Riforma delle carceri, elezioni per i rappresentanti dei detenuti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2021 Favorire un processo di autodeterminazione che possa condurre il detenuto a riappropriarsi della vita, riducendo il rischio di ricaduta nel reato. Con quest’obiettivo creare condizioni di sistema in grado di responsabilizzare per il futuro, più che a porre rimedio per il passato. E in 226 pagine la Commissione istituita dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia indica una mole assai significativa di interventi sul sistema penitenziario. Del resto Cartabia, rivolgendosi lunedì ai vertici dei 190 istituti penitenziari del Paese, ha promesso un “percorso di rinnovamento che giovi all’intera comunità penitenziaria”. E così a venire formalizzato dalla commissione presieduta dal costituzionalista Marco Ruotolo è un pacchetto di proposte che inevitabilmente si intreccia con la redazione, in corso, dei decreti delegati per la modifica del sistema sanzionatorio penale e per la disciplina organica della giustizia riparativa. Alcune misure sono a loro modo esemplari, come quella che prevede, per la prima vota, il superamento del sistema del sorteggio, per arrivare a vere e proprie elezioni per la scelta delle rappresentanze dei detenuti. E poi, la specifica previsione che ammette i colloqui a distanza, già impiegati in periodo di emergenza pandemica, evitando che siano considerati nel numero complessivo dei colloqui ammessi in presenza; l’eliminazione dell’automatismo per cui il lavoro svolto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria deve essere retribuito con la necessaria riduzione di un terzo del trattamento economico previsto dai contratti collettivi. Si propone poi di concedere permessi non solo nei casi di “particolare gravità”, ma anche in quelli di “particolare rilevanza”, con eccezione, in quest’ultimo caso, dei detenuti sottoposti al 41 bis. Ridotti i vincoli nella concessione dei permessi premio da parte del magistrato di sorveglianza, da un lato rispetto alla durata massima di ogni singolo beneficio (cancellato il limite di 15 giorni), e dall’altro rispetto alla durata complessiva per ogni anno di espiazione (si passerebbe da 45 a 60 giorni). In sintonia con la giurisprudenza internazionale sulle dimensioni delle celle, in ogni caso deve essere assicurato uno spazio individuale minimo di tre metri quadrati, al netto degli arredi tendenzialmente fissi e dei servizi igienici. Le perquisizioni personali sono possibili per ragioni di sicurezza, che però dovranno essere documentate, e quelle corporee più delicate solo con intervento di un medico. Ancora, la realizzazione di totem touch per le richieste dei detenuti; per agevolare il mantenimento delle relazioni affettive, disponibilità di telefoni cellulari, non generalizzata ed esclusa in caso di particolari esigenze cautelari, legate a ragioni processuali o alla pericolosità dei soggetti. Lo straniero privo di permesso di soggiorno, per il tempo dell’esecuzione della pena, avrà poi titolo alla permanenza nel territorio nazionale e, se sarà disposta in suo favore una misura alternativa che preveda lo svolgimento di una attività lavorativa, potrà stipulare contratti di lavoro per la durata della misura. L’espulsione non è disposta quando pregiudica gravemente i risultati del percorso di reinserimento sociale del condannato ed è revocata in caso di concessione di misura alternativa alla detenzione. Marco Ruotolo: “Così riduciamo la distanza tra carcere e costituzione” di Angela Stella Il Riformista, 29 dicembre 2021 Tra le proposte, detrazioni di pena più alte, permessi più lunghi. Basta parti in prigione, numeri identificativi e trasparenza nelle perquisizioni per evitare altre S.M. Capua Vetere. E poi pc, strumenti tecnologici, servizi. “La pena, quale che sia la forma dell’espiazione, deve tendere a restaurare e a ricostruire quel legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato. Deve avere l’obiettivo di re-includere, di avviare un processo potenzialmente in grado di ridurre il rischio di ricaduta nel reato”. È questa la premessa culturale alla base della relazione della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, presieduta dal professor Marco Ruotolo, Ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università Roma Tre. Un lavoro richiesto dalla Ministra Cartabia per migliorare la quotidianità dell’intera comunità penitenziaria. A differenza delle altre Commissioni - ci spiega infatti il professor Ruotolo - “le nostre proposte prevedono la revisione di molte disposizioni del regolamento penitenziario del 2000 e la rimozione di alcuni ostacoli presenti nella normativa primaria che incidono su uno svolgimento della quotidianità penitenziaria che possa dirsi conforme ai principi costituzionali e agli standard internazionali. Per questo, le modifiche alle previsioni regolamentari potrebbero essere realizzate a prescindere dalle pur indicate revisioni della normativa primaria”. Da gennaio toccherà alla Guardasigilli fare le sue valutazioni. Una questione urgente da risolvere è sicuramente quella del sovraffollamento, per cui è arrivata al 24esimo giorno di sciopero della fame Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino; tuttavia, ci spiega Ruotolo, “la questione era fuori dal perimetro di lavoro della commissione ma abbiamo suggerito di applicare quanto previsto dalla proposta di legge a firma Roberto Giachetti che punta all’incremento della detrazione di pena (da 45 a 75 giorni per ogni semestre di pena scontata), misura già sperimentata in passato”. Così come “nelle premesse culturali della relazione condividiamo sul tema dei bambini in carcere la proposta di legge Siani del Partito democratico”. Mentre, su questo tema, suggeriamo che “il parto sia sempre effettuato in luogo esterno di cura, l’unica eccezione è legata a motivi sanitari e non di sicurezza”. Nella proposta si appoggia anche l’introduzione dell’istituto degli “incontri intimi”, già elaborata dalla Commissione Giostra e rivolta a consentire il possibile esercizio della sessualità. Ma la parte più importante è forse quella relativa alle modifiche per scongiurare un’altra mattanza come quella di Santa Maria Capua Vetere. La Commissione ha infatti ritenuto di aggiungere al regolamento penitenziario che “è vietata ogni violenza fisica e morale in danno della persona privata della libertà personale. L’uso della forza fisica non è consentito (se non nei soli limiti indicati nell’art. 41 della legge), e costituisce comunque l’ultima risorsa, da adoperarsi nella misura minima indispensabile e per il più breve tempo possibile. In qualsiasi caso comunque il responsabile sanitario dell’istituto provvede, senza indugio, agli accertamenti sanitari”. Inoltre, e questo costituirà sicuramente un elemento di polemica con le forze di sicurezza, “ogni strumento di difesa in dotazione all’istituto penitenziario è contrassegnato con un identificativo numerico apposto in modo visibile. È tenuto un registro in cui è annotato il nominativo dell’operatore che, in ogni occasione, ne faccia uso”. Per il professor Ruotolo “questa maggiore trasparenza nell’esercizio dell’azione servirà a tutelare gli stessi agenti”. In tema di perquisizioni si è ritenuto di dover consolidare quanto contenuto in due recenti circolari del Dap e del Dgmc e quindi viene proposta la seguente modifica: “Per procedere a perquisizione fuori dei casi ordinari è necessario l’ordine del direttore. Quest’ultimo deve contenere l’indicazione delle motivazioni e delle modalità operative, con specifica individuazione del personale incaricato e della strumentazione impiegata. Il provvedimento deve essere preventivamente notificato al competente magistrato di sorveglianza, alla Direzione generale dei detenuti e del trattamento, al Provveditorato regionale, al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale”. Ma la quotidianità come cambierà? “Un aspetto molto importante prosegue Ruotolo - riguarda un impiego razionale degli strumenti tecnologici: introduzione di una app per la prenotazione del colloquio da parte dei familiari; incentivazione del possesso di computer per i detenuti, da acquistare al sopravvitto; introduzione di servizi a pagamento per esempio lavatrici a gettoni”. Inoltre si prevede la presenza, per almeno un giorno al mese, di un funzionario comunale per consentire il compimento di atti giuridici da parte di detenuti e internati, nonché, su richiesta del Direttore, di funzionari degli uffici consolari e della Questura. Per incentivare il lavoro, la cui mancanza è spesso alla base della recidiva, si auspica la creazione delle Unità regionali per il lavoro penitenziario, costituite presso il Provveditorato regionale. In più, sottolinea Ruotolo, “proponiamo che i permessi vengano concessi non solo nei casi di ‘particolare gravità’, ma anche in quelli di ‘particolare rilevanza’, come la laurea di un figlio” e che la durata dei permessi premio possa passare da 45 a 60 giorni per anno di espiazione “perché rappresentano un passaggio importante per il progressivo avvicinamento alla libertà”. Infine in un momento in cui qualcuno vorrebbe accentrare su Roma tutte le istanze sulla liberazione condizionale dei detenuti ostativi, la Commissione, al contrario, punta a rimarcare l’importanza del giudizio di prossimità del magistrato di sorveglianza che dovrà trasmettere “annualmente al Presidente del tribunale di sorveglianza una relazione circa il numero delle visite e dei colloqui svolti, nonché in ordine alle condizioni detentive riscontrate”. “Per il decreto Covid il carcere non è un luogo chiuso e sovraffollato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 dicembre 2021 Il nuovo decreto, approvato il 23 dicembre dal Cdm per fermare la risalita dei contagi da Covid- 19 nel nostro Paese, introduce nuove norme e restrizioni. Una su tutte, l’obbligo di mascherina Ffp2 (quelle più performanti in termini di protezione dal coronavirus) per chiunque - vaccinati compresi, ovviamente - nei luoghi a rischio assembramento o dove comunque è prevista un’altra concentrazione di persone. Ebbene, tra i luoghi chiusi e sovraffollati, non compare il carcere. “Niente green pass per utenza e visitatori, niente mascherine Ffp2 obbligatorie. Insomma, niente di niente!”, denuncia Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. Il sindacalista fa notare che dal testo pubblicato in gazzetta ufficiale, si evince che il decreto festività non considera affatto le carceri. “Tutto ciò è inaccettabile - incalza De Fazio - la Polizia penitenziaria, per la quale neppure la legge di bilancio che sta per essere definitivamente varata dalla Camera dei Deputati prevede alcunché di significativo e specifico, non può essere considerata carne da macello. Qualcuno ci dovrebbe spiegare perché si impongono le mascherine Ffp2 obbligatorie un po’ ovunque nei luoghi chiusi, ma non nelle carceri. Mettendo da parte per una volta il politically correct, noi un’idea ce l’abbiamo: pensiamo che sia un problema di logistica e di costi economici, atteso che a quel punto il governo dovrebbe renderle disponibili gratuitamente”. Il segretario della Uilpa fa notare che l’utenza carceraria e i visitatori non hanno obbligo alcuno, neanche del green pass “semplice”. Ricorda che il sovraffollamento continua a crescere e raggiunge punte del 194% a Brescia Canton Mombello, del 187% a Brindisi e del 165% a Busto Arsizio, solo per fornire alcuni dati. “D’altro canto - sottolinea De Fazio -, è ovvio che i detenuti non possano costantemente indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie, non foss’altro per nutrirsi. A fare le spese di ciò, come quasi sempre accade, sono gli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria e gli altri operatori che, evidentemente, secondo il governo, se vorranno proteggersi dal contagio, dovranno acquistare in proprio le mascherine Ffp2, non solo vanificando gli effetti dei rinnovi contrattuali appena ottenuti, ma togliendo anche dell’altro all’esiguo stipendio”. Il segretario della Uilpa spera che si tratti di una distrazione o di una errata valutazione e quindi auspica che l’Esecutivo, il presidente Draghi e i ministri Speranza e Cartabia ci ripensino e corrano immediatamente ai ripari. “In caso contrario - conclude De Fazio -, nelle carceri potrebbe compiersi un ulteriore disastro, di cui dovrebbero assumersi interamente le responsabilità”. Ricordiamo che le mascherine Ffp2 fanno parte delle mascherine Ffp (“filtering face piece particles”: facciale filtrante delle particelle) e proteggono sia chi le indossa, sia gli altri. I numeri indicano la suddivisione nelle classi di protezione (Ffp2) e (Ffp3), a seconda della loro efficacia filtrante. Come spiega l’Istituto Superiore di Sanità, le Ffp2 hanno un alto potere filtrante: non consentono la trasmissione di microrganismi (sia virus che batteri) alle persone che si trovano nei pressi di chi indossa la mascherina e all’ambiente, ma proteggono anche chi le indossa dal rischio di essere infettati. Vengono usate da medici e operatori sanitari che devono assistere in maniera diretta pazienti Covid e più in generale sono consigliate a chiunque si trovi in una situazione ad alto rischio. Quale? Uno spazio chiuso, un assembramento. È lapalissiano dire che il carcere rientra a pieno titolo. Il Covid in carcere si combatte anche riducendo il numero dei detenuti di Elisabetta Burla* Il Dubbio, 29 dicembre 2021 Sono trascorsi due anni dall’inizio della proclamata pandemia e, ancora, non sono stati adottati provvedimenti decisivi ed effettivamente tutelanti per la salute delle persone, delle persone detenute, in particolare. Attualmente, all’interno della Casa Circondariale di Trieste vi sono alcuni casi di positività, la maggior parte delle persone positive sono vaccinate ma il virus non fa eccezioni. Del resto il carcere, anche quello di Trieste, non può garantire spazi adeguati, non può - per certo garantire la misura del distanziamento sociale e, i numeri delle persone detenute sono nuovamente saliti: su una capienza regolamentare di 139 persone ne sono ristrette più di 200. E nel carcere, come in qualsiasi altro contesto, l’infezione non fa distinzioni di sorta, non colpisce solo i detenuti, non colpisce solo i non vaccinati; il contagio dilaga, e si diffonde. Nel carcere e dal carcere entrano ed escono un numero importante di persone, pensiamo alla polizia penitenziaria, pensiamo al personale civile e amministrativo, pensiamo ai fornitori, agli avvocati. Un numero considerevole di persone che vivono nella comunità locale. A distanza di due anni siamo di nuovo a disporre quale unico strumento, le chiusure degli Istituti alla società esterna: niente scuola, nessuna attività formativa, nessun corso o percorso organizzato dal volontariato; accessi alla biblioteca, alla palestra o “all’aria” preclusa a tutti coloro che si trovano in quarantena. Progetti di rieducazione e reinserimento interrotti. Ripercussioni sul piano psico-fisico particolarmente incisive; con tutte le conseguenze che ne discendono. Con il sistema sanitario che arranca. In questo contesto altri sarebbero stati e dovrebbero essere gli strumenti da adottare: quelli pensati a ridurre i numeri dei detenuti attraverso scelte strutturate, non emergenziali, sull’esecuzione della pena con interventi seri che incidano positivamente sulle politiche sociali di accoglienza e inclusione sociale, un avvio altrettanto strutturato ai percorsi di lavoro per garantire una concreta autonomia della persona, il ricorso più incisivo alle misure alternative alla detenzione. Nell’immediato, viste le condizioni attuali della detenzione, sarebbe urgente approvare delle norme - queste sì emergenziali - volte al contenimento delle presenze in carcere anche attraverso il riconoscimento della liberazione anticipata speciale. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Dai sindacati di Polizia penitenziaria a Rita Bernardini l’appello ad agire di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 dicembre 2021 L’Assessora capitolina alle Politiche sociali e alla salute, Barbara Funari, il giorno di Santo Stefano ha visitato Rebibbia insieme al consigliere regionale e capogruppo di Demos, Paolo Ciani, e ai volontari della Comunità di Sant’Egidio. Per Ciani “è importante che rappresentanti delle istituzioni frequentino il carcere, perché è a tutti gli effetti una parte della nostra città. Importante rompere l’isolamento - acuito dalla pandemia - e la dimenticanza di questi luoghi anche in questi giorni di festa. Il carcere è un piccolo mondo, una parte di città abitata da cittadini che hanno compiuto dei reati, ma che rimangono persone e cittadini. Con loro tutte le persone che si occupano per lavoro di questi luoghi, dalla polizia penitenziaria, a chi lavora nell’amministrazione penitenziaria, ai servizi sociali, gli infermieri, i medici, i volontari. È sciocco pensare al carcere come a qualcosa di estraneo alla città e alla vita comune”. Secondo il capogruppo di Demos “negli ultimi anni è cresciuta una subcultura molto violenta: quando si sentono persone delle istituzioni dire “buttiamo le chiavi” riferendosi a detenuti, è molto grave. Non solo perché per la legge italiana la pena e la detenzione servono per il corretto reinserimento sociale di chi ha commesso il reato, ma perché sottintendono un senso di vendetta e di disumanizzazione del detenuto. Non è la nostra cultura, non è la cultura giuridica del nostro Paese. Ringrazio Sant’Egidio per l’occasione e il personale della Polizia Penitenziaria che ci ha accompagnato in questo giorno di festa”. Nel frattempo Rita Bernardini del Partito Radicale, giunta al 24esimo giorno dello sciopero della fame, lancia l’ennesimo appello alle istituzioni: “Prego i rappresentanti istituzionali di governo e Parlamento di intervenire subito per alleggerire il sovraffollamento o la congestione (copyright dell’ex senatore Luigi Manconi) delle carceri. La variante omicron si diffonde ad un ritmo preoccupantissimo”. Con l’iniziativa nonviolenta in corso, Rita Bernardini chiede l’approvazione delle proposte dell’onorevole Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata: la prima, “speciale”, per elevare da 45 a 75 i giorni di liberazione anticipata ogni semestre a partire dal 31 dicembre 2015; la seconda, “strutturale”, per modificare l’ordinamento penitenziario per portare i giorni di liberazione anticipata da 45 a 60. Ma il problema è la mancanza di volontà politica da parte della maggior parte dei parlamentari. L’obiettivo è proprio quello: coinvolgerli per mettere di nuovo al centro quei valori “sacri” della Costituzione italiana. In occasione delle festività natalizie, la ministra della Giustizia Cartabia ha scritto due lettere: una alle direttrici e ai direttori degli istituti penitenziari, l’altra ai magistrati e a tutto il personale degli uffici giudiziari. Sono convinta “di poter percorrere al vostro fianco un percorso di rinnovamento che giovi all’intera comunità penitenziaria”, scrive nel messaggio fatto recapitare ai vertici dei 190 istituti penitenziari, facendo riferimento alla commissione istituita presso il ministero, chiamata a elaborare proposte per il miglioramento della vita quotidiana in carcere e che, proprio in questi giorni ha presentato la Relazione finale come ha documentato Il Dubbio. Resta il fatto che da diversi fronti, anche da parte dei sindacati di polizia penitenziari, si chiede di agire subito. A partire dal sovraffollamento che regista una costante crescita come ha rilevato recentemente il Garante nazionale delle persone private della libertà. Inferno carcere, l’esperimento di Zimbardo non ci ha insegnato nulla di Viviana Lanza Il Riformista, 29 dicembre 2021 “Un’orribile mattanza o il frutto di un’istituzione malata?”. Questo interrogativo che don Franco Esposito, parroco della casa circondariale di Poggioreale, lancia dalla sua pagina Facebook ispira una riflessione a partire dai fatti del 6 aprile 2020, ovvero i pestaggi avvenuti all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il gip Sergio Enea quella vicenda la definì proprio “un’orribile mattanza”. Che fosse un atto estemporaneo o l’epilogo operativo di un sistema distorto è quello che si cerca di capire. Anche in tribunale. “Indignarsi per quello che è successo nel carcere di Santa Maria di Capua Vetere è poca cosa, ma credo che anche fare un processo e mandare in carcere un po’ di persone serva a poco, se non addirittura ad aumentare il sentimento di vendetta da una parte e la rabbia dall’altra”, sostiene don Franco che una posizione rispetto all’interrogativo la prende. “Quello che è successo è il frutto di un sistema, quello carcerario, che in sé è disumano e degradante”. Per il sacerdote “non sono tanto le azioni violente emerse grazie alle telecamere di sorveglianza a dover essere condannate, ma è un sistema violento che quotidianamente, anche senza violenze fisiche, contribuisce a creare rapporti di inimicizia alimentati da una realtà che è contro l’uomo”. Una mattanza che ha generato ferite più nella dignità che nel corpo e che “non possono certo essere rimarginate con le condanne” che, a loro volta, “distruggeranno persone e famiglie di nuovi condannati e manterranno le ferite aperte e sanguinanti”. Nel 1971 il professor Philip George Zimbardo, con l’aiuto dei suoi assistenti, allestì nei sotterranei del campus di Stanford una finta prigione, reclutando una ventina di giovani studenti volontari perché la metà di loro diventasse per due settimane un gruppo di detenuti e l’altra metà un gruppo di guardie nell’improvvisata prigione di Stanford. Le guardie svolgevano regolari turni di otto ore e indossavano una divisa. L’esperimento dimostrò che comuni studenti, indossati i panni delle guardie, si trasformarono in aguzzini e i ragazzi detenuti, dopo qualche iniziale tentativo di resistenza, divennero passive vittime delle loro angherie. Cosa stava succedendo a quei soggetti sani, equilibrati, appartenenti alla classe media, acculturati e privi di qualsiasi comportamento deviante? Dopo appena due giorni i detenuti iniziarono a protestare per la loro condizione. Le guardie, dalla loro, iniziarono a praticare nei loro confronti forme sempre più violente a livello fisico e psicologico. I carcerati furono costretti a cantare canzoncine, a defecare in secchi che non potevano svuotare, a pulire a mani nude le latrine. Zimbardo fu costretto a mettere fine al suo esperimento che, in principio, avrebbe dovuto durare quindici giorni dopo appena sei, perché iniziarono gli episodi di violenza. “Il bilancio di quell’esperimento - dice don Franco Esposito - è quello che accade quotidianamente nei penitenziari”. “Le attività rieducative ridotte all’osso per mancanza di fondi e di personale, e anche il lavoro con percentuali irrisorie diventano un alibi per giustificare un sistema fuorilegge che produce il 70% di recidiva. Mentre l’esperimento di Stanford fu interrotto, la pena del carcere in Italia rimane l’unica risposta che lo Stato sa dare davanti al male e alla violenza”. “Permettetemi ora di sognare - conclude - Cosa succederebbe se invece di processi e condanne per i fatti di Santa Maria si proponesse un progetto di riparazione dove le vittime e i colpevoli potessero scegliere, liberamente, di percorrere un serio cammino di consapevolezza di ciò che è veramente accaduto, per poi potersi incontrare, guardarsi negli occhi, ragionare sui danni provocati, sulle ferite inflitte, sulle conseguenze delle azioni compiute e subite, e poi aiutate da persone preparate, cercare il modo per riparare?”. Carceri, la perenne sconfitta di Conchita Sannino La Repubblica, 29 dicembre 2021 Abbiamo visto e dimenticato. Abbiamo conosciuto storie e statistiche di quello che accade nelle carceri italiane e non è servito, ancora, a molto. Abbiamo osservato la scorsa estate, perfino troppo attraverso quei filmati che hanno fatto il giro del mondo, le violenze di massa che sono state messe a segno un anno prima, nell’aprile del 2020, nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, e non sappiamo se basterà davvero. Il durissimo biennio che si chiude consegna la foto più completa e impietosa del nostro sistema penitenziario. Ascolta il podcast: http://www.ristretti.it/commenti/2021/dicembre/pdf4/carceri.aac Covid-19 in carcere: ancora in crescita contagi e vaccinazioni di Marco Belli gnewsonline.it, 29 dicembre 2021 Sale ancora il numero dei detenuti positivi al Covid-19 all’interno degli istituti penitenziari, anche se i soggetti sintomatici risultano essere meno del 2% dei contagiati. L’ultimo monitoraggio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornato a ieri, registra 510 detenuti positivi (+166 rispetto alla scorsa settimana), su una popolazione reclusa di 52.569 unità effettivamente presenti in carcere. Soltanto tre sono sintomatici, mentre sei risultano attualmente ricoverati in una struttura ospedaliera. Anche fra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria continua a crescere il numero dei positivi, che sono ora 527 (+132 rispetto alla scorsa rilevazione), pressoché tutti al proprio domicilio, con due soli ricoverati in ospedale. Sono 37, infine, i contagiati fra il personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione (+3 rispetto a sette giorni fa), con quattro ricoverati. Cresce anche il numero delle vaccinazioni fatte ai detenuti: secondo i dati forniti dall’Anagrafe Nazionale Vaccini del Ministero della Salute, alla popolazione reclusa sono state somministrate in totale 94.738 dosi di vaccino anti-Covid-19 (+2.194 nell’ultima settimana). Dal 15 dicembre scorso, infine, tutto il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria (ovunque presti servizio) e quello appartenente alle Funzioni Centrali che lavora negli istituti penitenziari deve essere in possesso del cosiddetto green-pass rafforzato, come previsto dal decreto-legge 26 novembre 2021, n.172. Alla data di ieri, sono 40 i poliziotti penitenziari e 13 le unità di personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione che risultano assenti ingiustificati ai sensi della suddetta normativa. Rimborsi agli assolti, Costa: “Si rischia di mandare in fumo 8 milioni di euro” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 dicembre 2021 L’allarme del deputato di Azione Enrico Costa: dove è finito il decreto attuativo annunciato dalla ministra Cartabia? “Nella legge di bilancio dello scorso anno fu approvata la mia proposta di rimborso delle spese legali agli assolti. Stanziati 8 mln di euro per il 2021. Il Governo (Giustizia e Mef) ha impiegato 1 anno (anziché 2 mesi) a fare decreto attuativo. E gli 8 mln stanno andando in fumo”: è l’allarme lanciato dall’onorevole Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, dal suo account twitter. Proprio un mese fa vi avevamo raccontato che la ministra Marta Cartabia aveva dato il via libera al decreto attuativo attraverso il quale si adottano i criteri e le modalità di erogazione dei rimborsi delle spese legali per gli assolti e che mancava solo l’avallo del ministro dell’Economia Daniele Franco. Questo ulteriore passo è stato compiuto ma poi si sono perse le tracce del decreto attuativo. Sarebbe stato inviato alla Corte dei conti per la sua registrazione, ma di sicuro e concreto non c’è nulla. “Due giorni fa ho presentato in commissione giustizia un emendamento che prevedeva lo stanziamento di 16 milioni per il 2022”, ci racconta Costa. Il Governo, con la sottosegretaria Anna Macina, ha espresso parere contrario e, come leggiamo dal resoconto di seduta, ha dichiarato “di non essere in grado di dare indicazioni puntuali sull’iter del decreto interministeriale, che ritiene in fase di completamento, essendo stato trasmesso alla Corte dei conti per la sua registrazione” e che “per quanto è nella sua conoscenza vi è l’impegno e l’interesse del Governo ad intervenire in tale materia, evidenziando come non vi siano ragioni per non esprimere un convinto parere favorevole su un eventuale ordine del giorno” che Costa dovrebbe presentare domani e dopo domani. Un subemendamento simile era stato bocciato anche al Senato. “Ho apprezzato l’onestà della Macina ma sono preoccupato per questo posizioni del ministero della Giustizia - conclude Costa. Non possiamo essere ostaggi dei funzionari e dei rimpalli di responsabilità degli uffici. Il Parlamento ha approvato questa norma e il Governo, in quanto Esecutivo, non può permettersi di porre un freno ad un principio di civiltà approvato dal potere legislativo”. La verità del “riparatore” e il figlio dell’ergastolano di Mario Chiavario Avvenire, 29 dicembre 2021 Tutu, un bimbo italiano e l’obiettivo di umanizzare la giustizia. Un novantenne sudafricano, vescovo anglicano, che muore. Un bambino italiano che ha ricevuto o riceverà dal padre il dono di un giocattolo. A prima vista, niente accomuna le due notizie, con quotidianità ed eccezionalità che nei primi dettagli ulteriori s’intrecciano, raddoppiando le differenze. Desmond Tutu era uomo famoso in tutto il mondo da quando, nel 1984, era stato insignito del Nobel per la pace a causa della sua opposizione, non violenta ma intransigente, al regime dell’apartheid che allora teneva ancora il Sudafrica in una morsa mostruosa. Il destinatario del giocattolo è uno dell’immensa folla di piccoli che in questi giorni hanno avuto o avranno la gioia di trovarsi tra le mani uno o molti regali, e il suo nome e cognome non può, non deve dir nulla a nessuno: solo che qui il regalo verrà consegnato in carcere. Niente di eccezionale, per il primo, il vescovo, quanto a tempo e modalità dell’evento che ha fatto la notizia, ma lo è certamente la personalità del defunto; al contrario, nel secondo caso, quello del bimbo, è invece singolare la vicenda venuta sui media: il luogo, infatti, è il carcere. Eppure, se si guarda un po’ più a fondo, qualcosa di comune c’è. E non di poco conto. Tutu non fu unicamente un della sua gente contro il razzismo al potere. Caduto l’apartheid, è poi stato promotore, e presidente, di quella ’Commissione per la verità e la riconciliazione’, con la quale si è tentato - e non invano - di evitare che un passato di oppressione e di violenze si frapponesse come macigno insormontabile e senza varchi a un futuro, pur sempre irto di difficoltà anche pesanti ma aperto a una collaborazione tra tutte le entità etniche del Sudafrica. E ciò ha potuto realizzarsi perché le pur comprensibili propensioni per un uso della giustizia come mezzo di rivalsa e di vendetta hanno ceduto il passo non all’oblio ma, appunto, alla ricerca rigorosa di una verità, per quanto scomoda: senza privilegiare la severità di sanzioni, in larga parte condonate anche per i crimini più gravi a fronte di sincere ammissioni di colpe. Una giustizia ‘umana’, insomma, nel senso migliore della parola, e riparativa. Disarmata delle armi più usuali, benché non rinunciataria, né a senso unico a discrezione degli oppressi divenuti vincitori. Quanto al dono del giocattolo, deve aggiungersi che il carcere di cui si parla è uno di quelli che accolgono persone assoggettate al regime speciale dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Di regola, a chi si trova in tale situazione, è vietato lo scambio personale di oggetti con l’esterno. E il divieto è sicuramente giustificato, dato il pericolo che sotto spoglie innocenti si nascondano messaggi o anche qualcosa di più pericoloso. La Corte di Cassazione ha tuttavia autorizzato, nella specie, che la consegna avvenisse personalmente, e non attraverso l’intermediazione di un agente penitenziario, come era stato indicato dagli uffici ministeriali. La soluzione, in nome dell’art. 30 della Costituzione e dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani che tutelano l’infanzia, è stata trovata con riferimento a modalità che dovrebbero garantire anche dal punto di vista della sicurezza: sì, dunque, alla consegna personale, la più congrua per far cogliere al piccolo il significato affettivo del dono; ma con il pacco, sigillato e custodito con tutte le cautele fino a pochi istanti prima dal personale penitenziario, incaricato anche della successiva sorveglianza. Normalità del tutto recuperata? No; non illudiamoci né cediamo a sentimentalismi. Il contesto resta drammaticamente inusuale; è la realtà di feroci sodalizi criminali che impone misure adeguate di contrasto. Però, ecco un esempio di come si possa evitare di trasformare il contrasto in qualcosa che impedisce, a dei bimbi, di godere anche solo per un momento, di un gesto di affetto nella sua dimensione più autentica. Insomma, anche qui, sia pure in una dimensione minuscola, una giustizia che si sforza di non essere disumana. Concorso in magistratura, abbassare la difficoltà degli scritti è una soluzione fallimentare di Giuseppe Di Federico Il Riformista, 29 dicembre 2021 Alcuni giorni fa ho letto sul Sole 24 Ore un articolo dal titolo “L’università deve farsi carico della preparazione al concorso da magistrato”. È scritto da un professore universitario, Gian Luigi Gatta, che è, come lui stesso dice, consulente della Ministra Cartabia e componente del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura. Affronta due temi di grande importanza, uno riguarda le disfunzioni del concorso di ingresso in magistratura e l’altro il ruolo che l’università dovrebbe avere nella preparazione dei candidati a quel concorso. Quanto al primo tema egli fa riferimento ai dati di due concorsi di cui uno, quello bandito nel 2019 è in corso di svolgimento. Dopo aver ricordato che i concorsi non forniscono tutti i magistrati che sono necessari, indica che in un recente concorso la percentuale dei promossi agli esami scritti è stata molto bassa (9,7% degli esaminati) e la percentuale dei promossi ai successivi esami orali è stata molto alta (94%). Propone, quindi di diminuire la difficoltà degli scritti e di aumentare quella degli esami orali. Trovo apprezzabile che un professore di diritto utilizzi cifre e percentuali in un suo scritto (siamo in pochissimi a farlo) tuttavia in questo caso, come in altri, i numeri non dicono tutto ed è rischioso trarre conclusioni solo da essi. Certamente non è vero che negli esami scritti si applichino criteri valutativi severi e tantomeno che sia consigliabile diminuirne il rigore. Per quanto i numeri citati del Prof. Gatta sembrino indicarlo, non è così. Lui stesso ci dice che spesso il numero dei vincitori del concorso è inferiore, anche di molto, al numero dei posti messi a concorso, e quindi che il concorso non è in grado di soddisfare le esigenze di personale togato del nostro sistema giudiziario. È un problema che il concorso ha da moltissimi anni. Nel tentativo di risolverlo, e cioè per consentire ad un numero maggiore di candidati di superare le prove scritte, un decreto di molti anni fa, il DPR n. 617/1963, ha stabilito che le commissioni di concorso non debbono più bocciare i candidati per l’insufficienza in una delle tre prove scritte, ma effettuare una valutazione complessiva delle tre prove. Come conseguenza il numero di coloro che dopo di allora ottennero la votazione minima di 36 su 60 aumentò subitaneamente, e cioè dall’1,7% dei 1737 magistrati reclutati nel periodo 1955-1963 al 31,4% dei 2670 reclutati nel periodo 1967-1982. Consistente quindi il numero dei magistrati che da allora sono stati ammessi agli orali pur non avendo ottenuto la sufficienza in tutte e tre le prove scritte. Nonostante questo, i concorsi continuarono spesso a non fornire un numero di magistrati pari al numero dei posti messi a bando. Col passare degli anni il numero degli ammessi all’orale col minimo dei voti è aumentato arrivando a superare, e non di poco, il 40% (cioè circa la metà dei nuovi magistrati), come avvenuto per i 680 magistrati assunti nel 2018 e 2019 (D.M. 2 febbraio 2018 e D.M. 8 febbraio 2019). Aggiungo che due magistrati che sono stati presidenti delle commissioni di concorso, Corrado Carnevali e Nicola Lipari, hanno indicato che vi sono numerosi casi in cui le prove scritte vengono superate con la piena idoneità in una sola delle tre prove scritte, e nelle relazioni ufficiali dei concorsi da loro presieduti, hanno usato il termine “stampellati” per indicare coloro che erano entrati in magistratura con due stampelle. Le proposte di riforma del Prof. Gatta certamente indicano un problema reale, cioè quello di evitare che il numero dei vincitori sia inferiore, o troppo inferiore, al numero dei posti banditi. È una preoccupazione che permea di sé i lavori di molte delle commissioni di concorso anche negli esami orali, ma mi fermo qui perché mi sembra chiaro che il suggerimento del prof. Gatta di rendere meno rigorose le prove scritte sia già stato tentato molti anni fa: ha certamente ridotto il rigore delle valutazioni senza raggiungere gli obiettivi voluti. Due postille. La prima: la riforma del reclutamento è un problema complesso che deve affrontare in primo luogo la scarsa attendibilità delle prove di concorso nel misurare le conoscenze dei candidati, come le nostre ricerche hanno mostrato sin dagli anni 1980 (Archivio Penale 2020, n.1). Un problema che può essere affrontato solo modificando la struttura delle prove di esame, un fenomeno che non è certo possibile trattare in questa sede. La seconda postilla: non mi sarei dato la briga di scrivere questo articolo se il prof. Gatta non avesse voluto informarci di essere il consulente della Ministra Cartabia. Anche se non richiesto, ritengo sia sempre opportuno dare una mano per tentare di evitare il peggio nella gestione del nostro già disastrato ordinamento giudiziario. Il caso Burzi e la giustizia randomica di Rimborsopoli di Carmelo Palma Il Foglio, 29 dicembre 2021 Le varie “Scontrinopoli” o “Rimborsopoli” che hanno avvelenato e - ora è il caso di dirlo, dopo il suicidio di Angelo Burzi - anche insanguinato la politica italiana sono state il riflesso della cattiva coscienza della giustizia e della politica. L’ex capogruppo e assessore di Forza Italia alla regione Piemonte era un personaggio particolare: un liberale conservatore intriso di suggestioni libertarie, ideologicamente anticomunista e sentimentalmente filoradicale e dunque lontanissimo dal bigottismo conformista della destra “Dio, Patria e Famiglia”. Berlusconiano della prima ora, fondatore di FI in Piemonte e consigliere in regione dal 1995 al 2015, eppure, malgrado l’inclinazione dichiaratamente partigiana, sempre ostentatamente disorganico e dissidente. È stato un assessore regionale al bilancio decisamente rigorista (e presto sacrificato al quieto vivere consociativo), poi un predicatore abbastanza inascoltato dell’alternativa al “sistema Torino”, che fino all’elezione di Chiara Appendino aveva visto per un quarto di secolo la sinistra governare il capoluogo piemontese e il centro-destra cercare rapporti di convivenza e di mutua utilità. Era finito con altre decine di eletti delle varie consiliature trascorse a Palazzo Lascaris nelle inchieste della procura contabile e penale di Torino sull’utilizzo dei fondi dei gruppi consiliari regionali e lì era iniziata la sua - e non solo sua - disgrazia. Di che inchieste si parla? Anche qui, senza contestualizzazione storica, la cronaca sembra quella anodina e burocratica di un mattinale di questura. Vediamo dunque il contesto. Per decenni le dotazioni finanziarie dei gruppi consiliari regionali sono state, alla pari di quelle dei gruppi parlamentari, affidate alla piena discrezionalità degli eletti. Ogni spesa direttamente o indirettamente connessa all’esercizio del mandato elettivo era considerata insindacabile, alla stregua degli atti politici propriamente intesi, che spesso anche in quelle spese trovavano espressione concreta. L’autonomia politica, anche in ordine all’utilizzo dei fondi, era considerata - ripeto: pacificamente - un presupposto imprescindibile della libertà dell’eletto. Questo non configurava alcuna immunità rispetto a forme di controllo contabile o amministrativo, né, tantomeno, rispetto all’esercizio dell’azione penale, ma definiva un quadro, politicamente opinabile, ma giuridicamente esplicito di massima e indiscutibile libertà di spesa e utilizzo dei fondi assegnati ai gruppi consiliari. Un consigliere regionale che avesse pagato dai fondi del gruppo un “fuori busta” a un dipendente avrebbe dovuto essere condannato a risarcire la spesa illegittima alla regione. E se avesse usato i medesimi fondi per acquistare un’abitazione o un’automobile privata, camuffando la transazione da consulenza, si sarebbe certamente meritato la condanna, se l’accusa fosse stata provata, per peculato e truffa. Ma non c’era modo di distinguere né di discriminare - tanto meno penalisticamente - la qualità politica delle condotte relative all’utilizzo dei fondi dei gruppi e alle tipologie di spese ammissibili, essendovi tutte ricomprese - da quelle di rappresentanza a quelle di viaggio, vitto e alloggio, a quelle per convegni, iniziative e consulenze - purché attinenti all’esercizio del mandato elettivo, in un quadro nel quale l’attinenza era, nella sostanza, autocertificata e quindi sempre censurabile. C’è una evidente differenza tra (esempi di fantasia) ospitare, rifocillare e far viaggiare a spese di un gruppo consiliare i relatori di un convegno sul contenimento della spesa sanitaria e usare gli stessi riguardi per una rete di collaboratori impegnati a promuovere sul territorio le iniziative politiche degli eletti. Ma non esisteva alcuna norma che consentisse di considerare l’una spesa illecita e l’altra lecita, né che prevedesse - come sarebbe stato prudente - un contingentamento dei limiti massimi ammissibili delle spese meno controllabili, tipicamente quelle di cosiddetta “rappresentanza”. A lungo, non si sentì neppure il bisogno di offrire un quadro di riferimento, se non costrittivo, almeno più preciso e quindi anche più tutelante per gli eletti. Il massimo della discrezionalità politica esponeva comunque ad attacchi e abusi, favoriti proprio dal “silenzio” e dunque dall’incertezza del diritto. Fino a che sono continuati i tempi di pace alla politica andava, ovviamente, benissimo così e alla magistratura contabile e penale altrettanto, poiché la cosiddetta “onestà” non era ancora diventata la gallina dalle uova d’oro e il rifugio delle canaglie dell’antipolitica e quindi non era né un fucile da imbracciare, né un palcoscenico da calcare. Gli scontrini e i rimborsi - a differenza degli appalti e delle tangenti - non erano ancora di moda. Lo sarebbero diventati, anticipando il trionfo del M5S che non a caso sulla “trasparenza”, intesa nel senso della tracciabilità contabile delle spese individuali, hanno guadagnato prima una patente di nobiltà e poi edificato un sistema para-totalitario di controllo e intimidazione degli eletti. Come Tangentopoli fu annunciata e innescata dalla crisi finanziaria del 1992, così la strada a Scontrinopoli e Rimborsopoli venne aperta dal quasi default della fine degli anni zero. A un paese impoverito e atterrito fu fatto, per la seconda volta, credere che poteva trovare ragione di tutte le indignazioni e soddisfazione di tutte le pretese direttamente nelle tasche dei politici. Lì si è aperto - come era avvenuto vent’anni prima - un vaso di Pandora di inchieste (spesso in azioni a tenaglia con procure contabili) e non c’è praticamente eletto regionale di quegli anni che non si sia visto chiedere conto di qualunque cosa, a misura dell’interpretazione - più o meno ragionevole, arbitraria o inquisitoria - che i singoli magistrati contabili e penali davano all’attinenza delle spese documentate con il mandato elettivo, anche post-determinandone i criteri di ammissibilità. Nel mazzo degli indagati e dei condannati in Italia in questi anni non mancano certamente casi quasi ridicoli di latrocinio, ma la grande maggioranza dei casi ha riguardato spese la cui natura privata, presupposto dal peculato, discendeva da una interpretazione assai discutibile e “buonsensistica” dell’interesse pubblico. Così il risultato è stato - e non poteva che essere così - quello di una giurisprudenza randomica e contraddittoria, con sentenze di assoluzione (“perché il fatto non costituisce reato”, come in primo grado è avvenuto a Burzi) e di condanna (come gli è successo in secondo grado) ugualmente perentorie. Una macchina infernale, dove a fare la differenza tra i sommersi e i salvati bastava il pregiudizio o la fatalità e nessuna pronuncia poteva più ambire a un requisito minimo di credibilità. Come ha scritto in una sentenza di assoluzione uno dei giudici chiamati a decidere su alcuni di questi casi, l’utilizzo dei fondi da parte di un consigliere per iniziative manifestamente autopromozionali - ad esempio: pagare cene agli elettori, organizzare attività di pura propaganda - dovrebbe, in assenza di precise norme penali, trovare sanzione fuori dalle aule di giustizia. In ogni caso, “l’amara constatazione che ciò normalmente non accade non può però indurre a una impropria sostituzione della responsabilità penale a quella politica; su ciò di cui il giudice penale non può parlare, occorre tacere” (Letizio Magliaro, Gip del Tribunale di Bologna, sentenza 2191/15). Parole d’oro e quindi rare. Non potendosi auspicare che, dietro lo schermo della obbligatorietà dell’azione penale, ci fosse nella magistratura italiana complessivamente intesa sufficiente rigore per attenersi a questo esempio, sarebbe spettato alla politica intervenire, ma la politica ovviamente era, in tutte le sue parti, impegnata a lavorare perché i salvati fossero “loro” e i sommersi “gli altri”. Di ristabilire in mezzo a tutta questa buriana un principio di diritto, neanche a parlarne. Ora il timore, per chi lo ha conosciuto, è che Burzi non si sia salvato proprio per non essersi voluto intruppare tra i potenziali salvati, per avere trasformato la sua difesa in una denuncia e per avere continuato orgogliosamente a fare politica, senza dichiarare una incondizionata e preventiva fiducia nella roulette russa delle sentenze, non fondate sulla legge ma su una casistica morale, che non dovrebbe essere mai posta a fondamento dell’azione penale. Gabriele Cagliari andò alle docce e mise la testa in un sacchetto di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 29 dicembre 2021 La morte di Angelo Burzi è solo l’ultima di una lunga lista iniziata con Tangentopoli Un trentennio segnato dal rapporto distorto tra il mondo politico e la magistratura. “Ai miei compagni di cella. 4 luglio 1993. Cari Ranieri e Vittorio, non preoccupatevi: è un suicidio in piena regola. Lo dichiaro in piena lucidità e capacità di intendere e volere. Intendo con questo evitare conseguenze per questo mio atto di cu non avete alcuna responsabilità. Vi ringrazio per la compagnia. Cella 102, V raggio”. Poi, dopo aver lasciato in bella mostra il biglietto, Gabriele Cagliari andò alle docce, mise la testa in un sacchetto di plastica - quello aveva, per suicidarsi - e si lasciò mancare l’aria. Il pm che lo aveva interrogato per l’ennesima volta gli aveva negato per l’ennesima volta la libertà, dopo aver lasciato intendere che invece, forse; poi, se n’era andato in vacanza. A Cagliari sembrava d’essere trattato “come un cane”. Scrisse in una lettera ai familiari: “Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti, sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non- persone, come cani ricacciati ogni volta al canile”. Anche Angelo Burzi, l’ex consigliere regionale e fondatore di Forza Italia in Piemonte, che si è suicidato ieri l’altro dopo la definitiva condanna per “Rimborsopoli” ha scritto alcune lettere - alla moglie, alle figlie e a un gruppo di amici fidati. Deve averle preparate nei giorni precedenti, scritte con calma, con lucidità. Deve averle nascoste, per evitare che qualcuno le scoprisse. Poi, ha declinato un invito a cena in casa di parenti, a Biella, la vigilia di Natale, a cui invece la moglie è andata, ha preso la 357 Magnum, regolarmente detenuta - quello aveva, per suicidarsi - si è chiuso in bagno, e si è sparato. Prima però ha chiamato il 112 - chiedendo ai carabinieri di fare presto a venire, che non voleva fosse la moglie a scoprirlo. Il figlio di Cagliari ha raccolto tutta la corrispondenza scritta dal padre in carcere e ne ha fatto un archivio “pubblico” online. Ci sono anche gli interrogatori e le poesie che scrisse in quei quattro mesi: “Prigione # 3. Passo e ripasso sulla mia orma / come il giaguaro imprigionato / che non ha pensiero ma ossessione: / feretro viola della mia pazzia. / “De profundis clamavit ad te” / a questa profondità ti chiamo / e ti richiamo anima del mondo. / Tu che ora tieni la falce alle mie spalle. Aprile 1993”. Ma c’è anche: “Il giorno 9.3.93 alle ore 13.50 presso la Casa Circondariale di Milano S. Vittore, avanti a me, dr. Gherardo Colombo, Sostituto procuratore della Repubblica in Milano, è presente: Cagliari Gabriele, in atti già generalizzato. Adr: Intendo rispondere. Confermo quanto ho dichiarato al GIP nell’interrogatorio di oggi”. Non sappiamo cosa vorrà fare e quando, la signora Giovanna Perino, moglie di Burzi, delle lettere del marito, se renderle pubbliche - “Si è ucciso perché si sentiva innocente, lo ha fatto perché era innocente”, ha detto - e potremmo capire il pudore. L’ex governatore del Piemonte Roberto Cota, destinatario di una lettera, che con Burzi era finito nell’inchiesta e come lui è stato condannato, ha detto che Burzi ricostruisce tutta la sua vicenda giudiziaria. Io credo che queste lettere siano, in qualche modo, un “documento collettivo”, pubblico, come pubbliche sono state le vicende politiche e giudiziarie a cui fanno riferimento. Il suicidio di Burzi, come già quello di Cagliari, non è un “fatto privato”. Interroga tutti noi. Dovrebbe. Sergio Moroni, deputato socialista travolto da Tangentopoli e che si suicidò il 2 settembre del 1992 con un fucile - quello aveva, per suicidarsi - nella cantina del condominio dove abitava, scrisse anche lui delle lettere prima del “gesto” (“Quando la parola è flebile, non resta che il gesto”). Una era indirizzata al presidente della Camera, Napolitano, e comincia così: “Egregio Signor Presidente, ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita”. E si sofferma su un punto che a me sembra ancora centrale: “Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e più giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna”. Beh, non è andata così. E il suicidio di Burzi, trent’anni dopo, sta qui a mostrarcelo. Certo, Rimborsopoli non è Tangentopoli - che fu un vero sconquasso della vita e della società politica. Eppure, nei suicidi di Cagliari e Moroni e Burzi, ritroviamo la medesima disperazione, il medesimo senso di ingiustizia, la medesima sensazione di essere “come cani ricacciati ogni volta al canile”. Dovremmo chiederci tutti che cosa è successo, nel rapporto tra politica e magistratura, in questi trent’anni. Che cosa sta succedendo ancora. E ancora. Mandato d’arresto Ue, parte lesa non coinvolta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 ore, 29 dicembre 2021 Cassazione. Depositate le motivazioni del procedimento contro Puigdemont. L’esclusione della parte lesa dal procedimento relativo all’esecuzione di un mandato d’arresto europeo, non lede il diritto di difesa né alla luce della Carta né dei principi sovranazionali. La giurisprudenza europea ha, infatti, affrontato il tema delle prerogative che spettano alla vittima, esclusivamente riguardo al “criminal proceeding” e, dunque nel processo penale di merito. La Cassazione (sentenza 47244) ha depositato le motivazioni con le quali ha respinto il ricorso presentato da Vox, partito nazionalista di destra spagnolo, contro le ordinanze con le quali è stata sospesa l’estradizione in Spagna dell’ex presidente catalano Carles Puigdemont in attesa della decisione della Corte di giustizia europea. Vox aveva chiesto di intervenire come persona offesa nel procedimento di consegna per i reati di malversazione e sedizione, a carico di Puigdemont in relazione al referendum per l’indipendenza della Catalogna. Per la Suprema corte Vox, secondo l’ordinamento italiano, non ha neppure dimostrato di essere parte lesa e dunque titolare del bene giuridico leso nei reati contestati. Né di rivestire il ruolo di acusador popular che, nel sistema spagnolo, è l’accusa privata promossa uti cives. L’ammonimento del questore deve garantire l’esercizio del diritto di difesa del destinatario di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2021 Il Consiglio di Stato impone il rispetto il più ampio possibile del contraddittorio e non la mera recezione della denuncia. In un procedimento amministrativo di prevenzione, conclusosi con l’ammonimento per comportamenti asseritamente persecutori nei confronti di una ex fidanzata, il Consiglio di Stato conferma la decisione del Tar sull’affermata violazione del diritto di difesa, perché l’ammonito, coinvolto in prima battuta nell’iter dall’autorità amministrativa cui conseguiva il rigetto della richiesta misura di protezione della “parte debole”, non era stato poi interpellato in ordine a una nuova denuncia della stessa donna che aveva costituito l’unica base dell’adozione dell’ammonimento. Palazzo Spada con la sentenza n. 8468/2021 ha, infatti rigettato il ricorso della Questura. La donna, ex fidanzata dell’uomo colpito dalla misura, aveva denunciato in due diverse occasioni comportamenti analoghi, indicati come stalking. Si trattava di numerosi messaggi telematici, di pressanti richieste di amicizia su piattaforme social e di asseriti appostamenti ingeneranti quello stato di ansia di chi si ritiene vittima della persecuzione altrui. Solo che la prima denuncia non aveva determinato l’adozione della misura di prevenzione proprio e in ragione del contenuto dell’audizione del denunciato. Quindi, rilevano i giudici amministrativi di primo e di secondo grado, la questura ha creato un vulnus dei diritti della difesa quando, a seguito di successiva denuncia per nuovi fatti, sovrapponibili a quelli per i quali era intervenuto il rigetto dell’ammonimento, aveva invece “de plano” adottato la prescrizione della misura di prevenzione. La Questura con il ricorso davanti al Consiglio di Stato negava, al contrario, tale violazione del contraddittorio, assumendo che la prima interlocuzione con il soggetto passivo della misura avrebbe a questi garantito in pieno l’esercizio di una valida difesa e che l’asserita reiterazione dei medesimi comportamenti come emergente dalla seconda denuncia era circostanza di pericolo sufficiente all’ammonimento del denunciato. Per i giudici, invece, nulla ostava all’audizione e al coinvolgimento il più efficace possibile delle parti, e in particolare del soggetto nel mirino della decisione del questore. Monza. Detenuto si impicca nell’infermeria del carcere primamonza.it, 29 dicembre 2021 È accaduto nel pomeriggio di domenica 26 dicembre 2021 presso la Casa circondariale di Monza. A darne notizia è Domenico Benemia, segretario regionale della Uilpa, che ha anche lanciato l’allarme: “Al Sanquirico manca il personale specializzato nel gestire gli ospiti psichiatrici”. L’allarme dei sindacati - Il detenuto che si è tolto la vita, di nazionalità italiana, in passato era più volte stato ricoverato a Villa Serena - la sezione psichiatrica del San Gerardo - e domenica si trovava nell’infermeria del Sanquirico. “La situazione nella Casa circondariale di Monza è critica - ha osservato il sindacalista - Manca il personale specializzato che possa gestire i detenuti psichiatrici. E prova è l’alto numero di suicidi, nonché l’altrettanto alto numero di aggressioni ai danni del personale della polizia penitenziaria”. Torino. “Giustizia per mio figlio Antonio, morto in carcere dopo aver perso 25 kg” di Irene Famà La Stampa, 29 dicembre 2021 “Chi poteva salvarlo non l’ha fatto. Era alto un metro e 80 era arrivato a pesare 49 kg”. Detenuto nel carcere di Torino, avrebbe dovuto scontare la pena in una comunità ma era scappato. “Era ancora vivo. Eppure così magro, così debole. Che stava male l’abbiamo detto a tutti. Ai magistrati, ai medici del carcere. Nessuno ci ha ascoltato. Loro avrebbero potuto aiutarlo, ma nessuno l’ha fatto”. È lo sfogo di dolore di due genitori, mamma Rosalia e papà Mario, che hanno visto il loro Antonio, un ragazzo alto un metro e 80, deperire, diventare fragile, arrivare a pesare 49 chili. E poi morire a 28 anni per un’infezione che quel corpo debole non è riuscito a sconfiggere. L’hanno visto arrivare seduto su una sedia a rotelle nel “parlatorio” del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Chiedeva assistenza. “Non riesco più a mangiare”, diceva. Ma intorno a lui credevano fosse un modo per ottenere benefici. Mamma Rosalia e papà Mario tutto questo l’hanno osservato da fuori le sbarre. E da lì hanno fatto quel che hanno potuto. Insieme ad altri. Come la garante dei detenuti, che la situazione di Antonio l’aveva segnalata alla direzione della casa circondariale, e a un educatore che per descrivere Antonio aveva usato queste parole: “Ha le stesse sembianze di Cucchi”. Mamma Rosalia e papà Mario dicono una frase coraggiosa: “Abbiamo sempre creduto nella giustizia e vogliamo continuare a crederci”. Parole che in questo contesto hanno più di un significato. Antonio di guai ne aveva avuti diversi. Ad esempio un arresto per una rapina a una prostituta. Avrebbe dovuto scontare una pena in una comunità per tossicodipendenti, ma un mese prima della fine è andato via. Così è finito al penitenziario del quartiere Vallette con un’accusa in più: l’evasione. I genitori, rappresentati dagli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore, oggi non vogliono “discutere se Antonio dovesse o non dovesse stare in carcere”. Il punto è un altro: “In carcere avrebbe dovuto essere aiutato e questo non è successo”. E Antonio di aiuto ne aveva bisogno. Si drogava da quando aveva 14 anni. Cocaina, cannabinoidi, benzodiazepine. Soffriva d’ansia, di depressione. Il carcere come luogo di riabilitazione, di crescita, di riscatto, così si sente dire spesso. Per lui non è stato così. Antonio, con la giustizia, aveva delle questioni da mettere a posto, questo è certo. Ma ne aveva altrettante da far quadrare con sé stesso. Per questo, sofferente, aveva bisogno d’aiuto. E quell’aiuto non l’ha trovato. Al contrario, anche in cella - là dove avrebbe dovuto essere tenuto lontano da tutto ciò che poteva fagli del male - ha continuato a drogarsi, lo dicono gli accertamenti di laboratorio. È vero che non riusciva più a mangiare, ed è altrettanto vero che le terapie dei medici non le seguiva e al ricovero in ospedale si opponeva. Perché? Antonio era un ragazzo difficile, da accompagnare, assistere, accudire. È stato lasciato solo. Curato, come si legge nelle carte dell’inchiesta sulla sua morte, in “invalicabili note difficoltà imposte dall’ambiente carcerario”. Quattro persone sono state per omicidio e lesioni colpose. Il pm al termine delle indagini ha chiesto l’archiviazione perché “non ci sono elementi sufficienti ad ascrivere loro colpevoli omissioni idonee a cagionare o favorire il decesso”. Mamma Rosalia e papà Mario la legge non l’hanno mai contestata, nemmeno quando a violarla è stato loro figlio: “Ora chiediamo giustizia anche per lui”. Messina. La presidente del Tribunale di Sorveglianza: “Meno carcere e più misure alternative” di Nuccio Anselmo Gazzetta del Sud, 29 dicembre 2021 A cinque mesi dal suo insediamento dialoghiamo con la presidente del Tribunale di Sorveglianza, Francesca Arrigo, per un settore della giustizia poco conosciuto. Quali sono oggi i problemi più gravi che oggi ostacolano il lavoro dei Tribunali di sorveglianza? “Svolgo le funzioni di magistrato di Sorveglianza dal 2010 e non ho mai avuto la percezione di gravi problemi che impediscono il lavoro del mio Ufficio; abbiamo, a fasi alterne, registrato ritardi nell’acquisizione delle relazioni richieste, ma niente di così grave da ostacolare in modo significativo il nostro lavoro per la trattazione dei procedimenti pendenti. Se poi invece il riferimento è alla effettiva rieducazione del condannato, che però non rientra tra le competenze del Tribunale, ma è obiettivo in generale della pena, anche nelle forme della misura alternativa, questa è legata, oltre che alle caratteristiche personologiche, alle risorse familiari e agli strumenti forniti dai Servizi sul territorio”. Come avete gestito le domande di scarcerazione legate all’emergenza Covid? “Con la massima serenità, procedendo alle scarcerazioni per ragioni di salute solo in casi davvero critici, nei quali la permanenza in istituto avrebbe potuto arrecare un pregiudizio davvero irreparabile. Si è trattato di scarcerazioni relative a detenuti affetti da gravi patologie, in relazione ai quali sono stati gli stessi sanitari in servizio presso la struttura detentiva ad evidenziare che l’eventuale affezione da Covid sarebbe stata con esito infausto”. Sul giudice di sorveglianza in periodo di pandemia c’è stato, o c’è, secondo lei un peso psicologico maggiore? E le decisioni che riguardano i detenuti con patologie pregresse, quelli più esposti al virus? “Devo dire che non ho avvertito né in me né nelle colleghe un peso psicologico particolare, abbiamo certo preso atto della situazione, ma è stata gestita con serenità e comunque il numero delle scarcerazioni da “Covid” è stato contenuto nei numeri. Sì, come ho già detto, le scarcerazioni hanno riguardato soggetti con patologie gravi e pregresse”. In Italia i detenuti sono grosso modo il doppio dei posti disponibili, nelle carceri della nostra provincia com’è la situazione? “Allo stato attuale non registriamo sovraffollamento”. Il carcere oggi è veramente la nostra “extrema ratio” o no? “Mi sembra di assistere in effetti ad un progressivo ampliamento delle misure alternative e della loro portata applicativa. A titolo estremamente esemplificativo basti pensare alla stabilizzazione della misura di cui alla legge 199/2010, all’innalzamento del limite edittale di pena per fruire del beneficio dell’affidamento in prova e ancora alla eliminazione di alcune preclusioni previste a pena di inammissibilità”. L’immagine italiana del carcere cosa ci dice, e in particolare quelli di Messina e Barcellona cosa ci dicono? “Il carcere di Messina non registra particolari criticità; è dotato di Sai (è il cosiddetto Servizio assistenza intensificata, n.d.r.) e questo comporta la gestione di detenuti di spessore criminale diverso e maggiore di quelli che dovrebbero invece essere allocati in una casa di reclusione. Il passaggio della medicina penitenziaria all’Asp ha fatto registrare qualche iniziale disservizio, ma vedo una seria volontà di risolvere i problemi, quantomeno a livello locale… quanto al carcere di Barcellona, nel quale insiste una articolazione per la tutela della salute mentale, vi sono analoghi problemi, anche qui in via di risoluzione. Entrambe le strutture sono dirette da persone che hanno cura di offrire attività trattamentale. È noto il progetto teatrale, esistente presso il carcere di Messina-Gazzi e che si sta avviando anche presso il carcere di Barcellona. Vi sono anche altri progetti formativi, bloccati a lungo a causa della pandemia, ma che a breve dovrebbero essere attuali. Sia io che le colleghe frequentiamo personalmente le strutture detentive, certo il carcere non è un luogo ameno… vedo però una comunità in cui i ruoli sono “attenuati” dalla umanità delle persone. Faccio riferimento alla Polizia penitenziaria che nel distretto di Messina, per il quale posso riferire, mi pare nella gran parte collaborativa e soprattutto comunicativa… mi è capitato spesso che i detenuti delle due diverse strutture abbiano speso parole di elogio per il personale di Polizia penitenziaria”. Il carcere è diventato soltanto una “vendetta” della società oggi? “Non credo che il carcere possa definirsi una vendetta, ci sono persone davvero socialmente pericolose, che hanno bisogno di contenimento e soprattutto di potersi confrontare per comprendere il disvalore delle loro condotte. Non bisogna dimenticare che molti autori di delitto vengono da contesti nei quali il reato non è neanche percepito quale disvalore”. La sua opinione sul tema dell’ergastolo ostativo? “Penso che tutto ciò che viene cristallizzato e non consente di valutare la situazione concreta non possa dirsi confacente alla prescrizione secondo cui la pena debba avere anche un effetto rieducativo”. Le norme di cui si discute oggi sono un favore ai boss mafiosi? “La tendenza è di evitare gli immobilismi delle norme che pongono preclusioni a pena di inammissibilità”. Tre temi cardine dal punto di vista tecnico-giuridico: la discrezionalità della magistratura di sorveglianza, e poi i suoi rapporti con l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di merito. Oggi secondo lei si esplicano in maniera corretta oppure no? “Quanto al profilo della discrezionalità, bisogna intendersi correttamente. La nostra è una discrezionalità “vincolata”, nel senso che la valutazione è comunque rigidamente ancorata all’esito dei dati acquisiti, e sul punto evidenzio che cerchiamo di avere informazioni complete e dettagliate. Quanto ai rapporti con l’Amministrazione penitenziaria, sono sempre stati improntati a correttezza, nel rispetto dei ruoli, che vedono certamente la magistratura di sorveglianza con funzioni di controllo. Considerato l’ulteriore profilo, io posso parlare anche alla luce della mia variegata esperienza personale, che è quella di giudice della esecuzione ora e di giudice della cognizione nel passato… non ritengo che si possa parlare di interferenze tra la magistratura che si occupa della cognizione e quella che si occupa della esecuzione, si tratta di fasi diverse temporalmente e nelle quali vengono in valutazione elementi diversi. Il giudice della cognizione deve valutare il fatto di reato, il magistrato di sorveglianza deve invece partire dal fatto, anzi dai diversi fatti di reato per valutare la persona del reo, il suo vissuto e tutti quegli elementi che possono essere utili per comprendere se il soggetto possa o meno fruire di benefici penitenziari”. È soltanto un luogo comune ormai, secondo lei, il concetto che il giudice di sorveglianza “demolisce” le sentenze dei colleghi, oppure ci sono delle correnti di pensiero che ragionano ancora in questo modo? “In verità non ho mai avuto questa percezione, esiste la previsione legislativa delle misure alternative e in generale dei benefici penitenziari, che devono quindi trovare applicazione. Non mi pare ci sia spazio per parlare di “demolizione” delle sentenze, come ho già detto la magistratura di sorveglianza parte dalla valutazione della sentenza, ma deve tenere conto di tanti altri elementi… forse questo all’occhio del profano della materia può apparire una demolizione”. La figura dell’esperto del Tribunale di sorveglianza secondo lei ha bisogno dei correttivi anche dal punto di vista legislativo oppure va bene così com’è stata delineata? Nella pratica quotidiana viene applicata la previsione legislativa? “Se la domanda significa se gli esperti hanno un peso nelle decisioni, la risposta è certamente sì… chiaramente nella valutazione del settore di competenza, anzi evidenzio l’importanza del ruolo degli esperti, che con la loro esperienza professionale, di medici, psicologi, assistenti sociali, ci fanno meglio comprendere appunto la persona, che come ho evidenziato è l’entità in valutazione”. La sottile linea di demarcazione tra il fine rieducativo e il fine vessatorio del carcere, e lo sbilanciamento evidente oggi verso il secondo profilo secondo lei come si risolve? Insomma quando il detenuto deve essere rimesso in libertà? “Quando ha dimostrato di avere avviato, sia pure a livello embrionale, un percorso di revisione critica del vissuto criminale, chiaramente poi la valutazione sarà più rigorosa in relazione anche alla entità della pena espianda e soprattutto al profilo di pericolosità sociale che viene in valutazione…”. Il tema dell’accesso al lavoro è centrale, cosa si deve fare per questo ambito? Cosa pensa dell’accesso al volontariato? “Certamente una prospettiva lavorativa ha un valore prognostico importante, ma non tutti i condannati ne hanno la possibilità. L’espletamento di attività di volontariato è certamente una valida alternativa, nella misura in cui venga portata avanti con serietà e impegno. Cerchiamo di stare attenti alle attività di volontariato o alle attività lavorative di “facciata”, acquisendo informazioni di Ps prima della concessione dei benefici e relazioni Uepe quanto all’effettivo svolgimento delle attività”. Uno dei principali problemi secondo molti addetti ai lavori è la tempistica delle decisioni, cosa si può fare per rendere più celeri le vostre decisioni, è solo una questione di organici? “Non ho mai pensato alla tempistica delle decisioni come un problema del mio ufficio, è successo che certamente nel periodo dell’emergenza Covid la gran parte dei procedimenti ha subito rinvii d’ufficio, ma non per disservizi, bensì per previsione legislativa volta ad evitare il diffondersi del contagio… i procedimenti pendenti presso il mio ufficio allo stato sono tutti fissati e contenuti nel tempo. È poi possibile che il singolo procedimento possa subire rinvii per la necessità di acquisire relazioni che tardano ad arrivare, ma si tratta di variabili esterne al mio Tribunale. Ho recentemente sottoscritto un protocollo con l’Uepe di Messina proprio per evitare inutili udienze e ottimizzare le risorse in atto esistenti”. Le è mai accaduto di aver preso decisioni di cui poi si è pentita? “No”. Ragusa. L’orto del carcere, dove sbocciano lavoro e dignità per i detenuti di Giada Drocker La Repubblica, 29 dicembre 2021 Nel penitenziario c’è anche chi produce formaggi e chi il miele dalle arnie. “Ce la posso fare, stavolta è diverso. Prima quando uscivo dal carcere mi sentivo a disagio, ora no: so fare qualcosa e posso farcela”. Parla Bruno Monti, 45 anni, 25 di questi in cella con piccole pause a casa, tra una condanna e l’altra. Cura l’orto al carcere di contrada Pendente a Ragusa. Sorride, sempre, anche nei momenti difficili. La sua famiglia a casa lo aspetta. Da poco è diventato nonno. Crede che coltivare la terra sia il modo per dare futuro alla sua famiglia e chi lo ha aiutato ad imparare dentro al carcere è pronto a dargli una mano pure fuori. Cos’è il futuro per lei? “La terra! Voglio stare con le mie figlie, vedere crescere mia nipote. Sono orgoglioso della forza di mia moglie, per quanto ha fatto”. Bruno da poco è solo a prendersi cura dei terreni, l’altro detenuto ammesso al programma di “semilibertà” è stato trasferito e ha perso i benefici. L’idea dell’orto è partita da un dono che si trasformato in progetto: “Libere tenerezze”, abbracciato dall’Enciclica di papa Francesco sulla Cura del Creato. Alcuni detenuti ammessi al lavoro esterno, hanno ridato vita ai terreni incolti interni al carcere arrivando ad una produzione stagionale venduta anche all’esterno, i cui proventi servono a rifinanziare ciò che all’orto serve e a dare sostanza alle altre iniziative interne al carcere. “È cominciato tutto con la pandemia - spiegano Fabio Ferrito e Alessandro Vitrano dell’associazione di clown dottori “Ci ridiamo su” di Ragusa che cura il progetto - Abbiamo coinvolto il carcere per la produzione di mascherine che scarseggiavano. I detenuti hanno confezionato un migliaio di mascherine poi consegnate ad associazioni, case di riposo e a chi ne aveva bisogno. Per ringraziare, abbiamo pensato di consegnare loro dei semi di zucchine lunghe e Bruno ha chiesto all’amministrazione penitenziaria se era possibile piantarli. Da lì è iniziato tutto”. Finocchi, lattughe, sedano, carciofi, cavolfiori e da poco anche gli avocado. Sei i detenuti ammessi al lavoro esterno (2 all’orto), sono famiglia. Chi aiutava Bruno era lo “chef” del gruppo: cucinava di tutto, pur non avendo un forno. Aveva creato un contenitore per le lasagne, suo orgoglio. Un grande lavoro interno al carcere, direzione, area trattamentale e sicurezza, in team per affrontare criticità e risolverle. Il risultato? Oltre il 50% dei 180 detenuti sono impegnati in attività: corsi di alfabetizzazione, scuola (24 seguono l’Alberghiero), 50 si occupano della preparazione dei pasti, delle pulizie e delle manutenzioni. Vengono retribuiti, e l’impiego è a rotazione. Nessuno viene lasciato solo. Si lavora su recupero, risocializzazione, consapevolezza, dignità. E uno degli indicatori del clima interno al carcere, dove la privazione della libertà personale è dura da accettare con la colpa da metabolizzare, è la quasi assenza di atti autolesionistici. La direttrice Giovanna Maltese, assieme al comandante della polizia penitenziaria, Chiara Morales e alla responsabile area trattamentale Rosetta Noto racconta la fatica, ma anche l’entusiasmo di un impegno volto al recupero. Nel carcere un laboratorio di prodotti caseari, la coop “Sprigioniamo sapori” che produce e vende dolciumi e conserve utilizzando materie prime di eccellenza del territorio. Tutto fatto a piccoli passi, in equilibrio tra sicurezza e recupero, insegnamento e inventiva personale. I detenuti imparano un mestiere, progettano futuro. “Valorizzare tutto il buono che c’è, potenziarlo per evitare che una volta uscito dal carcere, il detenuto torni a delinquere” dice la direttrice. Bruno nell’orto rinasce, impara; quando uscirà vuole coltivare un terreno, fare impresa. A novembre ha visitato un’azienda che coltiva piante tropicali. “Mi hanno insegnato trucchi utili; qui abbiamo costruito una serra per gli avocado e ora so cosa serve alle piante e come mi devo comportare per farle crescere sane e bene”. Al suo fianco, un agronomo, Alessandro Scrofani. Dai suoi insegnamenti ha imparato ad osservare, leggere le piante, riconoscere gli insetti buoni e cattivi perché l’orto “parla”. Bioagricoltura. Compost autoprodotto con gli scarti dell’orto. E la rigenerazione delle persone passa dalla rigenerazione degli spazi. I semi dell’orto generano altro: “Ali per volare”, una batteria di arnie per la produzione del miele e un piccolo prefabbricato per le galline. Bruno è grato: “In tanti qui hanno creduto in me; prima un corso di operaio edile, poi ho curato il giardino, ora l’orto. So fare tanto - dice - Non mi spaventa più uscire fuori. Libertà, responsabilità, confronto, crescita, fiducia: io mi sento cresciuto e pronto”. Porto Azzurro (Li). Carcere, i progetti dei volontari dell’Associazione Dialogo per il 2022 tenews.it, 29 dicembre 2021 Verranno organizzati, inoltre, momenti di sensibilizzazione sulle tematiche carcerarie, in collaborazione con altre realtà e con il coinvolgimento delle scuole. “La situazione sanitaria non può fermare l’azione dei volontari. E all’interno delle normative anti-contagio sarà possibile continuare le attività educative e di assistenza”. Con queste parole Licia Baldi, presidente di Dialogo l’associazione elbana di volontariato di giustizia, esprime soddisfazione a conclusione dell’incontro avuto nei giorni scorsi presso la Casa di reclusione di Porto Azzurro, con il Direttore dott. Francesco D’Anselmo, con le educatrici Giuseppina Canu e Sara Aiosi e con la vice comandante Ruggiero della polizia penitenziaria. “È stato un incontro - continua Baldi - caratterizzato da reciproco ascolto e autentico confronto, necessari perché la vicinanza e la condivisione da parte dell’istituzione penitenziaria sono elemento essenziale per la realizzazione di qualsiasi programma e progetto che il volontariato si prefigga di attuare”. I volontari hanno presentato il programma di attività che si svolgeranno sia all’interno che all’esterno del carcere. Una parte di primo piano spetta ai colloqui personali con i detenuti, a cui, per il momento, si dedicano due persone, in attesa dell’autorizzazione per un terzo volontario. Sul versante formativo, strumento primario di crescita personale, l’Associazione cerca di offrire occasioni culturali attraverso la scuola, il teatro e la biblioteca. Continua quindi l’attività di supporto scolastico agli stranieri (alfabetizzazione) e quello agli universitari (progetto UniversAzzurro). L’organizzazione e la fruizione della biblioteca, per la quale si auspica una più adeguata collocazione, rivestono una grande importanza per la riflessione e la conoscenza. Un contributo alla comunicazione e socializzazione viene dal progetto Teatro, un’esperienza consolidata che vede il coinvolgimento di studenti di Piombino (alternanza scuola lavoro) e di ospiti della cooperativa Altamarea di Portoferraio. Il progetto si inserisce nel più ampio progetto regionale e nazionale di teatro in carcere. Un altro progetto è “Il verde tra le mura”, con attività teorico-pratiche di orticultura e giardinaggio. Un modo per favorire la crescita personale è la meditazione, attraverso un corso che pone attenzione alla creatività e alla conoscenza di sé. Nel 2022 prenderanno il via due nuovi progetti: “Scacchi al Forte” e il corso di Inglese. Continua l’attività di reperimento e distribuzione del vestiario e dei prodotti per l’igiene personale, in modo da venire incontro a chi si trova in situazione di bisogno. Vale la pena ricordare che la metà della popolazione detenuta è di origine straniera. Inoltre, Dialogo cercherà di sostenere le persone che si dedicano all’artigianato, con l’obiettivo di poter organizzare una mostra, come avvenuto più volte in passato. Per quanto riguarda le attività esterne, nella casa di via Bechi a Portoferraio i volontari continueranno ad occuparsi di accoglienza e ospitalità sia per i familiari che accedono ai colloqui che per i detenuti che fruiscono di permesso premio. Verranno organizzati, inoltre, momenti di sensibilizzazione sulle tematiche carcerarie, in collaborazione con altre realtà e con il coinvolgimento delle scuole. “Tutto questo - dichiara la presidente Licia Baldi - lo intendiamo come il nostro contributo di cittadini per l’attuazione della Costituzione Italiana, nello specifico dell’art.27 che mette al centro la dignità della persona condannata e, quindi, l’aspetto rieducativo e riabilitativo”. L’associazione Dialogo, come si vede, è impegnata in diverse attività e lancia un appello: c’è spazio per altre persone, giovani e meno giovani, che vogliano impegnarsi anche solo un’ora a settimana. Sicuramente un’occasione di crescita che verrà favorita attraverso momenti formativi basati soprattutto sulla condivisione delle esperienze. Per contatti: scrivere a licia.baldi@virgilio.it oppure telefonare a 0565915319. Saluzzo (Cn). Detenuti donano pasta e dolci alla mensa della Caritas di Devis Rosso La Stampa, 29 dicembre 2021 Ieri mattina il presidente della Caritas di Saluzzo, Carlo Rubiolo, assieme ad alcuni volontari, ha raggiunto il carcere cittadino a bordo di un furgone. Lì ha trovato ad attenderlo gli educatori della struttura e ha potuto caricare il mezzo con centinaia di chilogrammi di generi alimentari. I detenuti della Casa di reclusione “Morandi” di Saluzzo hanno deciso, in accordo con la direzione e con la collaborazione del personale interno, di donare alla mensa della Caritas cittadina il cibo a cui rinunciano per due settimane, nel periodo delle feste di Natale e fine anno. Non si tratta di cibo avanzato, ma di prodotti destinati alla mensa carceraria a cui, preventivamente, grazie ad un accordo interno tra detenuti e direzione, i detenuti rinunciano per regalarli alla Caritas. “È un gesto - sottolinea Rubiolo - che dimostra la sensibilità di persone che, pur vivendo una delle condizioni più emarginanti, vogliono essere vicine a chi si trova a vivere un’altra situazione di emarginazione, quella della povertà”. Non è la prima volta che i detenuti scelgono la Caritas per donare parte di ciò che spetta a loro, ma farlo nel periodo del Natale ha un significato speciale. Don Massimo Rigoni, cappellano dell’istituto di reclusione, spiega: “I reclusi hanno scelto di rinunciare a parte del loro “carrello” perché comprendono il senso di privazione e di sofferenza di chi è emarginato. Sanno quanto la città di Saluzzo faccia per il Morandi attraverso le associazioni e gli enti, e vogliono sentirsi parte di questo territorio, contribuendo ad aiutare chi è in difficoltà”. Alla Caritas sono così arrivate verdure e frutta fresca, decine di chilogrammi di pasta, dolci natalizi, carne, caffè. Andranno alla dispensa della mensa di corso Piemonte, che ogni giorno, grazie all’impegno della Caritas, di frate Andrea Nico Grossi e dei volontari, prepara e serve decine di pasti ai poveri e agli indigenti della città. “L’impegno dei detenuti - continua Rubiolo - avrà una durata di due settimane. Lunedì prossimo faremo un secondo carico in carcere per gli ultimi alimenti”. E conclude: “Ai reclusi e a tutti quelli che all’interno del carcere rendono possibile questa donazione va la gratitudine della Caritas diocesana. Il loro gesto è un esempio per tutti e spero che possa essere da stimolo per spingere altre realtà locali ad un dono, durante il periodo natalizio, verso chi è sofferente”. Larino (Cb). “Viaggio nel Molise”, concluso il progetto realizzato nel carcere quotidianomolise.com, 29 dicembre 2021 Si è concluso ieri con la presentazione della brochure, il progetto realizzato presso la Casa Circondariale e di reclusione di Larino, “Viaggio nel Molise”. Un progetto nato grazie all’idea del regista Giandomenico Sale, all’interno del lavoro del Teatro in Carcere che da quattro anni Frentania Teatri APS svolge presso la Casa Circondariale e di Reclusione di Larino. Sono stati coinvolti i detenuti a regime di alta sicurezza presenti presso la struttura frentana: Angelo C., Giuseppe G., Paolo I., Giuseppe M., Vincenzo M., Domenico M., Emanuele P., Alessandro R., Umberto R., Nunzio T., Alfonso V., Leonardo V., che si sono prestati per posare nelle fotografie e per prestare la loro interpretazione nella lettura dei testi di Jovine. Tutto questo materiale lo ritroviamo negli opuscoli “Viaggio nel Molise - itinerari turistico-culturali sulle orme di Francesco Jovine attraverso il teatro in carcere”. Una guida turistica divisa in tre itinerari che ripercorrono il viaggio descritto da Jovine in Viaggio nel Molise: Venafro - Isernia - Agnone, Bojano - Campobasso, Casacalenda - Guardialfiera - Larino. Partendo dalla Casa Circondariale e di Reclusione di Larino si è voluto riproporre questo viaggio per alcuni versi fisico e per altri metafisico. E quanti vorranno svolgere questi itinerari dovranno prepararsi ad una sorta di rituale: osservare, nelle fotografie, immagini intrise di simbologia e richiami alle tradizioni e l’arcaicità dei luoghi; nel mentre si osservano le immagini, passeggiando lungo il percorso proposto, con la scansione dei QR code presenti nell’opuscolo, si è pronti a lasciarsi trasportare dalle parole di Francesco Jovine, attraverso la voce dei detenuti che hanno interpretato i testi, e dar vita in questo modo, ad un viaggio fuori dal tempo e dallo spazio, nella splendida cornice del territorio molisano. Si ringraziano il direttore e il funzionario giuridico pedagogico della Casa Circondariale di Larino. La brochure è stata realizzata grazie ai fondi “Turismo è cultura 2021 - eventi” e sostenuto con i fondi “Otto per Mille della Chiesa Valdese”. La guida turistica verrà distribuita in tutto il Molise, permettendo ai turisti e agli stessi molisani, di scoprire gli itinerari scelti da Francesco Jovine ottant’anni fa. Il percorso per realizzare questo progetto, supera la valenza turistica - culturale e si completa con la valenza sociale presente in essa. Questo perché, oltre a fornire uno strumento utile a quanti visiteranno il Molise, ha permesso ai detenuti di aprirsi agli altri, per sentirsi pronti a sopportare il confronto con la società e sentirsi più sicuri e pronti al reinserimento nella società. La ricchezza di “Viaggio nel Molise” è nel proporre un modo inclusivo di fare turismo e di conoscere uno dei molisani più illustri: Francesco Jovine. Scrittore, giornalista e saggista nato a Guardialfiera, Jovine ispirò al Molise le sue opere più significative. Narratore verista, nelle sue opere sono presenti i conflitti tra padroni e contadini e le voci dell’antifascismo e delle lotte sociali del dopoguerra. Viaggio nel Molise nasce grazie agli articoli scritti per il “Giornale d’Italia” da Francesco Jovine nel 1941 e raccolti nel 1967, sotto questo titolo, in un’unica pubblicazione, dall’editore Lino Battista. In “Molise da vivere”, lo storico Franco Valente ci presenta il libro spiegando che, nella regione: “Una serie di accidenti della storia avevano ridotto le sue popolazioni in una condizione di estremo degrado anche urbanistico. I suoi centri abitati apparivano come luoghi desolati in cui anche le condizioni igieniche erano particolarmente arretrate. Jovine vi ritornava da giornalista durante la temperie del secondo conflitto mondiale. Ad esso l’Italia partecipava per aver sottoscritto un paio di anni prima, come si disse allora, un patto d’acciaio con la Germania. Jovine ripercorse i paesi ormai abbandonati da giovani che spesso, non solo per la guerra, avevano preso la via di un’emigrazione senza ritorno. I segni fisici dei suoi paesaggi, le antiche architetture, i nomi di personaggi storici che riappaiono dai meandri della sua memoria furono l’occasione per definire il carattere particolare di una regione che, nonostante tutto, conservava strutturalmente i suoi legami con il resto dell’Europa. Dai tempi del viaggio di Jovine tanta acqua è passata sotto i ponti. Tanta se n’è pure fermata a formare quel lago che egli non ha mai visto sotto la sua Guardialfiera. Il suo modo per niente incantato di vedere la realtà di quell’epoca è oggi una fotografia trasparente che, a noi che non abbiamo vissuta la guerra, permette di valutare le differenze. Di capire cosa sia accaduto. Di comprendere cosa significhi cambiamento. Il Molise di oggi è soprattutto ciò che non c’è più. Senza rimpianti per chi ha continuato a viverci. Luogo di ricordi ormai destinati a svanire per chi, invece, vi ritorna occasionalmente. Eppure i segni del passato sono duri a morire. Nonostante l’ineluttabilità della storia.” Firenze. Teatro in streaming per un ponte tra il carcere e la città di Raffaella Galamini intoscana.it, 29 dicembre 2021 Al Florida lo spettacolo “One man jail”, primo in Italia a utilizzare le risorse digitali: i giovani detenuti del Meucci di Firenze materializzati in scena in tempo reale. Rompere le barriere, seppur virtualmente, per avvicinare i carcerati al mondo fuori. Materializzando sul palco i giovani attori detenuti nell’istituto penale per i minorenni Meucci. È la sfida ambiziosa dello spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente”. Parte da Firenze l’unico show in Italia ad utilizzare lo streaming per un progetto “alternativo” di teatro in carcere. La prima assoluta è in cartellone sabato 8 gennaio con replica domenica 9 gennaio 2022, alle ore 21, al Teatro Cantiere Florida. Lo spettacolo si inserisce all’interno del progetto “Streaming: un ponte tra carcere e città”, percorso di educazione ai mestieri dello spettacolo e della performance tramite l’utilizzo di tecnologie digitali: si propone di mettere in contatto i giovani detenuti con la comunità esterna e al tempo stesso offrire una formazione lavorativa per il dopo. Per questo è finanziato dal bando “Giovani al centro” e rientra nell’ambito di Giovanisì, il progetto della Regione Toscana per l’autonomia degli under 40. La produzione dello spettacolo è affidata alla Compagnia Interazioni Elementari, il regista è Claudio Suzzi che lavora nell’ambito del carcere dal 2002. Dopo un’esperienza condotta a Parigi, nel 2017 ha lanciato Interazioni Elementari, che vede la fusione di arti teatrali e performative giocando sul rapporto tra ricerca artistica e società. Organizza il Festival Spiragli- Teatri dietro le quinte, nell’ambito del programma dell’Estate Fiorentina. Interazioni Elementari tiene laboratori teatrali all’interno del Meucci. “One Man Jail: le prigioni della mente” è una delle tappe fondamentali di questa attività. “Uno degli obiettivi è quello di lavorare perché i ragazzi possono essere scritturati come attori venendo pagati per questa attività” sottolinea il regista Claudio Suzzi, fondatore di Interazioni Elementari e ideatore di Streaming theather. Il regista si augura che lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” possa girare il più possibile nei teatri della Regione Toscana e del circuito nazionale sfruttando le potenzialità offerte dalla tecnologia. “In un processo di incontro tra il carcere e le città, vogliamo coinvolgere un pubblico più ampio puntando, grazie al teatro che così diventa un’agorà, ad un maggiore sviluppo della cittadinanza attiva e alla partecipazione delle comunità locali, in modo da creare una maggiore inclusione sociale” sottolinea. “Attraverso l’uso dello streaming - continua Suzzi - con lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” proviamo a capovolgere le prospettive. Per cominciare le modalità di fruizione del teatro in carcere: con il collegamento live rendiamo la possibilità di incontro tra città e carcere molto più semplice e replicabile. Si punta poi a trasformare un’attività educativa, il teatro, in una possibilità di lavoro vera e propria. Altro ribaltamento è quello relativo alla trama dello spettacolo: il teatro diventa un carcere, il pubblico si trasforma in un gruppo di detenuti, mentre la prigione, da cui realmente trasmettiamo, simboleggia la mente del protagonista”. La storia portata in scena è quella di Frank Petroletti - interpretato dall’attore Filippo Frittelli- comico che, all’apice del successo, viene arrestato e incarcerato. Dietro le sbarre, di fronte a un pubblico di detenuti ostili e disinteressati, si prepara alla sua ultima performance. “Entreremo nella mente di questo personaggio e scopriremo che un po’ tutti noi siamo prigionieri della nostra mente, dei nostri personaggi, dei nostri dubbi - conclude Suzzi - La domanda è: solo i carcerati sono prigionieri o tutti siamo prigionieri di noi stessi? Riusciremo a liberarci da noi stessi? Ognuno di noi ha un lato oscuro da curare”. L’obiettivo finale è di continuare questo percorso anche dopo il ritorno in libertà dei protagonisti: “Al momento è impossibile per mancanza di uno spazio dedicato, una sede a Firenze, senza la quale la Compagnia Interazioni Elementari non potrà continuare a lungo il suo lavoro. Abbiamo bisogno di un luogo dove far mettere radici al progetto e alla Compagnia, e per questo confidiamo nella sensibilità, nell’ascolto e nel sostegno delle autorità locali toscane e fiorentine”. Spettacolo teatrale nel carcere di Carinola: presente anche il Garante regionale dei detenuti Il Mattino, 29 dicembre 2021 Il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, oggi, si è recato in visita alla casa di reclusione di Carinola. Durante la mattinata, ha assistito ad una rappresentazione teatrale, tenutasi all’ interno del penitenziario, organizzata dalla compagnia amatoriale napoletana Terapia d’urto con la regia di Tiziana Laltrelli. Varie le tematiche abilmente portate in scena, tra cui la famiglia, l’amore, l’avidità, la diversità e il pentimento di un uomo e il suo desiderio di ritornare sui propri passi. “Queste lodevoli iniziative offrono sicuramente un’occasione di riflessione, di meditazione per ciascuno di noi e soprattutto per coloro che, in quanto ristrettì, non devono mai abbandonare l’idea e la fattività di una ripartenza diversa da quella originaria. Dopo il verbo amare, il verbo ricominciare, ripartire, è fondamentale”, ha detto il garante a termine della manifestazione teatrale. La casa di reclusione di Carinola ospita attualmente 380 detenuti e, fortunatamente, nessuno di loro è affetto da Covid. Il garante ha effettuato diversi colloqui con i ristrettì medesimi. È rimasto, peraltro, a pranzo nella struttura carceraria e ha avuto modo di rilevare che, a tutt’ oggi, è in atto un’astensione del personale di polizia penitenziaria dalla mensa obbligatoria di servizio. “Una forma di protesta per la grave carenza di personale; sono, infatti, attualmente in servizio 156 unità, mentre dovrebbero essere impiegate, in base a quanto rilevato dall’ultima commissione, che si è occupata della revisione delle piante organiche, 290 unità. È auspicabile, quindi, per la funzionalità della struttura, che i competenti uffici operino le necessarie verifiche e adottino i conseguenti provvedimenti, prima che accadono fatti incresciosi o eccezionali”, ha concluso Ciambriello. Trani. “Rock oltre le sbarre”, musica e umanità nel carcere di Giancarlo Visitilli Corriere del Mezzogiorno, 29 dicembre 2021 Un progetto realizzato nel carcere di Trani “per dare la possibilità a chi è detenuto di esprimersi e creare attraverso la musica”. È entrata in carcere che “non sapevo leggere e scrivere”. Fra qualche mese sarà dottoressa in Filosofia. A cosa ti servirà la laurea, se ti sei beccata trent’anni, le chiedo, “è l’unica motivazione per cui mi sveglio la mattina”. E poi il detenuto che mi chiede di andare nel suo paese, non ci va da quindici anni, non potrà andarci per i prossimi quindici: “vatti a fare ‘na passeggiata al frantoio di papà. Io, qui, sento ancora l’odore di questo periodo in cui facevo l’olio con lui”. E piange, perché si ricorda del gran lavoro che gli manca, “soprattutto quello di stare insieme agli altri, a parlare di vita onesta”. Sono le donne e gli uomini detenuti e condannati in via definitiva nelle carceri di Trani, ma potrebbero essere quelle e quelli di qualsiasi altro carcere italiano. Perché vivono tutti nelle stesse pessime condizioni. E allora tocca al Terzo Settore, come sempre accade, in un paese che, rispetto alle politiche dei detenuti lascia troppo, e da molto tempo, a desiderare. Il sistema carcerario funge da discarica sociale. I dati forniti dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2021, confermano che la popolazione carceraria ha basso livello di scolarizzazione e le prigioni sono affollate da migranti e fasce sociali ed economiche deboli. Un detenuto su 4 è tossicodipendente; un detenuto su 3 è immigrato; tra i minori di 24 anni la percentuale di stranieri sale addirittura al 45%. Le situazioni sono di vera e propria emergenza, oggetto di attenzione e richiami da parte della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo che ha più volte denunciato condizioni di detenzione intollerabili. L’emergenza sanitaria ha acuito i problemi. Però c’è chi si impegna, al modo di Piero Rossi, Garante Regionale per i diritti dei Detenuti della Puglia, che ha fortemente voluto un progetto gestito dalla Cooperativa Sociale I bambini di Truffaut. Un laboratorio, “Rock Oltre Le Sbarre”, condotto da operatori, anche parte di una band, Behind Bars. Il chitarrista Bob Cillo, la cantante polistrumentista italoamericana Livia Monteleone e il batterista JJ Springfield, utilizzano la forma espressiva a loro più congeniale. Fanno musica per portare solidarietà a chi vive l’isolamento della prigionia nelle carceri, nell’indifferenza della società. “Dunque Behind Bars è una ‘concept band’ - spiega Cillo - in cui l’aspetto musicale si integra con l’impegno civico, l’umanità e l’emotività”. Quella che passa attraverso il fare la musica che muove dentro. “Un programma di attività per dare ai detenuti la possibilità di esprimersi attraverso la musica - spiega Livia Monteleone Il carcere di Trani ci ha aperto le sue porte”. La proposta non è il solito laboratorio musicale, ma nella specificità del blues e del rock, espressioni nate nel sud del mondo tra terreno, sofferenza e sudore. “Gli Afro-americani suonavano il blues nelle famigerate farms, i campi di prigionia per i lavori forzati - spiega Cillo - Oggi ci sembra giusto riportare il blues lì, nella dimensione in cui è nato; crediamo che possa funzionare”. Ed è evidente quello che accade col detenuto condannato per omicidio, notare l’esigenza di dire la sua voglia di liberarsi dal tormento dell’errore, attraverso la musica, che sulle corde e sulle pelli delle percussioni diventa un levare, più che un battere. Nel tentativo di elevarsi dal peso grave della leggerezza che non conoscono più. “Piuttosto vado a rubare, ma io i miei figli dagli assistenti sociali non ce li mando”. Parte di questi racconti sta trovando il loro strumento di amplificazione, attraverso le chitarre, gli amplificatori, le percussioni. Far rumore è l’unica possibilità che le donne e gli uomini reclusi avrebbero per darsi voce. E che produca un’eco. “Senza pregiudizio. Dove il cinema si fa riscatto”. Un viaggio nell’anima dei detenuti di Linda Meoni La Nazione, 29 dicembre 2021 Il libro “Senza pregiudizio. Dove il cinema si fa riscatto” chiude il progetto condotto da Electra e iniziato con “Stabat Mater”. Ogni vita porta con sé un lutto, dove “lutto” non è solo cessazione fisica e biologica dell’esistenza, ma è anche un’idea privata di morte, quella che ti sfiora quando ti piacerebbe avere una famiglia che ti ama e non ce l’hai, quando un padre violento scarica su di te, bambino, la sua rabbia, quando alla fine le giravolte imprevedibili della vita ti confinano dietro le sbarre, in un buco di disperazione ancora più grande. Perché alla fine “la carcerazione è il vero lutto”. È un viaggio nell’anima dei detenuti quello proposto da “Senza pregiudizio-Dove il cinema si fa riscatto” (Metilene, 2021), il libro che arriva a chiudere il progetto condotto dall’associazione teatrale Electra riuscita a confezionare il cortometraggio “Stabat mater” ispirato a un’opera di Grazia Frisina che tanto successo ha riscosso e dove i protagonisti sono proprio i detenuti. Oggi dunque ecco un nuovo, ultimo atto che si inserisce in quella umana catena che vuole restituire dignità al carcerato, che passa attraverso le pagine di questa nuova uscita editoriale presentata al pubblico nei giorni scorsi, la cui pubblicazione è sostenuta da Far.Com. Il volume è per questo motivo in vendita nelle farmacie comunali 1 (viale Adua 40) e 2 (via Manzoni 10) a Pistoia. Il volume ripercorre la genesi di questa produzione cinematografica, a partire dall’approccio con gli stessi detenuti, ai quali in prima battuta sono state sottoposte tutta una serie di domande utili a: “Scavare, con discrezione, un profilo privato e che in qualche modo coincideva, in prospettiva emozionale, con la storia di una Madre colta nel momento in cui pare non esserci possibilità alcuna per intervenire. Solo il dolore e solo la paura divampano, in quel tragico momento. Andavo - è il racconto del regista Tesi - per trasferimento a raccontare le loro vite, colte nella stasi più assoluta. Leggendo ancora oggi le schede che conservo gelosamente, non riesco a comprendere totalmente come non si sia riusciti, noi esterni, a non farci soffocare dall’emozioni. Oggi, ho qualche complesso di colpa. Penso di aver avuto la pesantezza di un elefante con costoro, ma penso anche che se non avessi agito con determinazione e talvolta durezza, oggi saremmo sempre a girare la prima scena. Riscoprendo, ora, la loro calligrafia confusa, l’incisione profonda della penna lasciata sul foglio, comprendo come più delle volte il destino per alcuni è segnato”. E ancora: “La detenzione fa riaffiorare, nell’ essere umano, qualcosa di fanciullesco. Imprigioni una persona, ritornerà bambino. Se certe intimità fossero state raccolte su una spiaggia, dagli stessi uomini, guardando il mare, avrebbero sortito senz’altro un effetto diverso. Era il luogo in cui venivano sussurrate le loro confidenze che le rendevano ancora più tristi. Infiniti quesiti mi ponevo all’uscita del Carcere, che ancora oggi non hanno trovato soluzione”. Firme digitali, su 12 referendum ce la fanno solo eutanasia e cannabis di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 dicembre 2021 Democrazia digitale. Il punto dell’associazione Luca Coscioni. “Che fine ha fatto l’invasione di referendum che avrebbe devastato l’Italia del 2022 con l’introduzione della firma digitale?”. Alla campagna antireferendaria di cattolici e centrodestra che prosegue senza soluzione di continuità, l’Associazione Luca Coscioni risponde facendo il punto su quella che “i più fini analisti politici prevedevano sarebbe stata peggio dell’invasione delle cavallette per l’antico Egitto”. Se ne prevedevano 12, ricorda Marco Cappato, “c’erano già parlamentari che volevano alzare la soglia delle firme (Ceccanti, Pd), intellettuali terrorizzati dai referendum che avrebbe potuto allegramente convocare Chiara Ferragni (Massimo Cacciari), e comunque grande apprensione e pensosa preoccupazione, oltre alla maledetta nostalgia per i referendum di una volta”. Era l’alba del 20 luglio quando le commissioni Affari costituzionali e Ambiente approvarono all’unanimità l’emendamento di Riccardo Magi (+Europa) al Dl Semplificazioni. Panico. E ora? A che punto è l’invasione? Il referendum di abrogazione del reddito di cittadinanza annunciato da Renzi e dibattuto “per giorni come se fosse di imminente votazione” non è stato “mai nemmeno depositato in Cassazione”. Il referendum di abrogazione del Green Pass è stato depositato in Cassazione, con le firme raccolte anche in digitale, ma “certamente non le 500.000 necessarie”, afferma Cappato. I 6 referendum per la giustizia giusta del Partito Radicale e della Lega sono stati presentati da 9 Consigli regionali a guida centrodestra malgrado le “oltre 700.000 firme raccolte, anche digitali” annunciate, che però non sono mai state depositate. I due referendum di abrogazione della caccia sono naufragati. Solo uno dei due “ha annunciato il deposito delle 500.000 firme, anche digitali” che però non sono state tutte confermate in Cassazione. Dunque a cinque mesi dall’introduzione della firma digitale, solo due quesiti referendari hanno raggiunto il numero di firme necessarie: quello per la legalizzazione dell’eutanasia (1.240.000 firme di cui 350.000 digitali, già verificate dalla Cassazione) e quello sulla cannabis (oltre 600.000 firme raccolte in una settimana, quasi tutte digitali, in attesa della verifica definitiva della Cassazione). Ora però, conclude Cappato, l’importante è “che ci lascino votare”. Conferenza nazionale sulle droghe, una spinta al cambiamento di Stefano Vecchio* Il Manifesto, 29 dicembre 2021 Dopo una lunga fase di dibattito preliminare e una tre giorni, non priva di contraddizioni, in plenaria a Genova presso il palazzo Ducale, la Ministra Dadone, che ha la delega alle politiche sulle droghe, il 29 novembre ha concluso la Conferenza Nazionale sulle Droghe, indetta dopo dodici anni di latitanza. Diversi gli impegni assunti che prevedrebbero, se fossero mantenuti, un cambio sostanziale delle politiche attuali sulle droghe. La Rete italiana per la Riforma delle politiche sulle droghe, ha aperto da subito un dialogo critico con la Ministra accettando di partecipare ai tavoli preparatori della Conferenza, negoziando uno spazio specifico per la Riduzione del Danno e la partecipazione attiva delle Persone che Usano Droghe. Pur valutando positivamente queste aperture e la disponibilità al dialogo da parte della Ministra, abbiamo espresso le nostre critiche per la scelta di rimandare al dopo conferenza il confronto con la politica. Abbiamo organizzato, allora, un “FuoriConferenza” in cui abbiamo indicato gli indirizzi culturali e politici per cambiare l’impianto penale repressivo della legge seguendo una prospettiva alternativa basata sul governo e la regolazione sociale del fenomeno. La Ministra ha partecipato con interesse al dibattito condividendo alcune delle nostre proposte. Le conclusioni importanti della Conferenza sono anche il risultato di questo lavoro ‘dentro e fuori’, che ci ha visti critici e collaborativi allo stesso tempo. L’impegno più importante: la modifica della legge attuale. Gli approcci possibili sono diversi ma la prospettiva si gioca tutta dentro lo svincolo dal Codice penale delle politiche rivolte alle persone che usano droghe, restituendo loro diritti civili e di cura. Va in questa direzione il riconoscimento pieno della prospettiva della Riduzione del Danno, Livello Essenziale di Assistenza dal 2017. La Riduzione del Danno è considerata, nelle strategie europee, un pilastro delle politiche sulle droghe che si fonda sulla tutela e promozione della salute delle persone che usano droghe e sul sostegno e la valorizzazione delle loro competenze sui rischi e i danni. Per dare esigibilità a questo diritto è necessario approvare un Atto di Indirizzo della Conferenza Stato-Regioni seguendo un percorso partecipativo con gli operatori e la società civile. Questi sostanzialmente gli assi sui quali si richiederà l’impegno post Conferenza al Governo per attivare un percorso politico-istituzionale che dovrà individuare una serie di obiettivi intermedi di cambiamento progressivo e elaborare il primo vero Piano Nazionale sulle Droghe in Italia, partecipato, realmente attuabile e uniforme tra le Regioni, lanciare la sperimentazione delle stanze del consumo, garantire l’analisi delle sostanze (drug checking), rendere residuale la carcerazione ampliando le misure alternative, definire un vincolo di spesa non inferiore al 1,5% per le politiche sulle droghe. Accenno appena alla partecipazione inconsistente, in alcuni casi al limite della propaganda politica, del Governo e, a parte la dichiarazione isolata del Ministro Orlando che ha criticato il modello penale e il timido riconoscimento della Ministra Cartabia sulla efficacia delle misure alternative alla detenzione, ha spiccato l’incomprensibile assenza del Ministro della Salute Speranza. Noi della Rete saremo impegnati e mobilitati affinché governo e forze politiche garantiscano l’attuazione delle indicazioni della Conferenza Nazionale. In attesa dei tempi istituzionali necessari per un cambio organico della legge, come segnalato dal Procuratore Generale Antimafia, va approvata la proposta di legge Magi sulla lieve entità mentre accogliamo positivamente la neutralità del Governo sul giudizio di ammissibilità del Referendum sulla cannabis annunciata dal Presidente Draghi. *Presidente Forum Droghe L’anno delle guerre dimenticate e silenziate di Alberto Negri Il Manifesto, 29 dicembre 2021 Siria e Yemen. Di Siria e Yemen ormai si tace. Raddoppio delle colonie nel Golan, raid sugli Houthi: è il Patto d’Abramo tra Israele e Arabia saudita benedetto da Trump e ora da Biden. Se non fosse per il Papa che ha ricordato le tragedie della Siria e dello Yemen qui nessuno ne parlerebbe più. Eppure si tratta di “guerre parallele”. Da una parte, nella penisola arabica, l’Arabia saudita si presenta come leader di una coalizione militare che difende il “legittimo” governo yemenita, un’accozzaglia di fantocci in mano a Riad che vorrebbe eliminare gli Houthi alleati dell’Iran. Dall’altra c’è lo stato ebraico che approfittando del conflitto siriano ha deciso di raddoppiare gli insediamenti nel Golan occupato nel 1967. Il tutto naturalmente con il silenzio complice dell’Unione europea che blatera di politica estera e di difesa comuni - e persino di una forza militare autonoma dalla Nato - quando non ha neppure un pensiero autonomo che sappia definire quale posto riveste, non si dice nel mondo, ma neppure alle porte di casa. I leader europei oggi offrono uno spettacolo indecente: non hanno mai nulla da dire di minimamente incisivo. In particolare l’Italia, acquattata nella cuccia dell’Alleanza Atlantica come un cane da pagliaio il cui emblema sublime è un ministro degli Esteri inesistente. Ma sarebbe ingiusto prendersela con una persona. È l’intero sistema dei partiti italiani che ormai non conta nulla, altro che sovranisti: o forse ci siamo dimenticati del segretario del Pd Enrico Letta che insieme a Salvini e a Tajani va sul palco del ghetto ebraico di Roma a dimostrare a favore di Israele che bombarda Gaza? È questa gente inutile che si prepara a eleggere il prossimo inquilino del Quirinale, a dimostrazione che nulla avviene per caso. Siamo già tutti d’accordo sul copione. Essenziale ovviamente è il beneplacito degli Stati Uniti. Non solo quelli di Trump - che riconobbero l’annessione del Golan oltre che di Gerusalemme capitale dello stato ebraico - ma anche di Biden che vede nel patto di Abramo tra gli arabi e Israele la soluzione “ideale” ai guai del Medio Oriente e del Mediterraneo. Si tratta di una politica estera di rapina che intende legittimare quello che non viene riconosciuto da nessuna risoluzione Onu e dal diritto internazionale. Non è vero che la Siria e lo Yemen sono guerre dimenticate. In realtà si vorrebbe che “dimenticassimo” ogni principio sulla legittima autodeterminazione dei popoli per assegnare a Israele e all’Arabia saudita pezzi di mondo che non gli appartengono in nome di una presunta stabilità internazionale. Un’idea che forse gli Usa e i loro alleati accarezzano anche in Libia, dove il caos istituzionale è il maggiore alleato per una spartizione del Paese cominciata nel 2011 quando la Francia decise di bombardare Gheddafi seguita da Stati Uniti e Gran Bretagna. Non è forse del tutto casuale che mentre in Libia si preparavano le elezioni e il loro fallimento, il figlio del generale Khalifa Haftar sia andato in Israele facendo balenare che sarebbe stato disposto, in caso di vittoria elettorale, a far entrare la Libia, o quel che resta dello stato libico, nel Patto di Abramo. Quale è l’obiettivo? Quello di fare uno spezzatino del Medio Oriente e degli stati che si affacciano sul Mediterraneo lasciando che sia lo stato ebraico con i suoi alleati a menare le danze. Non è una storia di oggi ma è cominciata tempo fa quando gli Stati Uniti decisero di attaccare nel 2003 l’Iraq di Saddam Hussein. Una guerra nata da una menzogna, ovvero che il regime baathista possedesse armi di distruzione di massa. Ricordarlo non è secondario. Perché è su quella menzogna che si è fondata la disgregazione del Medio Oriente, degli stati della regione e di interi popoli. Non si diceva, in fondo, che il colonialismo anglo-francese aveva creato stati con confini artificiali? Ed ecco la soluzione ai problemi di un secolo: basta distruggerli questi stati in modo che tra qualche decennio di questi Paesi non restino che dei moncherini, come gli stati balcanici dopo la fine della Jugoslavia. Tutto deve essere archiviato in un mondo di ex: l’ex Iraq, l’ex Siria, l’ex Libia. Quelli che non si devono assolutamente toccare sono dittatori, monarchi assoluti e anti-democratici che acquistano gli armamenti italiani e occidentali. Altrimenti dove andiamo a finire? Anzi a costoro dobbiamo lasciare spazio nelle guerre locali come lo Yemen per provare l’efficacia di questi armamenti contro la popolazione locale e i civili. Sotto questo profilo l’Afghanistan quest’anno è stata una formidabile lezione per tutti. Basta leggere sul New Yorker la ricostruzione di come gli americani hanno liquidato mesi prima della sua caduta il governo di Ghani, che fastidiosamente reclamava un ruolo nella trattativa di Doha con i talebani. Non si disturba il manovratore. E la lezione è stata brutale: l’Afghanistan senza l’aviazione e i missili americani e della Nato era una semplice espressione geografica. E al diavolo anche tutte le chiacchiere sulla democrazia e i diritti umani o delle donne. Oggi l’Afghanistan dei talebani è un territorio alla fame, cancellato dalla mappa. In questo quadro la Turchia e la Russia sono funzionali a una carta politica di popoli senza stato e senza diritti dove prendersi pezzi di territori siriani o libici. In Siria Ankara e Mosca manovrano per convincere i curdi a sottomettersi a Damasco rinunciando alla loro autonomia. In cambio di una Siria sotto sanzioni e senza una reale capacità di ripresa che ha come unica speranza di accordarsi con quelle monarchie del Golfo che insieme a Erdogan volevano distruggere il regime di Assad puntando sull’esercito dei jihadisti. Ora Assad deve restare in piedi ma deve essere asservito anche lui al Patto di Abramo tra Israele e le altre dittature arabe. Ecco perché nessuno dice più una parola contro di lui ma arrivano i bombardamenti criminali israeliani a Latakia. Per favore, non disturbate il manovratore. Insediamenti illegali, bombardamenti su cui tutti tacciono. Di Medio Oriente sentiremo non solo parlare nel 2022. Libano, la crisi e l’iperinflazione esasperano le diseguaglianze di Davide Lerner Il Domani, 29 dicembre 2021 Circa l’80 per cento della popolazione vive ormai in povertà. Pochi giorni prima di Natale il governatore della Banca Centrale Riad Salameh ha ammesso, dopo due anni di ipersvalutazione, che “il tasso di cambio fisso non è più realistico”. L’economia si sposta sempre più nel settore informale, visto che i circuiti ufficiali devono attenersi ai tassi di cambio della banca centrale, ormai del tutto estranei all’economia reale. Beirut, Libano. L’importante è arrivare in aeroporto con soldi in contanti. Dollari, euro, poco importa. Perché a ritirare banconote in valuta locale direttamente ai bancomat del paese si è soggetti al tasso di cambio ufficiale, secondo cui un dollaro vale 1.507 lire libanesi (un euro, 1.700). In realtà negli ultimi due anni la lira si è quasi del tutto svuotata del proprio valore, e ormai un dollaro viene scambiato sul mercato informale per circa 29mila lire, perfino per 30mila. Ciò significa che un visitatore che ritirasse dai bancomat o pagasse con una carta di credito, essendo i circuiti ufficiali soggetti al tasso di cambio fisso ancora formalmente rispettato dalla banca centrale, si ritroverebbe con banconote che sul mercato reale valgono un ventesimo del proprio valore ufficiale. Oppure pagherebbe venti volte la cifra dovuta, nel caso di un pagamento con la carta. Ecco allora che spesso chi arriva sbarca con le tasche piene di contanti, pronto ad aiutare amici e parenti residenti in Libano. I cambiavalute illegali si aggirano per tutti i quartieri della città, pronti a rifornire libanesi e stranieri con sacchettoni di lire locali. Basta un messaggio su WhatsApp, e in pochi minuti si presentano sull’uscio. I residenti della capitale dicono che, fino all’estate scorsa, mantenevano una parvenza di segretezza, cioè erano restii a cambiare il denaro in bella vista in mezzo alla strada. Ma quella che all’inizio della crisi poteva sembrare un’anomalia, ormai è la regola di tutti i giorni. E nessuno fa più finta di doversi nascondere. Arrivano, annunciano il tasso di cambio del giorno, e scaricano pacchi di banconote libanesi, milioni e milioni che valgono poche decine di dollari. Ogni giorno il valore cala ancora di più: 25mila, 26mila, 27mila, 29mila. Le autorità giudiziarie se la sono presa con dei giornali online che seguono l’andamento del tasso di cambio informale: sarebbero colpevoli, secondo il governo, di alimentare l’inflazione e la svalutazione. Solo pochi giorni prima di Natale il governatore della banca centrale, Riad Salameh, ha ammesso in un’intervista che il tasso di cambio fisso “non è più realistico”. I libanesi se n’erano già accorti da un pezzo. Inevitabilmente, l’inflazione segue a ruota la svalutazione, adeguandosi con qualche tempo di ritardo, tanto più che il Libano è notoriamente un paese importatore. In ottobre l’inflazione ha raggiunto il 174 per cento rispetto all’anno prima - nel dettaglio più 304 per cento per il cibo, più 508 per cento per i trasporti, più 271 per cento per i servizi. Da qui il divario sempre più allargato fra chi è pagato in dollari, e ha modo di procurarsene dall’estero, e chi invece guadagna e vive soltanto di valuta nazionale. Cioè l’80 per cento della popolazione che ormai vive in povertà. I primi, la minoranza che vive nel Libano dei dollari, sono in grado di rimanere sempre sulla cresta dell’onda. Cambiano i dollari progressivamente, rispetto ai tassi del giorno sul mercato informale, così da rimanere immuni alla svalutazione. Siccome l’inflazione, per quanto fuori controllo, viene trainata dalla perdita di valore della moneta, questo gruppo di libanesi e residenti stranieri vede il proprio potere d’acquisto irrobustirsi. Gli altri, la stragrande maggioranza, patiscono la velocissima svalutazione della moneta. Ecco allora che i dipendenti di Nazioni Unite e organizzazioni internazionali, che ricevono i pagamenti in dollari, oggi viaggiano in taxi spendendo l’equivalente di un euro, mangiano in ristoranti di lusso spendendone una decina, fanno la spesa con molto meno di quanto servisse prima della crisi. Di contro, i loro taxisti hanno storie come quella di George, libanese sulla quarantina, che è stato nell’esercito 21 anni prima di lasciare perché il suo stipendio non veniva adeguato nel suo valore nominale, e dunque non valeva più nulla. “Ci vorrebbero dieci milioni al mese per sopravvivere, l’equivalente di 300 dollari”, dice. “Se va bene da taxista ne faccio un paio”. I proprietari del giornale Orient Le Jour, una facoltosa famiglia di estrazione maronita, hanno da poco deciso di pagare i giornalisti in euro direttamente in Francia. Allo stesso modo, i senatori della politica libanese, perlopiù milionari, si prendono cura dei loro affiliati. “Noi non sentiamo il tracollo valutario, Joumblatt è generoso e si prende cura di noi”, dice a Beirut un bodyguard del leader druso Walid Joumblatt. Chi è privilegiato è anche meglio equipaggiato per affrontare le altre sfide della crisi, come i continui blackout di elettricità, che per motivi di pressione fanno sì che anche l’acqua esca dai rubinetti a singhiozzo. Si procurano batterie o si attaccano ai generatori di quartiere, gestiti da organizzazioni private. Verso metà mese la banca centrale libanese, che applica severe misure di controllo dei capitali per evitare la fuga dei pochi dollari rimasti, ha adeguato leggermente il tasso di cambio a cui permette di ritirare lire da conti libanesi denominati in dollari. Chi ha dollari in un conto libanese può prelevare lire (non dollari, per carità) al tasso di cambio di un dollaro per 8.000 lire, non più 3.900, perdendo cioè “solo” due terzi del valore rispetto a quello del mercato reale. In gergo libanese, i dollari bloccati nelle banche nazionali sono detti “lollards”, dall’inglese “dollari che fanno ridere”. Ma la verità è che a ridere è soltanto un gruppo di pochi privilegiati. Intanto il ministro dell’Interno libanese, Bassam Mawlawi, ha confermato che le elezioni parlamentari si terranno il prossimo 15 maggio. Myanmar, il mondo rimane inorridito dalla strage dei civili di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 29 dicembre 2021 La denuncia di “Save the children”: “Masacrati anche i bambini e gli operatori umanitari”. È stata definita la strage della vigilia di Natale, il massacro avvenuto in Myanmar (l’ex Birmania) venerdì scorso quando le truppe della giunta militare salita al potere, a seguito di un colpo di stato a febbraio, hanno ucciso almeno 35 persone lungo un’autostrada nello stato di Kayah. L’eccidio è stato attribuito ai militari dalle autoproclamate Forze di Difesa Popolare sorte in tutto il paese per combattere la giunta trascinando i militari in una sanguinosa situazione di stallo di scontri e rappresaglie. Secondo quanto è stato raccontato ai media internazionali dai militanti della Karenni National Defence Force, i morti non erano membri della milizia ma solo civili che cercavano rifugio dal conflitto. ‘ Siamo rimasti così scioccati nel vedere che tutti i cadaveri erano di dimensioni diverse, compresi bambini, donne e anziani’, ha riferito un comandante del gruppo all’agenzia di stampa Reuters. Al momento i militari hanno negato la responsabilità del massacro ma in qualche modo hanno ammesso che nella zona erano in corso da giorno dei combattimenti. Un portavoce dell’esercito del Myanmar ha dichiarato infatti che scontri erano in corso a Hpruso venerdì dopo che le truppe avevano tentato di fermare sette auto che guidavano in un ‘modo sospetto’. Ora però sarà difficile nascondere ancora a lungo la verità perché è arrivata forte la denuncia dell’organizzazione umanitaria Save the Children che ieri ha confermato la morte di due suoi operatori coinvolti nel massacro. È stata la stessa Save the Children (900 le persone impegnate nel lavoro di assistenza in Myanmar che vive una gravwe crisi umanitaria) a raccontare che: ‘I militari hanno costretto le persone a scendere dalle loro auto, ne hanno arrestate alcune, ne hanno uccise molte e bruciato i corpi’. ‘Questa notizia è assolutamente orribile’, ha aggiunto l’amministratore delegato dell’ente benefico, Inger Ashing. ‘Siamo scossi dalla violenza perpetrata contro i civili e il nostro personale, che è dedicato agli umanitari, sostenendo milioni di bambini bisognosi in tutto il Myanmar’. Contro quanto accaduto si è levata anche la voce delle Nazioni Unite. Il sottosegretario generale per gli affari umanitari, Martin Griffiths, si è detto inorridito dai rapporti e ha chiesto al governo di condurre un’indagine. Eventualità abbastanza remota vista la natura repressiva della giunta che da quando ha preso il potere ha imposto al paese il pugno di ferro, azzerando le opposizioni politiche. Da allora, almeno 1.178 persone sono state uccise e 7.355 arrestate, accusate o condannate dopo processi sommari in un giro di vite sul dissenso tra i più brutali degli ultimi anni come ha denunciato l’Associazione di assistenza per i prigionieri politici. Le grandi purghe del regime riguardano anche personalità del mondo della cultura e dello spettacolo, alcune famosissime nell’ex Birmania. E’ il caso del modello e attore seguito da milioni di fan Paing Takhon,. Arrestato lo scorso aprile è stato recentemente condannato a tre anni di reclusione per aver partecipato alle massicce manifestazioni di protesta all’indomani del golpe e per aver scritto alcuni post sui social che attaccavano il governo militare. Inoltre aveva anche postato immagini della leader civile deposta e icona pro-democrazia, Aung San Suu Kyi, che è stata condannata a quattro anni di carcere per incitamento al dissenso e violazione delle regole del Covid- 19, il primo di una serie di verdetti che potrebbero vederla incarcerata a vita. Una sentenza che è stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale. E proprio l’ex guida della Lega Nazionale della Democrazia, vincitrice delle elezioni che hanno scatenato la reazione dei militari che accusano Suu Kyi di brogli, è ora protagonista di un processo che sta assumendo alcuni contorni surreali se non fossero tragici. La 76enne premio Nobel per la pace infatti doveva conoscere la sua sorte in merito a uno dei capi d’accusa e cioè il possesso illegale di walkie talkie. Ma il giudice lunedì scorso ha aggiornato il verdetto al 10 gennaio, senza fornire ulteriori dettagli.