Il carcere è un luogo di morte. Ma nessuno vuole riformarlo di Giulia Merlo e Filippo Teoldi Il Domani, 24 dicembre 2021 In questo anno di riforme della giustizia, con quella penale e civile già approvate e quella dell’ordinamento giudiziario in discussione, a rimanere indietro sono sempre gli ultimi. Nonostante le rivolte del marzo 2020 e il caso drammatico di Santa Maria Capua Vetere, infatti, il problema delle carceri è rimasto in fondo alla lista degli interventi. Anche di questo governo, nonostante la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, da tempo ribadisca la necessità di intervenire per “dare risposte diverse”. Almeno una parte di queste risposte si trova in un testo sepolto in qualche cassetto della Camera: la riforma dell’ordinamento penitenziario, targata Pd e scritta dall’ex ministro Orlando ma accantonata non appena al suo posto si è insediato il grillino Alfonso Bonafede nel 2018. Un articolato non perfetto ma che è stato il prodotto di tre anni di confronto, dopo gli stati generali del carcere e il lavoro approfondito della commissione Giostra. Il Partito democratico ha provato a rilanciarla nel suo programma sulla giustizia presentato a metà 2021, ma senza arrivare al punto di spingere per una ricalendarizzazione del tema in tempi certi. Per ora, pur con una ministra sensibile al tema e che da giudice e presidente della Corte costituzionale si è impegnata proprio sul principio della funzione rieducativa della pena, nulla si muove. Per ora c’è solo l’annuncio a settembre dell’istituzione di un gruppo di lavoro specifico “non per lavorare sulle grandi cose ma a cominciare da alcuni temi facendo rotolare una piccola palla di neve che spero diventi una valanga”, ha sintentizzato Cartabia. Bambini in carcere - L’unico sollievo, per questo Natale 2021, è la firma della ministra alla Carta dei diritti dei figli dei detenuti, con la promessa che “non si saranno più bambini in carcere”. Il protocollo d’intesa tra il ministero della Giustizia, l’Agia e Bambinisenzasbarre OnlusOggi prevede che le autorità giudiziarie siano sensibilizzate e invitate ad una serie di azioni a tutela dei diritti dei figli minorenni di persone detenute: colloqui, visite nei giorni compatibili con la scuola e supporto alla genitorialità. Inoltre, si punta a eliminare del tutto i minori che vivono in carcere al seguito di madri detenute. Ad oggi ci sono ancora 19 bambini piccolissimi, ma i numeri si stanno riducendo e a fine 2019 il dato era più del doppio. Intanto, i dati fotografano un’emergenza che ormai è cronica e si riassume con due concetti: uno presente, con il sovraffollamento negli istituti; uno di futuro, con la pena che è solo tempo che scorre inutilmente e senza prospettive. Come dice Ornella Favero, direttrice e fondatrice di Ristretti Orizzonti, la rivista del carcere di Padova, “Il covid rischia di diventare l’ennesimo alibi per non fare nulla”. Sovraffollamento - Se nel 2020 la pressione del sovraffollamento era diminuita perché la pandemia aveva ridotto gli ingressi e si erano incentivate le misure alternative, la situazione è immediatamente ritornata alla normalità precedente. Vale a dire, come certificano i dati del ministero della Giustizia, che a novembre di quest’anno i detenuti sono quasi 55.000 (54.593), presenti nei 189 istituti penitenziari distribuiti in tutto il paese. Di questi, 2.300 sono donne e 17.300 sono di cittadinanza straniera. Per regolamento i posti sarebbero solo 50.809, che però concretamente sono alcune migliaia in meno e - anche così - il distanziamento in cella sarebbe quasi impossibile. Il sovraffollamento, poi, è diverso da struttura a struttura: l’associazione Nessuno tocchi Caino, che si è riunita a congresso nel carcere di Opera il 18 dicembre, passerà capodanno nell’istituto penitenziario di Brescia, che con il 198 per cento di sovraffollamento è la struttura più problematica d’Italia da questo punto di vista. Per protestare contro la situazione, la presidente Rita Bernardini è in sciopero della fame dal 5 dicembre e continuerà almeno fino a fine anno. Il dato del sovraffollamento spicca ancora di più se si considerano le prescrizioni per prevenire i contagi, soprattutto se si considera un dato: 8.837 di questi detenuti sono attualmente in carcere ma ancora in attesa di una sentenza di primo grado. Vale a dire che non sono ancora stati condannati per alcun reato. A questi se ne aggiungono altri 7.700 che sono condannati ma non in via definitiva. Risultato: solo 37.705 detenuti nelle carceri italiane stanno scontando una pena definitiva. Se da un lato le carceri sono sovraffollate, dall’altro manca il personale per gestirle. Sette carceri sono senza direttore, 27 direttori dirigono contemporaneamente due istituti. Gli agenti penitenziari hanno una pianta organica di 41.500 ma gli effettivi sono appena 32.200. Gli educatori dovrebbero essere 999, ma in realtà operano solo 710. Infine, il dato più eclatante: in tutta Italia, per quasi 55 mila detenuti, ci sono solo 206 magistrati di sorveglianza. Questa carenza di personale si riverbera su tutta la vita dei detenuti, ma in particolare si traduce in un dato: è lo Stato a far sì che chi entra in carcere debba lasciare fuori la speranza di una riabilitazione, di colloqui costanti con la famiglia e di ascolto da parte del tribunale per adattare la pena al suo percorso. Morire in carcere - In carcere si muore, soprattutto nel 2021 e quest’anno il totale è di 128 decessi, di cui 52 suicidi e 76 morti in cella e non in ospedale. Il Centro Studi di Ristretti Orizzonti pubblica dal 2000 il dossier “Morire in carcere”, raccogliendo da fonti ufficiali e non il numero e il motivo di decessi registrati negli istituti penitenziari del paese. Andando a vedere i decessi in carcere avvenuti negli ultimi anni, si nota come il Covid abbia fatto aumentare il numero di decessi per malattia nella popolazione incarcerata. Nel 2021 oltre il 30 per cento dei decessi è stato dichiarato per “malattia” e una percentuale così alta non si era mai registrata dal 2002. Tra le cause di morte, però, una salta agli occhi. Analizzando il numero di suicidi in carcere, su 3.307 decessi registrati nel dossier dal 2002, 1.220 (il 36 per cento) sono classificati come suicidi. Approfondendo questo dato spiega indirettamente cosa significhi l’assenza di speranza dietro le sbarre di una cella: il numero di decessi per suicidio diminuisce con l’aumentare dell’età e questo andamento è conforme a quello della popolazione italiana complessiva. Tuttavia, a essere enormemente più alta è la probabilità di suicidio della popolazione più giovane in carcere. In media, infatti, un decesso su due di chi ha under 35 anni in carcere è causata da un suicidio. Nella popolazione complessiva invece è poco più di 1 su 10. Dati drammatici ma che non sorprendono, perché confermano quello che hanno dimostrato molti studi internazionali. Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Lancet e che si basa sul risultato di 77 ricerche effettuate in 27 paesi del mondo rispetto a 35.351 suicidi in carcere, i fattori clinici più forti associati al suicidio sono non solo una storia passata di tentato suicidio e una diagnosi psichiatrica, ma anche fattori istituzionali come l’occupazione di una singola cellula e l’assenza di visite sociali. Cartabia: “Tutto il mio impegno per i detenuti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 dicembre 2021 La ministra della giustizia Marta Cartabia ha ribadito il suo impegno per risolvere l’emergenza carcere. A renderlo pubblico Rita Bernardini del Partito Radicale e presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. La ministra ha incontrato la storica militante radicale al 19esimo giorno dello sciopero della fame. per consegnarle un dono di un ergastolano del carcere di Opera che ha partecipato al congresso di Nessuno tocchi Caino. È una piccola tela ricamata da Antonio A. con i nomi delle donne che parteciparono alla Costituente e la celebre frase di Calamandrei: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione”. La ministra sta cercando di fare tutto il possibile sugli obiettivi prefissati dall’azione nonviolenta. “Anche se non dobbiamo dimenticare che la ministra “non ha truppe in Parlamento” e che è per questo che mi sto rivolgendo a deputati e senatori”. La guardasigilli conta molto sul lavoro della Commissione da lei istituita per migliorare le condizioni nelle carceri, commissione capeggiata da Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto Costituzionale. “Mi ha chiesto di sospendere lo sciopero della fame per le feste natalizie e mi ha autorizzato di rendere pubblico questo suo auspicio. Vedremo. Spes contra spem”. A proposito della commissione, ieri ha consegnato alla guardasigilli la relazione finale predisposta al termine dei lavori che si sono tenuti nell’ultimo trimestre del 2021. La ministra ha anticipato l’intenzione di concentrarsi da gennaio sull’attuazione dei provvedimenti. Ma che cosa chiede Rita Bernardini con lo sciopero della fame e con il suo “memento”, ovvero la sua “ora d’aria” giornaliera sotto il Ministero a via Arenula? Che i parlamentari di tutti i gruppi politici dicano cosa intendano fare per superare lo stato di illegalità delle carceri, a partire dal sovraffollamento. Una illegalità tanto più grave con la ripresa dei contagi Covid. Con l’iniziativa nonviolenta in corso, si chiede l’approvazione delle proposte dell’onorevole Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata: la prima, “speciale”, per elevare da 45 a 75 i giorni di liberazione anticipata ogni semestre a partire dal 31 dicembre 2015; la seconda, “strutturale”, per modificare l’ordinamento penitenziario per portare i giorni di liberazione anticipata da 45 a 60. Ma il problema è la mancanza di volontà politica da parte della maggior parte dei parlamentari. L’obiettivo di Rita Bernardini è proprio quello: coinvolgerli per mettere di nuovo al centro quei valori “sacri” della costituzione italiana. Rita Bernardini incontra la ministra Cartabia. “Ma proseguo il digiuno” di Angela Stella Il Riformista, 24 dicembre 2021 La Radicale al 19esimo giorno di sciopero della fame. “Ho incontrato Marta Cartabia per consegnarle un dono di un detenuto ergastolano del carcere di Opera che ha partecipato al congresso di Nessuno tocchi Caino - ha scritto ieri su Facebook la radicale Rita Bernardini. Una piccola tela ricamata da Antonio con i nomi delle donne che parteciparono alla Costituente e con la celebre frase di Calamandrei: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione”. Arrivata ormai al 19esimo giorno di sciopero della fame, la Presidente di Nessuno Tocchi Caino ha incontrato la Ministra della Giustizia a via Arenula: “Marta Cartabia ha considerato questo dono “Straordinario. Davvero straordinario” e ha voluto che glielo consegnassi fisicamente anche per scambiarci gli auguri di Natale, cosa che ho fatto con grande emozione”. Ma sul piano politico che novità ci sono? Proprio ieri la commissione sulla qualità della vita nelle carceri guidata dal professore Marco Ruotolo ha consegnato alla Ministra la relazione finale. La Guardasigilli un mese fa aveva detto che alcuni istituti penitenziari “gridano vendetta”. Bernardini lo ripete da una vita ma le soluzioni non arrivano, se non in maniera sporadica. “Sta cercando di fare tutto il possibile sugli obiettivi della mia-nostra azione nonviolenta - scrive la radicale sempre in relazione all’incontro - anche se non dobbiamo dimenticare che la ministra “non ha truppe in Parlamento” e che è per questo che mi sto rivolgendo a deputati e senatori. Conta molto sul lavoro della Commissione da lei istituita per migliorare le condizioni nelle carceri. Mi ha chiesto anche di sospendere lo sciopero della fame per le feste natalizie e mi ha autorizzato a rendere pubblico questo suo auspicio. Spes contra spem”. Per ora Bernardini ci dice che però non sospende il digiuno. E va avanti con la sua iniziativa ‘memento’ dinanzi alla Camera “per chiedere ai parlamentari di tutti i gruppi politici cosa intendano fare per superare lo stato di illegalità delle nostre carceri, a partire dal sovraffollamento; illegalità tanto più grave con la ripresa dei contagi Covid, illegalità che genera trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti. Con l’iniziativa nonviolenta in corso, chiediamo l’approvazione delle proposte di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata: la prima, “speciale”, chiede di elevare da 45 a 75 i giorni di liberazione anticipata ogni semestre a partire dal 31 dicembre 2015; la seconda, “strutturale”, chiede di modificare l’ordinamento penitenziario per portare stabilmente i giorni di liberazione anticipata da 45 a 60 giorni”. Ieri è stata la volta dei deputati Lucia Annibali (Italia Viva), Gianni Marilotti (Partito Democratico), Enrico Costa (Azione), Riccardo Magi (Più Europa-Radicali) e dello scrittore Sandro Veronesi. A proposito di politici, Bernardini ha rivolto un invito a Matteo Salvini e Giorgia Meloni: “Io credo nella buona fede di Salvini, e anche di Meloni. Sono convinta che se venissero con me a visitare un carcere, girandolo veramente, e andando in tutti i luoghi, direbbero che non è possibile, che non si può accettare questo in Italia nel 2021”. Innovazione del sistema penitenziario: la relazione finale della Commissione Ruotolo di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 24 dicembre 2021 La Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario ha consegnato alla Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, la relazione finale predisposta al termine dei lavori che si sono tenuti, come previsto, nell’ultimo trimestre del 2021. Istituita con decreto ministeriale del 13 settembre 2021 e presieduta da Marco Ruotolo, Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Roma tre, la Commissione aveva avuto il compito di individuare possibili interventi concreti per migliorare la qualità della vita all’interno degli istituti penitenziari, perché sia sempre più conforme ai principi costituzionali e agli standard internazionali. Le proposte della Commissione si sono concretizzate, oltre che in ipotesi di modifiche, in forma di articolato, anche in 8 linee guida per la rimodulazione dei programmi di formazione del personale e 35 azioni amministrative da applicare perché producano, come richiesto, consistenti miglioramenti della vita penitenziaria durante l’esecuzione penale. La Guardasigilli, salutando i membri della commissione al termine dei lavori, si è impegnata a fare le sue valutazioni rispetto alle proposte di intervento avanzate, come avvenuto per le altre commissioni ministeriali. Ha anticipato l’intenzione di concentrarsi da gennaio sull’attuazione di quei provvedimenti che possano contribuire, in modo concreto, al miglioramento delle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari. La Commissione, con la prevista partecipazione di Bernardo Petralia (capo Dap) e Gemma Tuccillo (capo dipartimento Dgmc), è stata composta da Pietro Buffa (provveditore regionale Lombardia), Antonella Calcaterra (avvocato), Carmelo Cantone (provveditore regionale Lazio, Abruzzo e Molise), Daniela De Robert (componente del Collegio del Garante dei detenuti), Manuela Federico (Uepe, già comandante polizia penitenziaria San Vittore), Antonietta Fiorillo (presidente del tribunale di sorveglianza Bologna), Gianluca Guida (direttore istituto penale per i minorenni Nisida), Fabio Gianfilippi (magistrato di sorveglianza), Raffaello Magi (consigliere Corte di Cassazione), Giuseppe Nese (psichiatra), Sonia Specchia (segretario generale Cassa ammende), Catia Taraschi (responsabile dell’ufficio detenuti Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta) ed Elisabetta Zito (direttrice casa circondariale Catania). La Commissione è stata coadiuvata dalla segreteria tecnico-scientifica composta da Antonio Bianco (magistrato), Ernesto Caggiano (magistrato) e Silvia Talini (ricercatrice Università degli studi di Roma tre). Vedi la relazione: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?contentId=COS360093 Adesso basta ergastoli, basta respingimenti: Natale è questo di Giovanna Di Rosa* Il Riformista, 24 dicembre 2021 Nel dibattito parlamentare sull’ergastolo ostativo emerge la difficoltà ad attuare i principi limpidi espressi dalla Corte Costituzionale. Cioè che la presunzione assoluta di pericolosità non va bene. Guardare in faccia la persona, valutare il suo cambiamento: è tutta qui la questione. La questione centrale è se l’ergastolo ostativo è in sé uno strumento per arginare la mafia continuando a manifestarsi attraverso l’esempio di una pena perpetua, con delle finalità dichiarate - questo a me è sembrato proprio un eccesso - di prevenzione generale. Così, il senso della pena, secondo la finalità dell’articolo 27 della Costituzione, non assume però rilevanza. La finalità di politica criminale perseguita con la rigidità dell’ergastolo ostativo si contrappone al dettato della sentenza Viola della Corte Europea e della sentenza 253 della Corte Costituzionale, che invece si basano sulla necessità di valutare le singole persone. Punisco così duramente perché nessun altro faccia quello che ha commesso la persona che sto punendo e, quindi, non volgo lo sguardo alle persone stesse, guardandole in faccia per capire, una per una, che cosa hanno fatto e chi sono. “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”. Il senso della pena è il tema del Congresso di Nessuno tocchi Caino, cui sono veramente lieta di partecipare. Può la pena essere ancora utile così come è concepita e praticata? E, soprattutto, può essere la pena concepita solo come retributiva se è vero - come è vero - che in questa direzione sembra andare il dibattito parlamentare sulla legge chiesta dalla Consulta in tema di ergastolo ostativo? I 121 emendamenti che sono stati depositati dimostrano la difficoltà del percorso attuativo di principi limpidi come quelli che la Corte Costituzionale ha espresso. La questione centrale è se l’ergastolo ostativo è in sé uno strumento per arginare la mafia continuando a manifestarsi attraverso l’esempio di una pena perpetua, inflitta come tale e che tale deve rimanere, con delle finalità dichiarate - questo a me è sembrato proprio un eccesso - di prevenzione generale. Così, il senso della pena, secondo la finalità dell’articolo 27 della Costituzione, non assume però rilevanza. La finalità prevalente di politica criminale perseguita con la rigidità dell’ergastolo ostativo, rigido appunto, si contrappone al dettato della sentenza Viola della Corte Europea e della sentenza 253 della Corte Costituzionale, che invece si basano sulla necessità di valutare le singole persone, non sulle finalità di prevenzione generale. Punisco così duramente perché nessun altro faccia quello che ha commesso la persona che sto punendo e, quindi, non volgo lo sguardo alle persone stesse, guardandole in faccia per capire, una per una, che cosa hanno fatto e chi sono, quali progressi hanno compiuto durante il trattamento penitenziario, anche se la dissociazione dalla mafia si può manifestare in modo anche molto diverso dalla mera collaborazione con la giustizia. Eppure sappiamo bene, anche sulla base della nostra esperienza, che la personalità di un uomo non si congela mai. Io stessa non sono uguale a quella che ero ieri e non sono uguale in questo momento a quella che sarò stasera, a maggior ragione dopo 10 o 20 o 30 anni di esperienza detentiva anche molto dura, molto pesante. Si sa che l’uomo cambia ogni giorno, figuriamoci a decenni dal reato. Qui, però, il problema diventa complesso, se il giudice non valuta l’uomo e il suo possibile eventuale cambiamento. È tutto qui il senso del dibattito, perché è giusto andare fino in fondo e guardare in faccia la persona per capire se essa è mutata o non è mutata. La Corte Europea nella sentenza Viola aveva ben spiegato che la lotta al flagello della mafia non giustifica deroghe all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. La sentenza n. 253 della Corte Costituzionale ha parlato - sono importanti le parole dette - di una deformata trasfigurazione della libertà di non collaborare che l’ordinamento non può disconoscere a nessun detenuto. Queste sono pietre miliari su cui il dibattito di questi giorni rischia di perdersi. La Corte Costituzionale spiega perché la “presunzione assoluta” di pericolosità non va bene. Venendo ad osservare il testo base su cui si sta lavorando, si legge che questo si dilunga nella ricerca di tanti aggettivi che accompagnano le parole sull’istituto da modellare: integrale, assoluta, specifica, concreto, diverso, ulteriore. Sono aggettivi che restringono l’applicazione pratica positiva di questa normativa. Vi è poi la richiesta di allegazione specifica, da parte del condannato, di elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dalla organizzazione criminale di eventuale appartenenza. Tali argomenti devono consentire di escludere con certezza l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo di ripristino futuro di tali collegamenti. Tuttavia, risulta impossibile fornire la prova di un’allegazione diretta a evitare che non ci sia tale pericolo, come del resto è stato ritenuto da una sentenza della Corte di Cassazione del settembre del 2021. Quanto alla questione sul possibile trasferimento della competenza delle decisioni all’unico Tribunale di Sorveglianza di Roma, questo sembra portare a disperdere il valore della conoscenza della singola persona da parte del giudice territoriale, quel guardare in faccia di cui dicevo. La possibile uniformità decisionale in capo a pochi giudici si scontra con la mancata conoscenza della realtà dei singoli detenuti, distribuiti sul territorio nazionale nei vari istituti, che hanno compiuto percorsi rispetto ai quali il magistrato si è confrontato, ha conosciuto, sa di cosa si tratta. Mi pare che tali prospettive manchino di considerare l’essenza del decidere, basata sulla conoscenza del valore della persona e ricordando che ogni persona è un valore e l’essere umano è un valore per il solo fatto di essere tale. *Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano Csm, il giallo della riforma sparita dal Cdm di Giacomo Puletti Il Dubbio, 24 dicembre 2021 La vulgata che affolla i corridoi di via Arenula è la seguente: gli emendamenti governativi alla riforma del Csm giacciono da giorni a palazzo Chigi, e dunque non si capisce perché il presidente del Consiglio, Mario Draghi, durante la conferenza stampa di fine anno aveva detto di “non sapere” se quegli emendamenti sarebbero arrivati in Consiglio dei ministri già ieri, cosa puntualmente non accaduta. L’informazione trapelata ieri da via Arenula riguarda l’incontro di giovedì scorso a palazzo Chigi tra la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e Draghi, in cui la Guardasigilli ha riferito le novità sul confronto con i partiti circa la sua proposta di riforma del Csm. Al termine dell’incontro non era tuttavia emerso che proprio in quella sede Cartabia aveva anche presentato i suoi correttivi al testo al Dagl, dipartimento per gli Affari giuridici e amministrativi. Dunque, perché rimandare? È probabile che, vista la delicatezza del Cdm di ieri, che aveva all’ordine del giorno le misure di contrasto alla pandemia, Draghi non abbia voluto mischiare le due tematiche, ma è ancora più probabile che il presidente del Consiglio, sapendo benissimo che su alcuni aspetti della riforma del Csm l’intesa tra i partiti di maggioranza non è ancora completa, non abbia voluto rischiare di trasformare una riunione così delicata, peraltro all’antivigilia di Natale, in uno scontro interno alla maggioranza. In particolare, i dissidi riguardano le norme che dovrebbero regolare il meccanismo delle cosiddette porte girevoli tra politica e magistratura, argomento discusso da Draghi in conferenza stampa due giorni fa. Negli emendamenti della ministra Cartabia avrebbe infatti prevalso la linea dei Cinque Stelle, la quale prevede che ci sia un divieto di rientro nelle sue funzioni del magistrato eletto o nominato a una carica pubblica, e che quindi egli debba assegnato ad altro ruolo, ad esempio come dirigente al ministero della Giustizia. Norma molto contestata dalla magistratura e dagli stessi dirigenti di via Arenula, che non vogliono vedersi assegnati magistrati “ex politici”. E così Cartabia aveva proposto una linea più soft: un magistrato “sceso in politica” sarebbe potuto rientrare in magistratura, ma altrove rispetto al distretto dove svolgeva le sue funzioni prima di candidarsi o in quello di candidatura. Ma ci sono anche altre questioni ancora da dirimere, prima delle quali il meccanismo di elezione dei componenti togati del Csm. Alcuni partiti, in primis Forza Italia, chiedono che essi vengano eletti con un cosiddetto “sorteggio temperato”, cioè che vengano individuati solo dopo che sia stato sorteggiato un multiplo dei seggi assegnabili. Idea che ha ricevuto il “no” secco del Pd e che ha suscitato perplessità nella stessa ministra. Con ogni probabilità è stata dunque questa serie di motivazioni a dissuadere Draghi dall’occuparsi di Csm nel Cdm di ieri. Bisogna ricordare inoltre che, come per la riforma del penale, Cartabia porterà in Cdm non un ddl ma degli emendamenti a un testo già incardinato in Parlamento, cioè quello presentato alla Camera nell’estate 2020 dall’allora Guardasigilli, Alfonso Bonafede. La stessa ministra Cartabia ha infine ricordato che, a differenza di quello sul penale, il testo sulla riforma del Csm non è blindato e potrà subire modifiche in sede parlamentare. Verso una giustizia consapevole di Daniel Lumera* Il Riformista, 24 dicembre 2021 Il IX Congresso di Nessuno tocchi Caino è stato occasione per ritrovare conoscenze di vecchia data come Gherardo Colombo e Luigi Manconi, con cui la comunanza di pensiero era già assodata, e per scoprire nuove, profonde affinità di visione in ambito di giustizia. Il tema della nonviolenza è centrale nella mia formazione, grazie all’amicizia con la famiglia Gandhi, ed è fondamentale nell’approccio verso se stessi e verso il prossimo, anche a seguito di un reato. Quando una persona finisce in carcere, la responsabilità è collettiva, il fallimento è dell’intero sistema; quindi, non ha senso un approccio basato su giudizio, punizione, esclusione, emarginazione, che, peraltro, come evidenziano ampiamente i dati sulla recidiva in Italia, risulta inefficace in termini di sicurezza sociale. Ma c’è di più: questi atteggiamenti sono addirittura dannosi per la salute di chi li attua. La scienza ci dimostra che gentilezza, compassione, perdono, empatia, gratitudine, migliorano la nostra salute psico-fisica. Ho avuto l’onore di divulgare questi studi con una ricercatrice di Harvard, la dott.ssa Immacolata De Vivo, esperta mondiale nel campo dell’epidemiologia molecolare e della genetica del cancro, attraverso il libro “Biologia della Gentilezza”, da cui è nato spontaneamente il Movimento Italia Gentile. Le evidenze sono chiare: dal mio benessere dipende il benessere dell’altro e viceversa. L’uomo è naturalmente predisposto a prendersi cura del prossimo. È il superamento del vecchio fraintendimento per cui sopravvivrebbe il più forte, inteso come il più aggressivo, competitivo. Mentre è la collaborazione la chiave, la vera strategia evolutiva vincente. Siamo tutti interconnessi, anche il Covid ce lo ha insegnato. Per affrontare il tema della giustizia, quindi, serve il coinvolgimento di tutti: chi ha commesso un reato, gli operatori, le istituzioni, la comunità, ciascuno con le proprie responsabilità. La presa di coscienza di ognuno di noi produrrà un cambiamento, perché il pensiero modifica e genera la realtà. Per questo i nostri interventi nelle carceri attraverso l’Associazione My Life Design Onlus e progetti sociali come Liberi Dentro e “Caro amico ti scrivo...” sono incentrati sul saper Essere. Per integrare il passato, contattare e gestire il proprio ambiente interiore, fatto di emozioni, di pensieri, di credenze, e comprendere il senso profondo dell’esistenza e di sé. In questo modo inizia un processo di trasformazione e consapevolezza: smettiamo di essere violenti nel momento in cui ascoltiamo davvero noi stessi, liberi da falsi condizionamenti. Un recente studio pubblicato dall’Università Cattolica di Milano, condotto in concomitanza con l’avvio di uno dei nostri percorsi, ha evidenziato la stretta relazione tra perdono, gratitudine e contenimento della rabbia tra le persone detenute. Il perdono, nel modello educativo del My Life Design, non ha nulla a che vedere col dimenticare, condonare o subire, ma è un processo attraverso il quale trarre un insegnamento da qualunque accadimento, anche il più terribile, che sia utile per la nostra vita e la nostra evoluzione. Si libera quel vissuto dal dolore, dal senso di colpa, dall’odio, avviando un processo di guarigione, che in virtù dell’interconnessione va a beneficio di tutti. L’esperienza, il vissuto di chi sta scontando una pena detentiva, è uno specchio potente, rappresenta una parte di noi, che spesso rifiutiamo di riconoscere. Quando ho iniziato a entrare in carcere mi sono accorto che quelle persone erano maestri: potevo imparare dal loro dolore, dalla loro solitudine. E lo stesso vale ora per i tanti volontari della My Life Design Onlus che sono in contatto con altrettante persone detenute, mediante scambi epistolari. Creiamo insieme dei ponti, tra interno ed esterno, dei processi inclusivi, che stanno generando nuove consapevolezze e benessere. La sicurezza non si raggiunge con l’isolamento di chi ha sbagliato, con la privazione di libertà e dignità, ma attraverso l’inclusione, la giustizia sociale, l’educazione: occorre quindi una società di individui partecipi. Il modello proposto dal My Life Design è quello di una giustizia consapevole che consenta sia a chi ha subito un danno che a chi lo ha causato di rielaborare il proprio vissuto, in un processo di autentica trasformazione che porti speranza e armonia. *Fondatore di My Life Design Onlus Caso Cucchi, la richiesta del pm: “7 anni al generale Casarsa per il depistaggio” di Andrea Ossino Corriere della Sera, 24 dicembre 2021 Ecco le richieste di condanna del sostituto procuratore Musarò agli ufficiali dell’Arma che hanno offuscato la verità sulla morte di Stefano nell’ottobre del 2009, quando era nelle mani dello Stato. Hanno offuscato la verità, opacizzato i fatti, stravolto gli eventi e depistato chi ha cercato di ricostruire cosa è accaduto nell’ottobre del 2009, quando Stefano Cucchi è morto mentre era nelle mani dello Stato. È questa la tesi del sostituto procuratore Giovanni Musarò che giovedì pomeriggio ha chiesto sette anni di carcere per il generale Alessandro Casarsa. Per i depistaggi oltre a Casarsa all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, sono imputati altri 7 carabinieri, tra cui Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Gli otto carabinieri sono accusati a vario titolo e a seconda delle posizioni di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Oltre a Casarsa e Sabatino, sono a processo Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti tenente colonnello e capo ufficio del comando del Gruppo Roma; Luciano Soligo, all’epoca dei fatti maggiore dell’Arma e comandante della compagnia Roma Montesacro; Massimiliano Colombo Labriola, all’epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza; Francesco Di Sano, all’epoca in servizio alla stazione di Tor Sapienza; Tiziano Testarmata, comandante della quarta sezione del nucleo investigativo dei Carabinieri e il carabiniere Luca DeCianni, accusato di falso e di calunnia. “Non è un processo contro l’Arma dei carabinieri”, ha spiegato il pm. Ma sul banco degli imputati c’è il generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma, Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, Francesco Di Sano, Francesco Cavallo all’epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma, in servizio la notte dell’arresto, il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, e il carabiniere Luca De Ciani. Mentre “l’Arma, a partire dal 2018”, ha “collaborato lealmente” al caso Cucchi, precedentemente le indagini sulla morte del ragazzo sono state caratterizzate da depistaggi e bugie che hanno stravolto la narrazione degli ultimi giorni di Stefano Cucchi, detenuto prima in caserma, poi in carcere e infine all’ospedale Sandro Pertini. I testimoni che hanno raccontato quello che è accaduto il 15 ottobre 2019 sono stati ritenuti attendibili, perché “la notizia del pestaggio di Stefano Cucchi ad opera dei carabinieri in borghese non era stata divulgata all’epoca dai media e neppure era conoscibile dalle parti”. Tra le testimonianze rilevanti c’è quella di un mlitare “dalla schiena dritta”, Pietro Schirone. Ha ricordato che Cucchi lamentava anche dolori alla testa. “Quindi Schirone e Mollica (Stefano Mollica, ndr) -ha detto il pm Musarò - dicono di aver capito che era successo qualcosa e che erano coinvolti i carabinieri. Tornando da piazzale Clodio dice Mollica ‘eravamo turbati perché insinuavano dubbi sulla catena che mi ha preceduto’. I depistaggi sarebbero iniziati nel 2009, con i primi dubbi sulla morte di Stefano Cucchi. Bisognava metterli a tacere. Quindi, secondo l’accusa, furono fatte annotazioni che dipingevano “un ragazzo compromesso” e anticipavano, addirittura, le conclusioni che i medici della procura avrebbero depositato solo dopo alcuni mesi. Così quando l’allora ministro della Giustizia andò in Parlamento a spiegare l’accaduto, riportò circostanze non vere, perché basare su falsità che gli sarebbero state confezionate. Poi sarebbero continuate fino “al febbraio 2021 - ha detto il pm - Sono state alzate tante cortine fumogene che cercheremo di diradare. Il depistaggio del 2009 è particolare. E questo perché nel 2009, soprattutto dopo la pubblicazione delle fotografie del cadavere di Stefano Cucchi, con il volto tumefatto, tutti chiedono la verità sulla sua morte. Viene organizzata un’attività di depistaggio che viene portata avanti scientificamente”. E ancora: “La vera finalità di questo depistaggio sconcertante non era solo depistare l’autorità giudiziaria, ma farlo anche da un punto di vista mediatico e politico”. In altre parole “si è voluto riscrivere una verità. Il politraumatizzato Stefano Cucchi che muore di suo, e sono riusciti a farlo credere, incredibilmente, per sei anni. C’è stata un’attività di depistaggio ostinata, che a tratti definirei ossessiva. I fatti che oggi siamo chiamati a valutare non sono singole condotte isolate ma un’opera complessa di depistaggi durati anni”, ha detto il pm. La richiesta di condanna per quei carabinieri è una rivincita dello Stato di Ilaria Cucchi La Stampa, 24 dicembre 2021 Sette anni di reclusione per il Generale Alessandro Casarsa. 5 anni e sei mesi per il Colonnello Francesco Cavallo. 5 anni per il Maggiore Luciano Soligo. 4 anni per il Capitano Testarmata. 3 anni per l’Appuntato Di Sano. 3 anni per il Colonnello Sabatino. 1 anno ed un mese per il luogotenente Colombo Labriola. 5 anni per il maresciallo Luca De Cianni. Con interdizione dai pubblici uffici per tutti. Queste le richieste di condanna degli imputati avanzate difronte al Tribunale di Roma dal Pubblico Ministero, Dott. Giovanni Musarò, alla conclusione della sua durissima requisitoria. Toccante è stato il ricordo che ha voluto fare del primo Giudice di questo processo, Dottoressa Giulia Cavallone, che purtroppo nonostante la sua giovane età è venuta a mancare. Un lavoro enorme, quello della procura di Roma per mano dei PM Musarò e Prestipino. Una strada aperta dal Procuratore Pignatone. Riguardo al luogotenente Colombo Labriola, che ha comunque avuto il coraggio, fin da subito, di parlare e raccontare tutta la verità, anche contro di sè, parlerà il 7 gennaio il nostro avvocato Fabio Anselmo. Per tutti gli altri imputati non riesco a non provare un senso di vomito e disgusto che è direttamente proporzionale alla levatura dei gradi che portano le loro divise ed al prestigio che avevano ed hanno o, meglio, pensano ancora di poter avere. Il dolore che hanno inferto a me ed ai miei genitori non è inferiore a quello che abbiamo dovuto sopportare per l’uccisione di Stefano. Hanno annientato la nostra dignità di esseri umani tutti, compresa quella di mio fratello che, da morto, non ha potuto difendersi. Una strategia cinica e crudele avviata fin da subito, a cadavere ancora caldo. Il 7 gennaio spiegheremo come e perché. La spocchia che hanno esibito durante tutto il processo voleva essere ammonitrice nei confronti del Tribunale a voler letteralmente ostentare il fatto che loro si considerano superiori a tutto ed a tutti. Anche alla Legge. Perché ciò gli è consentito dalle loro divise, anch’esse macchiate del sangue di mio fratello come quelle dei loro sottoposti che lo hanno pestato violentissimamente la notte del 15 ottobre 2009. Coloro che hanno voluto proteggere per salvaguardare le loro carriere. Così ha detto il dott. Musarò. Una scala gerarchica chiusa su se stessa che non si è fatta alcun problema, per l’onore dell’Arma dei Carabinieri, a porre in essere condotte criminali nascondendosi dietro divise e gradi che non meritano di portare. Quell’Arma che si è costituita parte civile nel processo e che vorrà dire la sua verità subito dopo l’intervento del mio avvocato. Per ultima. Starò molto attenta a ciò che dirà l’avvocato di Stato su quanto eroicamente ricostruito e dimostrato dal Pubblico Ministero in udienza in 15 ore di discussione. E su quanto diremo noi. La costituzione dell’Arma dei Carabinieri come parte civile, affianco a noi, mi ha scaldato il cuore. Mi ha permesso di urlare in faccia, con ancora più forza, a coloro che ci accusavano di essere il partito dell’anti Polizia che questa era una falsità violentemente bugiarda. Abbiamo lottato, insieme agli agenti della polizia penitenziaria per avere verità e giustizia per sette lunghi anni, ma gli uni contro gli altri. Poveri contro poveri, le cui vite sono state oggetto di un risiko cinico e spietato giocato da questi uomini come se fossimo pedine da manovrare prive di qualsiasi rilevanza e rispetto. Provo tanta amarezza e dolore ma anche tanta riconoscenza verso questi magistrati. Ora l’avvocatura di Stato avrà il difficile compito di far sentire la sua voce dimostrando al Paese che quella costituzione di parte civile non è stata una mera operazione di facciata, come tanti sostengono, ma un atto di forte presa di coscienza dello Stato che, questa volta, non può mancare l’occasione di essere dalla parte giusta. Quella del diritto. Del rispetto della dignità umana e della sacralità del patto sociale. Lo Stato che dimostra, finalmente, di saper processare anche se stesso nello stesso modo con cui legittimante lo fa nei confronti dei suoi cittadini. Abbiamo dato dodici anni di vita per arrivare a questo, e altri ne daremo, ma io credo proprio che ne sia valsa la pena. Così mi piace pensare, per Stefano e per tutti gli ultimi di questo Paese. Nella cella di Leoluca Bagarella, detenuto al 41-bis nel carcere di Bancali di Lirio Abbate L’Espresso, 24 dicembre 2021 Nel carcere di Sassari, il boss mafioso ha scelto la totale solitudine. Gioca a carte e prova a fingersi pazzo. Sperando nella fine dell’ergastolo ostativo. Come una iena che fiuta la preda e scatta di colpo per afferrarla. E quando non ci riesce ulula, sbraita e inveisce usando lo slang del mafioso corleonese. La iena è Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, stragista, autore di centinaia di omicidi, donne e bambini compresi. Trascorre il suo tempo nella sezione detenuti al 41 bis del carcere Bancali di Sassari. Ogni volta che annusa nel corridoio davanti all’ingresso della sua cella una presenza estranea si lancia verso la porta blindata e inizia a urlare parole offensive, cariche di odio. Lancia oggetti contro il muro in segno di protesta. O di ribellione. Una scena isterica che dura qualche minuto. Poi torna ad essere calmo e fermo. Oggi trascorre l’ora d’aria da solo (ne fa tre ore al giorno), in una stanza in cui ha a disposizione una cyclette, un vogatore e un tavolo. Lui, fisico asciutto, alto poco meno di un metro e settanta, con il cappello nero di lana calato fin sopra gli occhi, se ne sta seduto al tavolo con le carte siciliane in mano a giocare al solitario, quello a piramide. Vuole restare da solo nell’ora d’aria e non vuole compagnia durante il passeggio. Non vuole stare con nessun altro detenuto. È un lupo solitario. Perennemente alterato. Pubblicamente ha parlato pochissime volte, si possono contare sulle dita di una mano le occasioni in cui ha aperto bocca. Una di quelle volte, forse l’ultima, è avvenuta qualche anno fa durante un processo per omicidio in cui era imputato a Palermo. Lo ricordo bene quel giorno. Bagarella attraverso il videocollegamento ha chiesto la parola durante il dibattimento e mi ha vomitato addosso il suo odio. Mi ha puntato il dito contro, pubblicamente, per contestare alcune storie di mafia che avevo scritto. Il boss, nonostante il 41bis, era riuscito a conoscere l’autore delle notizie riprese dai canali d’informazione e non ci ha pensato un attimo a minacciarmi. I giornalisti gli sono sempre stati antipatici e lui lo ha mostrato, purtroppo, a cominciare dall’uccisione di Mario Francese a Palermo. A distanza di tempo dal suo proclama, la coincidenza ha voluto che ci siamo trovati a poca distanza in linea d’aria. L’occasione di entrare in questo super carcere in cui è rinchiuso Bagarella mi è stata data per incontrare i detenuti che sono nella sezione dell’alta sicurezza in cui si trovano condannati definitivi per mafia o all’ergastolo o altri a cui hanno revocato il 41bis. Una giornata importante organizzata a scopo culturale dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna, guidato da Maurizio Veneziano e dalla responsabile dell’area educativa del carcere, Ilenia Troffa. All’incontro ha pure assistito il magistrato del tribunale di sorveglianza di Sassari. Con alcuni di questi detenuti si è parlato della lotta alla mafia e di giustizia, sono state poste domande e fornite risposte, e ho ricordato che a pochi metri di distanza c’era la cella in cui si trovava l’uomo che ha contribuito a cambiarmi la vita. E questa volta, nel suo campo, usando una metafora calcistica, in trasferta, sono stato io a puntargli il dito contro. A parlare di Bagarella e di quello che ha fatto e degli altri come lui che sono passati da quella sezione e adesso sono liberi di circolare nonostante le pesanti condanne che hanno avuto inflitte dai tribunali. E mentre parlavo, Bagarella era seduto ad un tavolo della stanza in cui fa l’ora d’aria, impegnato a giocare a carte al solitario. Immerso in un silenzio assoluto, dove l’aria sembra ferma. Il suo obiettivo, nonostante le condanne definitive all’ergastolo ostativo e nessun segnale di pentimento, è quello di poter uscire. Ci ha provato durante la prima ondata di pandemia, sfruttando una circolare che allargava le maglie per anziani detenuti con diverse patologie. Lui ha fatto richiesta ma i medici hanno stabilito che non era incompatibile con il regime carcerario. E da alcuni mesi sta provando a far credere che potrebbe avere problemi psichici. Anche questo tentativo è stato respinto. Un vecchio trucco dei mafiosi degli anni Settanta e Ottanta per sfuggire al carcere e continuare a “mafiare” fuori. Chi lo ha incontrato sostiene che durante il colloquio Bagarella si pone “in maniera tendenzialmente educata e rispettosa”. E si presenta in modo molto introverso. Se gli si pongono domande risponde “in modalità ermetica”, all’uso corleonese. Durante la conversazione è lucido e mantiene sempre la logica del discorso, senza mai palesare episodi di disorientamento o di amnesia, ricorda bene tutto e non fraintende le domande che gli vengono fatte. Le conversazioni con Bagarella non lasciano trasparire alcun processo di revisione critica dei delitti che ha commesso e per gli esperti criminologi che lo hanno visitato le “esplosioni di violenza, anche fisica” sono “incompatibili con una ipotesi di deterioramento psicofisico”. Oltre ad essere un sicario, Bagarella si dimostra ancora una volta un corleonese che sa mettere a frutto le proprie strategie. Quando in passato i detenuti avevano compreso che si stava mettendo mano alla legge sul 41bis avevano iniziato a reagire con proteste e messaggi dal carcere. E il 12 luglio 2002 Bagarella davanti ai giudici di Trapani ha letto un proclama: “Parlo a nome di tutti i detenuti ristretti all’Aquila sottoposti al regime del 41bis, stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio… Siamo stati presi in giro… Le promesse non sono state mantenute… Intendiamo informare anche questa Corte che dal primo luglio abbiamo avviato una protesta civile e pacifica che comprende la riduzione dell’ora d’aria e del vitto”. Ma di quali promesse parla il boss corleonese? Chi lo avrebbe strumentalizzato? Il messaggio-proclama firmato qualche mese dopo da altri boss prosegue così: “Dove sono gli avvocati delle regioni meridionali che hanno difeso molti degli imputati per mafia e che ora siedono negli scranni parlamentari e sono nei posti apicali di molte commissioni preposte a fare queste leggi?”. Bagarella nel 2002 aveva una fitta corrispondenza con i detenuti vicini all’area corleonese stragista ma anche con quelli appartenenti ad altre organizzazioni criminali. Le lettere analizzate dagli investigatori apparivano innocue, ma c’erano degli elementi che destavano qualche sospetto: veniva per esempio citato di continuo il Milan. Un riferimento che potrebbe essere logico fra detenuti tifosi di calcio, ma gli analisti all’epoca hanno sovrapposto la squadra di calcio al suo presidente e la sigla delle corse automobilistiche (F1) a quella di un partito (FI). Quindi Silvio Berlusconi e Forza Italia, che in quel momento storico è al governo. Bagarella non è un mafioso qualunque. È un capo di Cosa nostra. O, per meglio dire, è uno dei soci fondatori di quella fazione, i corleonesi, che ha dominato la scena nell’organizzazione, piegando al suo volere l’intera cupola. Il suo carisma è personale, e non deriva solo dal fatto di essere cognato di Riina. Dunque, Bagarella non parlava a titolo personale, parlava a nome di Cosa nostra, nella pienezza della sua capacità rappresentativa. E gli altri partecipavano alla protesta inscenando manifestazioni, sia pur pacifiche. Per Bagarella stravedeva suo cognato. L’unica volta che Salvatore Riina ha potuto incontrare in un colloquio il figlio Giovanni, anche lui detenuto per omicidio, hanno parlato dello “zio”. Occorre ricordare che Giovanni è stato condannato all’ergastolo per l’uccisione di una giovane coppia, vittima innocente, perché era stato Bagarella a chiedergli di ucciderli. Era il suo battesimo del fuoco. Adesso padre e figlio sono in carcere e il capomafia ricorda a Giovanni di salutargli lo zio quando gli scriverà. “Si, certo, ogni domenica quando scrivo a te, scrivo anche a lui e alla mamma”, risponde Giovanni. E Totò dice: “Rispettatelo sempre, che volete povero uomo sfortunato, anche lui nella vita… proprio sfortunato nella vita per quello che gli è successo, purtroppo questa è la vita, andiamo avanti”. Il riferimento è alla morte di Vincenzina Marchese, la moglie di Bagarella, deceduta durante la latitanza del sicario che trascorrevano insieme. Lei era la sorella di un collaboratore di giustizia, molto religiosa, e credeva di non riuscire ad avere un figlio dal marito perché Dio non voleva per punirli di tutti gli omicidi che lui aveva commesso, compreso quello del piccolo Giuseppe Di Matteo. Sulla morte della donna, che alcuni collaboratori dicono che si è suicidata, c’è un grande mistero, e il suo corpo non è stato fatto mai trovare. Qualcuno ipotizza invece che Vincenzina avrebbe maturato l’idea di seguire la stessa strada del fratello e collaborare e questa scelta scoperta da Bagarella l’avrebbe portata alla morte. Salvatore Riina insiste con il figlio, e gli ricorda: “Voletevi bene voi fratelli e pensate sempre a questo zio”. Durante una missione a Bancali, quattro anni fa, di una rappresentanza di parlamentari della Commissione antimafia, l’allora vicepresidente Claudio Fava è stato condotto con gli altri suoi colleghi nel corridoio della cella di Bagarella e qui il parlamentare rivolgendosi al cognato di Riina, dice: “Buon giorno, siamo dell’antimafia”. Bagarella lo guarda dritto in faccia e ribatte: “E che siete venuti a fare? Qui mafia non ce n’è...”. Leoluca questa volta non ha fatto il pazzo, ma nega o ironizza davanti all’evidenza. Nella mia visita in questo istituto di massima sicurezza, la iena non avrà annusato alcuna “strana” presenza, non ha percepito nulla che lo può aver allarmato nella sua cella, che è una stanza di dodici metri quadrati in cui c’è un bagno, un lettino e un angolo dispensa. Non è certamente quello spazio ristretto in cui sono costretti a stare o quelli in alta sicurezza o ancor peggio i detenuti comuni, anche otto per cella, dove il più giovane o l’ultimo arrivato sono sottoposti a disumane gerarchie. A Bancali le camere per gli 88 detenuti al 41bis sono tutte le stesse, ampie e pulite. Materassi ortopedici e cuscini adatti per la cervicale. I corridoi sembrano corsie di ospedale: luminose, pareti bianche colorate con strisce verdi, e pavimenti pulitissimi. E il silenzio regna sovrano. L’assistenza sanitaria è al top, e quando le cure richiedono uno specialista, il boss su indicazione del giudice di sorveglianza viene inviato all’esterno del carcere per le visite mediche, finanche per i massaggi indicati dai medici per la loro terapia. Quando arrivi e superi due grandi e massicci portoni in ferro che si aprono automaticamente, vedi all’interno tanti grandi cubi in cemento armato di colore grigio che sbucano dalla terra. È la sezione dei 41bis e sono sistemati in fila su un enorme appezzamento di terreno che si estende per circa dieci ettari. Intorno non c’è nulla. È tutto protetto da un alto muro di cinta sorvegliato giorno e notte da agenti armati che stanno dentro casette che hanno grandi vetri blindati. È una struttura carceraria moderna, all’avanguardia, progettata e realizzata secondo le norme di legge per ospitare i mafiosi più pericolosi. Le celle sono state sistemate in modo che ogni detenuto non si incontri con altri per andare al “passeggio” o quando si reca ai colloqui con familiari o con il difensore. Hanno tutti percorsi unici, che si sviluppano dentro il loro cubo, senza attraversare lunghi corridoi davanti ad altre celle, in cui un gesto, un movimento del corpo può già lanciare o ricevere un messaggio. E Bancali è unico nel suo genere. Per questo è temuto dai 41bis, e nessuno vuole finirci qui dentro. E i mafiosi, di contro, fanno la guerra a colpi di carte giudiziarie al direttore o agli agenti penitenziari, denunciandoli per ogni piccola cosa, finanche per aver ricevuto un libro con le pagine sgualcite. E così il mafioso denuncia, anche per conoscere l’identità dei nuovi agenti o del nuovo direttore e questi, per difendersi in tribunale, sono costretti a pagarsi l’avvocato, perché l’amministrazione penitenziaria non rimborsa tutta la parcella. Così è una guerra persa per lo Stato. Il popolo dei boss vede ospite della struttura sarda, oltre a Bagarella, anche Aldo Ercolano di Catania, Gaetano Fontana, Salvatore Madonia, Settimo Mineo, Francesco Tagliavia, tutti di Palermo, e poi Domenico Gallico di Palmi, Antonio Pelle di San Luca e Francesco Pesce di Rosarno, Salvatore Casamonica di Roma, Valentino Gionta di Torre Annunziata, Michele e Vincenzo Zagaria di San Cipriano D’Aversa. Sono al 41bis, e tutti cercano di uscirne. Anche se questo speciale regime detentivo si è svuotato rispetto a trent’anni fa quando venne applicato per la prima volta dopo le stragi di Falcone e Borsellino. Nel tempo si è assistito ad una sostanziale metamorfosi rispetto alla modalità di affrontare il 41bis da parte del detenuto, passando da “non chiedere nulla allo Stato”, secondo la “vecchia mentalità omertosa mafiosa”, ad una attività speculativa tendente all’ottenimento di una carcerazione più confortevole mediante espedienti che sfruttano i principi costituzionali. Come fa notare uno degli uomini che si occupano ogni giorno di questo speciale regime carcerario: “Non si tratta di guardare nostalgicamente al passato rinverdendo il ricordo di ciò che è stato e che non è più, ma ripercorrere le tappe è un atto necessario alla comprensione di come il “carcere duro”, per come lo immagina chi non lo conosce, si sia elevato a “carcere elitario”, essendosi, di fatto, snaturata la ratio e la finalità del 41bis, ampliando le maglie di quella impermeabilità, anche all’interno dell’amministrazione, che doveva contraddistinguerlo”. Oggi Bagarella rimane l’ultimo del poker d’assi corleonese (Liggio, Riina e Provenzano) che ha provato a piegare lo Stato, incamerando pure molti segreti. Adesso fra le mura di Bancali prova a mostrare la sua astuzia per tentare di uscire sfruttando gli strumenti legislativi che la politica e i nuovi indirizzi giuridici gli offrono, a cominciare dall’annullamento dell’ergastolo ostativo ai mafiosi duri e puri. Emergenza prigioni, la Lombardia non fa eccezione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 dicembre 2021 Il Garante nazionale delle persone privare della libertà, rende noto che nei mesi di novembre e dicembre ha effettuato una visita regionale in Lombardia effettuando il monitoraggio di diverse strutture: sette Istituti penitenziari per adulti e quello milanese per i minori; il Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Milano; quattro Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) dislocati in diverse città; la ‘multiforme’ Rems tuttora plurimodulare di Castiglione delle Stiviere; una residenza sanitaria assistenziale di Bergamo e alcune camere di sicurezza delle Forze di polizia delle città toccate dalla visita. Le criticità complessive delle strutture penitenziarie coinvolte nella visita riflettono molte delle problematicità riscontrabili a livello nazionale: dall’affollamento, alla carenza di una complessiva ‘ visione’ di una esecuzione penale costituzionalmente orientata, alla carenza di risorse ai diversi livelli (di direzione, di personale delle varie funzioni tutte ugualmente essenziali in un Istituto, di dialogo concreto con le strutture sanitarie territoriali). La necessità di costruire un rapporto diverso con la sanità territoriale - e all’interno della struttura stessa tra le due amministrazioni - è emersa in modo particolare nella Casa di reclusione di Opera che pure ospita una struttura potenzialmente qualificabile come ospedaliera. Questo aspetto è stato sollevato anche in occasione dell’incontro avuto con la Vice- Presidente della Regione, Letizia Brichetto Moratti. Gli Istituti visitati sono stati, oltre a quello di Opera, quelli di Bergamo, Brescia ‘Canton Mombello’ e Brescia Verziano, Pavia, Voghera, Monza. In alcuni casi si è trattata di una visita di follow- up, dopo quella del 2017; la situazione riscontrata ha però confermato le criticità allora rilevate. Positiva invece la prima visita all’Istituto di Verziano. L’Istituto minorile di Milano è tuttora in attesa di finire i lavori di ristrutturazione: l’annuncio di uno sblocco dei lavori lascia sperare, anche se quanto riscontrato al momento risente del perdurare di tale situazione. Il Garante osserva che in tutto il territorio deve essere potenziata una rete di effettiva presa in carico delle molte criticità di natura comportamentale o psichiatrica che proponga soluzioni di continuità ed eviti sia il rischio di internamento o di assenza di effettiva risposta ai bisogni espressi, sia il loro ricadere su personale non professionalmente formato per tale compito. Resta tuttora aperta la peculiarità della situazione di Castiglione delle Stiviere, esplicita anche nella sua stessa denominazione di “sistema plurimodulare di Rems provvisorie”. La visita al ‘Centro di permanenza per i rimpatri’ è stata seguita da un dialogo con il Prefetto di Milano, in una fase, quale quella attuale, di ridefinizione del Regolamento per la permanenza in tali strutture. I temi affrontati hanno, quindi, riguardato criticità d’ordine generale, già evidenziate in precedenti visite e in Rapporti tematici su tali strutture prodotti e resi pubblici dal Garante nazionale. Anche alle visite alle camere di sicurezza sono seguiti incontri con i vertici delle Forze di Polizia responsabili. Oltre a quelli precedentemente incontrati, le delegazioni del Garante Nazionale hanno incontrato i Presidenti dei tribunali di sorveglianza di Milano e di Brescia (attualmente magistrato facente funzione), il Procuratore della Repubblica di Pavia (facente funzione), il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, il Garante regionale la Garante della provincia di Pavia, i Garanti comunali di Milano, Bergamo, Brescia. Le parallele sezioni di formazione dei Comandanti di strutture dell’Arma dei Carabinieri, tenute al Comando provinciale di Brescia e a quello di Pavia, sono state altresì occasioni di scambio e di valutazione circa il tema della privazione della libertà da parte dell’Arma dei Carabinieri. Nelle due sessioni e nell’articolazione in tre sotto- delegazioni, che hanno lavorato in parallelo, la visita ha coinvolto, oltre ai tre componenti del Collegio, tredici componenti dell’Ufficio per complessive ventisette giornate lavorative. Pavia. Tre detenuti suicidi in un mese, interrogazione parlamentare di Italia Viva di Fabrizio Merli La Provincia Pavese, 24 dicembre 2021 “Nel carcere di Pavia sono presenti gravi criticità strutturali, gestionali e rieducative e nell’ultimo mese vi sono stati tre suicidi. Per questi motivi ho presentato una interrogazione al ministro della Giustizia, sulla situazione del carcere pavese e degli altri istituti di pena che registrano analoghi deficit”. A dirlo è la deputata e coordinatrice di Italia Viva Lombardia Maria Chiara Gadda. “La nota del Garante - prosegue la deputata - a seguito della visita del carcere di Pavia parla di condizioni della struttura peggiori rispetto alla sua ultima visita del 2017. Mancano spazi e strumenti per la risocializzazione, molte aree sono degradate e si registrano carenze di personale e risorse nell’area sanitaria. Anche il trattamento e la rieducazione dei detenuti con problemi di dipendenze risulta insufficiente rispetto alle reali esigenze della popolazione carceraria. Situazioni che assommate rendono difficile e gravoso il lavoro della polizia penitenziaria e degli operatori”. A portare in evidenza la situazione di Torre del Gallo, però, sono stati i tre casi di detenuti che si sono tolti la vita. “Il dato sui suicidi dei detenuti è agghiacciante - prosegue l’esponente di Italia Viva - e deve spingere alla pianificazione di interventi immediati. Per queste ragioni chiedo al ministro quali i provvedimenti che si intendono assumere rispetto al carcere lombardo ma anche rispetto alla situazione cronica in cui versano le carceri italiane in materia di sovraffollamento, carenza di personale, manutenzioni ordinarie e straordinarie. I dati diramati dal Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) a giugno 2021 parlano ancora di un notevole sovraffollamento, con 54 mila detenuti totali su 50mila posti disponibili e addirittura nel 31% degli istituti le celle sono prive di acqua calda”. “Occorre quindi un carcere che tenda alla rieducazione e che rispetti i diritti sia dei detenuti sia dei lavoratori. Purtroppo, invece - come denunciato anche dal garante dei detenuti vi sono realtà carcerarie come quelle di Pavia che ancora fanno registrare gravi criticità strutturali, gestionali e rieducativi”. Questa mattina la deputata dei Cinque stelle, Valentina Barzotti e il consigliere regionale, Simone Verni, effettueranno un sopralluogo all’interno del carcere per verificare le condizioni dei detenuti e dei lavoratori. Latina. Troppi detenuti, il carcere diventa un caso nel dossier del Garante di Graziella Di Mambro atinaoggi.eu, 24 dicembre 2021 Superata quota 170% delle presenze, la più alta nel Lazio e anomala anche nel trend nazionale. Anastasìa: “Il Covid ha aggravato una situazione già complicata”. Il carcere di Latina è un caso di rilevanza nazionale e l’ultima conferma arriva dal dossier sui luoghi di detenzione del Lazio presentato dal Garante per i detenuti Stefano Anastasìa. Sono in totale 5.569 le persone in stato di detenzione nei penitenziari, nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza e nel Centro di Ponte Galeria. È stato inoltre fatto il punto sulla campagna vaccinale anti Covid. Un capitolo a parte lo ha meritato la casa circondariale di Latina, nonostante, in linea generale, la situazione “in termini generali appaia migliore di quella nazionale, perché non è in corso un incremento”. La capienza regolamentare delle carceri del Lazio sarebbe di 5.158 detenuti, tanti sono i posti disponibili. Vista in questi termini si tratta una situazione che sembra meno preoccupante di quella nazionale, con una eccezione, Latina appunto. “Da luglio a oggi la popolazione detenuta è in costante crescita e questo ci preoccupa rispetto al futuro, perché il rischio di diffusione del covid-19 in carcere è molto rilevante. - ha detto il Garante a margine della presentazione - È un sistema costantemente sovraffollato e il tasso è del 118 per cento, a fronte del dato nazionale pari al 107 per cento. La situazione più preoccupante è da tempo quella di Latina, dove il tasso di affollamento è al 173 per cento”. Anastasìa ha spiegato che nel carcere pontino, costituito per metà dalla sezione maschile e per metà dalla sezione femminile, il sovraffollamento è tutto concentrato nella sezione maschile. “Latina è stata recentemente teatro di una protesta di detenuti che ha comportato l’intervento delle forze dell’ordine. - ha aggiunto Anastasìa - Inoltre, ‘in una condizione di sovraffollamento superiore alla media regionale e nazionale ci sono anche Civitavecchia, 152 per cento, Roma Regina Coeli, 144 per cento, e Rebibbia femminile, al 134 per cento. Ciò ci dice quanto sia difficile la situazione in questi istituti. In particolare, pesa sulla necessità di molti detenuti di potersi avvicinare ai propri luoghi di vita e ai familiari. Infatti, gli istituti penitenziari sono congelati dall’effetto Covid-19, perché in tanti istituti della nostra regione e non solo ci sono stati molti trasferimenti di diverse decine di detenuti da un luogo a un altro, spesso in altre regioni, e non riescono a tornare nella loro sede originaria. In questo periodo ogni trasferimento va centellinato in quanto va garantita la quarantena all’ingresso in istituto e quant’altro: questo sta rendendo molto complicata la gestione della vita in carcere”. Nello specifico della casa circondariale di Latina va detto che da tempo si ritiene necessaria la realizzazione di un’altra struttura e nonostante i moli progetti interni di integrazione il sovraffollamento rappresenta un macigno pressoché insuperabile nello sforzo di rendere più vivibile lo spazio per le persone detenute”. Trieste. Carcere tra sovraffollamento e Covid, dalla Garante l’ennesimo appello triesteprima.it, 24 dicembre 2021 Elisabetta Burla esprime tutto il suo disappunto per l’assenza, dopo due anni dall’inizio della pandemia, di provvedimenti decisivi e tutelanti. Viavai di persone, il virus corre. Sulla difficile situazione che il carcere di via Coroneo sta vivendo da qualche settimana è intervenuta la garante dei detenuti Elisabetta Burla. Dopo il tentato suicidio, l’escalation di contagi e la presunta presenza di un sanitario no vax all’interno della struttura, la Burla approfitta per fare il punto a due anni dall’inizio della pandemia ed esprimere tutto il disappunto per provvedimenti decisivi e tutelanti che “non sono ancora stati adottati”. Per il garante il carcere di Trieste “non può garantire spazi adeguati, non può - per certo - garantire la misura del distanziamento sociale e, i numeri delle persone detenute sono nuovamente saliti: su una capienza regolamentare di 139 persone ne sono ristrette più di 200”. Cosa succede Un sovraffollamento che si somma alla gestione delle visite, dell’andirivieni di un elevato numero di persone in grado di aiutare la diffusione del contagio. “A distanza di due anni - continua la Burla - siamo di nuovo a disporre quale unico strumento, le chiusure degli Istituti alla società esterna: niente scuola, nessuna attività formativa, nessun corso o percorso organizzato dal volontariato; accessi alla biblioteca, alla palestra o “all’aria” preclusa a tutti coloro che si trovano in quarantena. Progetti di rieducazione e reinserimento interrotti. Ripercussioni sul piano psicofisico particolarmente incisive; con tutte le conseguenze che ne discendono”. Scelte ed interventi Si chiede di rivedere le scelte e interventi seri “che incidano positivamente sulle politiche sociali di accoglienza e inclusione sociale, un avvio altrettanto strutturato ai percorsi di lavoro per garantire una concreta autonomia della persona, il ricorso più incisivo alle misure alternative alla detenzione. Nell’immediato, viste le condizioni attuali della detenzione, sarebbe urgente approvare delle norme volte al contenimento delle presenze in carcere anche attraverso il riconoscimento della liberazione anticipata speciale”. Padova. Siglato progetto di premialità per i lavoratori-detenuti, è la prima volta in Italia padovaoggi.it, 24 dicembre 2021 Sono circa 150 le persone detenute che hanno la possibilità di lavorare e di poter guadagnare uno stipendio fruendo di un “diritto” non scontato in ambito di reclusione. Un’attività di lavoro vero e proprio che li occupa mattina e pomeriggio a seconda del tempo a disposizione dal lunedì al venerdì e che consente loro di poter impiegare fattivamente il tempo che altrimenti passerebbero nei corridoi o nelle celle: siglato al “Due Palazzi” di Padova (prima volta in un carcere italiano) un progetto di premialità per i lavoratori-detenuti impiegati dalla cooperativa sociale Giotto al Due Palazzi di Padova, nelle attività di call center e assemblaggio. Carcere e lavoro - Non una realtà semplice o comune a tutti ma un impiego che segue un percorso molto attento di valutazione e che coinvolge circa il 30% di tutta la popolazione residente della Casa di Reclusione di Padova. Sono perciò circa 150 le persone detenute che hanno la possibilità di lavorare e di poter guadagnare uno stipendio fruendo di un “diritto” non scontato in ambito di reclusione. L’importanza di questi dati parla da sola se si considera che a livello nazionale la percentuale di occupazione vera e propria all’interno delle carceri è dell’1,5%. Ma il dato più impressionante è che le persone detenute che trascorrono la pena lavorando durante la pena invece di tornare a delinquere (quella che va con il nome di recidiva) tra l’1% ed il 5 % anziché nel 70% dei casi (merita specificare che se la recidiva ufficiale è del 70% quella reale si attesta al 90%). Occorre aggiungere un ultimo dato per far comprendere il livello di ricadute che con tale azione si generano nei confronti della società e cioè di ciascun cittadino ed è il costo giornaliero del detenuto che di soli costi diretti ammonta a circa 200 euro al giorno. Da oltre due anni la Cisl Fp Padova-Rovigo, attraverso un progetto mirato, offre consulenza ai detenuti impiegati in attività lavorative del Carcere Due Palazzi di Padova dove trovano residenza coloro che per diversi reati sono reclusi. Evidenzia Michele Roveron, segretario generale della Cisl Fp: “Vengono fatte le domande di assegni familiari, la richiesta di elenco delle proprie pendenze con il fisco e spesse volte pervengono domande di chiarimento su temi di carattere contrattuale: riteniamo opportuno affiancare mensilmente i nostri iscritti con un nostro operatore proprio lì dove lavorano, perché per loro è difficile poter ottenere delle risposte in ambito fiscale e previdenziale non potendo accedere al mondo esterno”. Sportello - In particolare l’attività di sportello viene svolta proprio nell’area di “produzione” del Due Palazzi di Padova, fra il call center che segue, ad esempio, le richieste di prenotazione delle Ulss 3 e 6 ed il reparto di assemblaggio, dove, sulla base delle commesse vengono realizzate varie tipologie di lavorazioni a carattere artigianale con alta precisione come ad esempio la produzione di tacchi per scarpe di alta moda. Evidenzia Franco Maisto della Cisl. che dal 2019 segue i lavoratori della cooperativa sociale Giotto di Padova: “Siamo di fronte ad un percorso di impiego in ambito lavorativo che consente di poter ottenere il riconoscimento di un diritto altrimenti affievolito o negato: non è certo un percorso semplice, vengono attentamente valutati da equipe di educatori, psicologi e personale della polizia penitenziaria e quindi viene dato l’accesso in ambito lavorativo. Tutto ciò che guadagnano per loro ha un’importanza molto forte. Oltre ad inviare delle somme economiche alle famiglie (elemento questo importante che permette di tornare a risentirsi padri dei propri figli oltre che mariti), in molti casi permette di iniziare a pagare i debiti con l’erario, ma soprattutto a pagare le spese di mantenimento in carcere”. L’ambiente a cui si fa riferimento è certamente poco conosciuto ai più, è però importante sottolineare quanto il lavoro tramite le cooperative presenti in carcere offra una vera e propria alternativa al fatto di dover scontare una pena senza una prospettiva di reinserimento reale. Gli sguardi, l’azione ed i momenti formativi consentono ai reclusi provenienti da tutta Italia di poter iniziare un cammino che porta risultati positivi per tutta la società, una crescita personale ed una consapevolezza che il rispetto delle regole porta. Il percorso, portato avanti dalle realtà del terzo settore al Due Palazzi, oltre a produrre beni e servizi per la comunità esterna, consente ad ogni recluso di fare un passo verso una vita più normale: vi è un percorso di formazione, quindi di inserimento lavorativo e la possibilità di guadagnare uno stipendio più che dignitoso grazie al tempo dedicato al lavoro, quando non vi sono obblighi per udienze, trasferimenti, richieste dei magistrati o altre esigenze dell’istituto. Accordo - Un lavoro che contribuisce a dare una reale prospettiva grazie a stipendi dignitosi in linea con i contratti collettivi di settore. Le persone detenute svolgono una attività lavorativa volontariamente senza alcuna costrizione, anche se molto spesso inframmezzata da obblighi legati a percorsi giuridici o di altra natura. “Oltre a questo importante compito svolto dalle cooperative che danno lavoro al Due Palazzi, occorre sottolineare la presenza di molteplici occasioni di formazione scolastica, culturale, sportiva, editoriale, musicale e di assistenza volontaria più in generale. La possibilità di avere occasioni di lavoro è di fatto dare delle speranze, specie a chi ha da trascorrere molti anni prima di tornare alla vita normale. L’impegno e la professionalità degli addetti ai call center, così come in ambito produttivo, è stato oggetto di un importante approfondimento e confronto con la cooperativa Giotto che ha portato ad un significativo riconoscimento del lavoro e dell’impegno anche in termini di un incentivo economico”. Un accordo quello siglato in data 23 dicembre 2021 che rappresenta un ulteriore mattone per la storia del carcere in Italia, che dimostra che il lavoro consente una vita migliore e che con la dedizione con la quale ognuna delle persone che lavorano in cooperativa dentro il carcere può ricevere un incentivo legato a dei parametri oggettivi: quali la qualità del servizio erogato, l’assenza di procedimenti disciplinari e il completamento del percorso di inserimento. Ci sarà quindi un premio a disposizione dei lavoratori, stimolo a fare ancora di più squadra in un viatico che li avvicini il più possibile ad un lavoro normale. Cisl - Conclude Franco Maisto della Cisl: “Al di là dell’aspetto economico che consente, con questo accordo firmato all’interno della Casa di Reclusione Due Palazzi, di garantire un aiuto in più ai reclusi e alle loro famiglie, si vuole mettere in luce che l’esempio del carcere di Padova possa tornare utile per tutti gli istituti di reclusione d’Italia, portare il lavoro dentro il perimetro carcerario consente di preparare persone per il mondo del lavoro e di dare loro una piena consapevolezza di dignità e orgoglio. Ora è il momento di una promozione di questo tipo di servizi perché tenere impegnate le persone le prepara ad una nuova vita. Siamo convinti della bontà dello sportello che realizziamo mese per mese dal 13 giugno 2019. Le attività che vediamo direttamente, i lavoratori inseriti in call center e gli ambienti di lavoro della cooperativa, pur avendo il confine della reclusione, danno l’idea di essere in un normale contesto lavorativo. Abbiamo la speranza che tutto il nostro lavoro svolto in ambito sindacale possa essere il più possibile conosciuto all’esterno, in modo tale che questo sistema virtuoso e collaborativo possa essere replicato in tante altre strutture, il tutto a beneficio della collettività”. Bologna. Con ago e filo per ridare senso a una vita “chiusa” di Giorgia De Cupertinis Il Resto del Carlino, 24 dicembre 2021 Dentro il carcere bolognese della Dozza il progetto di sartoria con “Gomito a gomito”. Formazione, lavoro e reinserimento sociale i tessuti sono donati dalle case di moda, vendite online e ai mercati. Ci sono luci che non si limitano a brillare sull’albero di Natale, ma riescono a filtrare anche il buio delle strutture detentive. Era il 2010 quando il laboratorio sartoriale “Gomito a Gomito”, gestito dalla cooperativa “Siamo Qua”, ha trasformato l’arte della sartoria in uno strumento capace di restituire dignità ai detenuti del carcere della Dozza, per offrire loro un mestiere distinto e retribuito. Se scommettere sul lavoro in carcere significa “promuovere la funzione rieducativa della pena”, come sottolineato da Enrica Morandi, coordinatrice del progetto, i detenuti stringono così tra le mani la possibilità di una ‘seconda chance’ da ridisegnare con ago e filo. Un auspicio che, anche sotto Natale, gonfia i cuori di chi trascorrerà le feste lontano da casa. “Gomito a gomito” è un progetto che fa della creatività e della formazione degli strumenti efficaci per volgere lo sguardo delle detenute al futuro. In cosa consiste? “Undici anni fa abbiamo sperimentato la possibilità di avviare un laboratorio sartoriale all’interno del carcere. Attraverso la donazione di tessuti da parte di case di moda, aziende o associazioni, le detenute creano prodotti unici e artigianali, che vengono poi venduti via e-commerce o attraverso mercatini, compresi quelli natalizi. Operiamo sia nella struttura detentiva con chi deve scontare la pena all’interno, sia in una sede in via Jacopo della Quercia, per coloro che risiedono in strutture esterne: pensare ad una prospettiva futura rappresenta uno stimolo fondamentale per riprendere realmente in mano la propria ‘seconda’ vita e reintegrarsi, una volta uscite, nella società. È un aspetto significativo anche dal punto di vista relazionale: far parte di un progetto di sartoria si traduce in uno status, che consente loro di produrre e avere un ruolo”. Durante le festività, la solitudine dei detenuti tende ad accentuarsi. Qual è la giusta chiave per affiancarli in questa realtà? “Il nostro è un progetto di condivisione, che si traduce in un lavoro quotidiano capace di far riacquistare fiducia in sé stessi e dove fin dall’inizio abbiamo preso a cuore la formazione delle ragazze. La realtà del carcere non è semplice e il giorno di Natale si rivela quasi sempre come un momento duro da sopportare: durante le feste natalizie, così come nel mese di agosto, si percepisce come le detenute sentano nostalgia delle attività ludiche e ricreative. La passione e l’impegno che investono in questo progetto è tangibile, tanto che quest’anno ci hanno chiesto di abbreviare il periodo di chiusura festiva e così faremo, ricominciando in anticipo: il motto “finalmente è lunedì” si traduce, in questo senso, nella loro voglia di continuare a stare in contatto con chi viene dall’esterno, che sia la sarta o chiunque prenda parte al progetto, per riprendere rapidamente l’attività”. La consapevolezza di appartenere a un progetto aiuta quindi ad accorciare le distanze dalla società circostante… “Il Natale per i detenuti continua a essere un momento che si condivide prevalentemente con sé stessi, soprattutto in un periodo ancora segnato dalla pandemia. Nonostante si cerchi di trascorrere del tempo insieme alle compagne o prendendosi cura di sé, i pensieri continuano a essere pesanti e il periodo festivo, certamente, non aiuta. Così, sentirsi parte di un progetto può essere d’aiuto: ci sono detenute che lavorano con noi da anni”. Como. I detenuti del Bassone imparano a fare i maniscalchi di Paola Pioppi Il Giorno, 24 dicembre 2021 Nella Casa circondariale ha preso il via in questi giorni un corso per apprendere tutti i segreti dell’arte di ferrare cavalli e bovini. È partito, all’interno del Bassone, il primo corso di formazione per tecnico di mascalcia, l’arte della ferratura degli zoccoli di cavalli e bovini, e più in generale la professione che fa capo alla bottega del maniscalco. Il corso professionale è stato organizzato da Egea, Ente Nazionale Guide Equestri Ambientali, e al momento ha raccolto l’adesione di venti detenuti. Sono stati coinvolti in una vera e propria formazione professionale, e al termine del percorso conseguiranno un brevetto, che equivale al titolo sportivo riconosciuto dal Coni, e consente di esercitare la professione. Si tratta di un primo corso, mentre lo svolgimento del secondo corso è previsto il prossimo anno, nel 2022. “Questa significativa iniziativa - spiega Fabrizio Rinaldi, direttore della casa circondariale - finanziata dall’Amministrazione Penitenziaria vuole promuovere lo sviluppo della formazione professionale e del lavoro dei detenuti. Si è resa possibile grazie alla disponibilità dei Egea, e alla preziosa collaborazione del personale dell’Area Educativa e di Polizia Penitenziaria dell’Istituto comasco”. Si tratta di una delle prime iniziative organizzate dopo lo stop forzato delle attività, educative e professionali, imposto dal Covid. Napoli. Buone notizie da Poggioreale, il nuovo centro dialisi dà una cura a 4 detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 24 dicembre 2021 Una buona notizia dal carcere di Poggioreale. Da quello che spesso viene descritto come un inferno, arriva una speranza di cura per quattro detenuti, due dei quali erano già reclusi nel grande penitenziario cittadino e altri due in arrivo dall’istituto di Secondigliano. La speranza è legata alla possibilità di sottoporsi regolarmente sedute di dialisi, quindi a vedersi riconosciuto un diritto alla salute che in passato talvolta era stato sacrificato, a causa della mancanza di risorse e personale sufficienti a garantire i trasferimenti dei reclusi nei centri medici specializzati. La speranza è possibile grazie all’attivazione del nuovo servizio di emodialisi domiciliare, promosso dall’Asl Napoli 1 Centro e dalla direzione del carcere di Poggioreale guidata dal direttore Carlo Berdini, con la partecipazione della cooperativa sociale Era e del consorzio di cooperative sociali Gesco. L’inaugurazione del centro si è tenuta nei giorni scorsi. Il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello è stato invitato dal primario dell’ospedale Pellegrini Raffaele Genualdo e dal direttore sanitario del carcere di Poggioreale Vincenzo Irollo a visitare l’area dedicata al servizio emodialisi domiciliare, organizzata appositamente per i detenuti in cura presso il reparto di dialisi dell’ospedale Pellegrini. “Questo servizio di emodialisi domiciliare - ha spiegato il garante - rappresenta il risultato di un’attenta collaborazione tra l’ospedale e la direzione del carcere. Una delle poche esperienze in Italia che permette di ridurre lo stress derivante dal trasporto del detenuto, oltre che diminuire il rischio di infezioni durante la degenza in ospedale e il viavai con il carcere e risparmiare l’impiego di tre agenti, per tre volte alla settimana, per accompagnare in ospedale ogni singolo detenuto”. Per l’Osapp, il sindacato della polizia penitenziaria, la sinergia tra amministrazione penitenziaria e la sanità “deve essere un connubio strategico nell’interesse della sicurezza di tutti, mettendo al primo posto la salute dei reclusi”. Torino. Il Cpr rimpatria solo un migrante su cinque. La Garante: “È inutile” di Bernardo Basilici Menini La Stampa, 24 dicembre 2021 L’analisi dell’ufficio comunale. E la Città si costituirà per la prima volta parte civile nel processo contro i pestaggi in carcere. Meno del 20% delle persone detenute all’interno del Cpr di Torino viene rimpatriata nel proprio paese di provenienza. Numeri che fanno parlare gli addetti ai lavori di “un fallimento del sistema di detenzione amministrativa”. Nei giorni in cui i carabinieri del Nas hanno effettuato una nuova perquisizione, nell’ambito dell’inchiesta aperta dopo il suicidio di Moussa Balde, lo scorso maggio, non si placano i dubbi intorno al Centro di permanenza e rimpatrio. A intervenire sulla questione è l’Ufficio garante dei detenuti del Comune, che da tempo ha messo sotto la lente la struttura: “Dall’inizio dell’anno a fine novembre su 601 persone trattenute solo 111 sono state rimpatriate. I dati mostrano con evidenza il fallimento del sistema, che oltre a essere inefficiente produce inestimabile sofferenza”, la severa relazione della struttura guidata da Monica Cristina Gallo. Insomma, se il Cpr è un posto dove le persone si fermano il tempo necessario al rimpatrio, questa funzione sembra essere tale solo sulla carta. E mentre sono dentro “continuano i tentativi di autolesionismo, che negli ultimi mesi hanno raggiunto cifre paurose: circa 100 eventi critici negli ultimi due mesi”. Pochi giorni fa, peraltro, a seguito di un sopralluogo di esponenti di Luv e Sinistra Ecologista era emerso come per gli ospiti della struttura fosse impossibile vaccinarsi. Una circostanza a cui l’Asl di Torino ha smentito. Ma la vicenda del Cpr non è l’unico argomento a tenere banco nel lavoro dell’Ufficio del garante. Che ieri, durante la conferenza stampa di fine anno del Consiglio comunale, ha ufficializzato “l’atto di costituzione di parte civile” nell’ambito dell’inchiesta per maltrattamenti aperta dalla procura di Torino su 23 agenti di polizia penitenziaria del carcere cittadino Lorusso-Cutugno. Una decisione formalizzata lo scorso 18 dicembre durante l’udienza preliminare, che “ha visto il sostegno della giunta comunale”, che a metà del mese in corso ha deciso di sostenere quell’iniziativa per le vie istituzionali. D’altronde la situazione di prigioni e Cpr dalla pandemia è ulteriormente peggiorata. Tanto che il Garante spiega come “nel 2021 è notevolmente aumentato il numero di interventi in materia di diritto alla salute e l’Ufficio ha realizzato innumerevoli attività volte ad umanizzare le condizioni detentive”. In questo quadro il Covid “ha amplificato le falle di un sistema e i suoi numerosi limiti, come la carenza di attività trattamentali negli istituti di pena, gli spazi ridotti e occupati oltre la loro capienza regolamentare, la scarsa salubrità degli ambienti, spesso degradati, soprattutto quelli destinati alla cura e al trattamento sanitario”. Napoli. “Buon Natale” ai fratelli dimenticati in carcere e “grazie” ai volontari di Maurizio Patriciello Avvenire, 24 dicembre 2021 Un giorno, per caso, senti parlare di loro. Inorridisci. Hanno commesso reati di difficile comprensione. Poi, lentamente, precipitano nell’oblio. Solo qualche nome rimane nella memoria collettiva, gli altri escono per sempre dalla scena. Sono persone problematiche da un punto di vista psichico, bisognosi di attenzioni e cure accurate, e che non sempre ci sono state. E così si sono smarrite dietro i loro fantasmi. Dove sono adesso? Che fine hanno fatto? Nel carcere di Napoli-Secondigliano, in un reparto dedicato, sono detenuti queste persone, quasi tutti giovani, con problemi psichiatrici e con alle spalle reati più o meno gravi. Ognuno di loro si porta dentro la sua storia, non sempre di facile interpretazione. L’uomo è e resta un mistero, guai a ridurlo a ciò che mangia o considerarlo solo un prodotto dell’ambiente in cui vive. Venerdì 17 dicembre, dal caro amico Samuele Ciambriello, garante campano dei diritti dei detenuti, ricevo l’invito - accolto con gioia - a partecipare al pranzo nella sezione occupata da questi fratelli. Nel varcare la soglia, mentre i controlli vengono effettuati, ricordo che “visitare i carcerati” non è, per un cristiano, facoltativo, ma un dovere. Tra i giusti che Gesù proclama c’è chi ha portato loro un poco di conforto. Comprendo - sia chiaro - il dolore, lo smarrimento, le difficoltà di chi da essi è stato colpito; non mi permetto di giudicare nessuno. Certo, è più facile vestire una bambina infreddolita, dar da mangiare a una famiglia povera, che abbracciare un uomo rinchiuso perché pericoloso. Tutte le regole, dovute al luogo e alla pandemia, vengono rispettate. Nei corridoi c’è un via vai di detenuti, guardie carcerarie, personale medico e paramedico, dirigenti. Poi, ci sono loro: i volontari, giovani e meno giovani. Aria di festa. Si mangia, si parla, si canta, si balla. Sguardo e conversazioni rivolti al futuro, a quando i cancelli si apriranno e la vita riprenderà a scorrere normalmente. Il pranzo è ottimo, i detenuti hanno cucinato non senza difficoltà, dovendo servirsi solo di piccoli fornelli. Faccio fatica a mantenere i pensieri in ordine. Vagano, scappano, volano per conto proprio. Fisso il crocifisso, nudo, umile, povero, sulla parte di fronte a me. Gli rivolgo mille domande, poi, senza attendere risposta, parlo e rido con il fratello calabrese che mi siede accanto e che, con gentilezza, continua a riempiermi il bicchiere di aranciata. Non ne ho mai bevuta tanta. Certe canzoni napoletane sembrano scritte apposta per creare buonumore, armonia, allegria, e anche un pizzico di nostalgia. Cantiamo a squarciagola. Tutti figli dello stesso Padre che “fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi”; tutti bisognosi di amore e di perdono. È una bella giornata, dalla finestra spalancata, il sole irrompe nella sala senza tenere conto delle sbarre. Entra per tutti, bacia tutti, riscalda tutti. Quei raggi luminosi e caldi mi ricordano la speranza, senza la quale nessun essere umano potrebbe continuare a vivere. Virtù sulla quale troppo poco abbiamo meditato. Come il sole, infatti, s’ intrufola dappertutto, non tiene conto degli ostacoli, dei pericoli, dell’età, della miseria, la speranza. Ed è proprio lei la protagonista di questo stupendo e singolare pranzo di Natale. Insieme ai detenuti di Secondigliano, vogliamo abbracciare tutti i fratelli e le sorelle - in modo particolare i minorenni - che stanno scontando una pena. Buon Natale! Devono sapere che ci sono cari. Se la società civile, nei loro confronti, si è vista costretta a prendere questa dolorosa decisione è perché le hanno procurato dolore e sconcerto. Ma non ha mai perso la speranza di poterli, prima o poi, rivedere liberi e recuperati, impegnati a rendere più bello il mondo. Forza! Nessuno si lasci cascare le braccia. Il Bambino che giace nella mangiatoia è nato per tutti, anche e, forse soprattutto, per loro. Un grazie a coloro che rendono un servizio in questi luoghi. Ai volontari e alle volontarie, veri profeti dei nostri tempi, che, senza nulla chiedere o pretendere, con semplicità, portano la gioia dove difficilmente riesce a penetrare, un grazie del tutto particolare. Buon Natale. E a presto. Avellino. L’inno alla vita dei detenuti del carcere di Ariano Irpino di Marco Staglianò orticalab.it, 24 dicembre 2021 Mercoledì mattina abbiamo avuto il grande onore di assistere, tra le spesse mura del carcere di Ariano, alla proiezione del film “Gelsomina Verde”, vittima innocente della prima faida di Scampia, torturata, uccisa e poi data alle fiamme nella sua macchina, a soli 21 anni, per la sola colpa di aver frequentato, probabilmente amato, il ragazzo sbagliato. Abbiamo avuto il grande onore di condividere questa esperienza con un folto gruppo di detenuti, alla presenza del regista, Massimiliano Pacifico, e di Davide Iodice, pluripremiato regista napoletano teatrale, cointerprete, insieme a Margherita Laterza, Francesco Verde, Giuseppe D’Ambrosio, Francesco Lattarulo, Maddalena Stornaiuolo e Pietro Casella. Solo il primo di una lunga serie di cineforum a cui, a partire dalle prossime settimane, i detenuti, seppur a rotazione, potranno partecipare condividendo emozioni e pensieri con registi, attori e sceneggiatori. Un’iniziativa di straordinario valore, resa possibile dalla tenacia della direttrice Maria Rosaria Casaburo, dalle donne e dagli uomini della polizia penitenziaria che operano all’interno della casa circondariale arianese, dal Dirigente Scolastico del “De Gruttola” di Ariano, Pietro Petrosino, dalla tenacia della professoressa Michela Notaro, da Michela Mancusi e dallo Zia Lidia Social Club, con il sostengo economico del Gruppo Miele. Abbiamo assistito ad un’opera di straordinaria intensità, nella quale linguaggio teatrale e cinematografico si fondono perfettamente, un’opera che non suggerisce giudizi ma dubbi, interrogativi che difficilmente potrebbero trovare risposte più esaustive di quelle che gli sguardi di quegli uomini, di quei ragazzi, ci hanno restituito. Ed è proprio a loro che ci rivolgiamo con parole di infinita gratitudine per la lezione di dignità che ci hanno offerto, per averci ricordato, nel lungo confronto seguito alla proiezione, di quanto sia comodo l’alibi del giudizio e della semplificazione, di quanta responsabilità gravi sulle spalle di ognuno di noi per ognuna di quelle vite compromesse, di quanto sia ipocrita la pretesa di distinguere la responsabilità individuale da quella sociale e collettiva, di quanto sia illusoria e misera la tentazione di ricondurre tutto al libero arbitrio. E di quanto sia perverso, soprattutto, considerare quelle vite perse. Non abbiamo ascoltato parole di vittimismo, ma siamo stati travolti dall’entusiasmo di condividere una verità più profonda e complessa di quella nella quale noi, qua fuori, ci rifugiamo. Siamo stati travolti dall’ansia famelica di trovare nei nostri sguardi la certezza di poter “stare” ancora in questo mondo, senza rabbia, senza scappare e senza vergogna, anche solo con le parole, amarissime parole che tuttavia tradivano la profonda gioia di condividere, il disperato tentativo di farsi comprendere, l’irrefrenabile tentazione di fare un passo oltre l’ombra del giudizio. E’ stato facilissimo non cedere alla compassione, difficilissimo, invece, sostenere il peso di quelle parole, di quei racconti, di quegli sguardi e di quelle domande che tradivano la necessità di credere in un altro Stato. Non lo Stato latitante, forte con i deboli e debole con i forti, lo Stato colpevole di non esserci stato, di non aver nemmeno incrociato quelle vite quando potevano e dovevano essere curate, se non con il volto dell’abbandono e della repressione. Domande mosse della certezza che no, noi non potremo mai comprendere fino in fondo cosa vuol dire nascere in certi luoghi, in taluni contesti, dove a 21 anni si può morire per aver amato, dalla certezza che quelli come noi non potranno mai accogliere fino in fondo quella sofferenza. E ciò ci rende colpevoli, molto più colpevoli di loro. Buon Natale, ragazzi. Napoli. L’arte e i colori entrano nel carcere di Secondigliano laprovinciaonline.info, 24 dicembre 2021 Da detenuti ad artisti per un giorno guidati dall’architetto writer di Castelvolturno, Alessandro Ciambrone. Accade nel carcere di Secondigliano: il 23 e il 24 dicembre, con il sostegno dell’associazione onlus ‘Il carcere possibile’, presieduta da Anna Maria Ziccardi, Ciambrone realizzerà gratuitamente due murales. Al suo fianco alcuni detenuti che si cimenteranno in acrilici e pennelli. L’idea della direttrice Giulia Russo è di portare arte e bellezza nei luoghi di sofferenza e di pena con l’obiettivo etico di risvegliare nelle coscienze dei detenuti e nella loro sensibilità, l’amore per la vita, la possibilità di riscatto sociale, di un futuro di riabilitazione nella e per la collettività. La volontà è di estendere il progetto artistico pilota di Secondigliano a tutti gli istituti penitenziari della Campania. “Le festività natalizie - dice la Ziccardi - che per noi rappresentano un momento di estrema felicità per il ricongiungimento con gli affetti più cari, per i detenuti sono il periodo più brutto dell’anno, quello che porta il carico di sofferenza più insopportabile perché le persone care sono fuori e l’amarezza, il pentimento ed il rimpianto riaffiorano con maggiore enfasi nelle coscienze delle persone ristrette. È per questo che l’associazione, che presiedo da diversi anni, cerca di mettere in campo tutte le iniziative affinché sia data ai detenuti la possibilità di esprimersi, di lavorare, di sperare, di provare a riconnettersi con il mondo da cui le sbarre e le mura di cinta degli istituti di pena li separano”. Inevitabile, pertanto, che l’idea di Alessandro Ciambrone di portare la sua arte nel carcere di Secondigliano venisse accolta con grande entusiasmo anche dalla direttrice del carcere Giulia Russo. “L’incontro con il maestro Ciambrone - dice - dà la possibilità ad un luogo solitamente considerato buio di tingersi di mille colori. Colori ed arte che consentiranno ai nostri detenuti di avvicinarsi sempre di più al bello e di cogliere al volo un’occasione mancata che è quella di vedere e vivere il mondo in un modo diverso soprattutto propositivo. Ringrazio il maestro inoltre per la disponibilità della realizzazione delle sue opere assieme ai detenuti concessa in un periodo tra l’altro, quale quello del Natale, che ci consentirà di condividere forti e splendide emozioni”. Le opere che Ciambrone realizzerà sono due, una esterna, l’altra interna. Il murale esterno, all’ingresso dell’Istituto penitenziario, rappresenta luoghi iconici di Napoli: il Vesuvio, il lungomare, Castel dell’Ovo, la Certosa di San Martino, Castel Sant’Elmo, piazza del Gesù. Il murale interno rappresenta Spaccanapoli con San Gennaro, Maradona e Gesù avvolto dalla luce. Alessandro Ciambrone, 48 anni, pittore per caso da 6, non è nuovo a esperienze votate al volontariato. Nell’ultimo anno e mezzo ha dipinto la hall dell’Istituto dei tumori di Napoli donando due quadri e realizzando 3 murales. Per l’ex giunta comunale ha dipinto l’ingresso del centro antiviolenza donne e bambini della polizia municipale in via Alessandro Poerio e tre murales al Polifunzionale di Soccavo. Numerose le vendite di beneficienza per la Fondazione Airc, la Fondazione Aism e la Fondazione Santobono Pausillipon. Migranti. Il salvataggio è un dovere, archiviato il “caso” Rackete di Giansandro Merli Il Manifesto, 24 dicembre 2021 Anche le ultime accuse contro Carola Rackete sono state archiviate. La Giudice per le indagini preliminari (Gip) Micaela Raimondo ha accolto ieri la richiesta avanzata il 29 ottobre scorso dai pubblici ministeri Salvatore Vella e Cecilia Baravelli. La comandante della Sea Watch 3 ha agito, recita l’ordinanza, “nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto, nazionale e internazionale, del mare” e non ha dunque commesso il reato di immigrazione clandestina. Nel pieno rispetto delle norme sono stati sia il salvataggio dei 53 migranti in pericolo realizzato l’11 giugno del 2019, sia il rifiuto di farli sbarcare nel porto di Tripoli. Che non può essere considerato “sicuro”. Corretta anche la decisione di non andare in Tunisia o a Malta. L’ordinanza della giudice dichiara poi illegittimo il decreto interministeriale con cui gli ex ministri Matteo Salvini (Interno), Elisabetta Trenta (Difesa) e Danilo Toninelli (Infrastrutture) tentarono di impedire in extremis l’ingresso della nave umanitaria nelle acque italiane. Fu firmato sulla scorta del decreto sicurezza bis approvato poche ore prima, mentre la Sea-Watch 3 navigava verso Lampedusa. Il provvedimento “nel vietare l’ingresso, il transito e la sosta dell’imbarcazione nel mare territoriale italiano non faceva riferimento a specifiche e individualizzanti situazioni di ordine e di sicurezza pubblica che avrebbero potuto far ritenere pericoloso lo sbarco in Italia dei naufraghi”, argomenta la giudice. Il “passaggio non inoffensivo” che avrebbe potuto giustificare la misura, infatti, non può desumersi “sul solo presupposto che i naufraghi fossero tutti stranieri senza documento”. Si conclude così la vicenda del soccorso più mediatizzato degli ultimi anni, in cui per 18 giorni si sono contrapposti il titolare del Viminale Salvini e la comandante Rackete. Dopo un braccio di ferro che aveva estenuato i naufraghi e l’equipaggio e tenuto col fiato sospeso il paese, il 29 giugno Rackete decise di entrare nel porto di Lampedusa. Attraccò al molo commerciale nonostante i tentativi di interposizione fisica della motovedetta V. 808 della Guardia di finanza. Per questo fu arrestata in flagranza con le accuse di resistenza a pubblico ufficiale e a nave da guerra. Il teorema accusatorio iniziò a cadere già due giorni dopo, quando il Gip di Agrigento non convalidò l’arresto sostenendo che entrambi i reati erano stati commessi nell’adempimento del dovere di soccorso. Decisione poi confermata dalla Cassazione. Quel procedimento è stato archiviato il 14 aprile scorso. Con l’ordinanza firmata dalla Gip Raimondi si chiudono tutte le indagini penali nei confronti di membri dell’equipaggio della Ong Sea-Watch. “Quest’ennesima archiviazione abbatte il pretestuoso muro legislativo eretto da Salvini e, nelle sue motivazioni, conferma quanto già stabilito dalla Corte di Cassazione: soccorrere chi si trova in pericolo in mare e condurlo in un luogo sicuro è un dovere sancito dal diritto internazionale”, ha commentato l’organizzazione tedesca. “Se non avessi infranto pubblicamente quella legge ingiusta per combatterla in tribunale - ha scritto invece Rackete - sarebbe potuta essere ancora in vigore e molte persone ne avrebbero subito l’ingiustizia. Il messaggio più importante è che se affrontiamo l’ingiustizia, perfino e specialmente quando compiuta dallo Stato, possiamo vincere”. Prevedibilmente la decisione non è andata giù a Salvini che ha twittato: “Quindi, se capisco bene la sentenza, speronare una motovedetta militare italiana con uomini a bordo non è reato. Torniamo ai tempi dei pirati… No comment”. Di segno opposto le reazioni dei parlamentari Nicola Fratoianni e Riccardo Magi, che durante i giorni di blocco salirono a bordo della Sea-Watch 3. “Noi eravamo già sicuri di stare dalla parte giusta e rivendico di essere stato sulla nave al fianco di Rackete”, ha dichiarato il segretario di Sinistra Italiana. Per il presidente di +Europa: “Salvini in persona non è più al governo ma quelle politiche contrarie al diritto e al senso di umanità continuano ad andare per la maggiore in Italia e in Europa”. Poche ore prima della notizia dell’archiviazione di Rackete la Sea-Watch 3 ha mollato gli ormeggi dal porto di Trapani per iniziare una nuova missione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Migranti. Rackete e la vita prima di tutto di Dacia Maraini La Stampa, 24 dicembre 2021 Carola Rackete “ha agito nell’adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare”. È con questa motivazione che l’inchiesta a carico della comandante della Sea Watch tedesca, poco più che trentenne, è stata archiviata dal gip del tribunale di Agrigento, Micaela Raimondo. Tutto è iniziato nell’estate del 2019, quando Rackete è entrata nelle acque italiane ed è arrivata a Lampedusa portando in salvo decine di naufraghi, dopo due settimane in mare e continue richieste di autorizzazione allo sbarco che il Viminale, allora guidato da Matteo Salvini, aveva ignorato. Era stata poi arrestata, accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, insultata in orridi modi sui social, anche da alcuni politici, e infine indagata. Fino a ieri, il suo destino giudiziario era incerto e, insieme a esso, era incerta la tenuta di alcuni cardini della nostra civiltà, decisamente i più importanti. L’archiviazione ha evitato questo tremendo colpo. La regola del mare impone di salvare le persone quando sono in pericolo. Deve valere in mare e ovunque, è un principio universale e che un principio universale sia stato rispettato è una buona, ottima cosa, ma il fatto che faccia notizia significa che i princìpi universali non sono scontati. Dobbiamo, anzi, difenderli. Davanti all’altro che è in pericolo, in mare o altrove, il dovere di ciascuno di noi è soccorrerlo, fare di tutto per salvarlo. È un dovere umano ed è una legge umanitaria inderogabile: chi è testimone di una tragedia deve anche essere soccorritore delle sue vittime. Nei paesi più sordi ai diritti umani, dove esistono regimi totalitari o democrazie esclusivamente formali, niente di tutto questo viene perseguito. Tuttavia, anche da noi, che pure siamo democrazie non solamente di facciata, questi princìpi così limpidi e netti vengono contraddetti con una frequenza preoccupante. La vita, propria e degli altri, viene prima di tutto. È questo che fonda l’universo e, quindi, anche le comunità che lo popolano. In questo universo fatto di minerali e altri mondi di cui non sappiamo niente, in questo spazio di cui non conosciamo se non quello che vediamo e che non ci dice dove andremo e da dove veniamo, la sola certezza che abbiamo, e che è anche la più poetica, è proprio che la vita vale sopra ogni cosa. Evoluzione dei diritti e delle pene o ritorno ai secoli passati. Detenuti o merci? di Associazione Diritti Utenti e Consumatori imgpress.it, 24 dicembre 2021 La notizia lascia quantomeno perplessi: “Danimarca. Il Governo trasferisce 300 detenuti in Kosovo”. Il pensiero, oltre ai detenuti Usa di oggi a Guantánamo, torna alle tradotte che nei secoli scorsi i vari Paesi europei (Francia e Regno Unito in testa) facevano verso i loro territori coloniali. Secoli scorsi su cui storia e civiltà avevano posto la parola “fine”: ma sembra che non sia così. La versione 2021 è moderna. Un tempo erano territori conquistati con il colonialismo: militari, sacerdoti, imprenditori avventurieri che vi si trasferivano. Oggi denaro, business. Carceri all’epoca e carceri oggi. La differenza: un tempo le popolazioni inermi venivano sottomesse più o meno con violenza e non potevano dire nulla sulle colonie penali che venivano costruite sui loro territori, oggi i governi (democraticamente eletti come in Kosovo) di queste popolazioni aprono le porte delle loro carceri. Dato comune: la miseria di chi “accoglie” questi detenuti, colonie a suo tempo, Kosovo (sic!) oggi. Avevamo creduto che la miseria umana fosse stata superata, ma evidentemente quella economica ha il potere di farla tornare. Perché il dato umano è terrificante. Non conosciamo le carceri del Kosovo, ma crediamo che non siano rinomate come quelle danesi (e scandinave in generale) per la loro umanità/civiltà nel trattare la popolazione detenuta… civiltà che però ci viene detto, nel caso danese, avere due serie, la A e la Z. Siccome il presupposto per essere nella categoria “Z” è di dover essere espulsi dalla Danimarca dopo aver scontato la pena, va da sé che il detenuto in categoria “A” è un privilegiato. Quindi il nostro regno scandinavo discrimina (razzismo?) rispetto alla cittadinanza dei detenuti. Crediamo che in Danimarca esistano anche i diritti dei detenuti che - ovviamente rispetto alla pena da scontare - hanno uno standard al di sotto del quale le leggi non dovrebbero consentire di andare. Non ci addentriamo nel sistema giuridico e carcerario danese, non ne abbiamo competenze e, sostanzialmente, ci interessa poco in questo caso. Siamo però interessati ai diritti umani stabiliti dagli accordi internazionali, anche per i detenuti, e ci domandiamo: i detenuti sono merci o esseri umani? Può la Danimarca trasferirli al pari di merci senza considerare i loro diritti comunque acquisiti in quanto giudicati su un territorio di un paese che fa parte dell’Unione Europea, e che ha sottoscritto tutti gli accordi possibili ed immaginabili contro le tratte degli esseri umani e i loro trattamenti in carcere? Cercheremo risposte nelle sedi opportune. Intanto prendiamo atto, con dolore, che nel XXI secolo, l’evoluzione dei diritti e delle pene sta comportando il ritorno ai secoli passati. Egitto. Scarcerata l’attivista Sanaa Seif. Tre giorni fa la condanna del fratello Alaa Abdel Fattah Il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2021 Ad annunciarlo, tra gli altri, su Twitter è stata la sorella Mona Seif, anche lei attivista, che aveva anche assistito a uno dei numerosi arresti arbitrari subiti dalla sorella da parte delle forze dell’ordine egiziane. Oggi Mona ha mostrato ai suoi follower la foto “ufficiale” del rilascio della sorella, immortalata di nuovo a casa mentre abbraccia il suo cane Toka. Tre giorni fa era arrivata la notizia della condanna di Alaa Abdel Fattah, attivista per i diritti umani e protagonista della rivoluzione del 2011, a 5 anni di carcere per “diffusione di notizie false”. Oggi per la famiglia del noto oppositore del regime di Abdel Fattah al-Sisi è però un giorno felice perché la sorella Sanaa Seif è stata finalmente scarcerata, dopo la condanna a un anno e mezzo di carcere del marzo scorso con la stessa accusa del fratello, ma relativa alle informazioni diffuse sulla pandemia di coronavirus in Egitto. Ad annunciarlo, tra gli altri, su Twitter è stata la sorella Mona Seif, anche lei attivista, che aveva anche assistito a uno dei numerosi arresti arbitrari subiti dalla sorella da parte delle forze dell’ordine egiziane quando nel 2020, insieme alla madre, erano tutte e tre andate a denunciare alla Procura del Cairo un’aggressione compiuta da un gruppo di donne, probabilmente parte dei famigerati gruppi criminali detti Baltagiya al soldo del governo per compiere spedizioni punitive contro i dissidenti. Oggi Mona ha mostrato ai suoi follower su Twitter la foto “ufficiale” del rilascio della sorella, immortalata di nuovo a casa mentre abbraccia il suo cane Toka. In carcere, come detto, rimane invece Alaa Abdel Fattah che il 20 dicembre è stato condannato a 5 anni di reclusione, insieme al suo avvocato Mohamed al-Bakr e al blogger Mohamed Oxygen Ibrahim, quest’ultimi a 4 anni, per la stessa accusa che vede ancora imputato Patrick Zaki. Nello specifico, per i primi due l’accusa è di aver criticato le autorità riguardo al trattamento dei detenuti e su alcuni decessi in custodia, mentre Mohamed Oxygen Ibrahim ha denunciato sui social il mancato rispetto dei diritti sociali ed economici da parte del governo.