L’emergenza senza fine delle carceri. Un altro Natale senza conforto di Giulia Merlo Il Domani, 22 dicembre 2021 Da Padova a San Vittore fino a Rebibbia, la situazione in un anno di pandemia non si è mai risolta, soprattutto il sovraffollamento. I momenti di festa sono i più dolorosi per i detenuti, che percepiscono in modo ancora più acuto soprattutto la distanza dalle famiglie. Con la pandemia, infatti, gli accessi al carcere sono resi ancora più complicati. L’unico elemento positivo introdotto dalla pandemia sono le videochiamate, che hanno permesso ai detenuti di vedere i loro cari. Alcuni hanno visto per la prima volta dopo anni i visi dei genitori anziani e la loro casa. L’obiettivo ora è che diventino prassi e non solo beneficio emergenziale. Nella guardiola del carcere di San Vittore sono arrivati altri panettoni regalati da associazioni e benefattori della città, il che significa che ce ne sarà almeno uno per cella e tutti i detenuti potranno averne almeno una fetta per il giorno di Natale. Sono anche queste piccole cose a fare un po’ la differenza, spiega suor Anna Donelli, volontaria in carcere da più di dieci anni. “Avevamo anche organizzato eventi a piccoli gruppi per potergli far fare un po’ di festa e distribuire qualche cioccolatino, ma il nuovo picco di contagi all’esterno e soprattutto in Lombardia ci ha costretto a sospendere tutto”, racconta. “Con fatica nel corso dell’anno eravamo ripartiti con le attività, tornando quasi come prima della pandemia. Questa nuova battuta d’arresto non ci voleva proprio”, aggiunge, spiegando che anche l’ultimo giorno di scuola, venerdì scorso, è stato sospeso. Dentro al carcere, infatti, si riversano a cascata tutte le restrizioni imposte all’esterno. Ma dietro le sbarre ogni ulteriore privazione pesa immensamente di più, soprattutto durante il Natale. I momenti di festa sono i più dolorosi per i detenuti, che percepiscono in modo ancora più acuto soprattutto la distanza dalle famiglie. Con la pandemia, infatti, gli accessi al carcere sono resi ancora più complicati. I colloqui rimangono, ma le prescrizioni costringono a incontri separati dal plexiglas, soprattutto nei casi di non vaccinati. “In queste condizioni non ci si può nemmeno dare un abbraccio e così il clima è ancora più pesante e alcuni parenti scelgono di non venire nemmeno per Natale”, spiega Ornella Favero, direttrice e fondatrice della rivista Ristretti Orizzonti del carcere di Padova. “Le famiglie dei nostri detenuti spesso vengono da lontano, da Reggio Calabria o dalla Sicilia, e quindi possono fare poche visite. Prima, quando venivano era l’occasione per portare cibo o qualche vestito. Ora anche questo è bloccato e spesso i detenuti non possono ricevere nulla, con la direzione del carcere che motiva il no con il rischio di contagio”, aggiunge. L’alibi della pandemia - Dopo lo scorso Natale vissuto nell’emergenza e un anno difficile, tutti speravano in un allentamento o comunque una maggiore organizzazione. Invece tutto dipende ancora dalle singole strutture detentive, dalla rete di volontari che lavora e dalla variabile imponderabile del virus. L’aspettativa, infatti, era di poter arrivare a queste festività in condizioni migliori rispetto all’anno passato, invece “anche la pandemia rischia di diventare l’alibi per non fare nulla e perpetrare le disfunzioni del carcere”, conclude Favero. Le vaccinazioni obbligatorie agli agenti e i controlli stringenti ai volontari avrebbero dovuto produrre almeno una riduzione dei limiti all’accesso in carcere, invece non ovunque è successo e per questo il clima è quello dell’attesa frustrata e delle aspettative deluse. “Il carcere ribolle, nei detenuti vediamo che la speranza si sta affievolendo”, dice Nicola Boscoletto, che nel carcere di Padova gestisce il lavoro esterno con la cooperativa sociale Giotto. Sabato scorso ha potuto organizzare un piccolo momento per scambiarsi gli auguri con una sessantina di detenuti e uno di loro, anziano, gli ha detto: “Sento che il legame con la mia famiglia si sta sciogliendo. Sono stati bravi a seguirmi per 24 anni, ma adesso si sfalda tutto”. Le videochiamate - Proprio questo senso di rassegnazione è la cosa peggiore: “Non solo non si vede mai la fine, ma non si vede nemmeno un significato nel percorso che si fa. Così c’è solo il tempo che passa e, quando gli anni iniziano a sommarsi, inevitabilmente si comincia a non vedere più nulla davanti”, spiega Boscoletto. Proprio questo buco nero, a Natale, è ancora più scuro perché si sente con tutta la durezza la distanza da casa e dai propri cari. Una distanza che viene colmata almeno un poco e nemmeno ovunque solo dalla tecnologia, che è l’unico elemento positivo di progresso che la pandemia ha portato in carcere. “Per molti detenuti sono stati gli unici momenti di sollievo negli ultimi due anni. Le videochiamate hanno permesso loro di rivedere le loro case, magari i visi dei genitori anziani che non incontrano da anni”, spiega Favero. Uno di loro, grazie alla possibilità di poter chiamare anche in serata, ha potuto per la prima volta dare la buonanotte alla figlia piccola. L’obiettivo, adesso, è far diventare prassi riconosciuta questo piccolo passo avanti in luoghi in cui pure manca tutto il resto. Infatti, “la maggior parte delle carceri è al freddo, con i detenuti che devono arrangiarsi con l’acqua fredda nelle stanze in pieno inverno e spesso è così anche per le docce”, spiega Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti del Lazio. In questa regione la situazione è peggiore rispetto ad altre carceri: le strutture sono fatiscenti e in alcuni giorni manca il personale che porta i detenuti negli spazi dove si possono svolgere le videochiamate. Come altrove, anche nel Lazio gli eventi natalizi sono tutti stati bloccati dalla Asl, che non ha autorizzato i pranzi organizzati dalla comunità di Sant’Egidio e i piccoli festeggiamenti che erano consuetudine fino a due anni fa. Il sovraffollamento - Stramaccioni descrive la situazione attuale come quella di una calma apparente, in cui però il disagio e la tensione stanno crescendo. “Il sovraffollamento continua ad essere il problema: stanno entrando molti anziani per cui non si trovano strutture adatte, mancano le attrezzature per gli psichiatrici che sono difficilissimi da gestire”. Anche perché gli spazi sono rimasti sempre gli stessi, ma il Covid ha imposto di creare aree nel carcere in cui isolare chi entra. Con il risultato che nelle altre ali i detenuti vivono ammassati anche in cinque per cella, come succede a Roma. “E in queste condizioni come si fa a spiegare ai detenuti che tutte le loro attività sono limitate a causa del Covid, perché va rispettato il distanziamento?”, si chiede la garante. Nuovi focolai, per ora, non sono scoppiati, ma la situazione è al limite. Proprio contro il sovraffollamento, durante il congresso di Nessuno Tocchi Caino che si è svolto il 17 e 18 dicembre dentro il carcere milanese di Opera e in collegamento con Rebibbia e Parma, la presidente Rita Bernardini ha ribadito la volontà di continuare lo sciopero della fame iniziato il 5 dicembre scorso. “Dai dati del ministero risulta che nei 189 penitenziari gli spazi effettivamente disponibili sono 47.371, a fronte però di 54.307 detenuti. Il sovraffollamento è del 114,6 per cento”, ha detto Bernardini. Una situazione di sofferenza che varia però da istituto a istituto e che durante le feste è ancora più gravosa. In particolare, la situazione più drammatica è quella di Brescia, dove il numero di detenuti in più rispetto agli spazi è del 198 per cento. “Per questo Nessuno tocchi Caino ha scelto di passare proprio a Brescia l’ultimo dell’anno”, dice la tesoriera Elisabetta Zamparutti, “mentre il 1 gennaio faremo una visita ispettiva a Opera”. Proprio in concomitanza del Natale, allora, il silenzio delle istituzioni si fa più forte. Una delle speranze era che venisse accolta la proposta dei garanti dei detenuti di portare a 75 i giorni di liberazione anticipata ogni 6 mesi scontati con buona condotta. Oppure di consentire un giorno di liberazione anticipata per ogni giorno di Covid. Oppure ancora di favorire la legge 199, che permette l’accesso alle misure alternative sotto i 18 mesi di pena ancora da scontare. “Invece, siamo ancora all’anno zero”, dice Stramaccioni, “il governo ha previsto ristori solo per i liberi”. Il presepe - In questa situazione fatta di piccole e frustranti difficoltà di tutti i giorni, la necessità dei detenuti è di dare un senso al tempo speso dentro al carcere. Succede a Padova, dove Boscoletto ha raccontato la sorpresa quando ha visto che nelle aree di lavoro, già ai primi di dicembre, i detenuti allestivano presepe e albero di Natale. Lo stesso è stato fatto a San Vittore, grazie al progetto “Parole in circolo in città”, coordinato da Ilaria Scauri, che insegna ai detenuti a migliorare gli spazi del carcere. In questo caso, il progetto è stato frutto di una sinergia interna: “La comandante della polizia penitenziaria ci ha chiesto di realizzare qualche addobbo natalizio e abbiamo creato un albero di natale di due metri fatto di 350 bottiglie e un presepe di quattro metri, con materiale di riciclo”, ha spiegato Scauri. Venerdì scorso San Vittore è stato chiuso agli esterni a causa del covid, ma i detenuti hanno potuto comunque montare i manufatti nello spazio antistante l’ingresso, così che avvocati, personale e visitatori possano vederlo. Non solo, “la sfida è stata dimostrare alla comandante che potevano fare un buon lavoro, lei è venuta a vedere il risultato e si è congratulata. Qualcosa di non scontato dentro le mura del carcere, che ha fatto avvicinare due mondi antitetici”, ha concluso Scauri. Inoltre questo laboratorio si evolverà in un altro progetto, per realizzare oggetti di uso comune nel carcere e questa prospettiva di futuro è motore che aiuta i detenuti a immaginare una prospettiva oltre le sbarre. La speranza per l’anno che verrà, da parte della rete fitta di volontari e associazioni, è che l’intervento del legislatore arrivi “non per approvare nuove leggi ma per applicare quelle che ci sono”, aggiunge Boscoletto. Anche questo basterebbe per avere un carcere che faccia sentire meno invisibile chi è recluso. Diritto alla salute, quel buco nero delle prigioni italiane di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 dicembre 2021 Il diritto alla salute in carcere è uno dei problemi più insormontabili del sistema penitenziario. Negli istituti manca il personale e le risorse non sono adeguate a garantire i servizi necessari. Per questo motivo la telemedicina è di primaria importanza. Ma qualcosa si muove. Lunedì, al carcere di Rebibbia, e con la presenza della ministra Marta Cartabia, è stato presentato il nuovo progetto di telemedicina. All’evento hanno partecipato Rosella Santoro, Direttore della Casa Circondariale Rebibbia N. C. ‘ Raffaele Cinotti’, Giorgio Casati, Direttore Generale ASL Roma 2, Roberto Tartaglia Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Gabrielli Direttore del centro nazionale per la telemedicina dell’Iss, Carmelo Cantone, Provveditore Amministrazione Penitenziaria, Francesco Rocco Pugliese, Direttore Sanitario ASL Roma 2, Stefano Anastasìa Garante dei diritti dei detenuti Regione Lazio e Maria Antonia Vertaldi, Presidente del tribunale di Sorveglianza di Roma. Il progetto “Liberi@mo la salute: Telemedicina negli Istituti Penitenziari” ha l’obiettivo di migliorare l’assistenza dei pazienti negli Istituti Penitenziari. Consente di assicurare televisite, teleconsulti, telerefertazione e telemonitoraggio: il medico all’interno del penitenziario acquisisce ed esamina gli esami diagnostici effettuati nel carcere, per condividerli con un reparto ospedaliero specialistico attraverso l’utilizzo di un apparato di videoconferenza, dove lo specialista supporta il collega da remoto nell’eventuale formulazione della diagnosi e per la definizione della necessaria strategia terapeutica. “Abbiamo bisogno più che mai di interventi concreti, che affrontino gli sterminati bisogni della vita quotidiana in carcere, a cominciare da quello della salute, il più impellente in questo tempo di pandemia”, ha detto la Ministra Marta Cartabia. E ha aggiunto: “Concretezza e valori costituzionali: questa è la cifra del progetto di telemedicina, che da questo punto di vista anticipa lo stile del lavoro svolto dalla Commissione ministeriale per l’innovazione del sistema penitenziario, che sta terminando i suoi lavori”. Infine la guardasigilli ha concluso: “La condizione di detenzione rende, di fatto, la tutela della salute assai difficoltosa. La telemedicina diventa così preziosa, nel realizzare i dettami dell’art. 3 della Costituzione che prevede come compito della Repubblica di “rimuovere gli ostacoli” che di fatto impediscono la piena realizzazione dei valori costituzionali. Curare il corpo e la mente di chi vive in carcere è la condizione, perché la detenzione assolva alla sua funzione di rieducazione”. “Oggi diamo l’avvio a un modello nuovo di sanità - dice il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Dal Polo penitenziario di Rebibbia, il più grande d’Italia e uno dei più grandi d’Europa, parte un progetto innovativo che avrà impatti positivi nella gestione dei problemi di salute dei pazienti detenuti e che sarà possibile replicare nelle altre strutture detentive del Lazio”. Zingaretti ha sottolineato: “Con la Asl Roma 2 facciamo partire percorsi di cura individuali per i pazienti detenuti, attraverso televisite, teleconsulti, telerefertazioni e telemonitoraggio superando le criticità logistico-organizzative che caratterizzano da sempre l’assistenza sanitaria in questi luoghi. È bello che proprio qui a Rebibbia nasca un pezzo della sanità del futuro e un nuovo modello di garanzia del diritto alla salute delle persone”. La telemedicina è oggi uno strumento utilissimo che consente di collegare telematicamente due postazioni sanitarie, uno strumento che garantisce la presenza anche a distanza di un medico specialista che riceve in tempo reale dati sanitari strumentali. Con l’introduzione dei dispositivi di telemonitoraggio dei servizi di teleassistenza, teleconsulto e telecooperazione sanitaria, è possibile realizzare esami diagnostici a distanza e gestire i piani di cura, riducendo i tempi di attesa, migliorando le prestazioni e abbattendo i costi. La ASL Roma 2, insieme agli Istituti Penitenziari di Rebibbia, sfrutta così le moderne tecnologie informatiche che consentono la gestione di una parte delle attività sanitarie, attualmente erogate in telemedicina. Il servizio affiancherà i servizi già presenti dove è assicurata la presenza medica e infermieristica con un’articolazione delle attività sanitarie dalle 12 ore e fino alle 24 ore per 365 giorni l’anno. La telemedicina, strumento essenziale per garantire l’omogeneità delle cure Secondo i dati del Dap concessi ad Antigone è che il 70% dei detenuti ha almeno una malattia. Il 70% fuma, quasi il 45% è obeso o sovrappeso, oltre il 40% è affetto da almeno una patologia psichiatrica, il 14,5% da malattie dell’apparato gastrointestinale, l’11,5% da malattie infettive e parassitarie, circa il 53% dei nuovi detenuti è stato valutato a rischio suicidio. Solamente partendo da questo dato allarmante, si comprende l’utilità della telemedicina che è quasi del tutto inesistente nelle carceri del nostro Paese. Alcune delle criticità più evidenti del Sistema nazionale sanitario per quanto riguarda le carceri sono la disomogeneità delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione; la farraginosità, obsolescenza e lentezza delle procedure per l’erogazione delle prestazioni sanitarie; l’inefficiente programmazione della spesa sanitaria e assenza di dati statistici sul “fabbisogno di salute”. I vantaggi di una medicina svolta da remoto serve prima di tutto per compensare l’attuale penuria di personale sanitario e anche creare più omogeneità per le cure. Se la cartella clinica è lo strumento ideale per garantire la continuità del rapporto terapeutico, costituisce solo il primo passo per realizzare quelle forme di telemedicina che consentono il monitoraggio e il consulto specialistico a distanza attraverso l’invio elettronico di esami, dati e immagini a centri di eccellenza, senza dover affrontare tutti i problemi, con i relativi costi e ritardi, del trasporto dei detenuti o dei medici. Un tema affrontato già dal documento del 2013 redatto dal Comitato di Bioetica, tanto da evidenziare che la telemedicina offre innegabili vantaggi in termini di efficienza del servizio, aumento della sicurezza e, una volta entrata pienamente in funzione, riduzione dei costi. La sua realizzazione esige tutti gli investimenti necessari alla modernizzazione delle strutture, dall’introduzione della banda larga all’acquisizione delle apparecchiature adeguate per l’acquisizione e la trasmissione dei dati. Presuppone - ha sottolineato il Comitato di Bioetica - “quel cambio di mentalità che impone di considerare la pena detentiva come un aspetto, per quanto drammatico e controverso, dello sforzo di adeguarsi alla crescita di civiltà da parte di una società tecnologicamente avanzata e non il residuo ancestrale di una gestione approssimativa della sofferenza e dell’emarginazione”. La telemedicina, quindi, abbatte anche i costi. D’altronde, in un sistema interconnesso come quello della sanità penitenziaria, risparmiare sui costi vorrebbe dire poter investire su altri ambiti che ancora oggi appaiono estremamente critici. Covid, aumento dei contagi nelle carceri italiane: 344 detenuti positivi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 dicembre 2021 Dei 344 detenuti contagiati del Covid, 339 sono asintomatici, 2 hanno sintomi e 3 sono ricoverati in ospedale: ecco la situazione nelle carceri italiane. Ancora in aumento i casi Covid nelle carceri italiane, con una crescita più consistente rispetto alle scorse settimane. I detenuti positivi sono 344 (di cui 17 nuovi giunti), su un totale di 53.843 presenze, mentre i casi sono 395 tra i 36.939 poliziotti penitenziari in servizio. I dati, aggiornati a ieri sera, sono contenuti nel report settimanale pubblicato sul sito del ministero della Giustizia. La scorsa settimana i casi erano 239 tra i detenuti, su una popolazione di 54.059 unità, e 265 tra gli agenti. Tra i detenuti positivi, 339 sono asintomatici, 2 hanno sintomi e sono gestiti all’interno degli istituti e 3 sono ricoverati in ospedale. Tra i poliziotti 387 sono asintomatici in isolamento domiciliare, 7 sono ricoverati in caserma e uno in ospedale. Trentaquattro sono infine i positivi tra le 4.021 unità del personale dell’amministrazione penitenziaria, 32 in isolamento domiciliare e 2 ricoverati in ospedale, mentre la scorsa settimana erano 26. Vaccinazioni in carcere: gli ultimi dati - Va avanti la campagna vaccinale contro il Covid nei penitenziari italiani: sono 92.544 le dosi di vaccino finora somministrate ai detenuti. È quanto si legge nel report settimanale del ministero della Giustizia-Dap su coronavirus e carceri. Una settimana fa, le dosi somministrate alla popolazione carceraria erano 88.311. La brigata dei detenuti prepara il pranzo con lo chef stellato di Matteo Marcelli Avvenire, 22 dicembre 2021 Dopo la sospensione dello scorso anno, Rinnovamento nello Spirito Santo torna a dare speranza alle carceri italiane con l’ormai tradizionale pranzo di Natale. Un’occasione per contribuire a costruire quella “finestra spirituale” che papa Francesco, nel messaggio agli ultimi di domenica scorsa, ha chiesto con forza sia concessa ad ogni persona privata della propria libertà. Con l’iniziativa di ieri il progetto “L’altra cucina... Per un pranzo d’amore” è giunto alla sua ottava edizione e ha visto l’adesione di quattro istituti grazie alla collaborazione della Fondazione Alleanza (sempre riconducibile al Movimento guidato da Salvatore Martinez), e della Onlus Prison Fellowship Italia. Sono stati circa 800 i detenuti serviti, sparsi tra la sezione femminile di Rebibbia a Roma, il carcere di Opera a Milano e gli istituti di Ivrea e Cagliari (Quartucciu). Decine i volontari impegnati, assieme ad alcuni personaggi del mondo della musica e della televisione. A Roma hanno partecipato la cantante Francesca Alotta, i Cugini di Campagna, la giornalista Maria Soave e altri ancora. Abbastanza per suscitare l’entusiasmo delle detenute, la loro voglia di cantare così forte da sovrastare la voce dei cantanti e l’illusione di passare un Natale quasi normale: “Queste giornate sono un’occasione di svago di cui abbiamo bisogno” racconta una detenuta. “In tempi di Covid, entrare in carcere e farsi familiari per queste persone è già un piccolo miracolo - ragiona Martinez. Luoghi come questo, nei quali l’esperienza della privazione della libertà o della sofferenza sono ordinari, finiscono, per contrasto, con l’esaltare proprio il valore della vita, la sfida del vivere”. Lo chef stellato che quest’anno ha diretto la brigata nelle cucine è Gianfranco Pascucci, aiutato dai suoi collaboratori e da alcune detenute. “Stare in cucina ti serve a non pensare” spiega un’altra ragazza, in carcere per droga. Non tutte le detenute hanno potuto mangiare ai tavoli, ma per chi è rimasto in cella è stato organizzato un servizio di consegna. “Questo evento è fondamentale per le detenute - fa notare la direttrice della casa circondariale Alessia Rampazzi - serve a farle sentire in famiglia e a renderle consapevoli dei valori fondamentali e del supporto della società civile”. Sarà ancora la Consulta l’unico argine agli ultras dell’antimafia totale di Errico Novi Il Dubbio, 22 dicembre 2021 A breve la sentenza sulle collaborazioni inesigibili, poi toccherà ai divieti imposti dai questori sull’uso di cellulari e pc. Antimafia: snodo chiave della giustizia. In particolare per la rinnovata contesa fra garantisti e intransigenti. Lo si è capito da vari segnali, ma più di tutto lo dimostrano le divisioni sull’ergastolo ostativo. Più precisamente, sulla legge, all’esame della Camera, che dovrebbe recepire le indicazioni della Consulta (contenute nell’ordinanza 97 del 2021) e consentire la liberazione condizionale anche degli ergastolani di mafia e terrorismo che non collaborano. Garantisti in minoranza sull’ergastolo ostativo - Sui limiti con cui perimetrare il principio affermato dalla Corte costituzionale si è infatti ridefinita la geografia della giustizia: non solo si è ricostituita l’alleanza “giallorossa” Pd- M5S, ma si assiste alla convergenza verso le posizioni pentastellate anche della Lega e di Fratelli d’Italia. Allo stato, insomma, sono pochi i partiti disponibili a recepire l’invito della Consulta in una logica non “conflittuale”, cioè a fare in modo che l’indisponibilità alla collaborazione non rappresenti più una presunzione assoluta di pericolosità per i reclusi che aspirano ai benefici, e dunque un ostacolo insormontabile per il ritorno alla libertà degli ergastolani. I partiti in linea con la Corte sono solo Forza Italia, Italia viva, i centristi di Azione e Coraggio Italia. Gli altri sembrano guardare in modo piuttosto preoccupato all’ordinanza costituzionale dello scorso 11 maggio. Tanto da aver proposto emendamenti ancora più restrittivi del già rigidissimo testo base messo a punto da Mario Perantoni, deputato 5 Stelle e presidente della commissione Giustizia. Se il Parlamento frana sul 4 bis, c’è la Consulta - Partita chiusa? Forse sì. Ma a dirimerla, e a cambiarne un destino che sembra segnato, potrebbe essere ancora una volta la stessa Corte costituzionale che ha innescato il Parlamento. Innanzitutto per un motivo: non è così scontato che le Camere riescano ad approvare una legge “applicativa” (dell’ordinanza sull’ergastolo ostativo) entro il prossimo 10 maggio, giorno in cui il giudice delle leggi tornerà in udienza per valutare se il legislatore ha raccolto adeguatamente l’appello di 12 mesi prima. Di fronte al fallimento dei tentativi in Parlamento, la Corte potrebbe intervenire con una sentenza demolitoria sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, e risolvere in modo drastico la questione della liberazione condizionale per i mafiosi che non collaborano. Il giudice delle leggi potrebbe cioè stabilire una volta per tutte che per l’accesso a quel beneficio deve essere sempre lasciato aperto uno spiraglio, seppur con un accertamento che escluda non solo il permanere dei collegamenti con l’organizzazione criminale ma anche il rischio di un loro ripristino. Corte interpellata sugli editti dei questori per pc e telefoni - Ma non si tratta solo di questo. La dialettica fra giudice delle leggi e Camere va oltre. Ha un carattere politico, di indirizzo, dunque più ampio rispetto alla querelle sulla speranza di libertà da riconoscere anche agli ergastolani di mafia. Basti considerare un aspetto meno dirompente sul quale la Corte costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi nei prossimi mesi: il divieto amministrativo, cioè imposto dal questore, di usare strumenti tecnologici di varia natura, dal pc al cellulare e alla televisione, divieto previsto sempre dal Codice antimafia, in particolare dall’articolo 3 comma 4 del decreto legislativo 159/ 2011. Secondo la Cassazione che, come ricordato ieri dal Sole- 24 Ore, ha rimesso appunto la norma al giudizio della Consulta (ordinanza 46076), siamo di fronte alla violazione di un principio cardine, il diritto alla corrispondenza e alla comunicazione, intesa anche nella sua forma privata. Un diritto che, in base all’articolo 15 della Costituzione, può prevedere limiti solo sotto riserva di giurisdizione e di legge. Non può esserci cioè una preclusione nell’accesso ai mezzi comunicativi imposta per via amministrativa e non ratificata da un’autorità giudiziaria, né si possono eludere i limiti temporali previsti dalla legge per tali compressioni della libertà. Sembra, come detto, una questione assai più “leggera”, rispetto alla liberazione condizionale degli ergastolani di mafia. Ma rappresenta pur sempre un’occasione, per la Consulta, di sconfessare il cosiddetto eccezionalismo delle misure cautelari antimafia, attraverso i presìdi invalicabili fissati dalla Costituzione. Magari la decisione arriverà più avanti, rispetto alla “udienza bis” del prossimo maggio sull’ergastolo ostativo. Ma il fatto stesso di sapere che la Cassazione ha interpellato ancora la Corte costituzionale su aspetti controversi della disciplina antimafia, ci ricorda come il vero arbitro, nel bilanciamento dei diritti, è appunto la Carta, e non il Parlamento nelle sue variegate e impulsive inclinazioni. Collaborazioni inesigibili, a breve la sentenza - Non è finita qui: è attesa per le prossime ore, e potrebbe arrivare prima di Natale, la sentenza della Consulta su un altro dettaglio delle ostatività previste nell’ordinamento penitenziario. In particolare, sulla possibilità che i reclusi di mafia la cui collaborazione è “inesigibile” (perché non ci sono più verità “rivelabili” o per la marginalità di quel recluso nelle gerarchie del clan) possano accedere al beneficio dei permessi premio senza che si debba condurre un’istruttoria per scongiurare i rischi di un ripristino dei rapporti fra quel detenuto e i vecchi sodali. Stavolta il giudice rimettente, il Tribunale di sorveglianza di Padova, si rivolge al giudice delle leggi affinché renda più restrittiva anziché meno afflittiva l’interpretazione della norma. Ma poco importa. Conta il fatto che, con la sentenza già discussa in realtà nella camera di consiglio dello scorso 30 novembre e di cui si attende solo il deposito, la Corte costituzionale si pronuncerà di nuovo su un aspetto controverso dell’ordinamento penitenziario e del regime ostativo. Non a caso, il testo sull’ergastolo sul quale la Camera discute in questi giorni ha di fatto eliminato, dal ventaglio delle poche possibilità lasciate al detenuto in regime di 4 bis di accedere ai benefici, proprio la collaborazione inesigibile. Quel testo base è stato messo a punto, come detto, dal presidente della commissione Giustizia di Montecitorio Mario Perantoni, deputato M5S. Se il Parlamento sembra muoversi dunque in chiave restrittiva, la Consulta finirà in più di un caso per ribadire i princìpi costituzionali messi in discussione. E il giudice delle leggi, in questo, pesa fino a prova contraria un po’ di più rispetto a chi le leggi le scrive. È una dialettica impegnativa, a cui assisteremo ancora per molto tempo, evidentemente. E certo colpisce che gli equilibri sulla giustizia debbano essere chiariti ancora dal rapporto controverso fra giurisprudenza costituzionale e partiti. D’altra parte si tratta dello stesso fenomeno a cui si è assistito, per esempio, a proposito del fine vita e dell’aiuto al suicidio. Peccato che anche in quel caso le raccomandazioni della Corte costituzionale non siano bastate a favorire la maturazione del quadro politico, tuttora alle prese con un complicatissimo tentativo di definire una legge in materia. Non proprio un grande auspicio anche rispetto alla possibilità che il Parlamento faccia qualche passo avanti rispetto all’eccezionalismo della legislazione antimafia. L’innocenza? Scordatevela: giornalisti e magistrati uniti contro la legge di Piero Sansonetti Il Riformista, 22 dicembre 2021 L’Anm è in rivolta contro la legge sulla presunzione di innocenza. L’Ordine dei giornalisti la segue a ruota. La Corte di Cassazione frena un po’, perché probabilmente è formata, almeno ai suoi vertici, da persone più acculturate, ma nella sostanza segue il fiume vorticoso e impartisce istruzioni che servono comunque ad aggirare la legge. Il principio sacrosanto della non colpevolezza in assenza di condanna è considerato dal mondo giornalistico-giudiziario una specie di abominio. Perché smantella il principio opposto, quello sul quale ha funzionato la giustizia negli ultimi trent’anni, e cioè l’idea che un fondato sospetto sia sufficiente per procedere contro una persona, punirla attraverso la gogna mediatica, e il carcere, e i sequestri, e la messa in pubblico di tutta la sua vita privata e intima, perché poi, alla fin fine, questo è il solo modo di amministrare la giustizia senza impigliarsi nelle maglie “levantine” delle difese che, di solito, sono complici dei “rei”. Nessuna legge avrebbe mai potuto fare così male al potere giornalistico-giudiziario quanto questa legge sulla presunzione di innocenza, imposta dalla Costituzione e voluta dall’Europa, e che ristabilisce alcuni punti fermi dello Stato di diritto. Per questo il potere giornalistico-giudiziario ha reagito con il gruppo di testa del suo partito (l’Anm) e poi con la manovalanza (l’Ordine dei giornalisti), il quale si è rivolto direttamente al Csm e alla Cassazione chiedendo di intervenire per spezzare le reni a questa legge. La Cassazione ha risposto ieri con un comunicato della procura generale, che certamente riafferma alcuni dei principi della legge, respingendo i toni eversivi dell’Ordine dei giornalisti, riconosce i diritti degli imputati, chiede la fine dei processi mediatici, ma poi stabilisce che ogni procuratore, se vuole, può superare la legge con conferenze stampa e quant’altro, a condizione che ritenga che questo valga a garantire l’interesse generale dell’essere informati. E in questo modo, anche la Procura generale della Cassazione, indica la via per gabbare la legge e lo santo. Giornalisti che chiedono aiuto alle toghe per poter continuare a violare insieme, in combutta, la Costituzione. Che cosa può essere, se non una proposta di continuare nella complicità del mercato delle notizie e delle intercettazioni, la lettera inviata dall’Ordine dei giornalisti al vertice del Csm e al capo nazionale degli inquirenti? Un “pizzino”, lo definirebbe sicuramente Marco Travaglio, se non facesse parte anche lui della combriccola. Sarà mica un caso, se il neo-eletto Presidente dell’Ordine, Carlo Bartoli, ha regalato proprio al suo quotidiano la prima intervista. Contro la presunzione d’innocenza e a favore delle gogne mediatiche. Era solo l’antipasto, un atto dovuto, quasi a porre rimedio alla tirata d’orecchi che la categoria, sindacato compreso, aveva subìto da parte del Fatto per aver disertato le audizioni alla Commissione giustizia della Camera. Quelle in cui si erano invece esibiti i big delle Procure presenti e passate, tutti allineati con il Travaglio-pensiero. Tutti contro la Costituzione e il suo articolo 27. Tutti contro L’Europa e il suo sistema dei diritti. Tutti contro la ministra Cartabia e la sua legge sulla presunzione d’innocenza. Dopo l’antipasto-intervista del Presidente alla testata “giusta”, un vero autodafé su quell’assenza, ecco il timbro dell’ufficialità con un comunicato dell’Ordine dei giornalisti. Alla faccia della libertà di stampa, si chiede aiuto alla magistratura per poter continuare ancora insieme, stretti stretti, cronisti e pm, a violare le regole, a calpestare la Costituzione. Al Presidente del Csm David Ermini e al Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, la categoria chiede aiuto perché, in seguito all’applicazione della nuova legge sulla presunzione di innocenza, non “cali il silenzio su inchieste, magari proprio quelle su personaggi importanti”. È abbastanza chiaro che cosa preoccupa la Casta dei cronisti giudiziari (da tempo veri grumi di comando nelle redazioni), che insieme a quella dei Pm costituisce un vero “combinato disposto” di complicità nell’uso di gogne mediatiche a fine politico. Quel che preoccupa è la perdita di potere. Quello conquistato sulla pelle degli unici soggetti deboli, gli indagati, gli arrestati, gli imputati. Gli assolti e i condannati, gli innocenti e i colpevoli. La forza di poter distruggere le reputazioni, spesso le vite, degli odiati “poteri forti”. I politici, gli imprenditori, i manager delle grandi aziende. Da Craxi a Berlusconi e Renzi, fino a Descalzi e Scaroni. Della storia dei rapporti tra pubblici ministeri e cronisti giudiziari ha di recente fatto una sintesi molto veritiera Carlo Nordio, un magistrato che ha tra l’altro il merito di aver sempre rifiutato candidature al Parlamento e che ha svolto l’intera carriera, fino al vertice, come pubblico ministero a Venezia. Ha raccontato come fino al 1992 esistesse “Un rigorismo formale mitigato dalla convenienza pragmatica”. Era proprio così, lo potrebbe confermare chiunque abbia frequentato i Palazzi di giustizia in quegli anni. Il pm raccontava il succo dell’inchiesta ai cronisti giudiziari, in regime di par condicio di ogni testata, i giornalisti facevano domande, il magistrato rispondeva quel che poteva, nel rispetto del segreto istruttorio. Tutto è cambiato con Tangentopoli e con Mani Pulite. Lo sappiamo bene, ma è importante che ce lo dica un ex Procuratore. Uno che c’era, che aveva sempre rispettato il gentlemen’s agreement. Ma poi alcuni pm hanno cominciato a scegliersi i cronisti, “quelli più disponibili, più utili, più acquiescenti”. In cambio “il patto scellerato prevedeva che la figura di queste toghe venisse esaltata e beatificata…magari aprendo la strada a una buona candidatura politica”. Così è andata. Ma la degenerazione più grave ha riguardato “la selezione delle notizie”. “Perché le redazioni ricevevano quel tanto che il sapiente divulgatore voleva che ricevessero, pilotando così il lettore verso un’interpretazione ingannevole”. C’è bisogno di fare esempi? Li conosciamo uno per uno. È dunque questo Sistema, quello che l’Ordine dei giornalisti (che dovrebbe rappresentare anche noi) vuole mantenere, con la garanzia dei vertici della magistratura? Enrico Costa: “Zero controlli sui pm. Il rispetto della norma non importa quasi a nessuno” di Angela Stella Il Riformista, 22 dicembre 2021 Non passa l’emendamento del deputato di Azione per impegnare l’esecutivo a monitorare comunicati e conferenze stampa delle procure. “Il rispetto della norma non importa quasi a nessuno. Ad una settimana dall’entrata in vigore della nuova norma sulla presunzione di innocenza, facciamo il punto con il responsabile giustizia di Azione, l’onorevole Enrico Costa, che proprio ieri aveva presentato in Aula un ordine del giorno che avrebbe impegnato “il Governo a svolgere, attraverso l’ispettorato generale del Ministero della Giustizia, un monitoraggio costante delle conferenze stampa delle procure della Repubblica e delle forze di polizia e dei comunicati di queste ultime, anche attraverso l’acquisizione degli atti motivati dei procuratori della Repubblica”. Onorevole com’è andata in Aula? Non è stato approvato: hanno votato a favore Azione, Italia Viva e Fratelli d’Italia. Gli altri contro. Quando si chiede al Ministero della Giustizia di fare un monitoraggio sull’applicazione di una legge, soprattutto in questo caso dove già si registrano delle elusioni della norma, dall’ufficio legislativo di via Arenula dicono “no”. Non ha senso. È un modo per proteggere chi viola le regole. Ma l’articolo 5 della norma prescrive che “alla rilevazione, all’analisi e alla trasmissione alla Commissione europea dei dati di cui all’articolo 11 della direttiva (“ogni tre anni, gli Stati membri trasmettono alla Commissione i dati disponibili relativi al modo in cui sono stati attuati i diritti sanciti dalla presente direttiva”, ndr) provvede il Ministero della giustizia”... C’è una Direzione generale, che si chiama Ispettorato, che deve verificare la regolare applicazione della legge da parte dei magistrati. Abbiamo combattuto in Parlamento per questa norma ma adesso sembra non importare quasi a nessuno se venga rispettata o meno, in primis al Ministero della Giustizia che se ne lava le mani. Comunque nessun problema: se non vogliono fare il loro lavoro, per cui sono pagati e strapagati, mi farò carico io del monitoraggio e invierò tutto quello che raccoglierò all’Ispettorato che dovrà, a quel punto, prendere atto della situazione e fare qualcosa. Qual è la situazione al momento? La situazione è variegata. Alcune Procure si sono impegnate in favore del rispetto della norma, altri invece, come qualche polizia giudiziaria, al momento hanno ignorato la norma. La Ministra Cartabia era a conoscenza di questo suo ordine del giorno? Sì. Come legge questo voto contrario del Partito Democratico, Lega, Forza Italia, Movimento Cinque Stelle? Il punto è che non si vogliono scontentare i Cinque Stelle che soffrono queste battaglie garantiste. Sono ispirati da sempre da principi forcaioli. Io mi meraviglio di chi, come Forza Italia, si proclama garantista e poi agisce in senso contrario. Anche il Governo si appiattisce sulle posizioni dei grillini ed appalta la gestione di questi ordini del giorno all’ufficio legislativo, composto da magistrati; anche per questo porto avanti la mia battaglia sui fuori ruolo. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, ha scritto al vicepresidente del Csm e al Procuratore generale della Cassazione “auspicando un loro intervento urgente finalizzato ad evitare il rischio che possa calare il silenzio sulle inchieste, magari proprio quelle a carico di personaggi importanti”... Supplicare interpretazioni estensive è sbagliato. Le norme sono chiare e non vanno eluse. Deve finire il tempo in cui il Parlamento fa le norme e la giurisprudenza le smentisce. A chi parla di censura ricordo una ricerca dell’Unione Camere Penali su 8000 articoli relativi a procedimenti penali. Risultato: 64% colpevolisti, 3,2% innocentisti, 24% neutri. Nel 60% dei casi fonti Procure o Pg, nel 7% le difese. Il 64% su indagini e arresti. Purtroppo la stampa in tutti questi anni si è interessata solo alla parte delle indagini quando le persone vengono sbattute in prima pagina senza che la difesa abbia toccato palla. Poi si dimenticano di seguire i processi e la fase fondamentale del contraddittorio. Bene, questo deve finire. I media devono imparare a rispettare alcuni principi che in questi anni hanno dimenticato, devono comprendere che i tempi della gogna mediatica sono finiti. Che ne pensa invece della nota dello stesso Pg di Cassazione inviata a tutte le procure il 6 dicembre e resa nota ieri? Un dribbling interpretativo. C’è una legge sulla presunzione d’innocenza che stabilisce regole precise. Si richiedono specifiche ragioni di interesse pubblico per fare conferenze stampa. E queste ragioni non coincidono con il dovere di informare, ma è necessario molto di più per rompere il riserbo doveroso. Altrimenti continueranno i processi mediatici, la diffusione di accuse a mezzo stampa, lo sbattere presunti innocenti in prima pagina. Rispettare il diritto dei cittadini ad essere informati non giustifica “passerelle” di Pm e Pg in conferenza stampa, né comunicati a senso unico. I magistrati debbono seguire le norme approvate, non interpretarle creativamente. Il Ministro della Giustizia dovrebbe intervenire. Se non lo farà tempestivamente avallerà reazioni elusive delle norme. Giovanni Salvi: “Informare non è solo diritto, ma un dovere dei magistrati” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2021 Il Procuratore generale della Cassazione: “Evitare processi mediatici non basati sui fatti e rispettare dignità degli imputati”. Il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, mette i paletti, di sua competenza, all’applicazione della legge sulla “presunzione di innocenza”, in difesa del diritto costituzionale dei cittadini a essere informati di fatti di rilevanza pubblica. Stiamo parlando del decreto legislativo del governo entrato in vigore il 14 dicembre, che vorrebbe pm e giornalisti con il bavaglio in merito a inchieste in corso: con la scusa che ce lo chiede l’Europa, ha concepito comunicati con il contagocce e rare conferenze stampa dei soli procuratori della Repubblica. Il Pg, in una nota del 6 dicembre, inviata a tutte le Procure, ha scritto che “informare l’opinione pubblica non è manifestazione della libertà di espressione del magistrato, ma è un preciso dovere d’ufficio, come più volte affermato anche dalle fonti europee”. Ieri, Salvi ha deciso di rendere pubblica la nota, in risposta alla richiesta di lunedì dell’Ordine dei giornalisti che si era appellato proprio al Pg e al Csm perché non calasse “la censura” sulle inchieste, soprattutto su quelle a carico di “personaggi importanti”. Salvi, nel rivolgersi alle Procure, ha spiegato che la nota ha il fine di raccogliere “esperienze e valutazioni, per raggiungere orientamenti condivisi che diano piena attuazione alla presunzione di innocenza e al rispetto delle vittime e dei testimoni”. Secondo il Pg, l’informazione deve essere rispettosa “della dignità della persona e dunque degli imputati, delle vittime, di tutti coloro che prendono parte al processo; deve essere corretta e non basarsi su canali privilegiati tra magistrati e giornalisti”. Dal tenore della comunicazione appare chiaro che per Salvi la legge sulla presunzione di innocenza stride con altre norme. Ci vuole una informazione, scrive, “tempestiva, completa e tale da fornire all’opinione pubblica in maniera aperta e trasparente tutto ciò che è proporzionato alla rilevanza della notizia. Non si può neppure abdicare al dovere di fornire con continuità le informazioni necessarie nelle varie fasi di un procedimento basato sul contraddittorio tra le parti, al fine di evitare - conclude la nota - che questo si trasformi in processo a mezzo stampa o peggio nei salotti televisivi senza che sia possibile una completa conoscenza dei fatti”. Cioè comizi-show di indagati-imputati. Il decreto legislativo, che ha recepito una direttiva europea del 2016, prevede che possano essere solo i procuratori a parlare “con comunicati ufficiali” soltanto quando “la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico” o attraverso conferenze stampa limitate a “casi di particolare rilevanza pubblica”. Quanto ai provvedimenti dei magistrati, si legge ancora, “l’autorità giudiziaria” si deve contenere nello scrivere “i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge”. Tutto questo comporta che le parti possano contestare la violazione del principio della presunzione di innocenza, con la conseguenza di allungare i tempi del procedimento. Altro che processi più rapidi per rispettare quanto ci chiede l’Europa. Senza contare che, come ha anche ricordato l’Associazione nazionale dei magistrati, la normativa appena entrata in vigore è in contraddizione con il codice di procedura penale che consente la pubblicazione di atti non più coperti da segreto. C’è poi una circolare del Csm del 2018 che, per rispettare l’articolo 21 della Costituzione, ricorda che il procuratore deve evitare che “possano essere sottratte alla conoscenza dell’opinione pubblica informazioni di interesse (in ragione della qualità dei soggetti coinvolti dalle indagini o della rilevanza dei fatti oggetto di accertamento)”. Eppure Enrico Costa, deputato di Azione, ex FI, il propulsore di questa norma, ha attaccato il Pg Salvi, dicendo che con la sua nota si è lanciato in “un dribbling interpretativo”. Ilaria Perinu: “Un errore il no alla riforma del Csm” di Anna Maria Greco Il Giornale, 22 dicembre 2021 Intervista a Ilaria Perinu, pm a Milano, eletta nel Direttivo dell’Associazione nazionale magistrati, la seconda più votata per Magistratura indipendente. All’Anm vince la linea di Area, Unicost e A&I, “fermamente contraria” alla riforma elettorale del Csm proposta dalla Cartabia, ma per Mi questo “secco no” è un errore. Perché? “Perché appare come un no al cambiamento, la volontà di mantenere lo status quo o per dirla come Tommasi di Lampedusa cambiare tutto per non cambiare niente. Il sistema proporzionale difeso da Area, Unicost e A&I, consente di mantenere una ripartizione dei seggi nel Csm corrispondenti alla forza delle singole correnti. Il maggioritario a turno unico, con più collegi binominali e nel rispetto della parità di genere, favorirebbe le candidature, anche indipendenti, di magistrati di elevata professionalità e qualità apprezzati nei loro distretti”. La sua collega Nicotra sulla mailing list dell’Anm ricorda che a luglio 2020 le correnti di sinistra descrivevano all’allora ministro Bonafede i vantaggi del sistema maggioritario, mentre ora lo bocciano. Come lo spiega? “Credo che i recenti risultati elettorali, in cui Mi è diventata il gruppo di maggioranza relativa, abbiano indotto Area a contraddirsi. Evidentemente non si aspettavano il messaggio delle urne: fiducia e sostegno al gruppo che porta avanti proposte chiare, a tutela delle condizioni di lavoro dei magistrati, affrontando le responsabilità collettive derivanti dalla degenerazione correntizia senza ipocrisie”. Sembra però che malgrado gli scandali, Palamara in testa, non si voglia cambiare il sistema. “C’è il rischio che passi questo messaggio, ecco perché Mi è a favore del cambiamento del sistema elettorale in senso maggioritario binominale con i correttivi (parità di genere e sorteggio per aumentare i candidati) ipotizzati nella riforma Cartabia. Ma il cambiamento dipenderà da meccanismi che incidano su possibili collateralismi con la politica, per questo vedo con favore l’introduzione, nel rispetto delle norme costituzionali, di ulteriori limiti al rientro in ruolo di magistrati che abbiano scelto di svolgere funzioni politiche”. L’Anm però si oppone alla chiusura delle porte girevoli tra magistratura e politica e anche alle nuove valutazioni professionali. Come la pensa? “Il sistema di valutazioni professionali in discussione ricorda le pagelle scolastiche ed appare semplicistico se si considera che ogni 4 anni la professionalità del magistrato viene valutata su numerosi parametri poco inclini ad essere riassunti in formule di stile. Il passaggio più delicato però, riguarda il ruolo dell’avvocatura. Oggi gli avvocati partecipano ai Consigli giudiziari ma non vi sono meccanismi di incompatibilità rispetto allo svolgimento dell’attività professionale in quel distretto. Per questo non possono avere un diritto di voto sulle valutazioni del magistrato dinanzi al quale poi andranno in udienza”. La fiducia nella magistratura è ai minimi storici eppure l’Anm non teme di apparire troppo corporativa. “Come ha più volte affermato il presidente Mattarella, la maggioranza dei magistrati è estranea alla modestia etica emersa dallo scandalo Palamara. Occorre restituire all’opinione pubblica l’immagine di questa magistratura, laboriosa ed efficiente come emerge dal Rapporto Cepej (che compara i dati degli Stati del Consiglio d’Europa), con iniziative come quelle dell’Anm a tutela della legalità nei singoli tribunali. Però, di fronte a singole responsabilità accertate, bisogna intervenire con severità verso coloro che sbagliano, senza ipocrisia e con trasparenza”. La perversa letteratura processuale nelle motivazioni della condanna di Mimmo Lucano di Luigi Manconi La Repubblica, 22 dicembre 2021 A leggere le 904 pagine delle motivazioni della sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, e dei suoi soci e collaboratori, c’è da trasecolare. Il testo e la sua scrittura costituiscono un documento chiarificatore su come NON si dovrebbe giudicare e sanzionare all’interno di uno stato di diritto. Un esempio di letteratura processuale perversa, dove abbondano i giudizi morali e quelli moralistici, le considerazioni politiche, le riflessioni sociologiche, le analisi di natura generale (proprio quando entra in vigore il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza). Mentre, così vogliono la Costituzione e la legge, una sentenza e le sue motivazioni dovrebbero fondarsi tutte sull’analisi delle prove e delle circostanze, destinate ad accertare la sussistenza di una fattispecie penale e individuarne il responsabile. Questo, al contrario, rappresenta una parte minore e, direi, poco significativa di quelle benedette 904 pagine. Un simile orientamento, che qui si esprime attraverso le parole della magistratura giudicante, sembra interamente condiviso dalla magistratura inquirente che - tramite il procuratore di Locri - ha detto cose strabilianti, oscillanti tra l’eccentricità e il temerario. Come “sono progressista” e “la legalità è un valore di sinistra”. (Immagino come saranno stati contenti tutti coloro che, magistrati compresi, per una ragione o per l’altra, non sono di sinistra). D’altra parte, lo stesso procuratore ha spiegato che, a suo avviso, la mancata concessione delle attenuanti a Lucano si dovesse al suo “atteggiamento ostruzionistico”, dal momento che egli si è rifiutato di farsi interrogare. Il che la dice lunga sul rispetto per le garanzie inviolabili dell’imputato (rafforzate appunto sul tema del diritto al silenzio dal d.lgs. 188 del 2021), che circola in quel di Locri. Ma torniamo alle motivazioni della sentenza. Vi si trova, con grande evidenza, il riconoscimento del fatto che Lucano fosse mosso dalla “pura passione” per quel “mondo nuovo che lui ha saputo creare”. Inoltre, l’esperienza di Riace ha costituito “giustamente un modello e un simbolo di integrazione per tutto il mondo”. In ogni caso, l’ex sindaco è stato trovato “senza un euro in tasca”, ma - attenzione! - “ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza, ignorando però l’esistenza di un quadro probatorio di elevata conducenza”. Fermiamoci un attimo. Non vi sembri un dettaglio e non maledite la vostra ignoranza: “conducenza” semplicemente non esiste nel nostro linguaggio e nei nostri vocabolari, ma la sua introduzione “creativa” in questo testo non è affatto innocente: rivela quale distanza vi sia tra chi ha redatto le motivazioni e la vita reale; e come l’arbitrarietà lessicale possa tradire l’approssimazione tortuosa della logica giuridica e dell’argomentazione dialettica (ne ha scritto ieri Alberto Leiss su il manifesto). In altre parole, Mimmo Lucano è onesto, ancor più: è integerrimo, ma è tutta una mossa, una ammoina, appunto “una apparenza”. Ne discende un’altra accusa ancora più insidiosa: Mimmo Lucano persegue finalità politiche! È motivato, pensate un po’, da una “sfrenata sete di visibilità politica”. Dopodiché, la Corte ritiene di aver acquisito un significativo “materiale probatorio” e, sulla base di questo, ha emesso la sua sentenza. Impressiona, in ogni caso, il quadro, per così dire, ideologico e valoriale in cui vengono collocati i reati per i quali Mimmo Lucano è stato condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione; per i quali gli sono state negate sia le attenuanti per il particolare valore sociale e morale, sia quelle generiche; per i quali gli è stata attribuita la responsabilità per reato associativo; per i quali gli è stata inflitta una sanzione pecuniaria che supera il milione di euro. Non è questa la sede per esaminare ulteriormente, e nel dettaglio, le motivazioni della sentenza e le ragioni che hanno portato a raddoppiare l’entità della pena richiesta dall’accusa (7 anni e 11 mesi). Resta estremamente difficile, con tali premesse, non pensare che quella comminata a Lucano sia stata una condanna “esemplare”. Ovvero iniqua. E ciò perché la condanna non deve mai servire da esempio ma misurare la responsabilità del singolo imputato, per lo specifico fatto ascrittogli. Graziano Mesina: fine pena forse di Giampaolo Cassitta sardegnablogger.it, 22 dicembre 2021 Quando la polvere mediatica si deposita si potrà riparlare di futuro all’interno di un contesto giuridico penale. Graziano Mesina è oggi un detenuto che deve scontare una pena divenuta definitiva per spaccio di sostanze stupefacenti. In questi giorni si è scritto e si è detto di tutto, soprattutto nei social: ci sono stati commenti di complottisti, di persone che butterebbero la chiave, quelli che sperano nella pena di morte, una nuova grazia perché è vecchio è malato, quelli disposti a barattarlo con qualche politico che merita l’ergastolo e anche quelli che lo ritengono - ancora - una sorta di Robin Hood con la berritta e quel profumo intenso di balentia difficile e soprattutto impossibile da accettare. La realtà giuridica è, invece, piuttosto semplice: Graziano Mesina, Grazianeddu, l’antieroe, l’icona di qualcuno è, più semplicemente, Mesina Graziano detenuto in un carcere per scontare una pena divenuta definitiva attraverso una sentenza emessa in nome del popolo italiano. Non c’è poesia, d’accordo. La giustizia, quella di uno Stato di diritto, non si disegna con le emozioni, con le invettive, con la voglia di vendetta o con un semplice passaggio di spugna su alcune sentenze piuttosto che su altre. L’unico concetto dal quale partire è legato al rispetto del detenuto come persona e nel provare, con lui, un percorso di rieducazione. Questo deve essere con forza sempre perseguito: è la garanzia primaria, il patto giuridico che da subito si deve instaurare con chi ha commesso un reato ed è stato privato della libertà. Il caso giuridico di Mesina è solo parzialmente complesso e occorre sgombrare il campo da alcune considerazioni che in questi giorni sono state evidenziate da chi, evidentemente, non ha una buona dimestichezza con la pena e con le sentenze passate in giudicato. Si è detto, per esempio, che il Presidente della Repubblica Mattarella potrebbe pensare ad una grazia nei confronti di un detenuto malato e vecchio. L’istituto della grazia è, di per sé, una materia piuttosto complessa e la prima concessione, ad opera del Presidente Ciampi, azzerò a suo tempo le pene che Mesina in quel momento stava scontando. Il problema oggi è un altro. Se da una parte ciò che è era passato in giudicato è stato graziato, dall’altra non si può ovviamente conoscere quello che può succedere “dopo” la concessione e dei nuovi reati che il graziato può eventualmente compiere. È ovvio che il Presidente della Repubblica può tenere conto anche del comportamento generale del detenuto in carcere, ma non è assolutamente necessario per la decisione finale che rimane sua e di nessun altro. Nessun Tribunale si può opporre, per esempio, alla grazia concessa dal Presidente della Repubblica. Nello stesso modo però non è possibile riproporre la grazia per la stessa persona che l’ha ottenuta perché si tratta di una condanna ex novo che non c’entra con le decisioni precedenti. Mesina ha commesso un nuovo reato per il quale è stato giudicato e condannato. Si deve ripartire da qui. Lui è però una persona anziana e malata. Anche in questo caso si può intervenire con la sospensione della pena qualora il Tribunale di Sorveglianza ritenga, dopo una dettagliata relazione sanitaria, che il detenuto non possa sopportare il carcere. In questo momento, all’inizio della pena, non ci sono molte strade. Teoricamente il permesso premio potrebbe giungere dopo aver scontato almeno un quarto della pena e la semilibertà a metà pena seppure vi siano altri ostacoli giuridici difficili da riassumere in poche parole. Si tenga conto, per esempio, che tecnicamente Mesina si è reso irreperibile e questo passaggio sul processo rieducativo, almeno nella prima fase, pesa moltissimo. Era importante evidenziare questi passaggi ed era importante ricordare che Graziano Mesina è un detenuto colpevole del reato ascritto. Ringraziamo le forze dell’ordine per averlo assicurato alla giustizia e lavoriamo con lui e per lui affinché abbia tutte le possibilità per poter rivedere la propria posizione. Dobbiamo pensare che possa riuscire nel percorso rieducativo. Lo Stato non si vendica, lo Stato è disponibile a restituire le persone detenute al mondo libero. Mesina compreso. Lazio. Il punto con il Garante su numeri e luoghi della privazione della libertà consiglio.regione.lazio.it, 22 dicembre 2021 Presentata anche la relazione annuale, per gli anni 2019 e 2020, così come prevede la legge istitutiva del Garante dei detenuti della Regione Lazio. Il Garante dei detenuti, Anastasìa, e l’assessora Corrado, durante la presentazione alla stampa dei dati 2021 sui luoghi di privazione della libertà nel Lazio. Il Garante delle persone private della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, ha presentato i dati 2021 relativi alla popolazione ristretta negli istituti penitenziari del Lazio, nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria, e ha fatto il punto sulla diffusione del Coronavirus e sulla campagna vaccinale anti Covid-19 nelle carceri. Nell’occasione, Anastasìa ha presentato anche la relazione annuale sull’attività svolta negli anni 2019 e 2020, così come previsto dall’articolo 7 della legge regionale n. 31/2003, istitutiva del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. “Un lavoro prezioso quello del Garante dei detenuti, Stefano Anastasìa, che con il suo impegno coglie ormai da anni lo spirito profondo della legge regionale 31/2003, istitutiva della figura”, aveva dichiarato alla vigilia il presidente del Consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi. Alla conferenza stampa è intervenuta anche l’assessora agli Enti locali e alla sicurezza urbana, Valentina Corrado, la quale ha parlato degli stanziamenti della legge regionale 7/2007, “Interventi a sostegno dei diritti della popolazione detenuta della Regione Lazio”. I numeri e il sovraffollamento - Anastasìa ha spiegato che la popolazione detenuta nel Lazio è di 5.569 persone (al 30 novembre 2021), con una percentuale di condannati definitivi in carcere del 68,7 per cento, leggermente inferiore a quella nazionale che si attesta al 69,1 per cento, e una percentuale di detenuti in attesa di giudizio del 14,9 per cento, inferiore a quella nazionale del 16,2 per cento. La presenza di stranieri è del 37,7 per cento, superiore alla media nazionale del 31,7 per cento, e una presenza di donne pari al 7 per cento. “Quest’ultimo dato - ha spiegato Anastasia - è superiore alla media nazionale del 3,8 per cento, perché nel Lazio abbiamo il più grande istituito penitenziario femminile di Italia e Europa, Rebibbia femminile, quindi una parte consistente delle donne detenute in Italia è a Roma e questo spiega il dato”. “Sull’andamento delle presenze nelle carceri Lazio - ha detto Anastasìa - la situazione in termini generali sembra migliore di quella nazionale, perché non è in corso un incremento. C’è una presenza di 5.569 detenuti, superiore alla capienza regolamentare di 5.158 posti e quindi si tratta una situazione che sembra meno preoccupante di quella nazionale. Da luglio a oggi la popolazione detenuta è in costante crescita e questo ci preoccupa rispetto al futuro, perché il rischio di diffusione del Covid-19 in carcere è molto rilevante - ha aggiunto Anastasìa - È un sistema costantemente sovraffollato, con una capienza regolamentare di 50.809 posti e al 30 novembre il dato delle presenze era di 54.593”. Il sovraffollamento è al 118 per cento, a fronte del dato nazionale del 107 per cento. La situazione più preoccupante è da tempo quella di Latina, dove il tasso di affollamento è al 173 per cento. Anastasìa ha spiegato che nel carcere pontino, costituito per metà dalla sezione maschile e per metà dalla sezione femminile, il sovraffollamento è tutto concentrato nella sezione maschile. Latina è stata recentemente teatro di una protesta di detenuti che ha comportato l’intervento delle forze dell’ordine. Inoltre, “in una condizione di sovraffollamento superiore alla media regionale e nazionale ci sono anche Civitavecchia, 152 per cento, Roma Regina Coeli, 144 per cento, e Rebibbia femminile, al 134 per cento - ha continuato a tale proposito Anastasìa - Questo ci dice quanto sia difficile la situazione in questi istituti. In particolare, pesa sulla necessità di molti detenuti di potersi avvicinare ai propri luoghi di vita e ai familiari. Infatti, gli istituti penitenziari sono congelati dall’effetto Covid-19, perché in tanti istituti della nostra regione e non solo ci sono stati molti trasferimenti di diverse decine di detenuti da un luogo a un altro, spesso in altre regioni, e non riescono a tornare nella loro sede originaria. Perché ogni trasferimento va centellinato in quanto va garantita la quarantena all’ingresso in istituto e quant’altro: questo sta rendendo molto complicata la gestione della vita in carcere”. Coronavirus e campagna vaccinale - I casi di positività nelle carceri del Lazio sono molto contenuti e prossimi allo zero. “Dopo avere avuto situazioni di grande difficoltà a gennaio e aprile 2021, ora la situazione è relativamente sotto controllo - ha spiegato Anastasìa - All’ultima rilevazione di ieri risultavano quattro positivi nelle carceri del Lazio e tutti senza condizioni cliniche preoccupanti”. Viceversa, in Italia “in queste settimane c’è un dato preoccupante di crescita di casi di positività al Covid-19 dentro gli istituti penitenziari. Al 13 dicembre erano 239, con pochi casi di ricovero: la curva ci parla di una ripresa della diffusione del virus, che si riproduce in carcere come nella società”. “Nel corso dell’anno hanno ricevuto le due dosi, in primavera e poi successivamente, 6.014 detenuti nel Lazio. Quindi, quelli che c’erano e quelli che sono entrati nel frattempo”. Così Anastasìa in merito alla campagna vaccinale. “Al 16 dicembre - ha proseguito il Garante - possiamo dire che 2.483 detenuti, la metà di quelli presenti nel Lazio, hanno ricevuto la dose booster. Entro metà gennaio è prevedibile che tutti i detenuti che hanno acconsentito a vaccinarsi potranno avere la terza dose - ha concluso Anastasia - Questa condizione delle vaccinazioni ha consentito la riapertura dei colloqui con i familiari in presenza in condizione di maggiore umanità, quindi senza le pareti divisorie in plexiglass”. Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - “Il totale della capienza nelle Rems nel Lazio è di 106 posti: in questo anno è stata aperta una nuova struttura a Rieti, programmata per 15 posti. Ad oggi possiamo dire che in lista di attesa ci sono 34 persone, di cui sette donne. Lo scorso anno in lista attesa nel Lazio c’erano 73 persone di cui 10 donne. Quindi, nel 2021 la lista d’attesa è stata più che dimezzata”. Lo ha detto Anastasìa, il quale, in merito alla Rems, ha aggiunto: “Tema particolarmente spinoso è il trattenimento in carcere di alcune persone in attesa di ricovero in Rems che, in assenza di altro titolo di detenzione, si presenta come illegittimo e su cui sono pendenti ricorsi alla Corte europea dei diritti umani. Al momento nelle carceri del Lazio ci sono sei dei 34 pazienti in attesa di Rems, tra cui una donna. Poi ci sono in carcere 11 persone seminferme di mente. Inoltre, tre persone in attesa di Rems sono ospiti dei servizi psichiatrici. È una situazione abbastanza complicata ma in via di progressivo miglioramento”. “Il problema delle Rems non è di capienza: la Regione aveva 91 posti, ora ne ha 106, un dato superiore alla media nazionale - ha concluso Anastasia - C’è un eccesso di provvedimenti di misure di sicurezza residenziale protetta e poi c’è una difficoltà a rimettere sul territorio le persone che entrano nelle Rems: il risultato è che il sistema si ingessa”. Gli stanziamenti della legge 7 del 2007 - “Abbiamo stanziato 550 mila euro per migliorare, attraverso interventi strutturali, le condizioni carcerarie dei detenuti con interventi di sostegno alla genitorialità, alcuni che riqualificheranno gli spazi destinati ad aree verdi, ludoteche, spazi per accoglienza dei famigliari, altri sulle palestre sportive e risorse per il sostegno al benessere psicofisico. Inoltre, abbiamo stanziato 170 mila euro per la digitalizzazione e 180 alle università per favorire e ampliare l’offerta didattica”. Così l’assessora regionale alla Sicurezza urbana, Valentina Corrado. “C’è un impegno e volontà di fare di più - ha proseguito Corrado -, perché il carcere non è altro rispetto alla società ma è parte integrante. Anche sul bilancio previsionale che ci accingiamo ad approvare in Aula, tra interventi finalizzati alla rieducazione e reinserimento sociale e interventi strutturali la legge 7 del 2007 è coperta con circa un milione di euro. Queste risorse ci consentiranno di aumentare gli interventi già previsti. L’obiettivo è fare sentire la presenza delle istituzioni alla popolazione detenuta nelle carceri e avvieremo un lavoro congiunto per premiare l’impegno di quei detenuti che dimostrano concretamente quella voglia di riscatto e rinascita anche attraverso lo studio per farsi trovare pronti al loro reinserimento”. Nel corso della conferenza stampa sui dati 2021 sui luoghi di privazione della libertà nel Lazio, Anastasìa ha risposto anche alle domande sul caso di Sharaf Hassan, giovane egiziano deceduto nel 2018 a seguito di un tentativo di suicidio nella sua cella nel carcere di Viterbo, e di Abdel Latif, 26 enne tunisino trattenuto nel Cpr di Ponte Galeria prima di essere trasferito all’ospedale Grassi di Ostia e poi al San Camillo dove è deceduto il 28 novembre scorso. Anastasìa ha infine illustrato le nuove funzionalità del sito www.garantedetenutilazio.it recentemente rinnovato con la pubblicazione delle schede relative all’attività di monitoraggio svolta dalla Struttura di supporto al Garante del Consiglio regionale del Lazio. Liguria. Garante diritti dei detenuti, Pastorino: “Da maggio 2020 non si è mosso nulla” genova24.it, 22 dicembre 2021 “Da nominare al più presto, carceri liguri al collasso. Le forze di maggioranza non sono in grado di affrontare una discussione sugli organismi di garanzia, a partire dal difensore civico, in maniera coerente e di prospettiva”. “Mentre le condizioni delle carceri liguri sono sempre più precarie, sia per sovraffollamento che per mancanza di personale, la discussione sulla nomina del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, in consiglio regionale langue, in una Regione che non può più permettersi di non avere una figura di garanzia che tuteli sia chi viene detenuto sia chi lavora all’interno del settore”, a dirlo il capogruppo di Linea Condivisa Gianni Pastorino. E continua: “Le forze di maggioranza non sono in grado di affrontare una discussione sugli organismi di garanzia, a partire dal difensore civico, in maniera coerente e di prospettiva. Spiace constatare che la Liguria sia stata una delle ultime Regioni ad approvare la legge, e posso dire di essermi personalmente impegnato per cinque anni, per convincere il consiglio regionale ad adeguarsi alle normative delle altre Regioni, ma in realtà, da maggio 2020, in consiglio regionale non si è mosso nulla, mentre la vita delle donne e degli uomini carcerati e di chi lavora in carcere è sempre peggio”. Poi prosegue riportando all’attenzione il caso del carcere di Sanremo: “La casa circondariale di Sanremo continua dopo anni a presentare gli stessi problemi: mancanza di personale e sovraffollamento, che portano ad una inadeguata sorveglianza delle persone detenute e ad un carico di lavoro eccessivo per chi svolge le mansioni all’interno. Inoltre c’è da chiedersi se come era stato segnalato da Antigone, nel 2019, i problemi riguardanti il riscaldamento e l’acqua calda, siano stati risolti”, spiega il consigliere regionale Gianni Pastorino. Il Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale deve essere una figura indipendente, competente, che deve guardare a tutto tondo alla realtà carceraria, capace di analizzare le condizioni degli istituti penitenziari in Liguria, sia dal punto di vista delle strutture che da quello delle condizioni di vita delle persone detenute e degli operatori penitenziari. “Quanto accaduto a Sanremo rinsalda in me l’ulteriore necessità di nominare il Garante, perché quello a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi è un esempio di come la politica non voglia assumersi nessuna responsabilità, anche quando sono sotto gli occhi di tutti i disagi e i problemi che devono essere urgentemente affrontati - conclude il consigliere regionale Pastorino -. Quando finalmente sarà scelta la persona migliore per ricoprire questo ruolo, saremo una Regione più giusta e più civile”. Trento. Carcere di Spini, allarme suicidi. La direttrice: lavoriamo per un carcere più umano di Dafne Roat Corriere del Trentino, 22 dicembre 2021 La direzione del carcere di Spini di Gardolo ha attivato un piano di prevenzione contro i suicidi e gli atti di autolesionismo. “Dateci dei barattoli di vernice che tinteggiamo noi i muri, lo possono fare anche i detenuti”. Lo dice sorridendo, ma non è uno scherzo. La comandante della polizia penitenziaria, Ilaria Lormartire, riflette su un problema noto della casa circondariale di Trento: struttura moderna, ampi spazi, ma asettica, fredda e spersonalizzante. E ricorda un progetto fatto nel carcere di Brindisi con il liceo artistico di Lecce: “Hanno progettato un allestimento della sala colloqui con pannelli che rappresentavano una storia”. Piccoli gesti, un esempio di solidarietà molto lontano dalla realtà quotidiana del carcere trentino. “Una cattedrale nel deserto”, l’avevano definita qualche tempo fa gli avvocati della Camera penale di Trento, lanciando l’allarme sulla carenza del personale. Problema mai risolto, ancora oggi nella struttura di Spini di Gardolo sono in servizio 148 agenti e si registra una carenza organica di quasi ottanta persone. Tutto questo a fronte di circa 297 detenuti ospiti del carcere di Trento (molti di più rispetto alla soglia di 240 fissata nell’accordo tra Provincia e Dipartimento all’apertura della struttura). In realtà - ricorda Lomartire - “la capienza riconosciuta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è di 400 detenuti”. Quindi si è ancora sotto soglia, ma i problemi del carcere di Trento sono sotto gli occhi di tutti, basta analizzare alcuni numeri di ottobre. Negli ultimi sei mesi ci sono stati sette suicidi, fortunatamente tutti sventati, 29 atti di autolesionismo e 37 colluttazioni. Dati drammatici. La direzione sta lavorando con in mente un unico obiettivo: “Rendere il carcere più umano e sereno per tutti”, ha detto la direttrice Annarita Nuzzaci, a margine dell’incontro in tribunale per la consegna da parte del procuratore Sandro Raimondi dei panettoni prodotti dai detenuti dell’istituto penitenziario di Padova al personale della Procura. Un gesto simbolico importante, testimonianza della riabilitazione dei detenuti. “Anche da cose come questa passa il reinserimento di chi sta in carcere”, ha spiegato Raimondi Il procuratore ha poi lanciato un appello al dirigente nazionale delle strutture di reclusione italiane, Bernardo Dino Petralìa, per avviare un progetto di collaborazione con la polizia penitenziaria, “due mondi - ha detto - che devono conoscersi e parlarsi di più”. Piccoli passi e gesti per abbattere muri e costruire un carcere più umano e riabilitativo. È questo il senso dell’iniziativa che vuole essere un modo anche per costruire nuove sinergie tra magistrati e l’amministrazione penitenziaria. Non si lavora solo all’esterno, ma anche dentro le mura. Qualcosa è stato fatto, ma la strada è ancora lunga. “Abbiamo potenziato l’assistenza sanitaria che oggi è presente h24 e abbiamo attivato un piano di prevenzione delle condotte suicidarie e degli atti autolesionistici che vede coinvolti tutti gli attori del carcere - spiega la direttrice -, è un problema difficile che può essere risolto solo quando c’è una collaborazione di tutte le persone. Poi c’è stato il dramma della pandemia che ha depauperato le forze a disposizione, ma l’impegno è, se possibile, ancora maggiore”. Il carcere ha invece retto molto bene l’impatto della pandemia. Attualmente non ci sono detenuti positivi. “Il picco massimo dei contagi lo abbiamo avuto all’inizio del 2021 - spiega la comandante Lomartire - con 34 detenuti contagiati, circa il 10% dell’intera popolazione. Il sistema è collaudato e la struttura ci agevola molto”. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria a Spini di Gardolo hanno riorganizzato gli spazi con una sezione riservata ai nuovi ingressi. “Devono fare cinque giorni di isolamento e due tamponi”, spiega Lomartire. Per quanto riguarda i colloqui vengono organizzati in base alle sezioni di appartenenza per circoscrivere possibili contagi. Poi ci sono le videochiamate: “L’amministrazione ci ha subito dotati di smartphone e credo che questa sarà una modalità che rimarrà anche dopo la pandemia, ha dato la possibilità a molti detenuti stranieri di avere un contatto con la famiglia che prima non avevano”. Trieste. Covid, al Coroneo sale la tensione: un braccio del penitenziario è stato isolato triesteprima.it, 22 dicembre 2021 Torna il Covid all’interno del carcere di via Coroneo a Trieste e la temperatura inizia a scaldarsi. Nei giorni scorsi, dopo che più di una settimana fa si erano registrati i primi contagi, è scoppiato un altro focolaio ed un braccio del penitenziario è stato isolato, anche a causa del contatto di alcuni detenuti con altri risultati positivi. All’elemento epidemiologico si somma una situazione generale che non sembra essere delle più rosee. Nei giorni scorsi un detenuto ha tentato di suicidarsi (i motivi rimangono ignoti ndr) ed è stato trasportato in gravi condizioni all’ospedale di Cattinara dal personale del 118 intervenuto, assieme al personale del carcere, in maniera tempestiva. Anche da fuori le cronache raccontano di una preoccupazione estesa anche e soprattutto ai famigliari dei detenuti. “Se dovessero bloccare le visite nuovamente - così una fonte di TriestePrima - rischiamo nuove rivolte. La situazione potrebbe tornare ad essere tragica”. La memoria corre alle proteste e al blocco, insostenibile dal punto di vista emotivo per le famiglie già provate da una condizione di estremo disagio. Se la struttura cerca di limitare al massimo i disagi e di superare le criticità gettando acqua sul fuoco, all’interno alcuni incendi di piccole dimensioni sarebbero scoppiati comunque, con una tensione che avrebbe alzato il livello di allerta, soprattutto in un braccio del penitenziario “particolarmente complicato”. Tra le altre cose fa discutere infine la presenza di un sanitario che, secondo indiscrezioni tutte da confermare sia da parte della struttura che dall’assessorato regionale alla Sanità, sarebbe stato visto operare all’interno della struttura senza tuttavia essere vaccinato. Il sanitario sarebbe sfuggito ai controlli fatti da Asugi. Se così fosse, visto l’obbligo in vigore per la categoria, rischierebbe la sospensione. Proprio dall’interno si sono levate voci di insofferenza per questa situazione, con alcune segnalazioni che sarebbero arrivate fino ai vertici. Milano. Covid, a San Vittore settanta positivi tra detenuti e poliziotti milanotoday.it, 22 dicembre 2021 Sono settanta i positivi al Covid nel carcere milanese di San Vittore. Lo segnala Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria, facendo il punto dei contagi nella settimana dal 13 al 19 dicembre secondo i dati di fonte ministeriale nelle carceri del Paese. Secondo il sindacalista, nelle carceri italiane i contagiati dal Covid, tra detenuti e personale penitenziario, sono raddoppiati in due settimane mentre, dal 13 al 19, si è registrato un aumento del quaranta per cento. I dati non arrivano in tempo reale e segnalano una tendenza che, probabilmente, oggi è ancora peggiore. “La realtà segna un trend di contagi in forte aumento in queste festività e destinato ad avere conseguenze impattanti sulla gestione delle carceri”, il commento di Di Giacomo: “In mancanza di misure urgenti” per bloccare la tendenza, “nel giro di poche settimane raggiungeremo un picco vicino a quello delle carceri del Sud America e della Tailandia, dove si registrano da giorni sanguinose rivolte”. Il sindacato di polizia penitenziaria rappresentato da Di Giacomo chiede quindi l’organizzazione immediata di open day per le vaccinazioni contro il Covid nelle carceri. “Si sta ripetendo lo stesso grave errore di sottovalutazione compiuto con l’avvio della prima fase di vaccinazione anti Covid: per la somministrazione della dose booster del vaccino - evidenzia il sindacalista - non c’è alcuna corsia preferenziale per il personale penitenziario e i detenuti”. Pnrr per il sistema della salute in carcere - “Gli investimenti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sul tema del carcere sono in totale 132,9 milioni di euro, utilizzabili dal 2022 al 2026 per la ‘costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture’. Si cominci a spendere per rafforzare in strutture e personale il sistema di tutela della salute che registra carenze storiche ancor più allarmanti per la situazione Covid”, conclude Di Giacomo. Napoli. La storia di Antonino: ha chiesto un permesso e attende risposta da 8 mesi di Viviana Lanza Il Riformista, 22 dicembre 2021 Lungaggini e ritardi sono il male oscuro della giustizia. Lo abbiamo detto, e sentito dire, migliaia di volte. Da tempo si discute di riforme che dovrebbero curare questo male, ma fino a questo momento la situazione non sembra far registrare miglioramenti significativi. E al Tribunale di Sorveglianza di Napoli la situazione è, se possibile, ancora peggiore se si considerano le carenze e le lungaggini che appesantiscono il lavoro di chi opera all’interno di questo settore della giustizia e le attese di chi si trova a dipendere dalle decisioni di questo Tribunale. Uno dei casi più recenti, ed eclatanti, riguarda un detenuto del carcere di Secondigliano, uno di quelli condannati al fine pena mai, con l’ergastolo da scontare e alle spalle accuse che vanno dall’associazione mafiosa all’omicidio. Insomma, un boss di quelli per i quali l’opinione pubblica sarebbe più incline al giustizialismo che a spiragli di umanità della pena. Ebbene, questo detenuto attende da molti mesi una risposta definitiva alla sua richiesta di ottenere un permesso premio. Ad aprile aveva presentato la richiesta, a fine luglio è arrivato il rigetto della richiesta e da allora - sono trascorsi cinque mesi - attende la fissazione dell’udienza per discutere il reclamo. In totale, questa vicenda pende dinanzi al Tribunale di Sorveglianza di Napoli da otto mesi. Non vi sembrano troppi per arrivare a una decisione relativa a un permesso? Può davvero dirsi giusta una giustizia che risponde con simili ritardi e può definirsi davvero umana una pena per cui si resta sospesi per un tempo indefinito e indefinibile alla decisione di un giudice? Ora, è pur vero che il Tribunale di Sorveglianza di Napoli si trova a lavorare con una pianta organica molto ridimensionata rispetto alle reali necessità e che la mole di detenuti in Campania è tale da determinare un flusso enorme di atti, istanza, decisioni. Ma tanti mesi per definire un’istanza e un ricorso sembrano troppi. L’attesa è quella di Antonino Melodia, boss della mafia siciliana di Alcamo. Detenuto ininterrottamente dal 30 aprile 1985, praticamente ha vissuto in cella più della metà dei suoi anni. Aveva 26 anni quando fu arrestato, oggi è un uomo che ha superato la sessantina e si è adattato alla vita in carcere e al percorso della pena al punto da aver ottenuto, negli ultimi tempi, due permessi per uscire per qualche ora dal carcere e ritrovare una dimensione di umanità. Seppur minima, perché si tratta di un condannato all’ergastolo per accuse gravi. Sta di fatto che sulla scia di questo percorso di umanizzazione della pena, Melodia aveva chiesto, ad aprile scorso, un permesso. Il giudice ha risposto a fine luglio, negandolo sulla base della recente sentenza della Corte Costituzionale in tema di ergastolo ostativo e accesso ai permessi premio. In questo caso il permesso consiste nel consentire al detenuto siciliano di trascorrere otto ore in una comunità a Pompei. Quel rifiuto è stato impugnato, puntando sull’assenza di contestazioni ed elementi nuovi e tali da rendere non più meritevole, il detenuto, del permesso premio. E da luglio ad oggi (sono trascorsi cinque mesi) non è stata ancora nemmeno fissata l’udienza. L’avvocato Gabriella Di Nardo, che assiste Melodia, conferma le lungaggini di questa attesa. Nessun commento sul merito della vicenda che sarà discussa davanti ai giudici. Anche noi non vogliamo entrare nel merito di questioni che vanno valutate in diritto e nelle sedi opportune, né vogliamo prestare il fianco a polemiche populiste. Ma questa storia, come tutte quelle di bibliche attese per avere una risposta dalla giustizia, solleva interrogativi: è normale che otto mesi non bastino per avere una risposta definitiva su una questione relativamente semplice come il rinnovo di un permesso già concesso in passato? La pena vissuta in questo limbo è umana? E una giustizia così lenta e indifferente può essere davvero giusta? Belluno. Il lavoro riabilita. A Baldenich quasi tutti i detenuti hanno un contratto newsinquota.it, 22 dicembre 2021 C’è un mondo nascosto a Baldenich. Fatto di storie complicate, ma anche di riabilitazione. Di passati burrascosi, ma anche di speranza e di lavoro. Soprattutto di lavoro. Nel carcere di Belluno infatti oltre il 70% dei detenuti ha un regolare contratto. E si conquista la riabilitazione pezzo dopo pezzo, ora dopo ora. Non è una storia di Natale. E neanche la sceneggiatura di un film sulla libertà. È una realtà resa possibile dalla collaborazione tra l’istituto penitenziario e la cooperativa Sviluppo & Lavoro. La casa circondariale ultimamente fa quasi fatica a impiegare i detenuti nelle sue attività “canoniche”, perché il lavoro è tantissimo. E l’impegno dei detenuti è encomiabile. Tutto con regolare contratto, orario di lavoro e stipendio. Le persone impiegate dalla cooperativa si occupano di produrre astucci per occhiali per conto di importanti aziende del territorio. Più tutto il contorno, fatto di pezzette per occhiali e imbustamento spray per pulire le lenti. Manifattura di attenzione è quella che riguarda l’assemblaggio, altra categoria di lavoro presente a Baldenich, come ha potuto toccare con mano il presidente della Provincia, in visita alla struttura nei giorni scorsi. “Attraverso il lavoro, viene garantito un impegno quotidiano e costante ai detenuti, con un orario di lavoro dal lunedì al sabato - spiega il presidente della cooperativa, Gianfranco Borgato. Vengono realizzati astucci e kit di pulizia degli occhiali per alcune importanti aziende del territorio bellunese. E anche assemblaggio di componenti plastici”. “Ho potuto vedere un clima sereno: il lavoro e la formazione rappresentano uno strumento straordinario di reinserimento in società” il commento del presidente della Provincia al termine della visita. “Il progetto avviato dalla cooperativa Sviluppo & Lavoro mi ha colpito molto e sono convinto abbia ulteriori potenzialità di sviluppo: è l’esempio di un’attività in grado di offrire ricadute positive sia a livello economico per le imprese del territorio, sia a livello sociale, perché attraverso il lavoro regolarmente retribuito è più semplice prevenire recidive da parte di chi oggi è detenuto e si appresta a tornare nella società. Ringrazio Gianfranco Borgato per l’idea a cui è riuscito a dare forma. E la direttrice del carcere, Tiziana Paolini. Da lei ho raccolto lo stimolo per un intervento di miglioramento dei due campetti sportivi all’interno della struttura: valuteremo se c’è la possibilità che la Provincia intervenga. Anche lo sport infatti è un mezzo potentissimo di promozione sociale e di riabilitazione”. Catania. Inaugurato lo sportello per la “messa alla prova”: un’opportunità per l’imputato cataniatoday.it, 22 dicembre 2021 Lo sportello consente agli avvocati di ricorrere all’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova per i cittadini che stanno affrontando un processo. Un tassello importante per la cosiddetta “giustizia riparativa” nell’interesse della collettività. Inaugurato oggi al tribunale di Catania lo sportello per la Messa alla prova, che consente agli avvocati di ricorrere all’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova per i cittadini che stanno affrontando un processo. Un tassello importante per la cosiddetta “giustizia riparativa” nell’interesse della collettività. L’ufficio Map, messo a disposizione dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania, si trova all’interno del Palazzo di Giustizia, nel locale attiguo all’aula “Camilleri” (Tribunale Seconda Sezione Penale). Lo sportello garantirà la diffusione delle informazioni e l’agevole fruizione della modulistica e potrà offrire opportunità qualificate tese a sostenere lo svolgimento di attività inquadrate nell’ottica del paradigma della giustizia riparativa. Alla presentazione sono intervenuti il presidente Corte di appello, Filippo Pennisi, il presidente del Tribunale, Francesco Mannino, il Procuratore generale presso la Corte di appello, Roberto Saieva, la presidente della Prima sezione penale del Tribunale, Grazia Anna Maria Concetta Caserta, il direttore dell’Udepe (Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna, Antonio Gelardi, la dirigente reggente dell’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna, Anna Internicola, il vice presidente della Camera penale “Serafino Famà”, Tommaso Tamburino, il presidente e il vice presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catania, Rosario Pizzino e Fabrizio Seminara. Seminara, a margine della presentazione, ha ricordato che “l’iniziativa è frutto del ‘Protocollo di intesa operativa’, stipulato nell’ottobre 2020, tra: il COA, il Tribunale ordinario, la Procura della Repubblica, la Camera Penale ‘Serafino Famà’ e l’Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna (Udepe) di Catania. Uno strumento operativo di estrema utilità nell’espletamento delle pratiche e che consentirà agli Avvocati anche una più agevole interlocuzione con i funzionari dell’Ufficio dell’Esecuzione Penale”. Seminara ha ricordato anche che il protocollo prevede che gli avvocati possano “depositare istanze di elaborazione del programma finalizzato alla sospensione del processo con messa alla prova (ex art. 168 bis c.p.), richiedere informazioni inerenti la predisposizione del programma e, in generale, assumere notizie nell’interesse del proprio assistito”. Foggia. I bimbi deceduti nella baraccopoli di Stornara sono vittime della schiavitù strutturata di Dijana Pavlovic Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2021 Potevano essere rom, bulgari, rumeni, nigeriani o di qualsiasi altra etnia. Birka e Christian, i due bimbi di 4 e 2 anni, morti carbonizzati nella baraccopoli di Stornara, in provincia di Foggia, non sono vittime di segregazione razziale. E non sono morti di “campo nomadi”. Pare che non fossero neppure rom ma appartenenti a una delle tante famiglie bulgare che insieme ai rom strappano la loro vita sui campi pugliesi. Sono vittime di un pezzo dell’economia del nostro paese basata sullo sfruttamento spietato di persone disperate. E se vogliamo cercare la chiave di lettura nella ricerca di soluzioni non la troviamo nel “campo nomadi”. Per questo sbagliano gli attivisti rom e pro rom a dire che sono morti di “campo nomadi”. Quanto superficiale e strumentale è la volontà di estrapolare quel “campo” dal contesto nel quale è cresciuto. Quanto è disonesto fare finta che non esistano luoghi analoghi, a pochissimi chilometri da quel “campo”, non di rom, ma di africani, uguali identici, non solo per condizioni materiali nelle quali vivono migliaia e migliaia di persone di ogni etnia, ma anche per il livello di disperazione umana, che sono il prodotto non della secolare persecuzione nei confronti di rom e sinti, ma di uno dei cancri peggiori del nostro paese, ormai in uno stato di metastasi avanzata - la schiavitù strutturata, il consolidamento tra una grande parte dell’economia agricola, soprattutto del Sud Italia, e le mafie, straniere e autoctone e il caporalato. Quanto la facciamo facile in questo caso gridando al razzismo e all’apartheid, o i media, che spesso non guardano oltre il fatto di cronaca e si accontentano di alimentare indignazione a tempo e un tanto al chilo, sollevati che il fatto si può attribuire a cose di “rom”. Quanto la rendiamo facile ai politici che se la cavano con due dichiarazioni e un dolore più o meno sentito, ma dimenticato dopo un giorno, giustificandosi soltanto perché non hanno sgomberato, senza dover rispondere di quell’altro cancro, troppo scomodo perché tocca interessi economici così grandi, e così pericolosi per il consenso politico in quelle zone d’Italia. Cerchiamo di distinguere e di capire le origini e il contesto dei mali diversi che ci colpiscono, per poterli combattere meglio. Non buttiamo tutto nello stesso calderone, distinguiamo, almeno noi, tra diversi fenomeni che ci colpiscono, la segregazione razziale, le conseguenze della povertà estrema, tradizioni e volontà di vivere in modi diversi e comunitari… Tutti questi sono fenomeni diversi, presenti in luoghi e situazioni diversi, e cercano risposte e proposte diverse. Se impariamo a non generalizzare, a riconoscerli e ad ascoltarli, a guardare situazione per situazione senza fare di ogni erba un fascio, ci risparmieremo la vergogna di aver anche noi contribuito alla criminalizzazione dei luoghi e delle persone che ci vivono. Almeno noi, togliamoci i paraocchi che ci impediscono di vedere e di essere cittadini e non solo “rom” o “difensori dei rom”, non usiamo tragedie di questa portata per tirare l’acqua al nostro mulino, per affermare i nostri principi e ideologie. In questo caso specifico la segregazione razziale non c’entra nulla, tanto meno si possono equiparare queste baraccopoli ai “campi nomadi”. Per quanto riguarda questi ultimi impariamo ad ascoltare chi ci abita, a riconoscergli il diritto di parlare, di dire quello che è il loro punto di vista e quindi di essere soggetti e non oggetti di questa o quella amministrazione o associazione. In questo caso specifico combattiamo insieme a un pezzo grande e importante della nostra società una battaglia che riguarda anche i rom, ma migliaia e migliaia di migranti da ogni parte del mondo che arrivano da ogni tipo di tragedia, e molti italiani in povertà, uomini, donne e anche bambini. Combattiamo per i diritti dei braccianti, contro lo sfruttamento del lavoro e contro la schiavizzazione delle persone che lavorano 12 ore al giorno per pochi spiccioli, senza nessun diritto e senza nessun accesso ai servizi pubblici, carne umana sulla quale ci guadagnano tutti, a partire dai caporali passando da mafie e malavita organizzata, alle aziende agricole e alla politica che non agisce, per finire a noi che compriamo a prezzi competitivi i pelati per la nostra pastasciutta contenti di mangiare “italiano”. *Attrice, attivista per i diritti umani Roma. Lasciare che i senzatetto dormano nelle stazioni non è decoroso. Farli morire di freddo sì? di Erasmo Palazzotto* Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2021 Qualche sera fa sono passato dalla stazione Termini, a Roma, e ho trovato il pavimento dell’ingresso inondato d’acqua, ovvero appositamente bagnato per scoraggiare coloro che sono in cerca di un posto un po’ riparato per trascorrere la notte. La preoccupazione di garantire un cosiddetto decoro in un luogo di transito molto frequentato spinge a nascondere altrove il dramma quotidiano di chi non ha dove dormire. Ci si preoccupa che non si sappia, e non si veda, che ogni notte c’è chi rischia di morire di freddo. Ormai da settimane, a Roma la temperatura notturna scende intorno ai 2-3 gradi. Nel mese di dicembre, sono già due le persone morte a causa del freddo: pochi giorni fa, nel gelo della notte, è morto un ragazzo di 27 anni proprio vicino alla Stazione Termini, si chiamava Fode Dahaba e veniva dalla Guinea Bissau. Qualche giorno prima era morto un 78enne che aveva probabilmente trovato rifugio in un’auto abbandonata nel tentativo di ripararsi dal freddo nel quartiere di Garbatella. Ogni inverno le attese temperature rigide di dicembre ci trovano impreparati. Quello che appare evidente è la mancanza di soluzioni strutturali rispetto a un’emergenza ciclica e stagionale. Da pochi mesi Roma ha una nuova amministrazione che ha promesso 300 posti letto in arrivo oltre ai 420 già attivi. Mi aspetto dal sindaco Roberto Gualtieri e dalla sua Giunta un occhio attento agli invisibili e a quelle migliaia di persone (prima della pandemia erano 8000) che ogni notte a Roma cercano un posto dove dormire. Come sempre, una buona gestione non si misura sulle luci di Via del Corso ma innanzitutto dalla cura e dall’attenzione ai più fragili e a chi, di notte al freddo, rischia di diventare ancora più invisibile. L’opzione di riapertura notturna delle stazioni per dare rifugio a chi non ha un’alternativa alla strada viene considerata non dignitosa. Lo credo anch’io, ma in senso opposto. Non è dignitoso far dormire le persone per terra nelle stazioni quando servirebbero ben altre soluzioni che possano dirsi dignitose per ognuno di loro. Ma una stazione aperta per alcuni potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte. Se non fosse per la solidarietà e il quotidiano impegno di associazioni e volontari, ogni anno il bilancio dei morti per il freddo sarebbe drammaticamente più alto. Ed è chiaro che non possiamo lasciare al solo terzo settore il peso di un’emergenza che ha a che fare con le fasce più vulnerabili della popolazione. Mi piacerebbe che l’amministrazione intervenisse ora, fissando la questione tra le priorità non procrastinabili e preoccupandosi che nessuno e nessuna debba trascorrere anche solo una notte nel gelo di queste notti. *Deputato di LeU, presidente Commissione d’inchiesta Regeni Padova. Il panettone d’eccellenza? Lo fanno i detenuti e lo sceglie anche il Papa di Francesca Visentin Corriere della Sera, 22 dicembre 2021 Prodotto dalla pasticceria Giotto è stato indicato dal New York Times come una delle dieci prelibatezze d’Italia. Classico o al moscato, con i fichi o al gianduia: la dolcezza dal sapore di rinascita. Dietro quel panettone che si scioglie in bocca c’è il lavoro artigianale di un pasticcere chiuso in prigione. Fragrante, profumato, morbido, il panettone preparato nel carcere di Padova sta facendo il giro del mondo. Tutti lo vogliono. Anche il Papa lo ordina regolarmente da qualche anno per i suoi regali personali. E il Gambero Rosso l’ha premiato come eccellenza enogastronomica d’Italia. Adesso a occuparsi del panettone dei detenuti-pasticceri di Padova è il New York Times, che lo indica come una delle dieci prelibatezze italiane. Dal “Kabir”, al moscato di Pantelleria, a quello con la cioccolata, o con amarene e gianduia, con i fichi, o con zenzero e mandarino, tanti i gusti tra cui scegliere, ma il classico (anche in formato magnum) resta quello più ordinato. Arrivano richieste da tutto il mondo alla Pasticceria del carcere di Padova e con lo shop online https://www.pasticceriagiotto.it/it_IT/shop.html è possibile ricevere il panettone ovunque. Sei maestri pasticceri insegnano l’arte ai detenuti, che per il lavoro nella pasticceria ricevono uno stipendio, oltre ad imparare un lavoro, che una volta fuori garantisce un futuro. Tra farina, zucchero a velo, profumo di cannella, i laboratori dentro il carcere di Padova sono un’oasi di paradiso, dove creatività e passione fanno dimenticare reati e pene da scontare. La Cooperativa Giotto 15 anni fa ha scommesso su questa possibilità di rinascita attraverso il lavoro e i risultati ci sono. La pasticceria con il marchio “I dolci di Giotto” è diventata eccellenza italiana. Rapine, truffe, violenza, anche omicidi, i detenuti-pasticceri hanno un passato pesante, ma ognuno di loro è pronto a voltare pagina. Le mani in pasta aiutano a ripartire. Fino ad oggi più di 200 detenuti sono stati guidati in un percorso formativo nell’arte pasticcera e non solo. Il laboratorio è affiancato dal reparto di confezionamento e logistica dove i dolci vengono vestiti e preparati per la spedizione. Arrivano sulla tavola di chi li ordina in eleganti scatole dal designer raffinato. I panettoni sono la star, ma la pasticceria del carcere sforna a ritmo continuo anche torte, biscotti, brioche, praline, gelati, colombe, tutto venduto in Italia e all’estero. Paolo Cuccia, presidente del network Gambero Rosso, nel premiare i panettoni aveva sottolineato: “La Pasticceria del carcere di Padova ha dimostrato che l’impegno etico e sociale cammina meglio quando gli obiettivi sono alti anche in termini di qualità e dimensioni dell’attività imprenditoriale. Le produzioni sono doppiamente buone: per il progetto sociale alla base e per il risultato raggiunto”. E dopo 15 anni di attività dentro il carcere, che ha diplomato tanti detenuti-pasticceri offrendo una possibilità di rinascita, adesso è stata inaugurata anche una pasticceria “gemella” fuori dal carcere, in centro a Padova. “Apriamo questo spazio quasi in punta di piedi, con rispetto per la città che ci accoglie - ha spiegato Matteo Marchetto, presidente di Work Crossing, che gestisce l’attività dei detenuti-pasticceri -. Molti conoscono i nostri panettoni, ma in carcere lavoriamo durante tutti i mesi dell’anno, realizzando prodotti di pasticceria fresca. Proprio per rendere economicamente sostenibile il progetto di inserimento lavorativo dei carcerati abbiamo deciso di inaugurare anche un punto vendita al minuto”. Cosenza. Libro sospeso per figli dei detenuti. “Così piccoli e genitori potranno leggere insieme” di Alessia Principe cosenzachannel.it, 22 dicembre 2021 L’iniziativa di una libraia cosentina. Lo “spazio giallo” del carcere di Cosenza sarà il primo a nascere in Calabria. Le favole sono tutto per i bambini, ogni storia non raccontata è un sogno in meno. E ci sono dei piccoli che di favole e di sogni ne hanno bisogno anche più di altri. Sono i piccoli che sono costretti a dividere il loro tempo nell’ambiente del carcere. Per colorare questo Natale di fiabe speciali Marta Monteleone della libreria “Raccontami” ha lanciato una splendida iniziativa: il libro sospeso per lo spazio giallo (il luogo di accoglienza per i bambini e bambini allestito all’interno del carcere di Cosenza). “Fino a settembre - racconta Marta - io e mio figlio Bico andavamo a scuola in bici e, quasi ogni giorno, passavamo davanti al carcere di Cosenza. Lui mi chiedeva spiegazioni su cosa fosse quel posto e come ci finiva la gente lì, finché un giorno esordisce con un: “Mamma perché non facciamo una libreria dentro il carcere così i bambini che vanno a trovare i loro papà possono leggere i libri insieme?”. Dalle parole del piccolo Bico alla realizzazione del progetto il passo è stato brevissimo. E così Marta, aiutata dalla casualità degli eventi, ha organizzato tutto. “Ho pensato che fosse un’idea bellissima e, per puro caso, un giorno in libreria è entrata una donna fantastica che, incredibile a dirsi, lavorava proprio nel carcere. Le ho proposto l’idea e lei si è messa subito a disposizione per parlare con chi di dovere. Grazie, quindi, di cuore a Carmen Rosato, senza di lei tutto ciò non sarebbe mai partito. Siamo molto emozionate, Bico di più. Aiutateci a realizzare questo suo piccolo sogno. Che potrebbe essere il sogno di tanti bambini.I libri da donare sono solo per la fascia 0-10 anni”. Lo “spazio giallo” sarà il primo a nascere in Calabria per accogliere i bambini prima dell’incontro con i genitori. “Degli operatori saranno lì ad aspettare i piccoli per spiegargli cosa sta succedendo e aiutandoli ad affrontare il momento. I libri potranno essere anche uno strumento di aiuto”. Castelfranco Emilia (Mo). Calendario sulla vita in carcere, il ricavato investito per i detenuti di Marco Pederzoli Il Resto del Carlino, 22 dicembre 2021 Castelfranco, grazie ai fondi saranno finanziati progetti di reinserimento sociale La vita dopo il carcere passa anche per un… calendario. Grazie al ricavato dalle vendite di uno speciale lunario d’autore, realizzato dal Lions Club “Castelfranco Emilia - Nonantola”, in stretta collaborazione con la direzione della Casa di Reclusione di Castelfranco, saranno infatti finanziati progetti per formare i detenuti che stanno scontando la loro pena. Questa, in estrema sintesi, è la filosofia che sta alla base del progetto del calendario 2022 presentato ieri pomeriggio alla Casa Circondariale di Castelfranco, alla presenza tra gli altri di Maria Martone, direttrice della Casa Circondariale, di Simona Sinceri presidente del Lions Club, di Carlo Guidetti autore delle foto, della vicesindaco Nadia Caselgrandi, dell’ispettore Luciano Ianigro, di Simona Pugliese responsabile dell’area trattamentale della Casa di Reclusione, di altri soci del Lions Club e perfino di due detenuti. Il calendario, intitolato “Dentro al futuro”, ritrae nelle foto di Guidetti, impaginate da Domenico Trotta, momenti di vita quotidiana all’interno della Casa di Reclusione, dove le 82 persone tra detenuti e internati studiano e lavorano. Diverse sono le curiosità che le foto di questo calendario mettono “colore su bianco”: da un’attività di call center per un’azienda toscana, alla produzione di ostie per diverse parrocchie della Diocesi di Bologna e non solo, alla lavanderia, alla produzione di miele, ortaggi e vino, fino a lavori di artigianato e ai tortellini. Il calendario è già in vendita in questi giorni nella “casina” di piazza Garibaldi gestita proprio dalla Casa di Reclusione. Oltre al lunario, si possono acquistare altri prodotti, dal miele al Lambrusco. Tutti i fondi raccolti, saranno appunto devoluti a finanziare l’attività di formazione dei detenuti. “Il progetto del calendario - ha commentato la direttrice Martone - è un esempio rilevante di coinvolgimento delle rappresentanze locali in un nuovo processo di inclusione sociale”. La Sinceri ha inoltre evidenziato che questo progetto è nato dopo avere conosciuto la direttrice e avere visto detenuti ed internati. La Caselgrandi ha sottolineato: “I detenuti devono rientrare a pieno titolo all’interno della società, una volta scontata la loro pena”. E proprio ieri due detenuti hanno promosso il progetto: “Per noi la formazione è fondamentale”, dice uno. “Prima di entrare qui, non sapevo cos’era il lavoro della terra”, ha aggiunto un altro. Milano. Una palestra per i detenuti del Beccaria di Marianna Vazzana Il Giorno, 22 dicembre 2021 Una palestra per i detenuti dell’Istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria. E’ stata inaugurata ieri, a cura della Fondazione Francesca Rava NPH Italia Onlus che ha sostenuto e realizzato i lavori di ristrutturazione, durante una cerimonia con la cantautrice Paola Turci e l’attrice Martina Colombari, madrine e volontarie, e il campione di calcio Billy Costacurta. Un dono simbolico per i giovani del carcere, che rientra nel progetto “Palla al centro” per prevenire il disagio giovanile e rafforzare il ponte già esistente tra il dentro e il fuori. “Un dono di rinascita e di speranza per questi ragazzi, in occasione del Natale”, hanno spiegato i promotori. Il progetto è nato nell’ambito dell’accordo di collaborazione sottoscritto dalla Fondazione Francesca Rava, a fianco dell’infanzia in condizioni di disagio, in Italia e nel mondo, con il Tribunale per i Minorenni e il Centro Giustizia Minorile per la Lombardia, per realizzare percorsi di formazione e sviluppare competenze in vista del futuro reinserimento sociale e lavorativo dei ragazzi del Beccaria, ma anche per sensibilizzare la comunità educante sul tema del disagio giovanile in un’ottica di prevenzione, abbattimento dei pregiudizi, contrasto all’isolamento e alla stigmatizzazione sociale dei ragazzi entrati nel circuito penale. La palestra si aggiunge alla scuola di informatica, ai laboratori di arte e di imbiancatura e a un programma di domeniche sportive e incontri motivazionali. “Il progetto ha consentito, in tempi record, di restituire al Beccaria la palestra, così importante per la salute mentale e fisica delle persone e ancor più per chi si trova in età evolutiva”, il commento della direttrice dell’Istituto Cosima Buccoliero. “La nuova struttura sarà una ‘palestra di vita’ per i ragazzi. L’impostazione di Regione Lombardia nei confronti degli Istituti penitenziari è proprio quella di vederli come parte integrante del territorio”, ha proseguito la vicepresidente e assessore al Welfare di Regione Lombardia Letizia Moratti. “Puntiamo sempre più - ha concluso Mariavittoria Rava, Presidente Fondazione Francesca Rava - alla formazione e al trasferimento di abilità pratiche e teoriche, che possano arricchire il curriculum dei ragazzi nel tempo sospeso della pena o durante la detenzione”. Firenze. A Patrick Zaki in 2.000 hanno disegnato le ali della libertà, ora in mostra di Fulvio Paloscia La Repubblica, 22 dicembre 2021 Oltre 100 opere, realizzate da chi ha risposto all’appello di un anno fa, sono esposte nella sala Carlo Azeglio Ciampi, all’interno del Palazzo del Pegaso, sede del consiglio regionale della Toscana. Mettete le ali a Patrick Zaki. Le ali della libertà. L’idea è venuta all’artista toscana Daria Palotti, lo scorso febbraio, ad un anno dall’incarcerazione in Egitto dello studente dell’Università di Bologna. Tutto era nato come un laboratorio in presenza in collaborazione con il Comune di Vicopisano (Pisa), poi la recrudescenza del Coronavirus ha costretto a scegliere la strada del web. Con una pagina Facebook dove Palotti invitava tutti coloro che lo desiderassero, a disegnare due ali su un profilo fotografico del giovane egiziano come simbolo e augurio di libertà. Nessun limite creativo, ognuno poteva esprimersi come voleva: l’importante non era l’esito estetico, “ma la condivisione dell’idea di libertà. Tutto doveva svolgersi nell’ambito della bellezza del creare e della voglia di partecipare ad un progetto che certo non sarà risolutivo per Zaki, ma che almeno gli farà sentire ancora più vicino il nostro paese. E che ha dato voce a chi sentiva il bisogno di partecipare all’incredibile ondata di solidarietà”. Il risultato è stato superiore ad ogni aspettativa. Sono infatti arrivati oltre 2000 elaborati, da parte di persone di ogni età, cifra in cui la stessa Palotti non avrebbe mai sperato. Merito anche dell’endorsement di Amnesty International, che ha voluto collaborare all’iniziativa, di Cecilia Robustelli dell’Università di Modena e Reggio Emilia, di Rita Monticelli dell’Università di Bologna, coordinatrice del master Gemma seguito dallo stesso Zaki. La Regione Toscana (“terra di diritti dal 1786, quando fu abolita per la prima volta al mondo, entro i suoi confini, la pena di morte; vogliamo mantenere questo primato, facendoci sempre più portavoce dei diritti negati” dice Antonio Mazzeo, presidente del consiglio regionale) ha fatto suo il progetto: oltre 100 opere sono esposte nella sala espositiva Carlo Azeglio Ciampi, all’interno del Palazzo del Pegaso, sede del consiglio regionale, dove la mostra “Ali per Zaki” è in corso fino al 28 dicembre. “Una scelta durissima - spiega Palotti - che ho fatto con l’intento di mantenere la trasversalità che ha contraddistinto la grande adesione”. Ali di uccelli fatati. Ali nelle cui piume sono impressi i volti dei grandi difensori dei diritti umani (da Mandela a Gandhi). Ali di angelo, ali di stoffa, ali realizzate con una mascherina chirurgica come se fossero un paracadute, ali di carta e ali di vere piume, ali di farfalla e ali fatte di fiori, ali di colomba e ali fatte di parole che “sono la nostra potenza, usiamole per vincere la battaglia” scrive una delle alunne delle tante scuole che hanno partecipato all’iniziativa. E tante, tante frasi che fanno da scenografia al volto sorridente di Patrick: “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”, “liberatelo, è buono”, “Zaki non preoccuparti che ti libereremo noi”, “vola via dalla prigione in cui sei finito ingiustamente”. Un successo inaspettato. Coronato dalla scarcerazione di Zaki (“che non è libero, ma fuori dal carcere, ed è ben diverso. Dunque le ali devono continuare a volare” dice Riccardo Noury, portavoce nazionale di Amnesty) “ma la mostra non arriva fuori tempo, perché i valori espressi da queste opere - alcune di artisti professionisti che hanno spontaneamente aderito all’iniziativa - vanno aldilà del caso specifico e sono eterni nella loro potenza. Rivendicano l’umanità che il nostro paese è capace di esprimere in un momento così difficile e divisivo come quello che stiamo vivendo” aggiunge Palotti. Perché l’arte “ha fatto arrivare a Patrick il sostegno di tutte queste persone anche quando era in carcere. Perché l’arte, si sa, ha il potere di valicare i confini ed abbattere muri” aggiunge Rita Monticelli, colpita dalla partecipazione di tanti bambini all’iniziativa: “Bene così, perché la libertà non è solo un diritto, ma è anche qualcosa che si deve insegnare insieme all’esercizio del pensiero critico. È importante che Elena Ferrante abbia sottolineato, in un suo recente scritto, la sua soddisfazione nell’aver aiutato - attraverso i suoi libri - Patrick a sopportare la durissima prigionia. La cultura ha anche la funzione di alleviare le sofferenze quotidiane, guida le nostre vite. Alice Walker, autrice che Patrick ha studiato e ama, diceva che le rivoluzioni hanno bisogno di bellezza per poter esprimersi”. La sindrome del “ritiro” che dilaga tra i ragazzi di Mauro Magatti Corriere della Sera, 22 dicembre 2021 Nell’universo che si estende dagli adolescenti fino ai 30-35enni si diffonde la tendenza alla fuga per alleggerire la tensione, fino alla chiusura totale al mondo. I sintomi c’erano già prima del Covid. Nel mondo giovanile - un universo variegato che si estende dagli adolescenti fino ai 30-35enni - si va diffondendo la sindrome del “ritiro” dal mondo. Una fuga come via per alleggerire la tensione che rivendica il diritto all’astensione, al silenzio, all’indifferenza, all’irrilevanza, se non addirittura - nei casi più gravi - allo scioglimento del legame sociale. Ne aveva parlato qualche anno fa l’antropologo francese David Le Breton, che qualificava questo nuovo modo di essere giovanile col termine “biancore”: una apatia, una distanza che rivela l’impellente bisogno di prendere congedo da sé come risposta alla fatica di essere se stessi. Ora il Covid ha radicalizzato e moltiplicato questa sindrome. In molte scuole si segnalano casi di ragazzi che non frequentano più le lezioni, mentre i tanti centri di assistenza psicologica aperti in questi anni di pandemia sono affollati di genitori che non sanno più come trattare i figli che non escono di casa. Un problema trasversale, che tocca tutte le classi sociali e le diverse fasce d’età: dagli adolescenti che col lockdown hanno introiettato una sorta di paura nei confronti dell’altro e del mondo esterno fino ai ragazzi più grandi che non lavorano e non studiano perché intrappolati in un vuoto da cui non riescono ad uscire o a chi decide di lasciare un buon lavoro perché non riesce più a trovare motivazioni per andare avanti. Anche se non esclusiva (non dimentichiamo il movimento giovanile dei Fridays for future che si muove attorno ai temi della sostenibilità) la sindrome del ritiro segna in maniera evidente le nuove generazioni. Sono lontanissimi gli anni della contestazione in cui si rivendicava il diritto a desiderare. Così come sono lontani gli anni degli yuppies, quando le nuove generazioni pensavamo di poter cavalcare l’onda del nuovo mondo globalizzato, visto come una serbatoio di esperienze e possibilità. È vero: nella seconda parte del 900 abbiamo scoperto il desiderio e lo abbiamo vissuto come una grande occasione di esplorazione e sperimentazione. Ma è già da qualche anno che i figli della società del benessere, liberi di desiderare, faticano a sostenere questa loro condizione. Perché? Le ragioni sono diverse e intrecciano necessariamente percorsi personali con cambiamenti socioculturali. Tuttavia alcune considerazioni possono essere avanzate. I ragazzi crescono in un ambiente che avvertono fortemente competitivo e performante, in cui bisogna essere sempre all’altezza non solo sul lavoro, ma in generale nella vita, nell’aspetto fisico, nelle relazioni e perfino nel sesso. Il senso di inadeguatezza si rivela nell’ansia diffusa o nelle crisi di panico che sono all’ordine del giorno. Ma negli anni è cresciuta anche la paura che suscita un mondo complesso che non si riesce a decodificare e che per di più sembra diventare sempre più minaccioso. Lo shock della pandemia e l’interruzione delle relazioni causata dal lockdown hanno dato ora il colpo di grazia. Altri fattori di contesto concorrono a questo esito. Il ritiro del mondo appare come una possibilità in una situazione in cui il benessere diffuso risolve, in un modo o nell’altro, i problemi di sopravvivenza immediata, creando così una membrana in cui ragazzi possono permanere senza troppi problemi. La famiglia, da cui si esce tardissimo, è una cuccia protettiva in cui ci si può accomodare lontano dalle sfide di un mondo temibile. Ma un ruolo l’importante lo gioca anche il digitale. Sia perché contribuisce alla destrutturazione dei processi di individuazione che diventano sempre più precari: il flusso comunicativo si trasforma in una fluidità personale che fatica poi a trovare un punto di consistenza. Sia perché la rete mette concretamente a disposizione un mondo parallelo in cui immergersi, continuando ad avere relazioni con il mondo, mediate però da uno schermo (cioè a distanza di sicurezza e sotto controllo) che finisce per essere un ricettacolo delle proiezioni soggettive sulla realtà. C’è ragione per preoccuparsi. La sindrome del ritiro - che l’emergenza infinita del Covid allarga a macchia d’olio - aggrava il problema di una transizione generazionale che sappiamo essere difficile: è urgente ripensare al modo in cui prepariamo i giovani a entrare in una società che parla ossessivamente di crescita, competitività, efficienza. E poco altro. La sindrome del ritiro ci dice che, nel giro di poche generazioni, stiamo assistendo a un’inattesa implosione del desiderio. E la ragione va probabilmente cercata nell’aver combinato il desiderio ridotto a pulsione con l’ansia della performance e la iperfluidità del senso. Freud insegnava che il desiderio, senza sublimazione, non porta da nessuna parte. E ora noi abbiamo una generazione che sembra non trovare più nel rapporto col mondo circostante appigli per mettere in campo quell’investimento libidico senza il quale la vita non decolla. Invece che dire che solo i migliori ce la faranno, forse dobbiamo dire che abbiamo bisogno di tutti per risolvere i problemi che la generazione degli adulti lascia in eredità. Invece che astrarre i ragazzi dalla realtà fino a 25-30 anni, forse dobbiamo autorizzarli fin dalla adolescenza a misurarsi con la concretezza della vita, che è altra cosa da un libro o da un videogioco. Invece che allungare ad libitum gli anni dell’indeterminatezza esistenziale, forse dobbiamo reintrodurre qualche rito di passaggio che segni una scansione tra giovinezza e età adulta. Il ritiro del mondo è un sintomo. Genitori e terapeuti sanno che è molto difficile riuscire a tirar fuori i ragazzi quando cadono in questo circuito. Forse la domanda che ci stanno lanciando è un po’ più profonda. E, come sempre, la prima cosa è provare ad ascoltarla. I social ci manipolano per creare dipendenza: l’educazione digitale nelle scuole è una priorità di Antonio Di Giovanni Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2021 La dipendenza da “social” è un argomento preoccupante, che coinvolge tutte le fasce di età, dai ragazzi in età molto giovane fino agli adulti. Il Wall Street Journal ha di recente condotto una pesante inchiesta sui social e in particolare su Facebook, Instagram e TikTok. L’inchiesta ha avuto importanti e inaspettati risvolti, mettendo in risalto lati oscuri e torbidi di queste piattaforme. Già nel film The Social Dilemma erano emerse diverse dinamiche pericolose, che miravano a far rimanere collegati ai social più a lungo, più del già alto tempo medio di permanenza. Una di queste è la tecnica di manipolazione chiamata “Rinforzo Positivo Intermittente”. Questa tecnica è una vera e propria tattica di manipolazione, estremamente potente ed efficace: gli esperti di psicologia considerano questa pratica una delle più potenti tecniche di motivazioni esistenti. In buona sostanza il manipolatore “motiva” la vittima, in questo caso l’utilizzatore del social, a comportarsi, pensare o sentire il modo in cui lui o lei desidera. Apprezzamenti, lodi, persone che ti seguono e mettono i like, ma non solo, anche il ricaricamento della home ogni qualvolta tentiamo di uscire che ci mostra altri post nuovi: il rinforzo intermittente, quindi, crea incertezza, ansia e desiderio nel cliente che ha bisogno di cercare costantemente un “rinforzo positivo”. Si dice “Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei tu”, quindi è da questa affermazione che dobbiamo partire per capire il perché non paghiamo per questi servizi. La missione iniziale della rete e dei social era nobile: poter connettere le persone di tutto il pianeta, sfruttare la tecnologia per il bene unendo le forze, favorendo vicinanza e creatività. E invece è successo il contrario e il mezzo sembra essere sfuggito di mano agli stessi creatori. Mark Zuckerberg probabilmente sapeva delle conseguenze negative che avrebbero avuto i suoi social, ma presumibilmente ha fatto finta di nulla in nome del profitto, tant’è che già da settembre scorso ha deciso di sospendere il progetto di Instagram per bambini. Instagram, infatti, è stato definito come uno strumento molto pericoloso già per i teenager, e in particolare per le ragazzine, in quanto social molto incentrato sul valore dell’immagine e questo crea in molti dei complessi in età di sviluppo, proprio rispetto all’essere costantemente apprezzati e desiderati. Il Pew Research Center, uno degli istituti di sondaggi e ricerche più validi negli Stati Uniti, ha condotto una ricerca sull’utilizzo dei social network da parte degli adolescenti americani (ma altre ricerche mostrano dati molto simili per quelli europei). Da questa ricerca è emerso che YouTube viene utilizzato dall’85% di chi è tra i 13 e i 17 anni, Instagram dal 72% e Snapchat dal 69%, mentre Facebook è solo al 51% e Twitter al 32%. Si tratta di una considerevole differenza rispetto al 2015, quando Facebook era utilizzato dal 71% in particolare degli adolescenti. Cresce quindi l’esigenza di trovare una risposta a una deriva che sta mettendo in pericolo soprattutto le nuove generazioni. Inserire l’educazione digitale nelle scuole insieme all’educazione civica è una priorità, dobbiamo rapidamente far capire fin da piccoli come interagire sul web. Necessitiamo quindi di nuovi strumenti e di nuove forme di insegnamento che coinvolgano anche gli adulti in questa formazione. Gli adulti tuttavia, in questa fase, hanno bisogno di acquisire un patrimonio di informazioni abbastanza cospicuo, se vogliono proteggere i loro figli, altrimenti non avranno nulla da trasmettere. Cittadinanza, la negazione dei diritti ai bambini stranieri nati in Italia di Gaetano De Monte Il Domani, 22 dicembre 2021 Ioan (nome di fantasia) è un ventenne di origine rumena che è divenuto cittadino italiano lo scorso 7 novembre, grazie a una sentenza a lui favorevole emessa dal tribunale civile di Roma. Come lui ci sono tanti ragazzi e ragazze nati e cresciuti in Italia a cui viene rigettata ingiustamente la richiesta di cittadinanza. Claudia M. è diventata cittadina la scorsa estate, quando una sentenza della prima sezione civile della corte d’appello di Firenze ha ordinato al “ministero dell’Interno di procedere alle iscrizioni, trascrizioni e annotazioni di legge, nei registri dello stato civile”. L’avvocato Salvatore Fachile del direttivo dell’associazione studi giuridici immigrazione, che negli ultimi anni ha seguito diverse decine di casi di questo tipo, sottolinea che “esiste una lunga giurisprudenza” sul tema. Da Crotone a Milano, quando i comuni negano la cittadinanza agli stranieri nati e cresciuti in Italia, spesso con motivazioni pretestuose, “i tribunali ci danno ragione”. Marco H. è nato in una roulotte di ferro e lamiera. È cresciuto in Italia, con i due genitori e sei fratelli, all’interno del Villaggio della solidarietà di Castel Romano, come fu definito dalla giunta di centrosinistra che istituì uno dei campi mono etnici più grandi d’Italia, luogo poi divenuto il simbolo del fallimento delle politiche di inclusione sociale delle comunità rom nella Capitale. Nonostante la precarietà degli alloggi, Marco, fin dalla tenera età, è stato sottoposto a tutte le vaccinazioni obbligatorie, così da poter frequentare il ciclo scolastico obbligatorio, scuole elementari, medie, e poi iscriversi e frequentare per quattro anni un istituto professionale di periferia. Quando Marco compie il diciottesimo anno di età, nel 2019, è abbastanza istruito da sapere quali siano i suoi diritti e, così, si reca presso gli uffici del comune di Roma per formalizzare l’istanza di riconoscimento della cittadinanza italiana, come prevede l’articolo 4 al comma 2 della legge 91 del 1992, laddove fa riferimento al fatto che “lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data”. Tuttavia, le cose non vanno per il verso auspicato dal neo-maggiorenne di origine rom: a più di un anno di distanza dalla presentazione della domanda di cittadinanza, il 25 novembre 2020, una nota del direttore del dipartimento servizi delegati di Roma capitale, rileva che “dalle verifiche effettuate presso la banca dati del comune, nei relativi archivi anagrafici e di stato civile il signor H. non risulta mai essere stato inserito nei registri della popolazione residente del comune di Roma. Pertanto, mancando uno dei requisiti richiesti dall’articolo citato in oggetto, e cioè la residenza legale e ininterrotta in Italia fino al 18° anno, l’istanza non può essere favorevolmente accolta”. La circolare del Viminale - Una circolare del ministero dell’Interno datata il 7 novembre 2007, però, ha chiarito che “l’iscrizione anagrafica tardiva del minore presso un comune italiano, potrà considerarsi non pregiudizievole ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana, ove vi sia una documentazione atta a dimostrare l’effettiva presenza dello stesso nel nostro Paese nel periodo antecedente la regolarizzazione anagrafica, attestati di vaccinazione, certificati medici in generale”. Di più: il legislatore in passato è intervenuto anche con il decreto legge 69 del 2013, laddove ha previsto che “all’interessato non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della pubblica amministrazione, ed egli può dimostrare il possesso dei requisiti con ogni idonea documentazione”. Sono queste, dunque, le principali basi giuridiche che hanno consentito a Marco H., attraverso il suo avvocato, Salvatore Fachile, che fa parte del direttivo dell’Associazione studi giuridici immigrazione, di contestare davanti al tribunale di Roma l’illegittimità del provvedimento adottato nei suoi confronti dai funzionari romani. Un provvedimento illegittimo - Nel ricorso che è ancora pendente davanti ai giudici, l’avvocato Fachile, nel chiedere al tribunale di “accertare l’illegittimità della condotta della pubblica amministrazione”, ricostruisce non solo il quadro normativo, ma anche quello giurisprudenziale, che si ritiene alla base della richiesta di riconoscimento della cittadinanza italiana avanzata da Marco H. In particolare, il legale fa riferimento a una sentenza emessa dal tribunale civile di Napoli, in cui si afferma che “qualora l’interessato riesca a provare di essere stato effettivamente residente in Italia dalla nascita sino al raggiungimento della maggiore età, ben può acquisire la cittadinanza italiana non potendo lo stesso subire un pregiudizio a causa di inadempimenti da parte dei genitori non imputabili al medesimo”. Una recente decisione del tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di cittadinanza presentata da un cittadino nomade nato e cresciuto in Italia, aveva stabilito che “la circostanza che egli non abbia certificato anagrafico di residenza è del tutto conforme alla sua condizione di nomade”. E dunque aveva concesso al ricorrente la cittadinanza italiana, perché “non risulta che la permanenza dell’attore nel nostro paese sia stata illegale, egli vi è nato e vi ha abitato con la sua famiglia, né sono emersi elementi da cui risulta, che, di fatto, la sua permanenza nel nostro paese sia mai stata interrotta”. Ioan (nome di fantasia) invece, è un ventenne di origine rumena che è divenuto cittadino italiano lo scorso 7 novembre, grazie a una sentenza a lui favorevole emessa dalla giudice del tribunale civile di Roma, Damiana Colella. Già, perché anche a Ioan, il 15 novembre del 2019, l’ufficio anagrafe del XI Municipio, a cui aveva presentato la domanda di cittadinanza quando aveva compiuto 18 anni, ne aveva rigettato la richiesta. Con una motivazione pretestuosa. E cioè che l’uomo non si era presentato negli uffici il giorno previsto dall’appuntamento. “Essendo scaduto il termine, la richiesta da lei presentata rimane priva di efficacia giuridica”, avevano motivato così il diniego gli uffici anagrafici capitolini, senza tenere conto del fatto, però, che la normativa in materia prevede la possibilità di espletare la pratica entro il termine del 19° anno di età. Così, lo scorso 7 novembre, la giudice Damiana Colella ha scritto nella sentenza che il signor Ioan è cittadino italiano, ordinando “alle competenti autorità di procedere alle relative annotazioni e trascrizioni nei registri dello stato civile”. Come un fantasma - Claudia M. è diventata cittadina italiana la scorsa estate, quando una sentenza della prima sezione civile della Corte d’appello di Firenze ha ordinato al “ministero dell’Interno di procedere alle iscrizioni, trascrizioni e annotazioni di legge, nei registri dello stato civile”. La storia della vita di Claudia M. è particolarmente travagliata. Ha 24 anni e per diversi anni ha vissuto come un fantasma, tra Napoli e Roma, senza mai frequentare la scuola dell’obbligo né ricevere un’iscrizione anagrafica. Eppure, è stata ospite da minorenne a spese dello stato, prima in una comunità di accoglienza a seguito della commissione di alcuni reati, poi, in una comunità residenziale protetta, al fine di evitare contatti con la famiglia di origine. Quando Claudia compie 18 anni, però, sceglie di uscire dall’invisibilità in cui era stata costretta per diversi anni. Comincia a lavorare come cameriera in Toscana, inizia un percorso di semi-autonomia fuori dalle comunità in cui ha sempre vissuto e, prima del compimento del 19esimo anno di età, si presenta al comune di Siena per richiedere la cittadinanza italiana. Ma gli uffici comunali restano in silenzio; le risponderà soltanto in tribunale, a Firenze, quando i funzionari dell’Anagrafe si difenderanno dalle accuse dei legali della donna evidenziando “come la ricorrente non avesse fornito idonea documentazione comprovante la sua permanenza ininterrotta sul territorio italiano”. Una lunga giurisprudenza - Nel giudizio di primo grado, al fianco del comune di Siena, si era costituito anche il ministero dell’Interno, il quale contestava la “sussistenza del presupposto della residenza legale ininterrotta della ricorrente in Italia dalla nascita sino alla maggiore età”. Tuttavia, i giudici di secondo grado del tribunale di Firenze “hanno correttamente valutato le prove circa la sua ininterrotta residenza legale in Italia anche alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale”, spiega l’avvocato Fachile che aggiunge: “Esiste una lunga giurisprudenza nel merito. Da Crotone a Milano, quando i comuni negano la cittadinanza agli stranieri nati e cresciuti in Italia, spesso con motivazioni pretestuose, soprattutto alle persone di origine rom, i tribunali ci danno ragione. Perché è la legge che lo prevede”. Migranti, strage senza fine: nel 2021 cinquemila vittime di Giulio Cavalli Il Riformista, 22 dicembre 2021 L’Oim ha verificato 4.470 morti sulle rotte migratorie dall’inizio dell’anno, ma il bilancio vero è più grave. Col Covid c’è stato un calo senza precedenti degli spostamenti, i decessi invece non diminuiscono. Sono sicuramente più di 4.470 le vittime, tenendo conto delle decine di persone uccise (almeno 54) lo scorso giovedì, quando un camion stracarico di migranti si è schiantato in Chiapas, Messico. I viaggi immigratori continuano a uccidere e, nonostante le continue richieste di azioni concrete per ridurre le morti, nel 2021 si registra un aumento rispetto al 2020 (quando erano 4.236). “Il COVID-19 ha comportato una diminuzione senza precedenti della mobilità umana, ma il Missing Migrants Project documenta ancora i decessi quasi ogni giorno”, ha affermato Frank Laczko, direttore del Global Migration Data Analysis Center (Gmdac) dell’OIM, dove ha sede il progetto. Il numero di morti e sparizioni è aumentato su molte rotte migratorie in tutto il mondo nel 2021, anche in Europa e nelle Americhe. Un numero ufficiale per ora è difficile da compilare poiché alcune zone del mondo sono complicate da documentare: ai confini bielorussi con l’Unione Europea, 21 morti nel 2021, anche se non sono disponibili dati ufficiali; nel Darien Gap, una remota regione della giungla tra Colombia e Panama, 42 vite perse, anche se gli oltre 125.000 attraversamenti irregolari di quest’anno significano che il vero bilancio delle vittime è probabilmente molto più alto; sulla traversata tra il Corno d’Africa e lo Yemen almeno 98 morti rispetto ai 40 registrati nel 2020, anche se i decessi su questa rotta sono estremamente difficili da documentare. Un numero certo però sono gli 81 giorni di protesta dei disperati accampati per le strade di Tripoli. Dopo il raid della polizia e dei militari libici a Gargaresh il 1 ottobre, migliaia di persone hanno deciso di spostarsi di fronte al Community Day Center (CDC) dell’Unhcr a Tripoli in cerca di protezione. Dal 2 ottobre sono accampati come un presepe della disperazione per le strade senza riparo, servizi igienici, acqua potabile, medicinali, prodotti sanitari per donne e bambini. In questi mesi per strada sono morte persone in mezzo all’indifferenza libica (più che prevedibile) e internazionale. I migranti si sono organizzati, hanno aperto un sito internet (www.refugeesinlibya.org) e redatto un manifesto per provare ad essere ascoltati: “Veniamo dal Sud Sudan, Sierra Leone, Ciad, Uganda, Congo, Ruanda, Burundi, Somalia, Eritrea, Etiopia e Sudan. Stiamo fuggendo da guerre civili, persecuzioni, cambiamenti climatici e povertà tornando nei nostri paesi di origine. Siamo stati tutti spinti da circostanze al di là della sopportazione umana - scrivono nel loro appello - Volevamo raggiungere l’Europa cercando una seconda possibilità per le nostre vite e quindi siamo arrivati in Libia. Qui siamo diventati la forza lavoro nascosta dell’economia libica: poniamo mattoni e costruiamo case libiche, ripariamo e laviamo auto libiche, coltiviamo e piantiamo frutta e verdura per i contadini libici e le mense libiche, montiamo satelliti su tetti alti per i libici schermi ecc.”. Dopo essere stati sfruttati, i migranti lamentano di avere subito “torture, stupri, estorsioni, detenzioni arbitrarie, ogni possibile e inimmaginabile violazione dei diritti umani”. Ora, scrivono “abbiamo capito che non avevamo altra scelta che iniziare ad organizzarci. Non possiamo continuare a tacere mentre nessuno difende noi e i nostri diritti”. Chiedono “giustizia e uguaglianza tra rifugiati e richiedenti asilo registrati presso l’Unhcr in Libia”, “l’abolizione dei finanziamenti alle guardie costiere libiche che hanno costantemente e forzatamente intercettato i profughi in fuga dall’inferno libico e li hanno portati in Libia dove tutte le atrocità accadono”, giustizia per gli omicidi e invitano “la Libia a firmare e ratificare la costituzione della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati”. Intorno, il silenzio. A proposito di Libia, vi ricordate i due stranieri che erano riusciti a convincere l’equipaggio del rimorchiatore Vos Thalassa a non puntare la prua verso Sud, dove sarebbero stati consegnati alla cosiddetta guardia costiera libica, per dirigersi invece in direzione di Trapani a luglio 2018? L’allora ministro Salvini li definì “dirottatori”, il ministro Toninelli parlò di “facinorosi”. Ora si è pronunciata la Cassazione assolvendoli perché hanno fatto “valere il diritto al non respingimento verso un Paese non sicuro” opponendosi “alla riconsegna alla Stato Libico”. Tutto intorno, silenzio. Onu, la legge sulle droghe viola i diritti umani di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 22 dicembre 2021 Il 16 dicembre abbiamo scritto su queste pagine del silenziamento della Commissione droghe dell’Onu relativo al rapporto del gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie, un documento che aveva ricevuto l’ok da molti governi ma che il segretariato ha bloccato poco prima della sua presentazione in plenaria. Se non fosse stato per centinaia di ONG che hanno denunciato al Segretario Generale Guterres la grave censura l’affair non sarebbe stato degno di menzione, invece si tratta di un drammatico resoconto che vale la pena approfondire. Gli esperti dell’Onu esaminano le violazioni in tutto il mondo senza risparmiare paesi democratici, Italia compresa. La media mondiale di detenuti per “reati di droga” è del 21,65%, al 30 giugno 2021 da noi era del 35,91%! Il doppio della media europea (18%) e molto più di Messico (9,7%) USA (20%), Colombia (20,7%), Marocco (25%) Albania (26%), Russia (28,6%) e Algeria (34,5%). Il rapporto evidenzia che “Alcuni Stati sono andati oltre quanto è richiesto dai trattati sul controllo delle droghe in termini di criminalizzazione e sanzioni associate, mentre altri hanno dimostrato uno zelo eccessivo nell’applicare le previsioni di criminalizzazione”. Esplicita la denuncia sull’eccessiva presenza di migranti in carcere per “fatti di droga” nel nostro Paese: 33% al 30 giugno 2021. Anche test antidroga e perquisizioni sono sotto accusa: “possono essere usati come modi per identificare i consumatori di droga o coloro che ne sono in possesso con lo scopo di arrestarli. Queste pratiche sono un netto allontanamento dal requisito della causa probabile per le perquisizioni legali e ledono considerevolmente il diritto umano alla sicurezza della persona.” La decisione su chi deve essere “testato” o perquisito per il possesso di droga può essere “altamente soggettiva, spesso basata sull’aspetto fisico di una persona, il sesso, l’età, la razza, l’etnia o lo status di migrante o di sex workers”. Col tempo sul profiling da parte delle forze dell’ordine si è finalmente creata maggiore consapevolezza, in particolare negli USA dove le riforme sulla cannabis hanno tra i motivi principali la lotta alle discriminazioni verso le minoranze afroamericane e latinos. L’articolo 103 del Testo Unico sulle droghe italiano permette la perquisizione anche in assenza di un assenso del magistrato. Uno strumento che permette la “pesca a strascico” nelle strade che fa entrare annualmente nel circuito penale migliaia di persone; altrettante finiscono in quello non meno odioso e stigmatizzante delle segnalazioni al Prefetto. Una volta entrati è molto difficile uscirne: basta la detenzione di una quantità poco superiore a quella considerata per uso personale e la presenza di altri elementi indiziari in casa come una bilancia (da cucina o di precisione spesso è indifferente) e di materiale per il confezionamento (reperibili nei cassetti di ogni cucina) e un po’ di contanti in casa, per finire denunciati per spaccio. Nei fatti si tratta di un’inversione dell’onere della prova che costringe l’accusato a dover dimostrare il possesso per l’uso personale, sgravando l’accusa dal portare in giudizio una qualsiasi prova (filmato, foto, intercettazione) che dimostri l’effettiva attività di spaccio. Così, 7 processi su 10 per droghe finiscono con una condanna, a differenza di quelli per i reati contro le persone o il patrimonio che rimangono fermi a un condannato ogni 10 processi (v. Urzi, 11° Libro bianco sulle droghe). Idem per chi entra nella spirale delle sanzioni amministrative che colpiscono quasi la metà dei segnalati. La legge italiana va quindi contro i trattati sui diritti umani, le convenzioni sulle droghe e le decisioni quadro europee - che prevedono pene massime da 1 a 3 anni e da 5 e 10 per i reati più gravi. Un motivo in più, se ce ne fosse bisogno, per riformarla. La Libia è nel caos. E adesso è a rischio l’attività dell’Eni di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 22 dicembre 2021 Le elezioni sono saltate perché nessuno era d’accordo su nulla, la tensione sale e si teme il ritorno alle armi. Intanto la chiusura di quattro giacimenti di idrocarburi, oltre alle raffinerie di Zuara e Mellitah, minaccia gli interessi italiani nel Paese. Milizie armate per le strade, barricate di sacchi di sabbia e scuole serrate con gli studenti rimandati a casa nel timore che rimangano coinvolti negli scontri a fuoco. Per un attimo ieri mattina nella regione di Tripoli la voce della guerra è sembrata prevalere sulla diplomazia. Il ritorno delle tensioni coincide con l’inevitabile rinvio delle elezioni. Il primo turno delle presidenziali era previsto per venerdì 24 dicembre. Ma nessuno era d’accordo su nulla: non sulla legge elettorale, non sulla eleggibilità di alcuni candidati (tra loro Saif al Islam, il figlio più politico di Muammar Gheddafi, e il premier in carica Abdulhamid Dabeibah) e tanto meno sui passi che si sarebbero dovuti seguire per il ballottaggio e quindi per le parlamentari. Nessuno voleva assumersi la responsabilità di annunciare il rinvio. Il silenzio della politica ha così lasciato spazio al caos anarchico delle milizie. Il rischio di un ritorno alle dinamiche di violenza simili ai 14 mesi dell’offensiva lanciata il 4 aprile 2019 dall’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, per conquistare Tripoli pare adesso compensato da almeno due fattori positivi. In primo luogo, Russia e Turchia, le due potenze intervenute due anni fa manu militari rispettivamente in sostegno di Cirenaica e Tripolitania, oggi non vogliono la guerra. Si aggiunge la presenza sul campo di Stephanie Williams, la rappresentante Onu d’origine americana che oltre un anno fa negoziò sia il cessate il fuoco che il processo elettorale. Lei stessa però ha fatto diffondere un annuncio in cui si dice preoccupata per il fatto che scontri limitati “possano poi sfociare in conflitto”. Il rischio coinvolge direttamente l’Italia. La chiusura di quattro giacimenti di idrocarburi, oltre alle raffinerie di Zuara e Mellitah, minaccia le attività dell’Eni nel Paese. Non a caso lo stesso Mario Draghi appella alla ripresa del dialogo e alla tenuta di “libere elezioni quanto prima”, sottolineando che la destabilizzazione interferisce anche sui flussi migratori. In questa grave fase di incertezza rialza la testa Haftar, che ieri ha incontrato a Bengasi importanti esponenti del vecchio entourage di Tripoli. Tra loro l’ex ministro degli interni Fathi Bishaga e l’ex vicepresidente Ahmed Maitig. L’intento è costringere Dabeibah alle dimissioni e la creazione di un loro governo unitario che rinvii a un futuro molto più lontano le elezioni. Argomento centrale è che Dabeibah al momento della sua nomina, meno di un anno fa, aveva promesso che non si sarebbe ricandidato e dunque adesso dovrebbe farsi da parte. Haftar, tra l’altro, teme la candidatura del figlio di Gheddafi, che “pesca” consensi tra il suo elettorato. Ma la situazione resta del tutto fluida e ancora fuori controllo. Torna il boia in Giappone, protesta delle ong. Tokyo: “Lo vuole il popolo” di Serena Console Il Manifesto, 22 dicembre 2021 Condannati a morte tre detenuti, dopo una sospensione della pena capitale nel 2019. Polemiche anche sulle modalità: i prigionieri informati poche ore prima. Senza preavviso, non si può fare appello. Per tre anni il Giappone non ha eseguito alcuna condanna a morte. Ma il boia è tornato ieri, quando ha portato a termine le esecuzioni capitali per impiccagione di tre detenuti nel braccio della morte. Il ministro della Giustizia del governo Kishida, Yoshihisa Furukawa, ha blindato la pratica che vede il paese del G7, così come gli Usa, condannare a morte un essere umano. Già lo scorso ottobre il ministro aveva definito la pena capitale inevitabile per i crimini efferati e giudicati atroci dalla comunità, allontanando le speranze di una revisione dell’attuale ordinamento giuridico nipponico. Per il ministro Furukawa non c’era altra scelta: i tre detenuti avevano commesso reati “estremamente orribili”. Uno dei tre condannati, Yasutaka Fujishiro, 65 anni, è stato ritenuto colpevole di aver ucciso sette suoi parenti nella prefettura di Hyogo nel 2004. Gli altri due carcerati nel braccio della morte, Tomoaki Takanezawa e Mitsunori Onogawa, 54 e 44 anni, sono stati condannati per l’uccisione di due dipendenti in due diversi locali di gioco d’azzardo nel 2003. Il fermo di tre anni della pena capitale è stato preceduto da tre impiccagioni nel 2019 e da 15 eseguite un anno prima, quando sono stati condannati in massa i 13 membri della setta religiosa dell’Aum Shinrikyo, responsabili dell’attentato con gas nervino nella metropolitana di Tokyo nel 1995, nel quale morirono 14 persone. Con le ultime esecuzioni, i detenuti nel braccio della morte sono ora 107. Il governo di Tokyo sembra guardare i profili dei detenuti per giustificare il respingimento delle richieste di abolizione della pena capitale avanzate da Unione europea, gruppi per i diritti umani e di migliaia di avvocati e professionisti legali giapponesi. Le esecuzioni nel Paese vengono condotte quasi unicamente per impiccagione e riguardano in prevalenza pluriomicidi. E molto spesso avvengono in segreto, con i prigionieri nel braccio della morte informati solo poche ore prima dell’esecuzione. L’associazione degli avvocati giapponese definisce incostituzionale il mancato preavviso al detenuto: i legali così non possono appellarsi contro l’ordine di esecuzione della sentenza, lasciando i carcerati nell’agonia di vivere il loro ultimo giorno. Dopo le esecuzioni di ieri, il vice capo di gabinetto Seiji Kihara ha ribadito che non è appropriato abolire il sistema della pena capitale, a causa del verificarsi continuo di crimini efferati. L’esecutivo fa appello anche all’alto consenso popolare: una netta maggioranza dei cittadini giapponesi riconosce l’essenzialità di un provvedimento così atroce. In un sondaggio condotto nel novembre 2019 dall’Ufficio di Gabinetto, l’80% di 3mila intervistati si è detto a favore della pena capitale. I giapponesi ritengono che la condanna sia uno strumento per rispettare i sentimenti della famiglia della vittima e per impedire che il colpevole commetta altri reati. Le esecuzioni di ieri rischiano di inondare di polemiche il premier Fumio Kishida, insediatosi lo scorso ottobre. L’opposizione è sul piede di guerra e attacca il governo per aver scelto di eseguire le condanne in questo periodo dell’anno allo scopo di ridurre le critiche, visto che le attività del Parlamento sono sospese. Anche le ong puntano il dito contro Tokyo. La Death Penalty Project, nei suoi rapporti sulla pena capitale applicata in Giappone, ha sottolineato a più riprese il falso mito dell’alto indice di approvazione popolare sulle esecuzioni, adducibile a “seri problemi metodologici” nei sondaggi dell’esecutivo. Amnesty International, che ha ripetutamente invitato il Giappone a stabilire un’immediata moratoria ufficiale su tutte le esecuzioni come primo passo verso l’abolizione totale, ha giudicato “sconcertante” l’opposizione di Tokyo a porre fine all’uso della pena capitale. Haiti, la fuga dei missionari di Gianni Riotta La Stampa, 22 dicembre 2021 In marcia per tutta la notte: “Ci orientavamo con le stelle”. Erano stati sequestrati da una gang a ottobre. Il reverendo Cyrus Scofield, veterano della Guerra Civile americana e studioso della Bibbia scomparso nel 1921, credeva che Gesù sarebbe tornato sulla terra quando tutti gli esseri umani si fossero convertiti al cristianesimo e, per accelerare il miracolo, fondò centri missionari in America Latina. Mai l’austero pastore Scofield avrebbe però immaginato che, 131 anni dopo, un audace gruppo di suoi eredi, uomini in pantaloni di tela kaki chinos, donne in abiti a fiori lunghi fino ai piedi nella tradizione delle chiese antiche, adolescenti e bambini al seguito, sarebbe fuggito tra mille pericoli ad Haiti, per salvarsi da una gang di criminali. Il gruppo, legato a Christian Aid Ministries, organizzazione di missionari amish, anabattisti e mennoniti, dal 1981 con base in Ohio, era stato sequestrato dalla banda 400 Mazowo di Haiti, che chiedeva un riscatto di 800.000 euro ad ostaggio, pena la morte. Dal sito di Cam, i fedeli raccoglievano offerte, preghiere e appelli ma mai le collette di base avrebbero colmato la richiesta, malgrado la Chiesa cattolica avesse offerto collaborazione. L’esercito e l’intelligence Usa, il gruppo aveva cittadini americani e canadesi, avevano provato ad attivarsi nella sfortunata terra di Haiti, sempre battuta da epidemie, dall’Aids al Covid, terremoti, disordini civili, povertà. Qualche fonte parla di un pagamento sottobanco, l’amministrazione del presidente Joe Biden nega, ma intanto, sulla rete, si narra la saga della fuga nella notte, con i missionari e le loro famiglie a marciare nell’oscurità, orientandosi con le costellazioni come antichi marinari, i bambini tenuti per mano, le donne ad alzarsi l’orlo della gonna per non inciampare nelle radici, gli “anziani”, per rango di gerarchia, a sussurrare preghiere e inni per incoraggiare i giovani. I dodici missionari, con i familiari, erano stati trascinati in ottobre, dopo il rilascio di cinque confratelli, in una zona rurale nei pressi della cittadina di Ganthier, a Est della capitale Port-au-Prince, con i suoi slum poverissimi. Un rancio misero è stato passato quando i rapitori potevano disporre di qualche scorta, l’acqua da bere era torbida, quella per lavarsi contaminata, piagando gli ostaggi con eczemi e irritazioni cutanee. Qui la narrazione di Weston Showalter, portavoce di Christian Aid Ministries, si fa opaca, come se ci fosse qualche particolare da non divulgare, forse la cifra data in pegno alle gang o a qualcuno dei criminali per lasciar scappare le vittime. Pare che, “malgrado molte guardie controllassero il gruppo, inclusa una coppia con marito e moglie, due teenager di 14 e 15 anni, un bambino di tre e uno di soli dieci mesi”, i missionari siano riusciti ad eludere la sorveglianza e scomparire nella notte. La boscaglia, fitta di rovi e piante grasse irte di spine, ha creato problemi a tutti, ma soprattutto ai piccoli, che le madri avvolgevano in scialli e plaid. In testa alla fila, un paio di pastori esperti di navigazione cercava di decifrare la direzione, per non tornare nelle mani dei rapitori. Alle prime luci dell’alba, tra le preghiere di ringraziamento, il gruppo si è imbattuto in un viandante con un cellulare, che ha avvertito le autorità locali, e un aereo della US Coast Guard ha riportato tutti in patria. Responsabile del rapimento è la gang 400 Mazowo, in dialetto 400 sempliciotti, che ha ordito la maggior parte degli 800 sequestri ad Haiti quest’anno, controllando l’area Ganthier in Croix-des-Bouquets, chiedendo pizzo a cittadini e commercianti, picchiando chi non paga, accanendosi contro preti e suore cattolici. I giornalisti che si occupano di 400 Mazowo vengono minacciati, chi non si piega al loro dominio ha la casa bruciata, le donne della famiglia stuprate. Il capo dei 400 Mazowo, Wilson Joseph, ricercato, usa il nomignolo di Lanmò Sanjou, in Creolo “la morte non sa quando arriva”. Il suo vice Joly Germine, detto Yonion, è in galera e si spera collabori con le autorità ma, dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse, lo scorso luglio, la politica è anarchia e la corruzione dilagante. Se a salvare i missionari sia stato Dio, le stelle o un pacchetto di dollari in contati non ci è dato sapere, ma che la loro sorte sarà presto condivisa da altri infelici è purtroppo certo nella Haiti senza pace, in attesa del remoto ritorno di Gesù auspicato da Scofield.