“Riappropiarsi della vita”: le proposte della Commissione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 dicembre 2021 Il carcere potrebbe cambiare radicalmente volto e migliorare lo standard di detenzione, adeguandolo ai cambiamenti tecnologici, sociali e culturali, nonché alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale e delle Corti europee. Ciò potrebbe avvenire se venisse recepita la relazione finale della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario presieduta da Marco Ruotolo, consegnata mercoledì scorso alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Condividendo le indicazioni della ministra circa la necessità di adottare una strategia complessiva che agisca sulle strutture materiali, sul personale e sulla sua formazione, superando quella “disattenzione con cui per anni si è lasciato che peggiorassero le condizioni di chi si trova in carcere e di chi in carcere ogni giorno lavora”, la Commissione ha elaborato soluzioni che vertono principalmente su due fronti: il primo è l’adeguamento tecnologico per il miglioramento della qualità della vita negli istituti penitenziari, l’altro è sui interventi, anche di tipo amministrativo, per dare attuazione a disposizioni della fonte regolamentare che non hanno ricevuto ancora piena applicazione. Per quest’ultimo punto, non solo l’attuazione dei regolamenti già esistenti, ma anche al potenziamento - solo per fare un esempio - del permesso premio, quale essenziale strumento di trattamento e volàno per la concessione di più ampie misure. La Commissione parte dall’assunto che la pena, quale che sia la forma dell’espiazione, deve tendere a restaurare e a ricostruire quel legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato. Nella sintesi della relazione finale, la Commissione sottolinea che la pena carceraria deve avere l’obiettivo di re- includere, di avviare un processo potenzialmente in grado di ridurre il rischio di ricaduta nel reato. Il suo perseguimento determina il soddisfacimento non soltanto dell’interesse del reo, ma dell’intera società, rispondendo a quel bisogno di sicurezza spesso avvertito come priorità dai consociati. Perché ciò accada - evidenzia la Commissione - occorre garantire una qualità della vita non solo “decente”, ma idonea all’attivazione di un processo di autodeterminazione che possa permettere al singolo di “riappropiarsi della vita”. Occorre, in altre parole, creare condizioni di sistema che consentano finalmente di considerare la risposta di giustizia come tesa a responsabilizzare in vista del futuro, più che a porre rimedio al passato. C’è un interessante capitolo dedicato all’impiego delle tecnologie. La commissione indica di investire nella realizzazione di impianti tecnologici idonei allo svolgimento di diverse funzioni: da quella, essenziale, di miglioramento delle condizioni di sicurezza, impedendo anzitutto l’accesso di oggetti la cui disponibilità non è consentita alle persone detenute (attraverso sistemi anti- droni, metal detector fissi, body scanner) sino a quella rivolta al mantenimento dei rapporti affettivi (potenziamento dell’utilizzo delle comunicazioni a distanza) o al completamento dei percorsi di istruzione. Appare anche urgente la realizzazione di sistemi tecnologici che consentano l’individuazione e l’identificazione degli operatori nel corso delle perquisizioni, secondo una linea direttiva già indicata dal Dap in risposta ad una raccomandazione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Tecnologia utile anche per agevolare il mantenimento delle relazioni affettive come la disponibilità di telefoni cellulari (ovviamente non generalizzata). Ma anche l’ introduzione di app per la prenotazione del colloquio da parte dei familiari; incentivazione del possesso di computer per i detenuti; introduzione di servizi a pagamento (per esempio lavatrici a gettoni) come già avviene in alcuni istituti per i distributori di bevande e snack; introduzione e implementazione di sistemi (metal detector fissi e body scanner) che consentano un più efficace esercizio della funzione di controllo per impedire l’ingresso in istituto di oggetti il cui possesso non è consentito alle persone recluse. Tutto ciò aiuta anche ad alleggerire il lavoro, già pesante, degli agenti penitenziari. C’è anche il capitolo dedicato alla salute, un diritto che in carcere è un vero optional. Anche in questo caso si evidenza la necessità di implementare la tecnologia come la telemedicina. Ma anche interventi normativi come la centralità del rispetto del principio di territorialità o la riattivazione dell’attenzione sugli interventi per la riduzione del rischio suicidario e disposizioni del codice penale e del codice di procedura penale con riguardo al tema delle misure di sicurezza per infermità mentale. Non manca anche la proposta sul lavoro e formazione professionale dei detenuti. Così come la tutela dei diritti, adeguandosi all’orientamento della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione. La commissione guidata dal professor Marco Ruotolo ha fatto il suo lavoro con grande professionalità, ora tocca alla ministra Cartabia affinché tutto ciò non risulti inutile. Salute, sicurezza, studio. Per le carceri del futuro ecco un piano in 35 punti di Francesco Grignetti La Stampa, 28 dicembre 2021 La ministra Cartabia è pronta ad avviare un progetto rivoluzionario. Tante difficoltà per modernizzare una struttura ancora molto arretrata. Cambiare volto al carcere. È il sogno della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che spera tanto di lasciare una traccia duratura nei penitenziari, dove la modernità, i diritti, e la tecnologia non sono mai arrivati. Lo ha scritto in una lettera di Natale ai direttori di carcere: è essere convinta “di poter percorrere al vostro fianco un percorso di rinnovamento che giovi all’intera comunità penitenziari”. Sul tavolo, Cartabia ha un progetto rivoluzionario, figlio di una commissione che era stata insediata al ministero tre mesi fa, quando esplose il caso delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il dossier è composto di 35 capitoli che sarebbero davvero innovativi. Alcune sembrano banalità, ma non è così. Ad esempio, risistemare i bagni delle celle, per eliminare quelli a vista e alla turca, non più regolamentari. Così come l’attenzione perle detenute-madri, vietando la possibilità di partorire in carcere, e cercando di superare lo scandalo dei bambini che crescono in cella con la mamma. Tre le ipotesi: differire la pena finché il bambino non sia grandicello, oppure scontarla in un luogo apposito come una casa-famiglia protetta, o ancora, come extrema ratio, in istituti a custodia attenuata. Uno dei diritti dei detenuti più violati riguarda la salute. Uno strumento indispensabile sarebbe il fascicolo sanitario telematico di ciascun detenuto. Ma poi occorre anche un diverso rapporto tra amministrazione dei penitenziari e sanità: qualora le Asl territoriali non garantiscano i servizi necessari, il direttore generale della Asl territoriale risponda lui delle carenze. La vera svolta nella vita quotidiana dei penitenziari, però, secondo la Commissione, dovrebbe venire dalle tecnologie. La più urgente: occorre “uno stanziamento che consenta l’accelerazione dei lavori di installazione e ripristino dei sistemi di videosorveglianza, in tempi più rapidi rispetto a quelli previsti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (primo semestre 2024)”. Troppo spesso, infatti, le telecamere interne sono fuori uso e invece si sono rivelate indispensabili per monitorare quel che accade dentro gli istituti. Per migliorare poi la sicurezza, dando più strumenti alla polizia penitenziaria, servono sistemi anti-droni, metal detector fissi, body scanner. Allo stesso tempo, si deve fare maggiore uso delle comunicazioni a distanza per tenere i fili dei rapporti affettivi; usare la didattica a distanza per i percorsi di studio universitario, e anche investire sulla telemedicina con adeguate apparecchiature. E ancora. “Urgente - scrive la commissione, presieduta dal professor Marco Ruotolo - la realizzazione di sistemi tecnologici che consentano l’identificazione degli operatori nel corso delle perquisizioni”. Ci sono esperienze ottime da allargare a tutti: il sistema “Move”, in uso a Rebibbia, consente di gestire la circolazione dei detenuti dai reparti detentivi verso le varie zone dell’istituto senza aggravare i carichi di lavoro del personale, e garantendo una migliore fruizione dei servizi. Ci vorrebbe un controllo biometrico per semplificare le operazioni di accesso dei familiari che vanno ai colloqui, ma anche migliorare i video-colloqui e lasciare la scelta al detenuto, specie quello straniero, se privilegiare i colloqui a distanza rispetto a quelli in presenza. Nelle carceri dovrebbero fare ingresso le colonnine con schermo touch per le richieste e così eliminare la gestione cartacea delle varie “domandine”. Bella poi l’idea di servizi a pagamento, per esempio le lavatrici a gettoni, come già avviene in qualche caso per i distributori di bevande e snack. S’immagina insomma un carcere che assomigli più a motel chiuso che a un girone dantesco. Più civili condizioni di vita per più civili rapporti interni. I sindacati: “Nel dl festività carceri dimenticate” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 dicembre 2021 E la radicale Rita Bernardini è al 23esimo giorno di sciopero della fame. Il numero di nuovi positivi nelle carceri italiane, sia tra il personale che tra i detenuti, sale già da alcune settimane (nelle ultime due, il trend è segnato da un aumento del 35% dei casi). Ma con la contagiosità della variante Omicron, la situazione può diventare davvero problematica. Tanto più se, come denuncia il sindacato di polizia penitenziaria Uil Pa, “il decreto festività non se ne occupa affatto: niente green pass per utenza e visitatori, niente mascherine FFP2 obbligatorie; insomma, niente di niente”. Sottolinea il segretario Gennarino De Fazio che “il sovraffollamento continua a crescere e raggiunge punte del 194% a Brescia Canton Mombello, del 187% a Brindisi e del 165% a Busto Arsizio, solo per fornire alcuni dati. D’altro canto - spiega - è ovvio che i detenuti non possano costantemente indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie, non foss’altro per nutrirsi”. In questo contesto, il personale di polizia penitenziaria è costretto a comperare di tasca propria le mascherine FFP2. Dispositivo di protezione che è imposto “un po’ ovunque nei luoghi chiusi, ma non nelle carceri”. Il sindacalista auspica quindi che “l’Esecutivo, il Presidente Draghi e i Ministri Speranza e Cartabia ci ripensino e corrano immediatamente ai ripari”. Dispositivi di riduzione del rischio a parte, il problema del sovraffollamento andrebbe affrontato in modo vigoroso, soprattutto in questa fase. È quanto sostiene la radicale Rita Bernardini che ieri ha compiuto il suo 69esimo compleanno con 7 chili di meno rispetto a 22 giorni prima, quando ha cominciato uno sciopero della fame in sostegno alla lotta delle detenute del carcere torinese Le Vallette e per “l’approvazione delle proposte di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale”. “Non riesco a mangiare, sto male”. Perde 25 kg e muore in cella di Irene Famà La Stampa, 28 dicembre 2021 Aveva 28 anni. I parenti: “Inaccettabile l’archiviazione”. “Pensavano fosse uno stratagemma per avere dei benefici”. Antonio Raddi ha sempre vissuto ai margini, tra la dipendenza dalla droga da quando aveva 14 anni. E l’ansia, la depressione. E i problemi con la giustizia. Un arresto nell’agosto 2010 per una rapina a una prostituta albanese. Il carcere, una comunità, di nuovo il carcere, il 28 aprile 2019, per aver violato le prescrizioni disposte da un giudice. È lì, nella casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, che perde 25 chili in sette mesi. Diceva di non riuscire a mangiare, ma nessuno gli ha creduto. Non gli operatori che pensavano a una sorta di sciopero della fame o a uno stratagemma per “ottenere dei vantaggi”. Non il medico del penitenziario, che non si allarmò “perché il detenuto faceva attività fisica”. Raddi morirà il 30 dicembre 2019, a 28 anni, per un’infezione polmonare. Un educatore dice che ha “le stesse sembianze di Stefano Cucchi. Non so più come sollecitare un intervento”. La garante dei detenuti presenta un esposto in Procura, i suoi genitori si rivolgono agli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore. Scattano le indagini, quattro persone vengono indagate - l’allora direttore dell’assistenza sanitaria penitenziaria del “Lorusso e Cutugno” e altri tre medici del penitenziario - per omicidio e lesioni colpose. Il pm Vincenzo Pacileo chiede l’archiviazione: “Non sono stati raccolti elementi sicuri e sufficienti ad ascrivere allo staff medico della casa circondariale colpevoli omissioni idonee a cagionare o favorire il decesso. Essendo tra l’altro apparso insormontabile il dato costituito dalla scarsa collaborazione del giovane alle indicazioni dei medici”. I familiari si oppongono. Il tutto verrà discusso in una prossima udienza. Che Raddi, un ragazzone di oltre 1.80 metri, avesse perso troppo peso era sotto gli occhi di tutti: “Non riesco più a mangiare - diceva - Se mangio sto male, vomito, svengo”. Viene avvertita la direzione del carcere. “Sotto il profilo assistenziale psichiatrico e sul supporto psicologico non vi sono significative carenze” si legge nella consulenza. Che solleva “qualche dubbio sull’adeguata monitorizzazione e sulle cure offerte sotto il profilo internistico”. Complici “le invalicabili note difficoltà imposte dall’ambiente carcerario”. E la resistenza di Raddi. “La risposta” di trattamento “non fu adeguata e tempestiva”. Sarebbero serviti approfondimenti diagnostici, esami di laboratorio in ospedale. Raddi rifiuta di seguire le terapie proposte, il ricovero presso il “repartino” del carcere. La sua situazione diventa “allarmante”. Poi precipita. Il 14 dicembre viene trasferito d’urgenza all’ospedale Molinette, dove morirà sedici giorni dopo. “Non è assolutamente accettabile che mentre sei nelle mani dello Stato tu possa avere un deperimento di quelle dimensioni senza che questo imponga un intervento a salvaguardia della tua salute. Il suo non era un deperimento volontario” dice l’avvocato Vitale. Raddi non era un detenuto semplice, i suoi problemi erano innumerevoli. Ma c’è la questione giudiziaria e la questione umana: aveva bisogno di aiuto. Parla la sorella di Antonio Raddi: “Non è stato curato, voglio giustizia” di Federica Cravero La Repubblica, 28 dicembre 2021 La battaglia di Natascia Raddi: “Il suo corpo sembrava quello di Stefano Cucchi. Dicevano che facesse finta di stare male per ottenere benefici, invece aveva un’infezione che lo ha ucciso”. “A settembre mio fratello ha iniziato a scrivermi lettere in cui diceva di stare male, fisicamente e moralmente. Lettere così non me ne aveva mai mandate. Di solito quando mi scriveva dal carcere diceva che non vedeva l’ora di uscire, di salutare mio marito e i miei figli... Adesso invece chiedeva aiuto: era entrato in carcere ad aprile che pesava 80 chili, quando è morto ne pesava 49...”. Natascia ha 35 anni e due anni fa, nel dicembre 2019, ha perso suo fratello Antonio Raddi, morto a 28 anni per una sepsi mentre era detenuto al Lorusso e Cutugno. Oltre alla famiglia, anche la garante dei detenuti Monica Gallo già mesi prima aveva denunciato le condizioni in cui si trovava il giovane. Sulla vicenda la procura di Torino aveva aperto un fascicolo con quattro indagati per i quali poi ha chiesto l’archiviazione, ma ora la famiglia - assistita dagli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore - ha fatto obiezione e ha chiesto di riaprire le indagini. “Chi sta in carcere ha sbagliato ed è giusto che sconti la sua pena: nessuno dice che deve uscire, ma non deve perdere il diritto di essere curato”, denuncia la donna. Quando avete capito che suo fratello aveva gravi problemi di salute? “Ad agosto ha iniziato a non mangiare e a deperire. I miei genitori hanno capito che qualcosa non andava e hanno iniziato ad andare più assiduamente alle visite. Prima magari andavano 2-3 volte al mese, poi hanno iniziato ad andare una volta a settimana o anche due. Lui chiedeva di aiutarlo e mio padre si è esposto, ha parlato con tante persone. Anche nelle lettere a me mio fratello diceva di andare a parlare con i magistrati di sorveglianza. Ma non è servito a nulla”. Perché non si alimentava più? “Dal carcere dicevano che il fatto di non mangiare era strumentale, che lo faceva per ottenere dei benefici e che la situazione era sotto controllo. Invece era proprio lui che non riusciva a ingoiare più niente perché stava male. L’ultima volta che i miei lo hanno visto era sulla sedia a rotelle perché non si reggeva più in piedi”. Non lo stavano curando? “Non ho mai visto una cartella clinica così scarna. E pensare che lì sopra dovrebbero segnare tutto. E comunque di qualcosa avrebbero dovuto accorgersi. Bastava vederlo per capire che stava male. Persino un agente della penitenziaria un giorno, facendo un rapporto, aveva scritto di lui che non stava bene e che doveva essere monitorato. Ma nessuno lo ha fatto. Quando l’ho visto poi in ospedale, in coma, ho sollevato il lenzuolo e ho visto le costole che spuntavano, la pelle sembrava coperta da ematomi, il volto scavato... Sembrava Stefano Cucchi, anche se le loro storie sono molto diverse”. Non era mai stato ricoverato prima? “A inizio dicembre una volta era stato portato al repartino delle Molinette, dopo che era collassato in cella. Era stato lui a chiedere di essere dimesso, questo è vero, però lo aveva chiesto perché lì diceva di stare peggio che in carcere: doveva stare legato al letto, senza neanche un’ora d’aria, senza potersi fumare una sigaretta, in mezzo ai malati psichiatrici. Ma non vuol dire che non volesse essere curato”. E dopo le dimissioni? “Continuava a stare male e infatti pochi giorni dopo lo hanno ricoverato d’urgenza al Maria Vittoria. Lì lo hanno sottoposto a molti esami, lo hanno visitato diversi specialisti e alla fine hanno scoperto che aveva una gravissima infezione da klebsiella, partita dai polmoni ma che oramai aveva intaccato tutti gli organi. E alla fine è morto per shock settico dopo 17 giorni di coma. Però i medici hanno detto che una persona non si riduce così da un giorno all’altro. Questo spiega anche perché non riusciva a mangiare: perché era malato. A malapena beveva un po’ d’acqua. Ed essendo così debole il suo sistema immunitario non è riuscito a combattere la malattia. E pensare che era un ragazzo di un metro e 80 di 28 anni...”. Perché suo fratello era finito in carcere alle Vallette? “Antonio stava scontando una pena in una comunità perché aveva avuto problemi con le droghe. Gli mancava un mese alla fine, ma lui non riusciva a stare in quel posto ed è andato via. Quando poi lo hanno fermato lo hanno portato alle Vallette e alla sua pena si è aggiunta l’evasione. Per quello era ancora in cella anche se in realtà lui aveva intrapreso un percorso con il Serd e non avrebbe dovuto essere in carcere. Mi dispiace che sia finito tutto così: quando eravamo piccoli, i miei genitori lavoravano e mi sono presa io cura di lui, lo accompagnavo a scuola, andavo a prenderlo”. Cosa spera da una riapertura dell’inchiesta? “Vorrei che chi lavora in carcere capisse che chi è detenuto non deve perdere il diritto a essere curato e assistito. Non si possono far morire le persone in carcere. Certe cose di come si sta in carcere io le ho sapute dai compagni di cella di mio fratello, quando sono usciti. Mai sapute prima perché certe cose i carcerati non le dicono... Mio fratello compreso”. Colpire Sisto per fermare Cartabia di Davide Varì Il Dubbio, 28 dicembre 2021 La campagna del Fatto Quotidiano contro l’ipotesi Cartabia al Colle è iniziata con una fake sparata contro il sottosegretario Sisto. Una sorta di pizzino recapitato in casa grillina. È ufficialmente iniziata la campagna del Fatto Quotidiano contro l’ipotesi Cartabia al Colle. È iniziata con una fake piuttosto spudorata sparata contro il sottosegretario Sisto, accusato nientemeno che di essere una sorta di “piccolo Viscinski” incaricato, sotto banco, delle valutazioni di professionalità dei magistrati. Niente di più falso, naturalmente. I magistrati vengono valutati (e sempre positivamente, sic!) dal Csm, da nessun altro. Ma tanto basta al Fatto per lanciare l’accusa contro Sisto, il quale non viene presentato come sottosegretario alla Giustizia (bravo e addirittura preparato, come non se ne vedeva da tempo), ma come avvocato di Berlusconi. Il che è sufficiente a giustificare la spericolata e ardita associazione: chi vota Cartabia, vota la donna che sta delegittimando la magistratura per conto del Cavaliere. Et voilà, il gioco è fatto. E sì perché il punto è solo quello: avvisare i grillini (i veri destinatari del messaggio) che l’ascesa della ministra Cartabia al Colle va fermata con tutti i mezzi, anche attraverso attacchi trasversali conditi da qualche fake, sempre buona per la pancia del Movimento. E per il redivivo Di Battista che infatti è risorto dall’oblio accusando i suoi. “I sogni berlusconiani più oscuri si stanno via via realizzando (nel silenzio generale) grazie ad un governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle”. Insomma, il Fatto ha inviato una sorta di pizzino, un avviso recapitato in casa grillina che, temiamo, potrebbe avere qualche effetto. Costa: “Dopo un’assoluzione non si dovrebbe poter appellare una sentenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 dicembre 2021 Il deputato di Azione Enrico Costa dopo il suicidio di Angelo Burzi: “Come si può escludere il ragionevole dubbio se un Tribunale ha assolto?”. Tra le numerose reazioni al tragico suicidio di Angelo Burzi - l’ex assessore e consigliere regionale di Forza Italia, condannato a tre anni in appello, il 14 dicembre, nell’ambito del processo Rimborsopoli e uccisosi a casa sua, in piazza Castello, la sera di Natale - c’è quella dell’onorevole e responsabile giustizia di Azione Enrico Costa: era suo amico e con lui ha condiviso diversi anni nel Consiglio regionale del Piemonte. A noi dice: “Per dieci anni vieni esposto alla gogna mediatica, la tua carriera politica viene messa in discussione. Sei in un vortice che ti può disintegrare. Quanto può sopportare tutto questo una persona?”. E ancora: “Credo che le sentenze di assoluzione non dovrebbero essere appellate dalla Procura. Come si può escludere il “ragionevole dubbio” se un Tribunale ha assolto? È difficile, per chi è stato assolto in primo grado, farsi una ragione di una condanna in appello”. Onorevole Costa qual è il primo sentimento che le suscita questa vicenda così dolorosa? Sono rimasto sconvolto: non immaginavo che una persona come lui, caratterialmente molto forte, talvolta ruvida, intelligentissima, potesse arrivare ad un gesto così estremo, con una tale lucidità poi. Non oso immaginare la sofferenza che ha patito in questi lunghi anni di travaglio giudiziario. Le inchieste per qualcuno sono fatti meccanici, burocratici, ma gli indagati o imputati non sono robot senza emozioni. Molti magistrati pensano che un imputato sia un numero su un fascicolo, non una persona con una storia, con legami familiari e lavorativi, con debolezze e fragilità. Una inchiesta prima e un processo protrattasi molto tempo poi ti pongono addosso uno stigma sociale che può distruggere chiunque. In Italia il processo è già una pena, indipendentemente da come poi si concluda. E più si prolunga, più la pena è dura. Un percorso giudiziario durato dieci anni. Burzi è stato anche vittima di questo? Certamente. Per dieci anni vieni esposto alla gogna mediatica, la tua carriera politica viene messa in discussione. Sei in un vortice che ti può disintegrare. Quanto può sopportare tutto questo una persona? Inoltre la sentenza definitiva deve giungere in un termine ragionevole rispetto ai fatti. Anche se di condanna, perché deve intervenire sulla stessa persona alla quale è contestato il reato. Una condanna che arriva dopo tanti anni è più difficile da assorbire, e spesso inutile, perché tocca una persona diversa. Burzi era stato assolto in primo grado. Dovremmo ripensare alla inappellabilità da parte della Procura in questi casi? Credo che le sentenze di assoluzione non dovrebbero essere appellate dalla Procura. Come si può escludere il “ragionevole dubbio” se un Tribunale ha assolto? È difficile, per chi è stato assolto in primo grado, farsi una ragione di una condanna in appello. Voglio solo ricordare che nel gennaio del 2019, Massimo Terzi, ex presidente del Tribunale di Torino, rilasciò delle dichiarazioni con cui affermava la necessità di “costringere in modo imperativo e stringente, con una modifica di legge, le Procure a portare a processo solo gli imputati la cui colpevolezza è chiara oltre ogni ragionevole dubbio”. E aggiunse: “D’altronde se non ci sono filtri, se le udienze preliminari finiscono quasi tutte col rinvio a giudizio, i pubblici ministeri sono anche poco motivati a fare le indagini come si deve”. Ora la riforma del processo penale ha dato ragione a Terzi con una modifica normativa, ma nel frattempo Terzi si è dimesso dalla magistratura cinque anni prima del dovuto dopo che il Csm gli aveva preferito per la presidenza della Corte di appello di Milano un collega a suo giudizio con meno anzianità e titoli. Una reazione per queste posizioni non comuni all’interno della magistratura? Poi c’è un altro elemento da prendere in considerazione. Prego... A livello nazionale ci sono state diverse inchieste “Rimborsopoli” che hanno portato a giudizi diversi, regione per regione. Sulla disparità nelle sentenze non posso esprimermi non avendo letto tutte le carte, ma una cosa la possiamo dire: quando la giustizia è a macchia di leopardo è difficile farsi una ragione di una condanna. Ma quindi ci sono magistrati che lavorano bene e altri che lavorano male? La stragrande maggioranza dei magistrati è preparata e lavora silenziosamente con impegno. Ma addirittura il 99% ha una valutazione positiva dal Csm. Possibile? Questo evidenzia una totale assenza di valutazione dei meriti o dei demeriti. Le azioni disciplinari finiscono quasi tutte nel nulla. Ci sono oltre mille segnalazioni al Procuratore Generale presso la Cassazione e le archivia quasi tutte, senza rispondere a nessuno e senza far vedere gli atti. La responsabilità civile dei magistrati vede solo l’1,4% di condanne. Cosa ne pensa dell’idea di istituire una commissione parlamentare di inchiesta su Rimborsopoli per accertare ciò che è successo, lanciata da Cota? Non ho alcuna fiducia nelle commissioni di inchiesta parlamentari perché i partiti sono spesso mossi più dalle convenienze che dalle convinzioni. Vedo come si comporta la Giunta per le autorizzazioni a procedere dove, molte volte, non si analizza il dettaglio della vicenda, ma si fa prevalere la casacca politica. Pensi che Forza Italia e la Lega hanno votato contro un mio ordine del giorno che prevedeva l’intervento del Garante in caso di notizie su un’assoluzione non date con lo stesso risalto riservato a quelle dell’indagine. Guardi lo spazio che hanno dato all’assoluzione dell’ex governatore della Basilicata Marcello Pittella: poche righe. Quando era stato arrestato gli stessi giornali avevano dedicato alla notizia almeno una pagina. Politica e giustizia, sul caso Burzi l’ultimo scontro di Maurizio Tropeano La Stampa, 28 dicembre 2021 Dopo il suicidio del fondatore di Forza Italia in Piemonte sotto processo per anni nell’inchiesta Rimborsopoli. Nessuna persecuzione giudiziaria. Nessuna parzialità. In una lunga nota diffusa ieri mattina il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, ricostruisce la vicenda giudiziaria della Rimborsopoli subalpina che ha portato alla condanna di Angelo Burzi. Saluzzo spiega che i magistrati di Torino non hanno nemici (e nemmeno amici) e che e che indagini e processi hanno riguardato, negli anni, esponenti politici di differenti versanti: “Perché l’azione di questi Uffici è rigorosamente ancorata ai principi ed alle garanzie costituzionali, alla imparzialità ed alla assoluta indipendenza”. Ma poi, dopo aver espresso tristezza per il suicidio dell’ex consigliere di Forza Italia, va all’attacco delle “inaccettabili affermazioni di alcuni esponenti politici (anche passati) che hanno ritenuto di utilizzare la morte di un uomo per accuse del tutto false e contraddette dai fatti”. Nella nota del procuratore non ci sono i nomi di questi politici ma Saluzzo avverte: “Userei maggiore prudenza nel fare e veicolare affermazioni che gettano discredito e potrebbero costituire anche vilipendio dell’ordine giudiziario”. Roberto Cota, l’ex presidente del Piemonte, anche lui condannato in quel processo appello, è stato il primo a chiedere una commissione d’inchiesta per “discutere sulle ingiustizie e sulle assurdità di questi anni”. Una richiesta che continua a sostenere: “L’Italia è un Paese libero, per fortuna, e ognuno ha diritto ad esprimere la propria opinione. L’ho fatto io e l’ha fatto, legittimamente, il procuratore di Torino. Ma ci sono contenuti e, soprattutto, i toni usati che non condivido perché suonano come un avvertimento”. Cota è convinto di aver “posto delle questioni oggettive, il ricorso in appello da parte del pubblico ministero dopo un’assoluzione è inammissibile così come la durata dei processi: non si può combattere per dieci anni”. Questioni che “devono avere una risposta. I magistrati, però, applicano la legge che è votata dal Parlamento, dunque la responsabilità principale di questa situazione è solo della politica”. Ad oggi, però, la politica sembra guardare altrove anche se c’è chi, soprattutto nel centrodestra, è andato all’attacco. C’è Guido Crosetto di Fratelli d’Italia che su Twitter rilancia: “C’è gente che l’amministra solo per combattere nemici”. Ci sono Tiziana Maiolo (“giusta la commissione d’inchiesta”) e Stefania Craxi: “Spero che il prossimo presidente della Repubblica non sia silente o connivente di fronte a uno scempio che non è più tollerabile”. Anche il coordinamento piemontese di Forza Italia chiede di riflettere. Il centrosinistra tace così come i Cinque stelle. Burzi, però, oltre ad essere un liberale era anche un libertario e aveva appoggiato le battaglie dei radicali su diritti civili e giustizia. E così da Torino Silvio Viale ricorda: “Il 2022 è l’anno referendario anche sulla giustizia. Questa tragedia può essere una scossa anche per il centrosinistra”. Si muore anche così, soli e suicidi per la furia della giustizia di Tiziana Maiolo Il Riformista, 28 dicembre 2021 Angelo Burzi è la quarantaduesima vittima di Tangentopoli. Ucciso dall’ingiustizia, si è tolto la vita la notte di Natale. Come Sergio Moroni, come Gabriele Cagliari, come i quarantuno che lo hanno preceduto. Cui vanno aggiunti quelli morti di dolore e di malattia dopo la gogna giudiziaria. Ha lasciato lettere molto precise di accusa contro l’uso politico delle inchieste, non un testamento ma una rivendicazione di dignità, di quell’immagine di persona perbene che la casta in toga ha voluto togliergli di dosso. Burzi è stato uno dei fondatori di Forza Italia in Piemonte, poi capogruppo in Regione per quattro legislature, tra il 1995 e il 2010, e assessore al bilancio del governatore Enzo Ghigo. La vendetta politico-giudiziaria che lo riguarda, che si è scagliata come una bomba intrisa di moralismo su di lui come su centinaia di altri ex consiglieri e assessori di tutte le regioni d’Italia, si chiama “Rimborsopoli”. È un vero scandalo nazionale, nato su un equivoco (i fondi per i rimborsi spesa a disposizione dei gruppi regionali, come quelli parlamentari, hanno natura privatistica o pubblica?) e trasformato in una vera caccia all’uomo in ogni regione, con i consiglieri additati all’opinione pubblica come ladri del denaro pubblico e come persone prive di moralità. Angelo Burzi aveva chiesto il rimborso di 3.600 euro per un video elettorale girato nella campagna del 2010. E poi altri 27.000 euro per pagare consulenze per progetti di legge. Era denaro a disposizione dei gruppi regionali per iniziative politiche. Lui, da liberale qual era, aveva usato i fondi con parsimonia, facendone un uso politico, come previsto e ritenuto lecito dai regolamenti in quegli anni. Non sapeva, come non sapeva nessuno, che il suo comportamento sarebbe stato anni dopo ritenuto un reato, peculato. Ma un tribunale presieduto da una giudice di quei (pochi) che decidono con il codice in mano, lo aveva assolto. E con lui l’ex presidente regionale Roberto Cota. La dottoressa Silvia Bersano Begey, presidente della prima sezione penale di Torino, morta nel febbraio scorso, viene citata nelle lettere d’addio di Angelo Burzi e ricordata nei necrologi sulla Stampa dai suoi colleghi così come dagli avvocati, come “Magistrato simbolo della terzietà del giudice”. Se ne vanno sempre i migliori, potremmo banalizzare, ma sapendo che stiamo dicendo in questo caso qualcosa di vero, di reale. Dieci anni di persecuzione politico-mediatico-giudiziaria. Perché a quell’assoluzione, nell’assurdità tutta italiana, con i pm che possono ricorrere contro processi finiti con l’innocenza dell’imputato, seguirono una condanna in appello, poi una Cassazione che fa ripetere il secondo grado e infine ancora la condanna. Tre anni di carcere. Con anche le umiliazioni parallele. Perché la Corte dei conti del Piemonte, come anche quella della Lombardia e altre ancora, cioè lo stesso tribunale che aveva sempre approvato i bilanci regionali e che non aveva mai sollevato obiezioni sulle modalità di spesa dei rimborsi, si era svegliata d’improvviso dal dormiveglia, scoprendo di botto il danno materiale e anche d’immagine arrecato dai consiglieri alla stessa Regione. Cominciando a chiedere indietro i soldi spesi e a erogare condanne pecuniarie. E d’incanto anche una torma di giornalisti da quattro soldi, con la penna intrisa nell’invidia e nel rancore politico, andava spigolando tra le carte per trovare quei pochissimi (veramente pochi) che avevano esagerato, facendosi rimborsare non solo le cene elettorali ma anche qualche scappatella non politica, non solo i libri ma anche oggetti diversi. Quei pochi erano diventati l’immagine deformata di tutti. “Rimborsopoli”, proprio come la sua sorella maggiore “Tangentopoli”, è nata in gran parte nei titoli scandalistici di giornalacci, oltre che nella furia dei pubblici ministeri. “Angelo? Un innocente perseguitato per dieci anni”, ha detto la moglie dell’ex assessore Burzi. E ha ricordato quanto il marito si sia sentito umiliato, dopo la sentenza di condanna dello scorso 14 dicembre, nell’apprendere che gli sarebbe stato tolto anche il vitalizio. Non un dispiacere dovuto a problemi economici, piuttosto uno sberleffo alla Travaglio, un “tiè, così impari”, un calcio a chi è già per terra. Un po’ quel che era capitato nel 1993 al socialista Sergio Moroni, uomo politico e farmacista stimatissimo di Brescia, che d’improvviso vedeva i suoi concittadini guardarlo con sospetto, dopo che una semplice informazione di garanzia era stata strombazzata sui giornali come una pena di morte. E suicidio fu. Ricordo la voce rotta dal pianto di Giorgio Napolitano, Presidente della Camera dei deputati, mentre leggeva la lettera d’addio. Anche quella era un forte messaggio politico, e piangevamo in molti, in quell’aula. Sconvolto, allora come in seguito, l’amico e compagno di partito Paolo Pillitteri: “Eravamo amici, la sua morte è la cosa più sconvolgente accaduta in quegli anni. Dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia si sentiva respinto dalla sua città, non aveva più voglia di niente, era privo di speranza, era scomparso l’uomo forte che io conoscevo, era un uomo annientato”. Il punto è proprio questo: l’assassinio, la pena di morte. Quella che uccide la tua reputazione, prima di tutto. Perché un titolo di giornale, un’informazione di garanzia, e poi il processo e la sentenza possono annientarti. Ma quel che più uccide è il tempo che passa, lo scorrere dei giorni e degli anni, e tu intanto non puoi prendere un treno o un aereo perché, anche se prima nessuno sapeva chi tu fossi, “dopo”, dopo che la tua faccia è stata sbattuta in ogni dove, temi di esser riconosciuto e insultato. Che importa se dieci anni dopo sarai assolto? Intanto tu per prendere quell’aereo devi mascherarti con occhialoni e cappellino, e vergognarti come un colpevole anche se non sei neanche mai passato con il semaforo rosso. Angelo Burzi, come Sergio Moroni, non ha sopportato tutto questo. Ha sottratto il suo corpo, non ha voluto esser costretto a mascherarlo per farlo accettare. Si è tolto di mezzo, ha scelto la dignità di quel colpo di pistola. Angelo era veramente una persona gentile, ha telefonato ai carabinieri perché arrivassero alla sua morte prima della moglie: non voglio che mi trovi lei, ha detto agli agenti. Si è chiamato fuori. Come Gabriele Cagliari, che la moglie e i figli aveva preferito non incontrarli a San Vittore, ma che aveva tanto sperato nella scarcerazione che, secondo il suo difensore Vittorio D’Ajello, gli era stata promessa, nella forma dei domiciliari, dal pm De Pasquale. La sua lettera d’addio (“siamo come cani in un canile”, “il detenuto è una pratica da sbrigare”, “il carcere non è altro che un serraglio per animali senza testa né anima”) è un documento politico che ogni pm, che ogni giudice dovrebbe tenere sulla scrivania prima di chiedere o dare la galera. Non dimenticherò mai la cella numero 102 del quinto raggio, quello dei detenuti “comuni” e lui che, due giorni prima di darsi una morte non prevista, mi pregava di occuparmi di “quel ragazzo del Ghana”. Lui sperava almeno di poter andare a casa, e aveva familiari e avvocati. L’altro non aveva niente. Due giorni dopo lui non c’era più. Non ricordo, nel corso di questi trent’anni, di aver mai sentito qualcuno di quei pubblici ministeri di Mani Pulite, esprimere parole di cordoglio, di dispiacere per quelle quarantuno persone che si sono tolte la vita, né per quelle che sono morte d’infarto o di tumore per l’ansia o il desiderio inconscio di completare la distruzione del proprio corpo, iniziata dal cinismo di pm e giornalisti. Ricordo solo, purtroppo, quel che disse un giorno uno di loro, il procuratore Gerardo D’Ambrosio, alla notizia dell’ennesimo suicidio: “Vuol dire che c’è ancora qualcuno che ha il senso dell’onore”. Peccato che non sia una virtù di certi magistrati. La giustizia non è mai vendetta. A lezione da Desmond Tutu di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 28 dicembre 2021 La Commissione verità e riconciliazione inchiodò tutti i responsabili dell’Apartheid. Ma in cambio delle pubbliche confessioni rinunciò a perseguirli penalmente. “In cambio della verità avrete il perdono”, disse nel 1995 Desmond Tutu ai vecchi gerarchi e alti funzionari segregazionisti. L’arcivescovo sudafricano, paladino della lotta contro il regime dell’Apartheid, premio Nobel per la pace, presiedeva allora la Commissione verità e riconciliazione per volere del suo amico Nelson Mandela che l’anno precedente era diventato capo dello Stato. Una scelta precisa, in opposizione al volere di molti dirigenti dell’Anc che volevano soltanto bere il calice della vendetta. Se la verità sui crimini commessi nei confronti della maggioranza nera era una necessità storica e civile per il Paese, l’altro pilastro del nuovo Sudafrica doveva essere la riconciliazione. Bisognava cioè interrompere il circolo vizioso delle rappresaglie e delle faide, ritrovare un baricentro morale che impedisse nuovi conflitti in una nazione lacerata da decenni di violenze e soprusi. La Commissione in cinque anni di lavoro ha ascoltato più di trentamila testimoni tra cui molti responsabili di crimini politici e razziali commessi tra il marzo 1960 e maggio 1994: le confessioni e le ammissioni di colpa furono migliaia in quello che un giornale sudafricano definì “il grande confessionale del principe della compassione”. Il principe era lui, Demsond Tutu, prete anglicano di famiglia metodista dai ferrei principi e dal carisma incommensurabile, Al contrario di Norimberga, dove i dignitari del Terzo reich vennero o impiccati o condannati a lunghissime pene in continuità con il clima lugubre della Seconda guerra mondiale, la Commissione di Tutu è stata l’esatto contrario: un atto di contrizione collettiva. E a differenza dei vari Goebbels, Hesse e Ribentro che non rinunciarono mai al fanatico vincolo con il nazionalsocialismo, nemmeno davanti alla forca o all’ergastolo, il pentimento pubblico dei notabili afrikaaner, (uomini politici, comandanti militari e di polizia), in particolare dell’ex ministro della Difesa Magnus Malan e del famigerato Wouter Basson (il “dottor Mengele” dell’Apartheid) al di là di quanto sia stato sincero o interessato, ha permesso di costruire una memoria condivisa. Ma anche di stabilire inequivocabilmente chi stava dalla parte giusta e chi da quella sbagliata della Storia. Rovesciando la logica vessatoria del “tribunale dei vincitori” Tutu è riuscito a disattivare i sentimenti di vendetta di milioni di sudafricani neri, spiegando loro che la giustizia non è una rappresaglia delle vittime. Ci furono peraltro diverse assoluzioni, alcune per mancanza di prove, altre per mera obbedienza ai principi gerarchici, altre ancora per non aver commesso il reato, come è fisiologico che sia nei processi di massa. Anche alcuni esponenti dei movimenti di liberazione e anti- Apartheid hanno ammesso i loro crimini, gli atti di terrorismo che hanno coinvolto civili innocenti come l’autobomba di Pretoria del 1983 (20 morti e 200 feriti) o il massacro alla chiesa di S. James nel 1993 (11 morti e 60 feriti). I lavori della Commissione terminano nel rapporto finale del 29 ottobre 1998. Qualche anno dopo Tutu scriverà che quella grande opera di verità e riconciliazione pur essendo stata “imperfetta, insufficiente, non esaustiva”, ha offerto al Sudafrica un futuro non condizionato dalle faide politiche e razziali, dimostrando che il principio cristiano del perdono può e deve conciliarsi con lo Stato di diritto di ispirazione liberale: “Nessuno deve dire che il perdono è impossibile anche di fronte alle peggiori atrocità. Durante le testimonianze davanti alla Commissione ho assistito a scene stupefacenti, che hanno del miracoloso, ho visto vittime che avevano sofferto in modo terribile che perdonavano pubblicamente i loro vecchi carnefici. Per questo non bisogna mai scommettere sull’odio, noi non siamo fatti per odiare, ma per perdonare”. Tutu, giustizia e riconciliazione di Luigi Manconi La Stampa, 28 dicembre 2021 L’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, morto a 90 anni il giorno di Natale, ha tradotto in prassi esemplare una delle più fertili invenzioni filosofico-giuridiche del ‘900: la giustizia riparativa. Si tratta di quella forma di applicazione del diritto che mira a suturare la ferita determinata nelle relazioni sociali dalla commissione di un reato; e che non si limita a sanzionare la lesione inferta, ma opera per curarla. Si basa, pertanto, sulla responsabilizzazione dell’autore del reato nei confronti della parte offesa: e, di conseguenza, sull’esigenza di porre rimedio al danno inflitto attraverso la “riparazione” nei confronti della vittima e della collettività. In modo tale che il reo possa dimostrare di essere altro e piú rispetto al reato commesso, così che non sia immobilizzato per sempre nel suo crimine. Il concetto nasce nel Nordamerica già negli anni ‘70 e trova le sue prime concrete applicazioni in quei paesi. Ma è la Commissione per la verità e la riconciliazione nel Sudafrica del dopo-apartheid che ne costituisce la più importante realizzazione: sia per il grande numero di persone coinvolte sia per il fatto di operare al termine di una crudele guerra civile. E perché la Commissione mirava a ricomporre una forma di unità nazionale dopo una frattura talmente profonda da apparire irreparabile, e dopo sofferenze tanto atroci da essere percepite come non rimarginabili. La Commissione mise vittime e carnefici le une di fronte agli altri, senza mai confondere i rispettivi ruoli e solo dopo che i responsabili avevano riconosciuto le proprie colpe. Eppure, il confronto, certo assai doloroso, consentì di andare alle radici delle cause individuali e collettive, soggettive e sociali delle politiche dell’odio. E permise una qualche proficua interazione tra chi aveva inflitto il dolore e chi l’aveva subito, rispondendo a una pulsione tanto irresistibile quanto rimossa. Quella della vittima che si chiede perché mai sia stato il bersaglio dell’aggressione; e quella del colpevole che si interroga su come sia giunto a oltrepassare il limite estremo. Può sembrare un salto spericolato, ma - a ben vedere - sono i medesimi dilemmi che hanno tormentato i rapporti, non così infrequenti, tra vittime e carnefici negli anni successivi alla fine del terrorismo in Italia. Se ne trova una testimonianza letterariamente potente e straziante, sotto il profilo emotivo e culturale, nel magnifico “Libro dell’incontro”, curato da Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, pubblicato dal Saggiatore nel 2015. Esperienze positive in tal senso, pur con limiti talvolta drammatici, sono state anche quelle del Ruanda, dell’Irlanda del Nord, dei Paesi Baschi (si veda il bel romanzo “Patria” di Fernando Aramburu); e, poi, il capitolo così complesso delle relazioni tra famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso un parente nel corso di quel conflitto. Si tratta di un’idea di giustizia che nulla ha di utopico o di profetico: è al contrario un esperimento, per quanto gracile, intelligente e razionale, che affida alla vittima un ruolo di protagonista, sottraendola a due esiti entrambi regressivi: quello del testimone muto del proprio eterno dolore e quello del giudice ultimo, al quale si chiede di indicare l’entità della pena, di valutare l’equità della sentenza, di concedere il perdono o di esigere la vendetta. In entrambi i casi, si torna a una concezione tribale della giustizia, che nega la terzietà incondizionata del giudice, come voluto dal diritto moderno. Con la giustizia riparativa, la vittima può diventare la parte offesa che ricompone, insieme al proprio dolore, la lacerazione inferta al corpo sociale. Finalmente vittime e carnefici si guardarono negli occhi di Mons. Vincenzo Paglia Il Riformista, 28 dicembre 2021 Desmond Tutu è morto il giorno di Santo Stefano, il primo martire cristiano che la Chiesa ha voluto ricordare il giorno dopo la nascita di Gesù. L’uno scendeva in terra e l’altro saliva al cielo. Tutu è un “martire” (vuol dire “dare la vita”) di questo legame tra cielo e terra. Ricordo bene la sua visita alla Comunità di Sant’Egidio. Era il 26 maggio del 1988, all’indomani del conferimento del Nobel per la Pace. Era già venuto una prima volta a trovarci nel 1985. Sentimmo la forza della sua profezia evangelica che diveniva forza di cambiamento nella storia: un messaggio profondamente umano e religioso che oggi viene consegnata alla storia: no alla rassegnazione alla violenza, sì ad una giustizia riparatrice e di riconciliazione, capace di superare la vendetta e di cambiare la storia guardandosi negli occhi, vittime e carnefici. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione, avviata in Sudafrica per superare il trauma collettivo dell’apartheid resta un esempio. Non per dire che è facile. Ma per affermare che è possibile. Una giustizia senza punizioni, ma con il primato della verità e del perdono, i due binari fondamentali di una visione che cambia la storia. È una lezione che dovremmo riscoprire nei nostri giorni segnati da una violenza risorgente e dall’aggravarsi del fossato delle ingiustizie sociali, economiche, sanitarie. La visita di Tutu a Sant’Egidio avvenne poco prima della morte di Jerry Masslo nel 1989, un giovane profugo sudafricano arrivato in Italia alla ricerca di un futuro migliore, stroncato però da una morte violenta. Fu ucciso. La drammatica storia di questo giovane sudafricano suscitò un forte dibattito pubblico. Era la prima triste avvisaglia di ciò che sarebbe poi avvenuto circa la vicenda dei migranti. Sono passati 32 anni e i problemi dell’immigrazione, dell’ingiustizia, della disperazione, sono ancora tutti aperti e ci danno la misura di quanta strada dobbiamo percorrere. I testimoni - e tra questi Desmond Tutu - ci aiutano a non fermarci. Tutu ha dato la vita per il Vangelo della pace e della dignità di ogni uomo. In questo è un vero e proprio “martire”, ossia testimone. La sua morte lo pone più in alto di noi tutti sia per non perderlo di vista ma soprattutto per raccogliere la sua fiaccola. E poter fare così anche noi la nostra parte. Ci sono luoghi nel mondo nei quali si cerca di realizzare il “metodo” avviato da Desmond Tutu in Sudafrica. Insomma è possibile fare giustizia senza punizione e senza vendetta. Si chiamano Commissioni Verità e Giustizia. La “verità” sta al centro di ogni “riconciliazione”: non occultamenti politici e non confessioni come moneta di scambio per amnistie o riduzioni di pena. E poi le audizioni: tutte pubbliche con accusati ed accusatori, vittime e carnefici, l’uno di fronte all’altro. È una vera e propria rivoluzione umana. Così si realizza la Giustizia. In Sudafrica fu incredibile la reazione, sino ad una sorta di catarsi collettiva. Il Rapporto finale - una pubblicazione monumentale - è ancora oggi consultabile on line. Desmond Tutu resta una luce che la morte non spegne. Brilla per noi la sua profonda umanità e la chiara fede evangelica: ha reso possibile ciò che si riteneva - e molti purtroppo lo ritengono ancora - impossibile. Solo Verità e Perdono scardinando in radice la violenza. È la grande eredità che Desmond Tutu ci lascia. Guai a sprecarla. Bene farla fruttare: è la via per una globalizzazione a misura umana. Non è una utopia irrealizzabile. È, invece, un miracolo a portata di mano. È come quel piccolo seme evangelico che sposta le montagne. Ascoli. Niente mascherina obbligatoria nel carcere dove è in atto un focolaio di Luigi Miozzi Corriere Adriatico, 28 dicembre 2021 Nel carcere di Marino del Tronto è in atto un focolaio Covid-19 che ha colpito sia appartenenti al corpo di Polizia penitenziaria che detenuti. Eppure nell’ultimo non c’è nessun accenno alla sicurezza nelle carceri. “In questo delicatissimo momento il personale di polizia penitenziaria è totalmente allo sbaraglio poiché non solo privo di idonei dispositivi di protezione ma allo stesso tempo senza linee guida necessarie ad affrontare ogni singolo turno di servizio nelle zone rosse” denunciano i sindacati che si sono rivolti anche al prefetto. I sindacati segnalano la disorganizzazione si evince anche dalla mancanza di avvisi e circolari che dovrebbero delucidare sui comportamenti da assumere. “Non vi sono luoghi per la vestizione e svestizione dei camici protettivi, non vi sono nemmeno indicazioni per le procedure di vestizione e svestizione degli stessi, non vi sono siti definiti per il deposito dei “rifiuti speciali” che dovrebbero essere chiari per ogni postazione di servizio allo scopo di limitare la contaminazione biologica, non vi è un sufficiente screening del personale di polizia penitenziaria nonostante il costante contatto con ristretti positivi accertati, non vi sono in senso generale tabelle di consegna che doverosamente dovrebbero regolamentare il servizio in questo delicatissimo periodo di pandemia”. Inoltre è bene ricordare che nonostante la situazione nella quale versa il carcere di Ascoli lo stesso risulta ancora senza il comandante poiché quest’ultimo risulta essere ancora impiegato in missione presso la Casa Circondariale di Foggia. I sindacati, pertanto, chiedono un solerte e risolutivo intervento del Provveditorato per le regioni Emilia Romagna e Marche e si rappresenta tuttavia che si da mandato all’avvocato in indirizzo per l’avvio delle azioni legali”. “Inizialmente pensavamo a una dimenticanza ma dopo aver constatato direttamente dal testo pubblicato in Gazzetta ufficiale che il decreto festività non considera affatto le carceri, restiamo sgomenti ed esprimiamo viva preoccupazione” dichiara Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “A fronte del dilagare, complice verosimilmente anche la variante Omicron, dei contagi da Covid-19 nel Paese e, come sempre accade, della consequenziale crescita sostenuta dei casi di positività nelle carceri, luogo chiuso per definizione, ma pure sovraffollato e nel quale gli assembramenti sono istituzionalizzati, il decreto festività non se ne occupa affatto; niente green pass per utenza e visitatori, niente mascherine FFP2 obbligatorie; insomma, niente di niente. Tutto ciò è inaccettabile - conclude De Fazio - la polizia penitenziaria non può essere considerata carne da macello. Qualcuno ci dovrebbe spiegare perché si impongono le mascherine FFP2 obbligatorie ma non nelle carceri”. Pontremoli (Ms). “Abolire le carceri minorili: non è qui che si rieducano i giovani” cittadellaspezia.com, 28 dicembre 2021 Una delegazione del partito si è recata nella struttura lunigianese nell’ambito della campagna per l’abolizione definitiva delle carceri minorili in Italia promossa da Don Ettore Cannavera. Nella mattina del 24 dicembre una delegazione del Partito Radicale composta da Angelo Chiavarini, Stefano Petrella e gli avvocati Luca Robustelli e Davide De Bartolo, si è recata in visita presso l’Istituto Penitenziario Femminile per Minori di Pontremoli. Un appuntamento che ha chiuso la serie di 17 visite, svoltesi nelle giornate tra il 15 e il 24 dicembre, presso tutte le 17 carceri minorili ancora esistenti nel nostro paese (Ferrante Aporti a Torino, Beccaria a Milano, il Malaspina a Palermo, Nisida, Casal del Marmo e altri) dove si trovano ormai non più di 390 ragazzi/e detenuti, di cui il 40% ha meno di 18 anni e i restanti scontano (fino ai 25 anni) la pena residua di reati commessi in età minore. Le visite si sono tenute nell’ambito della campagna per l’abolizione definitiva delle carceri minorili in Italia promossa da Don Ettore Cannavera (già cappellano del Carcere Minorile di Quartucciu e fondatore della Comunità La Collina) e dal Partito Radicale, a sostegno della quale si può firmare un appello (al link indicato sotto sul sito del PR). L’obiettivo è quello di rendere possibile la reale rieducazione dei minori che “non può avvenire all’interno di strutture di reclusione e di far scontare la pena in un contesto diverso che possa favorirla”. “La Liguria da molti anni non ne ha più una - fanno sapere dal Partito Radicale - Pontremoli è una piccola struttura (soltanto 16 posti la sua capienza) in passato utilizzata come carcere per adulti e trasformata nel 2010 in Istituto Penitenziario Minorile Femminile, l’unico di questo genere ancora esistente in Europa, destinato ad accogliere ragazze provenienti dalle Regioni del Nord Italia dopo la chiusura delle sezioni femminili del Beccaria e del Ferrante Aporti. Soltanto due le detenute presenti, a conferma di una funzione residuale di simili strutture, ma la media nel primo semestre del 2021 è stata di 9 presenze. Segnaliamo inoltre l’iniziativa di Rita Bernardini, in sciopero della fame insieme ad altri militanti radicali per chiedere al Governo e al Parlamento misure urgenti atte a riportare nella legalità e nel rispetto di quanto stabilito dall’articolo 27 della Costituzione le carceri del nostro paese, a partire dalle due proposte di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata ordinaria e speciale”. “Quella legalità e quel rispetto della Costituzione tra sovraffollamento, aggressioni, carenze di assistenza psichiatrica ed episodi tragici (come i due accaduti di recente a Sanremo) - chiudono dal partito - mancano da tempo nelle carceri per adulti della Liguria, dove il Consiglio regionale continua da un anno e mezzo ad essere incapace di nominare il Garante dei Detenuti, ma la politica locale (e in particolare il Pd) è capace di progettare nuovi istituti in località lontane dall’abitato e disagevoli e di proporre per il nuovo Carcere di Savona l’area ex-Acna di Cengio ancora carica di veleni e di rifiuti tossici che la “bonifica” ha mantenuto in loco”. Benevento. Il Garante Ciambriello visita il carcere: delocalizzare l’articolazione psichiatrica ilvaglio.it, 28 dicembre 2021 Il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, prof. Samuele Ciambriello, stamattina ha fatto visita alla Casa Circondariale di Benevento soffermandosi, in particolare, con i detenuti ristretti presso la sezione dell’articolazione mentale. L’istituto beneventano, alla data odierna, conta 365 persone ristrette, di cui 44 donne. Il Garante - ricorda la nota diffusa alla stampa - prima di iniziare la visita ha incontrato Francesco Pedicini, presidente della cooperativa Ncis (Nuova cooperativa integrazione sociale) che opera nel campo sociale attraverso lo svolgimento di attività diverse finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Per rafforzare lo scambio mutualistico, nella compagine associativa sono state iscritte 12 detenute che, oltre ad imparare la cultura del lavoro, seguono dei corsi di formazione di auto-imprenditorialità. Ciambriello ha espresso particolare riconoscimento al Presidente: “Ho avuto modo di apprezzare il lavoro di queste donne recluse incontrandole da vicino più volte e l’alto valore di inclusione sociale portato avanti dalla cooperativa, che ha anche un’unita operativa a Foglianise”. Il presidente Pedicini ha donato al garante un presepe di canapa realizzato dalle detenute dell’istituto beneventano. Dopo aver incontrato individualmente alcuni detenuti, accompagnato dalla Vicecomandante, dott.ssa Alessandra Iandiorio, e da altri ispettori della polizia penitenziaria si è recato presso il IV piano dell’istituto dove è ubriacata la sezione dell’articolazione psichiatrica; “collocazione, per vero, infelice per quanti vivono già una situazione di disagio psichico che sarebbe sicuramente confortata da un contatto più stretto con spazi verdi. A tacere la contiguità con una sezione semplice, circostanza foriera di continui scontri e collisioni”. All’ingresso presso la sezione ha avuto modo di confrontarsi con le poche figure specialistiche presenti in sezione, una psicologa, un infermiere e due oss, e di valutare la fatiscenza degli spazi in cui dovrebbero svolgersi le attività di riabilitazione. “A sostegno dell’inadeguatezza della struttura a realizzare la funzione per cui è stata pensata dal legislatore sicuramente è da richiamare l’assenza della figura dello psichiatra che, come da contratto con l’Asl di competenza, non ha un rapporto di lavoro a tempo pieno ma limitato a tre giorni a settimana dunque incapace di far fronte alle esigenze peculiari della sezione”, ha dichiarato Ciambriello, su questo punto intervenuto con particolare forza per sollecitare un pronto intervento della medicina penitenziaria affinché non solo si faccia carico di prevedere almeno uno psichiatra che quotidianamente possa essere al servizio dell’articolazione mentale. “È forse il tempo di pensare che figure così specialistiche possano essere previste nella pianta organica di ciascun istituto di pena al fine di realizzare il disegno costituzionale della pena con finalità rieducative anche alla luce dei diversi episodi, sia di autolesionismo, danneggiamento della propria cella o addirittura tentativi di suicidi e suicidi”. Quanto alla Casa Circondariale di Benevento, il Garante Ciambriello ha così concluso: “È doveroso provvedere immediatamente alla delocalizzazione della sezione di articolazione psichiatrica al piano terra dell’istituto così da concedere ai ristretti un ambiente più sereno e distensivo, con spazi ludici, ricreativi e riabilitativi, e lo stesso vale anche per il personale socio sanitario, che vive in spazi angusti e limitati il proprio lavoro”. Pisa. Panettoni ai detenuti, di cose piccolissime il carcere tira ogni tanto un respiro di Adriano Sofri Il Dubbio, 28 dicembre 2021 Sono stati consegnati nel penitenziario Don Bosco di Pisa, una tradizione che ha superato i vent’anni, inaugurata da volontari presso il carcere e rappresentanti politici. Trascrivo, per rallegrarmene, la notizia sulla consegna dei panettoni ai detenuti del carcere Don Bosco di Pisa, che si è ripetuta ieri. È una piccola tradizione che ha superato i vent’anni, inaugurata da volontari presso il carcere e rappresentanti politici. A un certo punto un funzionario penitenziario di turno, stretto, chissà, fra l’invidia per la buona volontà altrui e la gelosia per la cattiva volontà propria, cercò il modo di rompere la piccola tradizione. Di cose piccolissime, materiali o simboliche, il carcere tira ogni tanto un respiro: tanto più quando la pandemia toglie il fiato. Ieri Irene Galletti, Lucia Ciampi, Stefano Ceccanti, Paolo Fontanelli, Maria Grazia Gatti, Alessandra Nardini, Andrea Pieroni, Antonio Mazzeo, parlamentari, assessori e consiglieri regionali e cittadini (esponenti del Partito democratico, di Leu, dei 5 stelle, di Sinistra civica ed ecologista) insieme al responsabile della Caritas, don Morelli, e ai soci della Coop pisana, hanno incontrato il direttore del carcere, Francesco Ruello, l’educatrice Alessandra Truscello e gli agenti penitenziari, e distribuito i panettoni ai quasi 300 detenuti presenti - qualche decina era in permesso. Un giorno si farà la storia del modo in cui le galere e i loro abitatori, carcerati e carcerieri, hanno attraversato il nuovo tempo della pandemia, la loro clausura nella clausura. Al suo secondo anno, il Natale del carcere trascorre nel pieno di una recrudescenza dei contagi. Il Don Bosco pisano, su cui pesano problemi annosi di strutture e di personale, è riuscito a sventare la circolazione del virus all’interno. I casi di detenuti positivi all’entrata sono stati trattati in modo da evitarne la diffusione. Quanto e più che negli ospedali dei liberi, la fatica di medici e infermieri oltre l’ordinario ha gran parte del merito di questo raro risultato. Firenze. Spettacolo teatrale in streaming interpretato dai detenuti di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 28 dicembre 2021 Protagonisti i giovani detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni Meucci. Si chiama “One Man Jail: le prigioni della mente” ed è lo spettacolo che utilizza le nuove risorse digitali per un progetto di teatro in carcere, in scena in prima assoluta sabato 8 e domenica 9 gennaio, ore 21, al Teatro Cantiere Florida. Proposto e prodotto da Compagnia Interazioni Elementari, diretta da Claudio Suzzi, lo spettacolo, grazie alla diretta streaming, materializzerà sul palco in tempo reale i giovani attori detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni Meucci. La storia è quella di Frank Petroletti - interpretato dall’attore Filippo Frittelli - comico che, all’apice del successo, viene arrestato e incarcerato. All’interno della prigione, di fronte a un pubblico di detenuti ostili e disinteressati, si prepara a esibirsi nella sua ultima performance. Lo show, caustico e strampalato, lo porterà ad affrontare le proprie paure e i pensieri che lo tengono realmente prigioniero, a liberarsi dai personaggi che affollano la sua mente, per raggiungere un “altrove” forse meno rassicurante di quello che gli si vorrebbe far credere. Lo spettacolo si inserisce all’interno del progetto “Streaming theater: un ponte tra carcere e città”, percorso di educazione ai mestieri dello spettacolo e della performance tramite l’utilizzo di tecnologie digitali, che vuole andare a colmare due bisogni fondamentali di chi abita l’istituto di detenzione minorile: stabilire un collegamento con la comunità esterna e ottenere una formazione lavorativa, in grado di aprire prospettive future per i giovani detenuti, già a partire dal periodo di permanenza in carcere. L’obiettivo principale non è solo coinvolgere i giovani detenuti del Meucci, ma anche e soprattutto sensibilizzare la comunità fuori. “Lavoriamo perché i ragazzi vengano scritturati come attori - spiega il regista Claudio Suzzi - remunerati come lavoratori dello spettacolo. Per questo sarà fondamentale distribuire lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” in modo da farlo circuitare il più possibile nei teatri della Regione Toscana e del circuito nazionale, obiettivo ora possibile grazie alla nuova modalità di collegamento in diretta live sulla quale si base la produzione”. Paliano (Fr). La musicoterapia che unisce detenuti e disabili psichici di Stefano Liburdi Il Tempo, 28 dicembre 2021 Due diversi tipi di prigionia, un incontro e un linguaggio universale: la musica. Corpi e menti si lasciano andare e sono finalmente liberi, almeno per qualche istante. Questo è quello che è accaduto nella Casa di reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone, durante l’evento “Musica dentro... e fuori”, dove i detenuti, prigionieri di quattro mura, e gli ospiti della struttura di riabilitazione psichiatrica Johnny & Mary, prigionieri di confini diversi, hanno suonato e cantato insieme. Il carcere di Paliano è un istituto particolare innanzitutto perché l’edificio è una vecchia fortezza dal grande valore artistico del XVI secolo, che da un colle alle pendici dei Monti Prenestini ed Ernici domina il paese e l’intera Valle del Sacco e poi perché al suo interno sono reclusi i collaboratori di giustizia che stanno compiendo il loro difficile percorso che li porterà, una volta scontata la pena, a una vita diversa, per molti con una nuova identità. Da due anni all’interno del penitenziario si svolge Musica Dentro, un laboratorio di musicoterapia condotto dalla musicoterapeuta e musicista Silvia Riccio che vanta un’importante esperienza nel carcere romano di Regina Coeli. “La musicoterapia è una disciplina che utilizza l’elemento sonoro-musicale per favorire la comunicazione e la relazione. In ambiente carcerario facilita il raccontarsi, favorisce la libera espressione di stati d’animo, emozioni e sentimenti”, ci spiega la Riccio che aggiunge: “La musica è un codice universale che permette di andare oltre la parola. Il linguaggio musicale insegna ai detenuti nuove modalità di relazioni favorendo un clima non ostile e competitivo ma empatico”. Silvia poi spiega come nasce l’idea di questo evento per festeggiare e rendere così emozionante il Natale: “La riabilitazione può essere maggiormente favorita se prevede scambi e connessioni anche con comunità e realtà esterne alle mura carcerarie. Così da qualche mese il laboratorio, per volontà della Direttrice della casa circondariale dott.ssa Anna Angeletti, ha accolto un piccolo gruppo del centro di riabilitazione psichiatrica Johnny & Mary del territorio, accompagnato dall’attentissimo amministratore Vincenzo Prisco e suo figlio Diego, batterista”. I pochi e fortunati spettatori ammessi, sono accompagnati e fatti accomodare, nel pieno rispetto delle regole anti-Covid, in uno dei due lati lunghi di un’antica sala, fatta di mura spesse e bianche. Sul soffitto un affresco impreziosisce l’ambiente. Seduti sul lato opposto, a guardare dritto negli occhi, una ventina tra detenuti e ragazzi in cura, tutti con un cappello da Babbo Natale e uno strumento di percussioni accanto. A sinistra alcuni detenuti pronti ad assistere allo spettacolo e a destra un piccolo palco con batteria, chitarra elettrica e acustica, tastiera e basso. Unici ornamenti una stella di Natale davanti alla tastiera e delle cornici sulle pareti con all’interno le stampe di alcuni articoli della Costituzione. Tutto pronto per iniziare, mancano solo due attesi spettatori che però sono rimasti prigionieri (anche loro) del traffico natalizio sull’autostrada. Si tratta di aspettarli facendo passare una decina di minuti, massimo un quarto d’ora. Allora viene chiamato a gran voce il nome di un detenuto. Lui sorride, attende qualche secondo, si alza e comincia a recitare barzellette con una mimica facciale e un’ironia che in un istante catturano il pubblico. Anche i suoi compagni ridono di gusto a quelle battute che chissà quante volte hanno già ascoltato in quei lunghi giorni sempre uguali. L’attesa è volata e adesso è tutto pronto per iniziare. Silvia Riccio dà le ultime indicazioni e la Marcia di Radetzky di Johann Strauss segna il via all’incontro. Mani sbattute tra loro e sul corpo, piedi che picchiano sul pavimento, creano un’unica musica capace di far entrare subito lo spettatore nell’atmosfera voluta. Poi è la volta di un brano composto da un partecipante al corso e gli applausi sono lunghi e sinceri. La musica si fa sempre più corale e avvolgente così come le emozioni dominano i presenti. Finito lo spettacolo sono sorrisi, complimenti per tutti e uno scambio di doni. “Credo nell’incontro tra persone - dice emozionata la direttrice Angeletti - alla loro connessione. Quando questo avviene, rende la mia vita piena di significato”. Poi aggiunge: “Questa è una goccia nell’oceano, ma se questa goccia non ci fosse, cosa sarebbe l’oceano?”. Per Vincenzo Prisco “questa è una casa che incontra un’altra casa qui dentro. I ragazzi hanno navigato in acque tempestose, adesso si ritrovano in acque più tranquille, ma ora bisogna costruire degli approdi, altrimenti tutto questo lavoro sarà inutile”. Concetto espresso anche dal Garante Regionale dei diritti dei detenuti Stefano Anastasia: “Dovremo vivere insieme fuori da qui. Occorre quindi costruire un legame per una vita migliore”. I detenuti e i ragazzi della comunità ringraziano Silvia e chi ha permesso tutto questo e salutano, ma il pubblico vuole prolungare un momento che rimarrà dentro ognuno di loro e chiede il bis. La Marcia di Radetzky risuona nella sala. Questa volta però a creare musica sono tutti i presenti nella sala che si muovono e battono mani e piedi rilasciando un unico suono, uniti come se fossero tutti una sola cosa. “Il libro più potente dell’anno”: oggi la presentazione online di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 dicembre 2021 Emozionante. Profondo. Drammatico. “Non siete stati ancora sconfitti”, il diario dei pochi momenti di libertà e di lunghi periodi di carcere di Alaa Abd el-Fattah, può essere descritto con molti aggettivi. Ma “potente”, quello che ha usato Wired Italia, è il più adatto. La potenza del libro del più noto dissidente egiziano, tra i promotori della rivoluzione del 2011, sta nel dettaglio degli eventi di cui l’autore è stato non solo testimone ma anche protagonista; nella spietata analisi del sistema repressivo che l’ha spesso intrappolato; nella lucidità delle proposte per favorire un cambiamento, non solo nella situazione dei diritti umani ma nel quadro politico e sociale dell’Egitto. Dopo la condanna a cinque anni inflittagli il 20 dicembre da un tribunale d’emergenza, è ancora più urgente leggere il pensiero di Alaa Abd el-Fattah. Questo pomeriggio, alle 17.30, sul canale You Tube di Hopefulmonster, l’editore italiano, si svolgerà una presentazione online. Tra le prossime, auspicabilmente in presenza, segnaliamo già l’appuntamento del 25 gennaio a Bologna, presso il Centro Studi Amilcar Cabral. “La mia bambina venduta vi racconta un pezzo di Africa” di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 28 dicembre 2021 Adunni vive in un villaggio e viene ceduta dal padre a un marito vecchio: comincia così il romanzo d’esordio della scrittrice nigeriana: “Ho voluto che parlasse un inglese sgrammaticato, in lei si riflette ancora la storia di tante ragazze del mio Paese”. All’improvviso succede. A un certo punto del libro, non vedi l’ora di sapere come va a finire e al contempo vorresti che quelle pagine non finissero mai. È il privilegio di incontrare un’ottima scrittura (e un’eccezionale traduzione) ma anche la sorpresa di calarsi in un linguaggio sapientemente sgrammaticato che ti colpisce come un risveglio improvviso. Leggere “La ladra di parole”, di Abi Daré (casa editrice Nord, 368 pagine, 18 euro) significa scoprire un’altra umanità che ignoriamo, o forse solo fingiamo di non conoscerne l’esistenza. Fin da pagina 43 quando la protagonista, la nigeriana Adunni, viene “venduta” ad un vecchio marito dal suo stesso padre, che dice: “Da oggi e per sempre, questa è tua moglie, ti appartiene. Fanne ciò che vuoi. Usala finché non sarà inutilizzabile. E tutti ridevano”. Il romanzo parla di spose bambine, di poligamia, di violenza e stupri legittimati dalle nozze, di istruzione negata alle femmine, di schiavitù e, finalmente, di riscatto. Il testo è una scossa emotiva, anche per gli strafalcioni che accompagnano la lotta quotidiana di Adunni, dal villaggio di Ikati, nel cuore della Nigeria, fino alla caotica Lagos. La sua ricerca di una voce, della sua voce, cresce a mano a mano che migliorano la sua abilità linguistica e la sua forza interiore. Le “tradizioni” che danneggiano le donne - Ma di cosa hanno più bisogno le donne in Africa oggi? La domanda a bruciapelo sorprende Abi Daré, nigeriana di nascita e britannica d’adozione, esponente di spicco di quella nuova ondata di scrittrici africane che sta conquistando le classifiche letterarie mondiali. “Cominciamo dalle ragazze”, risponde. “Non devono lavorare, non devono essere costrette ad abbandonare gli studi per procurare denaro alla famiglia. Non dovrebbero essere rapite quando vanno a scuola come le 500 ragazze di Chibok (prese in ostaggio da Boko Haram nel 2014, ndr). L’educazione non dovrebbe essere vista come un’arma per fare fuori gli uomini, ma come uno strumento per trasformare le ragazze in donne indipendenti, restituire ricchezza all’economia nazionale e dare impulso alla crescita. E ovviamente le ragazze dovrebbero raggiungere una giusta età prima di contrarre matrimonio, e mai essere obbligate a sposarsi. Per quanto riguarda le donne adulte, è necessario dare loro l’opportunità di parlare, di dimostrare quanto valgono”. Abbiamo incontrato Abi Daré durante la sua recente visita in Italia. Una donna bella e fiera. La ladra di parole è il suo primo libro, un successo globale a cui lei, trapiantata a Londra appena diciottenne, non era preparata: “È nato durante un master di scrittura: dovevo raccontare una storia per l’esame finale, poi la protagonista Adunni ha cominciato ad avere vita propria”. Nuovo linguaggio - Un romanzo pieno di humor e di un inglese “meticcio” che ne è la vera grande forza. “Parla una ragazza cui è stato negato il diritto all’educazione. Ho pensato ad alcune giovani che avevo conosciuto quando vivevo in Nigeria, domestiche che venivano dai villaggi rurali, come Adunni. Tutte avevano un modo personalissimo di navigare in un linguaggio che non era il loro. Ho preso in prestito qualcosa, così come ho “rubato” molte parole dalla traduzione letterale inglese della mia lingua madre, lo yoruba (ad esempio, mal di testa diventa “la mia testa mi sta rompendo”) o frasi che diceva mia figlia di due anni”. Così “niente” diventa “gnente”, “neanche” è “nenanche”. Altre volte è l’intera frase che si sovverte e diventa sovversiva in un inglese contaminato sia a livello grammaticale che sintattico. Metti insieme tutte queste fonti e ne esce il linguaggio di Adunni, che vuole a tutti i costi imparare l’inglese per sentirsi grande. Finché scopre che padroneggiare quella lingua “ufficiale” non la trasforma in un’adulta di successo. A mano a mano che la storia si srotola, l’ex sposa bambina diventata domestica-schiava si rende conto che un sacco di gente nella grande città parla un inglese perfetto eppure fa scelte di vita orribili. Soprattutto, apprende che tutte le donne soffrono, almeno finché non trovano “la voce”. È un pezzo di storia contemporanea. Molte ragazze in Nigeria e in tanti altri Paesi dell’Africa sono costrette a lavorare come domestiche nelle case dei ricchi e spesso vengono abusate. Molte ragazze vengono costrette a lasciare la scuola per sposarsi subito dopo il menarca. Molte sono costrette a condividere il marito e a subirne i soprusi. Come Adunni. In Nigeria dal 2003 esiste una legge nazionale che vieta il matrimonio infantile ma i singoli stati devono farla propria e tanti non si sono ancora adeguati. Le spose bambine - “Si stima che il 17 per cento delle ragazze, soprattutto nel Nord del Paese, si sposi prima dei 15 anni”, assicura Abi Daré. Anche la poligamia è di fatto accettata: per legge un uomo può sposare davanti ad un giudice solo una moglie, ma può contrarre matrimonio tradizionalmente con altre. “Perché in Nigeria c’è il sistema legale, il sistema tradizionale e anche la Chiesa. Il che rende tutto molto complesso”. Il tema centrale resta l’educazione. Come se un buon libro fosse il nuovo principe per le Cenerentole contemporanee. “Un piccolo aiuto come una borsa di studio può fare una grande differenza nella vita di una ragazza. Se il governo di Abuja o le aziende dei combustibili fossili presenti in Nigeria facessero un piccolo sforzo in questo senso potrebbero davvero cambiare le cose a moltissime giovani”. È un’Africa che cambia, lentamente. “Le nuove generazioni hanno meno paura di esprimere le proprie opinioni, mentre quando io ero ragazza non si mettevano mai in discussione gli adulti, né si facevano domande scomode”, assicura Abi Daré. I giovani sono cresciuti con Internet e i modelli occidentali, spesso hanno cercato fortuna altrove, però amano e rilanciano l’africanness. Tema che ritroviamo nelle treccine di Ifemelu, la protagonista del pluripremiato Americanah di Chiamamanda Ngozi Adichie (Einaudi, 466 pp., 21 euro) o nella forza di Yejide, protagonista del bellissimo Resta con me di Ayobami Adebayo (La nave di Teseo editore, 324 pag., 18 euro). Storia di una donna nigeriana e del suo uomo, e di tutto quello che gira loro intorno. La suocera, la seconda moglie di facciata, la fatica di avere ad ogni costo un figlio. Nuovi orizzonti - “Conoscevo diverse donne che, come Yejide, non avevano figli nei primi anni dopo le nozze. Alcuni di quei matrimoni si sono conclusi con il divorzio, molti altri sono diventati poligami, solo uno ha superato un decennio. Volevo esplorare come l’infertilità potesse avere un impatto così drastico su un matrimonio, anche quando la coppia è davvero innamorata” ci ha detto in un’intervista Ayobami Adebayo. “Volevo testimoniare la vita di chi, come Yejide, resiste e sopravvive”. È così difficile essere donna in Nigeria? le abbiamo chiesto. “Penso che sia ancora difficile essere una donna nella maggior parte del mondo. Le manifestazioni di misoginia possono differire da continente a continente, ma le idee fondamentali che motivano atteggiamenti e comportamenti prevenuti nei confronti delle donne persistono ovunque”, ha risposto Ayobami Adebayo. La scrittrice nigeriana, però, ha preferito non rispondere alla domanda sulla poligamia tradizionale che ancora resiste in Nigeria, e in altre parti del mondo. Migranti. Un anno di strage infinita, Ue e Italia complici di Filippo Miraglia Il Manifesto, 28 dicembre 2021 Solo quest’anno più di 32mila persone sono state riconsegnate alla cosiddetta guardia costiera libica e poi affidate agli stessi aguzzini dai quali fuggivano. La strage nel Mediterraneo non si ferma. Ancora decine di cadaveri che il mare restituisce impietoso, sulle spiagge della Libia come su quella della Grecia qualche giorno fa, davanti agli occhi di un mondo distratto: una strage evitabile, quella di chi fugge dall’inferno libico, pervicacemente consentita dai governi. La comunità internazionale, l’Ue e l’Italia in prima fila, continua ad occuparsi di una guerra senza fine, quella libica, non per promuovere un processo di pace difficile, ma per una stabilità che serva ad impedire a chi fugge dalle galere e dai campi di concentramento di mettersi in salvo, affidandoli alle stesse milizie che si contendono il controllo del territorio e i nostri finanziamenti. Il nostro malinteso interesse nazionale ha prevalso sui diritti umani delle persone coinvolte: più naufraghi abbiamo bloccato o riportato indietro, maggiore è stata la soddisfazione dei ministri e dei governi che si sono succeduti in questi anni, anche quelli di centro sinistra purtroppo; meno ne arrivano sulle nostre coste più ne rimangono nelle carceri libiche a subire torture, stupri, ad essere venduti come schiavi, a morire. Non c’è nulla di cui essere soddisfatti. Respingimenti illegali delegati a milizie senza scrupoli che fingono di intervenire per salvare quelli che dovrebbero essere naufraghi e che sono invece prede, materia di scambio e di ricatto. Dal 2017, anno della firma del famoso memorandum Italia-Libia, promosso dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, sono state riportate indietro più di 82 mila persone che fuggivano dalla violenza e dalla morte. Solo quest’anno più di 32 mila persone sono state riconsegnate alla cosiddetta guardia costiera libica e poi affidate agli stessi aguzzini dai quali fuggivano. Un tragico gioco dell’oca dove chi fugge torna alla casella iniziale, un vero lager, con la complicità della comunità internazionale, dei governi europei, dopo un lungo e pericoloso viaggio, che spesso ha un epilogo ancor più tragico, come ci dimostrano i cadaveri affiorati sulle coste libiche nelle ultime ore. L’Onu, numerose istituzioni internazionali e organizzazioni indipendenti, oltre che diversi tribunali italiani, hanno più volte denunciato le violazioni dei diritti umani in Libia; eppure il nostro Parlamento, con poche ma onorevoli eccezioni, ha votato senza indugio il rifinanziamento di quelli che tutti riconoscono essere crimini contro l’umanità. Una contraddizione che, davanti all’ennesima strage, speriamo possa indurre almeno le forze democratiche a cancellare questa pagina vergognosa della nostra storia politica recente. Dopo la scelta scellerata con la quale l’Italia è riuscita a far riconoscere la Libia come Paese capace di garantire interventi di ricerca e salvataggio in un ampio specchio di mare davanti alle sue coste, l’assenza di interventi adeguati ha aumentato la pericolosità di quello che continua a essere il mare più mortifero del pianeta. Sempre prendendo come riferimento il 2017, 11 mila persone sono morte da allora nel tentativo di arrivare in Europa, quasi 2 mila solo in questo 2021 che sta per finire. Intanto l’Ue si organizza, con il Patto Europeo per l’immigrazione e l’asilo, per rendere legali politiche oggi vietate e per le quali i governi sono stati più volte condannati da tribunali nazionali e internazionali. È un cinismo davvero impressionate: anziché ricercare soluzioni giuste e praticabili, canali d’accesso legali e sicuri, si scrivono norme con l’obiettivo esplicito di rendere legittimi comportamenti oggi illegali, come respingimenti e rimpatri verso Paesi in conflitto. Fermare la strage è possibile, ma bisogna invertire decisamente la rotta: oggi nella gestione delle politiche per l’immigrazione e l’asilo prevale l’ideologia delle destre xenofobe. L’auspicio è che nel 2022 le forze democratiche lascino la subalternità alla strada del razzismo e delle discriminazioni e imbocchino quella dei diritti e dell’uguaglianza. Migranti. Soldi dell’Italia per confinarli nel centro bosniaco di Lipa di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2021 Il dossier: “Campi e respingimenti, questa la vera strategia Ue”. L’Italia ha finanziato con un milione e mezzo di euro il Temporary reception Centre sul confine tra Bosnia e Croazia. Il nuovo rapporto della rete RiVolti ai Balcani spiega perché non c’è niente di veramente temporaneo e svela il volto di un’Europa che parla di quote di redistribuzione e solidarietà mentre investe sui respingimenti costruendo luoghi dove le persone sono dimenticate e i diritti fondamentali sospesi. Non è facile dire oggi quale sia la strategia europea per i migranti, o anche solo se ne esista una ufficiale. Sul tavolo c’è la nuova proposta della Commissione europea per superare gli Accordi di Dublino e “ricostruire la fiducia tra gli Stati membri”. Ma solo a parole. Perché la solidale Europa che vorrebbe la redistribuzione dei richiedenti asilo in tutti gli stati mette subito le mani avanti e parla di “obbligo flessibile”, come lo definisce la stessa Commissione. E il paese che non vuole migranti può finanziare le espulsioni operate da un altro stato membro o addirittura la “gestione dei flussi” da parte di paesi terzi. Ed è proprio quest’ultima opzione che meglio di altre si adatta a ciò che è già in atto lungo i confini esterni dell’Europa, come quelli attraversati dalla cosiddetta rotta balcanica. Il tema è al centro del nuovo dossier di RiVolti ai Balcani, rete alla quale aderiscono decine di realtà, da Amnesty International Italia alla rivista indipendente Altreconomia che ha collaborato alla stesura del rapporto, disponibile da oggi 27 dicembre (scarica). “Lipa, il campo dove fallisce l’Europa”, è il titolo del lavoro che sarà presentato oggi alle 18:30 in una conferenza online (segui la diretta) alla quale parteciperanno anche gli europarlamentari Elisabetta Gualmini e Pietro Bartolo. Il dossier analizza la strategia dietro al nuovo Temporary reception Centre (Trc) di Lipa, sull’altopiano nella municipalità di Biha? in Bosnia ed Erzegovina, al confine con la Croazia. Perché si tratta di un centro finanziato con fondi dell’Unione e di alcuni Stati membri, tra cui l’Italia. “Soldi coi quali appaltiamo al di fuori dei confini europei il compito di fermare e confinare le persone in arrivo, ben sapendo che hanno bisogno di protezione e quindi negando ciò che il diritto europeo e internazionale riconosce loro”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics), che dal 1998 tutela rifugiati e richiedenti asilo nel Friuli Venezia Giulia, e autore del report insieme a Anna Clementi, Diego Saccora e al direttore di Altreconomia, Duccio Facchini. L’articolo 33 della Convenzione di Ginevra che vieta il respingimento di richiedenti asilo verso un paese non sicuro è poco più d’un fastidio per un’Europa dove lo scorso ottobre dodici paesi hanno scritto alla Commissione europea per chiedere il finanziamento di barriere fisiche lungo i confini esterni. Perché se i muri targati Ue ancora non si vedono, già paghiamo perché in un paese confinante si costruiscano centri dove confinare i rifugiati ai quali si impedisce di chiedere asilo in Europa. Accade sul confine nord occidentale tra Bosnia ed Erzegovina e Croazia, tuttora il principale snodo della rotta balcanica per l’ingresso in Europa. Ma soprattutto teatro di respingimenti, violenze e torture da parte della polizia croata, già oggetto di denunce al Consiglio d’Europa e costate a Zagabria una condanna da parte della Corte europea per i diritti umani dopo la morte di una donna respinta. Nonostante i rischi, all’ormai noto “The Game”, il passaggio della frontiera attraverso i boschi, non c’è alternativa. Perché la Bosnia non offre nulla se non la sospensione della vita e dei propri diritti. Basti pensare che negli ultimi quattro anni il paese ha riconosciuto lo status di rifugiato ad appena sette persone. Mentre sono del tutto inesistenti i programmi di integrazione sociale per gli sporadici beneficiari di protezione sussidiaria. Sarebbero circa quattromila le persone bloccate in questo limbo, comprese alcune centinaia di bambini, per lo più afghani. Numeri e fatti riportati nel dossier di RiVolti ai Balcani, “che si inquadrano nel crollo generale del sistema giuridico europeo di tutela dei diritti umani”, scrivono gli autori. E siccome le immagini delle violenze e quelle delle condizioni in cui vivono migliaia di migranti in Bosnia hanno fatto il giro del mondo, col rischio che l’opinione pubblica internazionale chieda all’Europa un esame di coscienza, l’Unione europea ha pensato bene di investire per dare al confinamento dei migranti in terra bosniaca una dignità almeno apparente. L’esperimento riguarda il nuovo campo di Lipa, già inaugurato nell’aprile 2020, chiuso per gli standard inadeguati e definitivamente bruciato in un incendio che ha distrutto le tende e lasciato all’addiaccio 1200 persone. Eventi che però non hanno impedito di continuare a considerare l’area, priva di ogni servizio e a 24 chilometri dal primo centro abitato, il posto ideale dove mettere centinaia di persone, compresi tanti minori non accompagnati. E infatti il 19 novembre scorso è stato inaugurato il nuovo campo, il Temporary reception centre che di temporaneo ha ben poco, se non l’intenzione dei migranti di lasciarlo e tentare la sorte con la polizia croata, che tra luglio e novembre avrebbe respinto “più di 6mila persone”, secondo il rapporto di sette organizzazioni presenti nel territorio. Il centro è gestito dal Servizio per gli affari esteri bosniaco in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, le agenzie delle Nazioni Unite e una serie di altri partner come Unicef e Croce Rossa. Mentre i soldi li mette l’Europa. L’Ue al 50 percento e poi Austria e Germania con un 20 percento a testa, la Svizzera e anche l’Italia, con 1,5 milioni di euro dei quali 80mila euro per dotare il campo di acqua ed elettricità, 422mila euro per costi operativi nell’arco di 16 mesi e un milione per “raccolta dati, monitoraggio e analisi dei flussi delle persone in transito nel Paese”, si legge nel rapporto. Soldi europei e italiani per un luogo la cui collocazione isolata già basta a ledere una serie di diritti, soprattutto quando si tratta di minori ai quali non sono garantiti nemmeno i principi sanciti dalla Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, come quello che tutela il loro “sviluppo fisico, mentale spirituale, morale e sociale”, per non parlare del diritto all’istruzione. Quanto alla “temporaneità”, secondo RiVolti ai Balcani si tratta di un falso. “Se le persone non rischiano il Game possono restare nel campo per un tempo indefinito e senza che nulla sul piano giuridico e umano si evolva”, spiega Gianfranco Schiavone, ricordando ancora una volta come in Bosnia le istanze di asilo accolte si contino sulle dita delle mani e la totale assenza di programmi di reinsediamento verso l’Ue o altri paesi, anche nei casi più vulnerabili. “L’unica strategia è quella di nascondere le persone in questi centri, dove la vita è sospesa e ben isolata da un qualsiasi contesto sociale”, continua Schiavone. E poi: “Mi sembra ci sia una gran voglia di considerare la Bosnia, paese dilaniato e sull’orlo dell’implosione, un “paese sicuro” dove poter respingere i migranti per confinarli nelle condizioni descritte nel rapporto”. Tornando alla strategia europea, il dossier chiarisce perché quella dei respingimenti e dei campi come Lipa “sembra divenuta la principale risposta che l’Unione europea voglia fornire in relazione alla gestione dei flussi migratori ai suoi confini”. E ancora: “Lipa non è né un centro di prima accoglienza, né un centro per coloro che chiedono asilo”, ma un luogo dove la situazione dei presenti “può evolvere solo con la sparizione della persona che riesce a “passare” il confine a prezzo di sofferenze indicibili o con la sua decisione di modificare la rotta”. Unione Europea. L’export di detenuti e i contagi dietro le sbarre di Gianfranco Marcelli Avvenire, 28 dicembre 2021 L’accordo annunciato fra i governi della Danimarca e del Kosovo, che consentirà allo Stato scandinavo di trasferire 300 detenuti dalle proprie carceri a quelle del Paese balcanico in cambio di 210 milioni di euro, ha comprensibilmente destato scalpore. È la prima volta, a memoria europea, che nel Vecchio Continente si verifica un evento del genere. C’è chi ha parlato di deportazione, chi si è spinto fino a scherzare su un nuovo modello di “delocalizzazione”, chi ha gridato allo scandalo per il rischio di violazione dei diritti umani, considerando che la situazione carceraria a Pristina e dintorni non è certamente paragonabile a quella del Nord Europa. Da Copenaghen si è giustificata l’iniziativa con la necessità di ridurre il sovraffollamento delle prigioni locali, che però, secondo le statistiche europee in materia, non sembra così drammatico. In base agli ultimi dati disponibili, in Danimarca non si supera la soglia del 100 per cento della capienza, a differenza di quanto avviene in Italia (120 per cento il tasso di occupazione) o a Cipro (135). A fine 2019, inoltre, si contavano circa 64 detenuti nei reclusori danesi ogni 100mila abitanti, contro una media europea di 112, con punte di 227 in Lituania e 203 in Repubblica Ceca (l’Italia era a quota 100). Molto più convincente è la giustificazione di voler tagliare la presenza di immigrati, visto che nei penitenziari danesi circa il 30 per cento degli “ospiti” è straniero, a fronte di una media europea del 20. Anche se si registrano tassi ben maggiori, fino oltre il 50 per cento, in Austria e Grecia. Del resto il ministro competente ha parlato esplicitamente di un “segnale” destinato agli immigrati, perché non si illudano di poter delinquere a piacere in terra danese, sperando di potervi scontare la pena e poi rimanervi. Il caso di “export” penitenziario potrebbe almeno contribuire a ridestare l’attenzione sulla situazione delle prigioni dell’Unione, al termine di un biennio terribile di emergenza sanitaria, che a quanti l’hanno vissuta dietro le sbarre ha senza dubbio inflitto un aggravio di sofferenza. In Italia ne abbiamo avuto un doloroso riscontro nella primavera dell’anno scorso, con la rivolta e la successiva repressione in alcune case di pena, costate anche diverse vite umane. Purtroppo le ultime notizie dal fronte Covid non promettono certo miglioramenti a breve termine. Ma non si registrano neppure, da parte dei vertici di Bruxelles e dalle sedi parlamentari Ue, particolare interesse o speciali indicazioni destinate al mezzo milione di detenuti nei 27 Paesi membri. La loro gestione è lasciata alle amministrazioni nazionali, che dallo scoppio della pandemia in poi si sono mosse in ordine sparso. La stessa comunicazione di dati su contagi, ricoveri e decessi, così minuziosa e martellante per altre fette di popolazione, è risultata scarsa o episodica per i penitenziari. Nei giorni scorsi è stata diffusa anche una ricerca dell’“European Data Journalism Network”, sulla gestione della pandemia nelle carceri europee. Ne è emersa la conferma di provvedimenti in stretta chiave emergenziale - sospensione delle visite, regimi di isolamento rafforzati, cancellazione di ogni attività di istruzione e ricreativa - a fronte di scarsa attenzione a misure di prevenzione specifiche. Se resta valido il monito di Voltaire, secondo cui il grado di civiltà di un popolo si misura dalle sue prigioni, c’è in abbondanza di che riflettere. Romania. Le carceri ai tempi del Covid-19 di Mihaela Iordache balcanicaucaso.org, 28 dicembre 2021 Sono oltre 21mila i detenuti nelle carceri romene alloggiati in un totale di 45 strutture. Quali sono le condizioni di detenzione? E quanto ha influito la pandemia sulla situazione carceraria in Romania? Lo abbiamo chiesto a Georgiana Gheorghe, direttrice esecutiva dell’Associazione per la Difesa dei Diritti dell’Uomo in Romania - Comitato Helsinki. Da quando APADOR-CH si occupa dei penitenziari in Romania? Abbiamo alle spalle 31 anni di attività. Da 26 monitoriamo le condizioni delle carceri in Romania. Quanti detenuti vi sono in Romania e quanti penitenziari? Sono 21.459 detenuti e 35 penitenziari. A questi si aggiungono gli ospedali e i centri di detenzione per minorenni di Craiova e Tichilesti. Quindi, alla fine, parliamo di un totale di 45 strutture. Come effettua APADOR-CH questo monitoraggio delle condizioni di detenzione in Romania e con quali difficoltà? Di solito andiamo a monitorare con dettaglio e sul campo le condizioni di detenzione in cui vivono i detenuti. Purtroppo l’ultima volta che abbiamo effettuato questo monitoraggio in presenza è stato nel giugno del 2019: dall’inizio della pandemia gli incontri si sono infatti svolti solo online. Vorremmo poter tornare agli incontri in presenza anche tenendo conto che molti detenuti sono vaccinati (circa il 70% secondo i dati dell’Autorità Nazionale dei Penitenziari). Sino ad ora nella nostra attività non abbiamo incontrato mai difficoltà. L’Autorità Nazionale dei Penitenziari (ANP) è sempre stata aperta alle nostre visite sia prima che durante la pandemia. Prima della pandemia potevamo andare in qualsiasi momento, le nostre visite venivano effettuate senza preavviso. Ora, quando monitoriamo online, dobbiamo prima notificare, per ragioni tecniche: le connessioni video dei penitenziari sono utilizzate anche ad altri scopi oltre che alle conversazioni con APADOR-CH. Quanti incontri online avete avuto con i detenuti? In questo momento stiamo lavorando ad un ampio progetto, finanziato dalla Commissione europea, tramite il quale ci siamo proposti di intervistare 1000 detenuti in tutto il paese, da 25 penitenziari differenti. Abbiamo già fatto quasi metà di queste interviste. È un progetto in collaborazione anche con altre organizzazioni europee da Bulgaria, Grecia e Belgio. Questo progetto non è solo collegato alle condizioni di detenzione, ma riguarda anche i diritti processuali e il modo in cui sono stati rispettati i diritti dei detenuti prima di essere condannati. Come è stata gestita la pandemia nei penitenziari della Romania? I primi casi di Covid 19 sono stati individuati a settembre dello scorso anno, cioè dopo qualche mese dalla comparsa della pandemia in Romania. Appena sono state allentate le restrizioni e le misure contenitive, dal maggio 2020, i detenuti in regime aperto e semiaperto sono potuti tornare al lavoro e in seguito al contatto con l’esterno sono aumentati anche i casi di infezioni di Sars-Cov 2. Sono 5 ad oggi i detenuti deceduti a causa del virus. Come ha inciso la pandemia sul diritto del lavoro dei detenuti? Durante le restrizioni causate dalla pandemia, i detenuti non hanno più potuto esercitare il diritto al lavoro. Questa situazione ha limitato di conseguenza la possibilità di libertà condizionata dato che i detenuti ottengono crediti per il fatto di lavorare e hanno la possibilità di presentarsi prima davanti alla Commissione per la libertà condizionata. In questo periodo infatti nessuno offriva più posti di lavoro e la situazione si protrae tutt’ora. La mancanza di posti di lavoro ha avuto un impatto negativo anche per la salute mentale dei detenuti. Quali sono i principali problemi con i quali si confrontano i detenuti? La Romania è uno dei paesi con la maggior parte delle condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) in merito alle condizioni nelle carceri... Durante le interviste online i detenuti hanno sollevato spesso il problema della mancanza di posti di lavoro. Generalmente sollevano problematiche che esistevano già anche prima della pandemia, ma ora si sono aggravate. Tra le principali il sovraffollamento delle carceri. Quanto sono sovraffollate le carceri in Romania? Ci sono ancora situazioni di detenuti che dormono nello stesso letto? Non ci sono più queste situazioni. Ci sono però ancora letti a castello su tre livelli. Il grado di sovraffollamento è del 124,38% per uno standard di 4 mq a testa, richiesto dal Comitato per la prevenzione della tortura. La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha invece stabilito un minimo più basso, di 3 mq. Alcuni penitenziari sono più affollati di altri. Ad esempio, a Iasi, l’indice di occupazione è del 184%, a Deva del 60%. Anche all’interno di uno stesso penitenziario non vi è spesso omogeneità. Avete notato progressi per quanto riguarda il sovraffollamento nei penitenziari romeni? Rispetto a 2017 e anche prima, si sono fatti progressi. Tuttavia non posso non sottolineare che da quando è iniziata la pandemia si nota una lieve ma costante controtendenza per quanto riguarda l’indice di sovraffollamento. Ad esempio, se nel 2019 vi era un indice di sovraffollamento del 111%, ora parliamo del 124%. Ci sono penitenziari dove ho notato miglioramenti visibili, alcuni sono stati interamente ricostruiti, ma ci sono anche penitenziari dove il problema del sovraffollamento non è stato risolto. Ci sono tanti detenuti che si trovano costretti in venti in una stanza e dove non viene rispettato il minimo dei 3 mq. Anche i cortili per le passeggiate sono spesso piccoli. Alcuni detenuti si lamentano di non avere accesso a programmi di formazione. I detenuti denunciano spesso cimici in camera e che l’acqua calda non è sufficiente. Generalmente vengono concesse due ore al giorno di acqua calda che non sono sufficienti per una stanza di venti detenuti. Vi sono poi penitenziari dove mancano i medici. Oltre il 50% dei posti per i medici disponibili sono effettivamente occupati nelle carceri. Per tutti i penitenziari romeni vi sono solo 11 psichiatri. Possiamo affermare che la Romania ha le peggiori condizioni carcerarie tra tutti i paesi dell’UE? Non potrei fare questa affermazione perché non conoscono i dettagli che riguardano gli altri penitenziari dell’UE. Posso però dire che in Romania si sono fatti progressi significativi ma allo stesso tempo c’è ancora molto lavoro da fare. In termini generali l’Autorità Nazionale mostra interesse in questo senso. Questa cosa la dicono anche i detenuti con cui ho parlato in questo periodo. Quali fondi sono destinati ai detenuti in Romania? È un calcolo complicato ed è una cifra che ha più componenti. Posso però dire che queste considerazioni economiche spesso non vengono utilizzate correttamente nel dibattito pubblico. Occorre considerare che le risorse allocate sono in fin dei conti destinate alla riabilitazione dei detenuti ed è interesse di tutti investire su come il detenuto sarà in grado di reintegrarsi quando tornerà in società. Ci sono state polemiche nello spazio pubblico su questo tema? Il discorso legato alle condizioni di detenzione non è molto popolare in Romania. Ma va sottolineato che i detenuti scontano la loro pena con la reclusione nei penitenziari - questo lo sancisce anche la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo - e non dobbiamo punirli ulteriormente, sottoponendoli a condizioni umilianti e degradanti. In quale misura possiamo parlare di riabilitazione dei detenuti? Difficile misurare... Riabilitazione significa avere accesso alla formazione ecc. Di recente ho parlato con detenuti che dicevano di essere felici di avere l’opportunità di continuare i loro studi. La Romania è stata condannata dalla CEDU nel caso Flaminzeanu per aver violato il diritto all’istruzione. Lo stato romeno è stato obbligato a pagare danni morali un valore di 2000 euro... Sì, al signor Flamanzeanu è stato violato il diritto all’istruzione. Abbiamo ancora molto lavoro per quanto riguarda il sistema di riabilitazione, sono molte le cose da migliorare per quanto riguarda l’istruzione, per quanto riguarda le attività socio-educative, l’accesso al lavoro... Ci sono paesi, come la Norvegia, che puntano molto sulla riabilitazione. Ma parliamo di una società con molte risorse che si permette di avere condizioni di detenzione che forse noi, spesso, non abbiamo neanche nelle case private. Vi è una riforma in corso del settore? I primi segnali di riforma si sono avuti nel 2012 ma soprattutto dal 2017, da quando si è avuta la sentenza pilota della CEDU “Rezmives e c.”: lo stato romeno ha posto più attenzione per risolvere i problemi nei penitenziari. Esiste un piano di azione per il periodo 2021-2025. È articolato e ben fatto. Se riuscissimo a fare le cose che vi sono previste sarebbe ottimo. Sembra che ci sia la volontà da parte dell’Autorità Nazionale per i Penitenziari di migliorare la situazione. Si verificano frequentemente abusi nelle prigioni della Romania? In genere no. Vi sono eccezioni, ma generalmente questo tipo di problemi sono stati risolti. E il ruolo di alcune istituzioni, come l’Avvocato del Popolo - sotto il quale funziona il Meccanismo Nazionale per la prevenzione della tortura - sono serviti in tal senso. Riceviamo anche delle visite del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, ma è anche la società civile a monitorare e segnalare questo tipo di abusi. I detenuti inoltre possono fare segnalazioni, possono scrivere e rivolgersi alle istituzioni e alle associazioni. Ci sono quindi meccanismi tramite i quali questi abusi possono essere evitati. Non siamo più nel periodo comunista quando i detenuti erano torturati e l’ambiente penitenziario era un ambiente sigillato verso l’esterno. Ci sono ancora però casi in cui la polizia penitenziaria utilizza una forza eccessiva e altri in cui i detenuti si aggrediscono tra di loro. La mia impressione è che se questi fatti esistono, ma sono eccezioni non la regola. Medio Oriente. Quei prigionieri innocenti che termineranno l’anno in carcere di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2021 Nella parte del mondo di cui si occupa questo mio blog, dal Marocco fino all’Iran passando per Egitto e Israele, migliaia di prigionieri che mai avrebbero dovuto entrare in un carcere vi termineranno il 2021. Le loro storie sono state raccontate in questi anni ma, nell’ultimo post di quello che sta finendo, voglio ricordarne alcune. In Iran, lo scienziato Ahmadreza Djalali è ancora nel braccio della morte e rischia l’esecuzione. Il 14 gennaio compirà 50 anni. Gli ultimi quattro compleanni li ha trascorsi lontano da sua moglie e dai suoi due figli. Di anni in prigione ne ha trascorsi ormai quasi dieci il blogger saudita Raif Badawi. È quasi giunto alla fine della condanna e si spera possa tornare libero il prossimo anno. Chi non uscirà dalla prigione, se non interverranno con un provvedimento di grazia le autorità del suo paese, è Abdulhadi Al-Khawaja, il più importante difensore dei diritti umani del Bahrein, che sta scontando un ergastolo inflittogli per aver denunciato la repressione delle proteste del 2011. Nelle prigioni del Medio Oriente e dell’Africa del Nord sono molti i giornalisti in carcere. Uno di loro è l’egiziano Ismael Alexandrani, “colpevole” di aver indagato sul conflitto che nella penisola del Sinai oppone gruppi armati islamisti e forze di sicurezza del Cairo. In Marocco c’è Omar Radi, la cui storia è diventata nota nel contesto dello “scandalo Pegasus”, il software prodotto dall’azienda israeliana NSO Group utilizzato per spiare dissidenti, attivisti e per l’appunto operatori dell’informazione. Sempre spiato da Pegasus è stato l’attivista emiratino Ahmed Mansoor, che sta scontando una condanna a 10 anni solo per esserci occupato di diritti umani. Chiudo questa amara rassegna della repressione con la storia di Entesar al-Hammadi, la modella dello Yemen che si è presa cinque anni di carcere per aver sfidato norme e costumi del gruppo armato huthi, che controlla parte di un paese ridotto a pezzi da sei anni e mezzo di guerra. *Portavoce di Amnesty International Italia Serbia. I muri dell’odio di Belgrado di Giorgio Fruscione La Repubblica, 28 dicembre 2021 Nel centro della capitale è comparso un ritratto di Mladic, il boia di Srebrenica. La polizia ha vietato la manifestazione di chi ne chiedeva la cancellazione e ora è diventato meta di pellegrinaggio dei nazionalisti. Non è l’unico caso: da settimane in Serbia si stanno moltiplicando gli omaggi all’ex generale. Una secchiata di vernice sull’effigie del genocida Ratko Mladic. In Serbia, la rivolta contro il nazionalismo si conduce anche così. Il campo di battaglia sono i muri di Belgrado, e in particolare quelli di Vracar, quartiere residenziale dove l’opposizione a Milosevic negli anni Novanta andava forte. Forse è anche per questo che il murale dedicato al boia di Srebrenica non è mai stato accettato dalla popolazione locale sin dalla sua comparsa, in via Njegoseva, lo scorso luglio. Da allora è stato imbrattato più volte, e altrettante volte è stato prontamente restaurato. La situazione è però cambiata lo scorso 9 novembre. In occasione di quella che l’Onu ha eletto Giornata mondiale contro il fascismo e l’antisemitismo, l’organizzazione non governativa “Iniziativa dei giovani per i diritti umani” aveva annunciato che avrebbe coperto il disegno. La reazione del ministero dell’Interno non si è fatta attendere: ha vietato la manifestazione ed è stata predisposta la polizia - ufficialmente - affinché le due fazioni, cioè i pochi che difendono il murale e coloro che ne chiedono la cancellazione, non venissero a contatto. Ma di fatto, la polizia è stata schierata in difesa del murale. Questo non ha fermato la protesta spontanea di due attiviste, Aida Corovic e Jelena Jacimovic, che hanno sfidato i nazionalisti e le forze dell’ordine colpendo il murale con lanci di uova. Gesto che è valso loro l’arresto immediato da parte dei poliziotti in borghese. “Per quanto spiacevole il momento dell’arresto, è una cosa che rifarei”, racconta al Venerdì Aida Corovic, e aggiunge: “Così facendo, il governo serbo ha mostrato il proprio volto”. Per Corovic e gli abitanti di Vracar è inaccettabile che le autorità difendano il murale che raffigura Mladic, condannato a vita dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia per crimini di guerra e per il genocidio di Srebrenica, dove nel 1995 vennero massacrati oltre 8mila bosniaci musulmani. L’accusa contro lo Stato serbo è di servirsi dei movimenti di estrema destra per i propri scopi politici. “Vogliono continuare ciò che è stato fatto negli anni Novanta, ma ora si fa la guerra ai cittadini della Serbia. Con la retorica nazionalista e il rafforzamento delle organizzazioni della destra radicale, la Serbia ha intrapreso un serio processo di fascistizzazione della società, con il quale si vuole deviare l’attenzione dall’attuale, brutale depredazione del nostro Paese”, conclude Corovic. Il riferimento è alla deriva autoritaria del presidente Aleksandar Vucic, già ministro dell’Informazione dell’ultimo governo di Milosevic, che iniziò la propria ascesa anche grazie all’esaltazione di criminali di guerra come Mladic. Da allora, Vucic ha scalato i vertici della politica serba svestendo i panni del nazionalista radicale e indossando quelli del riformatore europeista. Ma sono in molti a pensare che la sua sia stata solo un’opera di cosmesi e che il nazionalismo, in un Paese che non ha mai fatto del tutto i conti con il passato, sia ancora uno strumento per mantenere divisa la società. Nelle settimane successive alla protesta contro il murale il volto di Mladic sulla Njegoseva è diventato una sorta di santuario nazionalista, con tanto di “custodi”, fiori e persone che gli fanno visita, mentre monta il clima di intimidazione verso gli attivisti che denunciano questa tacita collaborazione tra autorità e movimenti radicali. Simultaneamente, però, altri omaggi al generale Mladic sparsi per la Serbia sono stati cancellati, poi ripristinati e nuovamente cancellati. Su alcuni muri di Belgrado hanno poi cominciato a “sbocciare” i fiori di Srebrenica, il simbolo bianco e verde che ricorda il genocidio del luglio del ‘95. Una svolta sembrava essere arrivata lo scorso 9 dicembre: le autorità del comune di Vracar avevano ricoperto di vernice bianca il murale, rispettando la volontà esplicitata dai condomini del palazzo. Tuttavia, poche ore dopo, i nazionalisti che vi fanno la guardia hanno ripristinato l’omaggio a Mladic, che era stato preventivamente dotato di una patina trasparente che permette di lavare via tutti gli sfregi artistici di cui è stato bersaglio in questi mesi. L’invito alle autorità serbe a dissociarsi dall’esaltazione di criminali di guerra è stato sostenuto anche dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, attraverso i due portavoce per il monitoraggio della Serbia, Piero Fassino e Ian Liddell-Grainger. “Una società democratica non può basarsi sulla negazione dei crimini di guerra e su una cultura di odio e impunità. Chiediamo alle autorità serbe di dimostrare, con forza, la loro volontà di combattere fermamente la glorificazione dei criminali di guerra e di cancellare, senza indugiare oltre, i murale che celebrano i criminali di guerra”, si legge nell’appello di Fassino e Liddell-Grainger. L’uso strumentale della narrativa degli anni Novanta è una pratica collaudata in Serbia, utile soprattutto in vista delle elezioni, previste ad aprile 2022. Nel lungo periodo, però, questa pratica potrebbe finalmente smascherare l’immutata natura del presidente Vucic, che da anni illude l’Europa di essere un promotore della stabilità e della pace nella regione. Russia. Lo storico dei Gulag Dmitriev condannato a 15 anni di carcere di Rosalba Castelletti La Repubblica, 28 dicembre 2021 Pena aumentata rispetto alla sentenza del 2020. L’uomo quasi 66 enne ha dedicato metà della sua vita a documentare la repressione staliniana. Guidava l’ufficio in Carelia di Memorial, la storica ong che questa settimana rischia lo scioglimento. L’accusa: “violenza sessuale su una minore”. Familiari e ong: “Processo montato ad arte”. Continua l’odissea giudiziaria dello storico dei Gulag Jurij Dmitriev. Il capo dell’ong Memorial in Carelia, noto per aver individuato a Sandormokh le fosse comuni dove furono sepolte 9mila vittime di Stalin e per aver stilato una lista di 40mila persone giustiziate o deportate in Carelia, è stato condannato a 15 anni di carcere per “violenza sessuale nei confronti di un minore”, due anni in più rispetto alla sentenza emessa nel 2020 nell’ambito dello stesso caso. Un processo montato ad arte, secondo familiari e ong, per impedirgli di indagare sulle repressioni di Stalin e dare un nome alle vittime. L’udienza di oggi lunedì presso un tribunale di Petrozavodsk in Carelia, regione nel Nord della Russia, è solo la prima di tre udienze che vede sul banco degli imputati Memorial, la storica ong per i diritti umani e la memoria delle vittime del Grande Terrore, fondata tra gli altri dal premio Nobel per la pace Andrej Sakharov. Domani martedì e dopodomani mercoledì si terranno due distinti processi che ne chiedono lo scioglimento. Processi che vengono considerati il culmine di un anno che ha visto una repressione senza precedenti con attivisti incarcerati o costretti all’esilio e media e ong silenziati. “La vicenda di Dmitriev è la più eclatante delle azioni messe in atto contro vari operatori della memoria delle repressioni sovietiche in Russia negli ultimi anni e che ha portato alla recente richiesta di liquidazione di Memorial Internazionale. Le accuse nei confronti di Dmitriev sono state smontate da avvocati ed esperti in due processi precedenti, processi cancellati ogni volta e fatti ripartire”, commenta a Repubblica Andrea Gullotta, presidente di Memorial Italia. “Dmitriev viene condannato per accuse dalle quali è stato assolto due volte: è evidente l’accanimento nei confronti di una voce indipendente, capace di recuperare dall’oblio i nomi e le biografie di migliaia di vittime innocenti dello stalinismo. Il segnale in arrivo oggi da Petrozavodsk è chiaro: voci come la sua, libere e basate su una valutazione oggettiva dei documenti storici, non possono avere più spazio nella Russia odierna”. Dopo aver scavato negli archivi per metà della sua vita, nel 1997 Dmitriev era riuscito ad individuare le fosse comuni dove tra il 1937 e il 1938 vennero sepolte oltre 9.500 vittime di Stalin. Da allora ha cercato di documentare ogni singola storia. Finché nel 2016 non è stato arrestato perché il suo computer conteneva foto della figlia adottiva allora undicenne nuda. Dmitriev aveva assicurato che le foto avevano il solo scopo di seguire la crescita della ragazza e di difenderlo da eventuali accuse di maltrattamenti. Era stato assolto nel 2018, ma dopo diversi processi, era stato condannato a 13 anni di carcere, pena aumentata a 15 anni oggi lunedì. Secondo colleghi e attivisti, l’obiettivo del processo è infangare Dmitriev per distogliere l’attenzione dalle sue ricerche sulla repressione stalinista, una pagina di storia che il Cremlino cerca di nascondere perché contraddice la narrativa del Cremlino sull’Urss. Il presidente russo Vladimir Putin, ex agente del Kgb, ne celebra i traguardi, come la sconfitta del nazismo, per promuovere l’orgoglio nazionale. Ricordarne i crimini non è ben visto. Sotto la sua presidenza, l’accesso agli archivi di stato è stato drasticamente limitato e le identità degli esecutori delle purghe sono state classificate come segrete. Libia. Caos istituzionale sempre più vicino, sulla pelle dei migranti di Roberto Prinzi Il Manifesto, 28 dicembre 2021 Dopo il rinvio del voto si cerca una “road map”, ma non c’è accordo sul referendum costituzionale e cresce il fermento delle milizie armate. Il rinvio la scorsa settimana delle elezioni presidenziali e legislative previste per il 24 dicembre ha aperto in Libia una fase politica oscura di cui al momento è difficile prevedere gli esiti. Ieri, nel tentativo di scongiurare il caos istituzionale, 120 deputati del parlamento di Tobruk (in Cirenaica) hanno esaminato la relazione della Commissione incaricata di seguire il processo elettorale. Se al momento è “impossibile” sapere quando si terranno le elezioni, l’obiettivo è per ora “elaborare una road-map realistica all’interno di un quadro costituzionale in modo da non ripetere i passaggi precedenti”. A premere sono gli sponsor stranieri. Venerdì Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Stati uniti hanno esortato le autorità libiche “a determinare rapidamente una data finale per il voto e per la pubblicazione senza ritardi della lista finale dei candidati presidenziali”. Richieste che i libici non possono allo stato attuale esaudire. Il doppio voto (presidenziale e parlamentare) proposto dall’Alta commissione elettorale della Libia per il 24 gennaio e sostenuto da 32 candidati presidenti non ha infatti alcuna credibilità se non vengono risolti prima i nodi che hanno impedito il voto di dicembre. Uno dei principali da sciogliere è quello avanzato dall’Alto Consiglio di Stato (il “Senato” con sede a Tripoli) relativo alla necessità di organizzare un referendum costituzionale prima che si voti. Per il presidente del “Senato” al-Mishri è necessario avere una Costituzione che fissi le regole del voto e garantisca che il potere non finisca nelle mani di una personalità divisiva. Di diverso avviso è Tobruk che non vuole il referendum costituzionale e spinge invece per avere le presidenziali e poi il voto legislativo. A muovere le fila del processo politico ci sarebbero tre candidati presidenziali che mirano a scalzare l’attuale primo ministro Dabaiba e a insediare un nuovo governo. A capo del triumvirato c’è Khalifa Haftar, il generale cirenaico dato per sconfitto dopo la sua fallimentare offensiva anti-Tripoli del 2019, ma che è in forte ascesa al punto da aver preso il controllo della macroregione meridionale del Fezzan le scorse settimane. Gli altri due sono esponenti di primo piano della città-stato di Misurata (Tripolitania): l’ex ministro dell’Interno Bashagha e l’ex vicepresidente Ahmed Maiteeq. Il patto dei tre è stato siglato a Bengasi lo scorso 21 dicembre dopo che i due misuratini erano atterrati dall’Egitto che nella partita libica vuole giocare un ruolo da protagonista. Secondo il giornale locale al-Wasat, nei prossimi giorni si lavorerà per prevenire un vuoto politico e si accelererà per la nomina di un governo tecnocratico con l’ingresso di alcuni nomi dell’est. Le tensioni politiche si riflettono anche sull’industria petrolifera e del gas da giorni bloccata dalle milizie. Un blocco che ha provocato perdite dell’output petrolifero superiori ai 300 mila barili di petrolio al giorno e che sarebbe nato per motivi economici e non per il rinvio delle elezioni, ma che comunque mostra come la galassia delle milizie armate libiche sia in fermento. Le loro azioni violente nelle scorse settimane soprattutto a Tripoli testimoniano come la tensione sia alle stelle. In questa clima, resta inascoltato il dramma dei civili, soprattutto dei migranti. Sabato l’ultima drammatica scoperta quando le unità della Mezzaluna rossa libica hanno recuperato 28 cadaveri in due località separate della città costiera di Khoms (90 km da Tripoli). Tre i superstiti (in cattive condizioni), diversi cadaveri erano in avanzato stato di decomposizione.