S e Leu da una parte, Lega e Forza Italia dall’altra - per ottenere risultati a suo favore. La presunzione d’innocenza - che impone ai magistrati e quindi anche agli investigatori conferenze stampa solo se c’è “un interesse pubblico” - l’ha già ottenuta. Adesso vuole trasformare quei principi in possibili “punizioni” per chi non rispetta le regole che ormai sono scritte. A Repubblica Costa spiega la sua strategia: “Mi muoverò su due fronti. Sul passato e sul presente. Ogni volta che un imputato, anche poco noto, sarà assolto, il “gognometro” entrerà in azione perché io andrò a verificare con quanto spazio è stata data la notizia dell’arresto oppure dell’apertura dell’indagine”. Il deputato che ha lasciato Forza Italia da responsabile Giustizia per passare con Carlo Calenda, sta predisponendo dei modelli che saranno pubblicati in rete, e verranno distribuiti a parlamentari e avvocati. “Ma anche i cittadini - dice Costa - potranno scaricarli e segnalare eventuali anomalie”. Si può già immaginare la pioggia di proteste che pioverà su via Arenula e nelle mani del Garante della privacy. Ma la legge sulla presunzione d’innocenza - che più di una toga ha criticato - gli darà manforte. Costa, come un poliziotto al lavoro 24 ore su 24, verificherà anche le eventuali conferenze stampa che si tengono nei palazzi di giustizia. “Più di un magistrato sta cercando di mettere nel ridicolo questa legge - dice il deputato di Azione - sostenendo che comunque esisterà sempre un interesse pubblico nel dare le notizie. Ma non è affatto così perché la norma prevede che ci voglia un atto per fare le conferenze stampa e per autorizzare la polizia giudiziaria. Ci deve essere sempre un interesse pubblico. Io propongo, a chi crede nel principio della presunzione d’innocenza, di far partire un controllo sociale anti elusione”. Et voilà... così, per difendere il presunto innocente, adesso parte la caccia al presunto colpevole. Il peso delle parole. Una coltellata non è una “cavolata”, un reato non è un “casino” di Alberto Pellai Famiglia Cristiana, 2 dicembre 2021 La cronaca ci ha raccontato di una rapina finita molto male a Torino. Un sedicenne e un diciottenne entrano in una farmacia con una finta pistola. Sopraggiunge un carabiniere fuori servizio, che tenta di sventare il colpo. Nella fuga, uno dei due rapinatori - il 16enne - accoltella in modo molto grave il carabiniere che - per fortuna - è stato dichiarato fuori pericolo dopo il delicato intervento chirurgico cui i medici lo hanno sottoposto. Alla sera il minorenne è stato accompagnato dal padre in questura per costituirsi. Possiamo solo immaginare il dolore e il disorientamento di un padre che deve portare il proprio figlio ad affrontare tutto quello che succederà dopo il reato da lui messo in atto. In un minuto si deve rivedere tutto ciò che si è stati: noi genitori per un figlio e quel figlio per noi genitori. “Mio figlio è un bravo ragazzo - ha detto il padre - Ha fatto una cavolata”. In questa frase ci sono mille contraddizioni e mille ambivalenze. Ma c’è di certo anche la volontà di un padre di continuare a credere che il proprio figlio non è “sbagliato”: ha solo fatto un enorme sbaglio, di cui per legge dovrà rispondere. Questo approccio del padre sarà salvifico per il recupero del ragazzo. I figli hanno bisogno di sentire che un padre, di fronte al tuo errore, continua a credere che tu non sei sbagliato. Però credo sia utile riflettere sulle parole che sono state usate. Una rapina e un “tentato omicidio” possono essere considerati solo una “cavolata”? Il ragazzo stesso, parlando del reato commesso, ha affermato “Ho combinato un casino”. Forse dobbiamo proprio ripartire da qui, con i nostri figli adolescenti. Dalla necessità di dare alle parole il peso e il valore che hanno. Una rapina, un accoltellamento potenzialmente mortale non possono essere raccontati come “una cavolata” oppure come “un casino”. Sono reati. Della peggior specie. Implicano procedimenti penali, restrizioni della libertà, danni enormi alla vita altrui e alla propria. Gesti messi in azione in pochi minuti, hanno conseguenze per anni. E a volte quelle conseguenze - quando ferisci o uccidi qualcuno - durano per sempre. Crescere un figlio significa renderlo responsabile non solo di ciò che fa, ma anche di ciò che è. Ovvero, insegnargli ad usare il proprio potere d’azione e la propria autonomia - una volta che non è più il “copione dell’obbedienza” a guidarlo - per fare cose buone, per costruire il proprio presente e il proprio futuro. Sono infinite le traiettorie di crescita attraverso le quali i nostri figli possono trasformarsi in autori di crimini e reati. Potrebbe capitare a tutti. E non serve a molto dire: “tutta colpa della famiglia”. Le colpe le stabilisce la legge. A noi genitori ed educatori serve invece parlare di responsabilità educativa. E su questo c’è davvero molto lavoro da fare. Perché la leggerezza etica e morale con cui si valutano azioni che hanno significati simbolici e reali enormi spesso si denota anche dall’uso delle parole, che come in questo caso, sembrano minimizzare la portata e l’entità del danno prodotto. Nel raccontare ai nostri figli e studenti questo fatto di cronaca, insegniamo loro ad usare le parole che servono per definirne l’enormità. Ciò di cui si parla non è una “cavolata”, né tanto meno “un casino” e pensare che siano queste le parole per definirlo fa apparire tutto come un semplice incidente con esiti imprevisti. Avere in mano un coltello, entrare in farmacia per fare una rapina sono reati, crimini tra i peggiori che espongono noi e gli altri a conseguenze gravissime. Partiamo da qui: dal dare alle parole il peso e il valore che hanno. In carcere Emilio Scalzo, il “gigante” No Tav e No Border di Mauro Ravarino Il Manifesto, 2 dicembre 2021 Accusato di aver aggredito un gendarme durante una manifestazione al confine francese contro la repressione dei migranti, è stato portato alle Vallette di Torino in attesa di essere estradato in Francia. Prima dell’arrivo delle forze dell’ordine la visita di Zerocalcare a casa sua a Bussoleno. La giornata era iniziata con la solidarietà portatagli direttamente a casa da Zerocalcare, a Bussoleno, ed è terminata con Emilio Scalzo - 66 anni, storico attivista No Tav - in carcere alle Vallette. Un repentino cambio di registro che stringe ancor più una Valle attorno al suo “gigante”, pescivendolo in pensione e infaticabile militante conosciuto per la sua generosità, su cui pende un mandato di cattura internazionale per fatti avvenuti al confine francese, lo scorso maggio, fra Claviere e Monginevro. Scalzo è accusato di avere aggredito un gendarme, durante una manifestazione No Border indetta contro la repressione che colpisce le rotte migranti. “Sono arrivati scavalcando il cancello, come degli intrusi, bloccando la statale con le camionette”, così il sito notav.info racconta l’arresto di Emilio da parte delle forze dell’ordine. È avvenuto poco dopo le 13 tra le urla dei No Tav che invocavano la sua libertà. L’uomo è stato portato in carcere a Torino, in attesa di essere estradato in Francia. Una decisione diventata esecutiva dopo che la Cassazione ha rigettato il ricorso dei suoi legali. Negli ultimi giorni svariati attivisti No Tav si sono ritrovati in un presidio permanente sotto casa sua per esprimergli vicinanza. E, così, ieri mattina Emilio Scalzo, in quel momento ancora ai domiciliari, è stato raggiunto anche da Zerocalcare, autore della recentissima serie tv di successo Strappare lunghi i bordi e dell’appena uscito graphic novel Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia. Il fumettista ha registrato, proprio accanto a Emilio, un messaggio: “Tutti si riempiono la bocca della solidarietà con i migranti, Emilio - ha sottolineato Zerocalcare - questa cosa l’ha praticata davvero”. Sulla storia di Emilio e sul suo percorso di vita, Chiara Sasso ha scritto un libro intitolato A testa alta (Edizioni Intra Moenia, 2020): dalle sue origini siciliane al lavoro nei mercati della Val di Susa, dalla parentesi giovanile nel pugilato al costante impegno dalla parte dei più deboli. La decisione di ottenere un aggravamento della misura degli arresti domiciliari è venuta dalla Procura generale del Piemonte, motivata dal “concreto pericolo” che i No Tav potessero impedire l’estradizione dell’attivista. Una mossa che ha lasciato spiazzato il suo legale, l’avvocato Danilo Ghia: “Sono esterrefatto. Il mio assistito è stato arrestato ma non a causa del suo comportamento”. Alle 18 si è svolto a Torino un presidio di solidarietà nei confronti di Scalzo, al capolinea del tram 3 nei pressi della casa circondariale. Il movimento No Tav ha detto che non smetterà di essere al fianco di Emilio e lo farà anche in Francia: “Questa storia ha ancora una volta molto da insegnare. Insegna - si legge su notav.info - la solidarietà, la capacità di uomini e donne di schierarsi contro le ingiustizie mettendo in gioco le proprie vite per un obiettivo più grande, collettivo, per un’esistenza più degna”. Marche. Il Garante dei detenuti: “Serve un piano per affrontare nodi sanitari” dire.it, 2 dicembre 2021 “L’attuale situazione sanitaria negli istituti penitenziari delle Marche necessita di interventi su diversi fronti. Occorre predisporre un Piano serio ed oculato per affrontare le criticità presenti”. A dirlo in una nota è il Garante regionale dei Diritti delle Marche, Giancarlo Giulianelli, che oggi ha partecipato ad un’audizione della commissione Sanità presieduta da Elena Leonardi (Fdi). Le maggiori difficoltà, ha evidenziato il Garante, sono determinate dall’aumento delle patologie psichiatriche che necessiterebbero di un servizio psichiatrico e psicologico all’interno di ogni penitenziario e anche di prevedere l’attivazione di una seconda Rems nelle Marche. In primo piano inoltre l’esigenza di garantire il servizio medico 24 ore su 24 in tutte le strutture carcerarie. Sul fronte Covid-19 Giulianelli ha ricordato che è indispensabile attivare un monitoraggio che tenga conto dell’evolvere della situazione. Pavia. Tre suicidi in un mese. “Sovraffollamento e degrado, le celle stanno scoppiando” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 dicembre 2021 Morti un 36enne condannato per estorsioni sportive, un 47enne per violenze in famiglia e un uomo di 36 anni che sarebbe tornato in libertà tra un anno. Nel penitenziario solo quattro poliziotti. Inagibili palestra, cappella e sale colloqui. Tre suicidi in un mese, di cui due in una settimana: per quanto siano insondabili le scelte delle persone che arrivino a togliersi la vita, e quindi oscena la presunzione di trarne facili correlazioni, non ci vuole un genio a capire che le tre morti fra il 25 ottobre e il 30 novembre (più un tentato suicidio) sono la punta di un iceberg di problemi serissimi nel carcere di Pavia. Tutti e tre in espiazione di una condanna definitiva (categoria di detenuti che a rigore dovrebbe stare più in una casa di reclusione che in una casa circondariale come Pavia), prima si è ucciso un italiano di 36 anni condannato per estorsioni in ambito sportivo, poi un italiano di 47 anni condannato per violenze familiari, e infine ora un romeno di 36 anni che sarebbe tornato in libertà tra poco più di un anno. Proprio il giorno prima di quest’ultimo suicidio una delegazione di “Antigone” era entrata nel penitenziario, e ora - spiega la responsabile lombarda Valeria Verdolini - chiederà di tornarvi domani proprio per la gravità della situazione verificata. Pavia ha (come molti istituti) problemi di sovraffollamento, con 586 detenuti (che erano 609 in estate) in 518 teorici posti regolamentari, e più della metà sono stranieri. Ha più di 300 detenuti “protetti”, che cioè per ragioni varie hanno collocazione diversa dall’ordinaria. Ha un polo psichiatrico in teoria per il bacino lombardo ma (al momento per 12 ospiti) con un personale ampiamente sottodimensionato. Ha, per quanto riguarda la direzione, un rosario di congedi e reggenze. Ha soltanto 4 ispettori nella polizia penitenziaria (corpo ovunque sotto organico) e 4 educatori a rappresentare le rispettive posizioni professionali per 600 detenuti. In affanno è la medicina penitenziaria, che ha visto un dottore arrivare a fare anche 36 ore di fila di turno perché “con le dimissioni in massa del personale sono rimasti solo due medici, di cui uno, psichiatra, appunto costretto a fare turni per coprire le guardie”, riassume la professoressa di Esecuzione penale Laura Cesaris, Garante provinciale dei detenuti da settembre 2020. E poi ci sono “le disastrose condizioni logistiche, il forte degrado dovuto a incuria e infiltrazioni d’acqua: con inagibili la palestra, la cappella e le sale colloqui, tra le soluzioni prospettate c’è anche quella di far diventare polifunzionale il teatro. L’inagibilità di questi spazi”, insieme ai problemi di riscaldamento e di acqua, “ha una ricaduta assai pesante sulle condizioni detentive, peraltro rese ancora più difficili dall’infestazione di alcuni parassiti. Condizioni di vita peggiorate nell’indifferenza” mentre la pandemia aggrava la separazione fra il dentro e il fuori, valuta Cesaris invocando maggiore consapevolezza non solo nell’amministrazione penitenziaria ma anche negli avvocati e nei magistrati di sorveglianza. Altrimenti “la separazione prescritta a tutela anti Covid finisce per costituire un alibi per ignorare persino le esigenze più elementari”. Talvolta anche per malintese rigidità burocratiche. Come nella risposta della direzione del carcere alla doglianza della Garante di non essere stata avvisata del secondo suicidio: “Pur nella reciproca collaborazione, la richiesta non trova fondamento nelle prerogative del Garante provinciale dei detenuti”. Udine. Covid, 14 casi fra i detenuti: il carcere è in quarantena ilfriuli.it, 2 dicembre 2021 Emersi 14 casi fra i detenuti che domani saranno sottoposti in massa allo screening. Il carcere di Udine è in quarantena per 14 casi Covid fra i detenuti che, domani, saranno sottoposti in massa allo screening per capire esattamente il livello di diffusione del virus. Dei 14 positivi, accertati tutti nei giorni scorsi, nessuno desta preoccupazione. Quattro di loro si sono negativizzati nelle ultime ore. La decisione di porre in quarantena il carcere è stata presa dalla Direzione e dalle Autorità sanitarie. Sono stati bloccati i colloqui, gli incontri e le altre attività. La riunione del Consiglio dei detenuti, che doveva essere dedicata alla presentazione del progetto di ristrutturazione del carcere è stata annullata. In via Spalato nei giorni scorsi c’erano 140 detenuti, numero decisamente superiore alla capienza della struttura. Il loro numero ora è sceso. In una lettera, il garante dei detenuti, Franco Corleone, ha invitato tutti a vaccinarsi. “Ho parlato con la magistratura di sorveglianza - ha scritto Corleone - sollecitando decisioni per la concessione di misure alternative. Mi auguro - ha concluso Corleone - che per Natale si possa festeggiare la fine di questo incubo e riprendere gli incontri del Consiglio dei detenuti”. Viterbo. Il Garante: “pronti alla terza dose, ma nelle celle manca l’acqua calda” Ristretti Orizzonti, 2 dicembre 2021 Il Garante delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa, in visita all’istituto viterbese ha verificato le condizioni di detenzione nella Casa circondariale, dopo il trasferimento di 112 detenuti di Alta sicurezza da Frosinone. Il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, è stato oggi in visita alla Casa circondariale di Viterbo Nuovo complesso, per verificare le condizioni dei 112 detenuti in regime di alta sicurezza, trasferiti dal carcere di Frosinone, e le misure adottate per la continuità della campagna vaccinale e i colloqui dei detenuti con i familiari. Anastasìa ha visitato il nuovo reparto di Alta sicurezza, la sezione di isolamento, la cucina, i locali e gli ambienti destinati ai colloqui in presenza e a distanza con i familiari, accompagnato dal responsabile dell’attività di monitoraggio della struttura di supporto, Ciro Micera, dalla direttrice dell’istituto penitenziario, Annamaria Dello Preite, dal vicecomandante della polizia penitenziaria e dalla responsabile dell’area educativa. Il trasferimento a Viterbo dei detenuti di alta sicurezza è stato disposto dopo che, a seguito dell’introduzione di una pistola nel carcere di Frosinone, era stato deciso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di dimezzare il numero di presenze nella sezione ciociara di alta sicurezza. A Viterbo adesso si trovano 490 detenuti, di cui 112 in alta sicurezza, appunto, e 47 in regime di massima sicurezza, 41 bis. “Entro la prima metà di dicembre - riferisce il Garante Anastasìa - sarà somministrata la terza dose di vaccino anti Covid-19 al personale e a tutti i detenuti che vorranno accedervi. Nel corso della visita abbiamo potuto verificare gli spazi per i colloqui, sia all’interno che all’aperto, la cucina, l’infermeria e la sezione per l’isolamento. Stilerò una relazione con le mie raccomandazioni che invierò alla direttrice dell’istituto, che ringrazio fin d’ora per la disponibilità e l’attenzione prestata nel corso della visita e nei confronti delle istanze dei detenuti. Una criticità di rilievo - conclude Anastasìa - è senz’altro rappresentata dal fatto che, benché sia presente nei locali doccia, dai rubinetti nelle camere detentive non sgorga acqua calda, in quanto il sistema idraulico, obsoleto, non lo prevede”. Pistoia. Tripi (Pd): “Rifiutata l’unica candidata a Garante dei detenuti” Il Tirreno, 2 dicembre 2021 “Durante la votazione segreta per la nomina del nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà la maggioranza - scrive in una nota il Pd, di cui è capogruppo Walter Tripi - non ha perso l’occasione per scrivere una pagina vergognosa del consiglio comunale. C’era una sola candidata la dottoressa Giulia Melani, giovane, con un curriculum impeccabile di esperienze già maturate sul tema, ma che evidentemente non rispondeva alle esigenze di lottizzazione della giunta Tomasi, che ha preferito far decadere la votazione. Ed ecco quindi che - prosegue il Pd - dopo anni di disinteresse totale verso questa tematica, la nomina del garante viene una volta in più rimandata a data da destinarsi. Ma quello che lascia sconcertati è il metodo di questa amministrazione, che per le proprie esigenze di parte e politiche riesce a mettere in gioco anche i diritti delle persone: evidentemente la dottoressa Melani, unica candidata ad aver dato la disponibilità per un ruolo dalle enormi difficoltà e senza alcuna retribuzione, non era sufficientemente vicina ai colori politici della giunta”. Padova ringrazia i volontari della pandemia: “Una grande e straordinaria prova di umanità” di Cristiano Cadoni Il Mattino di Padova, 2 dicembre 2021 Al teatro Verdi l’ultimo atto della proclamazione a Capitale europea 2020 con la consegna di medaglie e attestati alle associazioni del settore socio-sanitario. Premiato anche Il Mattino. Non è il palcoscenico l’habitat preferito dal volontariato. Per sua natura preferisce agire a riflettori spenti, non si vanta, non chiede riscontro, non vorrebbe mai un premio. E però, un anno dopo aver passato il testimone a Berlino - che a sua volta sta concludendo il suo “mandato” - Padova capitale europea del volontariato ha voluto saldare una specie di conto in sospeso con quella parte del volontariato che più di altre si è trovata ad affollare la complicata trincea della prima ondata di Covid, quella del lockdown, delle mascherine introvabili, dell’isolamento. Lo ha fatto con una cerimonia semplice, al teatro Verdi, alla quale però non ha voluto mancare nessuno, dal sindaco Giordani all’assessore al Volontariato Piva, dal prefetto Grassi al questore Sbordone, ai più alti in grado delle forze dell’ordine e dell’Esercito, all’università (presente la prorettrice Monica Fedeli ma anche l’ex rettore Rizzuto, che il 2020 l’ha vissuto intensamente in ateneo), a rappresentanti dei medici e degli infermieri, a uomini della chiesa, con il rettore della basilica del Santo, padre Antonio Ramina che porta anche il saluto del vescovo Cipolla. Tutti hanno avuto un ruolo chiave in quel periodo particolarmente complesso. E tutti però, più di ogni altra cosa, hanno voluto dire grazie ai volontari che senza esitazione, di slancio, hanno risposto alla chiamata dell’emergenza. Nella città deserta - Il sindaco Giordani se la ricorda bene, la città in quei giorni di marzo e aprile “Non dobbiamo tornare mai più a quella situazione”, dice. “Per questo serve attenzione. Ma i padovani sono attenti, appena ho firmato l’ordinanza per le mascherine, ce l’avevano già sul viso”. E però Giordani ricorda anche come l’8 marzo, una domenica, “ci siamo trovati in municipio con il Csv e la Diocesi e in tre ore eravamo operativi”. La risposta di centinaia di persone, iscritti alle associazioni o volontari alla prima esperienza, era stata straordinaria, commovente. “Da capitale mondiale, altro che europea”, si lascia andare il sindaco. “È stata una prova di umanità che ha consentito di andare avanti con fiducia in un impegno che non è ancora finito, perché l’emergenza resta”, aggiunge Carmelo Lo Bello, presidente di Medici in Strada. Il premio - Sul palco, uno per volta a blocchi di dieci, salgono a ritirare medaglia e attestato tutte le associazioni del mondo della sanità, dell’assistenza agli anziani, della cura, del supporto alle famiglie. Ci sono le divise della Croce Rossa, quelle del Cisom, c’è la Caritas e c’è la Sant’Egidio, ma a fare nomi si fa torto alle altre associazioni perché quelle premiate sono più di sessanta. “Siete stati preziosi, siete i protagonisti. E siete la dimostrazione che il volontariato migliora la vita”, dice Emanuele Alecci, timoniere di Padova capitale europea e presidente del Csv probabilmente all’ultima uscita ufficiale nel ruolo, visto che presto ci saranno nuove elezioni. “È lui a consegnare al sindaco la menzione speciale che Padova ha ricevuto al Senato, due settimane fa, per l’impegno del volontariato nel 2020. L’orchestra d’archi del Pollini regala suggestioni alla sala, ma a strappare applausi è soprattutto il breve documentario che racconta quelle settimane in cui solo la mobilitazione dei volontari aveva consentito di fronteggiare l’emergenza. “Credo che senza di loro avremmo sofferto molto di più”, dice in video il presidente della Croce Rossa Giampietro Rupolo. O forse - pensano in tanti - proprio non ce l’avremmo fatta. Nel corso della cerimonia è stata conferita una menzione speciale al mattino, “per l’aiuto generoso e straordinario dato alle associazioni di volontariato durante la pandemia”. Il nostro giornale ha seguito l’anno di Padova capitale europea raccontando le storie di una trentina di volontari, e dunque di altrettante associazioni della città e della provincia. Ma quando è scoppiata la pandemia ha seguito con una cronaca quotidiana il progetto “Per Padova noi ci siamo”, messo in campo dal Csv insieme al Comune e alla Diocesi, e le altre iniziative con cui l’intero mondo del volontariato si è mobilitato, in presenza e online, per proseguire le proprie attività e per inventarne di nuove, in risposta alle esigenze del difficile periodo del lockdown e delle altre restrizioni. Forlì. “Oltre la violenza”: il video dei detenuti di Sofia Nardi Il Resto del Carlino, 2 dicembre 2021 Un cortometraggio raccoglie le testimonianze di chi ha commesso reati contro le donne e sta affrontando un percorso riabilitante. Un tema complesso e sfaccettato che richiede l’uso delle giuste parole, di uno sguardo aperto e la voglia di guardare oltre al reato per trovare l’essere umano: si parla di violenza contro le donne e di uomini che hanno scontato o stanno scontando la pena. Il pretesto per fare uscire l’argomento dalle mura del carcere è la realizzazione di un cortometraggio - girato da Corrado Ravaioli di Archimedia con il contributo della Fondazione Carisp - che raccoglie le testimonianze, crude e toccanti, di detenuti che, difficoltosamente, provano a tradurre in parole la loro storia in un groviglio di emozioni. Prima del video, che verrà utilizzato per sensibilizzare sul tema anche le scuole, c’è un lavoro lungo più di un ventennio rivolto ai detenuti della ‘sezione protetta’, coloro che, proprio per il fatto che si sono macchiati di reati sessuali, non possono condividere gli spazi con gli altri carcerati. “Per molti detenuti - spiega la direttrice Palma Mercurio - la violenza sessuale è moralmente peggiore dell’omicidio, perciò per chi l’ha commessa lo stigma è sia fuori che dentro la casa circondariale”. Senza mai dimenticare il terribile reato che hanno commesso i detenuti della ‘sezione protetta’, né, soprattutto, le donne che ne sono state vittime, Mercurio ricorda il ruolo del carcere: “Noi non siamo qui per ‘mettere qualcuno dentro e buttare la chiave’, come istintivamente si augurano alcuni cittadini leggendo sui giornali dell’ennesimo caso di cronaca nera, ma per riabilitare le persone e scongiurare il rischio di recidive. Gli uomini maltrattanti hanno una psicologia molto complessa, il loro è un fenomeno trasversale che riguarda diverse classi sociali. Ad accomunarli, di solito, c’è il fatto che il maltrattante stesso è stato vittima di violenza. Da oltre vent’anni noi abbiamo un’attenzione particolare dal punto di vista psicologico per questa categoria di detenuti e ci avvaliamo di operatori esperti, capaci di metterli pian piano di fronte a quello che hanno fatto”. Un aspetto cruciale nel processo riguarda il rischio di recidiva una volta terminata la pena: “Nel 2014, ben prima che entrasse in vigore la legge 69 del 2019 sul ‘codice rosso’ che impone percorsi di riabilitazione con esperti - prosegue Mercurio - abbiamo aperto uno sportello ad hoc in collaborazione con il Centro Trattamento Uomini Maltrattanti di Forlì. C’è sempre un momento, a un certo punto dell’osservazione, in cui notiamo un cambiamento e capiamo che la persona è pronta. In quel momento possiamo dire che ha luogo un miracolo, solo che è un miracolo che avviene grazie a interventi mirati da parte dei professionisti”. Daniela Placido si occupa del ‘Servizio oasi’ e tratta proprio con gli attori di reati sessuali: “La nostra missione è quella di reintegrare queste persone nella società. Io sono una donna e parlo da operatrice donna, quindi vedo bene quanto questi reati siano gravi, ma quando conosco i vissuti disastrosi dei detenuti, ecco che il punto di vista cambia: noi dobbiamo metterli in condizione di non perpetuare la violenza uscendo dallo schema”. Il centro Trattamento Uomini Maltrattanti collabora con la casa circondariale con incontri settimanali mirati, tenuti dallo psicologo Andrea Spada: “Io comincio il lavoro semplicemente incontrando la persona, non voglio mai conoscere il suo reato in anticipo, altrimenti finirei per vedere il reato e non l’individuo. A quel punto faccio il possibile per riabilitarlo, cercando la giusta porta per entrare in contatto con uomini che, spesso, negano la loro colpevolezza. Qualche anno fa sono cominciati anche gli incontri di gruppo, oltre a quelli tradizionali anche quelli più creativi e il video ‘Oltre la violenza’ fa parte di questo progetto: è stato un modo per individuare un messaggio e lanciarlo verso l’esterno”. Che il messaggio non sia facile da recepire, gli attori coinvolti nel progetto lo sanno bene, ma non desistono: “Dopotutto - conclude Palma Mercurio - il carcere esiste proprio per questo: non per tenere le persone dentro, ma per farle uscire migliorate”. Nuoro. Diritti per i detenuti, se n’è discusso in un convegno-dibattito Cronache Nuoresi, 2 dicembre 2021 Un convegno pubblico che si è svolto ieri a Nuoro alla biblioteca S. Satta, ha concluso il ciclo di incontri sul tema “Diritti e Ristretti, - riflessioni sul sistema carcerario - che ha coinvolto gli studenti delle scuole superiori degli Istituti cittadini. L’iniziativa promossa dal Garante dei detenuti del Comune di Nuoro e dall’Anpi, finalizzata alla comprensione e sensibilizzazione sulla realtà della pena detentiva, sulla sua esecuzione negli Istituti penitenziari, secondo quanto previsto dall’art. 27 della Costituzione, a visto gli interventi di Andrea Soddu Sindaco a di Nuoro, di Graziano Pintori presidente dell’Anpi di Nuoro, di Giovanna Serra, garante delle persone private della libertà personale del Comune di Nuoro, di Giuseppina Boeddu dell’U.e.p.e.. di Nuoro, di Samuele Ciambriello garante delle persone private della libertà personale della Regione Campania, coordinati da Adriano Catte del foro di Nuoro. I relatori nei vari interventi hanno evidenziato come la realtà carceraria spesso viene considerata come un mondo a sé, ignorato e da tenere lontano. Il carcere, invece è parte integrante della società in cui viviamo la quale deve essere inclusiva e non esclusiva nei riguardi di chi si trova dietro le sbarre, pronta ad accettare chi un domani espiata la pena e dovrà tornare a vivere nella comunità. Durante il convegno è stato affrontata anche la questione dell’Ergastolo. Una società inclusiva deve essere per tutti, anche nei confronti di coloro che hanno una lunga pena detentiva da espiare. Spesso si identifica il detenuto con il reato commesso, anziché considerare che anche egli è una persona, e per questo la sua dignità va rispettata. Dal confronto fra i relatori è emerso che per capire questo occorre conoscere è studiare la Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza alla quale hanno contribuito i padri costituenti, e soprattutto i partigiani con la guerra di Liberazione. La riforma del 1975, prevedeva un superamento della istituzione carcere, come affermava il giurista Galante Garrone, un carcere aperto pronto a formare i cittadini che avevano sbagliato ad inserirsi nella società e arrivava dopo l’ordinamento penitenziario del R.D. del 1871 e del 1931; la stessa riforma che oggi nonostante le varie modifiche legislative avvenute non è stata mai applicata. Occorre cambiare rotta rispetto al passato - è stato detto dai relatori - per fare in modo che tante criticità all’intero del sistema carcerario vengano superate: a oggi si ha un carcere dove i detenuti non possono studiare, con problemi di sovraffollamento e suicidi inoltre dove non viene tenuta in considerazione la territorialità della pena e i reclusi che stanno lontano dai propri affetti, non possono avere colloqui frequenti. Questa situazione è stata ulteriormente aggravata dalla pandemia e in alcuni istituti di pena, per alleggerire la situazione, sono stati concessi più colloqui in videoconferenza, più telefonate per sopperire alla possibilità di contagi e alle restrizioni imposte dal Covid. Già da tempo sono state istituite le casette affettive dove i detenuti e le detenute possono restare con i propri figli e famigliari. In Sardegna c’è un problema l’assenza del Garante Regionale per i detenuti, al quale i reclusi al 41 bis si possono rivolgere solo a lui. I detenuti, è stato ribadito, rappresentano una risorsa per la società non un peso, per questo occorre creare ponti di solidarietà, comprensione umana e dignità, questo può avvenire con le misure alternative alle quali possono accedere coloro cha hanno una condanna non superiore a 10 anni. si è passati da un concetto restrittivo, a quello di giustizia riparativa fino a quello di misure alternative: queste si applicano con l’espiazione della pena secondo regole ben precise, a casa e coinvolgendo maggiormente tutte le associazioni di volontariato. Diceva Rousseau “l’uomo è buono per natura è la società che lo corrompe”: sorge spontanea una domanda, una società che crea la devianza, emarginazione e alimenta l’abbandono del sistema scolastico, è in grado di accoglierei gli ex detenuti? La risposta per ora non è facile da fornire nemmeno in un convegno. La legge elettorale, fondamentale ma dimenticata di Felice Besostri Il Manifesto, 2 dicembre 2021 La battaglia per una nuova legge elettorale è prioritaria, ma questa elementare verità non viene percepita. Senza mobilitazione politica e delle coscienze democratiche i migliori ricorsi non scuoteranno i giudici e la loro sensibilità costituzionale. Votare nel 2022 o nel 2023 fa differenza, ma la differenza più importante la fa la legge elettorale con la quale si vota. Eppure le forze politiche rappresentate in questo parlamento fanno finta di non saperlo. E quale che sia la loro preferenza, proporzionale, maggioritario o misto, sembrano interessate soprattutto ad escludere gli elettori da un voto libero e personale, come richiedono l’articolo 48 della Costituzione e i principi affermati con la “storica” sentenza della Corte costituzionale numero 1 del 2014 (incostituzionalità del Porcellum). I candidati delle liste bloccate non possono essere liberamente scelti, e nemmeno quelli dei collegi uninominali che devono a pena di nullità essere quelli proposti dalle coalizioni. Coalizioni peraltro che non hanno un capo politico unico (questo è un bene per salvaguardare le prerogative del presidente della Repubblica) e neppure un programma di governo comune. Così ha voluto il Rosatellum, e non si capisce perché le coalizioni debbano essere favorite rispetto alle liste non coalizzate, che per essere contate devono avere almeno il 3% nazionale (anche al senato, malgrado la Costituzione preveda la base regionale della sua elezione). Le liste coalizzate, invece, basta che raggiungano l’1%: il voto non è più uguale in entrata e men che meno in uscita. Pensate ai risultati 2018 a confronto di LeU (voti 991.159, 3,28%) e Südtiroler Volkspartei (voti 128.282, 0,42%): al senato LeU conquista 4 seggi, invece di 10, mentre la SVP ne elegge 3, invece di 1. Questo malgrado l’articolo 3 primo comma della Costituzione per il quale “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Le minoranze politiche dovrebbero avere lo stesso trattamento delle minoranze linguistiche. Conclusione: il voto non è neppure uguale. Per due volte il premio di maggioranza è stato annullato dalla Corte costituzionale, la prima volta perché non c’era una soglia minima in voti o seggi, la seconda perché il ballottaggio tra le prime due liste era una distorsione non giustificata. Ebbene, apparentemente nel Rosatellum non c’è premio di maggioranza, ma grazie al voto congiunto obbligatorio a pena di nullità tra seggi uninominali maggioritari e liste proporzionali a una coalizione non serve nemmeno raggiungere il 40% dei voti validi per avere il 55% dei seggi, ma con il 30-35% omogeneamente distribuito si può conquistare la maggioranza assoluta del parlamento in seduta comune, l’organo che con 58 delegati regionali aggiuntivi elegge il presidente della Repubblica e lo può mettere in stato d’accusa. Tra il 22 gennaio 2022 e il 21 dicembre 2024 scadono otto giudici costituzionali, la maggioranza assoluta del collegio di 15 giudici. Degli 8 giudici, Giancarlo Coraggio, Giuliano Amato, Silvana Sciarra, Daria de Pretis, Nicolò Zanon, Franco Modugno, Augusto Antonio Barbera e Giulio Prosperetti, uno solo è di nomina della magistratura: tre sono di nomina del prossimo presidente della Repubblica e quattro del parlamento in seduta comune, sia che sia eletto per il quinquennio 2022-27 o 2023-28. Se il presidente della Repubblica e la futura maggioranza parlamentare fossero politicamente omogenei, non ci sarebbero più organi di garanzia indipendenti. La battaglia per una nuova legge elettorale è quindi prioritaria, ma questa elementare verità non viene percepita. Senza mobilitazione politica e delle coscienze democratiche i migliori ricorsi non scuoteranno i giudici e la loro sensibilità costituzionale. Il governo Draghi non è responsabile della legge elettorali, quindi dovrebbe decidere di orientare l’avvocatura dello Stato con indicazioni diverse dall’opposizione ad oltranza al rinvio in Corte costituzionale che diedero i governi Renzi, Gentiloni e Conte. C’è un’esigenza di trasparenza nei confronti dei cittadini, cioè del popolo sovrano. Dopo le dimissioni di massa di Luigi Manconi La Repubblica, 2 dicembre 2021 Il dato è davvero sorprendente: nel corso dei mesi di aprile, maggio e giugno 485mila italiani hanno dato le dimissioni volontarie dal posto di lavoro. Ancora: secondo uno studio di Bankitalia, nei primi dieci mesi dell’anno in corso, si sono registrate 777.000 cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato (più 40.000 rispetto alla fase pre-Covid): in particolare nel Centro Nord e nel comparto industriale. E, secondo la Cisl, nei primi nove mesi del 2021, a Bergamo, il numero di interruzioni dei soli contratti a tempo indeterminato è aumentato del 25% rispetto al 2020. Per altro, negli Stati Uniti, nel mese di agosto, 4 milioni e 300mila lavoratori hanno rinunciato all’impiego. E fenomeni analoghi si verificano in molti altri Paesi. Si chiama Big Quit o Great Resignation, in italiano Grande Dimissione (ne ha scritto su questo giornale Marco Bentivogli). E corrisponde al fatto che un numero crescente di persone, per le più diverse ragioni, decide di abbandonare l’attuale occupazione prima ancora di disporre di un’alternativa. Sia chiaro, sono dati che vanno manovrati con la massima prudenza. E va subito ricordato, a esempio, che il mercato del lavoro Usa e quello italiano hanno connotati estremamente diversi e non comparabili: e, di conseguenza, assai differenti possono essere le motivazioni della rinuncia. E anche la spiegazione più immediata, legata agli effetti della pandemia, è tutt’altro che esauriente, dal momento che il fenomeno in questione precede la diffusione del Covid. Ma resta il fatto che la concomitanza e la costante crescita di tali dinamiche segnalano mutamenti profondi nel sistema delle motivazioni al lavoro. Opportunamente Francesca Coin sottolinea come il dato italiano sia tanto più significativo in quanto quelle centinaia di migliaia di persone si dimettono pur “sapendo che lì fuori c’è una disoccupazione giovanile del 29,8 per cento e 2,3 milioni di disoccupati”. (L’Essenziale, n.2). L’ipotesi è che in Italia, pesino in particolare, per un verso, l’arretratezza di molti segmenti del mercato del lavoro e della sua legislazione e, per l’altro, le ragioni soggettive proprie di una nuova concezione del rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro e tra realizzazione della personalità e capacità professionale. Ossia una combinazione di cause antiche (pessima qualità del lavoro e bassi salari) e trasformazioni culturali (dequalificazione e perdita di senso di molte attività). Resto convinto, tuttavia, che l’influenza della pandemia sulle nostre vite e sulle nostre menti sia sottovalutata anche nel considerare il processo della Grande Dimissione. Si trascura, cioè, quanto il virus abbia inciso in profondità sui comportamenti e sulle strutture psichiche; e come, di conseguenza, abbia condizionato il rapporto tra gli individui e il lavoro, determinando nuovi atteggiamenti, strategie di adattamento “opportunistico”, processi di insofferenza selettiva, fino alla rinuncia. Perché questo è il punto: le conseguenze concrete e materiali del Covid si intrecciano a quelle psicologiche. Le restrizioni dei movimenti e i limiti alle relazioni coincidono, nella vita quotidiana, con un crescente affaticamento e una sovrapposizione di funzioni. Basti pensare alle esistenze di tante donne chiamate a un sovraccarico congestionato di ruoli (madre, lavoratrice, supplente e insegnante di sostegno nella scuola della didattica a distanza), ma, in realtà, il discorso riguarda tutti. Eppure, lo stress fisico e psichico è solo uno dei fattori di un più generale smarrimento, la cui prima causa consiste in un rapporto del tutto nuovo con le questioni di vita/morte. Per le generazioni nate dopo la seconda guerra mondiale, con la sola parziale eccezione della fase del terrorismo, la vita fisica è stata soggetta finora solo alla minaccia di cause naturali di decesso o di incidenti e di altri eventi non prevedibili. La pandemia costituisce il primo incontrollabile attentato alla incolumità di ciascuno di noi. E, pur rimanendo evento minoritario (140mila morti su una popolazione di meno di 60 milioni) porta con sé un carico di angoscia come mai negli ultimi settantacinque anni. Le bare di Bergamo sui camion militari, i familiari irraggiungibili nelle Rsa, l’ansia per il possibile contagio, la “reclusione domestica”, il sospetto verso il non vaccinato: sono altrettante manifestazioni di una crisi acuta dei fondamenti della propria stabilità. Ne consegue l’incertezza per i valori o, più semplicemente, per le sicurezze sulle quali si fondava la propria vita individuale e sociale. È come se questa si fosse accorciata. E la sensazione, pur fantasmatica, della brevità del tempo che ci aspetta induce a chiedersi: ne vale la pena? Tanto più se quel lavoro, del cui senso si dubita, ci appare improvvisamente in tutta la sua povertà e pericolosità (leggete le storie degli omicidi bianchi pubblicate martedì da Repubblica): ripetitivo, spesso nocivo e sottoposto a ritmi intollerabili, pagato male e, in definitiva, causa di alienazione. Proprio nell’accezione originaria - marxiana! - del termine. Ovvero, quel processo che fa del lavoratore un’appendice di ciò che egli stesso produce. Trattato pandemico, sull’Oms il multilateralismo forzato dell’Unione europea di Nicoletta Dentico Il Manifesto, 2 dicembre 2021 La posta in gioco è la possibilità di rispondere a due anni di emergenza sanitaria con la messa a punto di un nuovo strumento vincolante. Si è conclusa con una decisione all’unanimità la sessione speciale della assemblea mondiale della sanità, iniziata il 29 novembre: aveva come unico punto all’ordine del giorno la deliberazione di un negoziato per un nuovo trattato pandemico per la preparazione e risposta alle pandemie future. La posta in gioco non banale, in un tempo di così bassa marea dell’azione multilaterale, è la possibilità di rispondere a due anni di emergenza sanitaria con la messa a punto di nuovo strumento vincolante, ai sensi della funzione normativa dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), per adeguare la governance globale della salute alla gestione delle nuove inevitabili pandemie. L’idea originaria nasce dalla fantasia del presidente del Consiglio d’Europa Charles Michel, il quale ha lavorato sodo nell’ultimo anno per incardinare la proposta a Ginevra con l’appoggio di Francia e Germania e per conseguire in poche battute il sostegno incondizionato del direttore generale dell’Oms, Dr Tedros Adhanom Ghebreyesus, e di 25 paesi spiluccati in giro per il mondo (The Friends of the Treaty) per conferire alla proposta un senso di adesione che - sia chiaro - è rimasta piuttosto sfumata fino a questi ultimi giorni della assemblea dedicata al tema. Sotto l’impalcatura retorica del consenso diplomatico - in molti interventi si è ribadito che l’esito della assemblea speciale dell’Oms segna una pagina storica dell’organizzazione, alla ricerca di nuova legittimazione dopo due anni vissuti pericolosamente - si sono ravvisate nei giorni scorsi crepe assai meno accomodanti. Le crepe di realismo dei governi che hanno denunciato lo scandaloso stato di difficoltà in cui si dimenano ogni giorno, nella lotta contro Covid-19, a causa della diseguaglianza organizzata che impedisce l’accesso ai vaccini per immunizzare la loro popolazione. Le fessure di indignazione dei ministri che hanno ricordato il fallimento della comunità internazionale nel far funzionare il dispositivo di cooperazione sanitaria Covax, la incapacità di mantenere la promessa (di ripiego) sulle donazioni dei vaccini, e la caparbia resistenza contro la adozione della moratoria dei diritti di proprietà intellettuale, ferma da un anno all’Organizzazione Mondiale del Commercio. La comparsa della variante Omicron riflette, ha detto in apertura di assemblea Dr Tedros, questo scenario scoraggiante: occorre ricordare che solo 1 su 4 persone dei servizi sanitari in Africa ha ricevuto la prima dose di vaccino. Nel corso dell’assemblea si sono alzate molte voci governative con la richiesta di sospendere immediatamente il blocco dei voli nei confronti del Sudafrica. La decisione repentina di isolare una parte consistente del continente africano non ha alcuna evidenza scientifica, corrisponde a un esercizio di palese discriminazione da parte delle nazioni occidentali (che hanno bandito i voli con il Sudafrica, ma non con Israele e il Belgio dove sono stati identificati i primi pazienti), e una chiara violazione dei Regolamenti Sanitari Internazionali del 2005, l’accordo che già vincola 196 paesi della comunità internazionale a precisi comportamenti in situazioni di emergenza sanitaria. Sì, perché la strana storia di questo trattato pandemico voluto dall’Europea è che uno strumento vincolante l’Oms già ce l’ha, anche se naturalmente la sua implementazione è stata a dire poco carente dall’inizio di Covid-19, e lo è evidentemente anche mentre gli stati membri si trastullano con parole altisonanti come equità, trasparenza, inclusività, efficacia, solidarietà, accountability. L’iniziativa europea, in nuce già nell’estate 2020, si è imposta per motivi geopolitici legati alla necessità di occupare lo spazio lasciato dal ruvido ritiro di Trump dall’Oms nel maggio 2020. La demarche però rimanda anche all’aspirazione di rafforzare un presidio europeo della salute globale, tra intraprendenza cinese e nuovo attivismo multilaterale americano della amministrazione Biden, non particolarmente entusiasta all’idea di un nuovo trattato. C’è poi la necessità di salvaguardare il mandato e la legittimità dell’Oms nel momento in diverse commissioni indipendenti dell’Oms e del G20 hanno estratto dal cilindro una pletora di nuove istituzioni sanitarie da insediare al Palazzo di Vetro, sottraendo autorità dunque alla agenzia tecnica dell’Onu. È il caso del Global Health Threat Council che tanto piace al G2o e a Biden, ovvero della Global Finance and Health Taskforce partorita ultimamente dal G20 a presidenza italiana, su spinta di Mario Monti - una storia questa che merita una trattazione a parte. In questa contingenza di competizione geopolitica e di troppi galli nel pollaio della salute globale, in molti respirano un’aria di forced multilateralism, di costrizione a seguire il vento dei più forti. Lo conferma una ricerca svolta da Geneva Global Health Hub (G2H2), una piattaforma indipendente della società civile che dopo aver intervistato 23 delegati, esperti di salute del nord e sud del mondo si chiede se sia necessario un nuovo trattato pandemico in questo mondo disincantato. Il 1 marzo 2022 parte il processo formale intergovernativo. Ne vedremo delle belle. Egitto. “Regeni ucciso dal regime di al-Sisi. Ora il governo italiano agisca” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 dicembre 2021 La relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta: “Il Cairo poteva salvarlo ma ha coperto i servizi”. Il rapporto ora approderà in aula. Intanto Fincantieri sponsorizza l’Expo egiziana delle armi. “Sappiamo, grazie anche al lavoro straordinario della magistratura, che Giulio Regeni è stato rapito, torturato e ucciso dai servizi di sicurezza egiziani, in particolare da funzionari della National Security Agency”. Riassume così, al manifesto, il punto centrale della relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni il suo presidente, l’onorevole Erasmo Palazzotto (Leu). Una relazione pesantissima, votata all’unanimità dopo due anni di “lavoro straordinario” (da qui sono passati presidenti del Consiglio, ministri ed ex ministri, ricercatori, ong, esperti), che puntella l’incessante attività di indagine della Procura di Roma, giunta a incriminare quattro dei presunti aguzzini del ricercatore italiano (processo al momento “sospeso” per la mancata elezione del domicilio degli imputati, prossima udienza davanti al gup di Roma il 10 gennaio prossimo). Tre gli elementi chiave: la responsabilità diretta dei servizi egiziani e quella materiale e politica del regime dell’ex generale al-Sisi; la necessità da parte dell’Italia di interrompere l’inefficace strategia della normalizzazione per (non) avere indietro brandelli di verità; “il sostanziale isolamento dell’Italia”, con i paesi Ue che alle pressioni congiunte sul Cairo hanno preferito l’occupazione di eventuali spazi - economici e politici - lasciati liberi da Roma. “È necessaria e urgente - ci spiega Palazzotto - un’attivazione concreta dei nostri più alti livelli istituzionali, del governo in particolare, per pretendere e ottenere giustizia da parte di un regime che finora ha in tutti i modi ostacolato la verità, depistando le indagini e coprendo le responsabilità dei propri apparati. Il nostro Paese deve far sentire la propria voce in Europa e ricorrere a tutti gli strumenti della diplomazia e del diritto internazionale per esercitare pressione su un regime che nega qualsiasi collaborazione”. Per questo la relazione appena approvata sarà portata in parlamento, per dargli efficacia concreta oltre che forza politica: “Sul piano politico una mozione approvata all’unanimità ha un peso molto rilevante - conclude Palazzotto - Inoltre la Commissione mi ha dato mandato perché la relazione sia discussa dall’aula. Nel caso ci fosse un voto, si tratterebbe di un impegno del parlamento, dunque vincolante per il governo”. I vertici del nostro paese tornano così a essere investiti in pieno da un evento terribile, che in quasi sei anni non ha condotto ancora a verità. La Commissione non lesina critiche sottese nel ricostruire il business as usual figlio di una normalizzazione dei rapporti che ha fatto pensare all’Egitto che, dopotutto, quella relazione speciale non era stata incrinata da giorni di torture e il collo spezzato di un giovane ricercatore: “Nella controparte si è ingenerata l’opinione che la questione fosse chiusa o almeno confinata a una dimensione laterale”. Un’idea derivante dall’opacità italiana che ha condotto a definire “ineludibile” il rapporto con Il Cairo come fatto dall’attuale ministro degli Esteri Di Maio e ribadito dalla vendita di due fregate Fremm e di armi leggere a favore della polizia (responsabile di aver cementato l’attuale regime sulla repressione strutturale del dissenso). Succede ancora in queste ore: il primo sponsor dell’Expo militare in corso in Egitto dal 29 novembre è Fincantieri; due le aziende italiane al padiglione H2, Iveco e Intermarine. Il Cairo sapeva cosa stava facendo e poteva salvare Giulio: l’immediata mobilitazione italiana, a ogni livello, fin dalla scomparsa, il 25 gennaio 2016, dava all’Egitto “il tempo per intervenire e per salvare la vita a Regeni. La responsabilità di questa inerzia grava tutta sulla leadership egiziana”. Che ha poi giocato le sue carte alla luce delle reazioni dell’alleato, come il 3 febbraio, giorno del ritrovamento del corpo di Giulio: “È da rilevare la reazione molto stupita e negativa della parte egiziana. Ne potrebbe derivare l’impressione che per gli egiziani aver fatto ritrovare Giulio Regeni fosse da considerarsi sufficiente a chiudere il caso e a riprendere il normale andamento delle relazioni bilaterali”. Da questo momento inizia la capillare opera di depistaggio, impossibile da realizzarsi senza il coinvolgimento dei vertici politici. Sei anni dopo è ancora possibile giungere a verità, la Commissione ne è convinta, “in presenza di un’autentica collaborazione da parte egiziana”, ottenibile solo con “un atto deciso e consequenziale da parte del governo” e che ponga la giustizia per Giulio “al pari delle questioni di natura geopolitica e strategica”. Spinta ulteriore potrebbe arrivare da un’effettiva solidarietà internazionale, verso l’Italia quanto verso il popolo egiziano, da parte della Ue e dell’Onu. Attraverso embarghi di armi, l’apertura di una controversia internazionale o magari smettendo di fare affari con un regime brutale. Proprio come ha fatto di nuovo ieri il primo ministro spagnolo Sanchez, che ha rinnovato con Il Cairo il protocollo di cooperazione finanziaria: 400 milioni di euro. Colombia. Caso Paciolla, l’Onu e i governi non hanno fretta di fare luce sulla sua morte di Francesca De Benedetti Il Domani, 2 dicembre 2021 “Mio figlio, come Giulio Regeni, è la meglio gioventù. Nessuno potrà restituirmelo ma voglio verità in nome di tutti i ragazzi che partono per migliorare il mondo e che non tornano”. Anna Motta è la mamma di Mario Paciolla, il trentatreenne napoletano che si trovava in Colombia come operatore delle Nazioni unite, per partecipare alla missione di pace, e che il 15 luglio 2020 è stato trovato morto nel suo appartamento a San Vicente del Caguan. Prima di morire, Paciolla aveva riferito ai genitori di essersi scontrato coi capi missione e aveva paura: “Mi vogliono fregare, mi sono ficcato in un guaio. Mamma, torno a Napoli”, aveva detto. Ha fatto il biglietto ma non ha fatto in tempo a tornare a casa. Dall’ultima comunicazione coi suoi cari su whatsApp, con le spunte blu, al silenzio è passata solo una manciata di ore. E su quelle poche ore si attende che si faccia luce da lungo tempo. La prima sbrigativa versione di Colombia e Onu è stata il suicidio, ma nell’estate 2020 il corpo è arrivato in Italia e nella seconda autopsia, da quanto risulta a Domani, sono emersi segnali che possono indicare che il ragazzo non si è tolto la vita. Nulla però è stato ancora reso pubblico. In occasione dell’anniversario della morte del ragazzo, dalla procura di Roma erano arrivate rassicurazioni: l’indagine, seguita dal ros dei carabinieri, è in fase finale. Stessa cosa si ripete oggi: tutti gli elementi sono stati acquisiti, si saprà qualcosa prima o dopo Natale. La verità slitta così di mese in mese. Intanto il governo italiano continua a stringere rapporti istituzionali e commerciali con la Colombia. Nel paese sudamericano, le proteste della società civile sono represse con la violenza - morti, torture e violenze sui manifestanti - e la lista dei leader sociali e dei difensori dei diritti umani che vengono uccisi viene aggiornata di ora in ora. Anche per questo la “dittatura del silenzio” piombata sul caso Paciolla allarma chi lavora per la pace nel paese: “Un cooperante italiano che operava in Colombia sotto l’egida dell’Onu è stato ucciso, e non solo non c’è verità, ma viene insabbiata. In tutto questo il governo riceve la vicepresidente colombiana come se non fosse successo nulla”, dice Juan Camilo Zuluaga, referente del nodo italiano a sostegno della commissione della Verità. Si riferisce all’incontro avvenuto a fine ottobre a Roma tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e la vicepresidente della Colombia, Marta Lucía Ramírez, che ha pure la delega agli Affari esteri per il suo governo. “Abbiamo parlato con il ministro Di Maio, tra le altre cose, dell’accordo di protezione degli investimenti per stimolare molto più quelli italiani in Colombia”, aveva detto entusiasta l’esponente colombiana. Dal nostro parlamento sono arrivati segnali di irritazione: Doriana Sarli, Erasmo Palazzotto e Laura Boldrini hanno in vari momenti preteso spiegazioni ufficiali. “A Di Maio avevamo chiesto di usare quell’incontro per chiedere conto del caso Paciolla, e per dire no a più rapporti commerciali senza anche più diritti umani”, dice Sarli. E la risposta? “Nulla”. La famiglia Paciolla riferisce che nei primissimi istanti, quando il caso si è aperto, Di Maio ha espresso loro vicinanza. Ma poi? “Non so se ha risposto alle interrogazioni di Palazzotto, magari...”, dice Anna Motta. Ma il deputato fuga anche quella speranza: “Le risposte sono così evasive da non meritare l’onore della cronaca. C’è solo un generico impegno a chiedere collaborazione. Intanto anche il silenzio dell’Onu è imbarazzante”, aggiunge Palazzotto. Il ruolo delle Nazioni unite - “L’Onu, che dovrebbe garantire i diritti umani, non ha garantito a mio figlio il diritto alla vita, e ha derubricato la sua morte come suicidio pochissime ore dopo senza ancora neppure l’autopsia”, dice la madre di Paciolla. “Abbiamo la certezza che nella sua squadra dell’Onu ci siano persone che sanno la verità, e assistiamo a comportamenti omertosi”. Le Nazioni unite telefonano alla famiglia a Napoli per comunicare la notizia il giorno in cui viene ritrovato il corpo. Chiamano i genitori a stretto giro per chiedere se hanno bisogno di sostegno psicologico. Poi più nulla. Nel frattempo si muove il responsabile della sicurezza della missione Onu in Colombia, Christian Leonardo Thompson, in passato già sottufficiale dell’esercito colombiano, dal 2001 al 2006, e più di recente, dal 2017 al 2019, specialista della sicurezza dell’agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti (Oti-Usaid). Thompson rientra nell’appartamento dove è stato da poco ritrovato il corpo, si giustifica con chi incrocia sostenendo che in casa ci sono informazioni importanti, e poi ripulisce il posto. Nonostante la procura colombiana abbia anche aperto un’indagine perché quattro poliziotti avevano consentito il repulisti, l’Onu invece di allontanare Thompson lo ha promosso capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza, nel dipartimento Sicurezza della missione in Colombia. Come spiega la giornalista e amica di Paciolla, Claudia Julieta Duque, da quell’avamposto Thompson “riceve i report di tutte le missioni e registra gli incidenti di sicurezza che possono verificarsi”, e con il suo nuovo incarico è anche la figura deputata a riferire al procuratore colombiano di Florencia “i viaggi e i report svolti da Mario” in relazione alla vicenda del bombardamento. Di che si tratta? Nell’autunno 2019 il ministro della Difesa colombiano Guillermo Botero è costretto a dimettersi per uno scandalo. Lo solleva il senatore Roy Barreras: snocciola le prove che il ministro ha approvato un bombardamento pur sapendo che c’erano bambini. Dalla ricostruzione di Claudia Julieta Duque, Paciolla avrebbe lavorato ai report che documentavano tutto ciò, e “per decisione di Raul Rosende, direttore della missione in cui era impegnato Mario, alcune sezioni del report sono finite nelle mani di Barreras”. Quest’ultimo dice: “Qualche giorno dopo le dimissioni del ministro, i vertici dell’esercito mi interrogarono, cercavano da chi avessi avuto le informazioni”. Secondo il senatore, Paciolla sarebbe finito “vittima di falsa información”, informazione falsificata: i sospetti, e la brama di vendetta, sarebbero stati fatti ricadere su di lui. Siria. Amnesty: “rimpatriare 27.000 bambini detenuti in condizioni inumane” agensir.it, 2 dicembre 2021 Decine di migliaia di bambini di oltre 60 Paesi, detenuti nel campo di al-Hoq, nel nord-est della Siria, gestito dall’Amministrazione autonoma curda, languono in condizioni inumane nell’indifferenza dei governi che non mostrano alcuna intenzione di rimpatriarli. Lo ha denunciato oggi Amnesty International, sottolineando che questi bambini non hanno accesso adeguato al cibo, all’acqua potabile e a servizi essenziali come le cure mediche e l’istruzione e vivono separati dai genitori o da chi ne ha la tutela. Da quando, nel 2019, è terminato il conflitto col gruppo armato Stato islamico, circa 60.000 persone - soprattutto donne e bambini - di nazionalità siriana, irachena e di altri Stati sono state poste in stato di detenzione nel campo di al-Hoq. “In questa struttura, sotto il controllo dell’asayish, la polizia dell’Amministrazione autonoma curda - informa Amnesty -, si trovano sospettati di affiliazione allo Stato islamico ma anche migliaia di persone che per fuggire dal conflitto avevano trovato riparo nel campo. La sezione principale del campo ospita siriani e iracheni, mentre in quella chiamata ‘L’aggiunta’, separata dal campo principale da un posto di blocco, si trovano donne e bambini provenienti da altri Stati. Qui operano organizzazioni umanitarie che forniscono un minimo di cure mediche e altri servizi essenziali. I bambini e le bambine vengono separati dai genitori o dai tutori: i dodicenni ritenuti a rischio di futura radicalizzazione vengono spostati in ‘centri di riabilitazione’ al di fuori del campo dove la tubercolosi e la scabbia sono diffuse. Gli altri, anche a soli due anni di età, vengono portati fuori dal campo in strutture sanitarie senza che i genitori o i tutori ricevano informazione sulla loro salute o sulla loro sorte. Per un breve periodo, la direzione del campo ha consentito alle organizzazioni umanitarie di assumere uomini e donne ma la decisione è stata annullata per ragioni non chiarite”. Un recente rapporto di Save the Children ha rivelato che solo il 40 per cento dei bambini e delle bambine di età compresa tra tre e 17 anni ricevono qualche forma di istruzione. Nel 2021, sempre secondo Save the Children, nel campo sono state uccise 79 persone, tra cui tre bambini, e altri 14 bambini sono morti in circostanze non chiarite. La Turchia non scarcera Kavala: necessaria la procedura d’infrazione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 dicembre 2021 A seguito della decisione del 26 novembre di un tribunale turco di non scarcerare il difensore dei diritti umani Osman Kavala, Amnesty International ha sollecitato i capi di stato del Consiglio d’Europa a lanciare, nella riunione odierna, una procedura d’infrazione contro la Turchia. Tale iniziativa si rende necessaria in quanto le autorità turche continuano a non dare seguito a una sentenza, vincolante nei loro confronti, emessa dalla Corte europea dei diritti umani nel dicembre 2019. In quella occasione la Corte aveva stabilito che la detenzione di Kavala, ufficialmente per aver finanziato le proteste di Gezi Park nel 2013 e per il suo coinvolgimento nel tentato colpo di stato del luglio 2016, non aveva altro motivo che ridurlo al silenzio in quanto difensore dei diritti umani. La Corte, pertanto, aveva chiesto al governo turco di “prendere tutte le misure necessarie per porre fine alla detenzione del ricorrente e assicurare il suo rilascio immediato”. Kavala si trova nella prigione di alta sicurezza di Silivri, detenuto arbitrariamente da oltre quattro anni. Per aggirare la sentenza della Corte, l’udienza del 26 novembre lo ha visto imputato di un nuovo processo kafkiano nel quale, insieme ad altri 51 imputati tra cui tifosi di calcio, deve rispondere di “tentato rovesciamento dell’ordine costituzionale”, “tentato rovesciamento del governo” e “spionaggio militare e politico”. Covid? No, l’alimentazione. Sud Sudan, se il virus uccide meno della fame di Michele Farina Corriere della Sera, 2 dicembre 2021 Nel Paese africano, dove un bambino su 10 muore prima di avere 5 anni, la pandemia non fa neanche paura. È qui che “Sasn”, task-force per la sicurezza alimentare, salva piccoli come Ring. Un Paese dove la parola Covid suona come una minaccia remotissima, che regala metà dei suoi vaccini anti-coronavirus ai vicini, che non ha conosciuto né lockdown né marce no vax. È il Paese più giovane del mondo, ha appena compiuto dieci anni e chiaramente ha altre priorità. La più acuta: sfamare i suoi bambini (uno su due è denutrito), dare loro medicine quando si ammalano di malaria, dissenteria, parassiti, disturbi respiratori. In Sud Sudan almeno un bambino su 10 muore prima di arrivare a 5 anni. Più della metà degli 11 milioni di abitanti sono sfollati per via della guerra interna che non si è mai fermata tra opposte fazioni. Ci mancavano le inondazioni, le peggiori degli ultimi 60 anni, a mandare sott’acqua un terzo dei magri raccolti. Ecco, per salutare degnamente la rinascita del piccolo Ring, età otto mesi, bisogna tener presente in che razza di presepe-Paese è venuto al mondo. Ring Yai viveva con la mamma Nyadit nel villaggio di Amour, un nome che non è affatto un programma. In verità stava morendo. L’insicurezza alimentare in Sud Sudan colpisce sei milioni di abitanti, e i piccoli come Ring sono i più vulnerabili. Un giorno qualcuno forse gli racconterà di quella strana banda di volonterosi con base in Italia che si sono presi cura di lui. La banda della Sasn: Sostegno alla sicurezza alimentare e promozione della sana nutrizione. Un progetto partito nel 2018: sostenere 24 centri sanitari in uno dei Paesi più disastrati del mondo, facendo perno sulle comunità locali tra la regione del Bagari e la città di Wau, ha voluto dire raggiungere e sostenere in tre anni 105mila persone. Screening da record - Mamme smunte e bambini scheletri: quando gli agenti della Sasn (sembra il nome di un commando di forze speciali) hanno portato il piccolo Ring all’Ospedale Madre Teresa, presso il Centro di stabilizzazione, gli operatori gli hanno fatto uno screening da record. Il suo braccio aveva una circonferenza di 8 centimetri, (la metà del normale alla sua età), pesava 5 chili (contro i 7-10 dei coetanei ben nutriti) e non aveva appetito (segno che stava scivolando in una condizione di non ritorno). Il bambino è stato subito trattato con latte F75 e F100. Alimentazione di emergenza: 80-100 kilocalorie per chilogrammo al giorno, distribuite in 8-12 pasti quotidiani da tre a sette giorni. Al termine del trattamento Ring aveva già messo su quasi un chilo, e il suo braccio quasi 1 cm di circonferenza. E gli era tornato l’appetito. La cura è proseguita in ambulatorio, con speciali alimenti terapeutici pronti all’uso: barrette, paste o biscotti appositamente formulati per il trattamento della malnutrizione (molto più densi di nutrienti rispetto ai pochi alimenti disponibili in casa). Il giorno delle dimissioni per la mamma Nyadit è stata una piccola festa. Chiaro che la strada di Ring è ancora molto accidentata. Serve sostegno. Racconta Suor Bibiana dell’ospedale Madre Teresa di Wau che “un’altra grande sfida riguarda i farmaci, soprattutto per i bambini, perché le scorte che riceviamo dal Ministero non sono sufficienti per l’enorme numero delle persone malate”. La banda della Sasn non si è dispersa. E a questo punto è bello svelarne i componenti. Il progetto (triennale, finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo) è stato gestito da un consorzio di forze di cui Vides (l’associazione di volontariato femminile legato alle missionarie salesiane) è capofila, e di cui fanno parte Amref Health Africa, l’Università di Pavia, Leviedelmadeinitaly e Bankuore Onlus. In Sud Sudan le controparti sono l’ufficio sudsudanese di Amref, Eas e Hard. Questione di priorità - Se all’inizio di questo articolo avessimo fatto un gioco di associazione di idee (la prima cosa che vi viene in mente quando si parla di “sicurezza”?) forse non tutti avremmo pensato al cibo. La pandemia, la criminalità, il terrorismo. E invece la “sicurezza alimentare” resta la priorità numero uno per milioni e milioni di persone. In Africa, il continente che cresce demograficamente come nessun altro, se ci fosse un campionato dell’”insicurezza della tavola” sarebbe il più affollato. E il Sud Sudan del piccolo Ring Yai partirebbe favorito. Chi cerca di rompere i pronostici, come fanno gli agenti della banda Sasn, è benvenuto.