Carceri. Ma non era una “impellente urgenza”? di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 27 dicembre 2021 Il sovraffollamento degli istituti è una delle eredità che il 2021 lascia al 2022. A sette anni dall’appello di Napolitano. Ci sono brani del Vangelo che valgono per tutti, credenti o no che si sia; uno è il passo dove Matteo parla dell’affamato, che ha avuto da mangiare; dell’assetato, che ha avuto da bere; del forestiero, che è stato ospitato, vestito, curato; del carcerato, “e siete venuti a trovarmi”. Segue il “messaggio” preciso, inequivocabile: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli, l’avete fatto a me”. A me figlio di Dio, per chi crede; a me “prossimo” ma anche te stesso, per chi non ha fede. Ci voleva papa Francesco: quest’uomo, venuto da “quasi la fine del mondo”, sulla scia di quanto invocato da un suo predecessore, Giovanni Paolo II, decide, in prossimità delle feste natalizie, di incontrare gli “invisibili”; coglie l’occasione per affrontare temi cruciali. Dalla violenza alle donne al sovraffollamento delle carceri: “È tanto, tanto grande il numero di donne picchiate, abusate in casa, anche dal marito. Il problema è che per me è quasi satanico, perché è approfittare della debolezza di qualcuno che non può difendersi, può soltanto fermare i colpi. È umiliante, molto umiliante?. E poi l’altro suo tema assillante, le carceri: “Il sovraffollamento delle carceri è un muro, non è umano! Qualsiasi condanna per un delitto commesso deve avere una speranza, una finestra. Un carcere senza finestra non va, è un muro”. E in risposta alle domande di un ex ergastolano che racconta anche l’esperienza della pandemia in carcere: “Una cella senza finestra non va. Finestra non necessariamente fisica, finestra esistenziale, finestra spirituale. Poter dire: “Io so che uscirò, io so che potrei fare quello o quell’altro”. Per questo la Chiesa è contro la pena di morte, perché nella morte non c’è finestra, lì non c’è speranza, si chiude una vita”. È una presa di posizione vigorosa, che dovrebbe scuotere chi, nelle istituzioni, ricopre incarichi di responsabilità: spronarli, spingerli a intervenire, provvedere. Chissà che anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in quello che sarà il suo ultimo messaggio di fine anno al Paese, non ritenga necessario, opportuno, richiamare l’attenzione di tutti e di ciascuno, su questa emergenza “invisibile”. Voltaire e Dostoevskij sostengono che se si vuole misurare il grado di civiltà di un Paese si deve guardare in che condizioni si trovano le carceri. Se questo è il metro, la situazione, per quello che riguarda l’Italia è davvero sconfortante. Lo sanno bene i Radicali che ciclicamente, e anche di recente, visitano le carceri; lo sa bene “Nessuno tocchi Caino”, che anche quest’anno ha tenuto il suo congresso dentro un carcere, quello milanese di Opera. Lo sa bene Rita Bernardini che da un paio di settimane conduce un silenziato e ignorato sciopero della fame. Non lo sanno tutti coloro che guardano le televisioni pubbliche o private che siano: non una notizia, un’inchiesta, un approfondimento, un dibattito; anche solo per dire che sbagliano tutto e che così non si fa e non si deve. Tuttavia il numero di detenuti continua a eccedere la capacità degli istituti, e rende il sovraffollamento una vera e propria emergenza. Da questo punto di vista l’Italia vanta il risultato peggiore: oltre 120 detenuti ogni 100 posti disponibili, superato negativamente solo da Cipro. Il Covid poi ha aggravato, se possibile, la situazione, e accade che in molte carceri i detenuti hanno a disposizione meno di quei già miseri 4 metri quadrati di spazio pro capite, soglia minima indicata dal comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Questa è una delle eredità che il 2021 lascia al 2022. Una “impellente urgenza”, la definì, anni fa il presidente Giorgio Napolitano in un messaggio al Parlamento. Sono trascorsi più di sette anni, da quell’appello-denuncia. L’impellente urgenza continua a restare tale. Cartabia rilancia: “Presto proposte concrete per migliorare il carcere” di Davide Varì Il Dubbio, 27 dicembre 2021 Il messaggio della guardasigilli ai direttori degli istituti penitenziari, ai magistrati e al personale degli uffici giudiziari in occasione delle festività natalizie. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha inviato “un messaggio di ringraziamento e di vicinanza” a tutti i direttori degli istituti penitenziari, ai magistrati e al personale degli uffici giudiziari in occasione delle festività natalizie, riconoscendo il “delicato ruolo” che sono chiamati a svolgere, “tanto più in una fase complessa che richiede la soluzione di molti problemi legati anche alla pandemia”. “Il mio è un messaggio di vicinanza, oltre che di riconoscenza, nella convinzione di poter percorrere al vostro fianco un percorso di rinnovamento che giovi all’intera comunità penitenziaria”, ha spiegato la ministra, aggiungendo che “proprio qualche giorno fa si sono conclusi i lavori di una Commissione a cui ho chiesto di lavorare per elaborare proposte per il miglioramento della vita quotidiana in carcere. Proposte concrete - ha rimarcato Cartabia - nate dall’esperienza di chi vive il carcere ogni giorno e ispirate ai valori costituzionali, che sempre dobbiamo tenere nel nostro sguardo, ogni mattina in cui ricominciamo il nostro lavoro varcando le soglie dei cancelli di detenzione”. La ministra aveva ribadito il suo impegno per risolvere l’emergenza carcere qualche giorno fa in occasione di un incontro con Rita Bernardini, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino e storica militante radicale nel 19esimo giorno dello sciopero della fame. La guardasigilli conta molto sul lavoro della Commissione da lei istituita per migliorare le condizioni nelle carceri, commissione capeggiata da Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto Costituzionale. “Mi ha chiesto di sospendere lo sciopero della fame per le feste natalizie - ha spiegato Bernardini - e mi ha autorizzato di rendere pubblico questo suo auspicio. Vedremo. Spes contra spem”. Regali in carcere. “Sì al contatto diretto col figlio, anche al 41 bis” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 dicembre 2021 Sebbene il regime di massima sicurezza vieti il passaggio di oggetti nel colloquio mensile con i familiari dietro vetro divisorio, un detenuto al 41 bis deve ugualmente poter avere - impone ora la Cassazione - la possibilità di consegnare di propria mano al figlio sotto i 12 anni i giocattoli o i dolci che gli abbia comprato come regalo: pena altrimenti “la lesione del suo diritto (tutelato dagli articoli 30 della Costituzione e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) al mantenimento di una relazione familiare il più possibile simile alla normale quotidianità”. Alla I sezione della Cassazione il ricorso del Ministero della Giustizia chiedeva di negare al capo di una delle più potenti cosche di ‘ndrangheta, al 41 bis, la facoltà sulla quale era invece possibilista il magistrato di sorveglianza di Sassari: per il Ministero avrebbe potuto essere la scusa per fare uscire all’esterno istruzioni criminali, mentre per il bimbo “non avrebbe fatto differenza chi materialmente gli avesse consegnato il regalo” del padre. E il giudice, che invece riteneva che “sul piano affettivo la consegna diretta da parte del genitore potesse assumere un significato ben più pregnante di quella effettuata dagli agenti”, per il Ministero stava operando un bilanciamento (con le esigenze di sicurezza) “preclusogli dalla valutazione del legislatore” di non ammettere eccezioni. Vero, ma ciò - obietta la sentenza redatta da Carlo Renoldi nel collegio presieduto da Angela Tardio - va “nondimeno collocato nell’articolato tessuto costituzionale” che giudica “illegittimo un decremento di tutela di un diritto fondamentale (quale indubitabilmente l’ordinario sviluppo del minore) se a esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango, che possa essere diversamente protetto”: ad esempio con la consegna del giocattolo “in confezione sigillata, solo pochi istanti prima messa dal personale a disposizione del detenuto previamente perquisito, peraltro sotto vigilanza della telecamera che registra e con ascolto di un’agente”. Giustizia. La riforma incompleta da ultimare ad ogni costo di Carlo Nordio Il Messaggero, 27 dicembre 2021 Durante la conferenza stampa di fine anno, il presidente Draghi ha annunciato il raggiungimento dei 51 obiettivi concordati con la Commissione Europea per ottenere la prima rata degli aiuti previsti nel Piano di ripresa e resilienza (Pnrr). Ha anche aggiunto che il cammino è ancora lungo, e che occorrerà lavorarci sopra. Sono due affermazioni complementari, e altrettanto ineccepibili. Qui ci occupiamo del tratto ancora da percorrere per ottenere una giustizia quantomeno decente. Ma prima una considerazione di ordine generale. Il compito primario, se non esclusivo, affidato al governo era vitale ma limitato: gestire la pandemia, e predisporre un progetto sufficiente a ottenere i sussidi europei. In questo senso gli obiettivi sono stato raggiunti, e Draghi può dirsene orgoglioso. La nomina del generale Figliuolo - che ha rimediato con l’intelligenza del pianificatore e l’energia del militare, alle infelici iniziative dei banchi a rotelle e delle “primule” arcuriane - ha assicurato il rilancio dell’attività economica e una buona protezione anche contro le minacciose varianti virali. Nei confronti della Ue, il successo è testimoniato dalla tenuta dei mercati e dagli elogi persino della stampa estera più diffidente verso la nostra attitudine dissipatrice. E quanto alla giustizia, la ministra Cartabia ha inaugurato un indirizzo virtuoso sconosciuto ai suoi predecessori. Le sue recenti riforme sono, per usare un’espressione di Benedetto Croce, piccoli monumenti di sapienza giuridica. Tuttavia sono essenzialmente simbolici, perché c’è ancora molto da fare: qui il cammino non è solo lungo, come ha detto Draghi, ma dannatamente insidioso. Dunque andiamo per ordine. Il codice penale, che prevede la struttura del reato e il catalogo dei delitti e delle pene, è del 1930. E ciò la dice lunga sulla schizofrenia del nostro legislatore, che vorrebbe punire chi parla bene di Mussolini, in base a un codice che reca il suo nome. E non è tutto. Paradossalmente, dopo quasi 75 anni di Costituzione “nata dalla Resistenza”, il codice penale regge molto meglio di quello di procedura, firmato da Giuliano Vassalli, partigiano socialista e pluridecorato. Questo testo è stato infatti mutato, integrato, alterato e scombinato da diventare un’arlecchinata dove nessuno capisce più nulla. Anche il lettore refrattario al giuridichese può accertarsene sfogliandone le pagine, dove sotto ogni articolo ci sono altrettante righe in corsivo che ne documentano le modifiche. La riforma Cartabia vi ha messo qualche toppa: tuttavia, come insegna il Vangelo, non si può mettere il vin buono nella botte marcita. Il codice di procedura andrebbe integralmente rifatto, attuando l’indirizzo liberale auspicato dal povero Vassalli e miseramente franato. Vasto programma. Poi l’ordinamento giudiziario. Anche qui Cartabia ha fatto quasi un miracolo, prodigandosi per impedire le cosiddette porte girevoli, cioè il ritorno in toga dei magistrati entrati in politica. Ancor più meritevole è stata la limitazione delle esternazioni nei confronti degli indagati, e nella riaffermazione della presunzione di innocenza. Si tratta ora di vedere come queste norme saranno applicate, perché quelle esistenti sono sempre state disattese. Vedremo. Infine il Csm. Qui la confusione è enorme. Dopo lo scandalo Palamara, che ha fatto emergere la baratteria delle cariche da parte delle correnti, la credibilità di questo organo è precipitata. A darle il colpo di grazia è stata la ripetuta bocciatura da parte dei giudici amministrativi della nomina del Procuratore della Repubblica di Roma, finalmente sostituito pochi giorni fa dopo anni di contenzioso. Ora le proposte di riforma riguardano il sistema elettorale dei suoi membri. Sarà una fatica inutile, perché le correnti escogiteranno mille artifici per mantenerne il controllo, spartendosi le circoscrizioni attraverso accordi di desistenza, come hanno fatto i partiti nel ‘94 dopo l’introduzione del sistema uninominale. L’unico rimedio a tale degenerazione è il sorteggio, cui cominciano ad aderire toghe autorevoli, come il superprocuratore antimafia, e persino alcune appartenenti allo stesso Csm. Ma per fare questo bisognerà cambiare la Costituzione. Come si vede, tutti i pilastri della nostra giustizia penale, cioè i due codici, l’ordinamento giudiziario e il Csm sono da rivedere o addirittura da ricostruire. È un lavoro immenso che comunque, per quanto buona sia la volontà di un ministro e di un governo, spetta al Parlamento. Ma è un lavoro che va fatto, per citare Draghi, “Whatever it takes”. O meglio, per citare Churchill, “Whatever the cost and the agony may be”: quali che siano il costo e le difficoltà. Perché le difficoltà saranno enormi, e i costi dolorosi per chi proverà a metterci mano. A meno che l’esito dell’imminente referendum non dia un segnale forte ed univoco della volontà riformatrice del popolo italiano. Cartabia piazza Sisto, il legale di Berlusconi, a giudicare i magistrati di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2021 La riforma Cartabia è slittata ché non s’è ancora trovata la quadra nel governo dei Migliori. Ma la Guardasigilli ha già messo al sicuro un risultato: a occuparsi delle valutazioni di professionalità dei magistrati e di altri aspetti che riguardano carriere e dunque promozioni negli uffici giudiziari sarà il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, deputato di Forza Italia e già legale di fiducia di Silvio Berlusconi. Che si è visto ampliare le deleghe con un provvedimento, transitato in Gazzetta Ufficiale la vigilia di Natale, che prevede che sia proprio lui, lo scudo umano dell’ex Cav, a firmare gli atti che competono al ministero di via Arenula su applicazioni extra distrettuali, aspettative, formazione di tabelle giudiziarie E anche le valutazioni periodiche di professionalità, uno dei punti che verrà toccato dalla attesa riforma che, stando alle anticipazioni, prevede pagelle per le toghe e anche il riconoscimento all’Avvocatura del diritto di voto nelle delibere sulla valutazione di professionalità e in materia di conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi. Una ipotesi contro cui si è già espressa è l’Associazione nazionale magistrati per il rischio che “tale previsione possa alterare il principio di parità delle parti nel processo e incidere sulla serenità e imparzialità della giurisdizione”. La certezza è che, vada come vada, sarà l’avvocato berlusconiano Sisto a dover vagliare e eventualmente firmare gli avanzamenti di carriera delle toghe sì invise da sempre al suo capo partito e dunque anche a lui. Che è tra le punte di diamante della guardia armata di Silvio, quella del picchetto anti toghe del 2013 sotto Palazzo di giustizia a Milano: per Sisto “una protesta seria contro l’uso politico della giustizia”. Barese, classe 1955, avvocato penalista, parlamentare di FI dal 2008, Sisto è uno dei tanti legali di Silvio Berlusconi premiati con un seggio. “Per noi è come se fosse Fidel Castro, è il Lider Maximo” si è lasciato sfuggire durante le ultime consultazioni a proposito del capo di Forza Italia che per lui è anche un cliente danaroso: lo ha difeso dall’accusa di aver indotto a tacere e a mentire Gianpi Tarantini, quello dei festini e delle escort procacciate per rimboccare le coperte all’ex Cav a Palazzo Grazioli con la stessa lena da super falco con cui in Parlamento ha sottoscritto le leggi ad personam. Per lui ha combattuto la battaglia contro la legge Severino (votata anche da FI) che è già costata la decadenza da senatore a Berlusconi per via della condanna per frode fiscale: è proprio Sisto a inventare l’emendamento alla Severino che svuota il reato di concussione per induzione, di cui il Lider Maximo è casualmente imputato nel processo Ruby. Ma è ai magistrati che Sisto non perdona nulla. Dipendesse da lui, tanto per dire le intercettazioni non esisterebbero proprio: “Le esigenze del processo non sono sempre prevalenti: esiste un diritto alla vita privata, alla riservatezza, alla libertà di espressione che conta quanto e talvolta più delle esigenze investigative”. E il trojan? “È Inquisizione allo stato puro”, mentre la prescrizione - va senza dire - è una manna: quando l’ex ministro Bonafede la blocca dopo il primo grado, Sisto si appella ai “partigiani della Costituzione di Forza Italia”. Intanto, fra un “legittimo impedimento” e l’altro, riesce a far slittare il processo al cliente delle escort di Palazzo Grazioli: l’ultima volta a gennaio 2021 adducendo i consueti motivi di salute che pregiudicano la presenza a Bari di Berlusconi, che però non si è certo perso le consultazioni con Mario Draghi in vista del battesimo del governo. Dove s’è trovato uno strapuntino anche per Sisto che da sottosegretario alla Giustizia sta una pacchia. Dentro il governo ci sono sensibilità diverse certo, ma i tempi bui sono alle spalle: con Cartabia in via Arenula, parole sue, “c’è stata una rivoluzione copernicana”. La ministra lo ricambia ampliandogli le deleghe già che è l’ora delle scelte. “In medicina c’è un tempo per la diagnosi, per i consulti, le anamnesi: poi viene il tempo della terapia” dice Sisto, che per i magistrati ha da sempre in mente la cura. La sfida della modernità: garantire il dubbio, anche di fronte a un algoritmo di Giovanni Canzio Il Dubbio, 27 dicembre 2021 L’irruzione nel processo penale della prova tecnologica e scientifica. L’intervento del Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione Giovanni Canzio. 1. Occorre partire dalla definizione dello statuto epistemologico e costituzionale del processo penale moderno, la cui funzione cognitiva e aletica s’ispira al modello occidentale del razionalismo critico: il “paradigma indiziario o divinatorio” a fronte del “paradigma galileiano o scientifico” (C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Crisi della ragione, Einaudi, 1979). Il processo penale s’innerva, infatti, intorno ai concetti di ipotesi e fatti, indizi e prove, verità e dubbio, conferma e falsificazione dell’ipotesi, giustificazione razionale della decisione, controllo impugnatorio della motivazione. Di qui, l’ormai acquisita consapevolezza della valenza soltanto probabilistica del giudizio di conferma dell’enunciato di partenza, in funzione dell’accertamento dell’ottimale corrispondenza, verosimiglianza, plausibilità dell’ipotesi rispetto al fatto realmente accaduto nel passato (lost facts). Il paradigma indiziario postula, cioè, non la certezza o verità materiale e assoluta, ma l’alta credibilità razionale della soluzione decisoria di conferma dell’enunciato di accusa, in termini di alta e qualificata probabilità.Nel trial by probabilies si annida il rischio che la decisione possa essere inficiata da distorsioni o errori cognitivi del giudice (Kanheman- Slovic-Tversky, Judgement under Uncertainty, Heuristics and Biases, Cambridge University Press, 1982), per ridimensionare il quale l’ordinamento giuridico appresta una fitta rete di regole epistemologiche e di legalità sia del procedere che del ragionamento probatorio. Esse s’ispirano ai metavalori costituzionali che disciplinano il “giusto processo”: la presunzione di innocenza dell’imputato e l’onere della prova a carico soltanto dell’accusa; il principio del contraddittorio come metodo dialettico di verifica delle prove e di ricerca della verità; il giudizio conclusivo di conferma o falsificazione dell’ipotesi, nel contesto di una motivazione e alla stregua del criterio dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio”; il controllo impugnatorio di legalità e di logicità della giustificazione. In estrema sintesi: la legge (art. 101, comma 2 Cost.) e la ragione (art. 111, comma 6 Cost.) costituiscono presidi della razionalità del giudicare e fonti di legittimazione della giurisdizione e dei giudici. 2. Nel vedere due filosofi che si affrontavano in una disputatio Leibniz invitava entrambi a “sumere calamos e abacos”, le tavolette di calcolo, e attraverso la formalizzazione del linguaggio e dei concetti, a convertirsi in “calculatores” per risolvere correttamente la controversia. Al “Calculemus” di Leibniz (1684) rispose negli anni ‘30 del secolo scorso B.N. Cardoso, giudice della Corte Suprema USA, sostenendo che “ancora non è stata scritta la tavola dei logaritmi per la formula di giustizia”. Da alcuni decenni si assiste tuttavia alla decisa irruzione nel processo penale della prova tecnologica e scientifica, e, ancora più di recente, al progressivo ingresso di varie e inedite forme di intelligenza artificiale. Va emergendo il fenomeno dell’utilizzo, da parte di alcune Corti statunitensi (il leading case è identificato in Wisconsin S.C., State v. Loomis, 881, Wis. 2016; v. anche Indiana S.C., Malenchick v. State, 928, Ind. 2010), di tecniche informatiche per misurare il rischio di recidivanza del condannato, ai fini della determinazione dell’entità della pena o di una misura alternativa alla detenzione.L’apprezzamento di m erito del giudicante in ordine alla propensione dell’imputato a ripetere il delitto non trova la soluzione in un criterio metodologico di accertamento del fatto e neppure in una puntuale prescrizione della legge, ma viene affidato a un algoritmo di valutazione del rischio (Risk Assessment Tools), elaborato da un software giudiziario (Compas: acronimo di Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions), brevettato e prodotto dalla società privata Northpointe, che vanta il segreto industriale su codice sorgente, database e tecniche di elaborazione dei dati. Sono evidenti i risultati pratici, in termini di risparmio di tempi e costi, di semplificazione delle procedure e di tendenziale calcolabilità e uniformità delle decisioni (oltre che di ridotta responsabilità del giudicante), conseguiti dall’impiego del modello matematico-statistico nell’esercizio di quella che viene definita “giustizia predittiva”. Sicché, neppure le cautele e i warnings delle Corti o lo scetticismo dei giuristi, quanto al rispetto delle garanzie del “due process”, nella raccolta delle informazioni utili per la valutazione del rischio nel mondo reale, e all’eventuale pregiudizio discriminatorio, sono riusciti a frenare l’impetuosa avanzata delle tecniche informatiche di tipo predittivo nel sistema statunitense di giustizia penale. Si è forse agli inizi di uno sconvolgente mutamento dello scenario tradizionale della giurisdizione penale, in un profondo e inquieto rimescolamento delle coordinate tipiche dei due paradigmi, indiziario e galileiano, che non sembrano più concettualmente distinti e autonomi? A fronte della complessità tecnica e della fatica delle tradizionali operazioni giudiziali ricostruttive del fatto, la postmodernità sta mettendo in crisi l’equità, l’efficacia e le garanzie del modello del razionalismo critico, oppure resta ben salda e vitale l’arte del giudicare, seppure “reasonig under uncertainty” e “by probabilities”? Quali saranno le nuove frontiere delle strategie di crime control per la giustizia penale: dalla giustizia giusta alla giustizia esatta? 3. Le decisioni delle Corti statunitensi hanno suscitato - com’era largamente prevedibile - serie e fondate critiche da parte della comunità dei giuristi con riguardo al rischio di distorsioni cognitive dello stesso algoritmo (Bias Automation), per l’opacità del database, l’indeterminatezza del codice sorgente, l’automatica implementazione del software, l’accreditamento di pratiche discriminatorie. Di qui l’intervento della comunità internazionale (si veda, ad esempio, la “Carta etica sull’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e nel loro ambiente”, adottata il 3 dicembre 2018 dalla Commissione europea per l’efficienza dei sistemi di giustizia - CEPEJ -), diretto ad assicurare che l’utile arricchimento delle fonti informative del giudice e le predizioni del modello statistico-matematico si coniughino sempre con il nucleo epistemologico tradizionale delle garanzie del giusto processo e rispondano comunque a criteri di specifica responsabilità dell’uomo. La coerenza logica del calcolo algoritmico va verificata in un processo d’integrazione fra le misurazioni quantitative, ricche e imponenti, da esso offerte con il percorso cognitivo e decisorio del giudice, nel rispetto dei metavalori dell’ordinamento. Insomma, sembra avere titolo ad accedere al processo penale soltanto lo standard “debole”della intelligenza artificiale, che consenta all’uomo di mantenere comunque il controllo della macchina. Come, d’altra parte, già avvertiva la S.C. del Wisconsin nella sentenza Loomis (il software COMPAS “… should be always constitute merely one tool available to a Court, that need to be confirmed by additional sound informations…”), anche le linee guida della citata Carta etica europea rimarcano il criterio della non esclusività del dato algoritmico per la decisione, che dev’essere viceversa riscontrato - corroborato - da ulteriori e diversi elementi di prova (sul punto, v. anche l’art. 8 del D.lgs. n. 51/2018 in tema di privacy). Come pure meritano rilievo gli ulteriori criteri, indicati dalla Carta, della tutela dei diritti fondamentali della persona, della non discriminazione, della trasparenza, equità e comprensibilità dei metodi di elaborazione dei dati informatici, della controllabilità dei percorsi di calcolo, della qualità e attendibilità scientifica del risultato. Dunque: fitness, ma anche discovery, corroboration, accountability. 4. Occorre porsi a questo punto le seguenti domande: come organizzare correttamente l’accesso nel contesto del processo penale di questo tipo di electronic evidence, un peculiare sottoinsieme della prova scientifica e tecnologica, al fine di implementare la qualità delle performance cognitive e decisionali del giudicante? come assicurare che sulla prova così acquisita trovi spazio il diritto di difesa, attraverso il confronto dialettico, la confutazione, la prova contraria, il dubbio? come garantire il contraddittorio “sulla” prova, in funzione della validazione scientifica del risultato probatorio e contro la deriva tecnocratica della giurisdizione? Sono noti i criteri enunciati nel 1993 dalla Corte Suprema statunitense nella sentenza Daubert v. Merrel Dow Pharmaceuticals, Inc., 509 US 579 (1993), in base ai quali il giudice deve vagliare l’effettiva affidabilità di una teoria o un metodo e di un expert testimony, ai fini della loro ammissibilità come prova scientifica nel processo: la controllabilità mediante esperimenti; la falsificabilità mediante test di smentita con esito negativo; la peer review della comunità scientifica di riferimento; la conoscenza della percentuale di errore dei risultati; infine, il criterio subordinato e ausiliario della generale accettazione da parte della comunità degli esperti. La Corte di Cassazione italiana (Cass., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, Cozzini), nel condividere sostanzialmente i Daubert standard, ne ha arricchito la portata, con riguardo alla fase della valutazione della prova scientifica da parte del giudice, aggiungendo i criteri dell’indipendenza e dell’affidabilità dell’esperto, l’ampiezza e il rigore del dibattito critico che hanno accompagnato la ricerca, le finalità e gli studi che la sorreggono, l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica. 5. Ma risulta davvero efficace rinviare la verifica della coerenza logica di questa speciale categoria di prova tecnologica al contraddittorio “sulla” prova, quando essa sia stata già ammessa e acquisita e le parti siano ormai posizionate dentro il dibattimento; oppure sarebbe più utile costruire, nell’organizzazione del processo, un filtro di accesso, preventivo e a maglie strette, al fine di escludere - all’esito di un contraddittorio “per” la prova - addirittura che entrino nel patrimonio probatorio informazioni non sorrette da legittima validazione scientifica? La scienza e la tecnologia irrompono nel crogiuolo dell’esperienza giuridica. Ciò comporta che il funzionamento delle Corti, nelle questioni in cui sono coinvolte dimensioni tecniche e scientifiche, soprattutto se nuove per l’interprete, debba essere più flessibile, quanto al controllo delle parti sulle modalità di assunzione della prova, alla discovery e al contraddittorio, nel momento e in funzione sia dell’ammissione che della valutazione della prova, e, dall’altro, più rigoroso quanto alla verifica di attendibilità del risultato probatorio. Merita di essere segnalato, in proposito, un passo della Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale del 1989 (p. 60), riguardante la portata dell’art. 189 c.p.p.: “È sembrato che una norma così articolata possa evitare eccessive restrizioni ai fini dell’accertamento della verità, tenuto conto del continuo sviluppo tecnologico che estende le frontiere dell’investigazione, senza mettere in pericolo le garanzie difensive”. Norma cardine, questa, nell’intentio legis, diretta ad assicurare, con l’apporto della scienza nella ricerca della verità, l’opportuna flessibilità del sistema processuale in materia di prova scientifica o tecnologica (nuova). L’apprezzamento di rilevanza, non superfluità e concreta idoneità (fitness) della prova “ad assicurare l’accertamento dei fatti” - senza che ne resti pregiudicata “la libertà morale delle persone” - è rimesso al vaglio critico del giudice. Allo scopo di garantire l’anticipata conoscenza delle parti circa le metodologie che saranno applicate nell’accertamento, il giudice, dopo avere sentito le parti sulle modalità di assunzione della prova, provvede all’ammissione con ordinanza, fissando le regole per la corretta applicazione dei metodi e delle procedure tecniche di acquisizione della stessa. Come si vede, un filtro, questo dell’art. 189, a maglie ben più strette rispetto a quello previsto dall’art. 190, comma 1, che, ai fini dell’ammissione della prova in genere, si limita a selezionare negativamente solo “le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti”: un filtro, inoltre, che è assistito da un significativo rafforzamento del contraddittorio anticipato, “per” la prova, ancor prima che “sulla” prova. 6. Al bivio tra tecnologia e tecnocrazia, ancora una volta la sfida della postmodernità si sposta, a ben vedere, sul terreno della concreta efficacia del modello processuale. La moderna ricerca socio-giuridica, anche alla luce delle prassi applicative già in corso in alcuni Paesi, auspica che l’approccio della giurisdizione al fenomeno dell’IA si basi su una metodologia estremamente pragmatica. Non vi è dubbio che il livello di efficacia, qualità e prevedibilità della giurisdizione penale sarebbe più alto ed apprezzabile se essa venisse esercitata nell’ambito di una procedura articolata in una dinamica interazione fra i saperi e le operazioni logiche tradizionalmente affidate al giudice e alle parti, da un lato, e le evidenze della prova informatica o di quella digitale o del calcolo di un algoritmo, dall’altro. D’altra parte, è cresciuta nella società la legittima pretesa che il giudice, nell’esercizio dell’arte del giudicare e nella pratica giudiziaria, sia un buon ragionatore e un decisore di qualità. Sicché la professionalità, l’etica e l’implementazione del grado di expertise accumulata dal giudice nell’utilizzo delle tecniche inferenziali del ragionamento e nella verifica degli schemi statistico-probabilistici, acquisiti con l’ausilio della tecnologia digitale, di software informatici e algoritmi predittivi o con l’apporto della robotica e della logica dell’IA, potrebbero certamente contribuire a restituire al funzionamento della giustizia penale una più adeguata immagine di efficacia e qualità. Lode a Desmond Tutu e al suo modello di una vera giustizia di Giuliano Ferrara Il Foglio, 27 dicembre 2021 Norimberga fu una via politica alla giustizia, la commissione per la verità e la riconciliazione di Desmond Tutu (1931-2021) e Nelson Mandela fu un’altra via politica alla giustizia. Ma esistono vie non politiche alla giustizia? È possibile giudicare senza essere nell’azione storica, emettere sentenze che non abbiano un contenuto di pensiero e un orientamento di cultura e civiltà relativizzabili, interpretazioni che è difficile dichiarare oggettive? L’Arcivescovo anglicano di Città del Capo, morto novantenne nel giorno di Natale, era un tipo tostissimo, famoso per le sue lacrime ma di ferrea costituzione morale e di grande umanità politica. Norimberga spense, liquidandone le gerarchie mediante impiccagione, una fiammata di delirio razziale e imperiale, il regime del nazionalsocialismo. Churchill, che aveva il talento della verità ma era di mestiere un leader cinico, disse qualcosa di definitivo quando i capi nazisti e i loro funzionari di alto grado furono impiccati: “Stiamo attenti a non perdere la prossima guerra”. L’Arcivescovo non era un cinico, non poteva esserlo per mestiere. E l’apartheid era un’altra cosa rispetto al Terzo Reich, sebbene i metodi per attuarlo fossero anch’essi demoniaci, intrisi di violenza e discriminazione, una sospensione del diritto umano generale incarnata in una lunga serie di luttuose violazioni dell’integrità di un popolo. La genialità di Tutu, che non sarebbe stata possibile senza il conforto e la collaborazione di Mandela (la Commissione si riunì nel 1995 e durò fino al 2003), fu precisamente in questo: il riconoscimento del carattere peculiare dell’apartheid, un regime di offesa sistematica a una maggioranza oppressa e di difesa, al tempo stesso, di una minoranza coloniale che rivendicava titoli inesistenti al suo predominio eternizzato della violenza. Per capire questo c’era forse bisogno di un re scespiriano, come Mandela dopo decenni di carcere, e di un cuore cristiano, capace di non essere un cuore di pietra. L’idea fu grande e terribile, diede un carattere del tutto nuovo alla seconda metà del Novecento: introdurre il criterio della riconciliazione, e delle pratiche di amnistia ove possibile, all’interno della ricerca della verità, portare oppressi e oppressori, con le loro testimonianze a uno stesso bancone processuale, introdurre come protocollo giuridico l’istituto religioso e etico del perdono. Nel modello di Tutu le vittime avevano diritto alla verità, ma non alla vendetta. Alla fine si ridusse a qualche migliaio il numero degli amnistiati, ma si affermò tra le polemiche e le disperate incomprensioni (celebre quella della famiglia di Steve Biko) un principio che oggi tutte le campagne di guerra ideologica rinnegano, e cioè che non sono le vittime a fare giustizia, non si deve credere alla versione delle vittime per partito preso o per solidarietà, bene e male si ricostruiscono sempre nella cross examination, almeno nel segno del realismo e della pace perseguita, con le modalità del confronto e del contraddittorio, per quanto possa risultare odioso inseguire la riconciliazione dei martoriati con i carnefici. Il resto è obnubilamento, non giustizia, nemmeno una relativistica giustizia politica. Quell’uomo delicato, sentimentale in apparenza, e ferrigno, ha dato al mondo una lezione che è l’opposto esatto della cancel culture e del #MeToo e della caccia ossessionale alla pedocriminalità nel clero cattolico. Non era nelle sue intenzioni, non era nelle premesse, ma la Commissione per la verità e la riconciliazione resterà come un lascito, per quanto molti l’abbiano giudicata un teatro dell’assurdo, di intelligenza e comprensione, due ingredienti oggi largamente perduti, decisivi di ogni forma di giustizia. Burzi, le lettere dell’ex assessore piemontese suicida dopo la condanna di Diego Longhin e Sara Strippoli La Repubblica, 27 dicembre 2021 La moglie: “Sentenza politica, era innocente”. Tra i fondatori di Forza Italia, 73 anni, aveva ricevuto la pena più alta nel processo Rimborsopoli dopo essere stato assolto in primo grado. “Si è ucciso perché si sentiva innocente, lo ha fatto perché era innocente”. Giovanna Perino ha avuto la lettera del marito che si è tolto la vita la sera della vigilia di Natale con un colpo di pistola. Un gesto che appare premeditato, organizzato nei dettagli. Angelo Burzi, 73 anni, liberale, ex assessore della giunta di Enzo Ghigo, tra i fondatori di Forza Italia, protagonista del passaggio al Pdl, fra banchi del Consiglio regionale tra il 1995 e il 2010, il 14 dicembre era stato condannato a tre anni di reclusione in via definitiva per peculato nell’ambito dell’inchiesta Rimborsopoli, una maxi indagine sull’uso improprio del denaro destinato ai gruppi consiliari. Il politico, che ha incassato la pena più alta perché capogruppo, ha lasciato tre lettere, una per la moglie, la seconda per le due figlie, la terza indirizzata a cinque amici fidati, non solo compagni di partito. Un lungo messaggio di due pagine in cui ricostruisce la sua vicenda giudiziaria. “La sua è stata una condanna politica - dice la moglie per smentire le ricostruzioni che attribuirebbero alla scoperta di una malattia il gesto estremo - è stato perseguitato per quasi dieci anni”. La sera della vigilia di Natale Burzi, con una scusa, è rimasto a casa, lasciando andare la moglie dai parenti a festeggiare. Poi ha chiamato i carabinieri: “Sto per suicidarmi, non voglio che sia mia moglie a trovarmi, avvisatela voi”. Inutile la corsa degli uomini dell’Arma nella casa di piazza Castello. “In primo grado Angelo era stato assolto - ricorda ora la moglie - chi l’aveva giudicato in quella occasione aveva analizzato con attenzione la situazione”. Nella lettera il marito ha voluto citare la giudice Silvia Bersano Begey: “Angelo la ringrazia per il lavoro fatto, molto diverso rispetto a quello di altri suoi colleghi che sono venuti dopo”. La condanna gli sarebbe costata anche il taglio del vitalizio che gli spettava da consigliere regionale e assessore. “Un aspetto che viveva come l’ennesima ingiustizia. Per oltre 30 anni ha fatto politica. Era un uomo intelligente, molto intelligente. Se avesse voluto arricchirsi avrebbe trovato il modo, non certo con i buoni pasto e le cene rimborsate”. L’ex governatore del Piemonte Roberto Cota (da poco passato nelle file di Forza Italia) è stato condannato nella stessa inchiesta a un anno e sette mesi di reclusione. Ora chiede una commissione parlamentare d’inchiesta. È lui uno dei destinatari della lettera scritta a mano da Burzi: “Serve un approfondimento politico - dice - Burzi non si dava pace per l’iniquità con cui è stata gestita Rimborsopoli, una delle pagine più incredibili della recente storia giudiziaria”. L’ex presidente del Piemonte, protagonista delle cronache politiche per aver messo a rimborso un costume bollato come “mutande verdi”, s’infervora: “È una vicenda che tra l’altro ha portato a un’inspiegabile differenza di risultati rispetto a spese assolutamente uguali e anche a sentenze diversi su fatti analoghi”. Un altro ex governatore piemontese dal ‘95 al 2005, Enzo Ghigo, che aveva avuto Burzi come assessore al Bilancio, dice che quella lettera può essere considerata “un atto politico”: “Angelo è sempre stato un fine politico. Quella di Rimborsopoli è’ stata una vicenda in cui, con indubbie storture da parte di alcuni, anche politici retti e onesti sono stati travolti, convinti in buona fede, secondo le regole di allora, di non aver commesso illeciti”. Qualcuno ha cercato di appannare la sua immagine, si commenta nella sede di Forza Italia: “La sua tragedia deve far riflettere il mondo politico, per capire se non vi sia qualche cosa da riformare nel sistema italiano”. Dal green pass al titolo quinto, un anno di passi avanti della giustizia italiana Adnkronos, 27 dicembre 2021 Numerose le sentenze legate all’emergenza covid. Lo scorso 11 novembre la Corte ha dichiarato legittimo il blocco degli sfratti per morosità durante la pandemia, ma ha anche definito “non tollerabile” una proroga oltre il 31 dicembre (sentenza numero 213). Incostituzionale anche, sempre parlando di sfratti, la seconda proroga della sospensione delle procedure esecutive sull’abitazione principale del debitore. La Corte ha stabilito nella sentenza 128 del 2021, lo scorso giugno, che non è più proporzionato il bilanciamento tra la tutela in giudizio del creditore e quella del debitore nelle esecuzioni sull’abitazione principale La Corte Costituzionale si è anche espressa sui Dpcm con la sentenza del 22 ottobre quando ha sancito che il decreto n. 19 del 2020 non ha attribuito potestà legislativa al presidente del consiglio. Pertanto ha dichiarato legittimo l’uso dei dpcm per il contrasto al covid. La prospettiva dei rapporti tra Stato e regioni durante il covid è stata trasformata dalla rilevante sentenza numero 4 del 2021, in cui la Consulta ha sospeso la legge della Valle D’Aosta. Una “pandemia globale” come il Covid non ammette “misure differenti da quelle previste dalla normativa statale”, afferma la Corte bloccando la legge della Valle D’Aosta che consentiva aperture contro il decreto del governo Conte. Fu l’ex premier a rivolgersi alla Consulta che gli ha dato pienamente ragione. La Corte ha inoltre stabilito che è incostituzionale la sospensione della prescrizione conseguente al rinvio di udienza disposto per motivi organizzativi legati all’emergenza epidemiologica. Secondo la sentenza 140 del 201, lo scorso 6 luglio, contrasta col principio di legalità la sospensione della prescrizione prevista se il capo dell’ufficio giudiziario adotti un provvedimento di rinvio dell’udienza penale, nell’ambito di misure organizzative volte a gestire l’emergenza pandemica e a contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria. In piena pandemia ed emergenza sanitaria in Calabria, è arrivata la pronuncia sul commissariamento della sanità della Regione, definito parzialmente incostituzionale. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 168 secondo cui non basta cambiare il vertice in situazioni particolarmente critiche come quella dell’ultradecennale commissariamento della sanità calabrese, lo Stato non può limitarsi a un “mero avvicendamento del vertice, senza considerare l’inefficienza dell’intera struttura sulla quale tale vertice è chiamato a operare in nome dello Stato”. È quindi incostituzionale non avere previsto che al prevalente fabbisogno della struttura di supporto del commissario ad acta debba provvedere “direttamente lo Stato” con personale esterno. È altresì incostituzionale avere imposto alla Regione di mettere a disposizione un contingente “minimo” anziché “massimo” di 25 unità di personale regionale. Significativa, anche in vista dell’attuazione del Pnrr, tra le riforme quella sollecitata dalla Corte sulla Città metropolitana, la cui riforma pur nell’ambito di una sentenza dì inammissibilità, è stata ritenuta dalla Consulta non conforme alla Costituzione, in particolare per quanto riguarda l’individuazione del sindaco, nella sentenza 240 dello scorso 7 dicembre in cui la Corte ha invitato il legislatore ad introdurre norme che assicurino ai cittadini la possibilità di eleggere, in via diretta o indiretta, i sindaci delle Città metropolitane. Indicative le pronunce in materia di ambiente e paesaggio - Illegittima la sanatoria regionale delle dighe, costruite in violazione dell’autorizzazione paesaggistica, secondo la sentenza numero 201 del 28 ottobre. La Consulta in questa sentenza dichiara l’incostituzionalità dell’articolo 11 della legge veneta n. 23/2020 con cui “la Regione aveva consentito ai proprietari o ai gestori di dighe precedentemente ‘non denunciate’ o ‘realizzate in difformità dai progetti approvati’ di regolarizzarle”. Inoltre ‘illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1” della medesima L.R. veneta, “nella parte in cui prevede che l’ambito applicativo della legge sia limitato agli sbarramenti ed ai manufatti di qualsiasi tipo e forma in alveo e fuori alveo, anche temporanei, che non superino i 15 metri di altezza o che determinino un volume di invaso non superiore a 1.000.000 di metri cubi, invece che agli sbarramenti ed ai manufatti di qualsiasi tipo e forma in alveo e fuori alveo, anche temporanei, che non superino i 15 metri di altezza e che determinino un volume di invaso non superiore a 1.000.000 di metri cubi”. Ciò, comunque, “pur ribadendo la competenza delle Regioni in materia di opere di sbarramento idrico di minori dimensioni”. La Corte si è anche pronunciata sulla gestione dei rifiuti nella sentenza 189 ed ha sentenziato che nell’attuale assetto costituzionale delle competenze, le Regioni non possono delegare ai Comuni le funzioni amministrative ad esse attribuite dallo Stato in base a una scelta allocativa compiuta con il Codice dell’ambiente. Pertanto, la Regione Lazio non poteva delegare ai Comuni - come ha fatto con la legge n. 27/1998 - né l’approvazione dei progetti degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti provenienti dalla demolizione di automobili e rimorchi e dalla rottamazione di macchinari e apparecchiature deteriorati ed obsoleti e la relativa autorizzazione a realizzare gli impianti né l’approvazione dei progetti di varianti sostanziali in corso di esercizio e relativa autorizzazione alla realizzazione né, infine, l’autorizzazione ad esercitare l’attività di smaltimento e recupero di questi rifiuti. La tutela dell’ambiente consente alle regioni di allargare l’insieme dei beni paesaggistici, non di ridurlo. Lo ha affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 164 in base alla quale: Le Regioni non possono pianificare lo sviluppo del proprio territorio con scelte di carattere urbanistico se non quando queste ultime siano rispettose dei vincoli posti dallo Stato per tutelare beni di valore paesaggistico. Inoltre, lo Stato può adottare la dichiarazione di interesse paesaggistico di un bene anche quando la Regione sia contraria. La tutela di questi beni risponde infatti a una “logica incrementale”, che consente alle Regioni di allargarne l’ambito ma non di ridurlo, neppure per mezzo dei piani paesaggistici di competenza regionale, da redigere d’intesa con lo Stato. Tra le altre sentenze di importanza rilevante pronunciate nel corso dell’anno, quella che riguarda la diffamazione a mezzo stampa: no al carcere obbligatorio ma l’informazione non si trasformi da “cane da guardia” in “pericolo per la democrazia”, ha stabilito la Consulta. E’ inoltre stata dichiarata illegittima la revoca dei trattamenti assistenziali dei condannati per mafia e terrorismo che scontino la pena fuori dal carcere. Sull’ergastolo ostativo per reati di mafia la Corte ha anche stabilito che la collaborazione non può essere l’unica via per accedere alla liberazione condizionale. Ma spetta al Parlamento individuare le alternative. In ambito edilizia pubblica, secondo la Consulta è discriminatorio escludere i lavoratori autonomi dai canoni di locazione più bassi riservati alle famiglie meno abbienti. Significativa la sentenza che stabilisce che per tutelare i nati da maternità surrogata occorre un riconoscimento giuridico del legame tra il bambino e la coppia che se ne prende cura, dunque una legge che garantisca ai nati pieni diritti all’educazione, all’istruzione, alla stabilità dei rapporti affettivi. Torino. Detenuto morì dopo aver perso 25 kg di peso, familiari si oppongono all’archiviazione La Stampa, 27 dicembre 2021 Diceva di non riuscire a mangiare ma gli operatori del Lorusso e Cutugno credevano che simulasse. Antonio Raddi, detenuto alle Vallette di Torino, morì il 30 dicembre 2019 a 28 anni per una infezione polmonare dopo avere perso 25 chili di peso. Il caso è approdato in tribunale, dove tra qualche giorno verrà discussa la richiesta dei familiari del giovane di non archiviare l’inchiesta. La seconda consulenza tecnica ordinata dalla procura, la prima non era stata giudicata soddisfacente, parla di cure non adeguate. Padova. I detenuti realizzano uno dei migliori panettoni d’Italia di Alessandro Creta cookist.it, 27 dicembre 2021 Si chiama Giotto la pasticceria all’interno del carcere di Padova. Vi lavorano 38 detenuti, coordinati da quattro maestri pasticceri. Il panettone qui realizzato è tra i migliori d’Italia, e ha conquistato anche il New York Times. Si chiama Giotto la pasticceria nella quale lavorano, all’interno del carcere di Padova, 38 detenuti sotto la guida e i consigli di quattro maestri pasticceri. Un progetto di inclusione e riscatto sociale iniziato nel 2005 capace di coinvolgere, fino a oggi, oltre 200 carcerati. Il panettone realizzato qui, guide e classifiche alla mano, è stato giudicato tra i migliori d’Italia, e anche il New York Times ne è rimasto stregato. Nel capoluogo veneto un programma di riabilitazione per i condannati che passa attraverso farina, zucchero e forni. All’interno del carcere della città da circa quindici anni infatti è stato avviato il progetto della pasticceria Giotto, nella quale lavorano detenuti regolarmente contrattualizzati e stipendiati. Su panettoni e pandori, visto l’attuale periodo, il main focus della produzione, ma più in generale escono da questo laboratorio anche colombe, tozzetti, biscotti, praline e tanto altro, con una buona percentuale di dolci esportati all’estero. Dopo il forno/gastronomia del carcere romano di Rebibbia, anche a Padova si vuole concedere attraverso il cibo l’opportunità di riscatto sociale (e professionale) per i detenuti (italiani e stranieri) del Due Palazzi. Un progetto, e una pasticceria, celebrata anche oltre i confini nazionali. Di recente, infatti, addirittura il New York Times ha dedicato un lungo approfondimento natalizio a Giotto, parlando con toni entusiastici del panettone. Come vengono selezionati i pasticceri - Tutti coloro che lavorano all’interno della pasticceria Giotto sono dipendenti, con contratto e regolare stipendio. La selezione del personale avviene attraverso un preciso iter, in cui interviene anche uno psicologo, e tiene conto di fattori come la lunghezza della pena e la necessità di sostentamento della famiglia del detenuto. I compensi, compresi tra 650 e 1000 euro, in larga parte vengono destinati ai parenti. Ritmi di lavoro da autentica pasticceria: sette giorni su sette, tre turni quotidiani (il primo alle quattro di mattina, quando vengono realizzate le brioches destinate agli hotel della zona) con ogni dipendente all’opera per 4 ore. A organizzare le mansioni quattro maestri pasticceri che coordinano, programmano e gestiscono la produzione dei dolci. La pasticceria Giotto apre in centro - Da inizio dicembre i prodotti dolciari realizzati all’interno del carcere padovano sono disponibili presso il nuovo punto vendita dedicato, aperto nel centro cittadino. Un atelier nel quale potranno trovare poi lavoro i detenuti una volta scontata la pena, per completare il loro percorso di reinserimento nella società. Cuneo. I panettieri-detenuti: “Acqua lievito e farina, così ci rimettiamo in gioco” di Elena Sofia Doria La Repubblica, 27 dicembre 2021 Tra le oltre 300 realtà raccontate dalla nuova guida del Gusto e dell’Espresso c’è Mondo Pane, un forno all’interno di un penitenziario. Alessandro è una delle persone a cui ha dato un’opportunità: “Mi dà finalmente la possibilità di muovere le mani dopo anni di fermo. È il mio riscatto personale”. Tra le oltre 300 realtà del mondo della panificazione italiana raccontate nella Guida “I Pani d’Italia” - ultimo volume de Le Guide de L’Espresso e Il Gusto, disponibile in tutte le edicole e librerie nazionali - c’è quella di Mondo Pane, un esempio virtuoso, soprattutto dal punto di vista sociale. Un forno, all’interno del penitenziario di Cuneo, che garantisce ad alcuni detenuti uno stipendio e dà loro una concreta possibilità di reinserimento nella società. Il progetto è nato dalla collaborazione tra Baladin e Mondofood, due grandi realtà dell’artigianato gastronomico del territorio piemontese. Abbiamo visitato il forno e intervistato i detenuti panettieri durante il loro lavoro. Guidati da Elio Parola, socio e amministratore di Open Baladin Cuneo e di Mondo Pane S.r.l., entriamo nel complesso del penitenziario di Cerialdo, piccola località prealpina in provincia di Cuneo. “La struttura che ospita il forno è destinata ai detenuti in regime di semilibertà - spiega Elio - Questo spazio ci è stato concesso in comodato d’uso dalla Direzione della casa circondariale e tutto nasce da una storia che ancora mi emoziona”. Il progetto è nato dall’incontro tra due realtà imprenditoriali piemontesi: Baladin, famoso brand che produce birra artigianale italiana, e Mondofood, azienda specializzata in prodotti enogastronomici piemontesi a filiera corta. Spiega Elio: “Entrambi autoproduciamo pane per i nostri locali, Baladin per esempio ne ha sette in Italia e uno a Londra. Ci siamo uniti per far fronte a un problema comune: il bisogno di trovare un luogo idoneo alla panificazione, in quanto lo spazio nelle nostre cucine non era più sufficiente”. Ecco che nel 2018 le due imprese decidono di unire le forze e avviare una produzione di pane in un laboratorio, a Mondovì, a pochi chilometri da Cuneo. Racconta Elio: “Inizialmente la produzione riforniva solo i nostri rispettivi locali. In seguito, quasi per gioco, abbiamo cominciato ad affidare parte dei nostri panificati abbattuti a un distributore di prodotti surgelati”. Elio ci spiega che la domanda da parte del mercato è aumentata via via e la distribuzione del pane nei canali Horeca ha preso fin troppo piede. Mondo Pane si è ritrovato quindi, a dover riaffrontare il problema di spazi nel laboratorio. Elio continua a raccontare: “Nel 2019, in quanto commissario di una sessione di esami per gli Istituti Alberghieri della Regione Piemonte, vengo inviato nel carcere di Cuneo (che è una succursale dell’Istituto di Istruzione Superiore Statale “Virginio-Donadio” di Dronero - ndr) dove, nel lontano 1985, avevo fatto il militare nel corpo di quelli che allora erano detti “Agenti di Custodia”. Gaetano Pessolano, coordinatore del carcere e mio vecchio amico, mi ha fatto visitare il laboratorio di panificazione, in disuso, della struttura penitenziaria. Era stato allestito e gestito da una cooperativa qualche anno prima”. Elio ci spiega che dopo una lunga trafila burocratica e il recupero dei macchinari, nel settembre del 2020 il laboratorio viene finalmente riattivato. Attualmente ci lavorano sette panettieri: cinque detenuti e due esterni professionisti. Entriamo nella palazzina che ospita il forno, una struttura a sé stante, separata dal carcere di massima sicurezza. Il laboratorio è spazioso e ventilato e, nonostante le grate, molto luminoso. Quando arriviamo i quattro panettieri presenti sono occupati nella preparazione degli impasti. Elio ci presenta Alessandro, assunto da tre mesi come panettiere. Mentre è impegnato a reidratare un impasto indiretto (o biga), destinato a diventare pala romana, gli chiediamo di raccontarci la sua esperienza da panettiere detenuto. “Sono entusiasta di questo lavoro - dice sorridendo - Per capirci qualcosa ci ho messo un mese, ma sicuramente avrei avuto bisogno di più tempo senza la formazione ricevuta dall’Istituto Superiore “Virginio-Donadio”. Oggi ho due diplomi. Certo, non è stato facile rifare la maturità a cinquant’anni e all’interno di un carcere”. Alessandro ci spiega che il lavoro nel forno lo impegna otto ore al giorno, dal lunedì al venerdì. “Un’opportunità di riscatto che mi dà finalmente la possibilità di muovere le mani dopo anni di fermo - aggiunge - Ho iniziato a fare un mestiere di cui non sapevo nulla. Da consumatore di pane, non immaginavo minimamente quanto lavoro ci sta dietro. Io avevo conseguito un diploma da geometra, un universo parallelo rispetto al pane”. Aggiunge acqua all’impasto e continua, con una voce che tradisce un po’ di emozione: “Vedere come questo insieme di acqua, lievito e farina si trasformi in pane è entusiasmante. Quando lavoro, la testa non pensa a tutto ciò che c’è fuori dal carcere: alla mia famiglia e ai suoi problemi. Non è facile resistere, se non hai nulla da fare. Ho ritrovato la dignità grazie al pane”. Nel forno non ci sono specializzazioni, tutti si occupano di tutto. La direzione delle operazioni è affidata ad Alberto, figlio di Elio, giovane panificatore di 28 anni che oggi insegna ai detenuti l’arte della panificazione. “Inizialmente l’idea di lavorare in un carcere mi spaventava - racconta Alberto - Poi però ho notato che con loro è molto più facile e produttivo il lavoro: si impegnano tantissimo, sono tutti gran lavoratori. Anche se hanno la febbre verrebbero comunque nel forno, siamo noi a dover dire loro di rimanere a letto. È gratificante insegnare a chi si applica con tale impegno e dedizione a ciò che fa”. Nel frattempo Luca, panettiere da 14 anni e collaboratore non detenuto, inizia a stendere la pasta e ci racconta i punti forti dei panificati di Mondo Pane: “Tutto è steso a mano. I prodotti che facciamo sono pochi: due formati di pala romana; due tipologie di pane da hamburger, uno vegetale e uno con burro; una base pizza pronta; pane da toast e pane da accompagnamento con farine di farro, grano e segale. Non usiamo farina di tipo “00”“. Nel laboratorio vengono usate le farine macinate a pietra dal mulino cuneese Bongiovanni e gran parte del grano è coltivata da un contadino affiliato a Coldiretti del territorio. “In accordo con la filosofia Baladin - dice Elio - puntiamo a una filiera quanto più corta possibile, che supporti il nostro territorio. Ne esce un prodotto di qualità, che grazie all’abbattimento istantaneo e alla successiva conservazione in cella, qualsiasi bar o ristorante può vendere. Con un filo d’olio, un po’ di rosmarino e tre minuti in forno a 320°, credetemi è come mangiare una pala romana appena sfornata”. Considerando che all’interno del laboratorio l’unico macchinario “industriale” è la pressa per la produzione di panini da hamburger e che tutto il resto è realizzato a mano, ogni panettiere è costantemente affaccendato. Infatti Enzo, in attuale regime di semilibertà e assunto da poco nel forno, corre indaffarato supportando i panettieri più esperti. “È un lavoro che ti prende, ci si appassiona - ci spiega senza fermarsi - È un’opportunità per imparare un nuovo mestiere. Quando avrò chiuso il mio debito con la giustizia, avrò una professionalità da spendere. Potrò così riprendere in mano la mia vita”. Incontriamo anche Gaetano Pessolano, educatore e coordinatore del carcere. Ci spiega che è lui a scegliere i detenuti da inserire come lavoratori nel forno e che grazie al percorso formativo, garantito dall’Istituto Alberghiero, molti di loro stanno pensando di provare, una volta usciti, a intraprendere la strada della ristorazione. Usciti dal carcere, concludiamo la nostra intervista nel locale Open Baladin, inaugurato nel maggio 2016 all’interno dell’ex foro boario del centro di Cuneo. Nelle cucine incontriamo Radu, ex detenuto in libertà da agosto 2021. Ora è aiuto cuoco nel locale. “Ho lavorato solo un anno all’interno del laboratorio di pane del carcere - racconta Radu - Immagina la mia felicità quando, una volta uscito, mi hanno offerto questo posto di lavoro. Ho fatto tanti danni da giovane e adesso dopo dieci anni di galera non posso che essere grato per l’opportunità che mi si è presentata. Elio mi ha dato una possibilità quando altri non l’avrebbero mai fatto”. Mondo Pane ha intrapreso anche altri progetti a sfondo sociale: nel 2021 la S.r.l. si è impegnata ad acquistare la futura intera produzione di segale coltivata da una cascina, che è anche centro diurno per ragazzi con problemi psichiatrici, nel comune cuneese di Peveragno. Racconta Elio: “L’operazione è stata supportata e seguita da Coldiretti. Il nostro impegno economico garantirà qualità ai nostri clienti e un prezzo adeguato all’agricoltore”. Elio accenna orgoglioso a un ulteriore nuovo progetto targato Mondo Pane che vedrà la luce nella primavera 2022: “Distribuiamo i nostri panificati in Italia, Spagna, Svizzera e in Inghilterra e quest’anno non siamo riusciti a far fronte agli ordini che avevamo. Qualche giorno fa abbiamo persino dovuto rifiutare una grande commessa in Spagna. Industrializzando la produzione potremo sopperire alla crescente domanda, ma non è quello che vogliamo. Perciò apriremo un secondo forno nel carcere di Fossano sempre in provincia di Cuneo, così da replicare il modello di Cerialdo che offre concretamente una seconda possibilità a chi la desidera davvero”. Bologna. Artigianato, studio, agricoltura: la vita oltre la pena ritratta nel calendario del carcere di Margherita Montanari Corriere della Sera, 27 dicembre 2021 Lo ha realizzato il fotografo modenese Guidetti con gli scatti dei detenuti di Castelfranco Emilia. Il ricavato della vendita andrà alla formazione dei carcerati. Rieducazione, reinserimento, risocializzazione. Sostantivi che descrivono lo scopo ultimo della detenzione e che la macchina fotografica del modenese Carlo Guidetti ha cristallizzato, ritraendo i detenuti della casa di reclusione di Castelfranco intenti a completare un percorso di crescita personale mentre scontano la pena. Fotografie che sono state pubblicate sul calendario 2022 della realtà carceraria in collaborazione con il Club Lions di Castelfranco e Nonantola e con il patrocinio del Comune. Il ricavato della vendita contribuirà a finanziare progetti con cui altri detenuti potranno continuare a formarsi in carcere. Guardare oltre la pena - La vita dentro scorre parallela alle attività svolte fuori. Al lavoro, al tavolo per imparare una professione, sui libri. “Dentro al futuro” guarda al fine pena, alla vita che verrà dopo per i detenuti del carcere di Castelfranco Emilia (Modena), di cui è direttrice Maria Martone. E le pagine del calendario si sfogliano come i mesi che passano, facendo luce su una comunità spesso a riflettori spenti. Il progetto apre le porte della casa circondariale con “lo scopo di trasmettere fuori dalle mura carcerarie attimi intensi di vita di chi lo abita, dando un messaggio di positività”, spiega il fotografo Guidetti. Il calendario sarà in vendita in piazza Garibaldi, a Castelfranco, nella casetta di legno in cui sono venduti altri prodotti realizzati dai detenuti. Un’occasione di mostrare le nostre attività - Dall’agricoltura all’apicoltura, dalle attività di call center alla produzione di ostie per la diocesi di Bologna, dall’artigianato allo studio. Dal calendario emerge un’idea di carcere che va “oltre a quella dell’immaginario collettivo, ovvero di un luogo di punizione o di chiusura”, sottolinea la direttrice della Casa di reclusione Maria Martone. “Ho accolto con grande entusiasmo l’idea del Lions club - prosegue - è una modalità efficace per mostrare alla comunità la quotidianità delle nostre attività. Questo progetto penetra nel loro vissuto e nelle loro speranze all’interno di una struttura chiusa per sua natura ma che, tuttavia, può diventare un’opportunità concreta di lavoro, di formazione professionale, di istruzione e di crescita personale”. Roma. L’assessora Funari e Paolo Ciani visitano carcere di Rebibbia di Enrico Tata fanpage.it, 27 dicembre 2021 “Rompiamo isolamento e dimenticanza”. L’assessora capitolina alle Politiche sociali e alla salute, Barbara Funari, ha visitato oggi il carcere romano di Rebibbia insieme al consigliere regionale e capogruppo di Demos, Paolo Ciani, e ai volontari della Comunità di Sant’Egidio. L’assessora capitolina alle Politiche sociali e alla salute, Barbara Funari, ha visitato oggi il carcere romano di Rebibbia insieme al consigliere regionale e capogruppo di Demos, Paolo Ciani, e ai volontari della Comunità di Sant’Egidio. Per Ciani “è importante che rappresentanti delle istituzioni frequentino il carcere, perché è a tutti gli effetti una parte della nostra città. Importante rompere l’isolamento - acuito dalla pandemia - e la dimenticanza di questi luoghi anche in questi giorni di festa. Il carcere è un piccolo mondo, una parte di città abitata da cittadini che hanno compiuto dei reati, ma che rimangono persone e cittadini. Con loro tutte le persone che si occupano per lavoro di questi luoghi, dalla polizia penitenziaria, a chi lavora nell’amministrazione penitenziaria, ai servizi sociali, gli infermieri, i medici, i volontari. È sciocco pensare al carcere come a qualcosa di estraneo alla città e alla vita comune”. Secondo il capogruppo di Demos “negli ultimi anni è cresciuta una subcultura molto violenta: quando si sentono persone delle istituzioni dire “buttiamo le chiavi” riferendosi a detenuti, è molto grave. Non solo perché per la legge italiana la pena e la detenzione servono per il corretto reinserimento sociale di chi ha commesso il reato, ma perché sottointendono un senso di vendetta e di disumanizzazione del detenuto. Non è la nostra cultura, non è la cultura giuridica del nostro Paese. Ringrazio Sant’Egidio per l’occasione e il personale della Polizia Penitenziaria che ci ha accompagnato in questo giorno di festa”. Treviso. Messa di Natale in carcere, i detenuti ringraziano i sanitari di Valeria Lipparini Il Gazzettino, 27 dicembre 2021 La pandemia, il carcere. E il Natale. I detenuti lo hanno detto a modo loro, con una lettera che hanno letto al vescovo, monsignor Tomasi, nel corso della messa da lui officiata giovedì 23 nella casa circondariale di Santa Bona. Una lettera con cui i detenuti hanno voluto ringraziare il personale sanitario per quello che sta facendo in un periodo particolare, segnato dall’emergenza sanitaria dettata dal Covid. Che, dentro le quattro mura del carcere, può diventare ancora peggiore. “Purtroppo la pandemia continua a persistere e questo ha complicato non poco i rapporti con il mondo esterno e i contatti con i nostri familiari tra schermi di protezione, mascherine, distanziamento e tanta preoccupazione” si legge in uno stralcio della missiva. Poi, ancora: “Fortunatamente ci sono i volontari della Caritas, di Comunione e Liberazione, don Piero e suor Graziella che ci regalano il loro tempo donandoci momenti di evasione”. Parole sentite, per chi vive il Covid nella restrizione della propria libertà personale. E la malattia di uno può diventare il contagio di tanti. Così, il pensiero dei carcerati va alla sanità trevigiana. “Se potessimo esprimere un desiderio vorremmo chiedere più salute per tutti noi e le persone a cui teniamo di più. Un pensiero va anche alla direzione sanitaria, a tutti gli operatori che ci lavorano: medici e infermieri”. Un grazie semplice e sentito per quanti stanno combattendo, ogni giorno, sul fronte dell’emergenza Covid. Un problema che è entrato anche nel carcere di Santa Bona con quattro detenuti risultati positivi, che si stanno negativizzando. Tutti gli ospiti sono stati sottoposti a tampone ma non sono emerse altre positività. Il vescovo ha commentato così: “È un incontro semplice e cordiale, mi sento a casa con i detenuti, il personale e, i volontari che ci lavorano. È un posto dove si può fare del bene”. E ha concluso ricordando: “È Natale per tutti. Abbiamo tutti bisogno di solidarietà, di legami e di credere di più all’amore che all’odio”. Monsignor Tomasi ha celebrato messe di Natale anche alla Nostra Famiglia, ieri con la comunità dei sacerdoti Oblati e il 31 dicembre celebrerà con i sacerdoti della Casa del clero. Il vescovo non partecipa, invece, a pranzi e cene dopo che l’anno scorso ha dovuto osservare la quarantena per un contatto con un sacerdote positivo e non ha potuto celebrare la messa dell’ultimo dell’anno. Mani Pulite, raccontate da chi le raccontava di Lorenzo Erroi la Regione, 27 dicembre 2021 Il cronista del Corsera Goffredo Buccini ricorda quella stagione senza manicheismo. “Io non sono un pentito, non amo il pentitismo come categoria pubblica e considero il pentimento una categoria privata. Ma questo non significa che possiamo autoassolverci, la verità di Mani Pulite era una, ma c’erano molti punti di vista dai quali non guardammo. Dovremmo semmai tornare a riflettere su quell’epoca senza il manicheismo di allora, liberandoci dal vizio di dividere il mondo in guelfi e ghibellini”. Quando nel 1992 scoppiò Tangentopoli, il giovane Goffredo Buccini era fisso al Palazzo di Giustizia di Milano: le sue cronache per il Corriere della Sera raccontarono un pezzo importante della vicenda. A distanza di trent’anni, coi titoloni divenuti storia, Buccini tenta un bilancio in un libro che intreccia il gusto per l’aneddoto biografico all’autopsia, nel senso tucidideo del raccontare quel che si è visto coi propri occhi. Una scelta che rende “Il tempo delle mani pulite, 1992-1994”, appena pubblicato da Laterza, gustoso da leggere ma moderato nei giudizi. Cosa rara, in una bibliografia di genere spesso garrula e parziale. Lei scrive che “Mani Pulite è stata la scoperta dell’acqua calda”. Tutti sapevano da decenni delle tangenti come forma di finanziamento ai partiti: l’appalto contro la ‘stecca’, fondamentale per pagare gli stipendi dei funzionari e le attività politiche, ma a volte anche per farsi la piscina dietro casa. Perché il bubbone scoppiò proprio allora? Anzitutto era cambiato il quadro internazionale: con la dissoluzione del blocco sovietico gli italiani persero il timore - in realtà infondato già da tempo - che smettere di votare la Democrazia cristiana e le altre formazioni del cosiddetto ‘Pentapartito’ potesse consegnare il Paese al comunismo. Era finito il tempo, ben sintetizzato da Indro Montanelli nel 1976, del “turatevi il naso e votate Dc”. Così il consenso si disperse in nuovi rivoli - la prima affermazione della Lega Nord è proprio del 1992 - e il sistema partitico col suo correlato di corruzione non apparve più come qualcosa di monolitico e inevitabile. Nel frattempo erano finiti i soldi: dopo un decennio passato a comprare il consenso attraverso la spesa pubblica, accumulando debiti esorbitanti, il sistema era divenuto insostenibile. I primi anni Novanta videro un’Italia in forte crisi, il governo del socialista Giuliano Amato dovette varare una manovra di rientro per 90mila miliardi di lire e imporre un prelievo forzoso del 6 per mille su tutti i conti correnti. In queste condizioni non si poteva più finanziare il patto corruttivo tra partiti e imprenditori, e alcuni di questi, sempre più alle strette, decisero di vuotare il sacco. Lo fecero davanti a un personaggio ruspante, che non azzeccava una desinenza ma colpiva l’immaginario collettivo coi suoi modi di dire e la gestualità da popolano: il pubblico ministero Antonio Di Pietro, detto Tonino... Di Pietro era una persona di estrema intelligenza e abilità, che riuscì a tener viva un’inchiesta nella quale all’inizio non credeva nessuno. Solo dopo, con le prime confessioni importanti, si costituì un pool di magistrati con culture e sensibilità politiche diverse, coordinati dal procuratore Francesco Saverio Borrelli: galantuomo di intelligenza e cultura superiori, vero civil servant capace di mediare tra le varie anime e frenarne le sbandate. Ad aspettarli in corridoio c’eravate voi giornalisti. Anche voi, col montare degli arresti e degli avvisi di garanzia, costituiste un ‘pool’ per gestire la mole di informazioni e verificarle. Foste testimoni neutrali? Eravamo giovani, appassionati, inesperti e un po’ manichei. Soprattutto, eravamo perlopiù persone di sinistra, convinte che il riformismo del Partito socialista avesse tradito il sol dell’avvenire e che taluni imprenditori fossero una caricatura della ‘Piovra’ vista in tv. L’inchiesta confermava le nostre convinzioni: se incontri una verità che coincide con quella che hai in testa, è difficile che ne cerchi un’altra. Col suo gusto per l’iperbole, non aveva poi tutti i torti Berlusconi quando diceva che i giornalisti sono tutti comunisti. Scrive: “Eravamo eroi del nostro stesso fumetto”. È un mea culpa? No, intendiamoci: il sistema della prima repubblica non lo hanno ucciso né i giornalisti né i giudici. Si è suicidato. L’idea del golpe giudiziario è una sciocchezza, l’Italia stava andando a pallino da anni, oberata dal debito e dalla corruzione. Questo non toglie che col senno di poi dobbiamo riconoscere limiti ed errori: avremmo probabilmente dovuto vedere la realtà da più lati, capire che dietro a ogni caso c’era una storia umana, spiegare meglio che c’è una bella differenza tra un indagato e un condannato, e tra chi prendeva soldi per il partito e chi se li intascava. Il problema umano scoppiò col primo suicidio illustre, quello del deputato socialista Sergio Moroni. Prima di spararsi in bocca, scrisse: “Non credo che questo Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica”. C’entrano anche gli eccessi della carcerazione preventiva, dell’approccio ‘sbattiamoli in galera e canteranno’? Anche in questo caso bisogna fare attenzione a non essere manichei. Da una parte è indubbio che vi fu un ricorso eccessivo al carcere come forma di pressione: in molti casi si sarebbero potuti prevedere i domiciliari. Però gli arresti soddisfacevano i requisiti di legge: pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. In ogni caso, anche questa fu una conseguenza evidente di una magistratura che riempiva il vuoto della politica. In che senso? Fu la politica a ritirarsi dalle sue posizioni per debolezza e perdita di credibilità. Se avesse avuto ancora seguito popolare sarebbe stata abbastanza forte da ‘salvare’ i suoi e mobilitare la gente a manifestare per la liberazione. Ma ormai quella classe politica era screditata, e nel panico dell’indagine aveva perso anche qualsiasi senso di solidarietà interna. I politici erano paralizzati come lemuri di fronte agli abbaglianti di un’auto, convinti che restando immobili qualcun altro sarebbe finito sotto le ruote. Questo spiega anche perché il famoso discorso di Bettino Craxi alla Camera - nel quale ricordava la complicità ai colleghi nella speranza di scatenare una reazione d’orgoglio collettivo - cadde nel vuoto. Però aveva ragione il ‘Cinghialone’: così fan tutti, la Dc prendeva i soldi da Washington e il Pci da Mosca, come poteva spezzare il loro giogo senza una lira? La chiamata in correità del Parlamento aveva le sue ragioni. Ce le aveva anche il suo sforzo riformista, che in troppi all’epoca liquidarono come ‘fascista’: voleva riforme di sistema e un governo forte. Abbiamo poi visto quanto ciò manchi alla direzione del Paese, per il quale penso che l’amore di Craxi non possa essere messo in discussione. Ma questo non basta a nascondere la corruzione che si era sviluppata sotto la sua egida, la megalomania dei congressi con le piramidi e delle spese pazze. E poi l’errore finale: scappare in Tunisia, di fatto esortando gli italiani a non fidarsi di quello stesso Stato del quale fu presidente del Consiglio. Un uomo peraltro condannato, sarà bene ricordarselo, in tre gradi di giudizio su due diversi filoni processuali, quindi da sei diversi collegi giudicanti. Difficile liquidare tutto come un complotto. Resta la vergogna delle monetine e degli sputi lanciatigli addosso all’uscita dall’Hotel Raphaël, il 30 aprile del 1993. Lei scrive che si vide “un po’ della ferocia di piazzale Loreto senza il retrogusto di sangue in bocca”... Questo è uno degli antichi vizi degli italiani, che paiono fare di tutto per confermare i giudizi di un Ennio Flaiano o di un Leo Longanesi: prima ti leccano i piedi e poi ti sputano. Dopo Craxi arrivò Silvio Berlusconi. Mica granché, come rivoluzione... L’opinione pubblica italiana volle prendere come homo novus uno degli imprenditori più favoriti da Craxi e da tutta la prima repubblica. Gli italiani si erano stancati di Mani Pulite, che cominciava a toccare anche persone comuni, come loro. Da un momento all’altro si passò dalle fiaccolate davanti a Palazzo di Giustizia al mito del ‘nuovo miracolo italiano’. L’ultima fase di Tangentopoli vide tra gli indagati proprio Berlusconi. Fu dopo l’ambiguo confronto col suo primo governo che Di Pietro lasciò il pool. Con quali conseguenze? All’inizio Berlusconi tentò di fare col pool quello che il Milan faceva coi suoi avversari più forti: se non poteva batterli, se li comprava. Non riuscendoci con le offerte di cariche politiche, iniziarono il vittimismo e la delegittimazione sistematica dei magistrati. Questo spinse poi lo stesso Di Pietro ad alimentare la leggenda della ‘Mani pulite mutilata’. Di Pietro giocò così la carta del revanscismo per farsi una carriera politica mediocre. Vittoria negata: la stessa storiella che gli italiani si ripetono dalla Prima Guerra mondiale... E come sempre prelude a un’involuzione autoritaria e antidemocratica più o meno grave. Le braci si sarebbero poi riaccese con il primo grillismo, quello dei ‘vaffa’ e delle gogne di piazza. Ancora una volta si vede un Paese poco disposto a fare davvero i conti con se stesso e con le sue contraddizioni, come dimostra l’assenza di risposte politiche ai problemi emersi trent’anni fa. A sinistra, quelli dopo Tangentopoli furono gli anni dell’antiberlusconismo: le stesse persone che cantavano i testi di Gaber e De André contro giudici e magistrati si risvegliarono manettare. Cos’era successo? Col crollo del muro di Berlino la sinistra si trovò orfana di un’ideologia e di una risposta ai problemi del Paese alternativa a quella liberista, che anzi in larga misura finì per accettare. Per contrastare l’avversario si affidò allora a una magistratura ormai in aperto contrasto con Berlusconi, ma anche schiava di crescenti manie di protagonismo. Le “toghe rosse”... Anche qui la realtà è più sfumata. Magistratura Democratica, la corrente di sinistra dei giudici, nacque coi migliori propositi: rispondere a un sistema pavido e colluso, tale che ad esempio nel Dopoguerra siciliano tanti sindacalisti impegnati finivano ammazzati senza neppure un’indagine seria. Me lo raccontò Emanuele Macaluso, galantuomo comunista e vero riformista, che mi spiegò anche dove stava l’errore: quelle buone intenzioni diventarono giustizia di classe. A quella fase è seguita quella della fine dell’ideologia, con una degenerazione in senso cinico e personalista della corrente politicizzata della magistratura. Che però, attenzione, per quanto politicamente dominante e rumorosa è una minoranza rispetto ai tanti magistrati coraggiosi e onesti. Oggi Mani Pulite sarebbe affrontata con più maturità? Penso che con il tasso di ferocia che si vede in giro, sui social e non solo, e con gli influencer che prendono il posto dei giornali di fronte all’opinione pubblica, le conseguenze potrebbero essere anche peggiori. Tanto più che non ci sono partiti o corpi intermedi in grado di contrastare le derive di quella ferocia. O forse sono solo io, che divento più pessimista: invecchio. I bambini senza cittadinanza diventano gli schiavi del terzo millennio di Andrea Riccardi Il Domani, 27 dicembre 2021 “Bambini invisibili, tratta dei minori e stato civile in Africa”, libro di San Paolo edizioni a cura di Adriana Gulotta, racconta la storia di tanti bambini e bambine, ma anche di giovani e adulti, che, di fronte alla vita, si ritrovano senza nome e cittadinanza. Si concentra in particolare sull’Africa, mostrando come, con un lavoro paziente, a mani nude, non sia impossibile contrastare un destino di anonimato dalla nascita, da cui non è facile riscattarsi. Dei 125 milioni di bambini che ogni anno nascono nel mondo, un terzo non viene iscritto allo stato civile: una fascia della popolazione che, annualmente, vede perpetuata una sorte di esclusione. Questa è la vicenda dei bambini “invisibili”, che diventano minori venduti, piccoli schiavi buoni per ogni mestiere, anche i più rischiosi, compreso quello del sesso, ma anche bambini soldati, manodopera a basso costo e di facile gestione (meglio degli adulti), fornitori di organi per i trapianti (e quindi condannati a morte), lavoratori domestici senza diritti e spesso retribuzione… gente destinata a essere sfruttata in ogni modo. Ci si sofferma in genere sui casi singoli, sui gruppi di sfruttati, ma qui si va al cuore di quello che è il meccanismo di esclusione: la mancanza di un’identità legalmente riconosciuta dallo stato, per cui - come si legge nel libro - “non si fa parte della popolazione della propria nazione, non si può essere iscritti a scuola, né usufruire dei servizi sanitari, si è più vulnerabili allo sfruttamento e agli abusi”. Le conseguenze sulla vita dei singoli, bambini prima e adulti poi, sono tante, ma un’unica esclusione è alla base di tutto. Il libro rappresenta drammaticamente la carenza fondamentale di tanti piccoli di fronte al proprio futuro: esistono, ma non sono riconosciuti; vivono ma sono invisibili; il loro nome non ha rilievo legale e significato per la società e le sue istituzioni. Un popolo di invisibili vive nel mondo. Adriana Gulotta, curatrice del lavoro, fin dall’introduzione ci ricorda che non si tratta di una storia solo africana, ma di molti paesi del mondo: dai Rohinghya, “il popolo mai registrato dell’Asia”, ai bambini indocumentados al confine con gli Stati Uniti, prime vittime di quell’esodo della disperazione e della speranza di migliaia di centroamericani che salgono dal sud verso gli Stati Uniti, e tanti altri. Anche a livello internazionale, si è ormai consapevoli che la tratta dei minori è una nuova schiavitù: un popolo di dieci milioni di bambini e adolescenti nel mondo. Se perdono la memoria di chi sono ancora o non l’hanno maturata, finiscono dispersi nel caos del mondo. Senza documenti, sono senza patria. La registrazione allo stato civile è tutt’altro che una banalità o un rito scontato. È la memoria oggettiva e legale di una persona esistente in una comunità nazionale, al di là della coscienza del soggetto o dei suoi familiari. A chi vive nei paesi europei l’iscrizione allo stato civile appare una normalità quasi un’ovvietà, anche se - nei casi in cui non avviene - si constatano le conseguenze davvero negative che ne derivano. E invece essa rappresenta non solo il fondamento soggettivo della propria esistenza legale e sociale, dei diritti e dei doveri, ma è anche un elemento decisivo perché un agglomerato di fatto divenga una società civile, con una base giuridica e con la presenza di istituzioni democratiche. Il voto, ad esempio, è strettamente connesso alla cittadinanza. Il libro mostra, attraverso tante storie dolorose, le conseguenze dell’assenza di registrazione allo stato civile. Si può dire: si nasce, ma si vive in modo dimezzato. Le testimonianze sulla realtà provengono da attori sul territorio connessi all’impegno della Comunità di Sant’Egidio e del programma Bravo! (Birth registration for all versus oblivion!). Non racconta semplicemente casi limite, vicende dolorose, di un costume che si fa fatica a cambiare, istituzioni che non funzionano… Già sarebbe meritevole. È anche la storia di una “rivolta” contro la realtà dei bambini invisibili che le comunità di Sant’Egidio incontrano quotidianamente in Africa e in altri paesi del mondo. Questa rivolta non è solo una denuncia, ma anche uno studio laborioso e appassionato per aiutare le istituzioni civili a farsi carico di questa domanda di vita. La rivolta è stata paziente, fatta di competenze acquisite e di capacità di collaborazione e di servizio alle istituzioni. Perché c’è bisogno di istituzioni funzionanti sul territorio per accedere alla comunità civile con la propria identità legalmente riconosciuta, sancendo l’uscita dalla fascia dei discriminati di fatto, sudditi del caso e della volontà altrui, non cittadini liberi di uno stato che riconosce l’uguaglianza dei diritti. La non registrazione allo stato civile produce non solo un mondo di invisibili, ma anche di sudditi, privi di diritti, impossibilitati a contrattare, soggetti a ogni violenza, prima di tutto quella dell’economia. Penalizza in modo tutto particolare le bambine e le donne, il cui futuro non è pensato in quanto soggetti di una società civile e di un’economia in crescita. Più gli invisibili diventano attori, più le donne diventano protagoniste, più si sviluppa l’economia di un paese. Lo sappiamo bene. L’arretratezza di intere fasce della popolazione è legata proprio a questo “anonimato”, che le destina a non accedere a nessuna opportunità, ma a limitarsi a sopravvivere. Per questo, inizialmente, si è parlato dell’assenza di registrazione allo stato civile come di una condanna per i singoli, ma lo è anche per molta parte della popolazione e, a ben vedere, per una società sempre più caratterizzata dalla diseguaglianza. Ma tanta diseguaglianza si paga. Perché, nel mondo globale i giovani non si rassegnano all’anonimato ma cercano vie, anche violente e oppositive, per affermare sé stessi. È una riflessione che dovremmo fare con più attenzione. Nelle pagine di questo libro si legge la dinamica di un lavoro che merita attenzione anche nei particolari. La ricostruzione dettagliata spiega infatti come la storia di una “rivolta” contro una grande ingiustizia passi attraverso un costruttivo e competente impegno, nonché attraverso la rivitalizzazione delle strutture e istituzioni dello stato, le quali avevano sofferto per le crisi economiche e i tagli di bilancio. Uno stato con istituzioni che funzionano è una grande conquista, specie per le fasce meno protette. Bravo! mostra come passione e competenza vadano insieme. L’una non si esaurisce con la crescita dell’altra. La competenza non logora la passione, ma anzi indica che la “rivolta” contro l’ineguaglianza è possibile e può dare quotidianamente frutti concreti. Bravo! nasce da questa rivolta contro l’esclusione e offre, attraverso la registrazione allo stato civile, alla bambina o al bambino, ma anche all’adulto, le possibilità di ritrovare appieno la propria cittadinanza, di essere libero. Non è il raggiungimento di una condizione di opulenza o di successo, ma la liberazione da una schiavitù che diventa un fatto culturale e anche una festa in comunità marginali e periferiche. Tzvetan Todorov ha parlato dell’uomo contemporaneo come di un “uomo spaesato”. Spaesato vuol dire senza paese: non l’ha mai avuto, l’ha perduto, vi è estraneo o tale si sente. La globalizzazione accentua lo spaesamento e crea spaesati di fronte agli ampi orizzonti che si aprono. La reazione è chiudersi ma, per vivere un’apertura globale, c’è bisogno di una comunità di appartenenza, di una patria. Leggendo questo libro, sono stato colpito non solo dalle storie di dolore, ma anche da quanto si può fare per cancellarlo e aprire opportunità di futuro. Ho ripensato alla parola “patria”, che spesso abbiamo confinato nella retorica nazionalista. Patria, dal latino pater, padre, ma anche da patrius, è la terra dei padri. Lo stato civile è la memoria dell’appartenenza a una patria. Il lavoro di Bravo! è quello di trovare un nome e una patria, un’opera di grande umanesimo. Il senso di una persona, di una bambina o un bambino, stanno scritti in un nome e in un cognome, in generalità che vengono registrate e affidate, nello stato civile, alla memoria delle istituzioni. Poi ci sarà una storia di una vita che si sviluppa, cresce, muore. Ma avrà lasciato una traccia sulla terra. Noi e “loro”: gli anni di vita (che stiamo perdendo) e la libertà di scegliere di Emanuele Trevi Corriere della Sera, 27 dicembre 2021 Due anni in questo infernale pantano pandemico, con tutte le sue conseguenze dirette e indirette ramificate in ogni attimo, in ogni anfratto della nostra esistenza, e prospettive che più fosche non si potrebbero, almeno per il prossimo futuro: non si può dire che sia un bel bilancio. Nessuno è felice in questa sciagura, comunque la interpreti, e nessuno ne è fuori. Non possiamo nemmeno accusarci di un tasso eccessivo di litigiosità: è naturale, perfettamente umano, che l’incertezza e l’evidente impoverimento delle vite alimenti la discordia e le sue periodiche fiammate. Soprattutto in queste settimane angosciose in cui le dighe che bene o male abbiamo eretto per evitare il peggio, cioè i vaccini e le loro necessarie certificazioni, si dimostrano più fragili di quello che avevamo sperato. Quando è grande il disordine sotto il cielo, il circo dell’opinione prospera fino a rendere difficilmente riconoscibili gli stessi fatti. Ci sarebbero i numeri, i famosi dati, ma la loro pretesa certezza, in questo mondo, è una pia illusione, un residuo ingenuo di illuminismo. Non c’è numero che non possa ruotare come un birillo nelle mani di un abile prestigiatore, e due più due non è più il sinonimo di qualcosa su cui tutti sono d’accordo: si potrebbe essere accusati di “dittatura aritmetica”, come minimo. A me sembra evidente, per esempio, al di là di ogni ragionevole dubbio e precauzione, che il confronto tra il numero dei morti e dei malati gravi prima e dopo le campagne vaccinali riveli che ne valeva la pena, e che questo fatto sarebbe ancora più palese se tutti si vaccinassero. Non so nulla di matematica e statistica, ma è un’operazione elementare: prendi il bollettino di oggi, quello dello stesso giorno di un anno fa, e li confronti. Scacco matto? Ma che. Rimane comunque un discreto numero di persone pronte a riderti in faccia. A volte mi sembra che l’unica vera consolazione rimasta sia lo studio dei tipi umani e psicologici rivelati da questa catastrofe a tempo indeterminato. Un mio amico, che è un bravissimo e popolare romanziere, mi ha detto l’altra sera una cosa che mi ha fatto riflettere: non si è mai verificato nella storia umana un evento che, riguardando simultaneamente tutti, sia stato come il Covid capace di farci distinguere in modo indubitabile un cretino da una persona intelligente. È il Grande Test che ci è sempre mancato, insomma? L’idea mi sembra brillante, ma non sono d’accordo. Preferisco andare a caccia di sfumature, di lapsus rivelatori, di idiosincrasie che non sono direttamente connesse né all’intelligenza né alla stupidità, ma alla maniera imprevedibile in cui i singoli individui procedono nel labirinto del mondo. Non solo i dettagli rivelano di più delle idee generali, ma ci offrono chiavi psicologiche che non avevamo considerato, nella fretta di dividere chi la pensa come noi dai “nemici”. È con questo stato d’animo che mi sono tuffato nella lettura del lungo articolo di Massimo Cacciari apparso sulla “Stampa” dello scorso 15 dicembre. È un testo lucido, nobile, pieno di considerazioni da meditare: uno di quegli articoli, insomma, che si ritagliano e si conservano, al di là di quello che si può pensare sul green pass. Cacciari, tra l’altro, rende evidenti i pericoli di una politica che deleghi alla scienza la responsabilità delle decisioni; descrive in modo credibile l’azione socialmente disgregante di immani forze economiche, più potenti degli stessi governi. L’articolo è facilmente reperibile in rete, per chi se lo fosse perso, e non voglio riassumerlo, perché mi preme soprattutto commentarne le ultime parole, che ormai da una settimana mi si sono ficcate in testa come una specie di ossessione, non priva di sensi di colpa. La chiusa dell’articolo sorprende come un colpo di frusta, o di stile, che arriva al termine di un ragionare nobilmente pacato, intinto di malinconia. Ma poi, proprio al momento di congedarsi, individua e colpisce un bersaglio che non ci saremmo aspettati: coloro che, dopo aver letto in gioventù filosofi come Benjamin e Adorno, non sembrano più avere altre preoccupazioni che quella di “aggiungere qualche anno alla propria vita”. Non solo ho ritagliato l’articolo, ma ho sottolineato queste parole perché mi sembra di averci riconosciuto una chiave psicologica importantissima, facendomi comprendere cose che rimangono sempre invisibile nel gioco della disputa e della ridicolizzazione dell’avversario. Non posso ahimè vantare una gioventù spesa sui libri di Benjamin e Adorno, ma ne conosco abbastanza il pensiero per capire che Cacciari allude, con il nome di questi due grandi filosofi tedeschi, a un’idea della vita umana piena di significato, investita di destino, libera nel senso più radicale della parola. Sono idee tradite, secondo Cacciari, dalla preoccupazione senile di allungarsi la vita, asserviti ai ben noti protocolli sanitari. Se dico che queste parole mi sono sembrate come uno schiaffo rivolto direttamente a me, è perché non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa volevo io, cosa chiederei alla divinità o alle fate se ne avessi l’occasione. Ebbene, non c’è scampo: come la stragrande maggioranza degli esseri umani, chiederei qualche anno in più, non riesce a venirmi in mente nient’altro. Magari proprio per leggere con la dovuta attenzione tanti libri di Benjamin e Adorno che non ho letto. Ma i buoni propositi non sono nulla: il fatto è che la vita è l’unica cosa che abbiamo, e il desiderio di aggiungerle “qualche anno” mi sembra tutt’altro che spregevole: quando è finita, è finita. E in questo amore per la vita in quanto tale, ovviamente rientra anche il diritto di abbandonarla, quando la sofferenza la riduce a sopravvivenza. È l’assenza di una legge degna sulla buona morte la vera lesione intollerabile dei nostri diritti, non il green pass o i tamponi. E forse tanti pensatori facili a scaldarsi nelle attuali contese dovrebbero imparare qualcosa da uomini come Marco Cappato, che percorrono un millimetro al giorno la strada impervia della dignità e della vera giustizia, ostinati nella loro visione, perlopiù lontani dalle platee giornalistiche e televisive. Ad ogni modo, non vedo il motivo per cui il pensiero filosofico, da sempre fondato sui limiti e le prerogative dell’umano, dovrebbe storcere il naso di fronte al desiderio, elementare e universale, che la vita duri il più a lungo possibile. Anche in questo, come in tutti i desideri, ci sono insieme saggezza e follia: ma non si può ridurre a un’aspirazione da schiavi avviliti e rassegnati. Migranti, boom dei permessi di lavoro (con la spinta degli imprenditori leghisti) di Goffredo Buccini e Federico Fubini Corriere della Sera, 27 dicembre 2021 I perché dei 70 mila ingressi annunciati da Draghi. Dopo 6 anni in cui sono stati meno della metà. Se, come spiega l’Ecclesiaste, c’è un tempo per demolire e un tempo per costruire, l’Italia che dovrà ricostruirsi dopo la pandemia scopre di avere bisogno di braccia: e braccia di migranti, data la nostra demografia. Siamo un Paese di pensionati. Il decreto flussi, che regola il numero di ingressi degli stranieri per motivi di lavoro, rispecchia l’atteggiamento della comunità nazionale in proposito e uno sguardo alle sue sequenze aiuta a capirne meglio i riflessi sulla scelte della politica: tra il 2007 e il 2009, a causa delle paure derivate dalla Grande recessione, il numero d’ingressi consentito calò in fretta, da 170 mila a 80 mila; alla metà degli anni Dieci, sull’onda del terrore generato dagli attentati jihadisti e dell’ascesa dei movimenti sovranisti in un’Italia stagnante, scese ancora, a poco più di 30 mila, per stabilizzarsi a quel livello per ben sei anni di seguito. Fino al 2020, anno uno del Covid: ma proprio la pandemia sta cambiando tutto. Anche gli orientamenti di una parte vitale della base leghista, la stessa turbata non troppo tempo fa dagli sbarchi e mobilitata dall’indignazione per i molti sans papiers d’Italia. La risalita nel decreto di quest’anno, ai “70 mila ingressi” annunciati da Mario Draghi martedì, segna un’inversione di tendenza. Netta: gli accessi diventano più del doppio rispetto a prima. Eppure, contrastata: perché gli imprenditori (segnatamente quelli del Nord, base elettorale della Lega e motore industriale del Paese) chiedevano uno sforzo maggiore e le prime cifre filtrate la scorsa settimana parlavano infatti di almeno 81 mila permessi programmati: per concludere l’accordo è stato invece necessario tagliarne undicimila. Anzi qualcuno di più, perché il decreto si ferma al tormentato numero finale di 69.700: una soglia psicologica oltre che politica. Sulla questione s’è consumata una sorda schermaglia che ha ritardato di una settimana la firma e ha certamente acuito le tensioni dentro la maggioranza. Draghi ha promesso per il 2022 un nuovo decreto, s’intuisce non troppo in là nel tempo, in modo da venire incontro alla spinta che sale dai territori. Osserva l’industriale bergamasco dell’alluminio Paolo Agnelli che, come presidente di Confimi, rappresenta 45 mila imprese manifatturiere. “Il decreto flussi a 70 mila permessi è timido, insufficiente. Non vorrei che le forze politiche che tradizionalmente rappresentano i produttori del Nord stiano perdendo il polso dei territori”. Agnelli in un passato recente aveva concesso aperture di credito alla Lega su scelte forti come Quota 100. Ma stavolta è netto: “Già a giugno le imprese della nostra associazione denunciavano difficoltà nel reperire 98 mila lavoratori. Che problema hanno a dare più permessi?”, si chiede. Non tutta la Lega è indifferente, al contrario. Roberto Marcato, fondatore della Liga Veneta, assessore allo Sviluppo economico nella giunta di Luca Zaia, non chiude a un’immigrazione ragionata. “Si tratta di gestire i flussi: gli arrivi devono essere strettamente proporzionali alla richiesta di manodopera - osserva. Ma gli imprenditori adesso hanno bisogno di lavoratori non qualificati che in Veneto si fatica a trovare. Potremmo anche pensare a permessi a tempo, ci serve un approccio razionale”. Di certo oggi la materia è una grande area grigia, un limbo in cui si impigliano i lavoratori stranieri e gli imprenditori italiani. Stefano Allievi è docente all’università di Padova e tra i massimi esperti di migrazioni e lavoro: “Il punto non è se facciamo un decreto flussi di 81 mila o di 70 mila ingressi, ma che va cambiato modello: facendo accordi con i Paesi di partenza che in cambio ti diano una mano a trattenere gli irregolari o ad accogliere i rimpatri. I migranti arriverebbero da regolari in aereo anziché dopo un anno o due di viaggi della disperazione e navigazioni precarie, coi segni fisici e mentali di violenze e torture: avremmo anche livelli di integrazione più facili ed elevati”. Secondo le proiezioni (pre-pandemia) di Eurostat, l’Italia perde al 2040 quasi sei milioni di adulti in età di lavoro a causa della demografia avversa. Il problema è già così acuto che a Cartigliano, in provincia di Vicenza, la locale associazione di imprese ha lanciato il “Progetto Giano”: sostegni e aiuti alle famiglie locali perché si è notato che troppo spesso le coppie rinunciano ad avere il secondo o il terzo figlio. Ora il cambio di passo impresso da Draghi è stato sollecitato dalle associazioni di imprese dell’agricoltura, del turismo, delle costruzioni e dei trasporti. E le resistenze di chi nel centrodestra paventa la sottrazione di opportunità di impiego per i disoccupati italiani si scontra sempre più a un cambio strutturale delle aspettative dei giovani italiani. Dario Loison, un imprenditore dolciario di Vicenza, elettore della Lega nel 2018, con le sue imprese è cresciuto del 30% nel biennio pandemico esportando in 40 Paesi. Ma fatica a trovare giovani italiani da inserire in azienda: “A causa dell’uso eccessivo dei device digitali non sanno più scrivere, non riescono a ricordarsi cosa hanno fatto tre giorni fa - dice. Dunque, abbiamo bisogno dei flussi, ovviamente di persone selezionate e capaci di integrarsi”. Ma sta davvero cambiando l’umore delle constituency leghista e di destra nei territori, mentre le leadership a Roma restano ancorate ai temi di sempre? La stagione di Draghi sta destrutturando anche l’ultima roccaforte ideologica del sovranismo? Di certo il pragmatismo del premier trova riscontri nei territori più dinamici del Paese. Gianni Righetti ha due aziende di autotrasporto che muovono quaranta camion da container ogni giorno da Mirandola (Modena), e intanto si impegna in Fratelli d’Italia. “Allargare le maglie dell’immigrazione ha senso - riconosce. Nel nostro mestiere i ragazzi italiani giovani, mediamente istruiti, faticano a adattarsi. Essere di destra non vuol dire essere razzisti”. Certo il viaggio per il Paese nell’inverno della sua demografia resta impervio. Secondo Luigi Cannari di Banca d’Italia “nel 2060 il Pil italiano sarà sceso dell’11,5% con le attuali tendenze”. I nostri permessi di lavoro concessi ci collocano appena sopra la Grecia in Europa. Il quadro è stato aggravato dai pessimi risultati della sanatoria che, varata nel 2020, ha scontato ritardi burocratici, carenze di personale, una linea non sempre nitida politicamente. A fine ottobre, dati impietosi fotografavano lo stallo nelle grandi città: a Milano con 2.317 permessi per lavoro richiesti su 25.900 domande allo sportello, a Roma con 1.112 su 16.192, a Napoli con 1.200 su 17.000. Così il ricercatore giuslavorista William Chiaromonte (dell’Università Firenze) parla di “procedura labirintica, macchinosa”. Anche lui punta l’indice contro il Testo Unico sull’immigrazione: “Il sistema non funziona, tanto che si ricorre alle regolarizzazioni ex post”. In linea di massima in Italia per lavorare si entra da clandestini o da finti turisti e si aspetta che succeda qualcosa. “Se Draghi regge, aspettiamo il decreto 2022”, sussurra un consulente del ministero del Lavoro che in queste ore si è battuto per aumentare i flussi. Non la prima incombenza del premier, certo. Ma forse nemmeno l’ultima. Gran Bretagna. Il serial killer che morirà in una cella trasparente di Vittorio Sabadin La Stampa, 27 dicembre 2021 Robert Maudsley è considerato estremamente pericoloso, deve essere sorvegliato a vista 24 ore al giorno. Robert Maudsley, il più pericoloso serial killer del Regno Unito, morirà da solo in una cella di vetro costruita nei sotterranei della prigione HMP Wakefield, dopo che il tribunale ha respinto la sua richiesta di scontare l’ergastolo insieme agli altri detenuti. Maudsley è considerato estremamente pericoloso, e come l’Hannibal Lecter del “Silenzio degli innocenti” e il Raoul Silva di “Skyfall”, deve essere sorvegliato a vista 24 ore al giorno. Il serial killer, che ha 68 anni, trascorrerà il resto della sua vita in una cella trasparente di 5,5 per 4,5 metri, costruita appositamente per lui e protetta da vetri a prova di proiettile. Vi passerà 23 ore al giorno, dormirà su una lastra di cemento e si servirà di un wc e di un lavandino imbullonati al pavimento. Avrà anche un tavolo e una sedia di cartonato, non usabili per colpire qualcuno. L’acronimo HMP per la prigione di Wakefield sta per “Her Majesty Prison Service”, un servizio il cui obiettivo, come dichiarato, è “servire il pubblico tenendo in custodia coloro che sono stati condannati dai tribunali” e “prendersi cura di loro con umanità, aiutandoli a condurre una vita rispettosa della legge e utile in custodia e dopo il rilascio”. Ma con Maudsley non c’è modo di essere umani, hanno sostenuto i dirigenti della prigione. Ha ucciso in modo feroce cinque uomini tra il 1974 e il 1978, quattro dei quali pedofili e uno assassino della moglie. Il primo omicidio lo commise nel 1974, a 21 anni, uccidendo a Londra un John Farrell che gli aveva mostrato foto di bambini dei quali aveva abusato sessualmente. Maudsley si consegnò alla polizia, ma a causa del suo stato mentale non venne ritenuto idoneo a sostenere un processo. Fu invece mandato al Broadmoor Hospital, un ospedale psichiatrico che dal 1863 ospita i detenuti più pericolosi d’Inghilterra. Tutto andò bene per alcuni anni, finché al Broadmoor non fu ricoverato anche David Francis, un molestatore di bambini. Maudsley e il suo compagno di prigionia David Cheeseman si chiusero in una cella con Francis, e lo torturarono a morte appendendo poi il suo corpo a un gancio perché le guardie lo vedessero. Condannato per omicidio, Maudsley fu portato a Wakefield, dove la sorveglianza e le guardie non riuscirono a impedirgli di commettere altri due delitti. Per primo strangolò e pugnalò Salney Darwood, 45 anni, che era stato appena incarcerato per aver ucciso sua moglie. Nascose il corpo della vittima sotto il letto e riuscì ad entrare nella cella di Bill Roberts, 56 anni, che aveva abusato sessualmente di una bambina. Lo accoltellò al corpo e al cranio con un coltello che si era costruito piegando del metallo, e poi gli sbatté la testa contro il muro. Il tribunale lo condannò all’ergastolo con la raccomandazione che non fosse mai rilasciato. Secondo il “Daily Star”, nel suo appello ai giudici con il quale chiedeva condizioni di carcerazione migliori, Maudsley aveva chiesto di poter avere la compagnia di un pappagallo oltre a quella degli scarafaggi e delle mosche, di poter vedere la televisione e sentire nastri di musica classica. Se il servizio carcerario avesse detto di no, allora avrebbe voluto una pillola di cianuro. Non ha avuto né il pappagallo né il cianuro, ma una cella trasparente per il resto dei suoi giorni. Giappone. Un Natale con la pena di morte, stop alla moratoria di Pio d’Emilia Il Messaggero, 27 dicembre 2021 Dopo una moratoria di fatto di tre anni, che lasciava ben sperare, il Giappone ha eseguito nei giorni scorsi tre condanne a morte, riprendendo la macabra tradizione di effettuarle in segreto, dandone notizia a difensori e parenti solo ad esecuzione eseguita, e sempre a fine anno, quanto il Parlamento è in ferie ed i media meno attenti a questo genere di notizie. Non che in genere lo siano particolarmente, visto che secondo i sondaggi ufficiali (anche se l’ultimo risale al 2015) oltre l’80% dei giapponesi è favorevole alla pena di morte. Se negli Stati Uniti, l’altro paese del G7 che ancora mantiene la pena di morte, il dibattito è presente e vivace, in Giappone è totalmente assente. La pena di morte è considerata la giusta punizione per chi ha commesso delitti efferati: kokka adauchi, la chiamano alcuni, vendetta di Stato. Un triste passo indietro per un Paese che vanta uno dei più bassi tassi di criminalità al mondo e che oramai da molti anni è oggetto di pesanti denunce da parte di Amnesty International e di altre associazioni umanitarie, per un sistema giudiziario che grazie agli enormi poteri della polizia (che ha 23 giorni, rinnovabili, per sottoporre gli indiziati a durissimi interrogatori senza la presenza dei difensori) e all’azione penale discrezionale da parte della pubblica accusa, aumenta il rischio di abusi e di errori giudiziari spaventosi. Come quello che ha visto come protagonista Sakae Menda, assolto dopo 38 anni trascorsi nel braccio della morte, scomparso di recente dopo aver dedicato gli ultimi anni della sua vita a denunciare la crudeltà del sistema: i condannati (attualmente sono 107, quelli in attesa dell’esecuzione, che in Giappone avviene per impiccagione) sono tenuti in totale isolamento e vengono avvertiti solo pochi ore prima dell’esecuzione, vivendo così nel perenne terrore che per loro ogni giorno possa essere l’ultimo (“lo Stato uccide la nostra anima, prima del corpo”, ha scritto Menda nel suo diario). Ancora più emblematico il caso dell’ex pugile Iwao Hakamada, scarcerato (ma ancora in attesa del nuovo processo) nel 2014 dopo 50 anni trascorsi nel braccio della morte, un record assoluto riconosciuto dal Guinness dei Primati. Secondo la difesa, che si è avvalsa del pentimento di uno dei giudici che a suo tempo l’aveva condannato, Norimichi Kumamoto, che ha denunciato le pressioni subite dagli altri due membri del collegio giudicante, imponendogli l’unanimità e addirittura costringendolo, in quanto il più giovane, a scrivere la motivazione, l’ex pugile era stato sottoposto per 23 giorni ad interrogatori lunghi anche 16 ore, per un totale di 264 ore in 23 giorni. Alla fine, dopo essere stato più volte picchiato, aveva confessato, e nonostante in tribunale avesse ritrattato denunciando le violenze della polizia, era stato condannato a morte. Ora, a 85 anni, con la mente oramai devastata e accudito dalle cure amorevoli della sorella, vive in attesa della revisione del processo. Sempre che la Corte Suprema respinga l’ultimo appello della procura, che invece ha chiesto l’annullamento della sentenza che ne disponeva la scarcerazione in attesa di un nuovo processo. Un accanimento giudiziario che da anni la Comunità di Sant’Egidio, in prima linea assieme ad altre organizzazioni che si battono per l’abolizione della pena di morte o quanto meno per l’adozione di una moratoria sulle esecuzioni, denuncia in varie iniziative, anche in Giappone. Ma che non riescono, nonostante alcune autorevoli adesioni da parte di deputati, intellettuali e soprattutto l’Ordine Nazionale degli Avvocati, a sensibilizzare i media e l’opinione pubblica. “Ho a lungo riflettuto, caso per caso ha dichiarato l’attuale ministro della Giustizia, Yoshihisa Fujiwara, il cui ordine firmato personalmente è indispensabile per esefuire le sentenze ma non me la sono sentita di interrompere una tradizione profondamente radicata e condivisa dal nostro popolo”. In realtà, non è proprio così. Il Giappone durante l’illuminata epoca Heian (800-1185) fu uno dei pochi Paesi ad abolire ufficialmente la pena di morte (mentre in Occidente era in arrivo la Santa Inquisizione, con le sue torture, roghi e quant’altro), per poi ripristinarla, in varie e particolarmente crudeli forme (crocifissioni anche a testa in giù, smembramenti, bollimento) mano a mano che la civiltà avanzava. Fino ad istituirla formalmente, sia pure per un numero ridotto di reati particolarmente gravi (11, attualmente) nell’epoca Meiji, alla fine dell’800. Da allora, nonostante la pena di morte sia stata abolita in oltre 2/3 del mondo e la tendenza sia in aumento, nessuno, in Giappone, che insieme agli Stati Uniti è l’unico Stato del G7 a mantenerla, ha avuto il coraggio di rimetterci le mani. Per chi volesse approfondire l’argomento, dal punto di vista non solo giudiziario, ma anche storico e culturale, consiglio di vedersi Koshikei (L’impiccagione, https://it.wikipedia.org/wiki/L%27impiccagione) il pressoché sconosciuto capolavoro di Nagisa Oshima (L’impero dei Sensi, Merry Christmas Mr. Lawrence), Palma d’Oro nel 1969 a Cannes. Lo trovate in versione integrale, con sottotitoli, su You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=RpH_Dqbz5ME. Egitto. Laila Soueif: “Mio figlio picchiato in carcere, aiuterò i Regeni per la verità su Giulio” di Letizia Tortello La Stampa, 27 dicembre 2021 La madre di Alaa Abdel Fattah, simbolo di piazza Tahrir: “L’Italia smetta di vendere armi all’Egitto”. “Grazie a Paola e Claudio Regeni, che non hanno smesso un attimo di farsi sentire, per non permettere al regime egiziano di restare impunito facendo ciò che vuole di cittadini e stranieri, e per non aver permesso all’Italia di stare a guardare, pretendendo i nomi dei responsabili dell’uccisione di Giulio. Vi aiuterò, promesso, come posso. Grazie a Patrick Zaki, sempre presente alle udienze per Alaa. L’Egitto non può morire in questa mafia”. Laila Soueif, docente di Matematica all’Università del Cairo, lotta da 15 anni per la libertà della sua famiglia, e quando parla di Giulio Regeni si commuove per la rabbia e l’impotenza. Suo figlio Alaa Abdel Fattah è appena stato condannato ad altri 5 anni, è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Tora. Blogger e informatico, autore del libro “Non siete ancora stati sconfitti”, pubblicato in Italia da Hopefulmonster, è stato arrestato nel 2006, poi di nuovo nel 2011 quando è stato uno dei volti più in vista della rivoluzione di piazza Tahrir. Degli ultimi dieci anni, ne ha passati 8 in cella. Prima di lui era toccato al padre, Ahmed Seif al-Islam, avvocato e attivista, prigioniero con Sadat e Mubarak, torturato con scariche elettriche e fratture a gambe e braccia. Signora Soueif, come sta Alaa? Può visitarlo? “Sì, sono andata martedì. Vive profondi alti e bassi, ha momenti di sfida e di rabbia, ma stavolta la mia paura più grande, con una sentenza così ingiusta e pesante, è che possa perdere la speranza. Si aspettava questo esito. Per lo stato di emergenza del Paese, solo il capo dell’esercito, che è Al Sisi, potrebbe rigettare la sentenza. Ai suoi avvocati sono state negate le carte del processo, non è possibile fare appello. Alaa non ha potuto nemmeno difendersi. Non mi aspetto molto. Di certo, continuiamo a protestare, perché la gente ha il diritto di sapere cosa sta succedendo in Egitto”. Lei ha scritto una lettera in prima pagina sul New York Times in cui denunciava condizioni disumane di detenzione. Cosa accade nelle carceri egiziane? “Per due anni gli è stato vietato tutto, anche di vedere la luce del sole per molto tempo. I prigionieri come mio figlio, che è ancora trattato meglio di altri anche grazie alla sua esposizione internazionale, non possono leggere libri, non è permesso loro di allenarsi, e questo è totalmente fuorilegge. Alaa è stato spogliato e violentemente picchiato e minacciato la prima notte dopo l’arresto. Col Covid, non sapevamo più dove fosse finito, ogni giorno andavo fuori dal carcere a protestare, ho anche dormito lì. Ci hanno picchiato, mia figlia Sanaa è stata arrestata quando siamo andate a denunciare. Ci sono persone come Mohammed Ibrahim che hanno tentato il suicidio: lui non può nemmeno ricevere visite dei parenti. Ci sono torture, ho visto prigionieri trasportati bendati come se non fossero uomini, si verificano trattamenti disumani”. Di cosa è accusato Alaa? “Di diffondere fake news. Nello specifico, nel 2019, ha ritwittato un tweet di un prigioniero della sua area morto in strane condizioni. Dicono che si sarebbe tolto la vita, che comunque sarebbe responsabilità della prigione, ma non è così: è stato torturato fino alla fine. Ci sono forti indizi che lo dimostrano”. Lei ha subito minacce dal governo? Ha paura? “Cosa mi può capitare di peggio di un figlio da 10 anni in carcere. Io mi esprimo contro il regime perché mi prendo i miei rischi, ma in Egitto nessuno può parlare in sicurezza. Insegno Algebra, materia astratta, e continuo a farlo. Se fossi docente di materie politiche, sarei stata allontanata. Con me non vale la pena, creerebbe più problemi e cattiva stampa al regime cacciarmi dall’università”. Zaki aveva l’appoggio dell’Italia e per fortuna è libero. Ci sono migliaia di altri detenuti senza nome e volto. Vi sentite dimenticati dalla comunità internazionale? “Zaki è così carino, viene sempre a sostenere Alaa, e mi auguro che possa tornare presto in Italia a studiare. No, non mi sento dimenticata o sola. Distinguo tra governi e attivisti come le Ong che ci sostengono. Personalmente non ho fiducia nei governi occidentali, in nessuno. Credo che i governi europei come Italia, Germania, Francia e Regno Unito qualche pressione la facciano, ma poi siano interessati più al business con il Cairo. Continuano a fare accordi per vendere armi, o energia elettrica. Con contratti milionari, continuano a supportare il regime, attivamente. Fanno gli interessi delle grandi compagnie, ma non credo che sia ciò che importa alla maggior parte dei loro cittadini. Dico a voi, cittadini occidentali: pesate di più le azioni in politica estera dei vostri governi, monitorare le pressioni per il rispetto dei diritti umani”. Com’è l’Egitto del 2021? Cosa prevede per il suo Paese? “Non c’è più neanche un simulacro di democrazia. Nessuno di quelli che stanno al governo finge nemmeno di rispettare legge e Stato di diritto. Lo Stato è in completa decomposizione in tutti i servizi, è semi-fallito con una macchina molto viziata e corrotta. La situazione è volatile, il regime può restare al potere a lungo o potrebbe esserci un default improvviso. Siamo governati da un tot di mafie, che guadagnano sulla nostra pelle. Non sappiamo nemmeno chi sono i finanziatori stranieri. Di certo, la gente è sempre più povera e sta diventando più violenta. E anche lo Stato. Lo spirito del 2011 si è perso completamente”. Iran. Rinviata di dieci giorni l’esecuzione di un reo minorenne di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 dicembre 2021 Secondo quanto riportato dall’ong Iran Human Rights, le autorità iraniane hanno rinviato di dieci giorni l’esecuzione di Hossein Shahbazi, condannato a morte per un reato commesso quando era minorenne. Shahbazi è stato condannato alla pena capitale nel 2018, quando aveva 17 anni, riconosciuto colpevole di omicidio durante una rissa che aveva coinvolto più persone. Non c’è da essere tranquilli, purtroppo: il 24 novembre un altro minorenne al momento del reato, Arman Abdolali, era stato messo a morte nonostante le autorità avessero informato i suoi genitori che l’esecuzione era stata rinviata, impedendo così loro di dare persino l’ultimo saluto al proprio figlio. L’Iran è uno dei pochissimi stati in cui si eseguono condanne a morte nei confronti di rei minorenni, una prassi del tutto vietata dal diritto internazionale. Afghanistan. I salti indietro nel tempo dei talebani di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 27 dicembre 2021 Hanno vietato alle donne di viaggiare da sole per distanze superiori a 72 chilometri dalla residenza. Inoltre, ai taxisti è raccomandato di non accettare passeggere che non indossino il “velo islamico”. Più trascorre il tempo e più l’Afghanistan del “nuovo” regime dei talebani assomiglia a quello vecchio del Mullah Omar, che governò a Kabul prima degli attentati dell’11 settembre 2001. Ormai quasi non c’è settimana senza che i loro dirigenti non promulghino provvedimenti liberticidi, specie nei confronti delle donne. Dopo i forti limiti all’educazione e al diritto di lavorare, l’ultimo in ordine di tempo vieta loro di viaggiare da sole per distanze superiori a 72 chilometri dalla residenza. Inoltre, ai taxisti è raccomandato di non accettare passeggere che non indossino il “velo islamico”. Cresce nel frattempo la censura contro le musiche e i film importati dall’estero, circa la metà dei giornalisti afghani ha perso il posto, tra loro l’80% sono donne. A ben vedere, un passo avanti rispetto al periodo 1996-2001, quando i talebani vietarono in modo assoluto gli spostamenti e con la minaccia di pene severe contro ogni donna che fosse uscita di casa non accompagnata da un uomo adulto tra i famigliari. Ma, in verità, un drammatico salto indietro, tenendo conto che il ventennio di presenza della coalizione a guida americana aveva impresso miglioramenti rilevanti nel Paese. Ciò che sta avvenendo è il graduale ritorno ai costumi estremamente conservatori dell’universo rurale pasthun, di cui i talebani sono i pretoriani armati con il pieno sostegno dei mullah e dei capi villaggio. Stupisce però che a 130 giorni dalla loro presa del potere e di fronte al collasso in cui è precipitato il Paese - almeno metà della popolazione soffre la fame, il sistema sanitario è in ginocchio, le banche paralizzate - i talebani dedichino attenzioni ed energie per reprimere le donne e imporre la loro interpretazione oscurantista del Corano. Un motivo in più per condizionare gli aiuti internazionali alla difesa dei diritti civili. Anche il ritorno della rappresentanza Ue a Kabul dovrà essere caratterizzato da pressioni in questo senso. Birmania. La strage di civili non si ferma: uccise 38 persone, tra loro donne e bimbi La Stampa, 27 dicembre 2021 Spariti 2 membri di Save the Children. L’Onu: “Siamo sgomenti”. E prosegue la persecuzione giudiziaria nei confronti di Aung San Suu Kyi. Almeno 38 civili uccisi, gran parte dei quali ritrovati carbonizzati, in un’area dove è radicata la minoranza cristiana cattolica: il massacro di Natale di cui si è macchiato due giorni fa l’esercito birmano ha provocato sdegno sui social media e tra le organizzazioni coinvolte, a partire da Save the Children, che teme l’uccisione anche di due suoi dipendenti ancora dispersi. In scia ad altre uccisioni di massa emerse fin da giugno, la strage è l’ennesima riprova della gravità della situazione nel Paese asiatico, dove l’esercito autore del golpe lo scorso febbraio impiega sempre più il pugno di ferro contro il dissenso. Stavolta il massacro, nel quale secondo Save the Children sono morte almeno 38 persone tra cui donne e bambini, è avvenuto nello stato Kayah, nell’est del Paese: un’area dove da decenni la minoranza Karenni - in maggioranza cattolica - rivendica una maggiore autonomia. Ieri mattina, i resti carbonizzati di sette veicoli sono stati ritrovati nella cittadina di Hpruso. Tra i veicoli c’era anche quello di due birmani che lavoravano per Save the Children e stavano tornando a casa; l’organizzazione, che si è detta “inorridita”, ha sospeso tutte le sue operazioni nell’area ma anche in altre regioni birmane dove è attiva. Secondo la milizia dei ribelli Karenni, le persone uccise erano civili che cercavano di mettersi in salvo dai combattimenti nella zona. Per l’esercito birmano, i militari hanno aperto il fuoco sul convoglio dopo che i veicoli non si erano fermati a un posto di blocco, sparando contro i soldati. I media statali hanno parlato di un numero imprecisato di “terroristi armati” uccisi nei villaggi della zona. La strage ricorda quelle avvenute a luglio e ai primi di dicembre nel distretto di Sagaing e nello stato Chin, nel nord-ovest del Paese. Secondo il governo di unità nazionale del Myanmar - un esecutivo ombra formato dalle forze dell’opposizione democratica - i militari erano impegnati in una operazione di repulisti nell’area, la stessa strategia utilizzata per decenni contro diverse milizie etniche e nel 2017 responsabile dell’esodo in Bangladesh di oltre 700 mila Rohingya. In risposta al massacro, il governo di unità nazionale ha reiterato l’esortazione alla comunità internazionale ad agire contro “i crescenti crimini di guerra e contro l’umanità” della giunta del generale Min Aung Hlaing. Oltre ai massacri documentati da mesi, che hanno spinto l’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu a dirsi “sgomento davanti all’allarmante escalation di gravi abusi dei diritti umani”, nelle ultime settimane operazioni militari qualche centinaio di chilometri più a sud hanno spinto oltre cinquemila birmani a riparare oltre confine in Thailandia. Con Aung San Suu Kyi già condannata a quattro anni e in attesa di altri processi, un dissenso schiacciato nel sangue nelle proteste in città e organizzatosi in resistenza armata nelle campagne, milizie etniche attive da decenni e ora a formare un fronte comune col resto dell’opposizione, l’impressione è che la spirale di violenza sia destinata a proseguire. Restando su San Suu Kyi, un tribunale guidato da militari ha rinviato al 10 gennaio i verdetti contro la leader deposta, accusata di importazione e possesso di walkie-talkie illegali. Il caso è tra i tanti intentati contro la 76enne vincitrice del Premio Nobel per la pace da quando l’esercito ha preso il potere a febbraio. I sostenitori e gli analisti indipendenti affermano che tutte le accuse contro di lei sono motivate politicamente con il tentativo di screditarla e legittimare la presa del potere da parte dei militari.