Pignatone abbatte il tabù: “Sì al voto degli avvocati sulle carriere dei giudici” di Errico Novi Il Dubbio, 26 dicembre 2021 Con l’articolo firmato stamattina su Repubblica, il presidente del Tribunale vaticano, già procuratore di Roma, cambia il verso del dibattito intorno al diritto degli avvocati di votare, nei Consigli giudiziari, sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. Una presa di posizione destinata a incidere, più in generale, sull’idea di una giurisdizione condivisa. I dettagli possono essere illuminanti. Ne citiamo uno dall’articolo firmato oggi su Repubblica da Giuseppe Pignatone, fra le figure più autorevoli della magistratura italiana. Il presidente del Tribunale vaticano, già procuratore di Roma, confuta la tesi, assai popolare nell’Anm, secondo cui il riconoscimento agli avvocati del diritto di voto, nei Consigli giudiziari, sulle valutazioni di professionalità relative ai magistrati possa costituire “un insuperabile conflitto di interessi”: Pignatone nota innanzitutto che “lo stesso conflitto potrebbe immaginarsi anche tra pm e giudici”. Fin qui siamo a un esempio opposto tante volte dall’avvocatura alle “obiezioni corporative” dei magistrati. Ma l’ex procuratore di Roma aggiunge un piccolo ulteriore dettaglio, a cui neppure il Foro in genere ricorre: un conflitto di interesse, scrive, dovrebbe allora essere paventato anche “tra giudici delle diverse fasi del processo”. È certamente così: se il Consiglio giudiziario deve esprimere il parere da trasmettere al Csm per la valutazione di professionalità relativa a un giudice di Corte d’appello, e tra i componenti dell’organismo siede un giudice del primo grado che proprio da quel collega dell’appello si è visto riformare una sentenza, cosa si dovrebbe temere? Che il magistrato “smentito” si vendichi con un voto sfavorevole? È appunto solo un passaggio dell’intervento con cui Pignatone ha probabilmente cambiato il corso del dibattito sul ruolo degli avvocati nella giurisdizione. Il suo articolo segna una svolta perché si sofferma su tutti gli snodi della discussione sul pieno coinvolgimento del Foro, e smaschera tutti i tabù eretti come ostacolo alla riforma. Definisce innanzitutto “positiva” sia la riforma sul voto degli avvocati nei Consigli giudiziari sia l’altra possibile modifica sulle valutazioni di professionalità che potrebbe trovare spazio nel ddl sul Csm, ossia l’articolazione dei giudizi in “discreto, buono, ottimo” e il peso da attribuire all’eccessivo numero di insuccessi processuali. Pignatone giudica “l’intervento degli avvocati”, in particolare, uno “strumento prezioso”, giacché “può offrire al Consiglio giudiziario un punto di vista e una sensibilità diversi da quelli dei componenti togati”. Decostruisce appunto la tesi dei conflitti d’interesse, dei rischi di ritorsione che le toghe dovrebbero temere da parte dell’avvocatura. E soprattutto scrive: “Trovo anche importante che ciascuna componente si assuma la responsabilità di decisioni di tanto rilievo per il buon andamento del servizio da rendere ai cittadini”. Ecco: è proprio un inno al coprotagonismo degli avvocati nella giurisdizione. L’idea da cui è partito il Cnf per sollecitare il riconoscimento costituzionale dell’avvocato. Pignatone ricorre ad argomenti esemplari, li scolpisce. E dà un contributo dialettico cruciale nel dibattito intorno a entrambe le riforme: sul voto degli avvocati nelle carriere dei giudici e sull’avvocato in Costituzione. Morto Angelo Burzi suicida in casa: “Vittima di ingiustizia su Rimborsopoli” di Carmine Di Niro Il Riformista, 26 dicembre 2021 È morto nella tarda serata del 24 dicembre, alla vigilia di Natale, puntandosi la pistola alla testa. È scomparso così all’età di 73 anni l’ex assessore regionale del Piemonte Angelo Burzi una delle figure di spicco del mondo politico locale nell’area del centrodestra e decano di Forza Italia, tra i fondatori del partito azzurro in Piemonte. Stando alle prime ricostruzioni dei carabinieri, intervenuti in serata venerdì, Burzi, che era solo nella sua abitazione di piazza Castello a Torino, si è sparato alla tempia con la sua pistola regolarmente registrata. Laureato in ingegneria elettronica, imprenditore, fu eletto per la prima volta in consiglio regionale nel 1995. Rieletto nel 2000, nel 2005 e nel 2010, dal 1997 al al 2002 ricoprì la carica di assessore al bilancio. L’ultima iniziativa politica era stata, cinque anni fa, la fondazione Magellano: un ‘pensatoio’ per rilanciare la città di Torino. Le indagini per capire il movente del gesto estremo di Burzi sono in corso, con l’ex assessore che, riferisce Repubblica, avrebbe lasciato alcune lettere destinate alla moglie e alle due figlie. Ma un collegamento potrebbe essere quello riguardante le sue vicende giudiziarie. Burzi era stata chiamato in causa nei processi celebrati dal tribunale di Torino, ancora in corso, per le ‘Spese pazze’ in Regione, ovvero le presunte irregolarità nell’utilizzo dei fondi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari. Il 14 dicembre scorso l’esponente di Forza Italia era stato condannato dalla Corte d’Appello di Torino a tre anni di reclusione: tra il 2010 e il 2014, anni di ‘riferimento’ per l’inchiesta, Burzi era capogruppo del partito in Regione. A citare l’inchiesta è per esempio Roberto Cota, ex presidente della Regione Piemonte, condannato a un anno e 7 mesi nella stessa indagine: “Angelo era intelligente, ma soprattutto di grande onestà e rettitudine. Ha vissuto con profonda ingiustizia Rimborsopoli, sulla quale credo sia ora necessario un approfondimento”, spiega all’Ansa l’ex governatore leghista. A proposito di Rimborsopoli, insiste l’ex presidente del Piemonte, “purtroppo Angelo non riusciva a farsi una ragione della ingiustizia subita che, tra l’altro, ha portato a un inspiegabile differenza di risultati rispetto a spese assolutamente uguali e anche a sentenze diverse su fatti analoghi. Per questo credo sia necessario un serio approfondimento pubblico della vicenda, perché c’è stato un accanimento giudiziario che dura ormai da quasi dieci anni”. Collegamento con l’indagine a carico di Burzi che arriva anche da Guido Crosetto, esponente di Fratelli d’Italia piemontese come l’ex assessore forzista: “Questa notte, Angelo Burzi, amico da 20 anni, intelligente e raffinato, uomo scorbutico, arguto, tenero e profondo, ha deciso che non valeva più la pena vivere in questo mondo. Piegato da anni di assurde ingiustizie e violenze giudiziarie, ha detto “basta!”. Addio, amico mio. Non si può morire di (in)giustizia di Stefano Rizzi lospiffero.com, 26 dicembre 2021 La tragica morte di Angelo Burzi ripropone l’annoso tema del rapporto tra politica e magistratura e mette in luce tutte le storture del sistema giudiziario. L’ex vice guardasigilli Costa: “Inaccettabili i tempi ed evidenti le disparità di sentenze a singhiozzo”. Il suicidio di Angelo Burzi, tra i fondatori di Forza Italia, a lungo assessore regionale e riferimento per il mondo liberale piemontese e non solo, ha suscitato profondo cordoglio e non meno stupore nel mondo politico. La sua recente condanna, dopo l’assoluzione in primo grado, per quella che venne ribattezzata come la Rimborsopoli regionale scaturita da un’inchiesta sull’utilizzo dei fondi dei gruppi consiliari che data ormai quasi dieci anni, pesa come un macigno sulla tragedia personale. Pesano, non di meno, quei tempi eccessivamente lunghi della giustizia, la gogna mediatica e pure le disparità con cui presunti od effettivi reati sono apparsi essere trattati nei processi, insinuando il dubbio di differenze rispetto agli schieramenti politici. Logoramento e frustrazione. Enrico Costa, liberale, deputato di Azione, già viceministro alla Giustizia e protagonista (quasi sempre in solitaria) di battaglie per una giustizia più efficiente e rispettosa dei diritti, non usa a caso queste parole parlando dell’amico Angelo con cui ho condiviso anni in consiglio regionale, durante i quali ne ho conosciuto bene i valori, la serietà, l’impegno, il coraggio delle sue idee”. E anche quella graniticità che, però, può sgretolarsi di fronte a qualcosa di insopportabile. È terribile dover parlare in questi termini della giustizia, ma, onorevole Costa, si può non farlo dopo anni e anni di processi tra assoluzioni e condanne? “Probabilmente ha subito delle picconate così pesanti che anche una persona forte come lui non ha retto”. Burzi era una figura molto conosciuta, oggi la politica la ricorda con stima, mostra sgomento per il suo gesto, forse prende coscienza tardivamente e solo per qualche giorno di un problema che non riguarda solo persone note. “In questo caso si è arrivati a discutere in appello fatti di più di dieci anni fa. Pensiamo alle persone che sono sotto processo per tutto questo tempo, talvolta per periodi ancora più lunghi. È accettabile? No. Vale sia per il condannato, sia per l’assolto. Avere una giustizia che dà una risposta rapida è una necessità inderogabile, tanto più in un Paese come il nostro dove già un avviso di garanzia è uno sfregio difficile da cancellare”. Essere condannati dopo tanto tempo, lei pensa che questo possa definirsi pienamente giustizia? “La sentenza definitiva deve giungere in un termine ragionevole rispetto ai fatti. Anche se di condanna, perché deve intervenire sulla stessa persona alla quale è contestato il reato. Una condanna che arriva dopo tanti anni è più difficile da assorbire, e spesso inutile, perché tocca una persona diversa”. Sarà anche difficile farlo un processo passato tanto tempo? “Mi ha colpito molto la pretesa e l’insistenza con cui si chiedeva ai testimoni di ricordare dettagli di dieci anni prima”. Prima assolto, poi condannato. E intanto gli anni scorrono. Una vicenda di cui ne ha parlato pochi giorni fa con noi l’allora governatore Roberto Cota, mettendo in evidenza anche le diverse sentenze per fatti analoghi che alimentano il dubbio di un diverso trattamento a seconda dell’appartenenza politica. Su questo lei cosa pensa? “Sentenze a singhiozzo. Io sono per la non appellabilità delle sentenze di assoluzione. Come si può escludere il “ragionevole dubbio” se un Tribunale ha assolto? Sulla disparità nelle sentenze non posso esprimermi non avendo letto tutte le carte, ma una cosa la dobbiamo dire e non solo per questo caso: in Italia il processo è già una pena, indipendentemente da come poi si concluda. E più si prolunga, più la pena è dura”. Per l’uso dei fondi dei gruppi ci sono state inchieste e processi quasi in tutte le Regioni, ma con esiti e modalità diverse. Anche questa non è una stortura del sistema giudiziario? “Vero, così come ci può essere stata un’interpretazione non omogenea della norma da parte dei consiglieri regionali, così evidentemente c’è stata una differente interpretazione da parte dei magistrati. Una giustizia a macchia di leopardo non è molto credibile”. Magistrati che non sbagliano mai? “La stragrande maggioranza dei Magistrati è preparata e lavora silenziosamente con impegno. Ma addirittura il 99% ha una valutazione positiva dal Csm. Possibile? Questo evidenzia una totale assenza di valutazione dei meriti o dei demeriti. Le azioni disciplinari finiscono quasi tutte nel nulla. Ci sono oltre mille segnalazioni al Procuratore Generale presso la Cassazione e le archivia quasi tutte, senza rispondere a nessuno e senza far vedere gli atti. La responsabilità civile dei magistrati vede solo l’1,4% di condanne”. La politica in tutto questo ha gravi responsabilità. Teme la magistratura o ha convenienza a non sollevare problemi verso le toghe? “No, non è paura. La politica agisce per convenienza, raramente per convinzione. Io ero ministro e ho votato contro la riforma del ministro della Giustizia Andrea Orlando sulla prescrizione”. Molti altri invece… “Pensi che Forza Italia e la Lega hanno votato contro un mio ordine del giorno che prevedeva l’intervento del Garante in caso di notizie su un’assoluzione non date con lo stesso risalto riservato a quelle dell’indagine. Guardi lo spazio che hanno dato all’assoluzione dell’ex governatore della Basilicata Marcello Pittella: poche righe. Quando era stato arrestato gli stessi giornali avevano dedicato alla notizia almeno una pagina”. Salerno. Il Covid torna in carcere e i vaccini scarseggiano: via allo sciopero della fame di Giovanbattista Lanzilli ottopagine.it, 26 dicembre 2021 A Salerno la protesta guidata dai Radicali con i detenuti ed i loro familiari: 500 in protesta. “Il sovraffollamento nel carcere e le ulteriori complicazioni dovute all’emergenza pandemica, come il sovraffollamento nelle file davanti agli hub vaccinali a rischio di contagio per gli assembramenti, senza che il sindaco - quale massima autorità sanitaria - proferisca parola. Mai possibile che è cieco, sordo e muto, neanche davanti a questa strage di diritto e dei diritti, che è una vera e propria strage di popoli che non ha precedenti in città?”. Comincia così l’appello di Donato Salzano, segretario dei Radicali di Salerno, che torna a denunciare l’emergenza sanitaria all’interno del carcere di Fuorni. Appunto per queste ragioni a partire dalla passata mezzanotte stanno dando corpo ad uno sciopero della fame di dialogo Donato Salzano (segretario associazione Radicale “Maurizio Provenza”), Tonino Letteriello, Margaret Cittadino di Cittadinanza Attiva, Mario Argentino (“Diretta Agora”) e Gianfranco Ferrigno (presidente Claai Salerno) sostenuti da oltre 500 persone tra familiari e detenuti di Salerno. “La strage del diritto e dei diritti davanti agli hub continua inesorabilmente a compiersi, mentre i credenti, i nonviolenti danno corpo al digiuno quale precetto cristiano di Natale. Il con-vincere, il vincere insieme all’interlocutore del dialogo quale obiettivo di una lotta mai sterile e fine a se stessa, le ragioni di un dentro e del fuori che non hanno più motivo di differenziarsi, consapevoli che il trattamento inumano e degradante del fuori nelle sovraffollate file davanti agli hub e gli usca di somministratori e somministrati è del tutto simile a quello che subiscono da sempre detenuti e detenenti nelle comunità penitenziarie, che resistono soltanto grazie al saper essere speranza anziché averne, di chi come la direttrice del carcere di Fuorni Rita Romano per una parte e per l’altra del sindaco di Baronissi Gianfranco Valiante che non vogliono rimanere con le mani tra le mani, perché evidentemente sarebbe per loro il peggiore dei crimini. Al mio amico Enzo Napoli pertanto chiediamo quale massima autorità sanitaria di esercitare senza indugi e ne timori da subito il potere conferitogli dalla legge d’urgenti e contingibili ordinanze in materia di diffusioni epidemiche o pandemiche”, l’appello di Salzano. Lucca. Marcucci in visita al San Giorgio: “Auspico un nuovo carcere fuori città” luccaindiretta.it, 26 dicembre 2021 Il senatore dem al consueto appuntamento della vigilia di Natale con l’assessore regionale Stefano Baccelli. Consueta visita per la vigilia di Natale da parte del senatore Andrea Marcucci al carcere di San Giorgio. Con lui l’assessore regionale Stefano Baccelli. Da entrambi l’auspicio che Lucca possa dotarsi di una nuova struttura fuori dalle mura cittadine. “Ogni anno a Natale - spiega il senatore - vado a visitare il carcere della mia città, Lucca, per verificarne le condizioni di reclusione, gli spazi vitali, la presenza di servizi formativi e ricreativi. Oggi sono entrato al San Giorgio con l’assessore regionale Stefano Baccelli. Non dobbiamo mai scordarci che in carcere vive la nostra Costituzione: l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. (articolo 27). A Lucca la prossima primavera si voterà ed io mi auguro che con la amministrazione che subentrerà si possa lavorare per un nuovo carcere fuori città che consenta spazi più dignitosi e celle più grandi, e per recuperare il vecchio edificio nel centro storico per uso civile”. Bologna. Natale, la donazione detenuti della Dozza all’Ageop per i bambini malati di tumore La Repubblica, 26 dicembre 2021 Il cappellano Marcello Matté: “Anche le persone detenute vogliono dire che non dimenticano chi soffre, specialmente i bambini senza colpa”. A Natale l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi è tornato a celebrare la messa con le persone detenute alla Dozza. Dal Natale 2019 la pandemia ne aveva impedito la presenza. “È un momento particolarmente significativo per chi vive in carcere, perché dice loro che la città e la Chiesa di Bologna non si dimenticano di loro - spiega il cappellano Marcello Matté - Anche le persone detenute vogliono dire che non dimenticano chi soffre, specialmente i bambini senza colpa”. E così hanno spontaneamente organizzato una colletta tra di loro per raggiungere con un dono i bambini dell’Oncologia Pediatrica del Sant’Orsola. Il frutto della colletta natalizia è stato consegnato, durante la messa di Natale, a Carla Tiengo, presidente di Ageop Ricerca, l’associazione che organizza iniziative a favore dei bambini malati di tumore e delle loro famiglie. “Chi ha la salute ma non la libertà per goderla vuole esprimere solidarietà a chi ha la libertà ma non la salute per goderla - osserva il cappellano - Alla colletta hanno contribuito in molti con un dono che forse è piccolo nella quantità, ma certo è grande nel valore. Proviene da chi in gran parte manca del necessario e prende a misura ciò che è necessario ad altri”. Educare insieme, cioè la crescita che non deve preoccupare di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 26 dicembre 2021 Uno dei temi che occupano maggiormente la stampa, dopo il Covid ma prima dei licenziamenti, è quello dell’educazione delle nuove generazioni. Dirò che dietro la punta dell’iceberg mostrato dai frequenti servizi giornalistici e televisivi sul bullismo, c’è una preoccupazione reale delle generazioni che lavorano e che sono in pensione, nei confronti di quelle nuove, e se questa attenzione è disordinata, nebulosa, somiglia molto ai geyser islandesi, è perché i nuovi temi sono difficili da sondare e analizzare come lo sono i nuovi lavori e i nuovi stili di vita. Alcuni esempi giocati sul paradosso del nostro inconscio. La gioventù, l’adolescenza odierna, è veramente difficile per noi, che ne siamo genitori, zii, nonni, o comunque elders than them. Quando a me le compagne di scuola donne (non si dovrebbe dire perché non mi crederà nessuno) mi davano del finocchio (così si diceva negli anni 70, e io ho imparato a non dirlo più grazie al poltically correct) perché ero secchione, non certo macho, e non allungavo le mani né ero bello, non c’erano i cellulari sui quali caricare gli scherzi che mi facevano. Scherzi del tipo di scrivermi una falsa lettera d’amore a nome Tiziana, in genere bruttina sennò non avrei considerata credibile un’infatuazione nei miei confronti, poi vedere se ci credevo, e visto che alla fine non ci caddi, farmi trovare una bella vomitata per premio sul sellino del motorino, non c’era you tube, ma “radio serva” funzionava bene, ah sì. Ora gli adolescenti non conoscono il loro corpo in precedenza rispetto a quanto facemmo noi, e lo stesso vale anche per quello dell’altro sesso: viene loro sbattuto in faccia, da un’informazione sempre più veloce, vorace, voltastomaco, e conoscono molto meno l’amore perché non fanno in tempo a sviluppare molti sentimenti, e quando li sviluppano ne hanno vergogna, perché sembrano loro una perdita di tempo. Vorrei dire meglio che viene loro inculcato il concetto che è una perdita di tempo. Per cui quello che filmano e fanno girare spesso è una finta verità che non è nemmeno una recita. E mi fanno paura, perché passano da momenti di straordinaria dolcezza: le donne fra di loro, ma anche gli immigrati maschi di alcune etnie, ormai nati qui, sono più affiatati e carezzevoli fisicamente nello stesso sesso. Quest’ultimo atteggiamento fa parte della trasmissione della loro cultura, ed è però anche conforto da caserma, cameratismo. Ma con la stessa dolcezza passano rapidamente alla violenza perché secondo me mancano i passaggi costituiti dalla fantasia, dal sognare, desiderare un sogno ed anche una caduta. Non si sogna, o ci si impedisce di sognare, ma si mastica, si consuma, si gioca con le play station, e si ha anche un sacco di tempo impiegato negli sport, nella musica, nei centri di aggregazione. Un mondo simile non l’hanno certo costruito loro, quelli di 14 anni, che oggi sembrano fra i più pericolosi con le baby gang. Si impegnano, alle volte si accapigliano, sulla difficile situazione, operatori a vario livello. Anche io mi preoccupo. Il mondo in cui tutto deve essere regolato, riempito, programmato, per il quale ci si lamenta di non avere mai un momento libero per vedersi è quello degli adulti, che se avessero tempo per vedersi si spaventerebbero, inorridirebbero al rischio di doversi aprire, confrontare, parlare. Riempiamo questo pericoloso con altre attività, per essere anche convinti nelle nostre lamentele. Sono più ferrati in questa materia i quarantenni e i cinquantenni, quelli ai quali la gerarchia è congeniale, è la risposta agli anni della rivolta mal digeriti perché avvenuti 20 anni prima di loro, e perché hanno suscitato la reazione della borghesia di cui loro sono le vittime, e i portatori sani del virus. Dando luogo a nuove generazioni abbiamo trasmesso loro questi stili di vita, non ponendoci minimamente il limite che tutte le generazioni affrontano, cioè il rifiuto delle precedenti, il considerarle vecchie, deprimenti, causa di tutti i mali del mondo. Non voglio parlare dei giovani dei Fridays For Future. Più semplicemente racconto come, mesi fa, ad una manifestazione di protesta contro le dichiarazioni sessuofobiche, omofobiche ed anche maschiliste di alcuni politici maschi e anche femmine di destra, i giovani che tante mamme temevano non avrebbero trovato spazio per inserirsi nella protesta, si presentarono con cartelli che ai miei tempi avrei giudicato antifemministi e blasfemi, del tipo “La figa ha delle ragioni che la Regione non conosce”, “Libero sesso, non mi direte voi chi mi deve piacere e cosa ci devo fare”, ben più divertenti del “Maschio represso masturbati nel cesso”, o “Lo sperma c’inquina”, a cui noi maschietti rispondevamo “E il cazzo tombola”. Insomma, almeno alcuni si divertono e protestano meglio di noi. C’è dell’altro: le nuove generazioni cercano di combattere il vuoto di pensieri forti con identità che possono essere di provenienza(centroamerica), età, violenza. Le intermedie, le pericolosissime 40-50, sono quelle che, a forza di dire che noi sessantottini avevamo rovinato il mondo, hanno trovato nel salvifico Green Pass una aggregazione forte, adatta a redditi medi, non operai, assolutamente non migranti, senza o quasi giovani e adolescenti. Un brodo di coltura abominevole, ma da considerare. Perché stamattina mi sono passati davanti, quasi tristi, in mezzo alle bancarelle natalizie, una decina di amici di Potere al Popolo(anche compagni, ma amici perché lo sono) che annunciavano una protesta contro il carovita, i licenziamenti, le manovre finanziarie, ma solo dieci? Perché quando raccolgo le firme di Sinistra Italiana sulla Patrimoniale siamo ancora meno di dieci, e le proteste nei nostro confronti sono abbastanza dure? Perché non passa più nessun messaggio di dovere, socialità, sacrificio collettivo e generosità. Passano quelli di libertà contraffatta, egoismo. Eppure in mezzo ai No Green Pass si inseriscono centri sociali, anarchici, impoveriti, masse fluttuanti di lavoratori meno garantiti, ed alle volte trovano posto contro il sistema. Quel posto che se CGIL e UIL non si sbrigavano a ritrovare con lo sciopero del 16 dicembre, non ci sarebbe stato più per loro, di fronte alla valanga di delocalizzazioni che il tessuto industriale italiano sta subendo. Ma l’Inter e la Juventus aggregano di più, da decenni. E allora i giovanissimi, se si riuniscono in bande, perché debbono essere guardati con tanta meraviglia? Più che con meraviglia, vengono guardate con paura. Perché stanno lì senza valori, alcuni ripeto, senza attività degne di questo nome, con uno strumento nelle mani pericoloso se non guidato dalla testa. Ma non mi riferisco al cellulare: mi riferisco di nuovo ai loro corpi, che cameratescamente entrano in branco nei negozi, sbarellano tutto quello che c’è, rubano mentre altri li coprono, oppure bevono. Ma non sono il prodotto di chi non vuole avere problemi? Di quelle persone che denunciano anche un Comune perché hanno inciampato su un marciapiede sconnesso e sono cadute per terra? Oppure di quelle persone che non si fanno problemi di rivoltarsi contro i medici se la cura a un familiare non riesce, senza peritarsi di invadere un pronto soccorso o una corsia di ospedale? O, in conclusione, di chi ha tentato di costruire un mondo con soluzioni a tutti i problemi, compresa l’eternità, e di fronte all’impossibilità di ciò, ha ripiegato sulla proiezione di questo mondo nella propria mente, come in un video gioco? Faccio un ultimo, ardito passaggio: che anche il ritorno di maschilismo, di violenza, di femminicidi, non sia una delle reazioni dell’umanità maschile ad un mondo che le sfugge, senza più possedere e governare attraverso le sovrastrutture mentali per riflettere? Ad alcuni risultati nell’educazione dei maschi e delle femmine in direzione della differenza di genere, di diritti civili, di tolleranza, comprensione, dignità, datati anni 60, 70, 80, con il divorzio, l’aborto, l’educazione sessuale, la chiusura dei manicomi, sono seguiti i duri anni della supponenza di poter fare senza ideologie, senza organizzazioni, partiti, sindacati, ed il maschio, molto più debole ma anche molto più pericoloso di quello latino e patriarcale, debole ed incapace di farsi una ragione della sua debolezza, ha preso ad uccidere di più, a non sopportare le emancipazioni, anche le incertezze delle donne, anche i nuovi ruoli non compiuti. E sono aumentate, aumentano, le tragedie sempre più dirompenti, spesso seguite dalla negazione di responsabilità da parte del femminicida, dalla fuga di responsabilità, dalla stessa sua autosoppressione. Ampio è il campo, e questa è stata è stata una digressione passionale. E’ di ben altro spessore la riflessione che segue: molti detenuti hanno dichiarato che erano stati fortunati a finire in carcere perché avevano incontrato le misure alternative, il trattamento. I sexual offenders, ad esempio. In alcune carceri italiane sono attuati programmi di questo tipo, e non sono certo passeggiate, perché la mancanza assoluta di controllo, di autoapprovazione del loro agire da parte di molti soggetti, è dura, spesso senza speranza, comunque segno di vite che non sbocciano, che non sboccano. Fare del male soffrendo, come avvisano molti studiosi della problematica, di cui molte donne, è un problema nel problema, un problema nella società. Di certo, sempre riprendendo quanto ho letto, costruire un’opinione comune, una mentalità governante che colpisca il femminicidio, la considerazione in calo della donne dopo decenni di emancipazione, di valutazione della differenza di genere, una mentalità per cui qualsiasi commento sessista non sia una divagazione, ma una non opinione, qualsiasi discriminazione nei confronti della donna nei luoghi di lavoro, di cultura, di famiglia, politico, non una abitudine, ma una cattiva abitudine da estirpare. Quanto ho letto in questa occasione mi ha rinfrancato sulla necessità di riaffermare un’egemonia di buon pensiero e buone pratiche, legata a una egemonia di pensiero sobrio, rispettoso della natura e socialista nei mezzi e nei fini. Non ho voluto suggerire, perché ne sono incapace e forse da soli tutti ne siamo incapaci, principi e direttive attuative nel campo dell’educazione. Non lo possiamo fare da soli, mentre la conoscenza dell’altro da noi è invece un dovere. Capire la differenza fra i gruppi che invadono i negozi per rubacchiare, e quelli che li invadevano ai miei tempi, e la differenza non è solo nella qualità del maltolto, questo può essere un metodo. Capire se la nostra ricerca di identità fosse aggiuntiva a quella che avevamo come figli e studenti, o sostitutiva, e se lo è oggi. Capire quanto la pandemia sia un aggregato e non un fattore scatenante, per i giovani e per i grandi. Forse forse forse dovrei ripetere quanto dissi mesi fa, cioè che le persone che si pongono meno problemi secondari, e più primari, spesso sono i vecchi, quelli che più hanno conosciuto le privazioni, la vita semplice e dura, ed hanno imparato a godere più di altri. Quali sono i problemi secondari? Se l’omosessualità di due ragazze vicine di casa, che magari ti vanno a fare la spesa, oppure a cui tu la fai quando loro non possono, sia un problema di cui discutere e domandarsi. Quali sono i problemi primari? Se dare loro una mano a gestire il cane quando non ci sono, portarlo a spasso a fare i suoi bisogni e difenderlo da quello della vicina che il suo lo pascola senza museruola, sia un dovere di fatto e morale. Alla seconda domanda la risposta è sì. Il Papa: “Nella pandemia dilaga la violenza verso le donne. Dare i vaccini ai più poveri” La Repubblica, 26 dicembre 2021 Il messaggio di Natale di Bergoglio: “Dio offra speranza agli adolescenti che subiscono bullismo e abusi”. I numerosi conflitti, le crisi internazionali, le guerre che costellano il pianeta, cui solo avendo “la forza di aprirci al dialogo” si possono dare soluzioni. Ma anche l’inasprirsi incalzante della pandemia, per cui occorre trovare al più presto le risposte “più idonee”, non ultime le vaccinazioni per le “popolazioni più bisognose”. Così come gli effetti perversi legati al Covid, tra cui la dilagante violenza sulle donne. O anche l’inarrestabile dramma dei migranti e dei profughi, verso i quali non possiamo “girarci dall’altra parte”. C’è tutto questo, e altro ancora, nel Messaggio natalizio di papa Francesco, pronunciato oggi sotto una leggera pioggia dalla Loggia centrale di San Pietro - non più quindi dall’interno della Basilica com’era in tempi di lockdown - prima della tradizionale Benedizione “Urbi et Orbi”, con inni nazionali e picchetti d’onore, e la formula dell’indulgenza plenaria introdotta dal cardinale protodiacono Renato Raffaele Martino. “Dio-con-noi - invoca il Pontefice - concedi salute ai malati e ispira tutte le persone di buona volontà a trovare le soluzioni più idonee per superare la crisi sanitaria e le sue conseguenze. Rendi i cuori generosi, per far giungere le cure necessarie, specialmente i vaccini, alle popolazioni più bisognose. Ricompensa tutti coloro che mostrano attenzione e dedizione nel prendersi cura dei familiari, degli ammalati e dei più deboli”. “Conforta le vittime della violenza nei confronti delle donne che dilaga in questo tempo di pandemia”, dice ancora Francesco, mentre è proprio l’onda lunga del Covid ad acuire anche le tensioni internazionali. “C’è il rischio di non voler dialogare - avverte il Papa -, il rischio che la crisi complessa induca a scegliere scorciatoie piuttosto che le strade più lunghe del dialogo”. Invece “queste sole, in realtà, conducono alla soluzione dei conflitti e a benefici condivisi e duraturi”. Ecco quindi - ed è la parte più corposa del Messaggio - la necessità di pensare “al popolo siriano, che vive da oltre un decennio una guerra che ha provocato molte vittime e un numero incalcolabile di profughi”. All’Iraq, “che fatica ancora a rialzarsi dopo un lungo conflitto”. Al grido dei bambini dello Yemen, “dove un’immane tragedia, dimenticata da tutti, da anni si sta consumando in silenzio, provocando morti ogni giorno”. Bergoglio non dimentica “le continue tensioni tra israeliani e palestinesi, che si trascinano senza soluzione, con sempre maggiori conseguenze sociali e politiche”, la Terra Santa, il Libano. Pensa al popolo afghano, “che da oltre quarant’anni è messo a dura prova da conflitti che hanno spinto molti a lasciare il Paese”. Ricorda il Myanmar, l’Ucraina, i conflitti in Africa, come quelli in Etiopia, nel Sahel, in Sudan e Sud Sudan. Richiama alla solidarietà, alla riconciliazione, al riconoscimento dei diritti nelle Americhe. La supplica del Papa si volge infine al “ritorno a casa” dei tanti prigionieri di guerra, civili e militari, e degli “incarcerati per ragioni politiche”. Al non restare “indifferenti di fronte al dramma dei migranti, dei profughi e dei rifugiati”, i cui “occhi ci chiedono di non girarci dall’altra parte, di non rinnegare l’umanità che ci accomuna, di fare nostre le loro storie e di non dimenticare i loro drammi”. E al mostrarsi “premurosi verso la nostra casa comune, anch’essa sofferente per l’incuria con cui spesso la trattiamo”, con uno sprone alle “autorità politiche a trovare accordi efficaci perché le prossime generazioni possano vivere in un ambiente rispettoso della vita”. Povertà e Covid, il nuovo dramma: l’isolamento sociale Corriere della Sera, 26 dicembre 2021 Carmela Tiso, presidente di Radices, spiega la realtà di una metropoli come Roma e commenta il “dono” di 5 quintali di legna a M.S. isolata in riva all’Aniene da 40 anni. “L’isolamento sociale è un fenomeno sempre più diffuso nella nostra città, invisibile ai più, poiché queste persone, a differenza dei senzatetto, nascondono il loro disagio tra le mura della loro abitazione. Di qui la difficoltà di individuarle e di aiutarle”.: Carmela Tiso, presidente di Radices, spiega la realtà di una metropoli come Roma e commenta il “regalo” di 5 quintali di legna da ardere che l’associazione ha fatto a M.S, che vive una condizione di isolamento sociale, chiusa nella sua casa, da più di quarant’anni. “La sua abitazione, lungo le sponde dell’Aniene, priva di luce, gas e acqua corrente, è lo specchio dell’estrema condizione di disagio materiale, fisico e psicologico in cui si trova questa donna. Dopo la morte dei genitori è rimasta sola e oggi le uniche persone che incontra sono gli operatori e i volontari domiciliari della Caritas diocesana di Roma che l’hanno conosciuta successivamente all’invio da parte del servizio sociale. Le sue giornate sono tutte uguali, passate a coltivare il suo piccolo orto” racconta Tiso. “Ci auguriamo che questo gesto possa essere d’ispirazione per altre realtà o persone che sentono di dover fare qualcosa per lottare contro questo dramma - conclude. Se si facesse più rete tra le varie associazioni e i volontari, l’isolamento sociale potrebbe essere efficacemente combattuto”. Il triste Natale dei migranti, dispersi in mezzo al mare di Fabio Albanese La Stampa, 26 dicembre 2021 Persi i contatti di una barca con circa 25 persone a bordo. Altre 108 persone in difficoltà al largo della Calabria. Nell’Egeo si contano i morti di tre altri naufragi e dalla Libia arrivano immagini di cinque corpi trovati tra gli scogli. Il Natale dei migranti è in mezzo al mare, tra persone salvate e persone che aspettano un aiuto che in qualche caso rischia di essere ormai inutile. C’è una richiesta di soccorso da parte di Alarm Phone, il “centralino dei migranti”, per una barca con circa 25 persone a bordo, nella zona Sar di competenza maltese. Chiedono aiuto da giovedì ma finora nessuno li ha raggiunti. Alarm Phone ha pure lanciato un “Mayday” alle navi mercantili in zona, inutilmente. “Abbiamo perso i contatti e la barca ora non si trova più”, il drammatico tweet della Ong che a ora di pranzo del giorno di Natale ha chiesto soccorso anche per una imbarcazione con 108 persone, in difficoltà al largo della Calabria. E mentre nell’Egeo si contano i morti di tre altri naufragi, dalla Libia arrivano immagini di cinque corpi trovati giovedì tra gli scogli della spiaggia di Deela, nei dintorni di Zawyia. Le ha pubblicate Maydayterraneo, un sito che si occupa di migranti e di ciò che accade nel Mediterraneo centrale. Nessuno sa chi sono né quando è avevnuto il naufragio della loro barca e qunate persone fossero a bordo. Il mare tra Libia e Tunisia da una parte e Italia e Malta dall’altra, in questi ultimi giorni si è nuovamente riempito di barche e di speranze, ma anche di disperazione. La Guardia costiera italiana è riuscita a rintracciare e a portare in salvo 89 persone a un miglio da Capo Grecale, a Lampedusa. I migranti, che dicono di essere originari di Bangladesh, Eritrea, Pakistan e Gambia, sono stati portati nell’htospot dell’isola dove già ieri erano arrivate autonomamente con 8 imbarcazioni altre 253 persone. Nell’hotspot ci sono al momento circa 450 migranti. La Sea Watch 3 nel pomeriggio di oggi ha effettuato il quarto salvataggio di naufraghi in appena 30 ore, recuperando al largo della Libia 78 persone, ancora dopo una segnalazione di Alarm Phone: ora la più piccola delle due navi della Ong tedesca ha a bordo 350 persone che dovranno avere un “Pos”, un porto sicuro in cui sbarcare. Si aggiungono alle 558 persone che ha a bordo la Geo Barents, la nave di Medici senza frontiere, recuperate in 8 diverse operazioni; la nave è in navigazione tra Malta e Lampedusa, in attesa che le venga indicato un porto di sbarco, chiesto già più volte alle autorità di Roma e della Valletta. A Trapani, stamane, si è invece conclusa con lo sbarco dei 114 migranti l’operazione di soccorso della Ocean Viking di Sos Mediterranée; i migranti sono stati portati nel vicino centro di accoglienza di contrada Milo per poi essere subito trasferiti per il periodo di osservazione per il Covid: sulla nave quarantena Gnv Adriatica gli adulti e le famiglie, in un centro di accoglienza i minori non accompagnati. L’allarme nello Jonio, al largo della Calabria, riguarda una imbarcazione che proviene dalla Turchia e che avrebbe a bordo 108 persone. Anche in questo caso la segnalazione arriva da Alarm Phone: “Ci dicono che la barca sta affondando - ha twittato la Ong - temiamo il peggio e chiediamo che vengano subito lanciati i soccorsi per evitare un altro naufragio”. All’alba di oggi, al largo di Isola Capo Rizzuto, la Guardia di finanza aveva intercettato un veliero della “rotta turca” con a bordo un centinaio di persone, 25 sono minori, poi sbarcate a Crotone. Due sospetti scafisti sono stati arrestati. Sudafrica, è morto Desmond Tutu, simbolo della lotta contro l’apartheid di Pietro Veronese La Repubblica, 26 dicembre 2021 Aveva 90 anni e aveva ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1984. Addio a un’icona della lotta contro l’apartheid. È morto a 90 anni l’arcivescovo anglicano del Sudafrica Desmond Tutu. A dare la notizia è stato il presidente, Cyril Ramaphosa. “La scomparsa dell’arcivescovo emerito Desmond Tutu è un altro capitolo di lutto nell’addio della nostra nazione a una generazione di eccezionali sudafricani che ci hanno lasciato in eredità un Sudafrica liberato”, ha detto. Tutu aveva ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1984 per la sua campagna di opposizione non violenta al governo della minoranza bianca in Sudafrica. È stato il primo arcivescovo nero di Città del Capo. Ed ebbe un ruolo importante anche nel facilitare l’uscita del Paese dal regime dell’apartheid. Guidò la commissione per la verità e la riconciliazione del Paese. L’ultimo ad andarsene dei giganti che hanno forgiato il nuovo Sudafrica di Nelson Mandela dopo la sconfitta dell’apartheid. Non era un militante, bensì un uomo di Chiesa, di preghiera, che avrebbe voluto essere un medico e, non potendo, piuttosto un insegnante, e scelse infine la carriera ecclesiastica motivato dalla fede. Ma il principio, l’ideale, era lo stesso: quello che afferma che gli uomini sono tutti uguali. E comune la lotta e la voglia di combatterla, anche se essendo un uomo di Dio respinse sempre ogni forma di violenza (a differenza del politico Mandela) e rifiutò con fermezza il comunismo (anche su questo punto diversamente da Mandela). Tuttavia dal pulpito, dall’alto della sua statura gerarchica e morale - primo arcivescovo anglicano con la pelle nera del Sudafrica - tuonò sempre contro l’apartheid, senza compromessi né paure, paragonandolo spesso nei suoi discorsi e sermoni al nazismo. Non fu mai un militante, eppure è stato all’interno del Paese il più potente alleato dell’African National Congress nella sua guerra contro il regime della segregazione razziale. Un uomo libero, cui il rango consentiva di essere chiamato con l’appellativo “Vostra Grazia” ma che tutti conoscevano familiarmente come The Arch, abbreviazione di Archbishop, l’arcivescovo. Le armi che ha usato nel ruolo di grande attivista dei diritti umani, un ruolo svolto per l’intera sua vita, sono state tre. In primo luogo il coraggio, che ne ha fatto sempre un capofila, un portavoce, mai in secondo piano dietro a qualcun altro, e ha reso sempre cristalline le sue prese di posizione, con grande soddisfazione dei media interni e internazionali. Secondo, la parola: Desmond Tutu è stato un oratore impareggiabile, capace di tenere in pugno audience di decine di migliaia di persone, non importa quanto ignoranti o quanto arrabbiate, così come di affascinare smaliziate platee di accademici nelle più prestigiose università americane. Alla cerimonia funebre per Nelson Mandela, martedì 10 dicembre 2013 nel grande stadio di Johannesburg, la situazione stava sfuggendo di mano. La folla sugli spalti era irrequieta, interrompeva spesso l’ordine degli interventi con canti, balli e slogan, aveva sonoramente fischiato il presidente Zuma al suo ingresso nello stadio e poi di nuovo in seguito, di fronte a un pubblico di vip universali: capi di Stato (Obama tra gli altri), primi ministri, monarchi, star di tutto il mondo. Alla fine fu data la parola all’Arch che disse: “Non voglio sentire cadere uno spillo”. E lo stadio ammutolì. Aveva salvato ancora una volta la situazione, motivo in più perché i nuovi potenti del Sudafrica lo detestassero. La terza arma è stato lo humour, con il quale era capace di sciogliere una situazione di tensione in grandi risate collettive e di impartire lezioni morali deliziando chi aveva la fortuna di ascoltarlo dall’altare o dal palco. Un impareggiabile intrattenitore, che avesse davanti una chiesa gremita di fedeli, un corteo di manifestanti o una foresta di telecamere. Celebre, per ricordare un solo esempio, questo suo riassunto della storia africana: “Quando l’uomo bianco venne qui, noi avevamo la terra, loro avevano la Bibbia. Adesso noi abbiamo la Bibbia, e loro la terra”. Desmond Tutu era nato il 7 ottobre del 1931 in quello che allora si chiamava il Transvaal, l’altopiano del nord. Suo padre era un insegnante, la mamma faceva la cuoca in un istituto per ciechi. A 24 anni sposò Leah, una prof, l’amore di tutta una vita, dalla quale ebbe quattro figli, un maschio e tre femmine. A 30 fu ordinato prete anglicano. Nel ‘75 la famiglia si trasferì nel quartiere di Orlando West a Soweto, stessa Vilakazi Street dove c’era la casa di Mandela, detta “la via dei due premi Nobel per la Pace” - Tutu ebbe il suo nel 1984 - e oggi battutissima meta turistica. Negli anni 80 assurse a fama mondiale come capofila della campagna contro l’apartheid. Dieci anni dopo presiedette la Commissione Verità e Riconciliazione, capolavoro di Mandela e suo per riappacificare con il suo passato di sopraffazioni e di violenze la “nazione arcobaleno” (slogan da lui inventato per esaltare la società multirazziale sudafricana). Col nuovo secolo si era progressivamente ritirato dalla vita pubblica, senza rinunciare a prendere posizione su tutti i temi del giorno, dai matrimoni gay (a favore) all’invasione israeliana di Gaza (contro). Adesso tace per sempre, ma finché ha avuto fiato non ha mai avuto paura di dire la sua. Ancora si scappa dal Libano: la crisi migratoria che abbiamo dimenticato di Mario Giro Il Domani, 26 dicembre 2021 A causa della crisi politico-istituzionale, il Libano sta vivendo una delle più forti emigrazioni della sua storia. Malgrado l’abitudine dei libanesi a spostarsi, è in corso una vera fuga verso le mete di sempre come l’Europa, gli Usa, paesi del Golfo o Cipro, ma anche verso nuove destinazioni come Turchia, Armenia, Serbia o Georgia. Non si vedeva un esodo di questa dimensione dagli anni della guerra civile (1975-1991) e la domanda di passaporti è aumentata negli ultimi mesi di oltre il 150 per cento. Nel corso del 2021 se ne sono andati in circa 65.000. Le autorità stanno cercando di frenare, centellinando il rinnovo dei passaporti. Così si spiega la scelta di nuove destinazioni: ad esempio in Turchia non c’è bisogno di visto e i libanesi possono ottenere una residenza annuale (nota come residenza turistica) per poche centinaia di dollari. Attualmente si contano circa 10.000 libanesi in Turchia in un anno, la maggior parte dei quali studenti musulmani sunniti che si iscrivono nelle università. Malgrado la residenza temporanea, trovano lavoro abbastanza facilmente nel privato, soprattutto nella ristorazione o nel turismo. Coloro che detengono capitali investono soprattutto nell’import-export, tipica caratteristica dei libanesi nel mondo. Per quanto riguarda gli armeno-libanesi, dalla metà del 2020 si nota un notevole flusso verso l’Armenia. Cosa spinge a migrare in paesi difficili come l’Armenia (dove sono giunti circa in 7000) o la Georgia (3000), non certo paesi dalla vita economica e politica stabile e promettente? ‘argomento decisivo è stata la svalutazione della lira libanese che ha distrutto in poco tempo salari, risparmi e pensioni. Molti sono letteralmente fuggiti prima che le poche economie rimaste fossero completamente bruciate. Ottenere la residenza in Armenia è molto facile per armeni di qualunque origine, così come la cittadinanza, anche se nel paese gli stipendi sono bassi e l’economia stagna. Per i libanesi non armeni bastano 200 dollari per la residenza annuale. Come nel caso della Turchia, anche in Armenia le università attraggono studenti grazie a tasse molto più basse che in Libano. In Georgia la collettività libanese immigrata è la terza araba dopo quelle irachena ed egiziana. La presenza libanese è iniziata quattro anni fa con l’afflusso di studenti che sono venuti a iscriversi a medicina ed ingegneria. Così come in Armenia anche in Georgia la quasi totalità dei libanesi immigrati è cristiana. Ci sono poi libanesi che si spostano a Jerevan dalla Turchia, dopo un periodo di prova. Come in altri casi, alla fine i libanesi preferiscono aprire il loro business privato: con 10.000 dollari si può ancora iniziare un’attività, ciò che non è possibile fare in Europa o negli Usa. D’altra parte l’esperienza degli oltre 120.000 libanesi in Africa occidentale -sia cristiani che musulmani- frutto delle precedenti ondate, fa da traino: aprire un proprio business privato è certamente la cosa più conveniente. La crisi attuale sta trasformando la diaspora libanese e nuovi paesi diventano singolari mete di migrazione. Yemen. Dopo 7 anni di guerra e crisi umanitaria nel 2022 finiscono gli aiuti Onu di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 26 dicembre 2021 In quasi sette anni la guerra in Yemen ha dato vita a una crisi umanitaria senza precedenti: 3,6 milioni di sfollati interni; su 2,3 milioni di bambini malnutriti oltre 400mila sono in pericolo di vita per malnutrizione acuta grave. In totale sono circa 250mila le vittime. Il conflitto civile è imperante e ha fatto entrare lo Yemen nella categoria dei cosiddetti “Failed state”. La diplomazia internazionale è in stallo ma i bombardamenti continuano. Ma come è nato e si è sviluppato il conflitto negli anni? E quali sono le responsabilità italiane nella guerra? C’è una guerra che si combatte in uno dei paesi più poveri con le bombe degli stati più ricchi del mondo. È il conflitto in Yemen che in quasi sette anni ha dato vita a una crisi umanitaria senza precedenti: 3,6 milioni di sfollati interni, su 2,3 milioni di bambini malnutriti oltre 400mila sono in pericolo di vita per malnutrizione acuta grave. In totale sono circa 250mila le vittime. Più volte gli sterili appelli delle Nazioni unite hanno richiamato l’attenzione sulle oltre 23 milioni di persone bisognose di assistenza, circa l’80 per cento della popolazione. Il conflitto civile è imperante e ha fatto entrare lo Yemen nella categoria dei cosiddetti “Failed state”, uno stato fallito che non è in grado di imporre la sua sovranità e il rispetto delle sue politiche. Il termine venne coniato dall’ex segretario di Stato Madeleine Albright nel 1993 in un commento sul New York Times per riferirsi alla Somalia. Sono passati quasi undici anni oramai da quando il paese è stato colpito dalla maledizione delle primavere arabe, che hanno gettato nel caos altri paesi come Libia, Siria, Iraq. Anche qui, nel gennaio del 2011, qui gli studenti sono scesi in piazza per chiedere riforme democratiche, di contrasto alla corruzione e alla povertà, e soprattutto la fine del governo di Ali Abdullah Saleh, in carica da oltre trent’anni, fin da prima dell’unificazione tra nord e sud del paese avvenuta nel 1990. Le manifestazioni, seguendo lo stesso copione di quanto accaduto negli altri stati arabi, sono state represse con il sangue e la violenza da parte degli apparati di sicurezza. Nel settembre del 2011 si contano oltre 225 morti e centinaia di feriti. Alle violenze del governo si aggiungono quelle dei gruppi terroristici affiliati ad al Qaida attivi in diverse città sparse lungo tutto il territorio. Iniziano a farsi strada anche gli huti, un movimento fondato nel nord del paese nei primi anni duemila di stampo sciita zaidita e ostile al governo. Come se non bastasse nel sud del paese si fomentano le istanze secessionistiche del movimento al Hiraak che sembravano spente dopo la sconfitta nella guerra civile del 1994. Nel novembre del 2011, dopo quasi un anno di proteste il presidente Saleh si dimette. I “grandi” della penisola arabica (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Kuwait e Oman) elaborano un piano di transizione all’interno del Consiglio di cooperazione del Golfo. L’accordo prevede un nuovo governo di unità nazionale che prendesse in considerazione il partito del presidente uscente (General people’s congress) e quello d’opposizione Islah. Nel febbraio del 2012 viene eletto come presidente ad interim Abd Rabbo Mansour Hadi. Vengono indette nuove elezioni per il 2014 e istituita una Conferenza di dialogo nazionale per redigere una nuova costituzione. Ma la transizione politica si evolve in un clima teso e ogni pretesto rischia di far ritornare il paese nel caos. La riforma militare e federale voluta dal governo provvisorio viene osteggiata dai gruppi antigovernativi: gli huti e gli uomini di Saleh si alleano contro il presidente Hadi che decide di rinviare le elezioni. La fragilità politica porta al colpo di stato del gennaio del 2015 organizzato dai ribelli sciiti che costringono Hadi a rifugiarsi prima nella città di Aden (che diventerà la capitale del governo riconosciuto dalla Comunità internazionale) e poi in Arabia Saudita da re Salman. La tensione nello Yemen, infatti, preoccupa Riad che vuole difendere il confine meridionale dalla minaccia degli huti, appoggiati fin da subito dai “cugini” sciiti iraniani. Per Teheran, sostenere i ribelli serve a contrastare l’egemonia Saudita nella regione. Si creano così due schieramenti: il 26 marzo del 2015 inizia l’offensiva condotta dalla coalizione militare araba a sostegno delle forze governative contro gli huti e gli ex di Saleh che incassano invece l’appoggio dall’Iran e da Hezbollah, il movimento politico e paramilitare libanese di stampo sciita. In poco tempo quest’ultimi riescono a ottenere il controllo della capitale Sanaa e di altre regioni del nord del paese che si affacciano sul Mar Rosso. I ribelli sono ben consapevoli dell’importanza dello stretto di Bab el Mandeb da dove passa circa l’8 per cento del greggio mondiale (circa 4,8 milioni di barili di petrolio al giorno). Nell’aprile del 2015 il Consiglio di sicurezza dell’Onu impone un embargo militare agli huti e sanzioni nei confronti dei leader del movimento. Si mobilitano anche gli Stati Uniti fornendo sostegno d’intelligence all’Arabia Saudita. Lo scontro violento prende di mira anche la popolazione civile. Ma questa è una guerra che chiama in causa anche l’Italia. Il 26 gennaio del 2021 il tribunale di Roma decide di proseguire le indagini sul bombardamento aereo del villaggio di Deir Al-Hajari in Yemen dove l’8 ottobre del 2016 sono morti diversi civili. Gli inquirenti hanno accertato che quell’attacco è stato condotto con bombe prodotte in Italia dalla Rwm. Le responsabilità dell’export militare italiano spinge il parlamento italiano, a fine gennaio 2021, a revocare l’autorizzazione per delle commesse di bombe dirette all’Arabia Saudita e agli Emirati. Alla fine del 2017 il fronte dei ribelli vive una crisi interna. L’ex presidente Saleh viene assassinato dagli huti che lo accusavano di tramare un accordo segreto con l’Arabia Saudita per porre fine al conflitto. Le sue relazioni con la monarchia araba non sono nuove, già nel 2009 Saleh si era rivolto a re Salman per eseguire alcuni attacchi militari contro gli huti e saldare il suo potere. Secondo alcuni documenti pubblicati da Wikileaks gli attacchi avrebbero colpito anche i civili. Diversi rapporti delle Nazioni Unite affermano che i bombardamenti della coalizione saudita possono costituire crimini di guerra a danno della popolazione civile. Ma lo scontro non si ferma. Nel 2018 la provincia della città portuale di Hodeida che si affaccia sul Mar Rosso diventa il punto nevralgico della guerra. Per porre fine ai combattimenti viene siglato l’Accordo di Stoccolma del 2018 con cui gli huti e le forze di Hadi raggiungono l’intesa sul cessate il fuoco e su uno scambio di prigionieri. Ma ci vorrà un secondo incontro, un anno più tardi, a bordo di una nave nel Mar Rosso tra i delegati Onu e le parti in causa per far rispettare pienamente gli accordi presi. Anche il fronte anti ribelli entra in crisi. A gennaio del 2018 si scontrano i gruppi separatisti del Consiglio di Transizione del Sud e le forze governative di Hadi che fino adesso hanno combattuto insieme. Il conflitto tra gli alleati porta a una rottura nell’agosto del 2019 quando viene ucciso uno dei comandanti del fronte secessionista (sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti), che attacca il palazzo presidenziale di Aden con l’appoggio militare emiratino. Per mettere fine alla crisi interna il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed al Nahyan, si incontrano a La Mecca. Viene così firmato l’accordo di Riyadh nel novembre del 2019 con il quale nasce un governo unitario dai poteri divisi tra le forze di Hadi (esiliato in Arabia Saudita) e i secessionisti. La guerra si protrae oramai da cinque anni e anche gli huti risentono della crisi economica e dello stato di caos in cui è immerso il paese. Alcuni delegati viaggiano in Iran, Giordania e altri stati vicini per cercare intese di pace. Alla diplomazia, però, si affianca l’intensificazione degli attacchi nell’area meridionale dell’Arabia Saudita. Anche grazie a missili balistici iraniani vengono colpiti diversi punti strategici tra cui la base aerea King Salman e gli impianti dell’azienda petrolifera nazionale Saudi Aramco. Ma l’offensiva dei ribelli guarda anche verso est, nella città di Marib, dove si continua a combattere anche oggi. La presidenza Biden - Il presidente democratico, Joe Biden, ha dichiarato il 4 febbraio che la sua amministrazione continuerà a sostenere l’alleato saudita ma che ritirerà l’appoggio alle operazioni militari. Pochi giorni dopo il segretario di Stato, Antony Blinken, rivede la designazione degli huti come gruppo terroristico voluta dall’amministrazione Trump. Scelte distensive per arrivare a un accordo. Oggi è la situazione è di fatto in stallo e c’è chi legge il conflitto come una sconfitta per l’Arabia Saudita. La diplomazia non trova vie di uscita e forse la questione può arrivare a un’intesa nel momento in cui l’Iran raggiungerà l’accordo sul nucleare. In questo, la guerra in Yemen può essere una buona carta da giocare nel tavolo delle negoziazioni. Il parlamento del Kazakistan approva l’abolizione della pena di morte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 dicembre 2021 Dopo il voto favorevole dell’8 dicembre da parte della Camera bassa, il 23 dicembre la Camera alta del parlamento del Kazakistan ha approvato definitivamente la legge che abolisce la pena di morte nello stato centro-asiatico. L’iter parlamentare si è concluso entro un anno dalla firma, da parte del presidente Qasym-Zhomart Toqaev, della legge di ratifica del Secondo protocollo al Patto internazionale sui diritti civili e politici, che ha l’obiettivo dell’abolizione globale della pena capitale. Nel Kazakistan vigeva una moratoria sulle esecuzioni sin dal 2004, che escludeva però i reati di terrorismo e quello di complotto per assassinare il presidente. Ruslan Kulekbaev è l’unico prigioniero che si trova nel braccio della morte: è stato condannato nel 2016 per omicidio plurimo. Adesso, nello spazio ex sovietico, sono solo tre gli stati che non hanno ancora ratificato il Secondo protocollo: Russia, Tagikistan e Bielorussia, ma solo quest’ultimo continua a eseguire condanne a morte.