Papa Francesco, no al carcere come “muro”. Il Covid rende più disumana la pena di Valter Vecellio lindro.it, 23 dicembre 2021 Ci voleva Papa Francesco: decide, in prossimità delle feste natalizie, di incontrare gli “invisibili”, e coglie l’occasione per affrontare temi cruciali. Dalla violenza alle donne al sovraffollamento delle carceri: “È tanto, tanto grande il numero di donne picchiate, abusate in casa, anche dal marito. Il problema è che per me è quasi satanico, perché è approfittare della debolezza di qualcuno che non può difendersi, può soltanto fermare i colpi. È umiliante, molto umiliante”. C’è una donna vittima di violenza protagonista con altri “invisibili”, nel collegio di Santa Marta, dove ha luogo l’incontro: “È umiliante quando un papà o una mamma dà uno schiaffo in faccia a un bambino, mai dare uno schiaffo in faccia. Perché la dignità è la faccia. Questa è la parola che io vorrei riprendere”, aggiunge quell’uomo venuto da “quasi la fine del mondo”. Francesco poi affronta un altro suo tema caro: quello del sovraffollamento delle carceri: “È un muro, non è umano! Qualsiasi condanna per un delitto commesso deve avere una speranza, una finestra. Un carcere senza finestra non va, è un muro. Una cella senza finestra non va. Finestra non necessariamente fisica, finestra esistenziale, finestra spirituale. Poter dire: ‘Io so che uscirò, io so che potrei fare quello o quell’altro’. Per questo la Chiesa è contro la pena di morte, perché nella morte non c’è finestra, lì non c’è speranza, si chiude una vita”. Sono parole, è una presa di posizione vigorosa, che dovrebbe scuotere tutte le persone che ricoprono incarichi di responsabilità, nelle istituzioni: aprire loro gli occhi, spronarli, spingerli a intervenire, provvedere. Chissà che anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, i quello che sarà il suo ultimo messaggio di fine anno al Paese, non ritenga necessario e opportuno richiamare l’attenzione di tutti e di ciascuno, su queste problematiche. Voltaire, e con lui Dostoevskij, sostengono che se si vuole misurare il grado di civiltà di un Paese si deve guardare in che condizioni si trovano le carceri. Se questo è il metro, la situazione, per quello che riguarda l’Italia è davvero sconfortante. Antigone, associazione che si occupa di questi problemi da sempre, suggerisce un punto di partenza: tra il 7 e il 10 marzo 2020 nelle carceri italiane si verifica una delle più violente ondate di protesta. Alla fine secondo le stime dell’organizzazione, almeno seimila detenuti risultano coinvolti in 49 diversi istituti: 14 di loro muoiono; tra gli agenti della polizia penitenziaria una quarantina i feriti. Ingenti i danni: distrutte intere sezioni di strutture carcerarie. Proteste che scoppiano a ridosso del primo lockdown, in seguito a una serie di misure relative all’ondata pandemica e le politiche di contrasto messe in campo. Il “pretesto” è costituito da misure restrittive come la sospensione dei colloqui con i familiari e le regole di distanziamento sociale: che oggettivamente aggravano la già forte situazione di isolamento sociale. È comunque evidente che quelle misure sono solo il “detonatore” che fa deflagrare una situazione pre-esistente: luoghi inadatti per la detenzione, che letteralmente esplodono: il Covid acuisce problemi strutturali preesistenti. Prima dello scoppio della pandemia, nelle strutture penitenziarie sono recluse più di 62mila persone: l’Italia è al quarto posto nell’Unione Europea, dopo Polonia 75mila), Francia (71mila) e Germania (63mila). La situazione è resa più grave perché non si sono realizzate strutture moderne in grado di sostituire le attuali, che non è esagerato definire inadeguate se non proprio fatiscenti. In Italia il numero di detenuti continua a eccedere la capacità degli istituti, e rende il sovraffollamento una vera e propria emergenza. Da questo punto di vista vanta il risultato peggiore: circa 120 detenuti ogni 100 posti disponibili, superato negativamente solo da Cipro (134,6 su 100). La regione con le carceri più sovraffollate è il Friuli Venezia Giulia (139,5%). Seguono Puglia (127,4%), e Lombardia (126,4%). La Lombardia è anche la regione in cui, in numeri assoluti, è recluso il numero più elevato di persone (7.763), ed è anche la regione con più detenuti rispetto alla capienza regolamentare delle sue strutture (1.624 detenuti in più rispetto ai posti disponibili). In questa situazione accade che in molte carceri i detenuti hanno a disposizione meno di quei già miseri 4 metri quadrati di spazio pro capite, soglia minima indicata dal comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Ancora: secondo i dati raccolti dal centro studi e documentazione “Ristretti orizzonti”, che conduce un’azione di monitoraggio dei decessi all’interno delle carceri, sono almeno 21 detenuti che hanno perso la vita a causa del virus da novembre del 2020 a oggi. Quattro solo nelle carceri di Milano. A fronte di ciò ogni struttura penitenziaria disponeva, nel 2019, in media di appena un medico di base ogni 315 reclusi, e nel 70% dei casi si trattava di lavoratori precari. Rita Bernardini: “Salvini e Meloni vengano a visitare le carceri” di Davide La Cara notizie.com, 23 dicembre 2021 L’esponente Radicale è in sciopero della fame per far approvare una proposta che migliori la condizione disastrosa delle carceri italiane. Rita Bernardini è in sciopero della fame. La storica dirigente del Partito Radicale e presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino, dal 5 dicembre porta avanti la sua iniziativa per accedere l’attenzione sulle difficili condizioni in cui si trova la popolazione carceraria italiana. Un problema da sempre attuale e che la politica non ha mai affrontato con la dovuta decisione. Non una protesta ma una proposta, come spiega meglio l’ex-parlamentare: “Sosteniamo i progetti elaborati da Nessuno tocchi Caino e dal Partito Radicale, portate avanti dal deputato Roberto Giachetti, che riguardano la liberazione anticipata speciale per i due anni di pandemia - dice a Notizie.com. La proposta prevede che, invece dei 45 giorni di liberazione anticipata elaborati ogni semestre in caso di buona condotta, il tempo venga portato a 75 giorni. C’è poi un’altra proposta, più strutturale, che prevede di cambiare la legge da 45 giorni a 60”. L’appoggio è bipartisan e vede coinvolti gli esponenti di diversi partiti. “Vogliamo responsabilizzare i parlamentari affinché intervengano immediatamente sulle condizioni di sovraffollamento delle carceri” afferma Bernardini. Il problema endemico del sovraffollamento ha raggiunto il suo apice con il Covid, tanto che le proteste dei detenuti negli ultimi anni si sono fatte più accese. “La situazione è insostenibile soprattutto da un punto di vista sanitario e spero possano intervenire al più presto. Il mio sogno è quello di andare a visitare un carcere con compagnia di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni, così magari si rendono conto davvero di cosa stiamo parlando” afferma Bernardini. “Ci sono almeno 100 istituti in Italia che si trovano in sovraffollamento superiore al 120% della loro effettiva capacità, con punte come nel carcere di Brescia del 200%. Con la pandemia la situazione si è aggravata, gli istituti hanno dovuto ricavare spazi per l’isolamento per i positivi, una condizione di illegalità palese alla quale chiediamo di porre fine” dice. Dai dati risulta più precisamente che i 54.307 detenuti in Italia vivono in uno spazio che potrebbe contenerne 47.371. Svuotare le carceri per accomodare il problema del sovraffollamento, ma i problemi riguardano anche e soprattutto gli aspetti sanitari e psicologi della detenzione. Il numero di suicidi in carcere in Italia rimane drammaticamente alto, senza contare che i programmi di reinserimento sono inefficienti. “Da una nostra analisi approfondita della situazione carceraria, viene fuori che su una popolazione di detenuti in Italia di 54.500 circa ci sono solamente 700 educatori - continua -. Il che vuol dire che non è materialmente possibile praticare il percorso individualizzato di reinserimento sociale, come previsto per legge”. “La sanità penitenziaria è allo sfacelo, - afferma - abbiamo scoperto anche i fondi destinati dallo Stato alle Regioni per la gestione delle carceri non sono vincolati, quindi accade spesso che questo denaro non venga speso e si vada a risparmiare su personale e farmaci con conseguenze gravissime. Entrare in un carcere sembra di stare in un lazzaretto”. I problemi sono relativi anche alla gestione delle strutture data la carenza di personale. Secondo Bernardini “ci sono 7 istituti che non hanno nemmeno il direttore, è il caso: delle case circondariali di Trapani, Voghera e Arezzo; delle case di reclusione di Altamura, Tempio Pausania, San Cataldo; e infine il caso dell’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) di Lauro. E poi ci sono anche direttori che dirigono più istituti, non si fanno concorsi pubblici per dirigenti penitenziari dal 1996 e l’ultimo è solo per 45 posti. Assolutamente insufficiente” conclude. Insieme a Rita Bernardini aderiscono allo sciopero della fame le donne detenute del carcere di Torino con il cosiddetto “sciopero del carrello” dal 17 al 23 dicembre affinché, almeno per Natale, si approvi la proposta di legge di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. Condannato in Italia, affidato ai servizi sociali all’estero. Il legale: “Una rivoluzione” adnkronos.com, 23 dicembre 2021 “E una rivoluzione copernicana”. Così l’avvocato Alexandro Maria Tirelli commenta con l’Adnkronos l’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Brescia ha concesso al suo assistito, Philippe Buchet, condannato da un Tribunale italiano, la possibilità di scontare il residuo di pena nel luogo dove risiede, vale a dire il Belgio. Pochi giorni fa, infatti, il TdS di Brescia (presidente Ezia Gardoni), ha emesso un’ordinanza partendo dal presupposto che “l’istante, attualmente libero, deve espiare, in forza dell’ordine di esecuzione per la carcerazione e contestuale decreto di sospensione del medesimo, emesso il 5.7.2018 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo - Ufficio Esecuzioni Penali, la pena residua di anni due, mesi sei e giorni otto di reclusione” dopo una condanna a tre anni per traffico internazionale di cocaina. Il Collegio, si legge nell’ordinanza, “osserva come ricorrano le condizioni di legittimità e di merito per l’accoglimento dell’istanza di affidamento in prova ai servizi sociali da eseguire presso il Paese di residenza abituale dell’istante, ossia il Belgio. A tal fine trova applicazione il decreto legislativo n. 38 del 15 febbraio 2016 che contiene disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro n.2008/947/Gai del Consiglio europeo del 27 novembre 2008, volta ad estendere tra gli Stati dell’Unione il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie relative all’esecuzione delle pene non restrittive della libertà personale, in vista della sorveglianza di misure di sospensione condizionale e di sanzioni sostitutive allo scopo di garantirne l’esecuzione nel luogo di residenza per favorire il reinserimento sociale della persona condannata, consentendole il mantenimento dei legami familiari, linguistici, culturali con il paese di abituale dimora ove è posto il suo centro di interessi”. Per il TdS, dunque, “non è di ostacolo all’esecuzione della misura nel paese che aderisce alla decisione quadro l’impedimento all’esercizio di poteri autoritativi al di fuori del territorio nazionale, a ragione del trasferimento di competenza dell’attività di sorveglianza degli obblighi e delle prescrizioni impartite alle competenti autorità dello stato di esecuzione”. Anche la Corte di Cassazione, annota il Collegio, “ha ormai sancito detto orientamento, affermando come in tema di misure alternative alla detenzione, a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 38, sia consentita l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale la cui esecuzione debba svolgersi in uno Stato estero membro dell’Unione Europea dove il condannato abbia residenza legale ed abituale, in conformità a quanto disposto dal menzionato decreto legislativo (Sentenza n. 20977 del 15/06/2020)”. Da qui, accogliendo le richieste del difensore, l’affidamento in prova al servizio sociale per il condannato con una serie di prescrizioni. “Si tratta di una rivoluzione copernicana - osserva l’avvocato Tirelli -, perché se anche l’ordinamento italiano si era conformato alla decisione europea, in realtà i tribunali di Sorveglianza la disapplicavano completamente per via della sua fumosità e della difficoltà di applicarla praticamente. Difficoltà relativa alla verifica del comportamento del condannato che avrebbe scontato la pena alternativa all’estero. Se i servizi sociali vengono scontati in Italia, le verifiche sono possibili, ma scontandoli all’estero come si fa?”. Dunque, aggiunge il legale, “si tratta di una decisione gigantesca, perché noi abbiamo migliaia di italiani o non italiani condannati dai tribunali nazionali che risiedono o vivono all’estero, per non parlare di quelli che commettono crimini da noi ‘passando’ per l’Italia, penso soprattutto agli immigrati, grande fetta dei condannati in Italia. Ciò che accadeva finora è che noi come Italia ci trovavamo a spiccare un sacco di mandati di arresto o a non eseguire pene, dunque a creare una sorta di giustizia ‘sospesa’ perché quando arrivavano gli ordini di esecuzioni, chi si trovava all’estero non veniva in Italia a scontare la pena, perché non abitava in Italia e non poteva nemmeno chiedere ai Tribunali di Sorveglianza italiani di concedere la misura alternativa nel luogo dove risiedeva. Ecco, con la decisione del TdS di Brescia cambia tutto, perché ora posso essere uno di Bari, per dire, che lavora ad Hannover, condannato dal Tribunale di Roma ma con la possibilità di svolgere i servizi sociali ad Hannover”. Per il legale, dunque, “ben venga la cooperazione tra Paesi nel campo della esecuzione penale, ma a Patto che anche i Giudici Europei concedano gli stessi benefici da applicarsi in Italia”. Lo stesso legale, però, sottolinea anche alcune sue perplessità: “Il magistrato di sorveglianza con chi interloquirà? Con gli assistenti sociali stranieri? Potrà sorvegliare efficacemente? Vanno riempite evidenti lacune legislative, anche a livello di normazione europea, ma in ogni caso questa pronuncia rappresenta un ulteriore sgretolamento della sovranità nazionale anche in seno al potere giudiziario ‘sovrano’, concedendo a un’autorità giudiziaria straniera la verifica delle prescrizioni imposte dalle autorità giudiziarie italiane”. “Quando noi facemmo la nostra richiesta - chiosa, infine, il legale - in tutto il territorio nazionale erano state effettuate solo altre 13 richieste simili, e tutte erano state negate. Il TdS di Brescia, dunque, rappresenta la ‘locomotiva’ dei fautori della concreta applicazione di questa normativa”. 41bis, illegittimo il divieto per il detenuto di dare giocattoli e dolci al figlio minore di 12 anni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2021 Non è la stessa cosa se il dono viene dato da un agente penitenziario. Il divieto di legge va superato con le dovute accortezze in nome dell’interesse dei bambini ad un rapporto il più possibile normale con i genitori. Viola il diritto dei bambini a preservare una relazione familiare più normale possibile con il genitore detenuto il divieto, imposto ai carcerati sottoposti al 41-bis, di consegnare personalmente giocattoli e dolciumi ai figli minori di 12 anni. Per la Cassazione (sentenza 46432) va superata la previsione normativa che impedisce, senza eccezioni, il passaggio di oggetti da parte delle persone che scontano la pena con il cosiddetto “carcere duro”. Malgrado nel caso di figli o nipoti minori di 12 anni sia stato, infatti, concesso il colloquio senza il vetro divisorio, resta in piedi il divieto dello scambio di oggetti. Una regola alla quale aveva fatto eccezione un magistrato di sorveglianza accogliendo la richiesta del detenuto di consegnare con le sue mani al figlio dei giocattoli, acquistati all’interno del carcere con il sopravvitto: doni che di solito vengono dati da un agente carcerario. La concessione non era piaciuta al ministero della Giustizia che aveva fatto ricorso, puntando l’attenzione sulla ratio di una norma che ha l’obiettivo di garantire la sicurezza, scongiurando il rischio di far uscire dal penitenziario oggetti o messaggi, attraverso i giochi o i dolci. Possibile superare il divieto imposto dalla norma - La Suprema corte ammette che la scelta di derogare alla regola, fatta dal magistrato di sorveglianza, sembrerebbe preclusa “dalla valutazione compiuta, in astratto, dal legislatore, il quale, come già osservato - scrivono i giudici - sembrerebbe, invece non consentire, senza alcuna eccezione, la consegna di oggetti da parte del detenuto sottoposto al regime differenziale di cui all’articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario”. Ma gli ermellini superano il divieto con una lettura costituzionalmente orientata. La giurisprudenza della Consulta ha, infatti, sempre evidenziato la necessità di dimostrare, che le limitazioni imposte dal 41-bis, siano congrue e necessarie rispetto allo scopo che perseguono. E nel caso esaminato l’obiettivo si può raggiungere anche superando il divieto, nell’interesse del minore a mantenere rapporti il più possibile normali con il genitore in carcere, senza far venire meno le esigenze di sicurezza. I diritti fondamentali del minore - I doni, venduti in confezioni sigillate, possono, infatti, essere custoditi in un magazzino e consegnati al padre o alla madre - che restano sempre sotto controllo visivo - pochi istanti prima dell’incontro con i figli. In questo modo, chiarisce la Cassazione, si salvaguarda il diritto fondamentale del minore al suo normale sviluppo e si tutela anche la sicurezza. I giudici di legittimità respingono dunque il ricorso di via Arenula e prendono le distanze dalla tesi secondo la quale la consegna di regali o dolci per mano di un agente non fa differenza per il bambino, perché sa comunque che arrivano dal padre. Ma per la Suprema corte non è la stessa cosa. Presunzione di innocenza. Il sovversivismo della magistratura di Piero Sansonetti Il Riformista, 23 dicembre 2021 Il partito dei magistrati (e dei giornalisti giudiziari embedded) attraverso la sua rappresentanza parlamentare (il Movimento 5 Stelle) ha chiesto ufficialmente al governo di rinunciare alla legge sulla presunzione di innocenza, e dunque alla Costituzione. A nome del partito dei Pm è intervenuto in aula, l’altra sera, il deputato Vittorio Ferraresi, che viene considerato (‘alter ego dell’ex ministro Bonafede. Ferraresi è stato anche sottosegretario nei diversi governi a 5 stelle, per la precisione sottosegretario alla Giustizia. E lui che ha chiesto che sia cancellata o modificata radicalmente una legge di applicazione della Costituzione che appena qualche giorno fa i 5 Stelle avevano approvato. Certo, una persona normale può anche stupirsi che l’ex ministro Bonafede, che viene solitamente considerato la controfigura di Conte, disponga a sua volta di una controfigura. I lettori di questo giornale sanno bene che esiste oltretutto la concreta possibilità che, nella realtà, Conte non esista: immaginatevi se può esistere un suo alter ego, e per di più un alter ego dell’alter ego. Eppure è così. Ed è stato attorno alla sua figura che si è radunato il fronte dei Pm e dei giornalisti giudiziari. Comandati, per la verità, dalla loro guida vera, dal deus ex machina. Che sapete benissimo chi è: Marcolino Travaglio. E lui che qualche settimana fa ha suonato la carica e ha richiamato all’ordine sia i magistrati, sia soprattutto i giornalisti e i suoi deputati. Accusati di essere dei quaquaraquà che si fanno incantare dalla Cartabia e cascano in tutte le trappole. Travaglio pensa che una legge che stabilisce che non si possa violare il principio della presunta innocenza, che i Pm non si possano trasformare in attori protagonisti e showmen, e che per di più non sia più consentita la violazione dei segreti investigativi, finché vigono, sia in realtà una legge che annienta Il Fatto e costringe i giornalisti giudiziari a fare il loro mestiere: cercare le notizie, leggere le carte, seguire i processi (quest’ultima è una attività ormai del tutto sconosciuta alla stampa, la quale si chiede: ma se il processo è pubblico, che lo seguo a fare? E poi osserva che al processo parla persino la difesa, complice dell’imputato, che mischia le cose e confonde le acque rischiando di stordire il giornalista...). L’attacco della magistratura alla nuova legge, con pochissime eccezioni (ad esempio quella del Procuratore nazionale antimafia, Cafiero de Raho) è stato di impressionante violenza. Anche perché, appunto, giunto in ritardo e solo dopo la frustata di Travaglio. I magistrati più in vista nel circo mediatico si sono indignati e ora chiedono uno stop. L’Ordine dei giornalisti è andato subito in soccorso, gridando al bavaglio. Dice l’Ordine: ma se un giornalista non può demolire un imputato, fosse anche un imputato innocente, solo perché vige quel maledettissimo articolo 27 della Costituzione, ma allora la libertà dov’è? Libertà, senza fango? Ma quella è una cosa per radical chic! E così nasce questa nuova e complessa situazione, che nel gergo politico si chiama “sovversivismo delle classi dirigenti”. Stavolta, più precisamente, il sovversivismo è della magistratura. L’espressione politologica di sovversivismo delle classi dirigenti fu coniata tanti anni fa da Antonio Gramsci. Che è stato uno dei maggiori intellettuali italiani, e studiosi di politica, del secolo scorso. Fu anche segretario del piccolo partito comunista di quell’epoca, tra il 1924 e il 1926, poi fu costretto a lasciare perché il regime fascista lo fece arrestare e Io tenne in prigione fino alla morte. Fu in prigione che scrisse le cose più importanti ed elaborò questi due concetti, che sono ancora attualissimi: il concetto di egemonia e quello di sovversivismo delle classi dirigenti. L’egemonia di classe, per Gramsci, era la capacità di una classe sociale di imporre il suo punto di vista e il suo sistema di pensiero alle classi subalterne. Rendendole in questo modo sottomesse e integrate, senza il ricorso alla costrizione e alla violenza. L’idea di egemonia era molto diversa, anzi opposta all’idea di dittatura. E in qualche modo anticipava quello che oggi viene chiamato “il pensiero unico”. La sovversione delle classi dirigenti scattava esattamente nel momento nel quale la classe dominante non riusciva più ad esprimere egemonia. E allora passava alla violazione di tutte le regole, che essa stessa aveva delineato, e delle leggi, e delle sue stesse tradizioni, e ricorreva all’uso del potere sopraffattorio, del potere giudiziario, della costrizione e della violenza. Oggi è difficile riprendere schematicamente il ragionamento di Gramsci, perché l’identificazione tra classi e potere è impossibile. Più facile identificare i gruppi che sono riusciti ad accaparrarsi la parte maggiore del potere nella società e che l’hanno difeso, in qualche modo, proprio con il sistema dell’egemonia. Gramsci effettivamente aveva una pessima idea del potere giudiziario (“Il punto di vista giudiziario - scriveva - è un atto di volontà unilaterale tendente ad integrare col terrorismo l’insufficienza governativa”), che comunque considerava vessatorio, e però ancora immaginava in qualche modo non autonomo ma subalterno al potere esecutivo. In realtà era così. Il potere giudiziario fu docile - e feroce - complice del fascismo, ma comunque fu sottoposto al fascismo ed ebbe una funzione ancillare. Oggi i termini della questione si sono rovesciati, il potere giudiziario ha sottomesso il potere politico, ed è stato proprio a conclusione di questo rovesciamento che è iniziata la sovversione. Il potere giudiziario non è più in grado di esprimere quella egemonia che largamente esprimeva negli anni di Borrelli, di Mani pulite, e che comunque ha continuato ad esprimere fino - direi - a qualche mese fa. Quando ha capito di avere perso l’egemonia ha deciso di passare alla sovversione. Chiamando tutti a raccolta. Come è successo in questi giorni: dalla manovalanza dei giornalisti fino ai vertici della Cassazione. E tutti hanno risposto “presente”, proprio come si faceva nel ventennio. Ora il problema è questo: esistono nella società e nella politica forze in grado di opporsi? O sono rimasti solo Enrico Costa e Roberto Giachetti? P.S. Ma un giornalista che volesse dissociarsi dalla sovversione anti costituzionale dell’Ordine, che possibilità ha di dissociarsi? Solo quella di dimettersi dall’Ordine, come ha fatto Vittorio Feltri? Ma fuori dall’Ordine non può, per legge, svolgere pienamente e liberamente il proprio mestiere. Dunque è costretto a restare nella gabbia dei nemici della Costituzione? Non so, ma a me viene sempre più forte il dubbio che in Italia la libertà di stampa sia solo un modo di dire. Libertà, si, ma dentro il cerchio disegnato dal Minculpop. Nordio: “Ma quale stampa libera, i giornali erano diventati megafoni delle Procure” di Errico Novi Il Dubbio, 23 dicembre 2021 L’ex procuratore aggiunto di Venezia, da anni tra i più autorevoli commentatori sulla giustizia, smonta gli allarmi sulle nuove norme a tutela della presunzione d’innocenza. “La libertà di stampa? Nel caso concreto dell’informazione giudiziaria, è una favola vuota”. Carlo Nordio non concede sconti. L’ex procuratore aggiunto di Venezia che oggi, da editorialista del Messaggero, è tra i più ascoltati commentatori sulla giustizia, non si lascia commuovere dagli allarmi sulle nuove norme a tutela della presunzione d’innocenza. Controbatte con impietoso realismo alla tesi per cui la recente riforma colpirebbe il diritto di informare: “I giornalisti”, obietta, “scrivono quello che gli inquirenti lasciano trapelare dopo aver selezionato le notizie secondo le proprie convenienze. È una divulgazione pilotata, spesso a favore di cronisti amici e a scapito di altri”. Una replica alle preoccupazioni espresse non solo dal mondo dell’informazione, ma soprattutto dalla magistratura, Anm in testa, e da partiti come il Movimento 5 Stelle che considerano una iattura qualsiasi argine allo strapotere delle Procure. Appena presentato, il decreto sulla presunzione d’innocenza sembrava fin troppo blando, soprattutto per le sanzioni assai remote: ma visti i recenti allarmi, soprattutto della magistratura, comincia a venire il sospetto che si tratti di un provvedimento efficace... Come le altre recenti riforme della ministra Cartabia, anche questa è un piccolo passo per la risoluzione del problema, ma un balzo gigantesco nella giusta direzione. È proprio questo cambiamento di rotta che preoccupa la magistratura, che vede ridotto uno dei suoi poteri di cui ha talvolta fatto uso improprio: quello cioè di tenere in pugno un cittadino, attraverso la divulgazione di notizie riservate. In ogni caso un effetto positivo, sia pure limitato, ci sarà. Parte dei divieti esisteva già dal 2006, come quello che preclude ai singoli pm la divulgazione di notizie, ma nessuno se n’è accorto. Perché stavolta dovrebbe andare diversamente? È la perdita di autorevolezza sofferta in questi anni che potrebbe impedire alla magistratura di aggirare le norme? È vero che una norma simile esisteva già nell’ordinamento giudiziario, nel senso che i rapporti con l’esterno potevano esser tenuti solo dal capo dell’Ufficio o dal suo Aggiunto. Ma poiché è stata spesso disattesa senza conseguenze, si è ritenuto opportuno rafforzarla. Questo risultato è possibile oggi per due ragioni complementari: la prima è l’autorevolezza e la credibilità della ministra proponente, che la rende immune da qualsiasi sospetto di cointeressenze ambigue. La seconda è proprio l’indebolimento della credibilità della magistratura. Dopo lo scandalo Palamara, e quello ancora più grave della Procura di Milano, la sua forza contrattuale è grandemente scemata. E non è nemmeno finita. Il fatto che la Procura di Roma sia stata fino a poche ore fa senza un titolare, e che quella di Firenze abbia un capo sanzionato disciplinarmente, contribuiscono a questo sfacelo. Ora ci mancava il ritorno del nome di Berlusconi per fatti di mafia di trent’anni fa. Siamo nel grottesco più estremo, ed è doloroso, per chi ha rivestito la toga per oltre 40 anni, vedere che rischiamo di coprirci di ridicolo. Cosa risponde alle preoccupazioni dei giornalisti secondo cui l’impossibilità di acquisire, d’ora in poi, notizie sulle indagini in modo informale pregiudicherà la libertà di stampa? Cominciamo col dire che finalmente il sistema si occupa anche dei diritti dell’indagato, che spesso finisce sui giornali come presunto colpevole, perde l’onore e magari il lavoro o la carica politica, e dopo mesi o anni viene archiviato senza neanche le scuse. Quanto alla libertà di stampa, questa, nel caso concreto è una favola vuota: perché i giornalisti scrivono quello che gli inquirenti lasciano trapelare dopo aver selezionato le notizie secondo le proprie convenienze. È una divulgazione pilotata, spesso a favore di cronisti amici e a scapito di altri. La libertà sarebbe quella di aver a disposizione tutto il materiale, lasciando al giornalista la discrezione di scegliere quale pubblicare. In un’intervista radiofonica lei ha ricordato che anche Marco Pannella, in passato, aveva fatto un discorso del genere... È un po’ quello che accade quando la tv riprende un processo. Lo spettatore non vede quello che vuole lui, ma quello che gli dà la regia. E se questa, ad esempio, inquadra le mani sudaticce e agitate di un teste, manda un messaggio, più o meno subliminale, di inaffidabilità. Per questo io non ho mai consentito i montaggi, ma solo la telecamera fissa in aula. Così lo spettatore guarda dove e come vuole. Secondo la circolare inviata lo scorso 6 dicembre dal Pg Salvi alle Procure, il dovere di informare è legato, per la magistratura inquirente, anche alla necessità di contrastare ricostruzioni fantasiose che, sulle indagini, potrebbero altrimenti essere proposte nei vari “quarti gradi televisivi”: è d’accordo? Condivido l’idea che alle limitazioni per le esternazioni dei magistrati faccia riscontro quella dei talk show sui processi in corso. Negli ordinamenti anglosassoni, che abbiamo scopiazzato, questo non è consentito: costituirebbe il reato di Contempt of Court, disprezzo della Corte. Il giusto equilibrio dev’essere trovato dai capi degli uffici, proprio per evitare che i giornalisti lavorino di fantasia, e così assicurare un’informazione adeguata. Cosa pensa delle proposte di limitare anche il contenuto degli atti d’indagine? Chi lo chiede, ritiene vadano scongiurati casi come quello dell’inchiesta su Open, in cui la Procura, senza fornire informazioni sottobanco ai cronisti, lascia nel fascicolo una messe di informazioni con cui i giornali costruiscono comunque la gogna mediatica... Questa è una riforma fondamentale, che deve integrare quella attuale, perché ora i pm possono diffondere, nella più perfetta legalità, notizie che screditano il cittadino. Essi infatti sono arbitri assoluti nel decider cosa sia utile all’indagine e cosa no. E con questo alibi posso depositare documenti, e addirittura intercettazioni, che vulnerano l’onore di una persona, senza avere alcuna giustificazione riferibile all’economia dell’indagine. Ma sulla disciplina delle intercettazioni questo Parlamento non ha né la volontà né la possibilità di intervenire. Aspettiamo il prossimo. Sarebbe opportuno inasprire le sanzioni per il misconosciuto reato di “pubblicazione arbitraria di atti giudiziari”, che oggi un giornale può cancellare col versamento di una modestissima oblazione? No. Ho sempre sostenuto e sostengo che è ingiusto e inutile prendersela con il cronista o con il direttore. Se vi è violazione del segreto istruttorio, il primo a risponderne dev’esser chi ne era depositario e ne ha consentito la divulgazione, o non ha vigilato abbastanza affinché ciò non avvenisse. Quindi in primo luogo proprio il magistrato. Ma introdurre la sua responsabilità civile e l’obbligo al risarcimento serve a poco, anche perché è assicurato. Un magistrato inetto, inabile o infedele deve solo cambiare mestiere. Francesco Addeo, il professore arrestato nel 2001 con accuse gravissime, assolto dopo 20 anni di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 23 dicembre 2021 Cartabia: “È malagiustizia”. C’è anche il caso del professor Francesco Addeo, ex capo del Cnr di Avellino nonché docente alla facoltà di Agraria, tra quelli citati ieri da Marta Cartabia che, parlando ai dipendenti del Ministero della Giustizia in occasione del Natale, ha detto: “So cosa vuol dire stanchezza e scoraggiamento”. Addeo infatti fu arrestato nel 2001 con accuse gravissime (associazione a delinquere, falso in atto pubblico, truffa aggravata) quando era uno dei più importanti esperti europei del settore lattiero caseario, dopo le dichiarazioni rese da due imprenditori; gli veniva contestato di avere attestato falsamente la bontà di alcuni prodotti caseari italiani esportati verso la Francia; si trattava in particolare, secondo l’accusa, di burro non genuino spedito oltralpe. Dopo 20 anni Addeo è stato assolto al termine del secondo processo di appello (la Cassazione aveva infatti annullato con rinvio il primo): “il fatto non sussiste”. Oggi il professore, alla vigilia degli 80 anni, è molto malato; ha subìto un trapianto e probabilmente dovrà sottoporsi a un altro intervento. Il suo caso è stato raccontato, tra gli altri, da Stefano Zurlo nel suo “libro nero delle ingiuste detenzioni”. Il professor Addeo, racconta l’avvocato Alberto Barletta, che lo ha difeso, quando fu emessa l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti era in Corsica, dove presiedeva un centro di ricerche sui piccoli ruminanti; si precipitò in Italia per farsi notificare il provvedimento e dal 26 marzo al 26 luglio rimase in custodia cautelare nel carcere di Poggioreale: “Un trattamento - sottolinea il legale - assolutamente spropositato e ingiustificato per uno scienziato, una persona autorevole e stimata conosciuta in tutta Europa”. Quindi ottenne i domiciliari, dove restò altri due mesi, fino al 26 settembre di quell’anno. Nel frattempo erano stati scarcerati i due imprenditori che lo avevano accusato. I processi si sono trascinati stancamente per 20 anni anche perché Addeo, che pretendeva l’assoluzione nel merito, aveva rinunciato alla prescrizione (la prima sentenza, emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, è del 5 novembre 2008: un anno e mezzo di reclusione), mentre le condizioni di salute dello scienziato peggioravano sempre più. Ora l’avvocato Barletta si accinge a chiedere allo Stato il risarcimento per l’ingiusta detenzione: sarebbe una cifra simbolica, ovviamente, ma al tempo stesso il riconoscimento che quei mesi di vita cancellata furono un errore giudiziario. E il professore non spera nemmeno più nel reintegro: “Aveva tanti incarichi, come si farebbe - si chiede Barletta - a reintegrarlo in tutti?”. Scriveva il penalista nel ricorso in Appello dopo la sentenza di condanna del Tribunale di Santa Maria: “Quello che più lascia sconcertati nella lettura della sentenza è, oltre alla considerazione che il Tribunale ha del Viglione (uno degli imprenditori che accusava il professore, ndr) come portatore di verità, il fatto che il Tribunale si lascia trascinare dalle considerazioni e descrizioni non di fatti concreti, ma di contorni, di immagini, di impostazioni di rapporti e così via, che il Viglione con la sua grande capacità di affabulatore propone e che dal collegio giudicante vengono assunti come elementi fondamentali per la dimostrazione della responsabilità dell’imputato”. Dopo 20 anni si è accertato che il professore non aveva attestato falsamente la genuinità del burro prodotto dai suoi accusatori. A causare l’errore giudiziario sono state anche le erronee interpretazioni delle intercettazioni telefoniche e la traduzione imprecisa di alcuni documenti (in particolare analisi sulla qualità dei prodotti) dall’Italiano al Francese e viceversa. Una vicenda amara, dunque, che la ministra Cartabia ha accostato ad altre probabilmente più conosciute. La guardasigilli si è detta infatti “enormemente colpita” da alcuni incontri con cittadini che chiedevano giustizia, come quello a Genova “con le madri che hanno perso i figli in quell’insensato crollo del ponte e che aspettano parole di verità dalle istituzioni” e quelli con i familiari delle vittime della strage di Bologna. Cartabia ha anche fatto riferimento all’incontro con una madre che temeva di non sopravvivere per poter vedere la fine del processo ai responsabili della morte del figlio, “vittima di uno dei tanti, troppi incidenti sul lavoro”. “Quando scriviamo nuove norme - ha perciò concluso la ministra - facciamo qualcosa per persone in carne e ossa. Questo pensiero sia l’energia che ogni mattina ci fa riprendere con serietà e dedizione il nostro lavoro, dopo ogni delusione, stanchezza e frustrazione”. Lombardia. Carceri, Cpr, Rems, Spdc: la visita del Garante alle strutture di detenzione redattoresociale.it, 23 dicembre 2021 Mauro Palma: “Le criticità complessive delle strutture penitenziarie coinvolte nella visita riflettono molte delle problematicità riscontrabili a livello nazionale: dall’affollamento, alla carenza di una complessiva ‘visione’ di una esecuzione penale costituzionalmente orientata, alla carenza di risorse ai diversi livelli” Nei mesi di novembre e dicembre il Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha effettuato una visita regionale in Lombardia svolgendo il monitoraggio di diverse strutture: sette istituti penitenziari per adulti e quello milanese per i minori; il Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Milano; quattro Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) dislocati in diverse città; la ‘multiforme’ Rems tuttora plurimodulare di Castiglione delle Stiviere; una residenza sanitaria assistenziale di Bergamo e alcune camere di sicurezza delle Forze di polizia delle città toccate dalla visita. “Le criticità complessive delle strutture penitenziarie coinvolte nella visita riflettono molte delle problematicità riscontrabili a livello nazionale - afferma il Garante in una nota riassuntiva dell’attività ispettiva -: dall’affollamento, alla carenza di una complessiva ‘visione’ di una esecuzione penale costituzionalmente orientata, alla carenza di risorse ai diversi livelli (di direzione, di personale delle varie funzioni tutte ugualmente essenziali in un Istituto, di dialogo concreto con le strutture sanitarie territoriali). Un panorama ancor più colpito dalle recenti chiusure dovute al rischio pandemico e che, soprattutto nella parte di vista di dicembre, risente della risorgente ansia per i riflessi che la situazione complessiva potrebbe avere sulla vita reclusa”. “La necessità di costruire un rapporto diverso con la sanità territoriale - e all’interno della struttura stessa tra le due amministrazioni - è emersa in modo particolare nella Casa di reclusione di Opera che pure ospita una struttura potenzialmente qualificabile come ospedaliera - afferma il Garante -. Questo aspetto è stato sollevato anche in occasione dell’incontro avuto con la vice-presidente della Regione, Letizia Brichetto Moratti”. Gli istituti visitati sono stati, oltre a quello di Opera, quelli di Bergamo, Brescia ‘Canton Mombello’ e Brescia Verziano, Pavia, Voghera, Monza. In alcuni casi si è trattata di una visita di follow-up, dopo quella del 2017; la situazione riscontrata ha però confermato le criticità allora rilevate. Positiva invece la prima visita all’Istituto di Verziano. “L’Istituto minorile di Milano è tuttora in attesa di finire i lavori di ristrutturazione - evidenzia il Garante -: l’annuncio di uno sblocco dei lavori lascia sperare, anche se quanto riscontrato al momento risente del perdurare di tale situazione. In tutto il territorio deve essere potenziata una rete di effettiva presa in carico delle molte criticità di natura comportamentale o psichiatrica che proponga soluzioni di continuità ed eviti sia il rischio di internamento o di assenza di effettiva risposta ai bisogni espressi, sia il loro ricadere su personale non professionalmente formato per tale compito. Resta tuttora aperta la peculiarità della situazione di Castiglione delle Stiviere, esplicita anche nella sua stessa denominazione di ‘sistema plurimodulare di Rems provvisorie’”. La delegazione è stata particolarmente colpita dalla non consapevolezza da parte dei taluni responsabili di Spdc circa la funzione, i compiti e le prerogative del Garante nazionale: “Situazioni indubbiamente risolte con celerità dal competente assessorato, ma che evidenziano la necessità di una migliore informazione territoriale e di una formazione specifica da rivolgere al personale medico responsabile”. Continua il resoconto del Garante: “La visita al ‘Centro di permanenza per i rimpatri’ è stata seguita da un dialogo con il Prefetto di Milano, in una fase, quale quella attuale, di ridefinizione del Regolamento per la permanenza in tali strutture. I temi affrontati hanno, quindi, riguardato criticità d’ordine generale, già evidenziate in precedenti visite e in Rapporti tematici su tali strutture prodotti e resi pubblici dal Garante nazionale”. Anche alle visite alle camere di sicurezza sono seguiti incontri con i vertici delle Forze di Polizia responsabili. Del resto, gli incontri istituzionali sono parte integrante delle prolungate visite regionali condotte dal Garante nazionale. Oltre a quelli precedentemente incontrati, le delegazioni hanno incontrato i presidenti dei tribunali di sorveglianza di Milano e di Brescia (attualmente magistrato facente funzione), il Procuratore della Repubblica di Pavia (facente funzione), il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, il Garante regionale la Garante della provincia di Pavia, i Garanti comunali di Milano, Bergamo, Brescia. Le parallele sezioni di formazione dei Comandanti di strutture dell’Arma dei Carabinieri, tenute al Comando provinciale di Brescia e a quello di Pavia, sono state altresì occasioni di scambio e di valutazione circa il tema della privazione della libertà da parte dell’Arma dei Carabinieri. Nelle due sessioni e nell’articolazione in tre sotto-delegazioni, che hanno lavorato in parallelo, la visita ha coinvolto, oltre ai tre componenti del Collegio, tredici componenti dell’Ufficio per complessive ventisette giornate lavorative. Lazio. Del tutto svanito “l’effetto Covid” è ritornato il sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 dicembre 2021 C’è una situazione di grande sofferenza e si è esaurito l’effetto deflattivo nelle carceri. Questo e altro ancora emerge dai dati odierni presentati durante la conferenza stampa di martedì scorso da Stefano Anastasìa, Garante dei detenuti della Regione Lazio. “La situazione del sistema penitenziario italiano - ha sottolineato Anastasìa - è una situazione ancora di grande di grande sofferenza e sembrano essersi esauriti gli effetti immediati di rallentamento delle presenze nei penitenziari che ci sono state durante la fase più dura del covid”. Il Garante ha ricordato, infatti, che durante il lockdown i detenuti hanno dovuto vivere una “doppia chiusura”, quella propria e quella generata dalla pandemia. Il Garante ha illustrato le slide dove viene riportato l’andamento delle presenze nelle carceri italiane da gennaio 2020, quindi da prima dell’inizio della pandemia, ad oggi. L’ ultimo rilevamento ufficiale è del 30 novembre scorso e dai grafici emerge che c’è stato un drastico calo nei mesi di aprile e maggio del 2020, ovvero il momento del lockdown. Ciò era dovuto principalmente per la preoccupazione rispetto alla diffusione del virus in carcere e quindi le relative misure che hanno accompagnato il contenimento delle presenze. “Da allora c’è stato un andamento altalenante e dobbiamo registrare a livello nazionale che da luglio ad oggi la popolazione detenuta è in costante crescita”. I rischi di diffusione del virus sono ancora molto rilevanti e la gestione degli istituti penitenziari in regime covid risulta difficile. Sì, perché bisogna attuare tutte le misure di prevenzione che comporta l’isolamento, la quarantena quando necessario, dentro un sistema sovraffollato. “L’ andamento delle presenze nelle carceri del Lazio in termini generali sembra migliore di quella nazionale”. Ma nel contempo il garante ha sottolineato una presenza superiore alla capienza regolamentate: 5569 detenuti a fronte di 5158 posti. I numeri generali, però non bastano. Entrando nel dettaglio ci sono differenze anche nel Lazio. “Il problema - denuncia Anastasìa - si concentra in alcuni istituti”. C’è l’esempio del carcere di Latina c dove il sovraffollamento è al 163 percento. Va anche considerato un altro dettaglio. L’istituto di Latina è diviso in una sezione maschile e in una sezione femminile. “Considerando che nella sezione femminile non c’è sovraffollamento - ha osservato il Garante - significa che il problema è tutto concentrato nella sezione maschile”. Anastasìa ha rivelato questo dato, anche perché il carcere di Latina è stato recentemente teatro di una protesta da parte da parte dei detenuti che ha comportato l’intervento delle forze dell’ordine sul territorio. “Non possiamo sottovalutare che queste cose sono legati anche a particolari condizioni di detenzione”, ha chiosato il Garante regionale. Cagliari. Suicidio di un detenuto ricoverato in ospedale. “Una tragedia annunciata” di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 23 dicembre 2021 La denuncia arriva da quattro sindacati di Polizia penitenziaria (Sappe, UilPa, Sinappe, Uspp) all’indomani del tragico fatto avvenuto lunedì pomeriggio nell’ospedale Businco di Cagliari, dove Sandro Sarais, 56 anni, accusato di aver ucciso la compagna romena dieci giorni fa a Quartu e ricoverato in stato detentivo al terzo piano del reparto di chirurgia toracica, è riuscito ad eludere la sorveglianza di due agenti penitenziari e si è lanciato nel vuoto da una finestra. I sindacati chiedono che adesso sia la magistratura a far luce del perché si sia arrivati a questa tragedia. “È da anni che denunciamo la necessità di poter utilizzare un repartino detentivo ospedaliero dove poter ricoverare in sicurezza i detenuti - affermano i coordinatori regionali dei quattro sindacati di polizia penitenziaria -. Ci siamo rivolti al Provveditore, al capo del Dipartimento, ai prefetti, al presidente della Regione e all’assessore alla Sanità uscenti e attuali, ottenendo solo delle promesse mai mantenute”. Secondo i sindacati “è ancora più scandaloso che proprio a Cagliari un repartino detentivo è stato costruito con tutti i canoni di sicurezza previsti nell’ospedale Santissima Trinità, ma è stato utilizzato come deposito. Nel frattempo, gli eventi critici si sono susseguiti negli anni: tentativi di evasione, aggressioni, danneggiamenti di camere ospedaliere e per ultimo un suicidio che poteva essere evitato se la finestra avesse avuto le sbarre”. Viterbo. Galera criminale: un passo verso la verità sul suicidio in cella di Hassan di Luigi Manconi La Stampa, 23 dicembre 2021 La morte del detenuto dopo le botte degli agenti. Il carcere sotto accusa tra violenze e omertà. Come il regime dispotico di Abdel Fattah al-Sisi si comporti con i suoi prigionieri, lo sappiamo bene: che si tratti del sequestro, della reclusione illegale e dell’assassinio di un cittadino italiano (Giulio Regeni) oppure della custodia cautelare, crudelmente reiterata, di un dissidente egiziano, tanto peggio se membro di una minoranza religiosa (Patrick Zaki). Come il sistema democratico italiano e la sua amministrazione della Giustizia si comportino con i malcapitati, italiani o stranieri, che vi precipitano dentro, è anch’essa cosa nota. Accade così che un pubblico ministero di una procura del Centro Italia chieda l’archiviazione di una indagine relativa alla morte di un ventunenne che, il 23 luglio del 2018, ha tentato di impiccarsi in una cella di isolamento. I familiari della vittima si oppongono e l’udienza per decidere la riapertura o meno del procedimento viene fissata per il 2024 (avete letto bene: 2024). Poi, come si dice, qualcuno si mette la mano sulla coscienza e l’indagine viene avocata dalla procura generale di Roma, che dispone la revoca della richiesta di archiviazione. Si apre finalmente, a distanza di tre anni e mezzo, una fase nuova di una storia che presenta aspetti davvero inquietanti. Ecco i fatti: Hassan Ramadan Mukhaymar Sharaf arriva nel carcere di Viterbo dopo aver dormito per mesi all’interno dei treni nella stazione Termini di Roma. Arrestato per aver rubato un portafogli, viene recluso prima a Regina Coeli e poi al Mammagialla di Viterbo. Quel giorno di luglio del 2018, due ore dopo essere stato portato in isolamento, Hassan Sharaf, nessun problema psichiatrico conclamato, sfila i lacci dalle scarpe, li lega alla grata d’aerazione del bagno, forma un cappio che stringe intorno al collo. Morirà dopo sette giorni nell’ospedale Belcolle di Viterbo. Qualche tempo prima, il giovane aveva denunciato al Garante delle persone private della libertà del Lazio, Stefano Anastasia, e all’avvocato Simona Filippi di essere stato percosso da alcuni agenti; e aveva mostrato segni rossi sulle gambe e tagli sul petto. E aveva aggiunto: “Ho paura di morire”. Da qui la richiesta del Garante Anastasia del trasferimento di Hassan Sharaf in un altro istituto. Cosa non avvenuta. Ma questa vicenda presenta una lunga successione di scelte sbagliate e di comportamenti illegali da parte delle autorità penitenziarie. Hassan era stato messo in isolamento perché avrebbe trafficato con psicofarmaci. Una sanzione disciplinare per un fatto avvenuto quattro mesi prima e quando mancavano quaranta giorni alla liberazione. D’altra parte, Hassan non si sarebbe dovuto trovare in quel carcere: aveva finito di scontare la pena per rapina nel maggio del 2018. Dunque, il passaggio successivo sarebbe stata la reclusione in un istituto minorile - come aveva richiesto, inascoltato, il Magistrato di sorveglianza - dal momento che aveva ancora da scontare quattro mesi per una condanna inflittagli quando era minorenne (spaccio di una quantità di hashish del valore di dieci euro). In ogni caso, quale fosse il clima generale del carcere di Viterbo e il trattamento riservato, in particolare, al giovane, sono provati da un video allegato agli atti del processo contro due poliziotti penitenziari, imputati per abuso di mezzi di correzione, aggravato da abuso di potere. Le immagini, pubblicate dal sito di The Post Internazionale a cura di Laura Bonasera, riprese dalla telecamera di sorveglianza della sezione di isolamento, non sembrano lasciare dubbi. Mostrano Hassan che sporge le braccia dalla porta a grate, procurandosi tagli sull’avambraccio sinistro. Qualche minuto dopo, l’ingresso di due poliziotti nella cella. Uno colpisce il giovane con uno schiaffo talmente violento da fargli sbattere la testa contro la parete, senza che l’altro, superiore di grado, intervenga e senza che, in seguito, relazioni sull’accaduto. Si tratta dell’ennesima brutta storia relativa al carcere di Viterbo destinata ad alimentare una persistente “leggenda nera”, fatta di violenza e autolesionismo, abusi e prevaricazioni, intimidazioni e omertà. Tutto ciò ha fatto di quell’istituto una sorta di zona franca: un sistema impermeabile (o forse troppo permeabile) ai cambi di direttori e di comandanti. Non è una sensazione solo mia. Nel marzo del 2019, il Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa (Cpt), dopo aver visitato quel carcere, ha scritto che vi si riscontrerebbe “uno schema di maltrattamenti inflitti deliberatamente” ai detenuti. A pensarci, non sarebbe così eccentrico che su tali vicende, e su quell’istituto, si potesse ascoltare qualche parola da parte di chi ha la massima responsabilità pubblica e amministrativa (ovvero il Dap). E ci si potrebbe consolare un po’, si fa per dire, dal momento che - dopotutto - la decisione della Procura generale dovrebbe consentire l’accertamento della verità: magari immaginando che si tratti di una situazione eccezionale. Ahinoi, non è affatto così. Basti considerare che - a quanto è dato sapere - attualmente sono in corso dibattimenti e inchieste della magistratura relativamente a un paio di decine di vicende di maltrattamenti e torture ai danni di detenuti. Sia chiaro: non è l’Egitto, proprio per nulla, e da noi gli organi di controllo e gli strumenti di garanzia esistono e, per quanto faticosamente, funzionano. Tuttavia, penso, c’è poco da stare allegri. Santa Maria C.V.. Nel carcere delle violenze l’acqua potabile non c’è neanche questo Natale di Giulia Merlo e Nello Trocchia Il Domani, 23 dicembre 2021 Nel carcere dei pestaggi dell’aprile 2020, spento il clamore mediatico, nulla sembra essere cambiato. L’acqua potabile ancora non c’è. La temperatura esterna è di circa dieci gradi, che però scendono nel corso della notte e le celle non sono riscaldate. Inoltre, è in corso un focolaio di contagi di Covid, con 61 detenuti positivi. Del resto, come ha spiegato la garante dei detenuti di Caserta Emanuela Belcuore, “Un detenuto su tre non è vaccinato, perché l’obbligo di vaccinazione esiste solo per gli agenti”. Che quello che sta per arrivare sia un Natale se possibile ancora più difficile a Santa Maria non lo denuncia solo la garante. Anche la stessa polizia penitenziaria denuncia la gravità della situazione, perché manca personale per fare la sorveglianza. Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere l’acqua potabile ancora non c’è. La temperatura esterna è di circa dieci gradi, che però scendono nel corso della notte e le celle non sono riscaldate. Il giorno di Natale è prevista pioggia e così anche nei giorni seguenti, a rendere il clima ancora meno di festa nel carcere diventato tristemente noto alle cronache nel corso del 2021 quando Domani ha raccontato e reso pubblico il pestaggio dei detenuti da parte di 283 agenti della polizia penitenziaria, avvenuto il 6 aprile 2020. Allora, i reclusi rivendicavano acqua potabile, mascherine e gel per difendersi dal contagio e risposte sul virus nella struttura. Proprio come nei ricordi di un ex detenuto, che nell’istituto ha passato alcuni mesi e anche le festività natalizie. Quando gli si chiede cosa ricordi con più chiarezza, risponde: “L’acqua marrone che usavamo per lavare i denti. In quel carcere si entra con i denti e si esce senza, perché l’acqua potabile ancora non c’è. Io mi sto ancora curando”. E questo nonostante già allora i reclusi portassero avanti una battaglia che lui stesso definisce “inutile”, per chiedere l’allacciamento con la condotta idrica comunale. “Nella cella non c’era neanche la doccia. Dovevamo uscire in corridoio per farla”. Oggi, a più di un anno di distanza dai pestaggi e terminata l’onda del clamore mediatico, nulla sembra essere cambiato. Nulla è cambiato - Santa Maria Capua Vetere non è diventato un carcere modello, anzi. Anzi, le condizioni sono rimaste immutate. Non solo per il fatto che continui a mancare l’acqua potabile, ma anche dal punto di vista sanitario. A mostrare come l’immobilismo -o forse l’indifferenza una volta spenti i riflettori- siano la cifra dell’atteggiamento nei confronti del carcere e di questo istituto in particolare è il caso del detenuto al quale è stata somministrata una dose di vaccino non diluita che valeva per sei. Doveva essere spostato, ma ad oggi è ancora nel carcere “Francesco Uccella” e qui trascorrerà il Natale un altro anno. “Abbiamo chiesto decine di volte il trasferimento di questo detenuto a Bergamo, ma il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ci ascolta”, dice la garante dei detenuti di Caserta Emanuela Belcuore. E il suo non è un caso isolato. Sia nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che in altri istituti campani, la garante ha raccontato anche dell’aumento degli arrivi nel carcere da parte di detenuti provenienti dalla regione Lazio. “Capisco lo sfollamento dalle altre carceri, ma non andiamo a ingolfare il Francesco Uccella che sta provando a risorgere grazie anche all’impegno della nuova direttrice. Dobbiamo rendere il carcere di Santa Maria un istituto modello, queste scelte non vanno in questa direzione”, dice. Le carceri campane oggi sono guidate da Carmelo Cantone, provveditore già per Lazio, Molise e Abruzzo e dal luglio scorso provvisoriamente provveditore anche in Campania. I contagi aumentano - Come nelle altre carceri italiane, infatti, il sovraffollamento è costante ma a soprattutto si è aggravata la situazione dei contagi: proprio al reparto Nilo, decine di detenuti si sono contagiati arrivando alla cifra record di 61, addirittura più di quelli di un anno fa nello stesso periodo, in piena emergenza pandemica. “A Santa Maria Capua Vetere il focolaio è sfuggito ad ogni controllo”, ha ammesso anche il segretario generale del sindacato polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo. Del resto, come ha spiegato Belcuore, “Stimiamo che non siano vaccinati tra il 30 e il 40 per cento dei detenuti, praticamente uno su tre. Questo perché l’obbligo di vaccinazione esiste solo per gli agenti”. Il problema non sono i detenuti no-vax - pochissimi - ma il fatto che non ci sono gli operatori sanitari per somministrare i vaccini, per questo la garante ha chiesto un camper dell’Asl in carcere per portare avanti a tappeto la campagna vaccinale. Altrimenti il cluster rischia di allargarsi ancora in una struttura che, nonostante l’attenzione dichiarata dalle autorità istituzionali e politiche, è rimasta abbandonata a se stessa. “Bisognerebbe anche chiedere i tamponi oppure il green pass all’ingresso sia agli avvocati che ai familiari dei detenuti, che possono essere veicolo di contagio per chi sta all’interno. Ma la situazione attuale è questa”, spiega la garante Belcuore. Che tutto rischi di sfuggire di mano lo dimostra il fatto accaduto due settimane fa. Il 14 dicembre, quando è stato trovato l’ennesimo detenuto positivo, tre reclusi del terzo piano hanno aggredito alcuni agenti. La situazione è subito rientrata. Se nelle celle si vive all’addiaccio e con la paura del contagio, anche la polizia penitenziaria protesta. I sindacati, infatti, hanno chiesto che l’obbligo vaccinale venga disposto anche per i detenuti, oltre che l’introduzione del green pass obbligatorio per avvocati e familiari che accedono al carcere per i colloqui. “Siamo in piena quarta ondata e, in assenza di questi due semplici provvedimenti, si rischia che situazioni analoghe possano verificarsi in altre strutture penitenziarie dove il sovraffollamento unito all’esiguità di personale sono elementi peggiorativi di una situazione incancrenita da tempo”, ha scritto in una nota Giuseppe Moretti, presidente campano dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria. Visto l’aumento dei contagi, i detenuti sono stati spostati in altri reparti, ma insufficiente sembra essere anche l’infermeria centrale della struttura, dove sono ricoverati anche detenuti malati di tumore. “L’area sanitaria è carente perché manca il personale, gli stessi medici disertano il carcere come scelta. La cosa spaventosa è che manca la figura della psichiatra, tranne una alla sezione Nilo dove ci sono detenuti con disturbi mentali”, dice la garante Belcuore. Nell’istituto penitenziario, infatti ci sono solo psicologi “ma in numero totalmente inadeguato”. Un Natale difficile - Che quello che sta per arrivare sia un Natale se possibile ancora più difficile a Santa Maria non lo denuncia solo la garante. Anche la stessa polizia penitenziaria denuncia la gravità della situazione, perché manca personale per fare la sorveglianza proprio durante i giorni festivi a causa dell’incremento non solo dei detenuti positivi, ma anche degli agenti. “Non riusciamo a capire come sarà possibile far fronte ad una situazione davvero complicata persino per i normali turni di servizio”, ha detto Di Giacomo. Il rischio, se i contagi continuano ad aumentare e contemporaneamente diminuisce il numero di chi presta servizio, è che si debbano ridurre le visite in carcere, che soprattutto sotto le feste sono l’unica fonte di sollievo per i detenuti, almeno per quelli di loro che possono essere raggiunti dalla famiglia. Ma una scelta di questo tipo verrebbe vissuta come l’ennesima afflizione per i reclusi, rendendo ancora più difficile la situazione già tesa, soprattutto se una simile misura venisse adottata durante il periodo delle festività. Anche perché proprio la riduzione dei colloqui con le famiglie, sommata all’emergenza pandemica, è stata una delle micce che hanno scatenato l’esasperazione dei reclusi proprio nei giorni della primavera 2020, in cui in alcuni penitenziari si sono scatenate le rivolte. I ricordi di un ex detenuto - Che nulla, nel carcere di Santa Maria, ricordi anche solo lontanamente il Natale però è un fatto. Nei ricordi di chi ha trascorso lì alcuni mesi da detenuto, la durezza di quei giorni dietro le sbarre di uno degli istituti più difficili d’Italia è ancora impressa nella memoria. “Potevamo fare entrare in carcere venti chili di prodotti al mese, tra cibo e abbigliamento”, racconta. Troppo poco, per considerare le festività natalizie come un momento speciale. A tentare di sopperire, però, era scattata la solidarietà reciproca tra detenuti. “Per allestire almeno un minimo di clima natalizio ci siamo accordati tra compagni di cella. Ognuno faceva entrare qualcosa per trascorrere un natale quasi normale”. E così racconta che era stato possibile avere un po’ di spaghetti, la carne, l’agnello, “insomma, i prodotti della tradizione. Avevo un compagno di cella calabrese più giovane che ha preparato il nostro pranzo di natale, se così possiamo chiamarlo”. Quel poco di consolazione possibile, per chi non ha alternative e spesso nemmeno più speranza. Firenze. Il reinserimento dei detenuti passa da una mobilità sostenibile giornaleradiosociale.it, 23 dicembre 2021 A Firenze 200 mezzi a noleggio a lungo termine per una mobilità sostenibile e il reinserimento sociale. A fornire le bici, infatti, sarà la cooperativa sociale fiorentina Ulisse, che da anni porta avanti “Piedelibero”, progetto sociale di reinserimento lavorativo dei detenuti, in un’officina allestita all’interno dell’Istituto Penitenziario di Sollicciano. Duecentotrenta biciclette “sostenibili”, recuperate e perfettamente restaurate, sono pronte a popolare le piste ciclabili e le strade di Firenze grazie al progetto “Piedelibero per La Comune”. L’iniziativa d’esordio de “La Comune”, neocostituita cooperativa di comunità urbana fiorentina - la prima in città - è un progetto di noleggio bici a lungo termine, nato grazie al contributo della Fondazione NOI - Legacoop Toscana, che coniuga sostenibilità ambientale, riuso e riciclo, valorizzazione di percorsi di reinserimento sociale e promozione di uno stile di vita più ecologico. “Piedelibero per La Comune” punta a incentivare la mobilità sostenibile su due ruote a partire dalle giovani generazioni e dagli studenti, che avranno a disposizione un servizio di noleggio utile e vantaggioso per “pedalare in libertà” contribuendo anche, alla luce dell’esperienza pandemica, a non “intasare” i mezzi pubblici nelle ore di punta. Diventando soci della neonata cooperativa “La Comune”, singoli cittadini, aziende o associazioni potranno noleggiare per 6 mesi o un anno una bicicletta ad un canone agevolato. A fornire le bici sarà la cooperativa sociale fiorentina Ulisse, che da anni porta avanti “Piedelibero”, progetto sociale di reinserimento lavorativo dei detenuti: in un’officina allestita all’interno dell’Istituto Penitenziario di Sollicciano, sotto l’occhio esperto dei meccanici-operatori sociali di Ulisse, le biciclette provenienti dalla Depositeria comunale vengono recuperate e portate a nuova vita, riciclando in sicurezza rottami altrimenti destinati alla demolizione. Le bici disponibili per il noleggio con “La Comune” saranno di diversi modelli (Olanda 26”, City bike mono marcia 28”, City bike con marce 28”) e saranno completamente riqualificate: ciascuna bicicletta avrà un numero di serie inciso sul telaio che la renderà identificabile e garantirà la filiera sicura del prodotto. Le bici saranno complete di campanelli e catarifrangenti ed immediatamente riconoscibili grazie alle caratteristiche manopole rosse e all’adesivo “Piedelibero per La Comune”. Gli adesivi sono stati stampati dalla Stamperia Sociale - Ginger Zone, realtà che ha come finalità l’inserimento socio-lavorativo di giovani stranieri non accompagnati e persone in stato di fragilità, promossa da Cospe-Onlus e Cooperativa Sociale Oltre il Ponte Onlus. Sulle biciclette sarà presente anche un Qr code, che una volta inquadrato darà accesso a tutte le informazioni relative al progetto. Alla sottoscrizione del primo noleggio, i primi 100 soci della cooperativa avranno in omaggio un kit luci, un lucchetto ad alta resistenza e una borraccia fornita da Publiacqua spa (luci, lucchetti e caschi saranno inoltre sempre acquistabili dai soci della cooperativa a prezzi vantaggiosi). Nel contratto di noleggio saranno inclusi due tagliandi obbligatori per revisionare periodicamente i mezzi e in città sarà attivata una rete di officine convenzionate. Inoltre, sarà possibile parcheggiare gratuitamente la bici in uno degli spazi messi a disposizione da Uisp Firenze: la rete dei depositi sarà implementata costantemente, per essere sempre più capillare all’interno del territorio comunale. E in caso di furto del mezzo? Sarà possibile avere un’altra bici: opzione, questa, valida per una volta nel corso del noleggio, presentando la denuncia di furto. Ariano Irpino (Av). Una giornata all’insegna della legalità tra detenuti e mondo esterno di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 23 dicembre 2021 Nel carcere Campanello proiezione del film Gelsomina Verde, vittima innocente dalla faida di Scampia. Ha suscitato particolare interesse oltre ad un dibattito interessante, con il coinvolgimento dei detenuti, la proiezione del film Gelsomina Verde, uccisa a soli 21 anni nella prima sanguinosa faida di Scampia. Il carcere che si apre all’esterno e che nonostante le difficoltà legate ad una cronica mancanza di uomini e donne della polizia penitenziaria, tema cruciale di un anno difficile e duro su questo fronte, mostra le sue potenzialità e i frutti di un proficuo lavoro che vede protagoniste ogni giorno diverse figure professionali. Elogi al grande lavoro svolto ad Ariano sono arrivati dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello in visita alla struttura arianese: “Tutte le carceri hanno bisogno di riconciliarsi con il mondo esterno e all’interno, e queste attività culturali, scolastiche, teatrali, musicali, aiutano a recuperare le emozioni delle persone e a riflettere sulle proprie responsabilità. Il vero cammino di reinserimento sociale è questo. Purtroppo non è sempre così, il carcere come azienda ha fallito, molta gente ci ritorna. Vince chi invece è riuscito a costruire un ponte, grazie ad una cooperativa, un’associazione, un cappellano. L’augurio è che in questo natale, possa essere superato il muro dell’indifferenza. Una politica cinica, pavida considera il carcere come una discarica sociale. Una risposta semplice a bisogni che sono complessi. Abbiamo bisogno di recuperare in ogni carcere una dimensione trattamentale. Alla persona che sbaglia, deve essere tolto il diritto alla libertà, ma non alla dignità”. Ha suscitato particolare interesse oltre ad un dibattito interessante, con il coinvolgimento dei detenuti, la proiezione del film Gelsomina Verde, uccisa a soli 21 anni nella prima sanguinosa faida di Scampia, la cui ferita resterà per sempre triste e indelebile. Presente il regista Massimiliano Pacifico e l’attore e drammaturgo Davide Iodice. Prezioso il lavoro svolto dalla docente Michela Notaro. Una squadra ben collaudata, ognuno ha dato il proprio contributo in termini di risorse umane e professionalità. “Una storia di una vittima di camorra, una forte attenzione per la legalità - ha detto la direttrice della casa circondariale Campanello, Maria Rosaria Casaburo - un riflettere insieme su quelli che sono i danni devastanti che la criminalità organizzata può produrre su persone che alla fine non ne fanno nemmeno parte. Il carcere deve essere palestra di legalità e credo che in questa giornata abbiamo svolto un bell’esercizio”. Un anno difficile segnato dalle rivolte nelle carceri in Campania, da una pandemia che non accenna purtroppo ad allontanarsi, ma che fortunatamente grazie ad una sinergia tra le varie istituzioni e all’ottimo e scrupoloso lavoro svolto dalla direzione del carcere arianese risulta essere al momento sotto controllo. “Un anno faticoso, molto intenso di lavoro, ma non sono mancate le soddisfazioni. Ad esempio, l’essere riusciti a fronteggiare la pandemia, per cui Ariano, vanta oggi questo piccolo record, nessun detenuto e agente contagiato all’interno dell’istituto. Tutto questo, grazie ad un’opera intensa di prevenzione, grazie anche al supporto dell’Asl. Alcune attività sono in corso, altre in procinto di partire, speriamo di poter continuare su questa strada.” Cosenza. C’è una biblioteca in carcere (per merito di un bambino) di Domenico Marino Avvenire, 23 dicembre 2021 Bico, 4 anni, e la mamma, Marta, hanno realizzato a Cosenza l’idea di portare volumi da tenere dietro le sbarre. La colletta di carta è destinata ai figli dei detenuti. “Mamma, sarebbe bello creare una libreria nel carcere. Così, magari, i papà potrebbero leggere qualche pagina assieme ai figli durante le visite. Che ne pensi?”. È cominciata così, dal sogno... sognante di Alberico Guarnieri, per tutti Bico, un bambino di quattro anni, la raccolta di volumi da destinare alla casa circondariale di Cosenza, all’interno dello Spazio giallo che è un progetto ministeriale realizzato in quasi tutti i penitenziari. In Calabria quello di Cosenza è il primo. Accoglie i piccoli in arrivo nel luogo di reclusione prima di entrare per incontrare i papà, e all’uscita dopo avere dialogato con loro. Un’équipe di specialisti all’ingresso li prepara e se ne prende cura. Proprio lì da gennaio troveranno spazio i libri che Marta Monteleone della libreria ‘Raccontami’ di Cosenza sta raccogliendo per realizzare il sogno del suo piccolo. Perché Bico è suo figlio ed è anche un po’ merito suo se ha maturato l’idea, perché pedalano spesso assieme lungo la pista ciclabile cosentina che in un tratto costeggia il carcere cittadino. Lei lo accompagna a scuola in sella, passando a poca distanza da quei muri alti e spessi. Ma è stata una serie di coincidenze fortunate, o forse è meglio scrivere provvidenziali, che ha per- messo la trasformazione in realtà della speranza di Bico, il quale ha pure fatto un disegno diventato immagine dell’iniziativa solidale. La mamma ne ha parlato con l’amica Carmen Rosato, che è impegnata nel penitenziario come operatrice, la quale a sua volta ha condiviso l’idea con la direttrice Maria Luisa Mendicino che l’ha colta al volo. Dalle parole e dai buoni propositi si è presto passati ai fatti, con la raccolta avviata in una vera e propria biblioteca. Sono già tanti i volumi accumulati nelle ceste sistemate ad hoc nel locale, e promettono di aumentare ancora sino al 7 gennaio quando la colletta di... carta terminerà e verranno consegnati al penitenziario affinché siano catalogati e sistemati nello Spazio giallo. Non è finita, perché Marta se n’è inventata un’altra chiedendo a quanti acquistano un libro ‘sospeso’, di lasciare una dedica per chi sfiorerà quelle pagine. E così, sfogliando qua e là, si può ad esempio leggere un invito a guardare con fiducia al futuro anche da dietro le sbarre, perché in fondo anche da lì il cielo è azzurro come se osservato dall’esterno. “Abbiamo avuto questa idea perché ci piace che chi viene qui per donare un volume destinato alla libreria in carcere mandi un messaggio o comunque trasmetta qualcosa a chi leggerà, che adesso inevitabilmente è un lettore ideale” commenta Marta. I libri regalabili sono esclusivamente per altri bambini, da 0 a 10 anni. Bella l’idea, ottima la realizzazione, emozionate le prime reazioni. Bico stenta a credere che il suo sogno diventerà realtà e alcuni detenuti hanno trattenuto a stento le lacrime quando hanno saputo quello che si sta organizzando per loro. “Forse in tanti vi vogliono del male, ma di sicuro ci sono tanti che vi vogliono un gran bene e stanno preparandovi un gran ben regalo”, è stato detto loro nei giorni scorsi. L’iniziativa ha ancora più valore perché in precedenza i figli potevano incontrare i padri solo assieme alle mamme, mentre da un po’ di tempo possono anche farlo da soli, avendo dei momenti faccia a faccia, cuore a cuore, con il genitore. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). “La voce di Abdul”, progetto per l’integrazione dei detenuti Il Mattino, 23 dicembre 2021 La proiezione di un film per sensibilizzare i detenuti sul tema dell’integrazione, una mostra d’arte con i loro lavori realizzati nei penitenziari e un corso di formazione che può aprire nuovi spiragli per lavorare dietro le quinte delle produzioni cinematografiche dopo aver scontato la propria pena in carcere. È partito dalla casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi “La voce di Abdul”, il progetto organizzato dall’associazione Anthos, che prevede una serie di appuntamenti in diversi penitenziari, anche minorili, della Campania. Il progetto si articola in vari step, come illustra Patrizia Canova che, con l’associazione Anthos e l’imprenditore Salvatore Suarato, per passione produttore cinematografico, ha ideato l’iniziativa. “Tutto parte dalla proiezione del film Caina una sconvolgente favola nera che racconta gli orrori legati all’immigrazione clandestina, soprattutto delle persone che non sopravvivono ai viaggi della speranza a bordo dei barconi dall’Africa all’Italia. Uno degli obiettivi è dare voce ad Abdul, un ragazzo nigeriano che ce l’ha fatta, che vive e lavora in Italia dopo essere sopravvissuto a quella traversata” afferma Patrizia Canova. “Abdul è un ragazzo che lavora con me e il racconto del suo viaggio ha reso ancora più reale la storia del film che spiega il lato oscuro di chi non ce la fa. Invece, Abdul è la voce di chi ce l’ha fatta ad attraversare il Mediterraneo e a trovare una vita migliore. Siamo contenti che il film Caina, che doniamo gratuitamente a tutti i penitenziari che ce lo chiederanno, possa essere lo spunto per i giovani detenuti affinché possano trovare un’alternativa dopo il carcere. L’obiettivo è quello di poter dare una chance di lavoro a qualche ragazzo per una futura produzione cinematografica” racconta Salvatore Suarato, che con la Movieland ha prodotto Caina. Diversi istituti penitenziari hanno già aderito al progetto, che si articola in più punti. Dopo la proiezione di Caina, film prodotto dalla Movieland con la regia di Stefano Amatucci e vincitore di diversi premi ai festival internazionali, parte il vero e proprio coinvolgimento dei detenuti in una serie di attività. Innanzitutto possono iscriversi al concorso “Io ci sto” che avrà come tema le riflessioni scaturenti dal film Caina. I partecipanti potranno iscriversi in varie sezioni: narrativa, fotografia, cortometraggio, scultura e creazioni artistiche. I lavori realizzati saranno in mostra a luglio negli spazi messi a disposizione dall’Ente Parco Regionale dei Monti Lattari nella sua sede al palazzo reale di Quisisana, a Castellammare di Stabia, nell’ambito dell’iniziativa “Le ali della libertà”. Le stesse opere potranno essere vendute e i ricavati saranno devoluti ai penitenziari per realizzare ulteriori corsi e iniziative. Con il nuovo anno, poi, partirà anche un corso di formazione dedicato ai detenuti, che potranno studiare i vari ruoli prettamente tecnici che si nascondono dietro una produzione cinematografica: un corso professionalizzante, che permetterà ai detenuti di poter lavorare nel mondo del cinema, una volta espiata la propria pena. Figure come elettricisti e tecnici che sono molto ricercati e preziosi per il buon funzionamento di una produzione. La prima tappa del progetto “La voce di Abdul” si è tenuta presso il penitenziario di Sant’Angelo dei Lombardi, dove i detenuti hanno assistito alla proiezione del film Caina. “Un progetto dalle finalità fortemente risocializzanti, che ha l’obiettivo di creare nuove figure professionali per il cinema e che prepara i detenuti al loro effettivo reinserimento sociale, spiegando loro l’importanza e la valenza di alcuni lavoratori senza i quali film, serie tv e produzioni non potrebbero esistere. Speriamo che i primi professionisti formati attraverso questo corso siano nostri ospiti che, uscendo dal carcere, potranno trovare subito un modo per mettersi alle spalle il proprio passato” commenta Marianna Adanti, direttrice del carcere di Sant’Angelo. La seconda tappa del progetto ha toccato, poi, l’istituto penitenziario minorile di Airola, dove il film Caina è stato proiettato ai ragazzi detenuti. I più giovani saranno coinvolti anche in un corso di filmaker e un laboratorio teatrale. Milano. All’Ipm “Beccaria” ritorna lo sport: la palestra rinasce dopo anni di inagibilità di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 23 dicembre 2021 “Era attesa da tempo”. La Fondazione Rava ha finanziato il cantiere. Inaugurazione con Turci, Colombari e Costacurta. Gatto (Tribunale per i minorenni): “Segnali importanti”. Verde, azzurro, rosso. Colori scelti dai ragazzi del Beccaria che, insieme ai volontari della Fondazione Francesca Rava, hanno reso possibile un piccolo miracolo: dopo tanti anni di inagibilità la palestra del carcere è di nuovo funzionante e più bella che mai. “Finalmente hanno uno spazio di grandi dimensioni da utilizzare per le attività sportive e il merito è tutto loro - dice la presidente della onlus, Maria Vittoria Rava -. Hanno partecipato alla ristrutturazione con impegno ed entusiasmo sperimentando un modo costruttivo di vivere le relazioni. È un traguardo, un regalo di Natale simbolo di riscatto per tutta la comunità”. Tornei sportivi - La palestra è uno dei tasselli del progetto “Palla al centro” nato dall’accordo di collaborazione con Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, e Francesca Perrini responsabile del Centro giustizia minorile per la Lombardia. In nome di quel progetto sono già stati attivati una scuola di informatica, laboratori di arte e imbiancatura, un programma di tornei sportivi e un ciclo di incontri motivazionali di preparazione al lavoro. “Dare segnali concreti di attenzione nei confronti dei ragazzi che temporaneamente vivono qui ed è importante per contrastare la loro stigmatizzazione sociale - sottolinea Gatto -. Dobbiamo rafforzare il ponte tra dentro e fuori, preparare il terreno per quando quei ragazzi usciranno e per questo sforzarci di immaginare un carcere minorile sempre più aperto”. Se è vero che l’ingresso al Beccaria, per gli adolescenti più vulnerabili, rischia talvolta di rafforzare un’identità deviante, è anche vero che se si uniscono forze pubbliche e private, quello stesso periodo può essere trasformato al contrario in una opportunità. Ieri c’erano le madrine della fondazione Paola Turci e Martina Colombari, con Billy Costacurta che è sceso in campo assieme ai ragazzi. Ancora, la direttrice del Beccaria Mimma Buccoliero e gli assessori comunale e regionale al Welfare Lamberto Bertolè e Letizia Moratti. “Chi commette reato a 15 anni non sceglie di delinquere. Invece sta chiedendo aiuto, ci chiama tutti in causa”, rimarca Bertolè. Il sovraffollamento - Certo, al Beccaria le criticità non mancano e di recente il procuratore capo del Tribunale per i minorenni Ciro Cascone le ha messe nero su bianco in una lettera indirizzata al ministero. Il sovraffollamento, intanto (39 ragazzi, e dovrebbero essere massimo 31). E poi: “Gli spazi in origine destinati ai ragazzi arrestati in flagranza sono occupati da quelli in isolamento preventivo per il Covid. Risultato: chi è in stato di fermo deve essere portato via, accompagnato a Torino o Genova. Visto poi che i lavori che dovrebbero raddoppiare la capienza della struttura dureranno almeno un altro anno, per mancanza di spazio alcuni giovani detenuti vengono trasferiti in altre regioni, lontani dalle famiglie, e questo aggiunge sofferenza”, denuncia Cascone. Il direttore del carcere è in struttura solo due giorni (perché distaccato a Opera). Infine, “aumentano gli adolescenti con problematiche sanitarie psichiatriche o di dipendenza che destabilizzano la gestione dei gruppi. Ma data la carenza di comunità terapeutiche specializzate in Lombardia, non viene trovata altra soluzione”. Massa Marittima (Gr). Natale in carcere: una seconda possibilità per genitori e figli di Roberta Barbi vaticannews.va, 23 dicembre 2021 Un giocattolo usato da regalare ad un genitore detenuto: è la speciale raccolta organizzata dalla cooperativa sociale THC - Together let’s help the community! e dal Gruppo di Solidarietà Heos per la casa circondariale di Massa Marittima che parte a Natale ma diventerà un appuntamento fisso. A Natale Gesù che nasce viene a dirci che un’altra vita è possibile, e lo è per tutti, persino per chi è rinchiuso in carcere ed è costretto a trascorrere questa e le altre feste lontano dai propri affetti, in particolare lontano dall’amore dei propri figli. È così che in carcere, spesso, il Natale si trasforma da momento di gioia in momento di solitudine e sofferenza. “Non so che cosa significhi esattamente vivere il Natale in carcere perché penso che soltanto chi l’abbia vissuto lo sappia - ci racconta Mirko Pascale, presidente della cooperativa TCH Together let’s help the community! attiva da anni nella casa circondariale di Massa Marittima e in altri istituti di pena della Toscana - ma in base alla mia esperienza, il Natale aumenta la tendenza del carcere a vivere tutto amplificato, ogni pensiero, ogni attenzione. Non dobbiamo mai dimenticare che la libertà ha tante sfaccettature e che parliamo di un posto dove la privazione è totale, dove a volte non si può neanche attraversare una porta liberamente”. Genitorialità e carcere: un binomio difficile - Ed è in un posto così che perfino un regalo non dato diventa un vissuto troppo doloroso, capace di trasformare il Natale in un momento di vergogna per non poter dare ai propri figli quello che si vorrebbe, quello che meriterebbero. Si può arrivare addirittura a rifiutare un momento di contatto come il tanto atteso colloquio, pur di non dover affrontare quello sguardo in cui si riesce a leggere solo delusione. “Essere genitore ma al contempo non riuscire a esserlo come si vorrebbe - spiega ancora Pascale - questo causa emozioni fortemente negative come lo sconforto, si può arrivare perfino alla depressione che fa chiudere il detenuto in se stesso e oltre a comprometterne i rapporti familiari ne compromette anche il percorso di recupero e reinserimento nella società”. La storia di Mohammed e del cioccolato - Ma per fortuna ci sono delle ‘medicine buone’ a questi mali dell’anima, strumenti geniali nella loro semplicità che nascono dall’osservazione interna del mondo carcere, una prospettiva che consente di conoscere sfumature che dall’esterno sarebbero impossibili da percepire. Così anche l’idea della raccolta di giocattoli di THC nasce da una storia, quella di un detenuto tunisino di 50 anni che chiameremo Mohammed, una storia che il presidente della cooperativa ci vuole raccontare: “Questo detenuto aveva lavorato con noi nel progetto di apicoltura per un po’, aveva guadagnato e messo da parte qualcosa. A Natale dell’anno scorso mi è venuto naturale mandargli in carcere un cesto augurale in cui c’era il miele che aveva contribuito a produrre, dei datteri che sapevo gli piacessero anche perché venivano dal suo Paese, un panettone e due tavolette di cioccolato, il tutto accompagnato da una lettera in cui lo ringraziavo per il lavoro svolto insieme e gli facevo gli auguri”, ricorda Mirko. “Non ho avuto sue notizie fino a marzo, ma la prima cosa che mi ha detto quando siamo riusciti a rivederci è stato ringraziarmi con le lacrime agli occhi. In quattro anni da recluso nessuno gli aveva mai regalato nulla, mi ha detto, raccontando poi che grazie a quelle due tavolette di cioccolato era riuscito a regalare qualcosa ai suoi figli che erano andati a trovarlo per Natale. Mohammed mi ha fatto capire l’importanza che ha un gesto semplice, naturale, per chi è impossibilitato a compierlo autonomamente ma deve dipendere da altri. In questo caso dall’ispettore che si occupa degli acquisti e dalla disponibilità delle strutture commerciali vicine al carcere”. L’obiettivo: considerare il carcere un posto come gli altri - Un tema, quello della genitorialità in carcere, dai mille volti e dalle mille sfumature: “I figli di Mohammed non sapevano che lui fosse in carcere, ma credevano di andare in un posto dove stesse trascorrendo la riabilitazione dopo un intervento chirurgico, non aveva avuto il coraggio di dirlo - racconta ancora Pascale - ed è proprio questo sentimento di vergogna che dobbiamo estirpare. Bisogna entrare in carcere per conoscerlo nel bene e nel male, eliminare il pregiudizio che lo avvolge e arrivare a considerarlo solo un posto tra i tanti delle nostre città, non dimenticarlo ai margini della società per far finta che non esista, perché esiste. C’è. È lì”. “Un’altra storia sul valore della genitorialità in carcere che forse sta alla base di questa semplice raccolta di giocattoli me l’ha raccontata un ergastolano - prosegue il presidente di THC - questo era entrato in carcere che sua figlia era piccola, poi è cresciuta e quando andava ai colloqui lui l’aveva sempre vista seduta: seduta quando lui arrivava, seduta quando lui veniva riportato in cella. Il giorno che l’ha vista in piedi si è messo a piangere. È incredibile come i reclusi si leghino a quelle sfumature che noi neppure notiamo ma che per loro diventano così importanti…”. Il Natale come messaggio di speranza - Lo dice anche la nostra Costituzione: il carcere non è - o meglio non dovrebbe essere - un luogo di disperazione e di dolore, bensì un luogo di recupero, perciò di speranza, quella in una nuova vita e in un futuro migliore, una volta fuori. “Ma una vita migliore s’inizia a costruire dentro - avverte Mirko Pascale - serve in questo senso una profonda evoluzione istituzionale che ampli l’offerta formativa e lavorativa e la allarghi a tutti gli istituti. Poi si deve pensare anche all’aggiornamento formativo del personale, spesso molto carente, e infine, ma non per ultimo, alle famiglie che restano fuori, alle quali il carcere va spiegato e fatto digerire, esattamente come a chi vi è rinchiuso. È un’attenzione ai particolari che spesso sfugge, ma è fondamentale”. Per il recupero completo della persona, strumento essenziale è il lavoro: la cooperativa THC lo sa e ha attivato a tal proposito ‘Percorsi in carcere’: “In pratica facciamo da facilitatore - spiega il presidente - mettiamo in contatto tra loro e con le strutture penitenziarie, diverse aziende agricole nel territorio in cui operiamo, che in questo caso è la Toscana, facciamo rete anche con agenzie formative e associazioni per costruire nuove possibilità di contatto che rendano il carcere interessante per una determinata azienda e consentano al ristretto, come dice lo stesso termine istituzionale, di mettersi alla prova”. Il regalo che fa bene al cuore - Intanto la raccolta di giocattoli promossa da THC e Gruppo Heos sta avendo un grande successo: “È un successo duplice - precisa il presidente Pascale - infatti oltre a regalare un sorriso al figlio di un detenuto, fa anche molto bene ai bambini che donano un giocattolo che non usano più, perché dai genitori viene loro spiegato a chi sarà destinato quel giocattolo”. Un successo anche di numeri, che come sempre parlano più chiaro delle parole: “A Massa Marittima sono stati consegnati quattro bustoni oltre alla carta e al nastro per le confezioni - conclude - ma giocattoli ne sono arrivati talmente tanti che stiamo contattando altre strutture che potrebbero averne bisogno, come Volterra o Sollicciano a Firenze. Ci piacerebbe esportare il progetto in tutte le carceri della Toscana e poi, chissà, magari anche a Roma grazie alla nostra collaborazione con Economia carceraria”. Perché istituti di pena con dentro detenuti, detenuti genitori e bambini che vanno a trovare detenuti che sono anche i loro genitori, ce ne sono ovunque. E ce ne saranno sempre. Firenze. “One Man Jail”: a teatro un ponte tra carcere e città grazie alla tecnologia di Domenico Guarino controradio.it, 23 dicembre 2021 Lo spettacolo, primo in Italia a utilizzare le nuove risorse digitali per un progetto di teatro in carcere, materializzerà in scena in tempo reale i giovani detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze, raccontando una storia tra ossessioni e voglia di libertà. La produzione, firmata dalla compagnia Interazioni Elementari, si inserisce nel progetto “Streaming Theater: un ponte tra carcere e città”, percorso di formazione nei mestieri dello spettacolo che punta alla cittadinanza attiva e all’inclusione sociale attraverso il teatro e la performance. L’obiettivo è quello di “intrecciare teatro e tecnologia, per ribaltare regole e percezioni portando il carcere fuori dal carcere. È in arrivo a Firenze “One Man Jail: le prigioni della mente”, l’unico spettacolo in Italia che utilizza le nuove risorse digitali per un progetto di teatro in carcere, in scena in prima assoluta sabato 8 e domenica 9 gennaio 2022, ore 21.00, al Teatro Cantiere Florida”. Proposto e prodotto da Compagnia Interazioni Elementari, diretta da Claudio Suzzi, “One Man Jail: le prigioni della mente” grazie alla diretta streaming, materializzerà sul palco in tempo reale i giovani attori detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci, per raccontare una storia di ossessioni e libertà, mentre il pubblico si trasformerà per due ore in un gruppo di prigionieri, o forse si accorgerà di esserlo sempre stato, in un caleidoscopio di ribaltamenti e cortocircuiti tra dentro e fuori (www.interazionielementari.com). La storia è quella di Frank Petroletti - interpretato dall’attore Filippo Frittelli- comico che, all’apice del successo, viene arrestato e incarcerato. All’interno della prigione, di fronte a un pubblico di detenuti ostili e disinteressati, si prepara a esibirsi nella sua ultima performance. Lo show, caustico e strampalato, lo porterà ad affrontare le proprie paure e i pensieri che lo tengono realmente prigioniero, a liberarsi dai personaggi che affollano la sua mente, per raggiungere un “altrove” forse meno rassicurante di quello che gli si vorrebbe far credere. Lo spettacolo si inserisce all’interno del progetto “Streaming Theater: un ponte tra carcere e città”, percorso di educazione ai mestieri dello spettacolo e della performance tramite l’utilizzo di tecnologie digitali, che vuole andare a colmare due bisogni fondamentali di chi abita l’istituto di detenzione minorile: stabilire un collegamento con la comunità esterna e ottenere una formazione lavorativa, in grado di aprire prospettive future per i giovani detenuti, già a partire dal periodo di permanenza in carcere. L’obiettivo principale non è solo coinvolgere i giovani detenuti del Meucci, ma anche e soprattutto sensibilizzare la comunità fuori. “Lavoriamo perché i ragazzi vengano scritturati come attori - spiega il regista Claudio Suzzi, fondatore di Interazioni Elementari e ideatore di Streaming Theater - remunerati come lavoratori dello spettacolo. Per questo sarà fondamentale distribuire lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” in modo da farlo circuitare il più possibile nei teatri della Regione Toscana e del circuito nazionale, obiettivo ora possibile grazie alla nuova modalità di collegamento in diretta live sulla quale si base la produzione. In un processo di incontro tra il carcere e le città, vogliamo coinvolgere un pubblico più ampio puntando, grazie al teatro, ad un maggiore sviluppo della cittadinanza attiva e alla partecipazione delle comunità locali, in modo da creare una maggiore inclusione sociale”. Un percorso che vorrebbe continuare anche dopo il ritorno in libertà dei suoi protagonisti: “Il coronamento di questo lavoro sarebbe potergli dare un seguito anche fuori dal carcere, ma al momento è impossibile per mancanza di uno spazio dedicato, una sede a Firenze, senza la quale la Compagnia Interazioni Elementari non potrà continuare a lungo il suo lavoro. Abbiamo bisogno di un luogo dove far mettere radici al progetto e alla Compagnia, e per questo confidiamo nella sensibilità, nell’ascolto e nel sostegno delle autorità locali toscane e fiorentine”. Il progetto è finanziato dal bando “Giovani al centro” e rientra nell’ambito di Giovanisì, il progetto della Regione Toscana per l’autonomia dei giovani, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento delle politiche giovanili e del Servizio civile universale e dalla Regione Toscana, dal Ministero della Giustizia - Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze e da Publiacqua S.p.A. In partenariato con Associazione Volontariato Penitenziario Onlus, Associazione Altro Diritto Onlus, Associazione di Promozione Sociale Progress. In collaborazione con Istituto Penale Minorile “G. Meucci” di Firenze, Assessorato all’Educazione, Università e Ricerca, Formazione Professionale, Diritti e Pari Opportunità del Comune di Firenze, Assessorato alla Cultura, Moda e Design del Comune di Firenze, Garante dei detenuti della Regione Toscana, Garante dei detenuti del Comune di Firenze, Associazione Antigone Onlus, Cinema Teatro di Castello e Teatro delle Arti Lastra a Signa. Teneri alcolisti di Carlo Bonini La Repubblica, 23 dicembre 2021 Lo sballo degli adolescenti si sta mangiando una generazione. L’alcol è diventata la porta al policonsumo di ogni genere di stupefacente. C’è una generazione, che per consuetudine chiamiamo Z, i nati tra il 1995 e il 2010, i cosiddetti “zoomer” o “post millennial”, che viene divorata ogni notte, nelle nostre grandi aree urbane come nelle provincie e in numeri crescenti, da un consumo di alcol in età sempre più precoce. Grazie a “cartelli” sui prezzi di listino studiati dai locali a misura di paghetta, i cocktail a 3 euro, gli shottini a 1, la “vodka del bangla” a 8, sono diventati la sempre più accessibile porta di ingresso non solo a uno dei riti di iniziazione alla vita adulta, ma hanno profondamente modificato la percezione dello sballo e il modo di viverlo. Non si cerca più il piacere, ma la perdita di controllo. In un’alchimia fai da te che non è mai soltanto alcolica, ma di cosiddetto “poliabuso” di sostanze stupefacenti, in cui l’alcol è la “gateway drug”. Siamo andati ad ascoltare queste ragazze e ragazzi nelle piazze della movida, così come nei pronto soccorso e nelle comunità dove spesso finisce la loro corsa. E abbiamo dato la parola a chi se ne occupa ogni giorno, silenziosamente, provando a rimettere insieme i pezzi delle loro giovanissime vite. Un milione di giovani attaccati al bicchiere. E aumentano le ragazze - Ad alzare il gomito si comincia a 12 anni, perché con il bicchiere gli italiani sono i più precoci al mondo. E a passare da uno shottino a uno spritz o da un prosecco a un mojito ormai ci sono sempre più ragazze, sedotte da cocktail dolciastri o alla frutta rispetto ai loro coetanei che preferiscono la birra o i mix più ruvidi a base di vodka o tequila. Così, nel 2019, 4.723 ragazzi sotto i 18 anni sono finiti al pronto soccorso per aver bevuto troppo, con un aumento del 18 per cento rispetto all’anno precedente. E, tra loro, 2150 erano ragazzine: il 25,4 per cento in più del 2018. Sono i dati dell’ultimo report dell’Istituto superiore di Sanità e offrono una fotografia allarmante dell’impennata dei consumi alcolici degli adolescenti. Cui ha contribuito anche il periodo di lockdown imposto dalla prima pandemia di Covid, con la novità degli aperitivi distanziati WhatsApp. E tra happy hour e “indianate” in cameretta, è tornato a fare capolino persino un pericolosissimo gioco che sembrava caduto nel dimenticatoio: il “Nek Nomination”. Quello in cui si nominano tre amici che devono filmarsi mentre si scolano un’intera bottiglia. Delle 48 mila intossicazioni da alcol registrate nel 2020 nei pronto soccorso, il 17 per cento ha riguardato minori di 14 anni, racconta il professore Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio alcol dell’Iss e del Centro Oms per la promozione della salute e la ricerca sull’alcol. E tutto questo si traduce in numeri che fanno spavento: +446 per cento di alcol consumato nel primo anno di pandemia in Italia, +209 per cento nella fascia d’età dai 18 ai 24 anni. La giovane movida del sabato italiano - Ansia. stress, depressione, isolamento. Il bere in questi due ultimi anni ha seguito le aperture e le chiusure legate alla pandemia: prima del lockdown, a marzo 2020, c’è stato l’assalto agli scaffali dei supermercati. Poi c’è stato il boom del wine delivery. Secondo dati raccolti da Idealo, il portale internazionale dedicato alla comparazione prezzi, c’è stato un +110 per cento di ordini online, con un consumo raddoppiato per l’Italia soprattutto nella fascia giovanile. E a schizzare in alto è stato anche il numero di telefonate arrivate ai servizi territoriali da parte dei genitori alle prese con i figli intossicati. “Gli adolescenti già qualificabili come alcolizzati e presi in carico dai servizi territoriali sono più di 6.000 - spiega Scafato - e rappresentano l’1 per cento dei 67 mila alcoldipendenti che seguiamo. Ma il fenomeno è molto, molto più vasto. Parliamo di una platea di 600 -700 mila ragazzi sotto i diciotto anni che fanno abuso di alcol. Si arriva a un milione se si aggiunge la fascia di età fino a 24 anni”. “L’alcool è un lubrificante sociale e purtroppo in molti casi è una gateway drug, uno stupefacente cosiddetto cancello che apre ad altre sostanze da sballo, leggere e non: canne, pasticche, metadone, droghe varie. Perché fa cadere le inibizioni e amplifica l’effetto delle sostanze”, continua Scafato. E così, nei fine settimana, ecco il “binge drinking”, che significa bere almeno sei bicchieri di alcolici in una stessa sera per arrivare subito a sentirsi “fuori”. L’intossicazione è dietro l’angolo, come pure la dipendenza. E i danni sono a lungo termine. “I giovani non hanno capacità di metabolizzare l’alcol come gli adulti - spiega il professore - quindi, a quella età, soprattutto tra i 12 e i 21 anni, quando il cervello matura, fa ancora più danno sia diretto che indiretto. È una sorta di ‘killer dei neuroni’: l’alcool presente nel sangue arriva sulle membrane neuronali portando via i fosfolipidi e causa un danno diretto a livello dell’ippocampo, zona altamente specializzata che regola la memoria e influisce sull’orientamento viso-spaziale. Abbiano visto con la risonanza magnetica che nei ragazzi e nelle ragazze che fanno “binge drinking” per almeno due mesi le aree della memoria si spengono: una persona può perdere tra il 10 e il 20 per cento della propria capacità cognitiva. Un deficit che li accompagnerà anche in età adulta”. Sulle ragazze, poi, i danni sono ancora maggiori: avendo, solitamente, minor massa corporea riescono a metabolizzare ancor meno l’alcol. E hanno molti più rischi di sviluppare tumori al seno. “Bisogna far capire ai ragazzi che bevendo bruciano parte della loro possibilità performante. Che le sbronze adolescenziali influiranno anche quando saranno più grandi”, avverte Scafato. “Ma bisogna prestare più attenzione ai messaggi che diamo. Non è un caso che persino le bottiglie con i drink alcolici, che piacciono di più agli adolescenti, siano sempre colorate e bellissime. Ed è impari lo stanziamento delle risorse: solo un milione per la prevenzione contro i 500 milioni investiti ogni anno per pubblicizzare gli alcolici. Vincere, in questo modo, diventa impossibile”. Notti senza alba e cocktail a 3 euro. La movida romana - Non c’è bisogno di aspettare l’alba a Largo Osci, piazza del mercato di San Lorenzo, per vedere e sentire gli effetti di una notte di movida romana senza limite. All’una del mattino, il selciato è già una lastra scivolosa di umido e cocci di bottiglie, l’odore che brucia le narici è quello di alcool, urina e vomito. Pietro, 17 anni, maglietta a maniche corte nel gelo di dicembre, cammina in gruppo, avanti e indietro: “I cocktail qui costano poco, 3,50 l’uno, ma dentro non ci mettono un cazzo, quindi tocca farsene almeno tre, più una birra, così li cominci a sentire e la serata gira, incontri gente, alle tre torni a casa. Se ti senti male vai all’angoletto e ti liberi, le serate nostre sono queste, scusa che altro dovremmo fare dopo essere stati due anni dentro casa?”. Nella domanda di Pietro, studente del liceo artistico (“no, dai il cognome no, mia madre poi si preoccupa”) c’è più o meno tutto il senso di una generazione smarrita, mentre si reimmerge e scompare nella folla di giovanissimi stretti quasi senza respiro - e senza mascherine - tra i banconi del mercato di San Lorenzo, ex quartiere popolare simbolo della Resistenza, svenduto agli affitti in nero degli studenti fuori sede e aggredito da uno spaccio impossibile da sradicare. Nella strada dove fu uccisa Desirée Mariottini, 16 anni, lasciata morire da due spacciatori dopo essere stata drogata e violentata, ci sono ancora le baracche dove il suo corpo fu ritrovato, i murales di protesta scoloriti, ma nel mezzo del degrado è sorto un improbabile palazzo moderno, dove si fatica a immaginare chi vorrà andare a vivere. Bere costa poco, pochissimo, perché nelle piazze delle serate dove il rito è la strada con il bicchiere in mano, i locali fanno cartello, attenti alle tasche dei ragazzini. Trastevere, Campo de’ Fiori, Ponte Milvio. San Lorenzo. Tra via dei Sabelli e via dei Ramni, per confluire nella grande area del mercato, il listino prezzi è a misura di paghetta: un cocktail 3,50 euro, shottini (bicchierini di superalcolici) 1,50 euro, birre da 2,50 a salire. Prezzi stracciati anche per dosi e microdosi di hashish, marijuana, o per delle palline di cocaina, per del Mdma, o per qualche nuova e sconosciuta sostanza psicoattiva, spacciata negli angoli bui di questa piazza, tanto allegra la mattina, quanto cupa e tossica la notte. In ogni caso, tra un mojto e uno spritz nei bicchieri di plastica, la nuvola che percorre la piazza è quella delle canne. Mariangela ha 16 anni, “cala” a San Lorenzo il venerdì sera con le amiche dai Castelli romani (“veniamo con il treno poi ci vengono a prendere i genitori”) e racconta, candidamente, che a loro under-under diciotto l’alcol lo comprano gli amici più grandi. “Mica ti chiedono i documenti, però i ragazzi del bancone più o meno capiscono quanti anni hai e se sembri troppo piccola ti danno la Coca Cola...Così mandiamo avanti quelle che hanno la faccia da maggiorenni. Sì, ogni tanto ci ubriachiamo, capita, il giorno dopo non c’è scuola, i genitori non si scandalizzano troppo, dicono meglio una sbronza che le pasticche. Sono le nostre serate, che male c’è?”. La piazza è presidiata e normalmente è verso le quattro o le cinque del mattino, quando tra i banconi del mercato restano i più renitenti a tornare a casa e il tasso alcolico è ormai ubriachezza, che scoppiano le risse. “Ogni fine settimana è così - racconta un agente - sequestriamo di tutto, dalla droga ai coltelli. Io li vedo perdersi sti’ ragazzini. Forse le famiglie non si rendono conto di quanto questo “divertimento” sia pericoloso”. Già, mica è facile però. Dopo due anni di lockdown la strada sembra essere rimasta l’unico luogo d’incontro per una generazione smarrita. Che occupa le scuole per dire “ci avete dimenticati”. Complice un mercato criminale che a prezzi stracciati offre ovunque e dappertutto anestetici dell’anima. Così in un venerdì notte di dicembre, con le luci di Natale un po’ meste, da Roma Est ci spostiamo a Roma Nord, a piazza Ponte Milvio, ex enclave popolare tra i quartieri di Vigna Clara e Fleming diventati ricchi negli anni Settanta. Quelli di Ponte Milvio - È nel tratto di via Flaminia Vecchia che approda al cavalcavia accanto al quale morirono Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, 16 anni, travolte dal Suv guidato da Pietro Genovese, 20 anni, che si snodano le notti degli adolescenti (e non solo) di questo quadrante di città. Un locale dietro l’altro, prezzi che salgono a seconda dell’età degli avventori. Qui un Rum&Coca parte dai sette euro, le paghette sono più alte, fino ai 15/20 euro per gli universitari seduti al caldo dei “funghi” nei dehors. “Quanti anni hai?” “Diciassette”. “E questa birra?”. “No problem”. “In che senso?”. “Presa nel frigo del bar e pagata alla cassa”. “Quante a sera?”, “Tre, più o meno, poi stop, altrimenti sale troppo e non riesco a guidare la moto”. Dicono gli alcolisti anonimi che è così che si inizia. Anzi, che è così che si scivola nella dipendenza, speriamo di no per Francesco, studente del liceo “Farnesina”, che sembra incurante del freddo. Del resto si dice che l’alcol scaldi, anche se il binge drinking nei paesi anglosassoni è il maggior responsabile di principi di assideramento di ragazze teenager che nelle notti gelide del Nord escono vestite di niente e si sbronzano. Patrizia, stessa età, stessa classe, dice: “Noi lo facciamo apposta. Quando sale tutto è più facile. I cocktail li annacquano, ma se ci aggiungi la Vodka del Bangla, una bottiglia basta per tutti, ti diverti un sacco, fa bum bum nella testa, io non ho paura di tornare a casa, vado a piedi, abito qui dietro”. E se ne va, sfuggente, come tutti i ragazzini incontrati in questa notte di dicembre 2021, del resto gli adulti a quest’età sono amici-nemici. Bisogna allora sedersi in un locale “da grandi” per ascoltare una testimonianza vera, dolorosa. Flaminia Cerri e Paolo hanno 22 e 24 anni, quasi ingegnere lei, informatico lui. “Sai, noi ci siamo passati, siamo cresciuti tra questi locali. Ogni sabato sera una sbornia, sembrava normale. Ci stavamo spegnendo e non ce ne accorgevamo”. La voce di Flaminia si fa più grave. “Poi del nostro gruppo in due ci sono rimasti sotto. Marino che aveva iniziato insieme a noi, in piazza, con i drink a 14 anni e alla fine si buttava giù l’alcol puro. Oggi è in comunità e frequenta gli alcolisti anonimi. E Sandra che si è schiantata con il motorino sulla Cassia, mentre tornava all’alba, fatta e sbronza. È viva per miracolo. Ma è rimasta zoppa. Era un’atleta, ora non potrà più correre né saltare. È stato quel giorno in ospedale da Sandra che abbiamo detto basta”. Multe, fermi, sanzioni: i numeri della malamovida romana - Lo scorso anno, i carabinieri hanno accertato 22.073 violazioni per guida sotto gli effetti dell’alcol. Per la metà dei fermati, 10.700, le conseguenze sono state di carattere penale. E dei casi accertati, 5.231, a volergli dare un’etichetta, sono stati ricondotti alla “malamovida”. A quel tour alcolico, da un bar a un altro, da un aperitivo a una birretta che nei primi sei mesi del 2021 ha visto 2.727 adolescenti finire tra gli accertamenti dell’Arma. “Giovani e alcol, già. È una tendenza in crescita ormai da anni - racconta Alessandro Dominici, tenente colonnello dei carabinieri a capo del Nucleo radio mobile di Roma - che si era un po’ attenuato con il lockdown tra coprifuoco e locali chiusi, ma con il ritorno alla vita quasi normale ha ricominciato a farsi sentire. Specie durante il week end. E già sappiamo, come accade ogni anno, che il periodo di Natale, è uno di quelli a rischio con i giovani in vacanza, lontano dagli impegni scolastici e con la voglia di stare insieme e di divertirsi”. Da Ponte Milvio a Trastevere, da Monti a Campo de’ Fiori, da San Lorenzo a Testaccio. Il tour dell’Arma per controllare le zone della movida si muove dopo il tramonto, tra le strade, le piazze e i vicoli del centro storico della città. Luoghi d’incontro dove è più facile che ragazzi e ragazzini si ubriachino o si calino sostanze. “Io stesso svariate volte ho assistito a ragazzi in strada completamente fuori controllo o privi di sensi - racconta Dominici - e l’immagine è sempre la stessa: lui o lei steso a terra, vomito intorno, e gli amici che cercano come possono di farli riprendere, schiaffeggiandoli, urlando, chiedendo aiuto”. L’Arma, nel suo sito, ha dedicato un’area in cui dà i consigli ai genitori. Suggerimenti per capire se i propri figli alzano troppo il gomito e se fanno uso di sostanze da sballo: droghe leggere, droghe pesanti, pasticche. “Prestate molta attenzione”, si legge sulla pagina on line, “al rientro dalle serate con amici e soprattutto al ritorno dalla discoteca se sono presenti alcuni indicatori”. E giù con la lista dei campanelli d’allarme: sonnolenza, lentezza del ragionamento, senso di euforia, ridarella, senso del tempo dilatato, linguaggio pasticciato, difficoltà di memoria, pupille strette o molto dilatate. Bisogno di parlare senza avere niente da dire, difficoltà ad addormentarsi, aggressività. “La cosa più importante - spiega il tenente colonnello - è la prevenzione. Per questo da anni andiamo nelle scuole, sia alle medie che alle superiori, per spiegare ai ragazzi le insidie di alcol e droga. Pericoli che diventano esponenziali se vengono assunti nella stessa sera. E che diventano micidiali se in quelle condizioni ci si mette alla guida di un’auto o di un motorino”. E se un adolescente viene “pizzicato” dalle forze dell’ordine più volte in stato di ubriachezza, quali sono le implicazioni dal punto di vista legale? “Purtroppo, in caso di recidiva dobbiamo rivolgerci al Tribunale dei minori che verificherà se non ci siano anche responsabilità dei genitori. Visto che sono loro a dover vigilare sul ragazzo, se è minorenne. Ma il controllo dei carabinieri si focalizza in maniera ancora più attenta sui commercianti. E su quanti vendono bevande alcoliche a chi non ha ancora compiuto i 18 anni. Perché forse ancora non si è compreso, ma vendere alcol a un minorenne è un reato - continua Dominici -. Il negoziante si assume un grande rischio: dare da bere alcolici a un under 18 è sanzionato penalmente. E il provvedimento amministrativo porta anche alla chiusura del locale. Se poi, mettiamo nell’ipotesi più infausta, il ragazzino dovesse morire, c’è una responsabilità connessa tra l’evento e la condotta dell’esercente che ha fornito l’alcol. In questo caso siamo di fronte alla morte come conseguenza di un altro delitto. E nel caso specifico si passano davvero dei grossi guai. Se chi vende la bottiglia di vodka o di vino a un ragazzino avesse chiaro quanto rischia, sicuramente prima di prendere i soldi chiederebbe la carta d’identità”. Stella, 26 anni, alcolista, caduta e risorta - Oggi Stella vorrebbe dire a tutti che la vita è bella. Oggi che ha 26 anni e dopo averne passati undici tra alcol e droghe, da 24 mesi cammina nella strada della sobrietà. “La malattia della bottiglia è lenta e insidiosa, inizi perché lo fanno tutti, alcol e canne, cannabis e “birrette”. Tante, da perdere il conto. Non ascoltate chi dice che sono innocue, io sono diventata alcolista a forza di “birrette”. Sembra nulla ed è un veleno che ti entra dentro. Butti giù e stare con gli altri diventa facile. Avevo 13 anni, vivevo in borgata in una famiglia difficile e non mi sentivo all’altezza dei miei coetanei. Ho toccato il fondo, più nero di una notte buia. Soltanto allora ho cominciato a risalire. Stella è un nome di fantasia, il resto invece è tanto vero da fare male, una testimonianza che Stella racconta con urgenza, ora che grazie ad Alcolisti Anonimi da due anni è “sobria”, ha un compagno, si è iscritta (di nuovo) all’università, “per diventare assistente sociale e aiutare chi come me è caduto nel fondo di un pozzo”. Cresce a Roma in un contesto difficile Stella, in quei quartieri che sembrano senza sole. “La borgata è dura, ha le sue regole, soprattutto è un market a cielo aperto di sostanze. Però frequentavo il liceo, puoi anche vivere in un bel posto e caderci lo stesso. A chi fa paura un ragazzino con lo “shottino” di gin in mano, o un cocktail bello freddo che va giù dritto e dopo è facile sorridere e farsi vedere con la testa brilla? Le famiglie minimizzano, l’alcol è legale, ma se vuoi sballarti non c’è niente di meglio, lo compri ovunque, credete che a 14 o 15 anni mi chiedessero i documenti?”. Stella è poco più di una bambina quando scopre la forza “scacciapensieri” delle birrette e dei long drink, quasi subito accompagnati da cannabis. “Lo facevano tutti, sembrava normale. Fuori scuola, il pomeriggio. Ci si vedeva al bar, al parchetto e passavano le ore. Il punto è che se hai un vuoto dentro quel mix è come la medicina di tutti i mali. Mi sbronzavo, mi facevo una canna e dimenticavo il gruppo che non mi accettava, mio padre che faceva uso di sostanze, mia madre che si “beveva” tutte le mie bugie. Poi ho fatto il salto. Farmaci, cocaina, pasticche. E bere, bere, bere. Se non ce l’avevo, l’alcol, uscivo a comprarlo, se non avevo soldi per la droga facevo l’impicci, a Roma si dice così. A vent’anni non avevo più i denti, ero anoressica ed ero stata ricoverata in psichiatria”. Stella è un fiume in piena, racconta la caduta per poter poi “cantare la mia rinascita, la vita al di là della bottiglia, ho scritto una poesia che dice pensavo di essere una pischella condannata invece me so recuperata”. Lo dice chiaro Stella, che oggi è andata a convivere con il suo compagno, studia all’università e continua a frequentare Alcolisti Anonimi: “Io sono una storia estrema, mica tutti i ragazzetti che si sbronzano si riducono come me. Ma quello che voglio gridare è che finire all’inferno con una bottiglia, cominciando a bere da adolescenti, è troppo facile e l’allarme è troppo basso, ci sono pubblicità di alcolici dappertutto, avere il bicchiere in mano, così come una canna a 15 anni ti fa sentire fico, come farsi il tatuaggio, spesso le famiglie preoccupate per la droga, chiudono gli occhi sulle sbronze. Ma l’alcol è subdolo, buono, terribile”. Fa alcuni tentativi per uscire dal tunnel Stella, ormai è in tutto e per tutto un’alcolista policonsumatrice, contatta per la prima volta i gruppi degli Alcolisti Anonimi. Ossia quella rete, ormai planetaria, di gruppi di auto-aiuto fondata nel 1935 in Usa da Bill William, egli stesso alcolista, e basata sul principio spirituale dei 12 passi, una sorta di progressione e di “elevazione” attraverso la quale si giunge alla sobrietà. Ancora oggi AA è considerato il metodo più efficace per uscire dalla dipendenza dell’alcol. “Non ero pronta però. Andavo, tornavo, scappavo. Ci ricadevo. Anche perché fuori da quel mondo tossico mi ritrovavo sola. E allora cercavo di nuovo i miei falsi amici, i miei compagni di bevute e di viaggi drogati. Poi però mio padre è morto. Di droga. E con lui tanti altri. Li ho persi. Uno dopo l’altro”. Quando mi chiedono: perché ti drogavi e bevevi, riesco solo a rispondere: perché mi sentivo inferiore, per liberarmi dai complessi, perché dietro le spalle avevo una famiglia a pezzi. O forse perché le sostanze addormentavano il dolore che avevo dentro. Nel 2019 Stella entra in comunità. E proprio in comunità incontra gli Alcolisti Anonimi. Inizia a essere seguita dai membri già più avanti con il programma di recupero. Ce la fa. Abbandona alcol e droghe. “Sono sobria, sobria, voglio gridarlo a chiunque. Ai ragazzi, perché credano nelle proprie potenzialità, perché si ricordino che valgono per quello che sono e non perché hanno un bicchiere in mano. A quelli che hanno appena iniziato a combattere la dipendenza, che imparerò a prendere per mano, così come altri alcolisti anonimi hanno fatto con me. Al mio uomo, che c’è passato anche lui, al nostro futuro di felicità e sobrietà”. La guerra perduta - Pasquale è un uomo che ha il dono della pacatezza. Cinquantasei anni, da 17 “sobrio”, è il responsabile di Alcolisti Anonimi per la macroregione del Sud. Come tutti i membri di AA si presenta così semplicemente, “sono Pasquale, alcolista”. Non dicono “ex alcolista”, la sobrietà è una scelta che si rinnova ogni giorno. Di adolescenti che bevono Pasquale nei gruppi ne vede passare (e ne ha visti passare decine e decine). “Ero un adolescente quando ho iniziato e per l’alcol ho sacrificato le cose più belle della mia vita, a cominciare dai miei quattro figli. Non li ho cresciuti, non li ho cullati la notte, perché la notte uscivo per andare a bere. Così quando nei gruppi arrivano i ragazzi di 18, 20 anni, spesso portati dai genitori, devo sempre ricordarmi chi sono stato quando avevo la loro età. E far capire loro quello che si stanno perdendo dalla vita”. Ma la lotta precoce al baby alcolismo che sta ormai diventando un’emergenza nel nostro paese, quel binge drinking delle sbronze del sabato sera che abbiamo mutuato dai paesi anglosassoni, è per adesso una guerra perduta. Non soltanto perché dietro il bere dei giovanissimi c’è un business che cresce ogni giorno, nelle notti alcoliche che fruttano milioni in cocktail a cinque euro l’uno a bar e locali che non chiedono i documenti, e a market etnici che non si fanno scrupoli nello spacciare bottiglie ai ragazzini. Il punto di fondo, dice Pasquale, è che nessuno racconta ai giovani quanto è pericoloso bere. Da quanto tempo non vengono lanciate campagne dissuasive vere, come fu per il fumo e prima ancora per combattere l’Aids? “È quasi impossibile intercettare un ragazzino di 16 o 17 anni. Anche perché l’alcolismo è una malattia lenta nella quale ti ritrovi prigioniero a poco a poco. Una malattia che si è complicata, perché i ragazzi che arrivano da noi oggi mescolano più sostanze. Devo dire che quasi sempre vengono colpiti dal nostro programma dei 12 passi, dal cominciare ad inserire qualcosa di positivo nelle loro vite. Il problema, però, è che vanno via”. Qualche incontro per far piacere ai genitori preoccupati, senza però cambiare definitivamente il proprio stile di vita. La bottiglia insomma. “La pazienza però - scherza Pasquale - è il nostro forte. Anche se abbandonano dopo qualche incontro, o dopo qualche mese, il seme è stato gettato. Sanno che noi siamo qui, sanno che potranno sempre contare su di noi. Perché mica è facile ammettere che si ha un problema. Purtroppo, spesso per arrivare al desiderio di uscirne, tocca andare a fondo. E allora tornano”. Perché il metodo si basa su un percorso di consapevolezza (anche spirituale) chiamato dei “dodici passi”. Il primo dei quali consiste appunto nel riconoscere di avere un problema. “Salve, mi chiamo Franco, sono alcolista”. Chi sono i ragazzi che bevono così tanto, drink dopo drink, da non poterne più fare a meno? “I ventenni che arrivano sono in gran parte universitari e nella media non provengono da situazioni di disagio o di marginalità. Potrei usare la parola “normali”. Ma forse è questa parola che ci deve fare paura. Perché uscire la sera e stare con il bicchiere in mano fin dagli anni delle scuole superiori, ormai è considerato normale. Poi succede che senza quell’alcol non si riesca più a vivere, a entrare in relazione, a stare bene. Vuol dire che è avvenuto il salto nella dipendenza. Ormai per esperienza so che per aiutare un giovane bisogna aspettare che torni la seconda o la terza volta”. Rivela Pasquale: “Arrivai ai gruppi che ero ubriaco, ogni anno festeggio il mio compleanno di sobrietà. Diciassette compleanni. A volte il desiderio torna, ma è breve, il ricordo di quello che sono stato rispetto alla serenità di oggi è più forte di tutto. È con la testimonianza della mia vita che spingo i giovani a tornare e affrontare il loro alcolismo. Gli racconto di me, dei miei figli che non ho mai preso in braccio, di quello che ho perduto, ma poi riconquistato. A cominciare proprio da loro: i miei meravigliosi quattro figli”. Nel pronto soccorso di Reggio Emilia - Nel week end, arrivano al pronto soccorso di Santa Maria Nuova di Reggio Emilia sorretti dagli amici. Gli stessi con cui avevano condiviso la seratina, finita in schifo. Ma spesso “quando ce li portano in ambulanza sono purtroppo già in coma etilico”, racconta la dottoressa Anna Maria Ferrari che dirige l’emergenza dell’ospedale emiliano ed è direttore di Faculty Simeu, la società italiana di emergenza urgenza. “Nel fine settimana, naturalmente, il via vai si intensifica, con la movida, le feste private, i locali, le discoteche. E la cosa che mi colpisce di più è vedere madri e padri che quando vengono chiamati nel cuore della notte dall’ospedale, davanti ai medici, cadono dalle nuvole. Quasi nessuno s’immagina di trovare i figli in quelle condizioni. ‘Pensavo neanche bevesse!’ ti dicono. Poi però più dello shock può la preoccupazione per lo stato di salute del ragazzino. E hanno ragione questi genitori, perché il coma etilico non è una passeggiata: può causare anche danni importanti che restano per tutta la vita. L’attesa del risveglio può essere lunga e può lasciare, in caso sia subentrata una condizione di ipo-ossigenazione, dei danni cerebrali o di riduzione delle capacità cognitive. Questo può accadere specialmente se insieme all’alcol si sono mischiate pasticche o droghe varie. Ed in queste occasioni che per noi medici comincia la parte più difficile”. Spesso, chi entra “sballato” in ospedale non è in grado di raccontare. Perché non è cosciente il più delle volte. E un po’ perché proprio non sa cosa abbia ingerito. “La prima cosa è fare dei test, delle analisi specifiche per capire cosa c’è nel sangue, quali sostanze. Il problema è che la composizione delle droghe, specie quelle sintetiche, è un terno al lotto. Le molecole sono tantissime e l’alchimia cambia di continuo - continua Ferrari - Quindi è tutto più complicato. La raccomandazione che mi sento di dare ai ragazzi è di chiedere sempre cosa c’è nel bicchiere che ti hanno riempito e, nel caso di droghe, che roba è. Capisco che è difficile perché ci troviamo di fronte a volte a dei ragazzi giovanissimi. E sprovveduti. Capisci quanto siano sprovveduti quando stanno meglio e tornano a parlare. ‘Che c’era nella pasticca? Boh! me l’ha dato un amico mio, mi ha detto solo che così mi divertivo di più”. E si stupiscono pure che vengano chiamate le forze dell’ordine. Gli sfugge spesso anche il risvolto penale. Perché un conto è se ci si sbronza in casa, ad una festa privata, un altro se invece a vendere alcol a un minorenne è stato un commerciante”. Rimedi per evitare di arrivare al pronto soccorso ubriachi fradici? “C’è poco da fare, non bisogna bere. Non bisogna sballarsi - dice - anche la storia che se mandi giù tanta acqua l’ubriacatura non arriva, è una stupidaggine. Ai più giovani mancano gli enzimi necessari che danno al fegato la possibilità di processare l’alcol. Quindi agli adolescenti che escono il sabato sera a caccia di emozioni e di svago dico: “limitatevi”. Se proprio volete bere, fatevi una birretta, evitate i superalcolici che al secondo bicchiere siete già stesi. E la “roba”, la droga, non provatela mai”. Droghe. Qualche numero - Già, la droga. A sentire gli esperti è la realtà che meglio si è adattata in poco tempo alle restrizioni connesse alla pandemia. “Con il lockdown abbiamo visto il crollo degli acquisti in strada e un numero inferiore di operazioni, eppure nel 2020 sul fronte sequestri c’è stato un aumento del 7,4% di sostanze requisite - spiega Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza - Questo vuol dire che il mercato si è riorganizzato, utilizzando sempre di più i canali del delivery, ossia la consegna a domicilio, e del dark web”. “Il Covid ha di fatto accelerato - scrive anche Flavio Siniscalchi, capo Dipartimento delle politiche antidroga della presidenza del Consiglio - una tendenza registrata negli ultimi anni, di un mercato sempre più digitalizzato”. E a farne uso sono soprattutto coloro che hanno un po’ di confidenza informatica: gli smanettoni e i nativi digitali della Generazione Z. Non è la sola novità. Nell’ultima Relazione annuale al Parlamento sulle tossicodipendenze pubblicata il 30 giugno scorso si legge quello che i medici del pronto soccorso raccontano dal vivo. E cioè che nelle nuove generazioni c’è “la propensione, sempre più accentuata, verso consumi non legati a una sola sostanza o la compresenza in molti casi di dipendenze da sostanze insieme a quelle comportamentali”. Nero su bianco c’è scritto pure che le storie non sono tutte come quella di Stella, ma “colpiscono i casi in cui l’uso problematico non nasce in presenza di condizioni di emarginazione o fragilità sociale”. Secondo i dati raccolti grazie a “Espad Italia”, la ricerca campionaria sui consumi psicoattivi, il 26% degli studenti italiani, in un’età che va quindi tra i 15 e i 19 anni, ha utilizzato almeno una sostanza illegale (oppiacei, cocaina, stimolanti, allucinogeni o cannabis). Tra questi il 9,3% è un “poliutilizzatore”: ne prende due, tre o anche di più, tutte insieme. I maschi sono più delle femmine. Il denominatore comune è per la maggioranza di loro la cannabis che è stata la sostanza più utilizzata nel 2020. Subito dietro ci sono le Nps, le nuove sostanze psicoattive, i cannabinoidi sintetici (salvia divinorum, ketamina, oppioidi sintetici), gli stimolanti (ghb ovvero la cosiddetta droga dello stupro che porta alla dipendenza da chemsex, Mdma, amfetamine, ecstasy) e gli allucinogeni (lsd, funghetti) che però sono in costante diminuzione dal 2010. I consumi di cocaina e oppiacei ci sono ma sono meno diffusi. Per trovarle si scende in strada, oppure gli adolescenti le consumano a casa di amici che le comprano, nelle discoteche, ora che hanno riaperto, a scuola e, per uno su dieci, anche su internet. La coca arriva dal mercato colombiano, passa in Cile, Ecuador, Venezuela, Brasile e Repubblica Dominicana. La rotta porta dritta in Spagna o in Olanda e poi da lì, prima di calare nelle piazze di spaccio, finisce soprattutto nei porti di Gioia Tauro, Livorno, La Spezia, Genova o negli aeroporti di Fiumicino e Malpensa. La marijuana viaggia invece dalla Spagna e dall’Albania, e da qui, come dal Marocco e dalla Siria, arriva pure l’hashish. Un hashish potenziato nell’ultimo anno perché dalle analisi è emerso che la percentuale di Thc, il tetraidrocannabinolo, nel fumo è cresciuta: del 25% in più. Le droghe sintetiche invece vengono diffuse nelle piazze italiane dall’Olanda oltre che dalla Siria, dal Brasile, dal Perù e, guardando a Oriente, dalla Cina. Per un grammo di marijuana, con cui si “girano” una, due o tre canne, servono tra i 9 e gli 11 euro, a meno che non sia di qualità più raffinata. L’hashish sale, tra 11 e 14 euro, sempre al grammo. Per una pasticca di ecstasy il tariffario varia da 10 a 20 euro. Le amfetamine hanno un prezzo compreso tra 22 e 25 euro, le meta tra 31 e 39, l’Lsd va da 21 a 28 euro. La cocaina è la più cara, 50-70, anche 90 euro al grammo. Ma ci sono le monodosi e tra i ragazzi si “stecca”, si divide in comitiva. L’eroina varia a seconda che sia brown (36-58 euro al grammo) o bianca (49-59 euro), ma viene venduta anche in monodose, a 5 euro. È il cartello del Dipartimento antidroga a dare conto dei prezzi, ma facendo un giro in strada o in quantità superiori si trova a prezzi ribassati. Tra i minori che la consumano o la vendono c’è chi si è messo nei guai ed è stato segnalato, 9 su 10 sono maschi, in stragrande maggioranza italiani, quasi uno su dieci ha meno di quindici anni. A livello nazionale, i minorenni segnalati per detenzione di sostanze stupefacenti sono stati 155 ogni 100.000 residenti tra i 15 e i 17 anni. Quelli denunciati per spaccio di stupefacenti in un anno sono stati 915 e uno su tre è stato poi arrestato. Il numero aumenta man mano che ci si avvicina alla maggiore età. E più al Nord che al Sud, o almeno è lì che vengono pizzicati più facilmente: è prima la Lombardia per minorenni coinvolti nel traffico di sostanze, poi il Lazio, il Piemonte, il Veneto, la Sicilia, la Sardegna, la Puglia, la Campania e la Toscana. Nell’ambulatorio delle dipendenze - Al Policlinico Gemelli di Roma c’è un centro dedicato alle dipendenze. Cannabis, alcol, droghe pesanti, gioco d’azzardo, web, ci si prende cura un po’ di tutto. Ci passano decine di ragazzi e di ragazze, ogni anno. “Le persone comunque più intelligenti con cui ho a che fare”, racconta Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta che da molti anni si occupa di dipendenze patologiche e di abuso di sostanze negli adolescenti. “Di solito funziona quando sono loro a venire da me - sottolinea il professore - Ci prendiamo cura di un ragazzo se è lui a chiedere aiuto. Se un adolescente non è d’accordo, si rifiuta, diventa una missione impossibile aiutarlo. La terapia funziona quando un ragazzo è motivato. Se sono i suoi genitori a venire da noi, aiutiamo loro”. Lo incontriamo in una pausa di lavoro nel suo ambulatorio. E la sua prima risposta, quando gli si chiede di dipendenze tra i giovani, è quella che non ti aspetti: “Starei attento - dice - a parlare di dipendenze patologiche negli adolescenti”. “La mente adolescenziale per sua natura è come la creta fusa: è destinata a diventare un’altra cosa, è in continuo transito, in continuo divenire - spiega Tonioni - Fare diagnosi così nette riduce la complessità dell’adolescenza”. E allora a cosa siamo spesso davanti? “Io parlerei di ‘fasi di abuso’ che possono poi degenerare certo in una dipendenza patologica oppure risolversi spontaneamente senza il nostro intervento. Non mi stupisco quando incontro un ragazzo di 15 anni che si fa canne dalla mattina alla sera e lo ritrovo a 18-20 anni, cresciuto, maturato, che ne fa un uso saltuario e ludico o addirittura ha smesso con qualsiasi sostanza”. Lo dicono i numeri che abbiamo raccolto, lo conferma l’esperienza di chi è immerso per lavoro tra i giovani: “L’incontro con la cannabis e con le droghe leggere è molto frequente, come lo è quello con l’alcol. Ma tra i 14 e i 18 anni è possibile incontrare anche l’Md, l’ecstasy, e non manca la cocaina, molto meno l’eroina. Esiste anche la ketamina, un anestetico dissociativo, che di solito viene usato in coppia con le amfetamine. Un consumo più frequente, ad esempio, si ha durante i raduni di musica techno”. Se nella miscela ci si aggiunge anche l’Mdma e un colorante, allora ecco che assume una tonalità attraente: è la cosiddetta cocaina rosa. Ad analizzarle, ai rave, nelle feste, in unità mobili su strada, ci pensano spesso gli operatori della riduzione del danno che si occupano di contenere i rischi sulla salute (ma poi anche economici e sociali) di chi fa uso di sostanze. I consumatori vengono invitati a inserire la sostanza che vogliono assumere in una bustina che viene scansionata da uno strumento in grado di riconoscerne il composto. A quel punto l’operatore sociale può fornire una consulenza sui rischi e i danni a cui si va incontro consumando quella specifica droga. Ma l’elemento nuovo che ha preso piede da un paio di anni è l’uso degli oppioidi sintetici che vengono però assunti per vie anomale, estratti ad esempio dagli sciroppi per la tosse, che in dosi e modi diversi da quelli prescritti o mixati con altri farmaci diventano sostanze psicoattive. Trovarli è talvolta più facile: sono in casa, in famiglia o dagli amici; in farmacia con prescrizione medica; vengono aggiunti su ricette; comprati online nel dark web o al mercato della strada. È sempre Tonioni a parlare: “I ragazzi sanno molte più cose di quelle che sapevamo noi anche sulle sostanze stupefacenti, si nutrono da internet e riescono a fare cocktail tutti loro assumendo oppiacei di sintesi all’interno di farmaci che nella terapia medica sarebbero deputati ad altro”. Le cure del dolore fisico diventano le “cure” di un dolore, di un bisogno, di un desiderio differente. Novanta nuove droghe - L’ultimo rapporto dell’Istituto superiore di sanità pubblicato a giugno di quest’anno racconta che sono state 90 le nuove droghe rilevate in Italia dal Sistema nazionale di allerta precoce, lo Snap. L’incremento di segnalazioni rispetto all’anno prima è pari al 200%. Sono le cosiddette nuove sostanze psicoattive, Nps in sigla, droghe sintetiche che mimano in laboratorio quelle tradizionali. Si dicono “nuove” fino a quando non vengono inserite nelle tabelle allegate al Testo unico sugli stupefacenti. Sono sostanze che di solito hanno bassi costi di produzione e appartengono per lo più alla classe dei catinoni sintetici (droghe con struttura e effetti simili alle amfetamine), dei cannabinoidi (la spice è la più famosa) e, appunto, degli oppioidi sintetici. A segnalarle sono i servizi per le dipendenze, le strutture di emergenza, le unità mobili, le comunità che osservano, sul campo, i consumatori di sostanze psicoattive o stupefacenti. Dal piacere alla perdita di controllo - Ma più che di nuove droghe, secondo Tonioni, bisogna parlare di “un nuovo modo di assumere le droghe”. “Ai nostri tempi - ricorda lo psichiatra che è nato nel ‘68 e di anni ne ha 52 - alla base dell’assunzione di droghe c’era l’idea della ricerca del piacere, ora quella della perdita di controllo”. Ma una perdita che in qualche modo Tonioni definisce controllata o programmata. Può sembrare un ossimoro e in effetti il risultato è fallimentare. Per capire meglio usiamo ancora le parole dello psichiatra: “Tra chi si drogava 30 anni fa c’era chi assumeva cocaina, chi oppiacei e questo definiva anche un profilo ambientale e sociale di un certo tipo. Oggi il fenomeno centrale - conferma Tonioni - si chiama poliabuso e consiste nell’assunzione concomitante o in sequenza di più sostanze o di droghe e alcol. L’idea alla base, destinata ovviamente a fallire, è quella di programmare gli stati d’animo attraverso fasi alternate di eccitazione e di sedazione”. Un’illusione, quella di manipolare umore ed emotività, grazie ai mix che mandano su e giù, up and down, che nasconde altro. “Le droghe diventano un surrogato della vera perdita di controllo che è ancora rappresentata dall’innamorarsi. E di innamorarsi i ragazzi hanno paura”, sostiene Tonioni. Per questo, nell’ambulatorio del Gemelli non si risponde all’abuso, alle dipendenze, con un uso disinvolto degli psicofarmaci. “Io non credo che si possa replicare a un problema affettivo con la chimica. Anche perché chi viene da me dopo essersi reso conto che si fa troppe canne o assume troppe pasticche il suo “farmaco”, tra virgolette, già lo ha. Sotto ogni dipendenza - prosegue Tonioni che ha una formazione psicanalitica - c’è sempre una angoscia più profonda e la dipendenza, con effetti ovviamente devastanti e fallimentari, cerca di prendersi cura proprio di quella angoscia. Allora al centro bisogna rimettere l’affettività, la comprensione”. Qualcosa che curi più a fondo ed elimini il bisogno di una “medicina” illegale. Non ci sono solo storie di chi si fa di eroina, di chi pippa cocaina, butta giù l’ecstasy, mixa farmaci e ci beve sopra. All’ambulatorio arriva anche chi fa uso di droghe leggere, hashish e marijuana. “Sono droghe che possono segnare riti di passaggio in età adolescenziale, che non fanno certo bene, ma non sono il segno di vere e proprie patologie”, spiega Tonioni. Nel Rapporto al Parlamento si spiega che esiste un test che si chiama Cannabis abuse screening test (Cast), uno strumento standard per individuare gli utilizzatori potenzialmente a rischio che si basa sulle indicazioni fornite dall’European monitoring centre for drugs and drug addiction (Emcdda) ed è composto da 6 item che descrivono il comportamento di uso di cannabis. Dallo studio del 2020, è emerso che il 21% degli studenti consumatori di cannabis ha un consumo definibile “a rischio”, con una percentuale più elevata fra i ragazzi rispetto alle ragazze tra cui però dal 2020 si è osservato un incremento sensibile. Ma chi sono i consumatori a rischio? Secondo il Cast sono “ragazzi che la usano 20 o più volte al mese, la comprano di tasca sua, la fumano sempre, anche in compagnia di amici, bevono tutti i giorni o quasi, si ubriacano, fanno “binge drinking”, sono poli-utilizzatore, hanno comportamenti potenzialmente pericolosi, segnalazioni alle forze dell’ordine e al prefetto, problemi dentro e fuori casa, risse, furti, danneggiamenti”. Il test però non rappresenta l’equivalente di una diagnosi clinica di patologia. Ora, mentre è in atto un dibattito sulla legalizzazione, più o meno soft, della cannabis in Italia grazie a una proposta di legge e a un referendum popolare da centinaia di migliaia di firme che chiedono, in forme diverse, l’eliminazione del reato di coltivazione e la depenalizzazione dei reati legati al consumo, c’è chi considera ancora la marijuana come una porta verso droghe più pesanti. “La scalata dalla cannabis all’eroina è una favola - ribadisce lo specialista del Gemelli. Si diventa tossicodipendenti non se si cominciano a fumare le canne ma se c’è lo spazio interno per diventarlo. Il confine tra lo spinello ricreativo, quello che si fuma la sera, in alcune circostanze, e quello “pesante” è molto sottile. Ma sta nel ruolo che il ragazzo o la ragazza attribuisce alla canna stessa. Se si fuma ogni mattina, prima di entrare a scuola, accompagnandola con una birra, non significa che si è per forza tossicodipendenti ma certo si dà alla marijuana una funzione terapeutica fai-da-te, del tutto illusoria. Quella canna e quella birra così reiterate diventano una sostituzione del pensiero. Viene chiesto loro di svolgere un compito impegnativo che in realtà è una necessità. Lì, in quella crepa, in ragazzi magari un po’ depressi, con una bassa stima di sé, con idee che virano in senso persecutorio, con problemi relazionali a casa e fuori, allora potrebbe esserci lo spazio per l’uso di droghe pesanti come cocaina e metamfetamine”. Molto più raro il passaggio agli oppiacei come l’eroina. “La strada attraverso la quale si arriva lì è diversa”, sostiene Tonioni. “Prima il popolo degli eroinomani proveniva dalle borgate, aveva a che fare con un tipo diverso di mentalità, di ideologia. Oggi gli oppiacei servono soprattutto a smorzare, come si dice in gergo, gli “up”. L’eroina sembra lì per lì a chi la prende la panacea di tutti i mali ma il suo uso nasce solo dall’esigenza di lenire la paranoia scaturita dall’abuso degli psicostimolanti. Poi restano solo gli effetti pesanti e la dipendenza”. San Lorenzo, Roma Adolescenti e droghe, un legame quasi fatale… perlomeno nella percezione sociale di Massimo Ammaniti La Repubblica, 23 dicembre 2021 Sicuramente l’adolescenza è un periodo a rischio per l’uso e l’abuso di sostanze e di alcol, anche perché le trasformazioni tipiche di questa fase creano una fragilità psicologica che può predisporre a questo uso. È presente infatti un divario fra la forte attivazione emotiva del sistema cerebrale limbico e i sistemi regolativi di controllo di sé che invece maturano più tardivamente, legati quest’ultimi alla corteccia cerebrale frontale e prefrontale. È il motivo per il quale gli adolescenti manifestano spesso forti oscillazioni delle emozioni, in cui si alternano momenti di abbattimento e di vuoto a momenti di eccitamento e di tensione. E quando vengono contrariati o rimproverati reagiscono con improvvisi scoppi di rabbia provocati dalla loro suscettibilità e dalla permalosità essendo molto concentrati su loro stessi. E tutto questo è fonte di malessere e di insofferenza, che a volte subiscono i genitori e gli insegnanti che hanno difficoltà a comprenderne le motivazioni. Questa forte discontinuità di comportamento che si crea col proprio passato suscita incertezze e addirittura confusioni personali, quasi l’adolescente potesse temere di perdere la direzione di se stesso. E dal momento che non ci si può più appoggiare ai genitori, da cui invece si vuole distaccare, i coetanei diventano indispensabili. Con loro si condividono i propri stati d’animo e i propri interessi superando l’opprimente senso di solitudine che si avverte in alcuni momenti. In gruppo il confronto è continuo per farsi valere ed affermarsi, insieme si scoprono territori sconosciuti ed eccitanti, come le prime esperienze sentimentali e sessuali. Si tratta di una grande risorsa, che stimola il senso di appartenenza e il riconoscimento del proprio ruolo, anche se poi non è facile per un ragazzo o una ragazza sottrarsi alle pressioni e alle seduzioni del gruppo, col rischio di essere rifiutato ed emarginato, esperienza che può compromettere il senso di sé. Fra i comportamenti di iniziazione nei gruppi l’uso dell’alcol e delle droghe rappresenta una vera prova del fuoco, che viene a sancire la stessa appartenenza, anche perché viene considerato un’esperienza esaltante, anche perché proibita e disapprovata dai genitori. Le prime esperienze con le canne hanno quasi un carattere rituale, perlopiù durante una festa nel clima di complicità e di eccitazione lo spinello è quasi un oggetto sacrale, che viene passato da uno all’altro per un tiro insieme. Per molti ragazzi inizia così un percorso clandestino, che prima o poi viene scoperto dai genitori provocando grandi scontri familiari. Non è facile capire quanto la cannabis sia diffusa fra i ragazzi, una ricerca di qualche anno fa stimava che il 20% degli studenti delle scuole superiori ne facesse uso, sia in modo occasionale che in modo continuativo. Dati più recenti del Dipartimento per le Politiche Antidroga mettono in luce che il 30% dei ragazzi e il 21% delle ragazze non solo ricorrono agli spinelli ma creano cocktail micidiali mettendo insieme marijuana, cocaina, psicofarmaci e droghe sintetiche, quest’ultime ben più pericolose dal momento che provocano reazioni mentali e neurologiche gravi. Molti adolescenti sottovalutano il pericolo dell’uso della cannabis avendo l’illusione che possa risolvere con la sensazione piacevole di rilassamento i malesseri e le ansie personali vissute dagli adolescenti. Non va dimenticato che la marijuana e l’hashish che si trovano oggi nel mercato nero sono frutto di ibridazioni molto diverse dal passato, avendo concentrazioni di tetraidrocannabinolo (THC) ben più elevate, addirittura 25 volte superiori. E come hanno confermato numerose ricerche i livelli elevati di THC interferiscono gravemente con la maturazione cerebrale che si verifica durante l’adolescenza, provocando scompensi psichici anche molto gravi. In questo poliuso di sostanze si assomma frequentemente anche il ricorso all’alcol che si sta diffondendo sempre più fra gli adolescenti soprattutto fra i 14 e i 17 anni, in particolare nelle ragazze. Non è l’alcol che veniva utilizzato in passato per superare blocchi ed inibizioni sociali, viene invece mischiato con le droghe per provocare sballi che a volte esitano in stati di coma. Purtroppo la recente pandemia ha provocato nei giovani un isolamento ed un impoverimento della loro vita sociale aggravando la diffusione dell’uso di sostanze. È una piaga che rischia di pregiudicare il futuro delle nuove generazioni, ma il problema più che riguardare soltanto i giovani chiama in causa il mondo degli adulti, se -come scrisse il grande psicoanalista Donald Winnicott - sono abbastanza sani da poterli aiutare senza ricorrere a misure repressive. Eutanasia e cannabis, “il governo non si costituirà contro i referendum” di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 dicembre 2021 Davanti alla Corte costituzionale. “Soddisfatti” i comitati promotori. “È necessario che ora la parola passi al popolo sovrano”. “Il governo non si costituirà contro l’ammissibilità dei referendum. Non ne ha alcuna intenzione”. Il presidente del Consiglio Mario Draghi risponde così a chi gli chiede quale sarà la posizione dell’esecutivo davanti alla Corte costituzionale quando verrà discussa l’ammissibilità dei referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia (il prossimo 15 febbraio) e della cannabis, e quella dei sei quesiti riguardanti la giustizia proposti tramite delibere dalle Regioni a guida centrodestra. “Il governo - precisa il premier - avrebbe potuto in alcuni casi creare delle condizioni per cui la presentazione sarebbe slittata all’anno prossimo e non lo ha fatto. Quindi non c’è nessuna intenzione di costituirsi contro”. “Ha accolto la nostra richiesta”, fa notare Riccardo Magi (+Europa), tra i promotori del referendum per la depenalizzazione dei fatti di lieve entità legati alle droghe, riguardo al quale la Cassazione è ancora impegnata nella verifica delle oltre 630 mila firme. Mentre l’”Eutanasia legale” ha superato il vaglio della Cassazione con le sue 1,2 milioni di firme. Sono “soddisfatti” Filomena Gallo e Marco Perduca, dell’Associazione Luca Coscioni e presidenti dei due Comitati promotori, “sempre più convinti che la parola debba passare al popolo sovrano”. Perché, spiegano, è ormai evidente la “mancanza di assunzione di chiare responsabilità politiche”. “Infatti, la sentenza 242/2019 della Consulta (Cappato/DjFabo) ha stabilito le condizioni per cui non debba essere punito il suicidio assistito e ha invitato il Parlamento a normare sul tema. A oltre due anni da quella decisione, però, il testo incardinato alla Camera non ha un calendario certo per la sua adozione, né affronta le condotte al centro del referendum eutanasia legale”. Inoltre, “la VI Conferenza nazionale sulle droghe del novembre scorso ha, tra le altre cose, raccomandato la revisione degli articoli 73 e 75 del T.u. sulle droghe 309/90 - gli stessi articoli toccati dal referendum cannabis - per favorire la depenalizzazione di condotte oggi ancora fortemente punite”. I migranti sepolti nelle baraccopoli come in una galera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 dicembre 2021 Non sono carceri o centri di permanenza, ma sono luoghi di segregazione informale dove di fatto c’è una grave restrizione della libertà e violazione dei diritti umani. Sono luoghi dove le condizioni di vita sono difficili, talvolta drammatiche con scarso se non inesistente accesso ai beni essenziali come cibo, acqua, servizi igienici, assistenza sanitaria. Parliamo delle tendopoli dove vivono i migranti che fanno i braccianti nei campi. Alcune di queste baraccopoli si trovano ad ospitare i braccianti della Piana di Gioia Tauro, in Calabria. Ed è qui che nel mese di dicembre, la clinica mobile di Medici per i Diritti Umani (Medu) è tornata, per l’ottavo anno consecutivo, a fornire prima assistenza sanitaria ed orientamento socio- legale ai braccianti che trovano impiego nella raccolta agrumicola in condizioni di grave sfruttamento. Circa 600 persone popolano infatti i diversi insediamenti precari dell’area, in particolare la tendopoli di San Ferdinando, il campo container di Rosarno e i casali abbandonati nel Comune di Taurianova. In relazione agli insediamenti precari - come hanno denunciato i Medici per i Diritti Umani (Medu) - la tendopoli di San Ferdinando ospita circa trecento persone, in condizioni di totale abbandono. È presente solo un presidio costante dei Vigili del Fuoco nel piazzale limitrofo, ma da agosto del 2020 la cooperativa che gestiva la tendopoli dal 2018 ha lasciato il campo per mancato rinnovo del contratto. Il sindaco del Comune di San Ferdinando ha comunicato ai braccianti, tramite un volantino affisso nella tendopoli, l’obbligo di lasciare l’insediamento entro il 15 agosto, ma in assenza di soluzioni abitative alternative, circa duecento migranti sono rimasti nell’area in attesa che le autorità trovino delle soluzioni. Medu denuncia anche quest’anno lo stato di terribile abbandono e fatiscenza della tendopoli che versa oggi in condizioni drammatiche, in assenza di servizi essenziali quali l’elettricità, l’acqua calda, un servizio di smaltimento rifiuti e di manutenzione dei servizi igienici. All’interno delle tende, più persone condividono spazi molto limitati e per riscaldarsi accendono fuochi o allestiscono stufe di fortuna alimentate con piccoli generatori o con materiali di risulta, con un elevato rischio di incendi e gravi conseguenze per la salute come purtroppo ci raccontano le cronache. Poi c’è il campo container di Rosarno - costruito all’indomani della rivolta dei braccianti del 2010, senza prevedere in seguito alcun investimento per il suo mantenimento - che invece ospita altre duecento persone in condizioni meno precarie, dal momento che sono garantiti alcuni servizi essenziali, ma pur sempre in un contesto estremamente isolato e senza alcun tipo di supporto da parte delle istituzioni. I container richiedono infatti una manutenzione periodica e l’impianto elettrico presenta pericolose problematiche dovute al sovraccarico di corrente. Circa settanta braccianti, infine, trovano riparo presso i casali diroccati siti in Contrada Russo, nel Comune di Taurianova, in condizioni disumane, in assenza di qualsivoglia servizio di prima necessità, completamente abbandonati a se stessi. Come denuncia a gran voce Medu, l’unico punto acqua disponibile si trova a circa cinquecento metri di distanza dalle abitazioni, all’inizio di una strada sterrata che in caso di pioggia diventa inaccessibile a causa del fango e delle pozzanghere che rendono penoso attraversarla. Per rifornirsi dell’acqua necessaria per lavarsi e cucinare, i braccianti sono costretti a percorrerla più volte al giorno, trasportando le taniche su carriole o biciclette. “Per l’ennesimo anno, le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti appaiono desolanti, l’accesso ai diritti fondamentali una chimera e gli interventi istituzionali tardivi e poco lungimiranti”, denuncia aspramente Medu nel suo report. Paura dei migranti: metà degli europei è a favore dei muri di Roberto Brunelli La Repubblica, 23 dicembre 2021 Il sondaggio YouGov per Lena (Leading European Newspaper Alliance). La maggioranza crede che gli stranieri rappresentino una minaccia alla propria “identità nazionale”. Confusa, impaurita, divisa: è l’immagine dell’Europa di fronte al fenomeno dei grandi flussi migratori. Dove quasi la metà dei cittadini immagina di innalzare muri per difendersi dagli stranieri illegali ed una grande maggioranza - da nord a sud, da ovest ad est del continente - ritiene che il livello d’immigrazione sia “troppo alto” nei rispettivi Paesi (e nell’Unione europea nel suo complesso). Altrettanti sono certi del fatto che l’arrivo degli stranieri rappresenti una minaccia alla propria “identità nazionale”. A sei anni dalla grande crisi migratoria del 2015, fa riflettere il quadro che emerge oggi dal sondaggio realizzato da YouGov in esclusiva per Repubblica e la Leading European Newspaper Alliance in dieci Paesi (Germania, Italia, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Svezia, Belgio, Svizzera, Polonia e Ungheria). Un dato sopra tutti: il 60% degli intervistati afferma che vi è “troppa immigrazione” nei rispettivi Paesi. È un’opinione sostanzialmente condivisa in gran parte del Vecchio Continente: in Italia cresce al 77% del campione, seguita dalla Spagna al 75% e dalla Svezia al 73%, mentre è più contenuta in Germania (al 67%), in Francia (al 66%) e nel Regno Unito (al 51%). Di contro, apparentemente è un paradosso la risposta al quesito in Polonia e in Ungheria, i cui governi spiccano per rigidissime politiche anti-migranti: qui la quota di coloro che trovano eccessiva la presenza di stranieri si riduce rispettivamente al 39% e al 34%, numeri che a detta degli analisti di YouGov si spiegano con il fatto che si tratta di Paesi più di “transito” che di permanenza. Ad uno sguardo più attento, tuttavia, si scopre che nelle stesse Polonia ed Ungheria schizza in alto il numero di cittadini che considera un’ottima soluzione la costruzione di muri per bloccare i migranti irregolari: rispettivamente sono il 58% ed il 71%. Lo scenario cambia nell’Europa centro-occidentale: in Germania i “pro-muro” sono il 48%, tra i francesi e gli spagnoli lo è solo il 36, tra belgi ed elvetici si scende al 31 e al 28%. È uno schema che si replica nelle risposte sulla “minaccia all’identità nazionale”: in Ungheria è quel che pensa il 53% della popolazione, in Polonia il 46%, ma la percentuale precipita al 35% in Spagna, al 37% nel Regno Unito, ma torna a crescere al 44% in Italia e al 43% in Svizzera. Patrick English, research manager di YouGov, non ha dubbi: “Complessivamente in Europa il 45% pensa che l’immigrazione costituisca una minaccia all’identità, il 48% è convinto dell’opposto: il che riflette una forte divergenza di pensiero e la mancanza di chiarezza sul tema migranti”. Differenze, come quella sui muri, che hanno anche a vedere con l’esperienza d’immigrazione dei singoli Paesi: quelli dell’est, per esempio, “scontano” il fatto di coincidere con le frontiere esterne dell’Ue. In compenso, la maggioranza degli europei è convinta che gli stranieri rifiutino di integrarsi: risponde così il 51% degli italiani, il 50% degli svedesi, il 46% dei tedeschi e il meno sorprendente 57% degli ungheresi. Per quanto riguarda le preoccupazioni suscitate dall’immigrazione, al primo posto svetta quasi ovunque in Europa il timore di un aumento del crimine: è del 47% il dato complessivo nei dieci Paesi della rilevazione, che cresce al 52% in Germania, al 53% in Italia, addirittura al 64% in Svezia. Più bassa la percezione di un rischio di “intolleranza culturale” o religiosa, con percentuali che quasi ovunque oscillano poco sopra il 30%. Sicuramente inferiore a qualche anno fa il tasso (anche questo intorno al 30%) di chi vede al primo posto “il rischio terrorismo”, con la consueta eccezione delle risposte date alle latitudini di Budapest (al 54%). Sull’Italia nel sondaggio YouGov spiccano due dati. Primo, in diversi quesiti le risposte divergono drammaticamente a seconda della affiliazione partitica: arriva infatti al 91% la quota di elettori di Lega e Fratelli d’Italia convinti che vi è “troppa immigrazione” nel Paese, contro il 63% di chi vota Pd. Secondo, mentre sul giudizio incide notevolmente il livello di reddito (in questo gruppo è il 77% a temere il numero dei migranti), si fa notare il fatto che la “minaccia immigrazione” è decisamente meno percepita al sud e nelle isole che al nord e al centro (38% contro il 47%). Sorprendente, visto da Lampedusa. Migranti. Emma Bonino: “Che vergogna questa Europa” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 23 dicembre 2021 “Era chiaro che le elezioni non ci sarebbero state ma per Tripoli non c’è un piano B. L’Afghanistan? Dimenticato. Tutto ciò non è nell’agenda del Consiglio europeo, ma è nell’agenda della realtà”. Ci tiene a dire che queste questioni lei le ha sollevate in Aula al Senato e nell’incontro di +Europa a Milano: Libia, migranti, la tragedia che si sta consumando ai confini tra Bielorussia e Polonia. Emma Bonino, leader storica dei Radicali, già ministra degli Esteri e Commissaria europea, oggi senatrice di +Europa, ha fatto della difesa dei senza diritti una ragione di vita politica. Di Libia se ne è sempre occupata, da ministra, Commissaria europea e parlamentare. E come parlamentare ha votato contro il rifinanziamento della Guardia costiera libica da parte dell’Italia. Cosa che allora, luglio scorso, spiegò così: “La strategia inaugurata con il memorandum Italia-Libia del 2017, proseguita con il riconoscimento della SaR (la zona di Search and Rescue) libica, con il decreto motovedette dell’estate 2018 e con queste missioni di supporto che ora si chiede di rinnovare, si regge su una finzione cui nessuno può più far finta di credere: che le autorità libiche siano in grado di salvare persone in mare garantendo il rispetto dei più basilari diritti umani. Le condizioni dei centri di detenzione, non chiamiamoli di accoglienza per favore, sono note a tutti, ne sono pieni i rapporti delle organizzazioni internazionali. Sono dei lager”. Sono passati 5 mesi da quel voto, e la realtà le ha dato tragicamente ragione. Quanto poi ai balletti quirinalisti, la risposta è nell’intervista. Dal Mediterraneo all’Afghanistan, dalla gelida frontiera tra Bielorussia e Polonia al dimenticato Yemen. Il 2021 ci sta lasciando tragedie umanitarie che mettono a rischio la vita di milioni di persone. E la comunità internazionale? Cosa sia nel concreto oggi la “comunità internazionale” è qualcosa che mi sfugge tanto indeterminati ne sono i riferimenti. Diciamo che guarda attonita queste crisi e come sempre accade quando fallisce la politica, si rivalutano gli “umanitari”. I quali fanno il loro mestiere che non è quello di far politica o trattative. Il loro nobile mestiere è quello di salvar gente, se ci riescono e quando ci riescono. Noi siamo in una situazione, sempre quella, di una politica estera che non c’è, di una politica sull’immigrazione che non esiste, e se penso a quelli che muoiono di freddo tra Bielorussia e Polonia, come ho detto in Senato, qui anche la pietà è morta. Il che non mi rende molto orgogliosa di questa Europa. Per niente. Un’altra zona calda è la Libia. Il regno del caos. Il 24 dicembre doveva essere una data storica per il Paese nordafricano: il giorno delle elezioni presidenziali e parlamentari. Ora è ufficiale che le due elezioni sono state rimandate non si sa a quando, mentre a dettar legge sono le milizie in armi. Libia, un fallimento annunciato? Io ne ho parlato a lungo nella convention di +Europa a Milano. Ho ripreso il tema al Senato. Mi è stato risposto da parte di alcuni elementi del Governo che la Libia non era all’ordine del giorno del Consiglio Europeo. Vero. È però all’ordine del giorno della realtà che forse conta un po’ di più. E non ci voleva chissà quale sfera di cristallo per capire che non si sarebbero tenute le elezioni il 24 dicembre. E, che io sappia, non è esistito alcun piano B. Nel frattempo sono morte altre 156 persone nel Mediterraneo, ma ormai questo non fa più né notizia né emoziona. La Road map è fallita ma si sapeva fin dall’inizio che non avrebbe tenuto. E cosa succede adesso non lo sa nessuno. Non lo sa nessuno. Però nella conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato che “Ue e Italia continueranno a far di tutto per il consolidamento della democrazia” in Libia. Siamo all’errare è umano, perseverare è diabolico? Sì. Anche perché continuano “a fare di tutto” e non capisco cosa sia quel “tutto”, che rimane abbastanza vago. Per ora constato che l’accordo per il processo elettorale del 24 dicembre è ampiamente fallito. Tutto sta, sostanzialmente, nelle mani delle milizie e noi ci affidiamo, che ne so, a Dio... Non c’è nessun piano B per la Libia, Né italiano né europeo. Il dramma è che non ci affidiamo a Dio ma continuiamo a farlo, con tanto di finanziamenti, alla cosiddetta Guardia costiera libica... Più le milizie, che molto spesso sono la stessa cosa. Per questi criminali, anche in divisa, la tratta dei migranti produce considerevoli flussi finanziari e quindi in uno Stato in cui nessuno governa, “sgovernano” queste milizie. Ma questo lo sappiamo da sempre. Vogliamo continuare a far finta di no, ma lo sappiamo da sempre. La smemoratezza è una brutta malattia, specie in politica. In questi mesi ho perso il conto di quante volte si è usato e abusato di “corridoi umanitari”, di “chiusure dei campi di detenzione in Libia” etc. Di questo che è rimasto? Niente. Assolutamente niente. Era niente quando l’avevamo sbandierato ed è niente adesso che tutto ciò non è nell’agenda del Consiglio Europeo ma è nell’agenda della realtà. L’Afghanistan l’abbiamo completamente dimenticato, di Yemen e altro facciamo finta di no, e tutta l’attenzione nel nostro paese è il gioco della torre tra Draghi e Mattarella: chi buttiamo giù per primo. Mattarella si è tirato fuori e adesso tutto il chiacchiericcio politico è che succede. Peraltro chiunque abbia un po’ di esperienza storica sa che solo Cossiga e Ciampi furono eletti al primo colpo e tutti gli altri quattordici votazioni, sedici votazioni, diciotto votazioni...e tra una votazione e l’altra sono stati esclusi tutti quelli che erano entrati nel “conclave” come papabili: Forlani, De Mita e via elencando, ne cadeva uno dietro l’altro. Io a questo gioco mi rifiuto di partecipare perché è un gioco di dietrologia a mio avviso inutile e anche incomprensibile. Guardo, però, ai risultati, secondo me positivi di questo Governo e mi terrorizza l’idea che si cambi il manovratore. Continuo ad essere fermamente convinta che l’energia e l’autorevolezza di Mario Draghi non debba assolutamente andare sprecata. Il paese non se lo può permettere. Per restare su questo. Il presidente Draghi ha comunque ribadito che lui è in pista se rimane una maggioranza di unità nazionale a sostenerlo. La metto giù un po’ brutalmente: così facendo vogliamo istituzionalizzare l’emergenza? Non è che la vogliamo istituzionalizzare. È che l’emergenza continua. C’è. Io non sono una esperta, una tecnica, ma quello che mi pare di aver capito anche da altri paesi è che questa variante Omicron è meno letale ma con una capacità di diffusione molto più grande. Siamo entrati in un’altra emergenza, o meglio, nell’evoluzione della stessa. Questo è il punto. Io tra tutte le varie tesi continuo a ritenere e a dire che la cosa più sensata è vaccinarsi. Cosa che mi pare la grande maggioranza dei cittadini stia facendo. Dall’emergenza, però, non siamo usciti. È solo che si presenta in modo diverso, ma lì stiamo. Dal chiacchiericcio dei palazzi della politica o dei salotti mediatici alle tragedie, quelle vere. I migranti come arma di ricatto. Ricatto all’Europa. È ciò che sta avvenendo a Est. Dell’autocrate di Minsk, Aleksandr Lukashenko, si è detto di peggio e di più, giustamente. Ma che dire della Polonia, paese membro dell’Unione Europea che ha chiesto i soldi a Bruxelles per erigere un muro anti migranti alla frontiera con la Bielorussia? No, stai attento. Lì gli è stato detto di no. Non con i soldi europei. Ma sostanzialmente non cambia niente. Voglio ribadire qui quanto ho avuto modo di dire nel mio intervento al Senato: ho vissuto, come molti credo, con un po’ di vergogna il fatto che anche dentro i confini dell’Europa si parli sempre e solo di tener fuori, di respingere... Io non mi capacito, e mai lo farò, di un continente che ha 500milioni di abitanti e che oggi abbia paura dell’”invasione” di seimila, settemila disperati che stanno gelando ai confini tra la Bielorussia e la Polonia! Questo è un tema che, a mio avviso, va affrontato di petto nella famosa Conferenza per il futuro dell’Europa, che ha tanti, troppi, temi nella sua agenda, ma non quello della necessità di riforme istituzionali del Trattato. E se non si affronta e si scioglie questo nodo, e si mantiene, ad esempio, il ricatto delle decisioni all’unanimità su questioni cruciali, quali appunto quella dell’immigrazione, saremo sempre lì. Non è che le cose si risolvano sempre con un cerotto. A volte ci sono cose che si devono risolvere con modalità un po’ più, se mi posso permettere, radicali. Un indice per misurare la giustizia ambientale di Alessia Maccaferri Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2021 Partnership tra la ong Mani Tese e la Fondazione Isi per elaborare una piattaforma e un report internazionale. Un indice per conoscere e fare advocacy. Siccità, inondazioni, eventi estremi che sconvolgono la vita di milioni di persone ovunque nel mondo. E ancora inquinamento, guerre per le risorse naturali e catastrofi. Per misurare i livelli di giustizia ambientale ora arriva un indice ad hoc messo a punto dalla ong Mani Tese insieme a Fondazioni Isi, che sarà realizzato con il contributo di Fondazione Cariplo. La piattaforma digitale che sarà creata e il rapporto saranno strumenti non solo di conoscenza ma anche di advocacy davanti ai governi e alle istituzioni nazionali. Un indicatore multidimensionale - L’idea di creare un indice di giustizia ambientale nasce come progetto pilota all’interno del programma Innovazione per lo sviluppo di Fondazione Cariplo e Fondazione Compagnia di San Paolo. “La giustizia ambientale è uno dei nostri temi forti su cui abbiamo sentito l’esigenza di mettere in piedi uno strumento di advocacy nel dialogo con le istituzioni - spiega Elias Gerovasi, responsabile progettazione & innovazione di Mani Tese - Il problema è che esiste una casistica ma non abbiamo trovato sinora una modalità di misurazione”. Così, all’interno dello studio di fattibilità ci si è posti la domanda: quali fattori prendere in considerazione per misurare la giustizia ambientale? Con un gruppo di lavoro di accademici (Università di Milano Statale) e con gli scienziati dei dati (Fondazione Isi) hanno cercato di comprendere quali indicatori esistono e come comporre un indice. “Non ci sono indici sintetici di riferimento ma solo indicatori parziali, dalle emissioni di Co2 al consumo di suolo” aggiunge Gerovasi. Ora l’indice sintetico messo a punto esplora più dimensioni estratti da dataset di varie fonti. Tre le aree principali di fonte dei dati: 1) ambiente: sprawl urbano (Fao)* procapite 2) Red list index (SDGs) con le specie a rischio. 2) società: tasso di mortalità per inquinamento (SDGs), indice di libertà di stampa (Reporters Without Borders), indice Gini (World Bank) che misura la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. 3) diseguaglianze internazionali: impronta ecologica per persona (Ecological Footprint Network); emissioni di gas serra pro capite (World Bank); compliance rispetto alla convenzione di Basilea sul controllo delle movimentazioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi e loro smaltimento; compliance rispetto alla convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti. La giustizia ambientale viene così definita come eguale protezione dai rischi ambientali e di salute pubblica per tutte le persone, senza distinzione di etnia, reddito, cultura e classe sociale. Lo sviluppo della piattaforma - Ora grazie a un nuovo contributo di Fondazione Cariplo di 85mila euro, l’indice diventerà realtà. Innanzitutto si procederà alla validazione della metodologia e finalizzazione della scelta degli indicatori individuati nella fase pilota per ogni dimensione (ambiente, società, diseguaglianze internazionali). Verranno processati i nuovi dati disponibili nel periodo di riferimento per arrivare alla sintesi del quadro di ogni dimensione tramite calcolo complessivo degli indici contenuti e alla sintesi dell’indice di giustizia ambientale tramite calcolo complessivo delle dimensioni contenute; successivamente verranno elaborate le mappe geografiche globali delle tre dimensioni e dell’Indice complessivo. Poi sarà realizzata una piattaforma online (in italiano e in inglese) per ospitare e divulgare i contenuti numerici e geografici dell’Indice, la metodologia, un ambiente data set aggiornabile, uno spazio Lab di interazione tra stakeholder, la repository del Rapporto di Giustizia Ambientale. Il tutto sarà accompagnato dalla realizzazione di un Rapporto sulla Giustizia Ambientale (in italiano e inglese) per documentare periodicamente focus tematici e geografici riguardanti la giustizia ambientale che riporterà, oltre ai dati sintetici aggiornati dell’indice di giustizia ambientale, una serie di approfondimenti tematici e/o geografici che potranno essere utilizzati per partecipare al dibattito relativo alla governance dei beni comuni ambientali e alla lotta alle disuguaglianze nell’accesso, controllo e loro gestione. Le celle sono piene e la Danimarca affitta le prigioni del Kosovo di Andrea Tarquini La Repubblica, 23 dicembre 2021 Accordo tra i due governi per il trasferimento di 300 detenuti, soprattutto detenuti comuni e di origine extracomunitaria. L’intesa prevede un primo pagamento di 15 milioni di euro a Pristina. Protestano le Ong kosovare: “Il nostro sistema non è in grado di accollarsi altri prigionieri”. La Danimarca adotta il metodo dell’outsourcing di detenuti, soprattutto di detenuti comuni condannati e provenienti da paesi esterni all’Unione europea, quindi destinati ad essere espulsi dal regno dopo aver scontato la pena. Il governo danese ha raggiunto un accordo in tal senso con il Kosovo per trasferirvi 300 reclusi. L’intesa prevede al momento l’affitto di 300 celle nella prigione kosovara di Gjilian, che si trova a 50 chilometri dalla capitale del paese balcanico Pristina, per spostarvi un numero non precisato di detenuti dalle prigioni danesi. Le quali secondo le autorità di Copenaghen scoppiano essendo ormai troppo sovraffollate soprattutto di criminali comuni di origine extracomunitaria condannati in regolari processi per reati commessi in territorio danese. L’intesa prevede un primo pagamento di 15 milioni di euro l’anno al Kosovo da parte danese e ha al momento una durata di cinque anni. Un suo rinnovo in futuro non è escluso. Il provvedimento, ha detto il ministro della Giustizia danese Nick Haekkerup, “allevierà la pressione nelle nostre carceri e alleggerirà la pressione sugli agenti penitenziari, ormai sottoposti a uno stress insostenibile a causa del sovraffollamento”. Al tempo stesso, sempre secondo il ministro, “la decisione invierà un segnale preciso agli extracomunitari, soprattutto a quelli che si sono macchiati di delitti: il vostro posto non è in Danimarca, dovete tornare da dove venite o andare dove possibile. E non dovete neanche scontare a casa nostra la pena cui siete stati condannati”. È un nuovo atto della politica di tolleranza zero e di obiettivo migranti zero perseguita dal governo guidato dalla dura premier socialdemocratica Mette Frederiksen. Si calcola che con un’estensione nel tempo dell’accordo bilaterale sull’affitto di celle il Kosovo, uno tra i paesi più poveri d’Europa, riceverà dalla ricca Danimarca una somma totale di 210 milioni di euro in 10 anni, i quali verranno pagati a partire dal 2023. L’accordo, secondo il sito di notizie Euractiv, è stato duramente criticato da esperti delle organizzazioni umanitarie kosovare. Bexhet Shala, dirigente della ong per la protezione della libertà e die diritti umani, ha affermato che “il nostro sistema carcerario è in tali condizioni da non essere assolutamente in grado di accollarsi 300 prigionieri in più. È troppo facile per la Danimarca pagare l’outsourcing della detenzione offrendo facilmente soldi a un paese povero. Oltretutto le leggi e consuetudini internazionali stabiliscono che i condannati scontino la pena loro comminata il più vicino possibile ai loro familiari, e qui siamo di fronte a extracomunitari condannati, emigrati in Danimarca con le famiglie o parte delle famiglie”. Fatmire Haliti, un’altra persona esperta di problemi del sistema carcerario kosovaro, sottolinea che nelle prigioni dell’ex provincia jugoslava le condizioni di vita quotidiane sono gravi e pericolose: ci sono scontri e violenze frequenti tra detenuti, lesioni che i detenuti si autoinfliggono per finire almeno in infermeria, e casi di morti e omicidi. Il ministro danese Haekkerup ha risposto che il Kosovo potrà fare quello che vuole coi detenuti trasferiti e che dal dislocamento saranno esclusi terroristi, detenuti colpiti da malattie mentali e anche da disordini psicologici gravi. L’inferno delle carceri di sterminio turche di Gianni Sartori volerelaluna.it, 23 dicembre 2021 Per ora è l’ultimo. Ma - si teme - non lo sarà a lungo. Condannato all’ergastolo, Vedat Çem Erkmen era rinchiuso nella prigione di tipo F di Tekirda?. Le dinamiche della sua morte (stando alla versione ufficiale si sarebbe suicidato domenica 19 dicembre) risultano perlomeno sospette. Quando i suoi familiari, gli avvocati dell’Associazione per i diritti dell’uomo (IHD) e quelli dell’Associazione degli avvocati per la libertà (ÖHD) si sono presentati alle porte del carcere sono stati informati che l’autopsia era già avvenuta in loro assenza. Un esponente della Commissione sulle prigioni di ÖHD, Gürkan Isteli, ha messo in rete le sue perplessità: “Cosa cercano di nascondere? Siamo andati avanti e indietro per ore dalla prigione al palazzo di giustizia, all’ospedale. Ma tutte le nostre richieste di poter vedere il corpo venivano respinte. Solo dopo molte ore, quando finalmente siamo riusciti a entrare nell’ufficio del procuratore, abbiamo potuto identificarlo”. Da qualche giorno il prigioniero curdo era stato trasferito in una cella d’isolamento, senza plausibili ragioni. A meno che - è questo il timore che serpeggia tra gli avvocati e non solo nel caso di Vedat Erkmen - tali trasferimenti siano il preludio per l’eliminazione fisica del detenuto. Particolare inquietante, solo qualche giorno prima (il 17 dicembre) nel corso di una telefonata, il prigioniero aveva chiesto al fratello di presentare un reclamo contro l’amministrazione penitenziaria per i maltrattamenti subiti. Si profila quindi l’eventualità di una ritorsione dei guardiani nei suoi confronti. Come avviene quasi regolarmente nel caso dei detenuti curdi morti in carcere, il corpo di Erkmen non è stato consegnato alla famiglia (affinché potesse seppellirlo a Kars, la città natale), ma portato dalla polizia in un cimitero di Istanbul (Küçükçekmece) già nel primo mattino di lunedì 20 dicembre. Con quello di Erkmen siamo al quinto decesso sospetto di prigionieri politici curdi in meno di dieci giorni. Solo due giorni prima avevo scritto che “a costo di apparire cinico (ma in realtà disgustato, affranto per questo rosario infinito e ingiusto di morte…) e consapevole che sulla tragedia del popolo curdo l’ironia è fuori luogo, dopo la morte di Halil Güne? il 15 dicembre (successivo a quelli di Abdülrezzak ?uyur il 14 dicembre e di Garibe Gezer il 9 dicembre) non avevo potuto fare a meno di pensare che “Non c’è due senza tre”. Ma siccome non c’è limite al peggio, ora la lista si è ulteriormente allungata”. Infatti a distanza di un paio di giorni dalla morte di Halil Güne? l’ennesimo prigioniero politico curdo era deceduto il 18 dicembre in una maniera che anche i suoi familiari ritengono “sospetta”. Ilyas Demir (32 anni, condannato all’ergastolo) si trovava in una cella d’isolamento (dove, di fatto, i prigionieri sono completamente in balia dei loro carcerieri) della prigione di tipo T di Bolu. La famiglia non era nemmeno stata informata direttamente dalla direzione del carcere, ma soltanto dal muhatar (il rappresentante di quartiere che evidentemente era stato contattato dalle autorità). E senza che venisse fornita qualche spiegazione sulla causa dell’improvvisa morte. Madie Demir ha dichiarato che suo fratello, da quando venne arrestato nel 2013, era stato rinchiuso in varie prigioni, spesso in isolamento. Inoltre, nonostante patisse di gravi problemi psicologici, non era mai stato curato. Aggiungendo che “costringerlo in isolamento in tali condizioni è stato un crimine in quanto avrebbe dovuto trovarsi all’ospedale per venir curato”. Un passo indietro. Quando il 13 dicembre del 1980 il giovanissimo militante del Türkiye Devrimci Komünist Partisi (Partito Comunista Rivoluzionario della Turchia) Erdal Eren venne impiccato, la sua vera età (16 anni) venne falsificata dalle autorità turche per poterlo giustiziare. Il ragazzo era stato arrestato con altri militanti di sinistra durante una manifestazione e accusato della morte di un soldato. Colui che ne aveva patrocinato l’impiccagione (e che non certo impropriamente venne definito il “Pinochet turco”), il generale golpista Kenan Evren, aveva così commentato: “Avremmo forse dovuto incarcerarlo e nutrirlo a vita invece di impiccarlo?”. Quasi con le stesse parole veniva commentata la morte - il 9 dicembre ? nel carcere di Kocaeli della prigioniera politica curda Garibe Gezer (già torturata e violentata dai suoi guardiani). Alcuni media a favore di Erdogan si sono rallegrati per la sua morte scrivendo che ora “c’era una terrorista di meno da nutrire in carcere”. Di Garibe Gezer, morta il 9 dicembre, mi ero occupato circa due mesi fa denunciando le ignobili sevizie a cui veniva sottoposta. Torturata e violentata dai carcerieri, il suo è stato un autentico calvario. Alla fine gli aguzzini hanno completato l’opera di annientamento nei confronti di questa prigioniera politica rinchiusa nel carcere di massima sicurezza (di tipo F) di Kandira a Kocaeli. Secondo la versione fornita dalla amministrazione carceraria, la giovane curda - arrestata a Mardin ancora nel 2016 - si sarebbe “suicidata”. Numerose donne, esponenti delle Madri della Pace, del Movimento delle Donne Libere (TJA), dell’Associazione di aiuto alle famiglie dei prigionieri (Tuhay Der) e dell’HDP, si sono riunite davanti all’ospedale di Kocaeli per riavere il corpo della giovane vittima. Hanno poi portato a spalla la bara scandendo slogan contro la repressione nonostante la polizia intervenisse per impedirlo. Nella tarda serata del 10 dicembre è stata sepolta a Kerbora, la città dove era nata 28 anni fa. Ma la versione ufficiale sulla morte di Garibe Gezer non ha convinto Eren Keskin. In quanto avvocato e co-presidente dell’Associazione dei Diritti dell’Uomo (IHD) si è chiesta come la detenuta abbia potuto suicidarsi visto che si trovava in isolamento (per una sanzione disciplinare), sotto lo sguardo perenne delle telecamere. Nell’ottobre scorso, con una Iniziativa parlamentare delle donne del Partito Democratico dei popoli (HDP), veniva segnalato che Garibe era stata posta in isolamento per 22 giorni dopo il suo trasferimento - il 15 marzo - dalla prigione di Kayseri in quella di Kandira dove in queste ore ha perso la vita. Il 24 maggio, agenti penitenziari, sia uomini che donne, erano entrati nella sua cella per picchiarla. Si leggeva nel rapporto che “mentre le guardiane le tenevano le braccia bloccate, gli uomini la percuotevano sulla schiena. I suoi abiti venivano strappati, le venivano tolti i pantaloni per essere quindi trascinata per i capelli, seminuda, nell’area riservata ai detenuti maschi”. Scaraventata in una “cella imbottita completamente isolata e controllata 24 ore su 24”. E qui subiva “violenze sessuali da parte dei carcerieri”. A causa delle violenze subite, secondo il rapporto di HDP, la prigioniera avrebbe cercato di porre fine ai suoi giorni. Portata nell’infermeria del carcere, vi subiva altri maltrattamenti e non veniva curata. Messa in isolamento, il 7 giugno tentava di appiccare il fuoco alla sua cella e veniva gettata nuovamente in una cella imbottita. In una conversazione telefonica con la sorella era riuscita a informare i familiari che sarebbe stata posta ancora in isolamento e che nei suoi confronti venivano esercitate altre restrizioni disciplinari. Quanto alle lettere, alcune sono state censurate, altre mai spedite. Nonostante le sue proteste e denunce degli abusi subiti in carcere fossero note da tempo, nessuna inchiesta era mai stata avviata. Agli avvocati dell’Ufficio di aiuto giuridico contro la violenza sessuale e lo stupro, che si erano recati al carcere insieme a quelli dell’Associazione degli avvocati per la libertà (OHD), non veniva concessa la possibilità di assistere all’autopsia. Una vicenda quella di Garibe Gezer purtroppo analoga a tante altre. La sua famiglia in particolare ha pagato un prezzo molto alto nella lotta di liberazione. Un fratello, Bilal, era stato ucciso nelle proteste che tra il 6 e l’8 ottobre 2014 videro decine di migliaia di curdi scendere in strada da Diyarbakir a Vario e in una trentina di altre località, anche sul confine tra Suruc e Kobane. Assediando caserme e commissariati e incendiando alcuni edifici governativi in Bakur (Kurdistan del Nord sotto occupazione turca). Quella che sotto molti aspetti fu una vera e propria insurrezione derivava dalla richiesta di aprire un corridoio per portare soccorso a Kobane assediata dall’Isis. L’abbattimento di un largo tratto della frontiera consentì a molti curdi provenienti dalla Turchia di raggiungere i fratelli di Kobane. Da parte sua Erdogan ordinò il coprifuoco e schierò i carri armati. Le vittime accertate (quasi tutti curdi) furono oltre cinquanta, almeno 700 i feriti. Un altro fratello, Mehemet Emin Gezer, si era recato al commissariato di Dargeçit per poter recuperare il corpo di Bilal, ma era stato colpito dalla polizia delle operazioni speciali rimanendo paralizzato. Altri membri della famiglia erano poi stati ugualmente incarcerati. Come ho detto, dopo Garibe altri quattro detenuti curdi (Abdülrezzak ?uyur, Halil Güne?, Ilyas Demir, Vedat Çem Erkmen) sono deceduti carcere. Arrestato nel 1993, Abdülrezzak ?uyur aveva 56 anni ed è morto nella prigione di Sakran (nella provincia di Izmir) dove, nonostante fosse da mesi gravemente ammalato, sembra non sia stato curato. Due settimane fa aveva potuto incontrare i figli, ma in seguito di lui non si erano avute notizie. Invano un fratello si era recato al carcere per poterlo vedere. Così come erano rimaste lettera morta sia una richiesta di scarcerazione, vista la gravità della sua situazione, sia la richiesta di potersi curare in un ospedale esterno. In precedenza Abdülrezzak ?uyur era stato rinchiuso a Siirt e Antep. Halil Güne?, deceduto il 15 dicembre nella prigione di Diyarbakir, aveva 51 anni. Condannato all’ergastolo nel 1993, era da tempo gravemente ammalato. La questione della situazione sanitaria dei detenuti in Turchia (soprattutto della mancanza di cure adeguate) è da tempo all’ordine del giorno. In ottobre l’Associazione dei Diritti dell’Uomo in Turchia (IHD) aveva nuovamente chiesto il rilascio almeno di quelli ammalati più gravemente (in particolare di Adem Amaç, Atilla Co?kun e Eser Morsümbül). Richiesta comunque caduta nel vuoto nonostante siano ormai centinaia i prigionieri politici senza cure adeguate che continuano a languire (un supplemento di pena) nelle carceri turche. Secondo IHD sarebbero 1.564 i prigionieri ammalati e per 591 di loro la situazione è estremamente grave. Ovviamente si tratta dei casi accertati, ma appare scontato che il numero reale sia ben più elevato. E per chi era già ammalato con la pandemia i rischi sono aumentati. In Yemen si consuma l’ennesima vergogna, nell’indifferenza di tutti di Paolo Pezzati* Il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2021 A tre anni dagli Accordi di Stoccolma - che avrebbero dovuto rappresentare la prima pietra su cui costruire significativi progressi verso un possibile accordo politico tra le parti in conflitto - in Yemen la popolazione civile è ancora sotto il tiro incrociato di bombardamenti aerei e scontri terrestri sempre più intensi, soprattutto in alcune aree chiave del paese, prese di mira perché geograficamente strategiche o ricche di risorse, come il governatorato di Marib. Il capoluogo, Marib City, che prima dell’inizio del conflitto contava poco più di 40.000 abitanti, adesso ospita oltre 1 milione di sfollati che continuano ad aumentare settimana dopo settimana. In tutto lo Yemen al momento si contano oltre 4 milioni di persone in fuga dalla guerra - nei campi profughi perennemente sotto attacco o in alloggi di fortuna senza acqua pulita, cibo, medicine - a cui se ne sono aggiunte altre centomila solo negli ultimi 3 mesi. A metà novembre, gli scontri lungo la costa del Mar Rosso hanno costretto oltre 25.000 persone ad abbandonare le proprie case, mentre lo spostamento continuo delle linee del fronte, con vaste aree cosparse di mine anti-uomo, non fa che aumentare il numero di civili uccisi: 120 negli ultimi 2 mesi, 18.500 dall’inizio del conflitto, con un numero ormai imprecisato di vittime totali, stimato nell’ordine di centinaia di migliaia. Le cause e le conseguenze di un fallimento pagato da milioni di innocenti - L’accordo, firmato il 13 dicembre di tre anni fa - tra la minoranza Houthi e il governo riconosciuto a livello internazionale - aveva l’obiettivo proprio di evitare una catastrofica escalation militare, ma l’attuazione limitata delle sue componenti chiave è tra le cause alla base dell’emergenza umanitaria in corso, la più grave al mondo nella storia recente. Due in particolare gli elementi disattesi che hanno gravi conseguenze umanitarie: il mancato cessate il fuoco e un nuovo dispiegamento delle truppe (da parte di tutte le parti in conflitto) a Hodeida (il principale porto del paese da cui entrano oltre l’80% degli aiuti e dei beni essenziali); la mancata risoluzione della situazione a Taiz, città che è sotto assedio dall’inizio del conflitto, la cui popolazione sta pagando uno dei prezzi più alti in termini umanitari. A Hodeidah la distruzione di infrastrutture pubbliche e civili come scuole (in questo governatorato ci sono bambini che non vanno più a scuola da tre anni), ospedali e strade ha causato la perdita di mezzi di sussistenza e un vero disastro economico. A Taiz, i bombardamenti indiscriminati continuano a ferire e uccidere civili, lasciando la popolazione senza accesso ai servizi essenziali. A causa degli attacchi e dello spostamento delle linee del fronte, le principali vie di trasporto sono infatti inservibili o distrutte. Una situazione che sta complicando enormemente il lavoro delle organizzazioni umanitarie sul campo, che fanno sempre più fatica a raggiungere le comunità più colpite. L’appello per una tregua immediata, di fronte a una comunità internazionale latitante - La nuova ondata di violenza in corso nel Paese, oltre che aggravare una situazione umanitaria già disastrosa, potrebbe mettere a repentaglio le possibilità di un processo di pace di successo nei prossimi mesi. Da qui l’appello urgente lanciato in questi giorni da alcune delle principali organizzazioni, che come Oxfam sono al lavoro per soccorrere la popolazione, perché tutte le parti in conflitto rispettino i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario, compresi quelli relativi all’accesso umanitario e alla protezione dei civili, degli operatori umanitari e sanitari. Cessando immediatamente di colpire le poche infrastrutture essenziali, come quelle idriche e sanitarie, ancora in funzione. Un processo che dovrebbe essere guidato da una comunità internazionale al momento “latitante” e che per anni ha alimentato de facto il conflitto vendendo - Italia compresa - armamenti ai paesi della coalizione a guida saudita coinvolta nel conflitto per cifre record. Comunità internazionale che ad oggi ha finanziato solo per il 58% il piano umanitario definito dalle Nazioni Unite per far fronte all’emergenza nel 2021, ovvero 2,2 miliardi euro a fronte dei 3,8 necessari per rispondere ai bisogni di 16 milioni di persone. Con l’Italia totalmente assente nella lista dei donatori dopo essersi impegnata con soli 5 milioni di euro nel 2019 e nel 2020. Una vergogna che si sta consumando, ancora una volta, nella quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica mondiale. *Policy Advisor Oxfam Nicaragua. Scarcerati oltre mille detenuti comuni, restano in carcere i prigionieri politici nova.news, 23 dicembre 2021 La vicepresidente del Nicaragua, Rosario Murillo, ha confermato la scarcerazione di oltre mille prigionieri comuni in occasione delle festività natalizie. La vicepresidente, riferisce la stampa locale, non ha chiarito se una misura simile verrà adottata per i prigionieri politici. Al momento sono 168 i prigionieri politici in Nicaragua, tra cui sette pre-candidati alle elezioni presidenziali tenute il 7 novembre. Lo scorso 16 dicembre il parlamento europeo ha adottato una risoluzione con cui chiede l’adozione di ulteriori sanzioni contro il governo di Daniel Ortega, in Nicaragua, dopo la “farsa elettorale” registrata nel Paese in occasione delle ultime elezioni tenute il 7 novembre. I deputati, riferisce un comunicato diffuso dal parlamento europeo, chiedono che Ortega venga aggiunto all’elenco delle persone sanzionate e sollecitano l’Ue a valutare altre possibili misure, a patto che non arrechino danno alla popolazione nicaraguense. Secondo il parlamento europeo le elezioni tenute nel paese sono state “una farsa elettorale” orchestrata dal regime di Ortega-Murillo. Le autorità nicaraguensi, si legge, hanno eliminato ogni credibile competizione elettorale, incarcerando e intimidendo sistematicamente e arbitrariamente sette pre-candidati presidenziali e circa 40 leader dell’opposizione, leader studenteschi, giornalisti, difensori dei diritti umani e rappresentanti delle imprese. Il parlamento chiede inoltre il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri politici detenuti arbitrariamente. Lo scorso 14 dicembre, durante il dibattito sul Nicaragua in plenaria del Parlamento europeo, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, ha dichiarato che l’Unione europea sostiene il popolo del Nicaragua e per farlo deve mantenere aperti i canali di comunicazione. “Molti anni fa, l’attuale presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, rappresentava per molti la forza della libertà di un popolo che ha rovesciato una dittatura e ha conquistato da molti ammirazione, diventando l’immagine di come un popolo può riuscire a liberarsi di un tiranno, Anastasio Somoza, e il suo desiderio di trasformare il Nicaragua in un paese libero, prospero e giusto. E ha ottenuto anche la nostra simpatia, quella della mia generazione, quando ha dovuto lottare contro la cosiddetta ‘La Contra’, che rappresentava, tra l’altro, una chiara ingerenza degli Stati Uniti”, ha ricordato. “Ma è stato tanto tempo fa. Ora Daniel Ortega è diventato la caricatura del dittatore dei Caraibi. È diventato lo specchio del dittatore contro cui ha combattuto allora. E lo dico tralasciando il contenimento che dovrebbe far parte dell’attività diplomatica, perché Daniel Ortega si è pronunciato contro l’Unione europea e, personalmente, contro il suo Alto rappresentante nei termini più violenti che si possano immaginare”, ha aggiunto Borrell. “Il 7 novembre si sono svolte le elezioni in cui, ovviamente, Ortega ha ottenuto la vittoria dopo aver precedentemente arrestato e imprigionato qualsiasi avversario credibile. La risposta del Nicaragua è stata semplicemente quella di non andare a votare, nonostante le intense pressioni del regime a farlo. E, dopo le elezioni, Ortega ha attaccato l’Unione europea e alcuni Paesi in particolare”, come la Spagna, “con riferimenti a Hitler e al nazismo” e oltrepassando “una linea di decenza che non dovrebbe mai essere attraversata”, ha evidenziato Borrell. In questo contesto, l’Alto rappresentante ha ricordato che l’Ue ha “imposto sanzioni contro 14 persone implicate” negli abusi. “Continuiamo a lavorare con i nostri partner internazionali per mantenere la necessaria pressione sul regime nicaraguense. Continueremo a farlo, chiedendo la liberazione dei prigionieri politici, il ritorno nel Paese delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, l’appello per un dialogo autentico e riforme che ci permettano di uscire dalla notte oscura in cui il popolo del Nicaragua è rinchiuso”, ha sottolineato Borrell. “Continueremo a sostenerli e per farlo, però, dobbiamo mantenere aperti i canali di comunicazione. Continuiamo ad avere una delegazione dell’Unione duropea in Nicaragua, poiché ci sono ancora le ambasciate degli Stati membri, perché questo ci aiuta a lavorare a beneficio dei nicaraguensi, specialmente dei gruppi più vulnerabili, che hanno sopportato enormi difficoltà”, ha concluso Borrell. Lo scorso 16 novembre il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha annunciato l’imposizione del divieto di ingresso nel Paese a quasi tutti i maggiori esponenti delle autorità nicaraguensi, compreso il presidente Daniel Ortega e sua moglie. Si tratta, secondo quanto riferisce la Casa Bianca, di una risposta agli atti “repressivi e abusivi” da parte del governo della nazione centroamericana nei confronti dei dissidenti politici. “Ho stabilito che è nell’interesse degli Stati Uniti limitare e sospendere l’ingresso negli Stati Uniti, come immigrati e non immigrati, dei membri del governo del Nicaragua, guidato dal presidente Daniel Ortega, compreso la sua coniuge e vicepresidente Rosario Murillo e altri citati in questo proclama che formulano, attuano o beneficiano di politiche o azioni che minano o danneggiano le istituzioni democratiche o impediscono il ritorno alla democrazia in Nicaragua”, ha affermato Biden in una dichiarazione ufficiale. Solo il giorno prima gli Stati Uniti hanno annunciato sanzioni contro la procura generale del Nicaragua e nove funzionari del governo di Managua, in risposta alle elezioni “farsa” tenute domenica 7 novembre. È quanto si legge in un comunicato diffuso dal dipartimento del Tesoro Usa. Tra i funzionari sanzionati ci sono Jose Castaneda Mendez, presidente dell’Istituto per l’energia del Nicaragua, Mohamed Farrara Lashtar, ambasciatore del Nicaragua in Algeria, Egitto, Giordania, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, Salvador Mansell Castrillo, ministro dell’Energia del Nicaragua. “Come ha affermato il presidente Biden, il presidente Daniel Ortega e la vicepresidente Murillo hanno orchestrato un’elezione farsa che non era né libera né equa, e sicuramente non democratica. L’ingiusta detenzione di quasi 40 esponenti dell’opposizione da maggio, inclusi sette potenziali candidati presidenziali, e il blocco dei partiti politici dalla partecipazione hanno truccato l’esito ben prima del giorno delle elezioni”, recita la nota, in cui si chiarisce che “diversi funzionari colpiti dalle sanzioni sono stati nominati da Ortega e sono i principali sostenitori del regime e delle sue politiche antidemocratiche”. Secondo stime della Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) oltre 350 persone sono state uccise nel corso delle manifestazioni di protesta registrate in Nicaragua a partire da aprile 2018. Mozambico. “La pandemia qui ce la siamo dimenticata: abbiamo ben altri problemi” La Repubblica, 23 dicembre 2021 La testimonianza di un sacerdote missionario nel mezzo di un conflitto. A tutelare le concessioni di multinazionali dell’energia, i contingenti militari ruandesi, che di fatto alimentano il raggio d’azione dei jihadisti. 740 mila sfollati. “Del Covid-19 ci siamo quasi dimenticati che esista, abbiamo ben altre lotte da affrontare”. Scrive così don Silvano Daldosso, missionario nel Nord del Mozambico, denunciando arresti e abusi dei diritti umani legati all’estendersi del conflitto tra militari e ribelli. La testimonianza arriva dal distretto di Memba, proprio al confine con Cabo Delgado, la provincia più ricca di idrocarburi del Paese, epicentro delle violenze. Secondo don Daldosso, veronese, responsabile della Missao de Nossa Senhora da Conceicao a Cavà, i giorni di Natale saranno segnati dall’incertezza. “La mia gente - dice il sacerdote - riceverà l’eucarestia con la paura nel cuore per il terrorismo che sta raggiungendo anche il nostro distretto”. La minaccia dei “difensori della tradizione”. Il riferimento è ad Ansar al-Sunna, i cosiddetti “difensori della tradizione”, uno dei gruppi attivi a Cabo Delgado, formazione islamica sunnita irachena che ha combattuto contro le truppe USA e i loro alleati locali durante la guerra in Iraq. Erano basati soprattutto nell’Iraq settentrionale e centrale e comprendeva combattenti iracheni (sia arabi sunniti che curdi sunniti). Nel 2007, si è diviso in due gruppi: uno ha iniziato a operare sotto il nome di Ansar al-Islam, e il secondo gruppo si è chiamato Ansar al-Sunnah Shariah Committee, prima di cambiare nome in Ansar al-Ahlu Sunnah nel 2011. Ci sono già più di 740 mila sfollati. Nella provincia, secondo stime delle Nazioni Unite, gli sfollati sono almeno 740mila. A preoccupare non sono però solo le violenze dei ribelli. “Da tre settimane a Memba è arrivato un contingente di 150 militari in assetto antiterrorismo”, riferisce don Daldosso. “Il governo ha distribuito questi soldati nelle aree della costa più a rischio ma la loro presenza non è una sicurezza per noi, bensì un motivo per altri soprusi e abusi”. Secondo il missionario, “in questi giorni molte persone sono state picchiate senza motivo” e altre sono state “portate in carcere solo perché giravano per strada dopo il tramonto”. La guerra e gli interessi delle multinazionali dell’energia. Il conflitto, cominciato nel 2017, ha assunto una dimensione internazionale. A tutelare le concessioni delle multinazionali dell’energia, come l’americana Exxon Mobil o la francese Total, che sfruttano i giacimenti di gas a largo di Cabo Delgado, sono da alcuni mesi anche contingenti inviati dal Ruanda. Proprio la loro forza d’urto avrebbe contribuito all’ampliarsi del raggio di azione di Ansar Al-Sunna. “La settimana scorsa”, riferisce don Daldosso, “si sono verificati attacchi nella provincia nord-occidentale di Niassa”. I mozambicani mantengono però speranza e fede, garantisce il missionario. Don Daldosso riferisce anche di temperature molto diverse rispetto a quelle di questi giorni in Europa, “26 gradi di prima mattina, che nelle ore successive arrivano a 38° o 40° con un’umidità dell’80%”. Ci sono poi le persone, il lavoro, la quotidianità. Le ormai regolari infiltrazioni jihadiste. Quella del Mozambico è una zona di guerra uscita quasi totalmente dall’orizzonte dei media internazionali. Ma l’attentato sanguinoso del marzo scorso, con oltre 180 vittime nell’hotel Amarula nella città di Palma - centro nevralgico dei cospicui investimenti statunitensi e francesi per l’estrazione di idrocarburi, per tre giorni interi sotto l’assedio di un centinaio di miliziani di Ansar al-sunna al-Shabaab - ha evidenziato le dimensioni della posta in gioco di una crisi sempre meno latente. L’agguato omicida c’è stato nell’estremo Nord del Mozambico, l’ex colonia portoghese sull’Oceano Indiano, dove “fermenta” un miscuglio prossimo alla deflagrazione, fatto di povertà estrema, gigantesche riserve di gas off shore (tra le più grandi del mondo) e una minoranza musulmana umiliata, terreno fertile - ormai è la regola - s’infiltrano le formazioni jihadiste, che sfruttano i disagi sociali e le disuguaglianze, per arruolare nuovi miliziani pronti a combattere.