La disperazione dietro le sbarre: un detenuto su quattro fa uso di psicofarmaci di Viviana Lanza Il Riformista, 25 dicembre 2021 La pandemia ha aggravato i disagi di chi vive in cella. Un detenuto su quattro fa uso di psicofarmaci e terapie farmacologiche. La fragilità diffusa tra i detenuti, e accentuata sicuramente dagli effetti di questa pandemia, è figlia di un sistema che fa sempre più fatica a trovare una dimensione di umanità dietro le sbarre e dare un senso alla pena che non sia soltanto quello finalizzato alla punizione. Le misure di prevenzione che si sono rese necessarie per fronteggiare la pandemia e contenere i contagi hanno determinato un ridimensionamento, e in alcuni casi addirittura una sospensione, delle attività dedicate alla sfera rieducativa delle strutture penitenziarie, lasciando che all’interno delle carceri vi siano soltanto detenuti e agenti della polizia penitenziaria. Come in una sorta di militarizzazione. Uno scenario nel quale la funzione umana e rieducativa della pena alla fine si perde. Sicché, chi vive in cella si ritrova a trascorrere la maggior parte della giornata in spazi vitali ridottissimi e scarsamente illuminati, in una sorta di ozio forzato, in una condizione di separazione dal mondo esterno che la pandemia non ha fatto altro che amplificare. E la conseguenza è la ricerca di un’alternativa, che per un detenuto su quattro sfocia in antidepressivi e ansiolitici. Il tema lo aveva sollevato l’associazione Antigone nei mesi scorsi, conducendo uno studio su 60 penitenziari italiani e ora l’allarme torna attuale. Aumentano i detenuti con patologie psichiatriche, aumentano i detenuti che dopo un certo periodo di reclusione cominciano ad assumere psicofarmaci, aumentano gli atti di autolesionismo. E finiscono per aumentare anche le tensioni e i livelli di invivibilità. Così, anche una realtà penitenziaria con meno criticità come quella del carcere di Secondigliano registra numeri preoccupanti sulla salute mentale dei detenuti, oltre che su aspetti strutturali. Nei giorni scorsi, gli osservatori campani dell’associazione Antigone, impegnata da tempo nella tutela dei diritti dei detenuti, hanno visitato alcuni reparti del carcere di Secondigliano, media e alta sicurezza, articolazione psichiatrica e reparto sanitario. “L’area sanitaria - spiegano - segnala che almeno un quarto della popolazione detenuta fa uso di psicofarmaci e terapie farmacologiche. Nelle sezioni visitate vige un sistema di celle aperte, sebbene con orari differenti”. Insomma non è un inferno, ma alcune criticità ci sono. “Il buon funzionamento dell’articolazione psichiatrica sconta problemi di inadeguatezza strutturale”. A partire dalle celle che non hanno docce. Il carcere di Secondigliano ospita 1.187 detenuti a fronte di una capienza di 1.073 posti e sul piano delle attività trattamentali risulta essere tra le strutture più organizzate tanto da ospitare il polo universitario penitenziario e iniziative come quella organizzata con il Carcere possibile onlus, presieduta dall’avvocato Anna Maria Ziccardi, e l’artista Alessandro Ciambrone che realizzerà gratuitamente due murales uno dedicato al Vesuvio, Castel dell’Ovo e tutti i luoghi iconici della città, l’altro, interno, di Spaccanapoli con San Gennaro e Maradona. Al suo fianco alcuni detenuti che si cimenteranno in acrilici e pennelli. L’idea della direttrice Giulia Russo è di portare arte e bellezza nei luoghi di sofferenza e di pena con l’obiettivo etico di risvegliare nelle coscienze dei detenuti e nella loro sensibilità l’amore per la vita, la possibilità di riscatto sociale. Si tratta di un progetto artistico pilota che dopo Secondigliano si sta pensando di estendere anche ad altre carceri. Entra in vigore il nuovo processo civile e sarà dirompente di Matteo Bonetti Il Domani, 25 dicembre 2021 La riforma è una delle più attese dagli operatori giuridici e il principale strumento pensato è quello di rendere più veloci le procedure civile passando nella fase di merito già dalla prima udienza. La riforma prevede l’incentivazione, anche fiscale, a intraprendere procedimenti di mediazione. E attenzione al nuovo pignoramento presso terzi. Entra in vigore la riforma del processo civile. Una delle riforme più attese dagli operatori giuridici, allineata per altro con gli obbiettivi del PNRR pubblicata in Gazzetta Ufficiale al n. 292 del 9 dicembre 2021, inizierà proprio dalla vigilia di Natale ad esprimere tutta la sua dirompenza. La riforma che porta la firma del Guardasigilli Marta Cartabia, ha come obbiettivo principale quello di agevolare la velocità dei processi. Lo strumento principale della riforma del procedimento civile è quello di rendere più veloci le procedure civile passando nella fase di merito già dalla prima udienza. La riforma prevede l’incentivazione, anche fiscale, a intraprendere procedimenti di mediazione. Velocità dei procedimenti - Con la riforma del procedimento civile verranno falcidiati molti passaggi relativi ai termini intermedi del processo civile tradizionale. Con l’atto di citazione, la parte che ha agito in giudizio dovrà sparare immediatamente tutte le cartucce: dovrà indicare gli elementi di diritto della domanda e dovrà indicare subito i mezzi di prova dei quali intende valersi allegando le opportune prove documentali. Stessa cosa per il convenuto: i fatti costitutivi della domanda e i mezzi di prova dovranno essere inseriti già nella comparsa di costituzione e risposta. Andranno così a sparire le note memorie ex 183 sesto comma c.p.c. che, in alcuni casi, andavano a registrare dalla iscrizione della causa a ruolo alla fine della fase istruttoria anche un tempo superiore ai due anni. Con la riforma, inoltre, il giudice istruttore fisserà la seconda udienza entro 90 giorni. Anche la fase decisoria verrà agevolata con l’eliminazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni. Il focus del processo verrà puntato quindi sugli atti introduttivi. Le udienze da remoto, inoltre, diventeranno strutturali non più un’esigenza eccezionale dettata dalla pandemia. Mediazione incentivate - Altro caposaldo della riforma è il potenziamento degli strumenti alternativi per la risoluzione delle controversie (Adr). Per la mediazione, in particolar modo, sono previsti incentivi fiscali e un processo, in generale, di semplificazione. Con l’incentivo a concludere accordi in procedimenti di mediazione, si andrà ad estendere l’ombrello dell’esenzione dall’imposta di registro. È previsto inoltre il riconoscimento di un credito d’imposta commisurato al compenso dell’avvocato. Il ricorso obbligatorio alla mediazione, in via preventiva quale elemento di improcedibilità processuale, sarà esteso ai contratti di consorzio, franchising, di subfornitura, di associazione in partecipazione, ai contratti d’opera e di somministrazione Sempre in tema di Adr, la negoziazione assistita, viene estesa alle controversie individuali di lavoro, con l’assistenza obbligatoria di un avvocato o di un consulente del lavoro. Il pignoramento presso terzi - Alcune disposizioni - le norme contenute nei commi da 27 a 36 dell’art. 1 della Legge di riforma - si andranno ad applicare ai procedimenti instaurati a decorrere dal 180° giorno dalla sua entrata in vigore (22 giugno 2022). Da questo momento il governo avrà un anno di tempo per emanare i decreti legislativi disciplinati dalla legge delega che si limita invece a dettare i principi direttivi. In tema di pignoramento presso terzi, attività esecutiva diffusissima nella pratica forense, la riforma andrà a introdurre un nuovo incombente per gli operatori del diritto. Il creditore pignorante, dovrà aver l’onere di informare il debitore esecutato e il terzo dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento a pena di inefficacia del pignoramento stesso. Il creditore procedente aveva già l’onere di iscrivere a ruolo il processo esecutivo entro 30 giorni dalla data in cui riceve dall’ufficiale giudiziario l’originale dell’atto di pignoramento notificato. In questo caso si è andato ad aggiungere un nuovo incombente sempre a pena di improcedibilità. In passato, infatti, il terzo pignorato - spesso le banche - non veniva mai informati dell’avvenuta iscrizione a ruolo del procedimento esecutivo. Mancando questa informazione, si potevano verificare interpretazioni distorsive del pignoramento che portavano anche al procrastinarsi all’infinito degli effetti dell’azione esecutiva, anche nel caso di mancata prosecuzione del procedimento. Rendiamo trasparenti le archiviazioni disciplinari delle toghe di Rosario Russo* Il Dubbio, 25 dicembre 2021 È davvero encomiabile che, dopo l’esplosione del caso Palamara che ha documentato l’adozione del sistema spartitorio all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura, la Riforma da lei autorevolmente proposta preveda la totale pubblicità delle procedure di nomina. Ma il sistema attuale rivela altra grave breccia ai valori della trasparenza e al principio di uguaglianza in tema di azione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari; cui occorre porre immediato rimedio. Invero, si discute se sia ‘ domestica’ la giustizia della Sezione Disciplinare del C. S. M. Ma certamente “domestica” e totalmente autoreferenziale è in concreto la proposizione dell’azione disciplinare, affidata com’è di fatto all’imperscrutabile decisione discrezionale di un magistrato ordinario, il Procuratore Generale presso la Suprema Corte. Infatti, sebbene obbligato per legge ad esperire l’azione disciplinare, egli: a) ha il potere di archiviare direttamente, senza alcun effettivo “controllo”, essendo facoltativo quello affidato al Ministro della Giustizia (art. 107, 2° Cost.); b) ha statuito, con proprio autonomo ‘ editto’ n. 44 del 2019, che non risulta approvato dal C. S. M., di potere rendere inaccessibili le proprie archiviazioni (oltre 1200 per anno) perfino al Consiglio stesso, oltre che al magistrato indagato e al denunciante (o al suo avvocato). Pertanto, escluso qualunque cogente permesso d’inazione, a differenza del requirente penale, in materia disciplinare il P. G. resta “maître de son action” e nessuno può giudicare astrattamente se le sue scelte siano “pro amico vel contra inimicum”. Invece il P. G. ha esternato soltanto per stabilire, in via preventiva e generale, se e quando archiviare le numerose notizie disciplinari contenute nelle famose chat del dott. Palamara. Lo ha fatto con un proprio ‘ editto’ del 22 giugno 2020, con cui ha circoscritto e perimetrato autonomamente il proprio obbligo di agire disciplinarmente. In particolare - in contrasto con il concorde orientamento delle Sezioni Unite e della S. D. del C. S. M. - il P. G. ha escluso la responsabilità disciplinare dei magistrati che direttamente si ‘raccomandavano’ al dott. Palamara, ottenendo illeciti vantaggi carrieristici, che integrano il reato di abuso d’ufficio in danno del concorrente non raccomandato (il dott. “Nessuno”). Il P. G. ha così oggettivamente sottratto definitivamente le scandalose chat di Palamara alla valutazione della Sezione Disciplinare del C. S. M. e delle Sezioni Unite, cui soltanto spetta, per dettato costituzionale, l’ultima parola sull’interpretazione delle disposizioni disciplinari. In più la rilevata segretezza dell’archiviazione non consente, perfino allo stesso C.S.M., d’individuare quali e quanti provvedimenti d’inazione siano stati emessi sulle chat stesse, in esecuzione del ricordato editto del P. G. Dunque, cagionando tali gravi conseguenze, per più versi la proclamata inaccessibilità dell’archiviazione disciplinare si rivela un insostenibile unicum. Essa non si riscontra nel procedimento penale (art. 116 c. p. p.). Non si riscontra neppure in altri più trasparenti ordinamenti giuridici, ma anche in altri settori del nostro. Infatti, nei procedimenti disciplinari nei confronti degli Avvocati e dei Giudici amministrativi, al cittadino denunciante è sempre comunicato integralmente il provvedimento di archiviazione. Perciò l’archiviazione, di fatto solitaria e segreta, del P. G. (che invece ha esternato per escludere la responsabilità disciplinare) è una esclusiva mostruosità del nostro sistema, un absurdissimum “buco nero”. È urgente che il Legislatore imponga al P. G. di rendere ostensibili le archiviazioni, anche perché esse rappresentano una ‘ medaglia al valore giudiziario’, di cui il magistrato accusato può a ragione solo vantarsi. A propria volta il denunciante (o il suo avvocato), proprio perché non ha diritto di pretendere la sanzione disciplinare del magistrato denunciato, deve potere almeno apprezzare se il Procuratore Generale adeguatamente si sia preso cura, nell’interesse generale, della doglianza segnalata, valutando oggettivamente l’operato del magistrato indagato. Al cittadino che denuncia un abuso del magistrato non si può rispondere: “archivio perché archivio!”. Il diritto va preso sul serio (R. Dworkin). Specialmente al tempo della pandemia “la luce del sole è il miglior disinfettante” (L. Brandeis, già membro della Corte Suprema americana), essendo stati abbandonati “… schemi obsoleti, ereditati dalla legislazione anteriore e ancora attivi dopo l’entrata in vigore della Costituzione, imperniati sull’idea, che rimandava ad antichi pregiudizi corporativi, secondo cui la miglior tutela del prestigio dell’ordine giudiziario era racchiusa nel carattere di riservatezza del procedimento disciplinare” (Corte Costituzionale, sent. n. 497 del 2000)”. Senza una convinta e completa trasparenza dell’archiviazione disciplinare - esattamente l’altra faccia della sanzione disciplinare, pienamente accessibile a tutti - sarà impossibile raddrizzare il “legno storto della giustizia” (G. Zagrelbesky) e riconquistare la già compromessa fiducia dell’Utente finale della Giustizia. Se non ora quando? *Già Sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte Trieste. La Garante: “Contenere presenze in carcere con liberazione anticipata speciale” di Claudia Franchesin triesteallnews.it, 25 dicembre 2021 Una situazione sempre più complessa quella delle carceri, anche a Trieste. Dall’inizio dello stato d’emergenza le case circondariali si trovano a fare i conti con sovraffollamenti e quarantene obbligatorie per i nuovi ingressi, focolai e proteste della popolazione carceraria. A novembre il carcere Coroneo ha superato i 200 detenuti. Durante l’arco dello scorso anno, il numero è rimasto a 177; la capienza regolamentare è comunque di 139 persone. Attualmente, all’interno della Casa Circondariale di Trieste vi sono alcuni casi di positività: “la maggior parte delle persone positive sono vaccinate - spiega Elisabetta Burla, la garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste - ma il virus non fa eccezioni”. Nel carcere, come in qualsiasi altro contesto, l’infezione non fa distinzioni di sorta: polizia penitenziaria, personale civile e amministrativo, fornitori, avvocati. Un numero considerevole di persone che vivono nella comunità locale. “A distanza di due anni - osserva la garante - siamo di nuovo a disporre quale unico strumento, le chiusure degli Istituti alla società esterna: niente scuola, nessuna attività formativa, nessun corso o percorso organizzato dal volontariato; accessi alla biblioteca, alla palestra o “all’aria” preclusa a tutti coloro che si trovano in quarantena. Progetti di rieducazione e reinserimento interrotti. Ripercussioni sul piano psicofisico particolarmente incisive; con tutte le conseguenze che ne discendono. Con il sistema sanitario che arranca”. Gli strumenti da adottare sarebbero stati invece “quelli pensati a ridurre i numeri dei detenuti attraverso scelte strutturate, non emergenziali, sull’esecuzione della pena con interventi seri che incidano positivamente sulle politiche sociali di accoglienza e inclusione sociale, un avvio altrettanto strutturato ai percorsi di lavoro per garantire una concreta autonomia della persona, il ricorso più incisivo alle misure alternative alla detenzione”. Una possibile soluzione? La liberazione anticipata speciale. “Viste le condizioni attuali della detenzione - conclude Burla - sarebbe urgente approvare delle norme, queste sì emergenziali, volte al contenimento delle presenze in carcere” anche attraverso questo strumento. Bari. L’Arcivescovo: “Nel carcere cittadino si vive una situazione drammatica” di Bruno Volpe quotidianodibari.it, 25 dicembre 2021 Nel carcere di Bari si vive una situazione drammatica, nell’ indifferenza della città e delle stesse istituzioni. Il grido di allarme lanciato ieri dall’arcivescovo di Bari-Bitonto Monsignor Giuseppe Satriano nel corso della conferenza stampa di auguri natalizi in Curia. L’ ordinario diocesano ha illustrato i passi salienti del messaggio natalizio, il primo della sua gestione. Ma andiamo con ordine e lasciamo parlare lui. La parola chiave del testo è “Silenzio”. Ha spiegato che il messaggio è nato in modo casuale dopo aver ricevuto dalle suore di Madre Teresa un presepe con un bigliettino augurale: “Oggi corriamo troppo e bisogna invece saper trovare la bellezza della lentezza, fare silenzio, meditare, trovare in ogni cosa una dimensione più umana e vera. Lo stesso tempo della pandemia ci deve portare a meditare su tutto questo e trovo singolare che appena si allargano le maglie torniamo a vivere freneticamente. Il Figlio di Dio nasce nel silenzio della notte, nel nascondimento. Dobbiamo meditare su questo, fermiamoci un attimo ed umanizziamo il Natale con un ascolto vero ed inclusivo. Del resto lo stesso Vangelo ci presenta Giuseppe e Maria nella grotta, ma in assoluto silenzio e stupore. Troppe parole. Inoltre il senso del Natale ci deve portare ad una ulteriore meditazione”. E lo ha spiegato: “Dare spazio agli ultimi, ai poveri, alle persone in difficoltà. Bisogna aver il coraggio di illuminare le periferie esistenziali, poveri di spirito e poveri materiali. Per quanto mi riguarda sto ascoltando le componenti della diocesi e non sono in grado ancora di fare valutazioni”. Ed ecco l’affondo sul carcere di Bari: “Sono stato in visita al carcere e tornerò, ho visitato sezioni, parlato con la direttrice e alcuni detenuti. La situazione è drammatica. E la cosa strana è che questa casa circondariale si trova praticamente al centro, eppure tanti ci passano davanti nell’indifferenza, ignorando quello che accade, nella stessa lontananza delle istituzioni. Penso alla scarsità degli agenti penitenziari e a lavori edili come i tombini non fatti che sarebbero urgenti. Il detenuto, errori a parte, ha diritto al rispetto della dignità, e poi così si esce peggiori e più arrabbiati di come si è entrati. La società si è frantumata, parcellizzata, penso ai campanelli dei citofoni che ora hanno numeri e non nomi”. Napoli. Il Natale dei ragazzi di Nisida: dimenticati dalla politica sognano un posto nel mondo di Francesca Sabella Il Riformista, 25 dicembre 2021 Parla il cappellano dell’istituto minorile. È Natale. Le lucine sbrilluccicano nel buio da fine ottobre e si riflettono sullo specchio d’acqua che abbraccia la città, e su uno scoglio, in un piccolo pezzo di terra in mezzo al mare sorge il carcere di Nisida. È Natale anche lì, per i ragazzi che vivono dietro le sbarre dell’istituto minorile. In questi giorni si fa un gran parlare delle feste di chi vive fuori, la paura dei contagi, vietati abbracci, cenoni e brindisi, ma c’è un altro Natale quello degli ultimi, dei dimenticati. “Qui a Nisida il Natale è sempre particolarmente strano, ma per questo più evangelico - racconta Don Gennaro Pagano, cappellano dell’istituto minorile - permette di comprendere meglio le sensazioni di quella notte in cui Gesù venne al mondo, una notte fatta di esclusione e di mancanza di posti per questo bambino, ecco forse il Natale di Nisida è un Natale nel quale tutti i ragazzi sognano un posto nel quale sentirsi al sicuro, lontano dalle strade di morte che hanno percorso fino a questo momento”. Ma mettere chi ha sbagliato nella condizione di trovare il suo posto in questa società e di lasciare quindi il carcere dopo aver concluso un percorso rieducativo è compito della politica, che a Natale e negli altri giorni dell’anno pare non interessarsi a chi vive in cella. “L’assenza dei politici e la scarsa attenzione verso le strutture carcerarie pesa moltissimo - afferma Don Gennaro - perché spesso non si comprende che il carcere va ripensato, deve essere cambiato profondamente, cercando di conciliare le esigenze di giustizia. Non basta scaricare di volta in volta la colpa sull’amministrazione penitenziaria - continua - occorre ripensare il carcere, spendere i fondi per riqualificare gli istituti, perché la vera sicurezza si ottiene se si interviene sulla prevenzione e sul recupero di coloro che hanno sbagliato. Un carcere che restituisce alla società un membro più deviante rispetto al suo ingresso in carcere è un carcere che ha fallito ed è una società che ha fallito, che non ha avuto giustizia ma solo vendetta”. La Chiesa, invece, cerca di essere vicino agli ultimi, oggi il vescovo metropolita Don Mimmo Battaglia sarà a Poggioreale per incontrare i detenuti, Don Gennaro trascorrerà la giornata con i suoi ragazzi, in carcere. “In questi giorni di festa penso soprattutto a quei ragazzi che in questo momento hanno saputo di essere diventati padri o a quella ragazza che passerà il Natale qui in cella lontana dal suo bambino - racconta. Proprio qualche giorno fa dicevo loro che devono imparare a prendersi cura di se stessi e della propria vita per far sì che ai loro figli non tocchi la stessa condanna che hanno ricevuto loro. Molti dei detenuti sono cresciuti senza genitori o li avevano, ma in carcere. Il regalo più bello che possono fare ai loro figli è distaccarsi da quell’ambiente di morte nel quale hanno sempre vissuto”. Ciò che dovrebbero fare le istituzioni, invece, è ricordarsi che una società che non pensa agli ultimi è una società che non ha futuro. Milano. Il progetto di sartoria per la riqualificazione professionale dei detenuti di San Vittore di Denise Frigerio linkiesta.it, 25 dicembre 2021 Le detenute del carcere di Milano e la Cooperativa sociale Alice ci insegnano l’opportunità etica del lavoro con un progetto che dà nuovo significato al fashion e al design, senza prescindere dal bilancio. Dietro a ogni oggetto c’è un essere umano. Anzi “behind every object, therès a human”. Perché la moda parla un linguaggio internazionale e l’etica pure. È così che inizia il racconto che lega a doppio filo Sartoria San Vittore di Milano e la Cooperativa sociale Alice, un progetto finalizzato a costruire una società inclusiva per restituire centralità alla persona e sostenere lo sviluppo attraverso l’artigianalità del made in Italy e le filiere etiche, riqualificando a livello professionale i detenuti delle carceri di San Vittore, Bollate e Monza. Ma chi si immagina una realtà di borsine di canapa e gadget low cost si sbaglia di grosso. Sartoria San Vittore è un’impresa a tutti gli effetti che parla un linguaggio sostenibile ed è certificata Fair Trade, che ne garantisce la filiera etica. Ha quattro laboratori, due di sartoria all’interno delle carceri di San Vittore e di Bollate, uno esterno in via Barilli a Milano, e uno di pelletteria a Monza, che producono conto terzi manufatti per aziende del calibro di Porro, Cappellini, Chloè, Alberta e Marrionnaud Paris. Attiva dal 1992 Alice ha aiutato più di 750 donne emarginate a raggiungere l’indipendenza economica donando loro una nuova opportunità attraverso il lavoro. Con all’attivo più di 11.230 ore di formazione e un dato molto interessante: è dimostrato come l’efficacia dello strumento “lavoro” abbassi la recidiva al crimine fino al 18%. “Delle 750 donne che sono passate di qui nel corso degli anni, solo 3 sono tornate in carcere. Le altre si sono reinventate, alcune hanno addirittura aperto il loro laboratorio. Siamo una realtà lavorativa a tutti gli effetti” spiega Caterina Micolano, presidente di Alice “attualmente siamo in 13 e stiamo formando altre 7 persone che saranno operative dal prossimo anno. Chi lavora qui è regolarmente assunto, ha i contributi, la malattia, ha diritto alle ferie e anche alla cassa integrazione”. L’approccio nuovo di Sartoria San Vittore è avere una missione e compierla con concretezza, una sorta di business is business, ma che non perde di vista il contorno sociale. E a chi storce il naso al connubio moda-etica, Micolano risponde: “La moda è un potentissimo linguaggio non scritto e ci permette di dare un messaggio. La moda è tutt’altro che vuota, siamo noi a riempirla di significato, e il binomio “moda speculazione - noi etica” non funziona, bisogna andare al di là dei soliti cliché e fare meno green washing, da entrambe le parti”. Alice compirà 30 anni nel 2022 e in questo trentennio ha dovuto - di necessità - cambiare radicalmente il proprio approccio, come radicalmente è cambiata la società, il quadro culturale ed economico: “Occorre essere più impresa” continua Micolano “conquistare il mercato con un prodotto che non faccia rinunciare alla qualità finale in nome della sostenibilità. Come possiamo fare? Solo con i fatti, lavorando sul prodotto e sulle persone. Perché abbiamo davanti delle persone “comuni”, con normali capacità lavorative, ma che spesso provengono da culture - anche lavorative - diverse (il 67% delle detenute ha origini straniere, ndr). Noi facciamo in modo che si rendano consapevoli di essere “capaci” di creare qualcosa, spostando l’attenzione dal reato commesso a un nuovo modo di essere. All’interno del laboratorio ci sono persone che hanno estinto la loro pena 15 anni fa, persone che la stanno ancora scontando, ma questo non è il tema: non è cosa hai fatto, ma cosa vuoi fare”. Da Sartoria San Vittore l’oggetto è sì “prodotto” ma altresì un mezzo di comunicazione “e il nostro modo di essere impresa è generare una società più inclusiva, dare significato al made in Italy. In questi giorni stiamo realizzando un pupazzo per Cappellini, su disegno di Elena Salmistraro: mi piace pensare che quell’oggetto finirà su un divano e diventerà un topic di conversazione, e che il fatto che sia stato cucito dalla sartoria del carcere dia un valore aggiunto, alimenti il cambiamento” sottolinea il presidente di Alice. “Il nostro è un lavoro vero, che produce fatturato, che dona opportunità lavorative. Le aziende con cui ci interfacciamo cominciano a chiederci i nominativi delle nostre ragazze da inserire nei loro laboratori interni e questa è la conquista più grande: il riconoscimento del valore della persona e di quello che sa fare”. La selezione avviene in primis all’interno del carcere, e la scelta di solito ricade su detenute con una pena di almeno 4/5 anni per permettere l’adeguata formazione e l’inserimento nel mondo del lavoro. A una prima selezione seguono dei colloqui da parte della cooperativa e viene testata anche la propensione allo studio e alla manualità: “è un lavoro duro questo, si deve imparare non solo un mestiere, ma a stare seduti al banco, a essere puntali, seri, capaci. Noi non vogliamo insegnare a fare oggetti di basso costo, insegniamo il made in Italy con le aspettative che questo comporta, ma anche con le enormi possibilità che regala, alle detenute e alle altre associazioni con cui facciamo rete, come è successo con la sartoria Fiori all’occhiello (associazione La Rotonda di Baranzate) o con l’atelier Le Nespole (associazione il Laboratorio di Quarto Oggiaro). Il terzo settore deve crescere su attività di questo tipo e deve farlo con un modello economico possibile, la formula “conto terzi” ci consente di avere rischi minori, di investire il ricavato nella formazione e nel supporto alle detenute, con l’obiettivo di vivere di ciò che facciamo. Insomma, dal bilancio non si prescinde”. E, sì, anche questa è etica. Cosenza. La Questura chiede la Sorveglianza speciale per due attivisti di “Prendocasa” di Edoardo Corasaniti lanuovacalabria.it, 25 dicembre 2021 Scatta la solidarietà: “È repressione”. Per la Questura è una misura idonea a garantire l’ordine e la sicurezza pubblica, per gli attivisti “repressione”. Le parole segnano la cifra dello scontro verbale che si manifesta a Cosenza: pochi giorni fa la Questura ha chiesto al Tribunale di Catanzaro l’applicazione dell’obbligo di soggiorno nel Comune di residenza nei confronti di due attivisti di “Prendocasa”, un movimento della città bruzia attivo per la rivendicazione dei diritti per la casa. Documento che fa da coda con quanto già richiesto nei mesi scorsi ad un altro attivista cosentino. Tecnicamente il nome della misura è Sorveglianza speciale, “idonea a limitare i suoi spostamenti e a contenere il suo carattere eversivo e ribelle consentendo alle forze dell’ordine un adeguato controllo e prevenire così ulteriori condotte illecite in danno dell’ordine e la sicurezza pubblica ed il suo quieto vivere della collettività”, scrive l’autorità. Dentro il burocratese, le storie di Jessica Cosenza (25 anni), Simone Guglielmelli (26 anni), studenti universitari dell’Unical: al primo è chiesta una limitazione della libertà per 5 anni, per la seconda si fa riferimento a un non precisato tempo congruo. Tre pagine in totale racchiudono la proposta. Tre pagine in cui vengono tratteggiati i tratti “ribelli alle regole democratiche” ed “eversivi” di Cosenza e Guglielmelli. Seppur senza indicare un preciso evento che avrebbe fatto preoccupare la Polizia o la commissione di un reato scatenante, le carte evidenziano la necessità di frenare “soggetti pericolosi” per l’ordine pubblico, “colpevoli” di aver fatto parte di alcuni movimenti per la rivendicazione della casa ma in modo eclatante: occupazioni di stabili di proprietà pubblica e contestando per le vie della città. Lo scopo della misura, si legge tra le note finali della proposta, è quello di arrivare “ad un serio riscatto sociale” visto che altre misure afflittive (come la messa alla prova) non hanno funzionato: basta la carota, ora è il momento del bastone. In più, a pesare nel fascicolo dei due attivisti, c’è anche il rinvio a giudizio incassato a novembre del 2020, quando il Gup di Cosenza manda a processo 16 imputati tra cui Cosenza e Guglielmelli. Accusati, insieme ad altri tre, di essersi associati “allo scopo di commettere più delitti e segnatamente occupazioni abusive di singoli appartamenti e di interi stabili di proprietà pubblica, il furto di risorse energetiche e violenza privata”: responsabilità respinte da Prendocasa che ha sempre parlato di “un castello di sabbia ordito dalla Procura della Repubblica di Cosenza” indirizzato ad indebolire “le istanze degli ultimi e a lottare per il riconoscimento dei diritti di tutti e tutte. Come abbiamo sempre ribadito, non sarà l’azione giudiziaria ad intimorirci, fermarci o isolarci”. Oggi la lettura dei due attivisti è che “si vuole ridurre al silenzio un’esperienza politica al di là delle singole biografie. Vogliono smantellare le nostre realtà sociali. Noi crediamo che ne arriveranno anche altre. Il clima è quello, crediamo che il disegno sia questo: ridurre al silenzio. Lo si fa con una misura che richiama altro tipo di criminalità”, afferma Guglielmelli a dinamopress.it; mentre per Cosenza “sicuramente la vicenda che ci vede coinvolti non è solo un attacco ai singoli, ma anche e soprattutto un attacco al pensiero democratico e alla storia di questa città, specie se si tiene in considerazione che le persone che si vogliono punire, con misure solitamente volte ad affiliati di ‘ndrangheta, non sono due pericolosi criminali ma due studenti da sempre impegnati in attività sociali”, dice a La Nuova Calabria. Ad ogni modo, le istanze saranno discusse nei mesi di gennaio e febbraio, giorni in cui i tre potranno replicare tramite la voce e le argomentazioni difensive degli avvocati Giuseppe Lanzino e Maurizio Nucci. Che cos’è la Sorveglianza speciale - La sorveglianza speciale è una misura di prevenzione che può essere applicata anche solo su indizi e senza nessuna prova a carico. Se all’Avviso orale i soggetti non rispettano le indicazioni a cambiare condotta, l’autorità può richiedere al Tribunale la disposizione della misura. Se riceve l’ok dei giudici, la sorveglianza prevede delle prescrizioni relative (anche) agli orari, ai luoghi ed alle frequentazioni che il sorvegliato deve rispettare. Ma può prevedere il ritiro della patente, il ritiro del passaporto, il divieto di partecipazione a manifestazioni pubbliche, il divieto di frequentare altri pregiudicati, l’impossibilità di aprire attività commerciali, come ad esempio la Partita Iva. Il provvedimento è contestabile in Appello e poi in Cassazione. In più occasioni è stato sollevato il dubbio di costituzionalità sulla legislazione che regola la sorveglianza speciale, in quanto parrebbe anteporre la repressione di un soggetto rispetto alla commissione o accertamento di un reato. Il trionfo della cultura del sospetto. L’incontro nel Salone della Provincia di Cosenza - Intanto la richiesta della Questura ha fatto suonare la sveglia del movimentismo di sinistra, pronto a denunciare ad alta voce una misura che ha la veste di sicurezza ma che all’interno si colora di “una misura repressiva e fortemente antidemocratica come questa (nient’altro che un residuo del regime fascista)”, si legge nella nota firmata da Aula studio liberata, Fronte della Gioventù Comunista - Unical, Progetto Azadi. In altri tempi si sarebbe detto la Sinistra antagonista, oggi basta ricordare che si tratta di energie che, al di fuori del cerchiobottismo dei partiti, stanno nelle piazze, tra gli studenti, con i lavoratori. Ma la vicinanza è arrivata anche da Cgil, il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università della Calabria, il sindaco, il Pd, Luigi de Magistris, parlamentari ed europarlamentari dei 5 stelle, il presidente della provincia di Cosenza, consiglieri regionali, Fem.In. Per ora montano le barricate al grido di “Giù le mani dalle coscienze critiche di questa terra!” e “nessuno può rimanere in silenzio!”, in più dal giorno della notifica dell’atto manifestano solidarietà e complicità per i tre attivisti. La città di Cosenza è inoltre spettatrice di un’altra misura che ha fatto discutere: il decreto penale di condanna ricevuto da altri te attivisti per una passeggiata di denuncia tra i palazzi crollati del centro storico che voleva far luce sull’abbandono della parte antica della città. Sabato scorso invece è stato il giorno del flash mob con le maschere, perché “Dietro quelle maschere non c’era nessuno, c’eravamo tutti e tutte: un’intera generazione e un’intera popolazione”. L’eco ha risuonato anche nel “Salone degli specchi del Palazzo della provincia (di Cosenza, ndr)”. Sala piena e nessun passo indietro: la lotta non si processa. Milano. Viaggio tra gli esclusi: se mangiare è un’impresa di Francesca Mannocchi La Stampa, 25 dicembre 2021 Anna, Matteo e gli altri: le storie e i volti di chi vive grazie ai centri che assistono i poveri nell’hinterland del capoluogo lombardo. Un mese fa Anna ha comprato un paio di stivali. Ne aveva bisogno perché è arrivato il freddo e quelli che aveva erano troppo consumati. L’ultima volta che ha acquistato una cosa per sé è stato prima della pandemia, due anni fa. Anna ha trentadue anni, i capelli scompigliati nascosti tra la giacca e la sciarpa, un sorriso da bambina. Si morde il labbro inferiore quando parla delle difficoltà che vive. Lo morde piu’ forte quando parla delle aspettative che aveva e che oggi hanno trovato dimora là dove vivono i desideri destinati a non realizzarsi. La sua famiglia è arrivata al nord da Sarno nel 1998, dopo l’alluvione, in cerca di lavoro. Anna è cresciuta in mezzo ai sacrifici, avrebbe voluto fare la parrucchiera ma i soldi a casa erano pochi e a 14 anni ha preso la licenza media e ha cominciato a lavorare. Quello che poteva: badante, lavapiatti, finché ha trovato lavoro in una cooperativa per fare le pulizie. Il lavoro era sempre poco, lo stipendio mai piu’ alto di 300, 400 euro al mese. Con queste entrate ha messo su famiglia con un ragazzo anche lui addetto alle pulizie. Hanno chiesto un alloggio popolare all’Aler e cinque anni fa hanno avuto un bambino, Matteo, sperando che le cose sarebbero migliorate. All’inizio del 2020, quando è iniziata l’epidemia, Anna, suo marito e il bambino vivevano con 600 euro al mese. Oggi, quasi due anni dopo, lavorano solo qualche ora a settimana e vivono con la metà dei soldi: 300 euro al mese, a cui sottraggono 170 euro di affitto e qualche decina di euro per le bollette. Si scaldano poco, usano la corrente elettrica solo se è necessario e per mangiare bussano alla porta de La Speranza, l’associazione di Corsico, in provincia di Milano, che da tanti anni si prende cura dei piu’ vulnerabili. All’esterno dell’associazione c’è una piccola piazza, a terra ancora i resti della neve e il ghiaccio della notte che si scioglie, sul lato destro della strada le case dell’Aler, anche casa di Anna è lì. Entra a La Speranza parlando al telefono con gli assistenti sociali, chiede come fare per avere i buoni pasto, e come e se può ricevere gli aiuti per le bollette. Non perde mai il tono gioviale, non abbassa la voce per nascondere le sue preoccupazioni. Il suo sorriso, le parole con cui chiede informazioni sui sussidi, raccontano un’abitudine all’aiuto. È con questa familiarità al sostegno che Anna saluta Pina Andrello, la presidente dell’associazione. Pina è una donna minuta, capelli corti e rossi, le mani segnate dal freddo. Mani esperte di fatica e di cura. Conosce tutti a Corsico e tutti la conoscono, perché fa questo da sempre: aiuta chi ha bisogno. Intorno a lei, pochi giorni prima di Natale, tanti pacchi di pasta, biscotti, omogeneizzati, pannolini, carne in scatola, assorbenti. Servono per riempire i pacchi delle feste per i beneficiari. Parla con tutti quelli che entrano anche solo a salutare e poi, prima che si congedino li porta in fondo alla stanza per qualche minuto. Nessuno esce a mani vuote. Pina è così: dona sempre. Dona anche a chi non chiede. E non ama la parola povero. “Le mie sono famiglie in difficoltà che cerco di aiutare in tutti i modi. La parola povero rischia di fissare la tua identità e ti porta a pensare che la situazione sia definitiva”, invece Pina pensa che le persone che aiuta stiano camminando su una strada disseminata di ostacoli che prima o poi supereranno. Ha una pila di quotidiani sulla scrivania, tra i moduli delle richieste al Banco Alimentare, i documenti Isee dei beneficiari e le bollette dell’associazione. Però nelle notizie ottimistiche sulla crescita dell’economia, nei virgoletti riportati sui giornali, Pina, non riconosce la sua realtà: “Tra reddito di cittadinanza, buoni spesa, aiuti sull’affitto e i sussidi che promettono qui non dovrebbe esserci la fila, invece ultimamente abbiamo inserito altre trenta, quaranta famiglie”. Poi esita, come chi sa che le statistiche non equivalgono alla cognizione delle cose e dice: “trenta famiglie sono cento persone, eh, cento persone che o pagano la luce e il gas o danno da mangiare ai figli”. Le spiega così le cose, Pina. O, o. O ti illumini o mangi. O accendi lo scaldabagno o mangia tuo figlio. O, o. Così vive anche Anna, che per raccontarsi dice di non aver bisogno di tanto - “ho la mia famiglia, mi basta quello” - Anna che a Babbo Natale, che lavora nella dimora dei sogni, chiederebbe un lavoro “così magari riesco a sistemarmi un po’”. Oggi le famiglie aiutate da Pina sono circa 300, 1200 persone. La sua associazione è una delle quattro al centro del recente rapporto di Action Aid Italia, La fame non raccontata, decine di interviste effettuate nel territorio metropolitano di Milano tra Corsico, Cinisello Balsamo, Baranzate, Rozzano un rapporto che prova a leggere e interpretare i numeri delle loro richieste di aiuto, aumentate del 95 per cento nell’ultimo anno e mezzo. Nelle associazioni coinvolte le famiglie che hanno bisogno di supporto alimentare sono passato da 670 a inizio 2020 a quasi 4 mila oggi: “I dati ci dicono che c’è un aumento strutturale delle richieste. È vero che in molti sono tornati a lavorare ma è altrettanto vero che diverse famiglie sono cadute nella spirale della povertà, cioè in una condizione strutturale di bisogno”. A parlare è Roberto Sensi, il responsabile del programma povertà alimentare di ActionAid Italia. Sensi sostiene che la povertà alimentare vada ripensata per decodificare altre povertà e non essere considerata solo un’emergenza: “In Italia manca una vera strategia di contrasto perché si considera la povertà alimentare una mera manifestazione di un bisogno materiale, e al bisogno si risponde con l’assistenza. Il tema di fondo, il tema politico, è che al di là dell’assistenza d’emergenza non esiste né una politica preventiva, né studi che tengano problemi sempre collegati tra loro: l’alloggio, il lavoro, l’accesso all’istruzione. Le infrastrutture di aiuto sono fondamentali ma dovrebbero essere l’ultimo approdo invece solo la sola risposta concreta che le persone hanno ai loro bisogni”. Nel lungo periodo questa risposta risulta inefficace perché agisce sul sintomo e non sulla patologia. E Lo dimostra il fatto che le richieste di pacchi alimentari siano aumentate nonostante l’ingente stanziamento di fondi: 500 milioni del Fead, il fondo di aiuti europei agli indigenti, che l’Italia negli ultimi sei anni ha quasi interamente speso in derrate alimentari, la legge Gadda che facilita la redistribuzione delle eccedenze di cibo, 1 miliardo 300 milioni di buoni spesa per l’emergenza. Sono risorse ingenti, ma nei fatti, come racconta Pina Andrello e come spiega Roberto Sensi, non incidono sul fenomeno. Soddisfano il bisogno, tamponano, e in ultima analisi, deresponsabilizzano le istituzioni che dovrebbero avere una visione di lungo termine e di prospettiva. Invece non l’hanno. Quindi aiutano chi aiuta, come Pina e La Speranza, pensando che basti. Invece non basta. Perché gli studi mappano quelli che si rivolgono ai centri di assistenza, ma non si chiedono quanti ne siano rimasti fuori, quanti preferiscono rivolgersi alle reti familiari perché si vergognano: “dovremmo sostituire la lente del bisogno con quella del diritto, in modo da capire che queste richieste di aiuto sono, innanzitutto, una domanda di giustizia sociale” continua Roberto Sensi. È qui, in posti come Corsico, impoveriti prima dalla crisi economica e poi dal Covid che striscia un malcontento che diventa prima frustrazione e poi ostilità verso l’altro. Il migrante con cui dividere la graduatoria delle case popolari, il cittadino di origine straniera con cui dividi i posti all’asilo nido. O il pacco alimentare. È in posto come questo che le persone litigano perché la torta è piccola. Però la torta non dovrebbe essere divisa in pezzi più piccoli per far mangiare tutti. Dovrebbe esserci, al contrario, una torta più grande. Più alloggi popolari, più asili, più aiuti alimentari. Un po’ di più, distribuito più equamente. La fame non raccontata, che dà il titolo al rapporto di Action Aid, è una fame che parla con voce di donna. Le donne, a cui è richiesta la cura, a cui è richiesto di dare una risposta alla mancanza di cibo in casa, le donne che hanno risposto sacrificando, togliendosi, come recita il detto, il pane dalla bocca. Martedì scorso a La Speranza c’era anche Cristina. Quarant’anni, due figlie. Un padre anziano, un fratello con problemi psichiatrici e un ex marito che ha usato la sua busta paga per chiedere prestiti che non ha ripagato. Così oggi, tolti i pignoramenti, la cessione del quinto, di quella busta paga da operatrice in un centro diurno per persone con disabilità, a Cristina restano 600 euro. Troppo pochi per vivere, troppi per chiedere il reddito di cittadinanza. “La gente ti guarda sorridere e pensa: tutto a posto, ha una vita serena. Invece no, l’epidemia ci ha rovinato ancora di piu’ e io, negli ultimi quattro mesi, sono crollata”. La gente pensa che sia tutto a posto, invece il sorriso di Cristina, che dice di sé di essere una guerriera, è un’armatura. Anche lei, abituata da anni a prendere il pacco alimentare da Pina, quando anche le associazioni caritatevoli hanno chiuso durante i lockdown, si è tolta il pane dai denti. Lo spiega dicendo solo: “non avevo più le scorticine di cibo, avevo finito tutto”. Significa aprire la dispensa, vederla vuota e domandarsi prima: cosa faccio adesso? e poi: perché a me? E poi farsi forza e spiegare alle figlie che chiedono “Cosa mangiamo?” che si mangiano di nuovo spaghetti con l’olio, perché “la situazione è così e mamma non ce la fa”. C’è questo dietro l’armatura di Cristina, che sorride e prega che un giorno le cose cambieranno, “perché ci sono anche io”. C’è anche lei, che vuole vivere senza bisogno di armature, anche lei, un numero sulle statistiche di fine anno che vuole diventare una voce. Che a volerla ascoltare dice: aiutate chi ha bisogno. Roma. Detenuti-artigiani di Rebibbia costruiscono il presepe: è il “Progetto Natività 2021” di Mirella Taranto Corriere della Sera, 25 dicembre 2021 Grazie a un accordo siglato tra la direzione generale dell’Istituto superiore di sanità e il penitenziario, Gennaro, Pasquale e Antonello hanno riaperto la vecchia falegnameria e realizzato un presepe ricco e molto accurato. Ci sono Maria, Giuseppe e un angelo sulla stalla ad aspettare che nasca quel bambino che porterà addosso il dolore e la speranza del mondo. A costruirgli la casa con la legna e le foglie raccattate nei giardini dell’Istituto Superiore di Sanità, dopo duemila anni ci sono Gennaro, Pasquale e Antonello, tre detenuti di Rebibbia che, grazie a un accordo siglato tra la direzione Generale dell’ISS e l’Istituto penitenziario, lavorano a un progetto di reinserimento sociale e professionale, il “Progetto Natività 2021”. I pastori sono quelli di San Gregorio Armeno, chiusi nella valigia di Gennaro da anni e riaperta solo per dire grazie a chi, aprendogli la porta, ha deciso di fare un pezzo di strada con lui e i suoi compagni. Gennaro, Pasquale e Antonello sono tre artigiani straordinari e il presepe non sarà l’ultimo dono che faranno all’Istituto. Con loro riaprirà la falegnameria e tanti oggetti segnati dal tempo torneranno a splendere. Con loro tornerà a suonare la sirena sul tetto dell’Istituto e in attesa di restauro, che annunciò il bombardamento di san Lorenzo. Ogni giorno arrivano, si guardano intorno e ripetono senza stancarsi mai che è un onore che per le loro mani passino oggetti toccati da premi Nobel, da tanti scienziati e di abitare, anche se per poche ore, stanze dove è passata tanta storia di questo Paese. Ed è un onore, sempre, per tutti noi, tendere una mano a una vita che ricomincia. Roma. Rugby oltre le sbarre: percorso per diventare arbitri sport24h.it, 25 dicembre 2021 La Fir ha deliberato che gli arbitri formati in occasione del progetto potranno esserlo a tutti gli effetti e arbitrare anche partite delle categorie minori. Il Consiglio Federale Fir, nel corso della sua ultima riunione, ha deliberato l’approvazione della proposta presentata dalla C.N.Ar per il riconoscimento della qualifica e del relativo svolgimento delle funzioni di Arbitro per coloro che hanno ottenuto l’idoneità durante la detenzione. Una decisione importante e in linea con il percorso intrapreso dalla Federazione Italiana Rugby - sempre attiva sulle tematiche di Responsabilità Sociale - di equità e integrazione che impegna quotidianamente il modo della palla ovale che porterà le persone presenti all’interno delle case circondariali, che ne avranno interesse, ad avere la possibilità di diventare a tutti gli effetti arbitri FIR con lo status che andrà rinnovato di anno in anno fino al termine della pena detentiva. “La figura del Direttore di gara è centrale in tutti gli sport. Si tratta di un individuo preposto al rispetto delle regole e, la decisione del Consiglio Federale, assume una valenza ancora più grande nell’ottica del percorso educativo che ogni persona si trova ad affrontare all’interno delle case circondariali che hanno aderito al progetto Rugby Oltre Le Sbarre. Coloro che hanno ottenuto l’idoneità durante la detenzione riceveranno il tesserino di Arbitro di primo livello con possibilità di dirigere gare a livello regionale, in Serie C, e nelle categorie Under 19 e Under 17. Fino alla fine del periodo di detenzione l’autorizzazione a poter arbitrare va rinnovata di anno in anno, mentre al termine della pena detentiva lo status di ogni arbitro verrà equiparato a quello vigente per i direttori di gara FIR” ha dichiarato Claudio Giacomel, presidente della C.N.Ar. “Il nostro sport è un portatore sano di valori e la FIR vuole essere sempre più un attore protagonista e contribuire al progresso della nostra società. Rugby Oltre le Sbarre è un progetto che rispecchia con grande efficacia la nostra visione di responsabilità sociale e che, con gli sviluppi garantiti dalla collaborazione con la CNAr, ci fa compiere un passo importante nel contribuire al processo di riabilitazione sociale dei detenuti, consentendo loro di essere sempre più parte attiva nel nostro ecosistema” ha sottolineato Marzio Innocenti, presidente FIR. “Un nuovo, importante, passo è stato compiuto verso i principi di equità e di integrazione. La funzione primaria del progetto “Rugby Oltre Le Sbarre” è quella rieducativa. Adesso, oltre alla possibilità di approccio alla palla ovale come giocatore, i detenuti presenti all’interno delle case circondariali aderenti al progetto avranno la possibilità di iniziare il percorso da direttore di Gara. Il tutto arrivato grazie al lavoro sinergico svolto insieme alla C.N.Ar che ha aperto le porte all’inserimento di persone che, in controtendenza rispetto ad episodi che hanno portato alla loro detenzione, vigileranno sul rispetto delle regole” ha dichiarato Antonella Gualandri, consigliera federale con delega alle attività di Responsabilità Sociale. Progetto Rugby Oltre le Sbarre - Il Rugby è proposto e praticato, con il coordinamento di FIR, da Società tutor o singoli allenatori, all’interno degli Istituti di Pena sul territorio nazionale - aderenti al progetto Rugby Oltre le Sbarre - con l’obiettivo di contribuire, attraverso l’applicazione concreta dei valori educativi del rugby (il rispetto delle regole, dell’avversario, dell’arbitro, il sostegno del compagno) alla risocializzazione del detenuto. I risultati delle esperienze, dimostrano indubbi effetti benefici sul consolidamento dei rapporti umani all’interno del Carcere, attraverso una nuova percezione dell’altro, offrendo anche una nuova rete che può risultare preziosa in vista del loro reinserimento nella società civile. Carlo Bussetti, redento dal teatro. “Io, ex balordo, porto in scena gli altri detenuti” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 25 dicembre 2021 Un passato in carcere, oggi Bussetti recita anche al Piccolo. “Con l’arte ho capito la finzione della mia vita di prima”. E dalla sua passione è nato un ulteriore impegno volontario. “La possibilità di cambiare ruolo c’è sempre, per tutti”. È andata male allo scippatore che ieri mattina, assieme a un complice, ha cercato di derubare di 13 milioni e mezzo di lire un portavalori dell’Istituto stomatologico italiano. Il giovane, identificato per Carlo Bussetti di 21 anni, è stato arrestato grazie alla coraggiosa reazione della vittima…” (Corriere della Sera, 8 aprile 1975). Cosi. “Ho saputo di suo cugino, tante condoglianze…”. La prima volta che Carlo Bussetti recitò non sapeva d’essere così bravo. Latitava in Brasile. L’avevano condannato a 23 anni per narcotraffico. Era scappato dalla vita criminale di Milano e s’era inventato un altro nome, De Angelis, con un altro presente e un altro passato. E com’era entrato bene nella parte. Fin troppo bene: “Raccontavo tante di quelle balle che alla fine ci credevo. Un giorno del 1986 arrivò la notizia che era morto Elio De Angelis, il pilota di Formula Uno. Fra le tante cose, laggiù mi facevo anche passare per suo cugino. E così trascorsi una giornata a ricevere abbracci e cordoglio per uno che non avevo mai conosciuto”. Come un cavallo - Diceva Eduardo che fare teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male. Non essere un malato immaginario, ma un malato vero. Non fare il guappo di cartone, ma delinquere in carne e ossa. “Non so perché mi danno regolarmente le parti del cattivo…”, scherza Carlo. Che ha vissuto per finta, con condanne autentiche, quel che adesso gli riesce di recitare benissimo: “Il teatro m’ha fatto capire che la mia vita è stata tutta una finzione. Fin da quand’ero ragazzo. A 15 anni mio papà ci aveva mollato, me e le mie due sorelle. Stavo a Quarto Oggiaro, Trecca, quartieri a rischio. Vedevo la bella vita dei miei amici e m’ero messo anch’io a rubare i Ray-Ban e le moto, provavo le prime rapine… Ma non mi sentivo un criminale: facevo il criminale. Mettevo la maschera del balordo, parlavo da boss. Ero rigido, paraocchi come un cavallo, prigioniero d’uno schema che mi faceva vedere la realtà solo in bianco e nero, senza colori. Recitando, ho cambiato il mio modo di guardare le cose”. A 67 anni, Bussetti è fuori dal carcere e dall’uomo vecchio che fu. Basta con l’eroina, “ne vendevo anche a 40 chili al mese”. Stop con la coca, “ne pippavo anche dieci grammi al giorno”. Un taglio netto a raffinerie, traffico internazionale, soldi da riciclare. Per sopravvivere, oggi gestisce a Milano un negozio d’ex carcerati in viale dei Mille - “vendiamo vestiti, cartoleria, roba prodotta nelle prigioni: sai che i nostri panettoni sono stati premiati dal Gambero Rosso?” - e per vivere è diventato un uomo di teatro. Regista, attore, autore. Un ex detenuto che porta in scena i detenuti. “Cominciai quando mi trasferirono a Bollate. Venivo da decenni di galera, in Italia e in Brasile. Massima sicurezza, risse e coltelli, gavette piene solo di fagioli, disintossicazione. Rinascite e ricadute. Una sera, decisi d’andare al corso di teatro di Michelina Capato. Non me ne fregava niente. Era solo per cazzeggiare, non stare chiuso in cella già alle otto. Invece, pian piano, scoprii che mi piaceva. Ero portato. E recitare mi faceva sentire libero. Senza agenti di guardia, spalle da guardare. Libero anche nel linguaggio: sul palco urlavo parole, ‘infamè, ‘pezzo di merda!’, che in carcere non puoi neanche sussurrare. Dopo gli spettacoli, mi fermavo con gli spettatori, gente normale, quella che per quarant’anni avevo disprezzato. Quando facevo il narcos e vivevo a Montecarlo sugli yacht o giravo in Jaguar Mk2, m’ero sempre chiesto come si potesse campare con 1.200 euro al mese: io li spendevo in un giorno… Quella gente invece, guarda un po’, la sera andava a casa serena. Mentre io tornavo in prigione, a rimettermi la maschera del balordo. Chi era il più cretino, io o loro?”. Una dozzina di spettacoli, un centinaio di serate. Il Franco Parenti, il Piccolo, l’Argentina. E una compagnia messa in piedi con altri carcerati: “Io li preferisco a molti attori professionisti - dice Bussetti - il teatro è terapeutico e noto come alcuni cambiano proprio: vengono a vederli i loro figli, possono mostrare di non essere solo criminali, che nella vita sanno fare altro…”. Duemila libri - L’ennesima prima al carcere di Opera, il 16 dicembre con Noi guerra! Le meraviglie del nulla, dove “mi tocca fare ancora il cattivo, ma nella consapevolezza di farlo solo recitando”. Al gabbio, Bussetti ha letto duemila libri, altri duemila vorrebbe leggerne. S’attacca a modelli, Strehler e Sordi, Proietti e Benigni. E osserva, studia: “M’è piaciuto Fine pena, la lettera vera d’un giudice all’ergastolano che ha appena condannato: l’ergastolano, tra l’altro, lo conosco bene, era uno che rifornivo io d’eroina… Sto lavorando su Shakespeare, il Sogno di una notte di mezza estate, lo adoro, ma da recitare è difficile”. Quando ha scritto una cosa sulla paranoia dei cocainomani, quelli che vivono con l’ansia, “in sala ho capito che era pieno di gente che conosceva benissimo il problema, e infatti m’hanno applaudito tutti”. Non è sempre facile farsi capire, però: “Una volta ho messo in scena un mio Pinocchio e facevo la Fata Turchina. Non ti dico le urla dei miei compagni di cella, quando m’han visto entrare in scena vestito da fata. Però è stato bello…”. E perché? “Alla fine l’hanno capito, che nella vita c’è sempre la possibilità di cambiare ruolo. Non serve che ti vesta da donna. Basta che ti tolga i vestiti da balordo”. Terzo settore. Perché non fare la spesa da chi combatte le mafie? di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 25 dicembre 2021 Ecco i doni solidali per un mondo diverso. Adozioni a distanza, associazioni impegnate nei reparti ospedalieri, ma anche progetti come l’Enciclopedia delle donne o il Museo della Memoria collettiva. La notte della Vigilia scartiamo regali che aiutano a includere le persone in difficoltà o con disabilità. Avete fatto un’abbuffata di regali? Magari siete del genere che si butta in qualche centro commerciale affollato nel giorno della Vigilia e non ne avete voglia. Oppure non avete ancora trovato l’idea “giusta”. Un consiglio? Intanto ripartiamo dall’idea del dono: che è di mostrare con un pensiero impacchettato quanto teniamo all’altra persona e quanto la amiamo, genitore, compagna/o, figlia/o, amica/o che sia. Ma è anche voler restituire con un gesto il tanto che durante l’anno abbiamo ricevuto. E allora perché non allargare il nostro sguardo e approfittare di questa occasione per sostenere qualche realtà del mondo non profit? Perché non contribuire ad un progetto di solidarietà? Intervenendo a fine ottobre a Civil Week di Buone Notizie del Corriere, il premier Draghi ha ringraziato lavoratrici e lavoratori, volontarie e volontari del Mondo del Terzo settore: “Ora tocca a noi aiutarvi perché possiate continuare ad aiutarci”. Ecco, tocca un po’ anche a noi e il Natale potrebbe essere l’occasione giusta per scoprire come. Un primo suggerimento è quello di andare a curiosare sulla piattaforma di Italia non profit (qui il sito), che anche quest’anno ha raccolto, validato e messo in fila una serie di proposte di doni solidali, dividendoli per categorie e non solo: il motore di ricerca ci aiuta anche a scoprire cosa è attivo più vicino a noi, oppure ci consiglia sulla base dei temi che più ci stanno a cuore. E si trova davvero di tutto: dalle tantissime associazioni impegnate nei reparti ospedalieri del nostro Paese e quelle che supportano i pazienti e le famiglie di chi è affetto da malattie rare; dai grandi “marchi” del Terzo settore, al mondo della cooperazione internazionale con, ad esempio, le proposte di adozioni a distanza. E poi molte realtà più piccole impegnate su progetti particolari, come la società per l’Enciclopedia delle donne o il Museo della memoria collettiva di Gemona del Friuli, giusto per citarne un paio. Come spiega Giulia Frangione, Ceo di Italia non profit, “i regali solidali che scegliamo di acquistare ci parlano del mondo che vogliamo costruire, oltre che delle cause che ci stanno a cuore. Le organizzazioni non profit sono pronte ad agire il cambiamento anche grazie a una Riforma del Terzo settore che le lascia più libere di gestire le “attività diverse” e di proporre nuovi modelli di intervento e finanziamento: è arrivato il momento di fare la differenza per l’interesse di tutti”. Altra idea è di andare a navigare sul sito e-commerce di Gioosto (qui il link) che per Natale ha raccolto sotto lo slogan “Non è carità, ma un regalo per te e per gli altri” le proposte di prodotti alimentari e pacchi dono realizzati da diverse cooperative e imprese sociali del Sud. Qui fare economia solidale è più difficile perché ci si trova spesso a dover combattere contro varie forme di criminalità organizzata e per questo alle battaglie di questi giovani imprenditori sociali serve anche il nostro sostegno. E certo, il dono ordinato il 24 dicembre non sarà all’indirizzo che vogliamo entro il giorno di Natale: ma un giro su questo sito ci presenta realtà che potranno accompagnarci durante il resto dell’anno con la loro frutta, la loro pasta biologica, i sughi e le marmellate, il caffè e il cioccolato. Perché fare la spesa con questo criterio aiuta noi a mangiare sano e fa bene a chi combatte la mafia, il caporalato, a chi fa inclusione di persone svantaggiate o disabili e ai più fragili in generale. Infine una idea più di nicchia ma che negli anni è molto cresciuta: i Nipoti di Babbo Natale, della associazione comasca un Sorriso in più, avevano cominciato raccogliendo i desideri degli ospiti di qualche casa di riposo della loro zona. Li avevano messi sul loro sito cercando qualcuno che li realizzasse e l’iniziativa è talmente cresciuta che le domande non erano sufficienti rispetto alle tante risposte piovute dal web. Così il progetto si è allargato a tante cose di riposo: e oggi all’indirizzo web nipotidibabbonatale.it (qui il link) c’è chi chiede una spilla o un bambolotto; chi vuole uscire a pranzo e chi vorrebbe l’abbonamento a una rivista; chi ha bisogno di una cassettiera da tenere in stanza e chi cerca la statua di una Madonnina. Desideri che profumano di solitudine e tenerezza e che possiamo soddisfare davvero con poco, entrando anche in contatto con chi lo ha espresso. Perché in fondo Natale è regalare un sorriso a chi ne ha tanto bisogno. E quel sorriso renderà più leggeri anche noi. De Rita: “Credulona e razionale, serve una sintesi per le due Italie” di Franco Insardà Il Riformista, 25 dicembre 2021 Intervista al fondatore del Censis: “La società italiana non accetta salti di modernizzazione, li deve fare in maniera più graduale, lenta. In questi anni di studio abbiamo verificato che la società è cambiata, ma non nella prospettiva e nei traguardi che l’élite si era posta”. Il suo guardo attento sulla società italiana e la sua esperienza consentono a Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, di analizzare l’evoluzione del nostro Paese, di metterne in risalto pregi e difetti e di prefigurare scenari futuri con autorevolezza. Professor De Rita, il Censis nel suo ultimo rapporto ha descritto un’Italia “credulona” e avete ricevuto qualche critica, soprattutto per i dati legati al Covid. Tenga presente che Giuseppe Baretti nel 1768, cioè circa 240 anni fa, definì gli italiani “creduli, ignoranti e superstiziosi”. Noi del Censis da 55 anni elaboriamo il nostro rapporto, siamo molto attenti a quello che scriviamo perché consapevoli del fatto che saremo interpretati. Chi asserisce che questa analisi è contraria a una realtà di fatto, dove siamo in testa per le vaccinazioni e vinciamo nello sport e nelle scienze, dovrebbe tenere in considerazione la compresenza di questi due aspetti nella nostra società: una cultura razionale e una credulona-popolare. Giulio Bollati, uomo di grande finezza intellettuale, nel suo “L’italiano” nei primi decenni dell’800 si chiedeva come mai da una parte c’era una élite, che faceva del suo meglio per fare l’Italia, e dall’altra questa credulità e una voglia di non accettare la modernità. La conclusione di Bollati è chiara: la compresenza dei due aspetti è una componente essenziale della società italiana. E io studiando la nostra società negli ultimi cinquant’anni, ho potuto verificare che ogni qual volta una élite ha portato a ragionare su argomenti più avanzati, dalla automazione alla industrializzazione, dalla cultura urbana a quella dei mezzi di comunicazione di massa, fino a quella digitale, e quindi ha spinto verso una razionalizzazione, la società ha resistito perché, tornando a Bollati, “non facit saltus”. La società italiana non accetta salti di modernizzazione, li deve fare in maniera più graduale, lenta. Noi Censis in tutti questi anni di studio abbiamo verificato che la società è cambiata, ma non nella prospettiva e nei traguardi che la élite si era posta. Faccio un esempio: da venti anni si parla di digitalizzazione, ma la nostra società va ancora avanti con il cartaceo e forse tra altri venti anni arriveremo alla digitalizzazione. Però siamo al passo con i tempi per l’utilizzo delle tecnologie e soprattutto dei social, con i quali tutti intervengono nel dibattito: dalla politica, alla medicina, alla scienza e alla cultura... Il protagonismo degli italiani sui social deriva da un aspetto del quale siamo colpevoli tutti: cioè il cambiamento dall’informazione all’opinione. Ci sono state battaglie per la correttezza e la trasparenza dell’informazione, ma nei fatti tutti, me compreso, abbiamo creato opinione e in questo campo la regola è che uno vale uno. Lo stesso giornalismo si trova prigioniero di questo dilemma: fare opinione o informazione? E se si arriva alla conclusione che l’opinione porta lettori, li fidelizza nelle prime pagine dei quotidiani e in quelle successive, le opinioni sovrasteranno le informazioni e siccome l’opinione pubblica è sacra, nessuno farà mai qualcosa contro, però questa situazione sta distruggendo la cultura italiana. Come scrivevo nell’introduzione al testo Mondadori, che raccoglieva le cinquanta considerazioni generali dei rapporti Censis, in questi 50 anni noi del Censis, non avendo infastidito nessuno e non avendo partecipato a battaglie ideologiche, non abbiamo avuto nemici. Però ne abbiamo avuto due fondamentali: la cronaca e l’opinione. Nel vostro rapporto c’è un capitolo allarmante: quello della povertà... Si tratta di un dato ufficiale dell’Istat, ma abbiamo provato a studiare a fondo la cosa. La povertà immateriale oggi è ancora più grave, parliamo di stress, depressione, paura indistinta che crea tensione e non speranza di futuro. La tragedia, come abbiamo evidenziato nel nostro rapporto, è che questa povertà immateriale è più presente nei giovani che negli anziani: il 30% contro l’11%. Il vero problema in una società come la nostra, impalpabile, ma densa, è analizzare i fenomeni qualitativi, non quelli quantitativi che non dicono più nulla. E la pandemia oltre al virus del Covid sta diffondendo anche quello della paura... Certamente. Le morti di Alzano Lombardo e di Bergamo hanno segnato tutti, così come i ricoverati in terapia intensiva che morivano tra sofferenze atroci e senza poter avere vicino l’affetto dei loro cari. Siamo stati bravissimi a superare queste tragedie, i cittadini si sono lentamente liberati dalla paura. Esiste una paura strutturale e non emotiva di chi gestisce il sistema sanitario per il pericolo che possa saltare tutto: troppe terapie intensive occupate, troppi ricoverati, che i vaccini non siano sufficienti o che non coprano le varianti del virus. La paura vera di questo Paese è che non funzionano le istituzioni: la sanità, la scuola, l’università e la ricerca che la pandemia ci ha fatto scoprire essere impreparati. Il Terzo rapporto Censis-Tendercapital si intitola “Inclusione ed esclusione sociale: cosa ci lascerà la pandemia”. Come si può rispondere a questa domanda? La pandemia ci lascia una sorta di reazione vitale, confermata dall’impennata dei dati dell’export, delle piccole e medie imprese che hanno avuto il coraggio e l’orgoglio, misto in qualche caso a disperazione, di giocare sul proprio brand. C’è stata una reazione meno nobile, ma fortissima di economia sommersa. La maggior del 6% di Pil in più che abbiamo è da attribuirsi all’economia sommersa, che si registra nei consumi e nelle vendite. Questi due elementi ci hanno in qualche modo protetto dagli effetti della pandemia. In questo scenario c’è stato un effetto Draghi? Ha avuto un effetto rassicurante: è una personalità capace, stimata da tutti e a livello mondiale. È un’ondata di opinione, che in questo caso vale. In più tutti sanno che il passato e il futuro si giocano su questioni monetarie, sul controllo del nuovo patto di stabilità, sull’inflazione più o meno guidata ed è riconosciuto in maniera unanime che Mario Draghi, dopo Guido Carli, è l’unico in grado di affrontare queste situazioni. Mario Draghi, l’uomo che risolve i problemi, ora è al centro del toto-Quirinale... Il toto-Quirinale era inevitabile e c’è sempre stato. Ricordo l’elezione di Gronchi, nei primi anni Cinquanta, che arrivò dopo un grande e vivace toto-Quirinale con la destra e sinistra insieme, l’operazione Milazzo in Sicilia. Questa volta è un po’ più accentuato perché esiste questa personalizzazione su Mario Draghi. Come alternativa da più parti si è ventilata l’ipotesi del Mattarella-bis... Sergio Mattarella ha fatto benissimo a sgombrare il campo da qualsiasi ipotesi dicendo e ribadendo il suo no. La presenza di Draghi al Quirinale cambierebbe lo scenario? Per alcuni sì perché ipotizzano un semipresidenzialismo di fatto, perché Draghi sceglierebbe il presidente del Consiglio dei ministri. Credo che non cambierà nulla, in Italia ci sono sempre state delle regole del gioco tacite e rispettate da tutti. Finita la fiammata delle elezioni per il Quirinale, ci riassesteremo facilmente, come è sempre avvenuto in altre occasioni. Secondo lei Draghi è più utile al nostro Paese capo dello Stato o come presidente del Consiglio? In ogni caso gli servirebbe un appoggio collaterale. Se rimanesse a palazzo Chigi avrebbe bisogno del presidente della Repubblica, che lo protegga come ha fatto Mattarella, se andasse al Quirinale necessiterebbe di un establishment stretto che gli permetta di sgombrare il campo dai sospetti di un semipresidenzialismo ad personam, altrimenti il rischio è che ci possa essere un rigetto di Draghi capo dello Stato. In questo periodo Mario Draghi, oltre a confermare il suo valore sul piano economico, si è fatto apprezzare anche sul piano politico... Mario Draghi si è dovuto mettere a fare un mestiere nuovo, da persona intelligente ha accettato la sfida. Questo, mi permetta lo dico anche io come ex allievo del “Massimo”, ce lo hanno insegnato i gesuiti: l’intelligenza ha bisogno di sfide alte. Con i sindacati l’atteggiamento intelligente è stato quello di non contrastare lo sciopero generale, che per loro aveva un significato identitario. In sostanza ha detto fate, poi ci incontreremo e discuteremo. Che 2022 ci aspetta? Faticoso. Tutti gli elementi che hanno sostenuto l’economia nella post-pandemia potrebbero non reggere nel tempo. Il peso dell’intervento pubblico, nel momento in cui diminuirà quali effetti potrebbe produrre? La dimensione della competizione internazionale rimarrà la stessa? Si tratta di una serie di variabili che sono state innescate e che nei prossimi dodici mesi andranno alimentate e sostenute. In questo scenario sono d’accordo con chi vorrebbe che Draghi rimanesse a Palazzo Chigi. Personalmente e umanamente sono più propenso a vederlo al Quirinale. Vi racconto la storia di 50 migranti arrivati in Italia grazie a un corridoio umanitario di Roberto Saviano Corriere della Sera, 25 dicembre 2021 Un corridoio umanitario, istituito da Caritas e governo italiano il 26 novembre, ha accolto e integrato nel nostro Paese 50 migranti dal Niger. Una terza via tra l’abbandono in mare e la clandestinità è possibile: cominciamo a percorrerla. Quando si parla di immigrazione è tutto molto difficile perché per parlarne dovresti - tu che ne parli - non avere una storia e, al tempo stesso, immaginare che chi ti ascolta possa farlo con orecchio vergine. Ma una storia io ce l’ho e nessun orecchio potrà mai dire di non essere influenzato dal rumore di fondo che accompagna ogni racconto di immigrazione, che è sempre un racconto di dolore, separazione e speranza. Se la voce che narra incontra la tua simpatia, allora, caro lettore, sarai disposto ad ascoltare. Se chi racconta ti è inviso, allora tutto ciò che dirà o scriverà ti risulterà odioso. E allo stesso modo procede il rumore di fondo: quello poi è ancora più ingovernabile e ingannevole perché va avanti per accidenti, incidenti e polarizzazioni. Hai letto che un gommone è affondato nel Mediterraneo mentre tu, nello stesso mare, a poca distanza, fai il bagno coi tuoi figli. Proverai vergogna, ti sentirai in colpa forse. Ma non saprai come estinguere il rimorso che provi pur non avendo fatto nulla di male. Sei nato dove la vita non è facile, ma almeno non è atroce. Dove se non hai una famiglia che ti sostenga te la vedi nera, ma non sei spacciato. Dove se la tua sessualità non è quella della maggioranza, le cose non saranno facili, ma nessuno ti condannerà a morte. Dove se non riesci a concepire un bambino non verrai ripudiata, cacciata, perseguitata e magari uccisa. Questa mia è una lettera in cui provo a mostrarti, portando prove, che esiste una alternativa alla ferocia anti immigrato, alla teoria dei porti chiusi; che esiste una prassi il cui buon funzionamento è provato, che l’Europa ha il dovere di intraprendere emancipandosi dal timore di non poter essere accogliente per non fomentare le destre. Se sono sfruttati è perché sono clandestini - Nessuna politica seria di accoglienza è stata fatta in Europa ed è proprio questo a dare armi a chi fa campagna elettorale chiedendo a gran voce la chiusura dei porti, l’affondamento delle imbarcazioni delle Ong che traggono in salvo esseri umani e l’arresto dei loro equipaggi. È la pavidità dei governi europei a creare le condizioni perché in Europa, le feroci destre, possano fare presa sull’opinione pubblica. Dire che siccome nel Sud dell’Italia i clandestini sono sfruttati nelle campagne (che definirei “latifondi” e “feudi”) bisogna chiudere i porti, significa eludere la questione di fondo: se vengono impiegati significa che serve manodopera, se sono sfruttati è perché sono clandestini. Regolarizzarli li sottrarrebbe allo sfruttamento, non chiudere i porti. Nel Nord dell’Italia, poi, la questione è un vero e proprio boomerang per le posizioni assunte pubblicamente dai leader sovranisti, perché a chiedere manodopera legale sono le aziende delle regioni a trazione leghista. Servono lavoratori e servono lavoratori che possano essere contrattualizzati. La paura che ci fa divenire cattivi - Nessun ragionamento buonista, questa è una fotografia dei fatti. Una comunicazione quotidiana che criminalizza gli stranieri ha come ricaduta un impianto normativo influenzato da esigenze di sicurezza. Si fa spesso leva sulla percezione dell’insicurezza più che sulla reale incidenza dei reati, ad esempio di tipo predatorio, da parte soprattutto di immigrati. Quando sentite ripetervi che la difesa è sempre legittima, chi lo dice fa leva su un sentimento di insicurezza che non è mai conseguenza di un reale aumento dei pericoli. E a normative restrittive che regolano l’ingresso sul territorio europeo dei cittadini stranieri segue una diminuzione delle vie legali di accesso e di conseguenza un aumento di migrazioni irregolari. La vera soluzione: i corridoi umanitari - Manca il coraggio politico di riconoscere che una soluzione esiste e va percorsa. Quella soluzione sono i corridoi umanitari. Sono strade poco battute dagli Stati europei, alternative ai viaggi della morte, a quei viaggi che consentono alle destre populiste di fare campagna elettorale sulla pelle dei disperati. Nel 2017 la Conferenza Episcopale Italiana, insieme a Caritas Italiana, alla Fondazione Migrantes e alla Comunità di Sant’Egidio ha siglato un protocollo di intesa con il nostro governo per aprire un nuovo Corridoio Umanitario che, per la prima volta, ha portato in Italia dall’Africa 500 persone, rinnovato poi nel 2019 per ulteriori 600 arrivate in Italia nei due anni successivi. La Chiesa Italiana, attraverso Caritas Italiana, finanzia il progetto grazie ai fondi dell’8 per mille. Quindi siamo noi a finanziarlo. La selezione dei richiedenti asilo viene fatta da Caritas Italiana che in Giordania è affiancata da Caritas Jordan, in Niger da Unhcr Niger e in Etiopia dalla Comunità di Sant’Egidio e da Gandhi Charity. I beneficiari vengono selezionati seguendo criteri di vulnerabilità e in Italia vengono preventivamente individuate famiglie tutor che si rendono disponibili ad accompagnare i rifugiati nel percorso di integrazione. Chi arriva, per capirci, ha già un alloggio e trova già chi è pronto a dare aiuto. Chi accoglie dovrebbe sentirsi coinvolto - Tutto troppo difficile, numeri esigui, starete pensando. Nient’affatto. Se con l’8 per mille molti italiani - direi la maggior parte - finanziano questa alternativa sicura ai viaggi in mare, significa che non è difficile, significa che è una via praticabile e che va messa a regime. I corridoi umanitari sono una prassi che va raccontata, perché ci dice quanto l’immigrazione sia un fenomeno che non possiamo bloccare e che quindi dobbiamo regolamentare, indirizzare e gestire perché chi accoglie non si senta invaso, ma al contrario coinvolto. E chi arriva possa trovare percorsi di integrazione, alloggi e una comunità preparata all’accoglienza. Il 26 novembre sono arrivate all’aeroporto di Fiumicino dal Niger 50 persone. Dovevo esserci anche io a festeggiare il loro arrivo. Ma dal Viminale non hanno dato il via libera alla mia presenza. Avevo seguito nei giorni precedenti i preparativi di questo arrivo e la Caritas Italiana mi aveva reso felicissimo coinvolgendomi. Il viaggio e le torture subite da Bashir - Bashir è un ragazzo somalo, sposato e con due figli. La sua famiglia è rimasta in Somalia. Di loro non sa più nulla. Nel 2017 dalla Somalia è andato in Yemen, poi in Sudan e infine in Libia. La decisione di partire e di lasciare la sua famiglia non è stata facile, ma è stato costretto perché gli mancavano i mezzi per mantenerla. Quando ci si chiede come mai qui da noi arrivino solo uomini, la risposta è immediata: chi porterebbe mai con sé i propri figli senza sapere cosa riserva il viaggio? Bashir è consapevole che se avesse portato con sé la sua famiglia, i bambini non ce l’avrebbero fatta. In Yemen è stato rapito da trafficanti di esseri umani e portato in Sudan; dal Sudan è stato venduto e portato in Libia. In Yemen e Sudan ha subito torture e gli chiedevano soldi, che lui però non poteva dare: la famiglia non aveva niente. Ha ustioni da plastica bollente e segni sulle braccia. È stato impalato e violentato ripetutamente, torturato con la corrente elettrica. Immerso nell’acqua ghiacciata, picchiato con spranghe di ferro, frustato con cavi elettrici. È riuscito a scappare per essere catturato dalla polizia governativa. Nel 2018 è stato preso in carico dall’Unhcr che lo ha portato a Niamey, in Niger. “Dicono che sono pazzo... rivoglio la mia famiglia” - “Dicono che sono pazzo. Tutti me lo dicono. Forse con le botte in testa con i pali di ferro il mio cervello si è spostato o si è rotto. Non lo so. Ho le cicatrici delle torture ma sono un uomo forte”. Così dice Bashir, e continua: “Durante il giorno e durante la notte penso, penso, penso. Mi viene il fumo al cervello. A volte mi dicono che mi incanto a pensare. Non so nemmeno io esattamente a cosa penso. Alle umiliazioni che ho subito, alla mia famiglia lontana. Alle mie giornate che trascorrono senza un obiettivo. Certe volte sento le voci delle persone che mi hanno torturato, sento anche le mie grida. Le sento anche se sono sveglio. Mi manca il respiro e tremo. Mi tremano le gambe. Sento anche l’odore di quelle stanze, i passi delle persone che venivano a torturarmi. Poi penso alla mia famiglia, ai miei bambini e che la mia vita è ferma qui, senza prospettive. Vorrei prendere la patente e fare l’autista oppure lavorare da commesso in un negozio. Quello che vorrei più di ogni cosa al mondo però, è rivedere e riabbracciare la mia famiglia. Lavorare per loro. E invece sono stato condannato alla povertà e a una vita infelice”. Non siamo razzisti: temiamo i poveri e la povertà - Povertà è una parola che quando si raccontano storie di immigrazione dovrebbe farci riflettere perché la verità è che non siamo razzisti, non odiamo gli stranieri: temiamo i poveri e la povertà. Crediamo, sbagliando, di vivere un una scacchiera dove se io occupo una posizione di privilegio, non posso lasciarti spazio, o i posti si invertiranno. Ecco quindi che la prospettiva cambia: non temo lo straniero, temo il povero. Sono razzista con il povero. A chi vi dice “aiuti gli stranieri quando ci sono tanti italiani in difficoltà”, chiedete questo: tu cosa fai per gli italiani in difficoltà? Chi si preoccupa del prossimo, lo fa senza pensare al colore della pelle, alla provenienza, lo fa e basta. E lo fa anche sapendo che non ci sarà probabilmente riconoscenza, perché chi soffre ha tutte le ragioni per non guardare il mondo con fiducia, finanche per azzannare la mano che gli viene tesa. È la povertà a spaventarci, non gli stranieri. Dal Darfur: catturato e venduto a 2 anni - E poi c’è Adballah, ha 19 anni ed è sudanese. Abitava nel Darfur settentrionale dove negli Anni 2000 è scoppiato un terribile conflitto che vedeva le milizie Janjawid bruciare interi villaggi, violentare e uccidere persone. Nel 2004, quando aveva 2 anni, nel suo villaggio c’è stato un attacco dei Janjawid che hanno bruciato tutte le case. Da lì si sono spostati al campo per sfollati interni di Zam Zam, in Sudan. Nel 2017 hanno lasciato il campo per andare a lavorare in Libia, a Humma Aranb, dove c’è una comunità sudanese. L’arrivo a Fiumicino di una madre e sua figlia, salvate dai corridoi umanitari - Ma Abdallah è catturato e poi venduto, rinchiuso, picchiato sui genitali e usato per chiedere un riscatto. Quando scappa è in condizioni di salute precarie. Decide di spostarsi in Niger. “Non vedo l’ora di partire! Voglio venire in Italia e integrarmi. Mi piace lavorare e anche lo sport, specie il calcio. Sono una persona con tanta pazienza. In Italia vorrei poter studiare”. Chiméne ha 33 anni, è del Camerun e di minoranza anglofona. Lavorava in una farmacia della sua città, Bamenda, ma nel 2016, quando la situazione precipita per le discriminazioni e le minacce subite dalla minoranza anglofona, si trasferisce in casa di sua nonna a Mbengwi con il marito e i 2 figli. Ma le minacce e le persecuzioni non finiscono e devono scappare. Divisi. Suo marito scappa con i figli e lei rimane con sua nonna che di lì a poco morirà. Chiméne viene poi catturata insieme ad altre donne, picchiata, maltrattata e violentata. Mentre è in viaggio diretta in Algeria, il convoglio su cui viaggia viene dirottato a Misurata, in Libia, considerata da tutti i migranti in transito l’inferno in terra nonostante quasi tutti i politici italiani abbiano per anni ripetuto che fosse un luogo sicuro. Viene poi sequestrata e portata a Sabratha. “Dopo diversi mesi, a Sabratha”, racconta, “sono scoppiati scontri e i migranti sono stati sfollati a Zouara. A Zouara sono salita a bordo di una barca e ho iniziato il viaggio in mare finché la barca è stata intercettata dalla guardia costiera libica e tutti i passeggeri sono stati inviati a Triq al Sika e poi al carcere di Terimata, a Tripoli. Sono rimasta lì per alcuni giorni in pessime condizioni fino a quando l’Onu mi ha evacuato in Niger il 16 maggio 2018”. Abusati e picchiati nel campo profughi - Moustapha è un sudanese di 26 anni partito dal Darfur nel 2003 a causa della guerra. In un campo profughi del Ciad lui e sua sorella sono ripetutamente violentati fino a quando, per aiutare la famiglia, decide di partire. Era l’unico uomo di casa che potesse farlo, suo padre era malato. Giunto in Libia capisce subito che la situazione per lui non sarebbe migliorata. Lo rinchiudono, lo legano con catene e lo picchiano. Gli tagliano il capezzolo sinistro, lo violentano con bastoni e spranghe di ferro. Gli incollano gli occhi dalle palpebre con lo scotch per costringerlo a guardare mentre a un altro uomo aprivano lo stomaco con coltelli per tirargli fuori le interiora, da vivo. “Mi piacerebbe essere indipendente”, dice Moustapha. “Che bella parola, indipendenza”. A volte penso che Cristo lo abbiamo davanti agli occhi e non riusciamo a riconoscerlo. Assistiamo al suo sacrificio, permettiamo che venga brutalizzato, usato dalla politica e dall’informazione; assistiamo spesso da corresponsabili, senza alzare la voce.Temendo di perdere il nostro posto sulla scacchiera restiamo ancorati a una comfort zone che ci rende vili. Se davvero la nostra vita ha uno scopo, è di certo quello di tendere a mano a Moustapha, a Bashir e a Chiméne, che sono quanto di più vicino esista al Cristo in croce. Pretendiamo che il nostro governo sottragga gli immigrati irregolari oggi in Italia alla loro condizione di schiavitù, che siano regolarizzati e possano godere dei diritti fondamentali, inalienabili. Pretendiamo che si trovino rotte alternative e sicure per raggiungere l’Europa. E ringraziamo la Caritas per averci mostrato che tutto questo è possibile. Libia, tra rapimenti e intimidazioni La Repubblica, 25 dicembre 2021 “Violazioni dei diritti umani prima delle elezioni poi rinviate”. Il rapporto di Amnesty International. Nella dettagliata analisi resa pubblica oggi, l’organizzazione per i diritti umani ha rilevato come i gruppi armati e le milizie abbiano ripetutamente messo a tacere il dissenso. Il 22 dicembre 2021 Amnesty International ha denunciato una miriade di violazioni dei diritti umani verificatesi in Libia nel periodo precedente le elezioni presidenziali, inizialmente previste per oggi, 24 dicembre, e poi rinviate di un mese: un periodo segnato da contrasti sulla legge elettorale e sull’eleggibilità dei vari candidati. Nella dettagliata analisi resa pubblica oggi, l’organizzazione per i diritti umani ha rilevato come i gruppi armati e le milizie abbiano ripetutamente messo a tacere il dissenso, limitato lo spazio per la società civile e attaccato funzionari elettorali. Il ruolo non svolto dalle forze armate libiche. “Creare un clima elettorale libero dalla violenza e dalle intimidazioni - ha detto Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord - è pressoché impossibile se gruppi armati e milizie non solo beneficiano dell’impunità, ma vengono anche integrati nelle istituzioni statali, compresi i responsabili di crimini di diritto internazionale. Per avere elezioni libere, il Governo di unità nazionale e le Forze armate arabe libiche dovranno impartire alle milizie e ai gruppi armati loro sottoposti l’ordine di cessare immediatamente le intimidazioni e gli attacchi contro i funzionari elettorali, i giudici e il personale di sicurezza e di rilasciare subito le persone arrestate solo per aver espresso il loro punto di vista sulle elezioni”, ha aggiunto Eltahawy. L’irruzione nel palazzo di Giustizia. Il 26 novembre Emad al-Sayeh, capo dell’Alta commissione elettorale nazionale, aveva espresso preoccupazioni sulla sicurezza in vista delle elezioni dopo che uomini armati avevano fatto irruzione in almeno quattro sedi locali, poi costrette a chiudere, interrotto la registrazione dei votanti e rubato le schede elettorali. Molti funzionari della commissione elettorale e della struttura del ministero dell’Interno, incaricata di mantenere la sicurezza in occasione delle elezioni, hanno denunciato di aver subito minacce. A Sabha, uomini armati hanno circondato il palazzo di giustizia per interrompere il riesame dell’eleggibilità di un candidato. Il rapimento di 21 giornalisti e attivisti. I gruppi armati e le milizie hanno rapito almeno 21 giornalisti, manifestanti e attivisti che sostenevano determinati candidati o avevano espresso le loro opinioni sulle elezioni a Tripoli, Bengasi, Misurata, Ajdabiya e Sirte. A Sirte, il 14 novembre, uomini armati affiliati all’Agenzia per la sicurezza interna, a sua volta legata alle Forze armate arabe libiche (un gruppo armato che controlla vaste zone dell’est e del sud della Libia), hanno arrestato 13 uomini, compresi giornalisti, per la loro presunta partecipazione a una manifestazione a sostegno della candidatura di Saif al-Islam Gheddafi. Sono stati rilasciati cinque giorni dopo. Le forti rivalità nella campagna elettorale. Laila Ben Khalifa ed Heneda al-Mahdi, le due candidate alla presidenza della Libia, hanno subito molestie fisiche e insulti online. La campagna elettorale si è svolta in un contesto di profonda rivalità tra gli attori che competono per il potere in Libia sin dal 2014. Da quando a marzo sono stati annunciati i preparativi per lo svolgimento delle elezioni, il Governo di unità nazionale ha mantenuto a stento il controllo della situazione, mentre le Forze armate arabe libiche continuavano a controllare buona parte del territorio. L’ammissione del figlio di Gheddafi. Delle 96 candidature presentate, la commissione elettorale ne ha inizialmente respinte 25 a causa di precedenti condanne, doppia nazionalità, insufficiente numero di firme raccolte o motivi legati alle condizioni di salute. Sulle tre candidature principali - quelle di Khalifa Haftar, Saif al-Islam Gheddafi e Abdelhamid Dbeibah - sono stati presentati ricorsi su ricorsi. Il figlio dell’ex leader Muammar Gheddafi è stato poi ammesso nonostante sia ricercato dal Tribunale penale internazionale per crimini contro l’umanità per aver appoggiato la repressione ordinata dal padre durante le rivolte del 2011. Le accuse di crmini di guerra. Khalifa Haftar, le cui Forze armate arabe libiche hanno cercato per un anno dal giugno 2020 di estendere il loro controllo sulla capitale Tripoli e sull’Ovest del Paese, è stato a sua volta autorizzato a partecipare alle elezioni sebbene Amnesty International e altri abbiano accusato il suo gruppo armato ed altri alleati di crimini di guerra. Anche la terza candidatura, quella del primo ministro del Governo di unità nazionale Abdelhamid Dbeibah, è stata accolta. Amnesty International ha documentato crimini di diritto internazionale commessi durante il suo mandato dalle forze sotto il comando del Governo soprattutto ai danni di migranti e rifugiati. Afghanistan. Cooperante britannico arrestato dai Talebani a Kabul Il Fatto Quotidiano, 25 dicembre 2021 Non si hanno sue notizie da una settimana. Il fermo di Grant Bailey, volontario inglese di una Ong, è stato confermato da un portavoce del ministero degli Esteri e dal Foreign Office. L’arresto è avvenuto sabato 18 dicembre e secondo il Daily Mirror l’uomo, 50 anni circa, è detenuto in una prigione di Kabul controllata dai Talebani. Il governo afgano non ha ancora rilasciato dichiarazioni. “Siamo al corrente della detenzione di un cittadino britannico in Afghanistan e siamo in contatto con la sua famiglia per sostenerla”. Così un portavoce del ministero degli Esteri inglese ha confermato la scomparsa di Grant Bailey, arrestato dai Talebani a Kabul. Lo ha riportato per primo il Daily Mirror, poi ripreso da altri media britannici, specificando che l’arresto si inserisce in una retata dei miliziani nella capitale. Bailey, 50 anni circa, lavora per conto di un’organizzazione non governativa e, secondo quanto detto al Mirror da una fonte dei servizi di sicurezza del Regno Unito, non si hanno sue notizie da sabato 18 dicembre. Secondo il quotidiano londinese in questo momento si trova in un carcere controllato dai Talebani nella capitale, ma non è arrivata alcuna conferma da parte del nuovo governo afghano. I funzionari del ministero degli Esteri stanno lavorando per conoscere il luogo in cui Bailey è detenuto e la ragione per cui è stato arrestato. Il fermo del volontario è stato confermato anche dal Foreign Office, il dicastero britannico responsabile degli interessi del Paese all’estero. Secondo la ricostruzione del Mirror, Bailey è tornato in Afghanistan a settembre, poche settimane dopo la conquista di Kabul da parte dei Talebani e il ritiro delle truppe occidentali che da 20 anni erano sul territorio. Una fonte ha detto al tabloid inglese: “Siamo rimasti abbastanza sorpresi che sia tornato a Kabul dopo il ritiro occidentale, poiché la situazione della sicurezza è ovviamente molto peggiore. A ciò si aggiunge che il governo talebano sta rendendo molto difficile poter viaggiare”.