Con il Covid abbiamo capito che le carceri vanno cambiate di Kira Schacht Il Domani, 21 dicembre 2021 L’arrivo della pandemia ha reso più evidenti i problemi strutturali delle prigioni, ma anche il fatto che il numero dei detenuti può diminuire senza causare troppi problemi sociali. Intanto però l’aumento dei contagi è stato affrontato nel peggiore dei modi. Vangelis Stathopoulos, detenuto nella prigione greca di Larissa, fa parte dell’oltre mezzo milione di persone incarcerate in Europa durante la pandemia di Covid-19. Come tante altre carceri, quello di Larissa è un terreno fertile per la diffusione del virus: sovraffollato e con spazi ristretti e insalubri. “Ho avuto il Covid lo scorso dicembre. Circa metà dei detenuti erano malati allo stesso momento”, dice Stathopoulos. “Siamo stati spostati in un’ala del carcere con altre 60 persone, in uno spazio di circa 110 metri quadrati. Non sapevamo quanto si sarebbe aggravato il nostro stato di salute”. Durante la pandemia, ci siamo abituati a essere meticolosamente aggiornati sul Covid-19 e abbiamo sorvegliato gli ambienti in cui c’è un più alto rischio di sviluppo di focolai, come ad esempio le case di cura. Al contrario, invece, sono pochi i dati pubblici sulla diffusione del virus nei penitenziari. Lo European Data Journalism Network (EDJNet), attraverso la collaborazione di 11 redazioni giornalistiche coordinate da Deutsche Welle, ha raccolto dati in 32 paesi che rivelano quanti casi e quanti decessi sono stati riportati nelle carceri, come sono stati gestiti i piani vaccinali, e quali misure sono state prese per frenare la diffusione del virus. Detenuti più a rischio - “Molte carceri sono sovraffollate e senza la possibilità di applicare le misure di distanziamento sociale”, dice Filipa Alves da Costa, una consulente sanitaria del programma Health in Prisons dell’Organizzazione mondiale della sanità. “Quindi, quando il virus entra, si trasmette molto più facilmente”. Da Costa afferma che il rischio nelle carceri è simile a quello corso dalle persone che vivono in strutture residenziali, come le case di cura e i centri di accoglienza. I numerosi detenuti affetti da HIV, tabagisti, o consumatori di altre droghe sono sottoposti a un alto rischio di contrarre il Covid-19. Secondo l’Oms, l’emarginazione, la povertà e il difficile accesso alle cure sanitarie sono problemi che spesso colpiscono queste persone ben prima dell’incarcerazione; le condizioni trovate in carcere non fanno altro che peggiorare la situazione. “Consideriamo addirittura già anziani i detenuti di 50 anni, una cosa che non succederebbe al di fuori del carcere”, dice da Costa. Il Covid colpisce tutti - Nei penitenziari, la diffusione della pandemia non colpisce solo i detenuti e il personale, ma anche la comunità circostante. “Non è un ambiente del tutto isolato”, spiega Da Costa. “Le persone entrano ed escono da qui ogni giorno. Non solo il personale, ma anche i fornitori, gli avvocati e i detenuti stessi. Di conseguenza, se non si proteggono le carceri, non si protegge la comunità”. Negli Stati Uniti, dove nel 2020 il virus si è rapidamente diffuso, diversi studi hanno rivelato come le epidemie nelle carceri si diffondano nella popolazione circostante. Uno studio su scala nazionale ha dimostrato che i casi di Covid-19 aumentano più rapidamente nelle regioni in cui c’è un maggior numero di persone detenute; lo studio inoltre collega l’incarcerazione di massa a più di mezzo milione di casi aggiuntivi di Covid-19, dentro e fuori i penitenziari. L’interruzione delle attività - Uno studio condotto da alcuni ricercatori di Barcellona ha rivelato che la maggior parte dei paesi ha applicato il lockdown nelle carceri all’inizio della pandemia. Le visite sono state immediatamente interrotte o severamente limitate quasi ovunque. In molte carceri, anche lo sport, le attività ricreative e lavorative sono state sospese e i congedi penitenziari messi in attesa. “Persino le nostre lettere erano messe in quarantena”, ricorda Casaba Vass, detenuto in Ungheria. Paesi come la Germania, il Belgio e l’Ungheria sottoponevano alla quarantena i nuovi arrivati e i detenuti che presentavano sintomi. La percentuale di contagi nelle carceri rispecchia quella generale - I dati raccolti per questa indagine mostrano che, a prima vista, queste misure sembrano aver contribuito a evitare il peggio. Le carceri, tutto sommato, non sono diventate focolai di Covid; secondo i dati disponibili, in molti paesi il tasso di positività nelle carceri si avvicina a quello della popolazione generale. Quando la percentuale dei contagi era alta nella popolazione generale, infatti, tendeva ad aumentare anche nelle carceri. Questo si è verificato, per esempio, in paesi come la Slovenia, l’Estonia e il Belgio, dove oltre una persona su 10 è risultata positiva al tampone. In paesi come la Croazia e la Grecia, la percentuale di detenuti positivi è molto più alta rispetto alla popolazione generale. Tuttavia, secondo i dati più recenti, in molti paesi i casi segnalati nelle carceri sono rimasti sotto la percentuale dei casi di Covid della popolazione generale (anche in Ungheria e in Francia, dove le prigioni sono notoriamente sovraffollate). Anche nei paesi con tassi di contagio più bassi, i penitenziari possono diventare grandi focolai. Recentemente, nel carcere francese di Béziers che attualmente confina 638 persone in uno spazio costruito per 389, più di 50 persone sono risultate positive al tampone. I casi e i decessi potrebbero essere sottostimati - Non sempre i numeri ufficiali raccontano tutta la storia. La maggior parte delle amministrazioni penitenziarie non raccolgono i dati sistematicamente, dice Adriano Martufi ricercatore all’Università di Leiden sulle condizioni delle carceri in Europa. “A mio avviso c’è un problema di stime al ribasso”, afferma Martufi. Il carcere greco di Larissa, per esempio, ha segnalato solo 200 casi ufficiali fino a luglio 2021. Stathopoulos afferma di averne contati molti di più. “Solo tra dicembre 2020 e oggi, penso di aver contato almeno 500 casi”, dice. Questa stima al ribasso potrebbe non essere intenzionale ma rappresentare, invece, un problema di organizzazione. “I servizi sanitari nelle carceri sono a corto di personale e di materiale”, dice Martufi. “Non sono nemmeno sicuro che abbiano le capacità tecniche necessarie per raccogliere e gestire tali dati”. Pochi contagi ma a un prezzo esorbitante - Nonostante il numero di contagi sia considerato in scala nominale, le stesse restrizioni imposte per frenare la diffusione del coronavirus hanno effetti secondari. “La tragedia che temevamo non si è verificata, ma ci sono stati enormi sacrifici per la popolazione carceraria: niente attività, insegnamento, o quel poco lavoro che c’è in prigione, e non solo”, dice Dominique Simonnot, Contrôleur général des lieux de privation de liberté (Controllore generale dei luoghi di privazione di libertà) per il governo francese. “A livello sociale, il prezzo è esorbitante”. Negli ultimi 18 mesi, molte prigioni sono state isolate più del solito. In un carcere di Malta, le cui condizioni degradanti erano già state condannate nel 2013 dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, i nuovi detenuti venivano chiusi in una cella per 23 ore al giorno per due settimane, con un materasso appoggiato per terra e un bagno alla turca. La quarantena comporta gravi rischi per la salute - Le regole di Nelson Mandela adottate dall’Onu e le Regole minime per il trattamento dei detenuti, affermano che l’isolamento dev’essere utilizzato come ultima risorsa, per il più breve tempo possibile e mai per più di 15 giorni. Tuttavia, durante la pandemia l’isolamento dei detenuti è diventato una misura standard in molti paesi. In Irlanda, i detenuti dai 70 anni in su o affetti da malattie croniche sono stati automaticamente messi in isolamento tra aprile e giugno 2020 e in molti hanno riferito di aver sofferto di depressione e istinti suicidi. In alcune strutture in Germania, i detenuti in attesa di giudizio sono stati isolati per 14 giorni dopo ogni udienza. In Francia, una quarantena di due settimane era obbligatoria dopo ogni congedo, visita familiare o trattamento medico eseguito in ambulatorio, dice Dominique Simonnoti. “Di conseguenza, alcuni rifiutano questi spostamenti, con tutti i rischi che questo comporta per la loro salute”. Anche le persone che non erano in quarantena erano spesso isolate nelle loro celle per gran parte della giornata. Con le visite annullate salta l’ancora di salvezza - Il divieto delle visite è stata una restrizione particolarmente difficile per i detenuti. “Le visite sono estremamente importanti”, dice Catherine Heard, direttrice del World Prison Research Programme. “È difficile spiegare quanta differenza faccia per i detenuti avere la possibilità di rimanere in contatto con le loro famiglie”. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, i detenuti hanno il diritto di avere una vita familiare. A ottobre 2020, nel carcere di Rec, in Albania, i detenuti hanno fatto uno sciopero della fame per protestare contro la sospensione delle visite da quando è iniziata la pandemia. Da marzo 2020 hanno potuto contattare le loro famiglie solo per telefono. In Ungheria, dice Vass, “prima della pandemia avevamo due ore e mezza di contatto fisico due volte al mese: questo divieto ha causato problemi molto seri alla nostra salute mentale”. Il carcere ha poi messo a disposizione le videochiamate per permettere almeno le visite virtuali. “Questo ha reso la situazione più sostenibile”, dice. La maggior parte dei paesi ha introdotto la possibilità di visite virtuali, anche se le connessioni internet non all’altezza e le restrizioni imposte ai detenuti pongono ancora problemi. “In molti penitenziari europei c’è stato un grande passo avanti per sviluppare sistemi di videoconferenza”, dice Martufi. “Prima della pandemia tutto questo era assolutamente impensabile in molti paesi Ue. C’è stato uno sviluppo positivo”. Martufi dice che il rischio di queste disposizioni è che le carceri potrebbero tentare di sostituire a lungo termine le visite di presenza con le videochiamate. “Secondo alcune segnalazioni che abbiamo ricevuto, alcune amministrazioni penitenziarie avrebbero detto: “Adesso che hai Skype, puoi vivere con quello, non c’è più bisogno che ti sia permesso di incontrare la tua famiglia o i tuoi avvocati”, dice Martufi. “Non sappiamo ancora quanto sia sistematico questo cambiamento, ma temiamo che le cose non cambieranno nemmeno quando la pandemia sarà finita”. A parte le videochiamate, Catherine Heard non vede molti sforzi fatti per mitigare gli effetti delle restrizioni. “Non mi viene in mente nulla di veramente significativo che sia stato fatto”, dice. “Si è persa una grande opportunità, per esempio, di fornire materiale di lettura, informazioni registrate o l’accesso a lezioni online. C’erano tante cose che avrebbero potuto essere fatte, che avrebbero dovuto essere fatte, ma non sono state fatte”. I Paesi Bassi sono stati uno dei paesi in grado di riavviare le attività nelle carceri in tempi relativamente brevi attraverso schemi a rotazione o gruppi più piccoli e fissi, dice Heard. Ma la maggior parte dei paesi non ha messo in atto tali misure. I problemi strutturali hanno aggravato la situazione - Come in tanti altri settori della società, la situazione nelle carceri è stata aggravata da problemi strutturali già presenti da molto prima della pandemia. “Nei penitenziari maggiormente sovraffollati, dove le misure di distanziamento sociale sono impossibili da attuare, sono state adottate restrizioni più severe e prolungate”, dice Heard. La mancanza di spazio rende le misure di distanziamento sociale impossibili da attuare, e le misure alternative sono ostacolate dalla mancanza di personale. “Se non c’è personale per spostare le persone, non si può fare altro che tenerle chiuse nelle loro celle per la maggior parte del giorno e della notte”, spiega. Ricercatori, ong e detenuti parlano ripetutamente del sovraffollamento come la chiave del problema. Un terzo dei paesi europei ha infatti una popolazione carceraria che supera le capacità del sistema penitenziario. In molte singole prigioni, la situazione è molto peggiore di quanto appare guardando alla media del paese. “Mi trovo in una cella destinata a cinque persone: ora siamo in otto. È impossibile mantenere la distanza di sicurezza”, ha detto un detenuto in sciopero della fame a una testata croata all’inizio della pandemia nel marzo 2020. “Non possiamo vedere le nostre mogli e i nostri figli, e, che Dio non voglia, forse alcuni di noi non li rivedranno mai più. Ci sentiamo come detenuti nel braccio della morte, in attesa che il coronavirus irrompa nella prigione”. Durante la prima ondata, molti paesi europei hanno liberato un numero di detenuti senza precedenti per ridurre la pressione sulle carceri. “È quello che gli esperti dicono di fare da due anni, ma era politicamente troppo spaventoso”, dice Heard. “Penso che il Covid abbia dato a diversi paesi una scusa per ridurre silenziosamente il loro numero di detenuti”. Heard ha calcolato che tra marzo 2020 e giugno 2021 la popolazione carceraria è stata ridotta di ben mezzo milione di persone. Paesi come la Slovenia, il Belgio, la Francia e l’Italia, le cui popolazioni carcerarie superavano le capacità del sistema penitenziario già da prima, hanno ridotto il numero di detenuti fino al 25 percento, portandolo al livello o al di sotto della capacità ufficiale. “I paesi avranno imparato che si può ridurre il numero di detenuti senza che il cielo crolli”, dice Heard. Con la pandemia, la salute pubblica diventa una ragione per ridurre le popolazioni carcerarie ed è vitale che i paesi continuino a portare avanti questa tendenza. La popolazione carceraria è di nuovo in aumento - Tuttavia, molti paesi sembrano invertire i progressi fatti dalla primavera 2020. Dopo un calo iniziale, la popolazione carceraria sta aumentando di nuovo in circa la metà dei paesi europei presi in considerazione, in alcuni casi superando anche le cifre iniziali. Le carceri francesi e slovene, per esempio, sono tornate ad essere sovraffollate a livello nazionale, e molte singole prigioni si trovano in situazioni ancora peggiori. Vaccinazioni in ritardo - Con i problemi strutturali che aggravano una situazione già complicata, un “ritorno alla normalità” nelle carceri dipende dalle vaccinazioni, come nel resto della società. “Quando è stato annunciato che ci sarebbe stato un vaccino, le persone si sono calmate”, dice Vass. “Per quanto ne so, quasi tutti i detenuti si sono vaccinati. Io ho ricevuto la prima dose a maggio, la seconda a giugno e, come molti, la terza a settembre”. Non tutti hanno ricevuto la loro dose di vaccino e una delle ragioni di questo ritardo è che, nonostante l’alto rischio per i detenuti, per il personale e per la popolazione generale, la maggior parte dei paesi europei non ha incluso i detenuti nelle categorie prioritarie dei piani di vaccinazione. Molti di loro non li hanno nemmeno nominati. In Germania, per esempio, è stata esplicitamente data la priorità alle persone che vivono in strutture residenziali come le case di cura, ma i detenuti erano comunque vaccinati contemporaneamente al resto della popolazione. “Ci sono state indicazioni importanti da parte di organizzazioni sovranazionali indipendenti sul fatto che i detenuti dovrebbero avere la priorità”, dice Martufi. “È un buon esempio dell’assoluta discrepanza tra le indicazioni politiche da un lato e la realtà dall’altra”. Molti attribuiscono questa situazione a una mancanza di volontà politica. In alcuni casi, dice Martufi, la politica ha addirittura ostacolato l’accesso anticipato al vaccino. “In Belgio, la priorità dei detenuti è diventata una questione politica”, afferma, “e, di conseguenza, i detenuti sono stati esclusi dalla campagna vaccinale fino alla fine”. In Italia, invece, la decisione di dare ai detenuti l’accesso prioritario ai vaccini è stata una decisione amministrativa, presa senza suscitare un grande dibattito pubblico. Questo ha fatto sì che l’inizio delle vaccinazioni nelle carceri è stato ritardato significativamente e che alcuni paesi non hanno somministrato nemmeno una dose prima di giugno, mentre altri hanno riferito di aver iniziato già a fine marzo. Affrontare il secondo inverno di pandemia - Le vaccinazioni nelle carceri di diversi paesi hanno finalmente raggiunto i numeri dei vaccini somministrati nella popolazione generale e in estate la curva dei contagi si è abbassata. Questo ha permesso ai detenuti di ricevere visite e di riprendere le attività, sempre nel rispetto delle misure sanitarie. Tuttavia, con l’inverno alle porte e la prossima ondata in arrivo nella maggior parte dei paesi europei, la pandemia non è finita per nessuno, e certamente non per i detenuti. “Non riavremo presto la nostra vecchia vita e i nostri privilegi”, dice Csaba Vass in Ungheria. In Italia, i dati settimanali mostrano un aumento dei casi positivi tra il personale e i detenuti. Inoltre, il ministro della Giustizia croato ha recentemente confermato che più del 20 percento dei detenuti ha avuto il coronavirus, circa 1,5 volte il tasso della popolazione in generale. Lezioni per il futuro - Gli esperti affermano che i paesi devono ridurre drasticamente la loro popolazione carceraria per essere preparati a situazioni simili in futuro. “Non possiamo affrontare un’altra crisi sanitaria con un così alto numero di persone incarcerate in tutta Europa”, dice Martufi. “I numeri devono diminuire”. Ma gli osservatori hanno anche motivi per essere ottimisti. “Il Covid dovrebbe essere un campanello d’allarme per investire in un miglioramento delle condizioni detentive e per ridurre l’uso della misura carceraria”, dice Catherine Heard. Perché quel campanello d’allarme sia ascoltato, l’interesse pubblico e la volontà politica sono fondamentali. “È ora di ripensare la nostra percezione dei detenuti come cittadini di seconda classe”, dice Martufi. “Non possiamo permettere che qualcuno venga lasciato indietro. È peggio per tutti”. Perché le donne in carcere sono (troppo spesso) ignorate dai gruppi femministi? di Carlotta Sisti Elle, 21 dicembre 2021 Il sondaggio di Women Beyond Walls rileva che il 70% dei gruppi che lavorano con le donne incarcerate non riceve fondi dalle associazioni per i diritti delle donne. Un’ingenuità contemporanea, o, a seconda dei punti di vista, una furberia frutto di interesse (parola che comparirà spesso in questo articolo) è quella che si impone di negare il legame tra marketing ed attivismo, in particolare quello che vive e parla attraverso i social. Il dialogo intimo che parla di opportunismo tra ciò che è utile ad una società capitalista e ciò che è “spendibile”, in termini di impegno e divulgazione, sulle piattaforme che del visivo, dell’immagine, si nutrono, è un dato di fatto. Ma è anche un tabù, che crea imbarazzo a chi s’è creato un possente seguito su Instagram o TikTok parlando dei temi caldi del momento. Non si vuole negare la sincerità di intenti che mira a sensibilizzare o anche a tramutare un pensiero in azione solidale, in una scesa in piazza o anche solo in un mutamento, piccolo o grande, dei comportamenti individuali. Ma come analizzava Irene Graziosi in un pezzo che affondava nelle ragioni dell’attivismo performativo, questo stesso “non è una novità. Esiste da prima dei social, ma ha visto nuovo lustro grazie alla pandemia e a una spropositata quantità di tempo trascorsa a chiedersi come essere visti e far carriera. Assistiamo attoniti a quel conoscente un tempo ignavo che improvvisamente ha iniziato a farsi paladino di una qualunque causa etica pescata dal mazzo, di solito quella più vicina alla propria identità - niente è più semplice di parlare di se stessi”. In quest’ottica di, di nuovo, interesse per chi ha in mano la, letteralmente, moneta di scambio tra divulgazione via social e topic trattati, ci sono inevitabilmente zone d’ombra, trascurate perché poco allettanti, escluse perché troppe prive di appeal. Ecco, le donne carcerate, per usare un termine piuttosto truce e forse pure un po’ desueto, non tirano. A dircelo, oggi, è l’avvocato e attivista Sabrina Mahtani, che denuncia come “il movimento femminista globale non si impegni nel sostenere le organizzazioni che lavorano con le donne in carcere, poiché i donatori evitano di finanziare progetti rivolti a persone con narrazioni “complicate”. La complessità umana, i grigi, la fallibilità, non gode di grande sostegno: si preferisce decisamente seguire il flusso dell’attivista perfetto, che riesce a far combaciare in un solo essere umano, tutte le virtù care alla modernità. Dal femminismo all’ecologismo all’anti razzismo all’anti omofobia fino all’alleanza con la comunità Lgbtqi+, tutto deve essere allineato, perché le sbavature, si sa, saranno, punite. Mahtani, fondatrice di Women Beyond Walls (WBW), afferma anche che molte ONG in tutto il mondo stanno svolgendo un lavoro vitale “sostenendo alcune delle donne più emarginate e trascurate” nella società, compresa la fornitura di servizi legali essenziali e la riduzione dei tempi di custodia cautelare, il il loro futuro resta comunque molto insicuro, in parte a causa di finanziamenti insufficienti da parte delle principali organizzazioni femministe e di altri donatori. In un sondaggio pubblicato da WBW, emerge che oltre il 60% delle organizzazioni che lavorano con le donne che vivono in carcere dice di trovarsi in una situazione finanziaria precaria, mentre più di un quarto ha affermato che potrebbero non essere in grado di continuare ad operare il prossimo anno, sempre a causa della mancanza di fondi. Ma il dato forse più sorprendente, tuttavia, è che “oltre il 70% dei gruppi che operano al fianco delle carcerate di tutto il mondo, ha affermato di non aver ricevuto affatto finanziamenti dai gruppi per i diritti delle donne o dalle fondazioni femministe. “Le fondazioni che finanziano le organizzazioni femministe - ha analizzato con amarezza Mahtani - non sono interessate ai problemi che gravano sulle vite si chi sta dietro le sbarre”. Per poi aggiungere quello che è il punto focale della questione: “In genere c’è una percezione negativa delle donne in carcere e delle detenute, ed è questa percezione che rende difficile alla società sostenerle, affiancarle. La questione del crimine non è mai un interesse (di nuovo) per la maggior parte dei donatori o finanziatori aziendali, che per la maggior parte scelgono di non associare il proprio nome alle carceri”. Nel più ampio movimento per i diritti delle donne, dunque, è molto difficile che si decida di abbracciare il lavoro che gravita intorno al mondo delle prigioni, al punto che i finanziatori escludono di netto tali iniziative. E, inoltre, basano la loro argomentazione sul “piccolo” numero di donne carcerate, rispetto al numero di uomini (Sebbene manchino dati precisi, il Penal Reform International ha stimato la popolazione carceraria femminile globale a circa 740.000, all’incirca il 7% del totale globale). Scarso appeal, scarsa partecipazione, scarsissimo investimento di denaro e anche di immagine. Mahtani, che è zambiana-britannico, pensa che le detenute siano “alcune delle donne più emarginate al mondo, e non dovremmo guardare ai numeri, dovremmo guardare a chi sono le donne che hanno più bisogno di sostegno e aiuto. Questo è un principio fondamentale dei princìpi di finanziamento femminista: finanziare coloro che sono più sottoposte all’oppressione di genere”. Ci piace forse, nonostante i proclami di inclusività ed empatia, sostenere sì le donne, purché se si inseriscano nello stereotipo di ciò che è ‘vendibile’? Probabilmente più di quanto si sia pronti ad ammettere. Come valutare i magistrati. I nuovi giudizi di professionalità di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 21 dicembre 2021 Le valutazioni di professionalità dei magistrati, cioè i giudizi formulati su di loro ogni quattro anni, sulla base del parere degli organismi locali del Csm, i Consigli giudiziari, sono da tempo oggetto di forti polemiche perché si concludono nel 99% dei casi con esito positivo e, soprattutto, senza offrire al Csm elementi per le valutazioni successive, per il conferimento degli incarichi direttivi o semi-direttivi. Stando alle notizie disponibili, il governo proporrebbe l’introduzione di due novità: un giudizio articolato in “discreto, buono, ottimo” e la partecipazione degli avvocati con diritto di voto alle delibere dei Consigli giudiziari su questo argomento. Due modifiche a mio avviso positive. La prima dovrebbe consentire, o - forse - obbligare, i Consigli giudiziari, che ben conoscono i magistrati del distretto, ad articolare i giudizi in modo più specifico e completo, distinguendo in modo più realistico i loro diversi livelli di professionalità. Una responsabilità, questa, che ricade innanzitutto sui Capi degli uffici, i cui rapporti informativi sono alla base del complesso iter che si conclude con la valutazione. L’intervento degli avvocati è, a sua volta, uno strumento prezioso, che può offrire al Consiglio giudiziario un punto di vista e una sensibilità diversi da quelli dei componenti togati. Non credo poi che ciò costituisca un insuperabile conflitto di interessi, perché lo stesso conflitto potrebbe immaginarsi anche tra pm e giudici o tra giudici delle diverse fasi del processo. E in ogni caso la valutazione finale sarà la sintesi dei pareri espressi dai rappresentanti qualificati delle due categorie. Trovo anche importante che ciascuna componente si assuma la responsabilità di decisioni di tanto rilievo per il buon andamento del servizio da rendere ai cittadini. Così come è opportuno che tutti sperimentino la difficoltà di sottoscrivere un parere negativo, impugnabile al Tar, senza poter sindacare in alcun modo il merito dei provvedimenti, come impone la legge a tutela dell’indipendenza di ogni magistrato. Non condivido, invece, l’ipotesi secondo cui gli avvocati dovrebbero limitarsi a riferire nel Consiglio giudiziario il voto espresso dal loro Ordine: si tratterebbe di un dato cristallizzato che non terrebbe conto del dibattito con gli altri componenti né di elementi sopravvenuti quali, per esempio, l’audizione dell’interessato. Le valutazioni di professionalità dovranno anche considerare in modo più incisivo di quanto già non avvenga i risultati del lavoro, cioè della conferma che le richieste di un pm o i provvedimenti di un giudice abbiano o meno ricevuto nelle fasi successive di un processo. Il che non significa, contrariamente a quanto talvolta viene sostenuto polemicamente, che ogni decisione diversa qualifichi la precedente come un errore da imputare al magistrato. Per amministrare giustizia non basta un robot, per quanto evoluto. Anzi, come diceva Rosario Livatino, “decidere è scegliere. E scegliere è tra le cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare”. Una sentenza di assoluzione non significa che fosse sbagliato il rinvio a giudizio. Ancora oggi, e finché non sarà completata su questo punto la riforma Cartabia, per il rinvio a giudizio pm e gup devono valutare non la probabilità di condanna, ma solo la presenza di elementi che possano sostenere l’accusa a dibattimento. Senza dire che molte delle risultanze di prova raccolte dal pm (a cominciare dalle testimonianze) in udienza e nel contraddittorio delle parti possono cambiare, così come è fisiologico che la difesa offra altri elementi mai prima rappresentati. Per non parlare del caso, tutt’altro che infrequente, di un cambiamento delle norme o della giurisprudenza della Cassazione. Allo stesso modo, la scarcerazione del detenuto o la concessione dei domiciliari da parte del gip non significa che un arresto fosse “sbagliato”, perché con l’interrogatorio di garanzia, anche dei coimputati, possono intervenire ammissioni totali o parziali, o si possono attenuare le esigenze cautelari grazie a nuove acquisizioni emerse proprio al momento dell’arresto o delle perquisizioni. E gli esempi potrebbero continuare. Per questo, come ha rilevato il presidente delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, si deve tener conto solo degli scostamenti molto significativi, tali da indicare un fenomeno patologico. Anche per evitare - aggiungo - un forzato allineamento dei magistrati di merito alla giurisprudenza dominante, che impedirebbe ogni evoluzione dei giudizi, spesso invece indispensabile dati i continui mutamenti in tanti settori (bioetica, ambiente, economia e finanza, per citarne alcuni), tipici di una società complessa come la nostra. Csm, i dirigenti della Giustizia contro la norma che limita le porte girevoli tra toghe e politica Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2021 “I magistrati non sanno fare tutto”. La previsione di mandare a lavorare in via Arenula i magistrati non eletti e quelli che hanno concluso l’esperienza in politica ha fatto scendere sul piede di guerra i dirigenti del ministero della Giustizia che hanno inviato una lettera aperta alla ministra Cartabia: “I magistrati - scrivono - non sono ‘figli di un Dio maggiore’ che li abilita a fare tutto”. Inserire al ministero della Giustizia i magistrati che tornano in servizio dopo la candidatura o il mandato elettorale? “Una prospettiva da scongiurare, per il bene della nostra amministrazione, oltre che per l’autorevolezza e la funzionalità della macchina amministrativa pubblica”. A protestare contro l’ultima soluzione trovata da via Arenula per riformare il Csm e l’ordinamento giudiziario è l’associazione dirigenti Giustizia, che raduna i dirigenti dell’amministrazione giudiziaria. Per limitare le porte girevoli tra politica e magistratura, infatti, la guardasigilli, Marta Cartabia, era tornata alla norma contenuta nel disegno di legge dell’ex ministro Alfonso Bonafede: prevede che dopo la candidatura (o il mandato elettorale, in caso di elezione) i magistrati non possano svolgere funzioni giudiziarie, ma saranno inseriti in un apposito ruolo presso il ministero della Giustizia. L’ipotesi inizialmente presentata ai partiti e all’Associazione nazionale magistrati, invece, consentiva il ritorno in magistratura con delle limitazioni, quali il cambio di distretto o il divieto di svolgere le funzioni più delicate. La previsione di mandare a lavorare in via Arenula i magistrati non eletti e quelli che hanno concluso l’esperienza in politica, invece, ha fatto scendere sul piede di guerra i dirigenti del ministero della Giustizia che hanno inviato una lettera aperta a Cartabia. Per i dirigenti del ministero i magistrati “non sono, in quanto tali, in grado di ricoprire ogni ruolo. Sono reclutati in base ad un impegnativo percorso volto a selezionare chi è adatto all’esercizio della giurisdizione. Non sono ‘figli di un Dio maggiore’ che li abilita a fare tutto - attaccano. I dirigenti della pubblica amministrazione attingono il loro sapere e le loro capacità professionali da un percorso completamente diverso. La possibilità di ottenere una posizione presso il ministero, candidandosi a incarichi politici anche senza successo, determinerebbe una corsa opportunistica, specie da parte di coloro che lascerebbero volentieri una sede lontana (e magari disagiata e gravida di qualche rischio) per tornare a Roma”. Insomma secondo i dirigenti di via Arenula ci sarebbero pure i magistrati pronti a candidarsi pur di andare a lavorare nella Capitale. “La pletora di ex magistrati altererebbe la funzionalità dell’apparato ministeriale e creerebbe non poco imbarazzo a tutti - continuano - Deve essere piuttosto prevenuta a priori ogni contiguità che consenta ai magistrati in ruolo, e anche a quelli fuori ruolo il cui numero va per questo drasticamente ridotto, di usare le proprie funzioni come trampolino di lancio verso incarichi politici e di governo, mettendo così a rischio la imprescindibile autonomia e indipendenza della giurisdizione. Se è rispettabile l’intento di evitare le ‘porte girevoli’ tra politica e magistratura, non si può risolvere il problema spalancando le porte dei ministeri ai magistrati politici mancati. Si tratta - conclude la lettera alla ministra - di un rimedio decisamente peggiore del male che vuole contrastare. Lesivo della dignità e della necessaria distinzione delle funzioni giurisdizionale, di indirizzo politico, di gestione amministrativa”. Presunzione d’innocenza, la norma mette in riga le procure italiane di Errico Novi Il Dubbio, 21 dicembre 2021 Procure blindate sulle notizie di cronaca e i giornalisti non la prendono bene. Così i pm stanno osservando la normativa sulla presunzione d’innocenza. L’applicazione della legge sulla presunzione d’innocenza voluta dal ministro della Giustizia Marta Cartabia sta cambiando le modalità di comunicazione delle notizie di cronaca nera e giudiziaria. Diversi procuratori hanno già scritto o lo stanno facendo documenti rivolti a cronisti e forze dell’ordine in cui rendono concreto il principio chiave della norma entrata in vigore il 14 dicembre, quello di monopolizzare il potere di divulgare le informazioni sui procedimenti penali nelle mani del capo dell’ufficio inquirente. La svolta ha determinato malumori tra i giornalisti, che si sentono limitati nel diritto di cronaca, e interpretazioni, anche molto diverse tra loro, della legge. Presunzione d’innocenza: qui Como - I carabinieri di Como hanno riferito ai giornalisti che il procuratore locale, Nicola Piacente, gli ha comunicato che “d’ora in avanti ogni comunicazione fatta da noi a voi dovrà necessariamente avere il preventivo assenso dell’autorità giudiziaria che verrà concesso in presenza di due requisiti: che il soggetto interessato è da ritenersi innocente sino a intervenuta sentenza; che vi sia un pubblico interesse a diffondere la notizia stampa”. Così sta succedendo in altre realtà lombarde in cui non vengono più dati i nomi degli arrestati che, secondo la legge, possono essere resi noti solo quando sia necessario per garantire un’effettiva completezza dell’informazione, e notizie che prima in autonomia le forze dell’ordine ritenevano meritevoli di essere diffuse ora vengono “bloccate” dai procuratori. Dura la presa di posizione del Gruppo Cronisti lombardi: “Dobbiamo sottolineare come la restrizione in capo a pochi soggetti di cosa sia possibile raccontare rischia di determinare una “selezione a monte” delle notizie, cioè che vengano fatte filtrare solo quelle favorevoli o di interesse agli organi inquirenti, producendo così una distorsione della narrazione del Paese”. Tra le altre cose si lamenta il fatto che le notizie vengano diffuse in modo non più tempestivo perchè bisogna attendere che il sostituto procuratore le comunichi al capo della Procura che a sua volta deve effettuare una sua valutazione. Una serie di passaggi che provocherebbe ritardi di ore nella comunicazione di un fatto. Presunzione d’innocenza: cosa succede da Palermo a Cagliari - A Palermo, c’è stata una repentina retromarcia dopo una prima interpretazione molto restrittiva della legge in cui non venivano più dati i nomi delle persone arrestate. I comunicati della Questura del capoluogo siciliano, ma è solo un esempio perché in tutte le città sono dello stesso tenore dall’entrata in vigore della legge, iniziano con la formula: “Giova precisare che gli odierni indagati sono, allo stato, indiziati in merito al reato contestato e che la loro posizione sarà definitiva solo dopo l’emissione di una, eventuale, sentenza passata in giudicato, in ossequio al principio costituzionale dell’innocenza”. A Taranto, due giorni fa i carabinieri hanno arrestato un uomo che aveva violato il divieto di avvicinamento ai genitori per due volte in tre giorni perché li picchiava. È stato fermato in flagranza di reato ma nel comunicato le forze dell’ordine hanno parlato di “presunta violazione del divieto di avvicinamento”. A Cagliari, il modello prefigurato dalla nuova legge era già stata introdotto un anno e mezzo fa dall’ex procuratrice Alessandra Pelagatti la quale, dopo una fuga di notizia giudicata grave, aveva accentrato il potere di comunicare le informazioni nelle mani del capo dell’ufficio. Per il procuratore di Napoli Giovanni Melillo la legge è molto buona in ottica garantista. “È un passaggio di grande valore culturale ed etico, che tutti dovrebbero accompagnare nella sua pratica realizzazione con consapevolezza e ancor più grande responsabilità” ha dichiarato al ‘Fogliò. Presunzione d’innocenza, Milano e Roma in standby - A Milano e a Roma la Procure non hanno ancora espresso una posizione scritta. Dalla capitale, fanno sapere, si attende l’insediamento del nuovo capo, mentre il facente funzione a Milano, Riccardo Targetti, sta preparando un documento. Il giudice Fabio Roia, presidente della sezione autonoma misure di prevenzione del Tribunale di Milano, affida all’AGI una dichiarazione che sembra segnare una distanza rispetto all’orientamento introdotto da Cartabia: “Ritengo che il problema della tutela dell’immagine dell’indagato o imputato debba trovare una soluzione sul piano deontologico dei diversi agenti che trattano la notizia con una sincera assunzione di responsabilità e un eventuale controllo stringente degli organismi disciplinari. La stampa deve svolgere sempre una funzione di controllo sulla vita pubblica e le compete il compito di far capire le conseguenze giuridiche rispetto ai profili di opportunità quando si svolgono accertamenti nei confronti di tutte le persone”. Il sindacato lombardo dei giornalisti parla di “impatto devastante” della riforma e pone la questione che la pubblicazione di notizie proveniente da fonti confidenziali rischi di “mettere “fuorilegge” il cronista che le ha diffuse”. La decisione di Raffaele Cantone - Emblematica la scelta del procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone il quale, dopo avere evidenziato la possibilità di fornire notizie, come previsto dalla norma, tramite un suo comunicato o con una conferenza stampa o quando lui lo ritenga opportuno e con “atto motivato”, scrive di essere tuttavia “consapevole che norme così rigorose potranno limitare il diritto degli operatori dell’informazione all’accesso di notizie e, persino, per una non voluta eterogenesi dei fini, incentivare la ricerca di essere attraverso canali diversi, non ufficiali o persino non legittimi”. Quindi annuncia un “rimedio” che segnerebbe un cambio radicale nel rapporto tra fonti e giornalisti: “Sarà prossimamente emanato un provvedimento per regolamentare l’accesso diretto dei giornalisti agli atti d’indagine non più coperti da segreto”. La procura di Paola e l’inchiesta su Massimo Ferrero - Stando alla riforma, il procuratore può convocare una conferenza stampa solo quanto giudichi la notizia di “pubblico interesse”. Così non ha ritenuto di fare nei giorni scorsi Pierpaolo Bruni, il magistrato alla guida del Procura di Paola. Secondo la sua valutazione, non lo era la notizia dell’arresto del presidente della Sampdoria Massimo Ferrero che è stata diffusa da fonti investigative romane e non è stata poi approfondita da un incontro con la stampa nella città dove l’indagine è stata svolta. Alla richiesta di ulteriori dettagli sull’operazione, riferiscono i cronisti calabresi, ha opposto un diniego motivandolo con la lettura testuale della nuova normativa sui rapporti coi media. Sul referendum tra gli iscritti l’Anm si gioca il ruolo politico di Errico Novi Il Dubbio, 21 dicembre 2021 Nei quesiti sulla legge elettorale per i togati, l’Associazione chiede alla propria “base” di blindare il no dei vertici alle ipotesi di riforma: rischioso, vista la crisi delle correnti. A volte le scelte politiche non appaiono subito in tutta la loro “gravità”. È un discorso che vale certamente per i partiti ma che può essere tranquillamente esteso alla cosiddetta “politica de minimis” della magistratura. E ci sarebbe molto da discutere, sull’idea che la dialettica nell’Anm sia davvero così laterale o marginale: in fondo, attorno al peso della magistratura ruota il destino della democrazia italiana da circa trent’anni. È evidente che la scelta di un referendum aperto all’intera base delle toghe, indetto nel momento di massima difficoltà e discredito per il sistema delle correnti, è una sfida al limite del temerario. Già un primo banalissimo indizio dovrebbe suggerire di guardare alla vicenda con una certa attenzione: a promuovere il quesito referendario che l’Anm celebrerà il 27 e 28 gennaio prossimi è un gruppo associativo che si presenta in aperta contrapposizione al sistema delle correnti tradizionali: “Articolo 101”. La sigla che è riuscita a conquistare quattro “seggi” nel parlamentino del “sindacato” (il comitato direttivo centrale) e che non considera certo irrinunciabile la presenza delle correnti nel Csm: e infatti da tempi non sospetti propone che i magistrati candidabili a Palazzo dei Marescialli vengano scelti per sorteggio. Proprio la selezione casuale degli eleggibili è uno dei due punti su cui saranno chiamati a pronunciarsi tutti i magistrati iscritti all’Anm (il 90 per cento di quelli in servizio). L’altra opzione sottoposta al vaglio della base riguarda il modello elettorale: col sistema proporzionale, a cui è favorevole una parte maggioritaria della dirigenza Anm, verrebbe preservato il pluralismo fra le correnti; con il maggioritario binominale ipotizzato dal governo può succedere invece di tutto. Con quest’ultima ipotesi potrebbe aprirsi, infatti, lo scenario paventato dall’Anm, vale a dire una bipolarizzazione degli schieramenti e del consenso, che premierebbe solo i due gruppi maggiori, “Area” e “Mi”. Ma il maggioritario per collegi circoscritti potrebbe favorire anche candidati estranei alle correnti, dotati di una propria particolare autorevolezza e considerazione presso i colleghi. Andasse davvero così, il colpo, per il sistema associativo, sarebbe notevole. Ebbene, l’Anm sceglie di non coprirsi dietro l’assertività corporativa. Asseconda il referendum sollecitato dagli “antigovernativi” di “Articolo 101” ma anche da un gruppo che della giunta attuale, invece, fa parte: “Autonomia & Indipendenza”, corrente fondata da Piercamillo Davigo e ora destinata a ricostruire la propria identità senza il leader, congedatosi dalle funzioni. È chiaro che la consultazione aperta a circa 8.000 toghe è una sfida pesante: non si può escludere che la base scelga di contraddire la linea prevalente fra i gruppi e aderire in percentuale significativa all’ipotesi del cosidetto sorteggio temperato. Né si può escludere che vinca, o comunque guadagni molti consensi, il sistema elettorale maggioritario sgradito all’Anm. Come ne uscirebbe, l’Associazione magistrati, da esiti del genere? Non rischia di vedere delegittimata o comunque pesantemente compromessa la propria rappresentatività? Siamo sicuri che - o meglio ne sono sicuri i capi delle correnti e dello stesso “sindacato” - la buona tenuta esibita dalle correnti anche alle ultime elezioni locali dell’Anm prefiguri un ampio consenso della base anche nel momento in cui si tratterà non di indicare uno tra i candidati proposti dai gruppi, ma di votare liberamente su un’ipotesi di riforma? Siamo insomma alla roulette russa per un organismo politico come l’Associazione magistrati che ha pesato moltissimo nella dialettica pubblica del nostro Paese, soprattutto dagli anni Novanta in poi. La rappresentanza fin qui saldamente unitaria delle toghe sfida la crisi degli ultimi due anni. Mette in gioco se stessa, davanti alla sempre celebrata (anche dall’attuale guardasigilli Marta Cartabia) platea invisibile dei magistrati che lavorano silenziosamente e senza le mostrine da dirigenti. Se le cose andassero bene, ma bene davvero, con una linea di vertice premiata dalle urne, allora l’Anm potrebbe capitalizzare la rinnovata fiducia. Se invece le posizioni dei “capi” fossero sconfessate dalla base, si aprirebbero scenari di disgregazione, anche di possibile duplicazione della rappresentanza, con la nascita di una Anm “alternativa”. La politica, da parte sua, non può permettersi di aspettare, e dovrà scegliere verso quale riforma della magistratura andare, con un’autorevolezza che sembra aver smarrito da tempo, innanzitutto nel rapporto con la magistratura. Quel processo al Dubbio è un processo al giornalismo libero di Davide Varì Il Dubbio, 21 dicembre 2021 Il nostro Damiano Aliprandi è alla sbarra per la sua inchiesta antimafia e qualche giudice protesta perché diamo voce all’avvocatura e al diritto di difesa umiliato. C’è un pezzo di magistratura - un pezzo minoritario per la verità - che ha ancora qualche problemino con la libertà di stampa, che urla al bavaglio se viene approvata una legge a tutela della presunzione di innocenza degli indagati, ma non si fa scrupoli a portare alla sbarra giornalisti che fanno il proprio dovere: ovvero il pelo e contropelo al potere, a tutto il potere, anche a quello giudiziario. Noi del Dubbio in queste ore siamo finiti al centro delle attenzioni di chi non tollera critiche o un presunto “eccesso di libertà”. Niente di drammatico per la verità: di certo non consideriamo intimidatorio un comunicato di una sezione dell’Anm che si è mobilitata perché la nostra Valentina Stella ha osato dar voce ad avvocati che denunciano “censure” da parte di alcuni giudici; né ci spaventa il processo che sta subendo il nostro Damiano Aliprandi, il quale, in questi anni, ha provato a far luce su uno degli eventi più drammatici della storia del nostro paese: parliamo delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E qui occorre la massima chiarezza, perché se è vero che non siamo intimiditi, è altrettanto vero che la questione è terribilmente seria. Il processo ad Aliprandi, infatti, non riguarda soltanto lui e il nostro giornale: sul banco degli imputati c’è infatti il giornalismo italiano e in gioco c’è la credibilità del nostro sistema giudiziario. Chi legge il Dubbio conoscerà di certo la storia: Aliprandi - forse il più preparato e scrupoloso giornalista antimafia - è stato querelato da due magistrati che si sono sentiti denigrati da una inchiesta a puntate sulla vicenda del dossier “Mafia e appalti”. Cos’è “Mafia e appalti”? Probabilmente è il buco nero dell’antimafia italiana, una vicenda che potrebbe aver giocato un ruolo determinante nelle morti di Falcone e Borsellino. Riassumiamo in due parole: Giovanni Falcone e il colonnello Mario Mori - sì, proprio lui, il servitore dello Stato trattato come un criminale - indagavano da anni sui legami tra Cosa nostra e un pezzo di economia italiana. Il 23 maggio del ‘92 Falcone viene trucidato a Capaci e, poche settimane dopo cominciavano a redigere la richiesta di archiviazione, tanto che l’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco - e parliamo di colui che venne accusato da un magistrato limpido come Caponnetto di aver emarginato, umiliato e isolato Falcone - ecco quel Giammanco avrebbe avuto uno scontro in procura con lo stesso Borsellino sulla “gestione” di “Mafia e appalti”. E qui abbiamo la testimonianza di Domenico Gozzo, uno dei magistrati presenti a quella riunione, che parla esplicitamente di “contrasto più che latente”. Qualche giorno dopo lo stesso Borsellino strappa la promessa di poter proseguire l’indagine, ma di lì a poco viene trucidato con la sua scorta a via d’Amelio. Quante coincidenze. Solo molti anni dopo la storia viene ripresa da Damiano Aliprandi, il quale, grazie a un lavoro certosino e allo studio incrociato di migliaia e migliaia di atti giudiziari, ne coglie la straordinaria e sinistra importanza. Insomma, capite bene che questa inchiesta non solo fa emergere un filone dimenticato che potrebbe far luce sulle reali ragioni per le quali Falcone e Borsellino vennero uccisi, ma conferma ancora una volta l’inconsistenza del teorema Trattativa Stato-mafia, una indagine che del resto è già stata demolita dalla recente sentenza con cui sono stati assolti Mori, De Donno e Subranni. Noi del Dubbio siamo certi che il nostro Damiano Aliprandi verrà assolto - troppo evidente la forza della sua inchiesta - eppure non possiamo non constatare il fragoroso silenzio della stampa italiana. Un silenzio assenso che rischia di assecondare un’azione giudiziaria capace - stavolta sì - di “imbavagliare” un’operazione giornalistica che ha l’ambizione di districare quel groviglio opaco di poteri e interessi che si sono mossi dietro la morte di Falcone e Borsellino. Ma quali sono i motivi di tanta inquietudine nei confronti di un lavoro giornalistico così rigoroso e trasparente? Il problema è dato dal fatto che l’inchiesta di Aliprandi riscrive il racconto ufficiale di quella vicenda e chi si discosta e contesta la Bibbia dell’antimafia diventa nemico, addirittura complice. Ed evidentemente non basta che quel “testo sacro” stia crollando anche nelle aule dei tribunali; né bastano gli appelli alla “continenza” da parte di magistrati più illuminati. Una prova? I nuovi apostoli dell’antimafia di Stato se ne fottono anche di personalità cristalline come il procuratore De Raho che appena qualche giorno fa ha ricordato come sia dannoso per la credibilità della giustizia continuare ad alimentare “il protagonismo di alcuni magistrati attraverso la partecipazione ad alcuni circoli mediatici che tendono alla costruzione di verità alternative mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazioni”. Più chiaro di così. Ma è evidente che qui la lotta alla mafia c’entra poco: chi difende quel racconto - e non parliamo solo di magistrati - in realtà difende se stesso, la propria immagine pubblica, la propria posizione di potere. Insomma, siamo di fronte a una vicenda incandescente e non vorremmo che fossimo gli unici a dover ricordare, soprattutto all’ordine dei giornalisti, che in ballo non c’è solo il Dubbio ma l’articolo 21 della nostra Costituzione: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Avete presente? Padova. Valorizzare le esperienze positive, difenderle di Nicola Boscolo Boscoletto* Ristretti Orizzonti, 21 dicembre 2021 Togliere tutti gli ostacoli che ne impediscono la crescita. Ho letto domenica 19 dicembre, sulla rassegna stampa di Ristretti Orizzonti, i due interventi di Ornella Favero (Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) e di Carla Chiappini (Giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Orizzonti di Parma). Sottoscrivo tutto, non riprendo niente, vi invito solo, se non li avete già letti, a leggerli. Ho iniziato ad entrare in carcere nel lontano 1990. Sono migliaia le persone detenute con cui ho condiviso migliaia di giorni e di ore. Giornate intere trascorse gomito a gomito. Eppure, come dice Carla Chiappini, “mi rendo conto che ancora oggi sbaglio quando penso di aver capito tutto”, o concordo con Ornella Favero quando richiama l’ineludibile necessità di “Conoscere l’altro dall’interno”, ricordando un passaggio del saggio di David Grossman. Per fortuna che tra di noi ci sono ancora tante persone che continuano ad imparare e a fare nuove esperienze testimoniandoci che c’è sempre qualcosa che ti spiazza e che non avevi tenuto presente. Ecco, con queste persone è proprio uno spettacolo confrontarsi, perché senti l’altro come una risorsa, un bene, non un avversario, non un competitor. In questi giorni che ci stanno portando al Natale è morto il papà di una persona detenuta che lavora con noi. Nel momento che riserviamo ogni anno per gli auguri di Natale mi si avvicina e mi sussurra nell’orecchio con la voce roca ma carica di dignità: “è dura perdere il papà in carcere”. Poco prima avevo chiesto tra le sessanta persone detenute presenti quanti per il Natale avessero la possibilità (perché non basta “essere nei termini”, occorre essere autorizzati) di passare alcuni giorni in permesso in famiglia: meno di dieci avevano alzato la mano. Un’altra persona detenuta con una tristezza ed un dolore indescrivibile mi dice “sento che sto perdendo la mia famiglia, sono stati anche troppo bravi a starmi vicino per ben 24 anni, non c’è più speranza per me, sento che si sta sfasciando tutto”. Sono tornato a casa con una grande ferita nel cuore, con un grande senso di impotenza e con una grande tristezza. Le cose non si sanno solo perché si vedono o perché si sono fatte alcune “gite” in carcere o perché si è studiato e si sono fatte tantissime ricerche. No! Bisogna averne fatto esperienza, bisogna averle condivise sulla propria pelle. Parlarne e basta rischia di lasciare le cose come sono. Se ne parla da troppo tempo (mi viene in mente mentre scrivo di getto queste riflessioni il dialogo che il Ministro della Giustizia Urbano Rattazzi ebbe con San Giovanni Bosco nel 1854), oggi la cosa più urgente è rintracciare e seguire, valorizzare e difendere chi ci può offrire tali esperienze, in tutti gli ambiti e da qualsiasi parte arrivino. Questo vale per tutti i campi, pensate quanto sia fondamentale per i giovani avere dei maestri in grado di trasmettere la loro esperienza, le loro scoperte, anche i propri errori. Pensate al valore che ha l’esperienza in campo medico, per un giovane che si approccia a diventare medico quanto sia fondamentale per la sua professione avere avuto maestri di grande esperienza e spessore umano (perché il fattore umano è parte integrante di una vera esperienza). Pensate che cosa possono essere un papà ed una mamma per i propri figli, o più in generale gli adulti per i giovani. Questi non sono affascinati da tutti i discorsi che gli vengono rivolti (non fare questo perché è male, non fare quello, fai questo perché è per il tuo bene…), ma se vedono adulti pieni di energia che credono in quello che dicono, e questo si vede solo dall’entusiasmo con cui vivono la loro vita, il loro lavoro, i loro impegni, le loro amicizie. E potremmo andare avanti con tanti altri esempi in cui l’esperienza, anche carica di errori (indispensabili per progredire), è la più grande possibilità di crescita in ogni campo. Eppure oggi l’esperienza, che fa rima con competenza, è spesso la cosa più tenuta lontana e di cui si ha paura. Non c’è commissione in cui al centro sia messa l’esperienza. Lo spazio dato alla narrazione delle esperienze, quando va bene, è residuale, quasi un contentino. Siamo tante volte in difesa di fronte a chi cerca di esprimere liberamente un pensiero competente, perdendo così la possibilità di imparare o insegnare una cosa nuova. Come diceva Epitteto “è impossibile per un uomo imparare ciò che crede già di sapere”. Il compito principale di chi ha una responsabilità importante è quello di valorizzare tutte le esperienze positive, difenderle, togliere tutti gli ostacoli che ne impediscono la crescita e la diffusione e farle crescere. Se non si parte da ciò che c’è di positivo e di sperimentato sul campo, quello che accade quasi inevitabilmente (in buona o cattiva fede che si sia) è la difesa del sistema fine a se stessa, la difesa della propria posizione, del proprio prestigio personale. Ma voglio concludere ritornando al momento degli auguri di Natale, che sabato ci siamo scambiati con quel piccolo manipolo di persone detenute. Anche quest’anno, grazie a loro, il Natale per me e tanti miei collaboratori sarà diverso, mi permetterà di portare nel cuore un pezzettino di ingiusta sofferenza. A loro ho detto che nessuno si deve sentire solo. Ho ricordato che se tutto il mondo si ferma per Natale l’unico motivo è che 2022 anni fa, in un luogo sperduto e sconosciuto, è nato un bambino che ha portato la speranza nel mondo per ogni uomo e per sempre. Gesù ha amato gli uomini, ogni singolo uomo, non se ne è servito, li ha serviti. Amava i malati più dei sani, amava i peccatori e non chi si credeva perfetto, amava i poveri di spirito e non chi si credeva sapiente. Il Natale ci ricorda un fatto che permette a qualunque uomo di porsi una domanda: la vita può avere un senso? Abbiamo poi ricordato questo secondo anno di pandemia, tutte le difficoltà che abbiamo dovuto attraversare, per alcuni dolorose, che non ci hanno permesso di aver cura di ciascuno di loro come avremmo desiderato. Ho ricordato poi che nel momento di auguri che abbiamo fatto all’esterno il sabato precedente con tutto il personale della cooperativa, abbiamo ricordato i 18 famigliari che sono mancati nel 2021, in particolare due giovani dipendenti, Leonardo di 29 anni e Denis di 19. Abbiamo concluso come sempre con un momento di preghiera particolare. In carcere le religioni sono presenti in tutte le loro espressioni, cristiani, mussulmani, buddisti, ecc., anche se molti sono quelli che non credono a niente. Ho invitato tutti a fare un minuto di silenzio in cui ognuno prega colui in cui crede, ho invitato chi non crede a pensare, a parlare con le persone care che non ci sono più, dicendo che io stesso spesso parlo con il mio papà salito in cielo nel 2000. Abbiamo poi concluso con una Ave Maria pensando proprio alla figura della mamma, certi che una mamma non fa mai mancare la sua vicinanza ai suoi figli. Al termine abbiamo distribuito i doni, un gesto che come sempre accompagna momenti veramente sinceri di gratitudine e commozione. Due giovani detenuti mi avvicinano e fieri, o meglio carichi di dignità e gratitudine, mi dicono “non siamo più quelli di una volta”. Buon Natale. *Presidente della cooperativa Giotto Vasto (Ch). Il paradosso di una Casa di Lavoro dove nessuno può lavorare di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2021 Quando ho descritto la nostra visita al reparto Sestante del carcere di Torino, con le sue condizioni di vita di drammatico abbandono, ho raccontato anche l’incontro con M., un ragazzo di circa 25 anni dall’aria sperduta. Appena gli rivolsi la parola chiedendogli come stesse cominciò a piangere. Mi disse che aveva molta paura e voleva tanto rivedere sua madre. Diceva di non sapere perché fosse stato portato lì, mi pregava di farlo trasferire altrove. M., portatore di una diagnosi psichiatrica, era in attesa di una diversa collocazione. Il ragazzo doveva venire accolto da una struttura di tipo sanitario, per essere sostenuto nei suoi bisogni terapeutici e socio-assistenziali. Uscita dal carcere ho telefonato alla madre, di cui M. ricordava il numero a memoria e che mi aveva dettato. La madre mi ha spiegato che M. si trovava in precedenza in carcere a Milano e che nessuno l’aveva avvisata del suo trasferimento al Sestante. Da quel giorno siamo in continuo contatto. Oggi M. vive ancora in quello stesso carcere, spostato in un altro reparto. Sta molto meglio di quando l’ho incontrato io, ma continua tuttavia a vivere dentro una cella. La mamma spera che una comunità residenziale del territorio possa accoglierlo, affinché possa uscire dal carcere e venire accompagnato in un autentico percorso di sostegno. Mi ha raccontato però di aver avuto nelle scorse ore l’ennesimo diniego. Si è rivolta a molte comunità in Lombardia. Nessuna avrebbe detto di avere la possibilità di accoglierlo. Ma è possibile che debba essere lei a effettuare questa ricerca, pregando porta a porta che qualcuno tenda una mano a suo figlio? Non dovrebbero essere le istituzioni ad aiutarla a individuare e realizzare il percorso migliore? Ovviamente il problema non è nelle singole comunità, dove si incontrano professionalità straordinarie, ma nel mancato potenziamento negli anni della rete territoriale di accoglienza, che si ritrova adesso del tutto insufficiente a far fronte ai bisogni. L’inclusione di M. non può e non deve avvenire a scapito di un’altra persona portatrice delle medesime esigenze. Qualche giorno fa sono stata in visita al carcere di Vasto insieme al presidente di Antigone Patrizio Gonnella. È un istituto qualificato come Casa di Lavoro, ovvero un luogo dove alcune categorie di persone detenute, una volta terminata l’espiazione della pena, vengono rinchiuse per un certo periodo di tempo in quanto considerate ancora pericolose per la società. Molte delle persone che abbiamo incontrato a Vasto sono in realtà portatrici di gravi disagi psichiatrici. Abbiamo trovato il paradosso di una casa di lavoro dove non si può di fatto lavorare: non perché manchino le occasioni, ma perché molti dei presenti sono formalmente dichiarati inabili al lavoro in quanto pazienti psichiatrici. La direttrice si adopera senza risparmiarsi per aiutare i singoli percorsi, ma troppo spesso trova porte chiuse. Molte delle persone internate a Vasto non hanno reti sociali, non hanno parenti che se ne facciano carico, non hanno paracaduti esterni di alcun tipo. Le strutture psichiatriche del territorio che abbiano la disponibilità ad accoglierle scarseggiano grandemente. E allora cosa fa la magistratura? Allo scadere del provvedimento che ne dichiarava la pericolosità sociale, semplicemente lo proroga. E questa è davvero la cosa più drammatica e assurda che si possa immaginare: non sono più persone pericolose, non dovrebbero più trovarsi in un carcere. Ma non c’è altro posto al mondo per loro. Non sappiamo dove metterle. E quindi restano lì. Con il rischio di ergastoli bianchi, di vite buttate via. “Inclusione e coesione” è il titolo della quinta missione del Pnrr. Ecco: la vera inclusione è l’inclusione di tutti, nessuno escluso. Non escludiamo M. dal suo futuro, non escludiamo gli internati di Vasto dal loro. Usiamo quei soldi anche per potenziare la rete dei servizi psichiatrici territoriali. Oggi mi appello all’istituzione penitenziaria, alle Asl coinvolte, ai servizi di salute mentale, agli operatori delle comunità e alla stessa magistratura di sorveglianza, affinché dialoghino tra di loro e aiutino la famiglia di M. a individuare un percorso per lui. M. ha tutta la vita davanti e tutto il diritto di viverla pienamente e felicemente. *Coordinatrice associazione Antigone Torino. Sciopero del carrello o la “rivolta gentile” delle detenute di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 21 dicembre 2021 Siamo arrivati quasi a fine anno, ma nonostante le buone intenzioni non c’è stato ancora nessun decreto ad hoc per risolvere le criticità delle carceri. A tal proposito, in questi giorni è in corso l’iniziativa non violenta promossa dalle detenute del carcere torinese delle Vallette, che da venerdì scorso e fino al 23 dicembre, sono in “sciopero del carrello” (il vitto offerto dall’amministrazione penitenziaria), per chiedere un concreto segno di attenzione alla loro condizione di persone private della libertà nella emergenza pandemica, attraverso l’approvazione di un provvedimento di liberazione anticipata speciale simile a quello vigente all’indomani della condanna europea per il sovraffollamento delle carceri e ora riproposto in Parlamento per iniziativa dell’onorevole Roberto Giachetti. Le detenute hanno anche scritto a Il Dubbio, chiedendo di dar voce alla loro mobilitazione pacifica. “I cittadini devono sapere che ogni detenuto costa alla comunità 154 euro al giorno, di cui solo 6 euro per il suo mantenimento e solo 35 centesimi per il percorso rieducativo. Chi non investe nella rieducazione incrementa la recidiva. Questo semplice ragionamento che evidenzia l’incoerenza della classe politica, si siedono infatti allo stesso tavolo, i partiti che sventolano le bandiere dell’inclusione sociale e quelli che invece vorrebbero muri e filo spinato”. L’associazione yairaiha rende noto che anche dal carcere di Oristano, i detenuti hanno aderito allo sciopero del carrello e doneranno il cibo rifiutato alle mense dei poveri. Un importante sostegno all’iniziativa del carcere torinese proviene dai Garanti territoriali delle persone private della libertà. “Oggi, come a marzo 2020, di fronte alla nuova diffusione del Covid- 19, che sta nuovamente ingessando le carceri, prive di sufficienti spazi di isolamento e quarantena dei positivi e dei loro contatti, sarebbe utile un minimo ma generale provvedimento di clemenza, anche solo di un anno, che oggi come allora consentirebbe una più efficace e ordinata gestione delle situazioni di rischio in carcere”. Così il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, nonché Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa. “Se oggi come allora - prosegue Anastasìa - il Parlamento non ha il coraggio della ragione, la richiesta di una liberazione anticipata speciale che possa aumentare lo sconto di pena per le detenute e i detenuti che abbiano dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è il minimo provvedimento da adottare subito, che può valere anche da risarcimento delle condizioni di detenzione subite durante la pandemia, certamente più gravi di quelle ordinarie e di quelle vissute nella società libera, con effetti pesantissimi sull’equilibrio psico-fisico e sulle relazioni familiari di tante detenute e detenuti”. Le detenute, già ad agosto lanciarono lo sciopero del carrello, trovando adesioni nelle carceri di tutta Italia, e prima ancora nella popolazione maschile del carcere. Furono in centinaia a rifiutare il vitto per denunciare la quotidianità difficile negli istituti, “perché alla retorica delle “buone intenzioni” - scrivono nell’appello rivolto alla ministra della giustizia Marta Cartabia - il governo risponda con fatti concreti anche per noi cittadini reclusi”. Tra le criticità segnalate, ci sono il sovraffollamento (a Torino sono ospitati circa 1.350 i detenuti su 1.098 posti), la mancata qualità dei prodotti dei pasti - il ‘Carrello’ - ma anche la mancanza di percorsi formativi e quindi riabilitativi e rieducativi. In solidarietà alle detenute c’è stato un presidio di “Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, con l’obiettivo di concludere la raccolta fondi proprio a sostegno dell’iniziativa non violenta. “Se il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni come sostenevano Beccaria e Dostoevskij - proseguono le detenute, allegando decine e decine di firme alla lettera inviata oltre alla ministra anche al direttore del Dap nazionale e ai vertici locali - a distanza di secoli in Italia il senso di umanità, legittimità e legalità, sembrano essersi fermati lontano dalle sbarre. La pandemia ha acuito antiche problematiche, ma neppure l’attuale Governo ha preso una posizione netta per portare nelle prigioni dignità e buonsenso oltre che i diritti fondamentali sanciti dalle costituzioni italiana e europea”. Monza. Focolaio di Covid in carcere: si corre ai ripari di Stefania Totaro Il Giorno, 21 dicembre 2021 Coinvolti circa trenta detenuti, alcuni già trasferiti a San Vittore e Bollate, gli altri messi in quarantena. Un nuovo focolaio Covid all’interno del carcere di Monza. E saltano le attività organizzate dall’esterno per i detenuti, tra cui uno spettacolo da parte di alcuni comici di Zelig. La notizia è stata resa nota dal sindacato regionale lombardo della polizia penitenziaria Uilpa, secondo cui ammonterebbero a quasi una trentina i detenuti coinvolti nell’ennesimo contagio del virus dall’inizio della pandemia. “Al momento sono sei i detenuti che risultano positivi al Coronavirus - conferma la direttrice della casa circondariale di via Sanquirico Maria Pitaniello - Altri li abbiamo già trasferiti a San Vittore e Bollate, mentre quelli rimasti a Monza sono già stati messi in quarantena ed è subito scattato l’iter per i tamponi da fare eseguire ai contatti stretti, per cui ci siamo appoggiati all’ospedale di Monza. Ancora in corso anche la procedura per le terze dosi di vaccino, che i detenuti e il personale che lavora all’interno del carcere sono riusciti a iniziare in tempi brevi e che è in corso”. Secondo la direttrice della casa circondariale monzese, quindi, il nuovo focolaio di Covid 19 è sotto controllo, ma è stato comunque necessario prendere precauzioni. Sospesi gli ingressi dall’esterno delle persone che svolgono attività culturali, lavorative e di intrattenimento a favore dei detenuti. Come, ad esempio, lo spettacolo di alcuni comici di Zelig che dovevano fare ingresso in via Sanquirico ieri mattina e invece sono stati invitati a sospendere l’iniziativa. Non sono stati invece per ora sospesi i colloqui dei detenuti con i familiari, come invece era accaduto nella prima fase della pandemia da Coronavirus dove gli incontri erano stati vietati e si poteva soltanto vedersi attraverso videochiamate, perché secondo la direttrice la situazione dei contagi è stata circoscritta e gli interessati sono stati già isolati. Il segretario regionale lombardo Uilpa della polizia penitenziaria, Domenico Benemia, esprime invece preoccupazione per questa ulteriore situazione negativa che va a colpire la casa circondariale di via Sanquirico, già al centro delle polemiche recentemente per le diverse aggressioni commesse nei confronti degli agenti di custodia da parte di detenuti, anche con problemi psichici ospitati nel reparto di osservazione psichiatrica del carcere sprovvisto di medico specialista fisso. Milano. Nessuno tocchi Caino applaude la Consulta sull’ergastolo ostativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 dicembre 2021 Nel carcere di Opera il congresso dell’organizzazione. Il IX Congresso di Nessuno tocchi Caino- Spes contra spem, tenuto nella Casa di Reclusione di Opera (Milano) il 17 e 18 dicembre 2021, sostiene l’azione nonviolenta di Rita Bernardini, condotta insieme a centinaia di detenuti, a partire dalle donne recluse nel Carcere Le Vallette di Torino contro le condizioni inumane e degradanti in cui versano le carceri del nostro Paese. L’obiettivo è quello di ridurre la popolazione detenuta per portarla al numero di posti effettivamente disponibili nei 189 istituti penitenziari. In particolare, si chiede l’approvazione della proposta di legge presentata dall’On. Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale che aggiunge allo sconto di pena già previsto ogni semestre (45 giorni) altri 30 giorni, per arrivare così a 75 giorni per tutti i detenuti. Nessuno tocchi Caino saluta l’ordinanza della Corte Costituzionale che considera l’ergastolo ostativo contrario alla Carta e alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Tale decisione, che si pone nel solco tracciato prima dalla Corte europea con la sentenza Viola contro Italia e poi dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza Cannizzaro-Pavone, stabilisce la fine della collaborazione con la giustizia come unico criterio per valutare il ravvedimento del condannato e ribadisce dunque. L’associazione considera contrarie allo spirito e alla lettera della Ordinanza della Corte le soluzioni fin qui emerse in Parlamento sulla riforma dell’ergastolo ostativo, “a partire dalla proposizione ‘ more solito’ dell’armamentario terribile di leggi speciali e misure di emergenza, di pene senza fine e regimi penitenziari mortiferi”. Nessuno tocchi Caino ringrazia il Tribunale di Sorveglianza di Milano per quella straordinaria ordinanza che ha disposto nel caso di Ambrogio Crespi il differimento della pena in attesa della grazia creando un precedente che ora “deve diventare legge per tutti coloro per i quali il carcere non solo è inutile, è anche dannoso e la pretesa punitiva e rieducativa dello stato è inesigibile e/ o impossibile”. Ringrazia inoltre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per aver temperato con il provvedimento di grazia gli effetti della condanna nei confronti di una persona non solo diversa da quella del reato imputatogli, ma anche estranea al delitto, e ringrazia la Ministra della Giustizia Marta Cartabia per avere “raccomandato atti di clemenza quali esempi concreti di una giustizia che non punisce e separa ma riconcilia e ripara”. Ribadendo la necessità del superamento non solo della pena di morte nel mondo e la pena fino alla morte, ma anche “la morte per pena e lo stesso istituto della pena, il carcere, diventato un luogo di tortura e patimenti, di afflizione e trattamenti inumani e degradanti, un “campo di concentramento” di tutto ciò che nel corso della storia abbiamo abolito perché contrario al senso di umanità: dalla tortura alla pena di morte, dai lazzaretti ai manicomi”. Roma. Parte telemedicina nel carcere di Rebibbia dire.it, 21 dicembre 2021 Migliorare l’assistenza dei pazienti negli Istituti di pena attraverso televisite, teleconsulti, telerefertazione e telemonitoraggio tra il medico interno al penitenziario e uno specialista di un reparto ospedaliero. È lo scopo del progetto “Liberi@mo la salute: Telemedicina negli Istituti Penitenziari”, presentato questa mattina dal presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, il progetto “Liberi@mo la salute: Telemedicina negli Istituti Penitenziari”. L’evento si è svolto presso il Teatro del Polo Penitenziario di Rebibbia, a Roma, alla presenza della ministra alla Giustizia, Marta Cartabia. All’evento hanno partecipato Rosella Santoro, Direttore della Casa Circondariale Rebibbia N.C. “Raffaele Cinotti”, Giorgio Casati, Direttore Generale Asl Roma 2, Roberto Tartaglia Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Gabbrielli, Direttore del Centro Nazionale per la Telemedicina dell’Iss, Carmelo Cantone, Provveditore Amministrazione Penitenziaria, Francesco Rocco Pugliese, Direttore Sanitario Asl Roma 2, Stefano Anastasìa Garante dei diritti dei detenuti Regione Lazio e Maria Antonia Vertaldi, Presidente del tribunale di Sorveglianza di Roma. “Abbiamo bisogno più che mai di interventi concreti, che affrontino gli sterminati bisogni della vita quotidiana in carcere, a cominciare da quello della salute, il più impellente in questo tempo di pandemia - ha detto la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Concretezza e valori costituzionali: questa è la cifra del progetto di telemedicina, che da questo punto di vista anticipa lo stile del lavoro svolto dalla Commissione ministeriale per l’innovazione del sistema penitenziario, che sta terminando i suoi lavori. La condizione di detenzione rende, di fatto, la tutela della salute assai difficoltosa. La telemedicina- aggiunge la Guardasigilli- diventa così preziosa, nel realizzare i dettami dell’art. 3 della Costituzione che prevede come compito della Repubblica di ‘rimuovere gli ostacoli’ che di fatto impediscono la piena realizzazione dei valori costituzionali. Curare il corpo e la mente di chi vive in carcere è la condizione, perché la detenzione assolva alla sua funzione di rieducazione”. “Oggi diamo l’avvio a un modello nuovo di sanità- ha dichiarato il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti- Dal Polo penitenziario di Rebibbia, il più grande d’Italia e uno dei più grandi d’Europa, parte un progetto innovativo che avrà impatti positivi da subito nella gestione dei problemi di salute dei pazienti detenuti e che sarà possibile replicare nelle altre strutture detentive del Lazio. Con la Asl Roma 2- prosegue Zingaretti- facciamo partire percorsi di cura individuali per i pazienti detenuti, attraverso televisite, teleconsulti, telerefertazioni e telemonitoraggio superando le criticità logistico-organizzative che caratterizzano da sempre l’assistenza sanitaria in questi luoghi. È bello e importante che proprio qui a Rebibbia nasca un pezzo della sanità del futuro e un nuovo modello di garanzia del diritto alla salute delle persone. Ringrazio molto - conclude il Presidente Zingaretti - l’Asl Roma 2, l’istituto penitenziario di Rebibbia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per questo nuovo passo in avanti nel rispetto dei diritti civili e del diritto alla salute di chi è privato della libertà personale”. La telemedicina è oggi uno strumento utilissimo che consente di collegare telematicamente due postazioni sanitarie, uno strumento che garantisce la presenza anche a distanza di un medico specialista che riceve in tempo reale dati sanitari strumentali. Grazie all’introduzione in carcere dei dispositivi di telemonitoraggio e della piattaforma software per i servizi di teleassistenza, teleconsulto e telecooperazione sanitaria, è possibile realizzare esami diagnostici a distanza, realizzare percorsi di monitoraggio personalizzati dei pazienti e gestione dei piani di cura, riducendo i tempi di attesa, migliorando le prestazioni e abbattendo i costi dei trasferimenti all’esterno, nonché del personale di scorta e di piantonamento. La Asl Roma 2, insieme agli Istituti Penitenziari di Rebibbia, ha ritenuto fondamentalmente sfruttare le opportunità offerte dalle più moderne tecnologie informatiche che consentono la gestione di una parte delle attività sanitarie, attualmente erogate in telemedicina. Il nuovo servizio andrà ad affiancare i servizi già presenti nella Casa circondariale dove è assicurata la presenza medica e infermieristica con un’articolazione delle attività sanitarie dalle 12 ore e fino alle 24 ore per 365 giorni l’anno. Napoli. In funzione centro dialisi nel carcere di Poggioreale ansa.it, 21 dicembre 2021 Offre molteplici vantaggi per il detenuto ma anche per la direzione l’ambulatorio per le emodialisi allestito all’Interno del Centro Clinico SAI San Paolo del carcere di Napoli-Poggioreale grazie al quale, d’ora in poi, il carcerato eviterà per tre volte alla settimana il trasferimento in ospedale con in risparmio consistente di risorse da impiegare per garantire la salute. Nella struttura, ieri, è stata praticata la prima seduta emodialitica, in un ambiente climatizzato e con TV. Per l’Osapp, la sinergia tra Amministrazione Penitenziaria e la Sanità “deve essere un connubio strategico nell’interesse della sicurezza di tutti, mettendo al primo posto la salute dei ristretti”, dice il vice segretario regionale Luigi Castaldo che si augura altre iniziative sul solco di quella avviata ieri. “Grazie al lavoro svolto dal direttore Carlo Berdini e dal dirigente sanitario Vincenzo Irollo - dice ancora Castaldo - si è riusciti a realizzare una stanza per l’emodialisi completa degli opportuni confort per i ristretti affetti da gravi patologie renali, evitando la traduzione di questi presso strutture pubbliche esterne con relativi rischi connessi in questo periodo epidemiologico”. “Ben vengano investimenti tesi a migliorare le condizioni strutturali dei penitenziari di tutto il territorio - commenta il segretario generale Leo Beneduci - e in particolar modo dell’istituto partenopeo tra i più grandi d’Europa che oggi versa in precarie condizioni strutturali mettendo in seria discussione sia la sicurezza del personale di Polizia Penitenziaria che lo stesso benessere, visto il critico sovraffollamento di detenuti per oltre il 40% della capacità prevista e la critica carenza di personale di Polizia Penitenziaria che compromette i diritti soggettivi di quest’ultimi messi in forte stress psicofisico”. Parma. L’Unione delle comunità islamiche in carcere per assistere i detenuti musulmani La Repubblica, 21 dicembre 2021 Maggiore tutela dei diritti dei detenuti stranieri in carcere grazie alla collaborazione della direzione del carcere, l’Unione delle comunità islamiche in Italia, Garante dei detenuti e presidente del Consiglio comunale. È questo, informa una nota, l’esito di un proficuo incontro che si è svolto nei giorni scorsi. Le istituzioni hanno condiviso la necessità di avviare un confronto e collaborazione con i rappresentanti nazionali del culto islamico finalizzata al miglioramento delle condizioni di detenzione dei reclusi di fede musulmana. La collaborazione si è avviata con la reciproca conoscenza degli strumenti in possesso dell’Amministrazione penitenziaria e quelli dell’Ucoii, da sempre molto sensibile a questo settore di cittadini stranieri che hanno compiuto reati. L’intesa è stata raggiunta con il coinvolgimento dei referenti istituzionali dell’ambito penale: il direttore dell’istituto penitenziario, Valerio Pappalardo, il Garante comunale dei diritti dei detenuti, Roberto Cavalieri, il presidente del Consiglio comunale, Alessandro Tassi Carboni i quali hanno coinvolto il presidente dell’Ucoii, Yassine Lafram, e il referente Ucoii per gli istituti penitenziari, Hamdan Zaqri. Nel carcere di Parma sono presenti 200 detenuti stranieri, pari a circa al 50% dei detenuti del reparto media sicurezza e al 30% del totale della popolazione detenuta. In gran parte di fede islamica, età media di circa 30 anni, molto spesso con problemi di recidiva. Il direttore del carcere ha salutato con soddisfazione l’impegno della Comunità islamica del territorio, fatto che rafforza gli obiettivi e le sperimentazioni fatte a livello nazionale dall’Amministrazione penitenziaria. I rappresentanti dell’Ucoii si sono detti “soddisfatti dell’accordo raggiunto che apre la possibilità per i detenuti di pregare anche in gruppo all’interno del carcere”. Secondo il Garante dei detenuti le intese “porteranno a un allentamento della tensione spesso manifestata dai detenuti stranieri” e “il coinvolgimento della Comunità islamica apre le porte a un volontariato penitenziario più diversificato e, speriamo, più significativo sotto il profilo dei numero”. Per Alessandro Tassi Carboni questo va considerato come “un evento che aggiunge un altro tassello all’impegno della amministrazione comunale nel rispetto dei diritti delle diverse componenti della comunità parmigiana”. L’Ucoii ha nominato ministro di culto musulmano (murshida) Mounia El Fasi che da diversi anni frequenta il carcere nel ruolo di mediatrice linguistico culturale, membro dell’associazione Donne di qua e di là e della comunità islamica di Parma e Provincia. Anche lei presente ha manifestato grande soddisfazione comunicando che “la Comunità islamica di Parma è pronta a dare il suo contributo per supportare l’Amministrazione penitenziaria nell’ampliamento delle opportunità trattamentali dei detenuti stranieri e a potenziare la presenza di servizi per i detenuti musulmani”. Bologna. “In assenza. Storie di teatro in carcere ai tempi della pandemia” culturmedia.legacoop.coop, 21 dicembre 2021 Nell’ambito di Per Aspera ad Astra III edizione presentazione mercoledì 22 dicembre 2021 ore 19.30 all’ITC Teatro di San Lazzaro del documentario e del cortometraggio “In assenza. Storie di teatro in carcere ai tempi della pandemia” a cura del Teatro dell’Argine, coordinamento artistico Micaela Casalboni, laboratori a cura di Giacomo Armaroli, Nicola Bruschi, Mattia De Luca, Paolo Fronticelli, videomaker Marco Bifulco | Blue Frame Movies, con i detenuti della Casa Circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna e con i partner della rete Per Aspera ad Astra. “Il teatro è il luogo per eccellenza della presenza o, per meglio dire, della compresenza. Per un grande uomo di teatro, Peter Brook, per dare inizio a un’azione teatrale sono sufficienti un uomo che attraversa lo spazio (non per forza un palcoscenico) e un altro che lo osserva. Bene. Ma come si fa a ricreare questa condizione minima, questo minimo comune denominatore dell’essenza teatrale quando una pandemia globale ti impedisce di condividere quello spazio dove far incontrare attore e spettatore?” (Il Teatro dell’Argine). Questa serata è dedicata a due creazioni che potevano non esserci. Che hanno rischiato fino all’ultimo di non esserci. E che rappresentano il desiderio, lo sforzo, il lavoro che ha fatto sì che invece ci fossero e fossero - se pure diversissime dal piano iniziale - molto più intense, vissute, volute di sempre. Sono un cortometraggio e un documentario realizzati nell’ambito del progetto Per Aspera Ad Astra, che in tutta Italia, e anche a Bologna, sostiene il lavoro di compagnie teatrali all’interno delle carceri, un lavoro fatto di formazione, di creazione artistica, di scambio. I mesi che vanno da febbraio 2019 a settembre 2021 hanno completamente rivoluzionato questo lavoro e questo progetto, soprattutto in alcune zone d’Italia, tantissimo a Bologna, nel lavoro del Teatro dell’Argine all’interno della Casa Circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna, la Dozza. Il documentario racconta quei mesi “in assenza” dei corpi degli attori, degli artisti, di tutti e tutte. Il cortometraggio traspone in una breve opera cinematografica quella che fino a poco tempo fa sembrava un’utopia: quella di voci e corpi che si ritrovano e accendono di nuovo una luce e un senso nel fare, nel fare insieme. Per tutto questo un grazie enorme va a Per Aspera Ad Astra, a chi lo ha ispirato e voluto (Carteblanche e Compagnia della Fortezza), a chi lo sostiene (ACRI e le varie Fondazioni, tra cui la Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna), a chi lo consente, dentro e fuori dalle carceri, alla squadra, dentro e fuori, del Teatro dell’Argine (nella quale stanno anche Nicola Bruschi, scenografo e insegnante, e Marco Bifulco, che ha portato il cinema a noi teatranti) e ai nostri attori vecchi e nuovi. Dentro e fuori. Grazie. Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza - Progetto ideato e capitanato da Compagnia della Fortezza, promosso da Acri e sostenuto da Fondazione Cariplo, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con il Sud, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione di Sardegna. Le carceri e le compagnie teatrali coinvolte nell’edizione 2020/2021 sono Casa di Reclusione di Volterra (Pi) - Carte Blanche / Compagnia della Fortezza, Casa di Reclusione Milano Opera - Opera Liquida, Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” - Teatro e Società, Casa Circondariale di Palermo “Pagliarelli” - Associazione Baccanica, Casa di Reclusione di Vigevano (Pv) - FormAttArt, Casa di Reclusione di Padova - Teatro Stabile del Veneto, Casa Circondariale di La Spezia - Associazione Gli Scarti, Casa Circondariale di Cagliari Uta - Cada Die Teatro, Casa Circondariale di Perugia Capanne - Teatro Stabile dell’Umbria, Casa Circondariale di Bologna “Dozza” - Teatro dell’Argine, Casa di Reclusione di Saluzzo (CN) - Voci Erranti, Casa Circondariale di Genova Marassi - Teatro Necessario. Piacenza. Teatro-carcere, i detenuti mettono in scena “Odissea” piacenzasera.it, 21 dicembre 2021 “Percorso inclusivo, che porta alla riscoperta delle proprie capacità”. Un lungo viaggio in mare, metafora della vita stessa, la grotta di Polifemo, le tante difficoltà di un peregrinare verso una meta, misurandosi con sé stessi e con gli altri. È legato ad uno degli episodi più noti dell’Odissea il progetto di Teatro in carcere curato da Mino Manni, sostenuto per la seconda volta dal Rotary Piacenza e rivolto ai detenuti della Casa Circondariale di Piacenza, in collaborazione e con il prezioso supporto di Maria Gabriella Lusi, direttrice del carcere piacentino. Dopo l’esperienza con Iliade, lo scorso anno, il progetto di teatro è stato dunque incentrato sulla figura di Ulisse, sull’attualità dei contenuti che ne tracciano la storia, sulla forza dei tanti significati che il poema epico per eccellenza, ancora esprime. Il corso di teatro si è sviluppato in tre mesi, con incontri settimanali della durata di 4 ore ciascuno per 11 partecipanti e con una rappresentazione finale dal vivo che si svolgerà lunedì 20 dicembre nella Sala Teatro del penitenziario. Un’esperienza basata su improvvisazione, musica, recitazione. Ma soprattutto, ci spiega Mino Manni, attore, regista e direttore artistico del Teatro Verdi di Fiorenzuola, sulla scelta della storia. “E’ fondamentale, deve appassionare, coinvolgere, ma anche trasmettere contenuti che accendano la speranza di libertà e amore - ha detto -. Una funzione catartica per chi recita e per chi assiste allo spettacolo, ma anche un ruolo sociale, civile e di valore culturale che è tale per tutte le forme di teatro, non solo per quello che si fa in carcere”. Già, il carcere. Un luogo particolare dove parlare di libertà significa spingersi in profondità, in ambiti delicati e sensibili. “Lavorare in carcere per me è stata un’esperienza unica e meravigliosa - rimarca Manni - qualcuno è arrivato a dirmi che le ore del corso erano le sole in cui si sentiva davvero vivo e tutti si sono impegnati moltissimo. Il lunedì arrivavano alla lezione sempre motivati, preparati, coinvolti dalla storia, pronti a mettersi in gioco. Non serviva avere precedenti esperienze di recitazione, ovviamente - prosegue Manni - a chi ha partecipato al corso ho chiesto solo di tirare fuori quello che aveva dentro. Sono partito dall’ascolto, come faccio sempre quando metto in scena un testo, una storia, e ho lavorato nel segno della collaborazione e della condivisione continua”. Per il carcere di Piacenza un’esperienza che torna per la terza volta consecutiva e che non si è fermata nemmeno durante la pandemia, confermando la validità della sua portata. “Il teatro è cultura, arte e bellezza - sottolinea Maria Gabriella Lusi, direttrice della Casa Circondariale di Piacenza - ma in carcere aggiunge qualcosa di particolare: un percorso inclusivo che porta alla riscoperta del sé e delle proprie capacità. Una doppia sfida, personale e organizzativa; uno sforzo che vale la pena affrontare, occasione per un ulteriore collegamento con la città e sinergia importante con alcune delle sue realtà; un progetto che non a caso raccoglie anche l’approvazione del Prefetto Daniela Lupo e del sindaco Patrizia Barbieri e che il 20 dicembre, in occasione della rappresentazione finale, vorrà essere un augurio alla città nel segno della serenità. Il mio grazie - conclude la direttrice Lusi - va dunque a Mino Manni, che anche questa volta ha dimostrato grande attenzione e sensibilità, al personale di Polizia Penitenziaria, all’Istituto Raineri Marcora che si occuperà di allestire il buffet per i partecipanti alla serata e soprattutto al Rotary Piacenza che ha creduto e sostenuto ancora questo progetto”. Ed è il Presidente del Rotary Piacenza Augusto Pagani a ribadire il valore dell’iniziativa, spiegando l’impegno del club piacentino nel dare continuità “Abbiamo deciso di replicare questo service perché rappresenta una occasione di crescita e di impegno per il gruppo di detenuti che hanno aderito alla iniziativa. Confidiamo che il percorso seguito sotto la regia di Mino Manni possa essere per questi uomini un punto di partenza positivo per una vita migliore. A loro ed a tutti i detenuti del carcere di Piacenza auguriamo un 2022 più felice e più sereno”. Milano. A tavola con i detenuti, così gli chef “stellati” offrono un “Pranzo d’amore” di Peppe Aquaro Corriere della Sera, 21 dicembre 2021 Prodotti a Chilometro zero, come la zucca e il cavolo toscano, chef e camerieri che non ti aspetti (anche se solo per un giorno) e il cibo energetico per eccellenza: una parola di conforto. Eccolo il menu di questa ottava edizione de “L’altra cucina…Per un pranzo d’amore”, in programma, il 21 dicembre intorno alle 11,30, in tre carceri italiane: la sezione femminile di Rebibbia, a Roma; l’istituto di detenzione di Opera, a Milano; e l’istituto penale minorile, “Quartucciu”, di Cagliari. La giornata è organizzata da Prison Fellowship onlus Italia, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza, oltre che, naturalmente, dal Ministero della Giustizia. Ed è dal 2014, all’interno di alcune carceri del nostro Paese, per le festività, che vengono organizzati dei pranzi del tutto speciali, con chef stellati che si cimentano ai fornelli preparando pietanze gourmet per chi vive la dolorosa esperienza della detenzione. Lo chef e i Cugini di Campagna - Ai tavoli, assieme a circa seicento volontari del Rinnovamento dello Spirito santo, prestano il proprio servizio numerosi “testimonial” del mondo dello spettacolo, della musica, del teatro, della televisione, del giornalismo e dello sport. A Roma, per esempio, nella Casa circondariale femminile di Rebibbia, diretta da Alessia Rampazzi, lo chef Gianfranco Pascucci, del ristorante “Pascucci al porticciolo”, stella Michelin nel 2012, a Fiumicino, preparerà le sue specialità gourmet per ben 320 persone. Non sarà da solo, certo. Insieme allo chef romano troveremo una dozzina di volontari pronti a dargli una mano. Mentre diversi artisti e personaggi pubblici gireranno tra i tavoli, portando un po’ di gioia a chi vive una situazione sicuramente non felice. “Anima mia, torna a casa tua”: bene, chi è che non conosce l’hit dei Cugini di Campagna, pronta a risuonare grazie alla presenza di Tiziano Leonardi, tastierista de I cugini di campagna, il quale sarà affiancato dai colleghi Francesca Alotta (ricordate, in coppia con Aleandro Baldi, entrambi vincitori al Sanremo ‘92 con “Non amarmi”) ed Erminio Sinni, il cantante vincitore a The Voice Senior, lo scorso anno. Due progetti importanti - Nei giorni scorsi, nel corso della presentazione de “L’altra cucina…Per un pranzo d’amore”, è stata ricordata anche la terza edizione del Progetto Auxilium, della onlus Fondazione Alleanza. Si tratta di un sostegno alle famiglie dei detenuti, nel quale sono considerati tre aspetti: la detenzione del “capofamiglia”, il disagio economico che si viene a creare e l’eventuale presenza di disabilità all’interno del gruppo famigliare. In questa edizione, il progetto Auxilium si impegna a sostenere ben 40 nuclei familiari. Per info: www.fondazionealleanza.org. Ma c’è anche un altro progetto, “L’alt(r)a Cucina”, dedicato al reinserimento lavorativo di detenute e detenuti, per il settore della ristorazione, e che si realizzerà all’interno di tre istituti penitenziari, al Nord, al Centro e nel Sud Italia. Con la famiglia a tavola - Tornando al pranzo stellato di martedì 21 dicembre, al carcere di Opera, a Milano, tra i 120 commensali ci saranno, oltre al direttore dell’istituto, Silvio Di Gregorio, anche i famigliari dei detenuti. I piatti decisamente gourmet sono quelli dell’osteria milanese “Al Pont de Ferr”, la musica è quella dell’artista di strada Eddy Mirabella, mentre le risate le procureranno Rosy Cannas, Francesco Rizzuto e Salvatore Ferrara. E poi, è previsto anche un concerto dell’Istituto secondario di secondo grado Rudolf Steiner di Milano, composto da 28 elementi più alcuni artisti professionisti. Per un cast di livello non poteva mancare un presentatore di altrettanta bravura: Niccolò Torielli, conduttore de “Le Iene”. Dal calcio all’Accademia del buon gusto - Infine, c’è una storia nella storia, in questa giornata particolare, altrettanto bella e che merita di essere ricordata. Nell’istituto penale minorile “Quartucciu” di Cagliari, diretto da Enrico Zucca, a cucinare ci penserà William Pitzalis. Chi è costui? È lo chef del Cagliari calcio, oltre che primo tifoso dei rossoblù sardi. Ma la cosa carina è che appena un anno fa, nel pieno della pandemia, Pitzalis è riuscito a coronare il suo sogno: aprire un’Accademia del buon gusto nel quartiere Sant’Elia, tra i più difficili di Cagliari, oltre sede per una vita del celebre stadio della squadra di calcio. Lo chef della squadra sarà in compagnia di Marcello Putzu, chef del ristorante “Sa Schironada Bistrot Cagliari”. Per l’occasione, è previsto un concerto di Natale della Corale regionale del Rinnovamento dello Spirito Santo. La vera strategia jihadista è quella di segregare intere regioni del mondo di Mario Giro Il Domani, 21 dicembre 2021 La nostra doveva essere l’età dell’accesso ma aree sempre più ampie del mondo diventano inaccessibili e pericolose. Nei paesi emergenti si fa strada l’appello a tornare al passato, a negare la storia e a rintanarsi nelle tradizioni più chiuse. Nativismo, localismo, isolazionismo esistono a ogni latitudine. Troppa libertà e mescolanza spaventano molti ed è qui che si innesta l’eversione jihadista che, pur con le sue diversità e divergenze teologiche, sembra puntare a impedire l’accesso a spazi sempre più grandi, iniziando con l’allontanare gli occidentali. Insensibilmente sta cambiando la geografia mondiale. La nostra doveva essere l’età dell’accesso ma aree sempre più ampie del mondo diventano inaccessibili e pericolose. I siti dei ministeri degli Esteri occidentali (ad esempio viaggiaresicuri.it) sono pieni di allarmi e divieti che escludono ai viaggiatori un numero di paesi sempre più grande. Anni fa saggi, articoli e innumerevoli convegni sono stati fatti sulle caratteristiche di apertura della globalizzazione. L’idea era che tutti hanno accesso a tutto e a tutti, almeno così avrebbe dovuto essere. Il simbolo era lo smartphone: chi lo possiede può collegarsi quasi senza costi con tutto il mondo, ricevendo informazioni ma soprattutto connettendosi per scambiare con chiunque. Una vera rivoluzione per avvicinare gli esseri umani, restringere le distanze e creare un immaginario globale fatto di valori ma soprattutto di consumi, gusti, scelte di vita, tendenze e mode comuni. Il mondo del facile accesso - Si trattava di un ibrido con l’ambizione di andare bene a tutti o quasi. Fin dall’inizio la parte del leone l’ha fatta l’occidente con i suoi modelli e le sue proposte ma pian piano si sono fatti strada anche altri, mescolandosi e contaminando lo spazio virtuale comune. In effetti (malgrado le restrizioni dovute alla pandemia) viviamo in un mondo dal facile accesso, principalmente in termini economico-commerciali ma anche con una continua produzione di comunità (virtuali o reali) “senza frontiere”, sia nella cultura che nelle scelte esistenziali e nelle credenze, mediante una permanente e infinita successione di imitazioni e riproduzioni. Tale processo è in atto, è potente e sta proseguendo la sua tumultuosa corsa. Eppure, malgrado la sua vitalità, incontra opposizioni sempre più forti. Innanzitutto le trova nell’occidente stesso, laddove tutto il processo è iniziato. Tradizionalisti e nostalgici di una old America o vecchia Europa sono spaventati dalle conseguenze di queste evoluzioni, dalle libertà che innescano e dalle vicinanze che producono. Molti preferiscono un mondo separato in cui i valori siano gerarchizzati, le esistenze dissociate, lo spazio segregato. Ritorno al passato - Pare a loro più rassicurante il mondo di ieri ma non tengono conto di quanto altri popoli abbiano sognato il libero accesso (a iniziare dall’indipendenza contro il colonialismo) e di quanta acredine la sua negazione abbia provocato e stia ancora provocando solo se pensiamo alle migrazioni. Tuttavia, anche nei paesi emergenti si fa strada l’appello a tornare al passato, a negare la storia e a rintanarsi nelle tradizioni più chiuse. Nativismo, localismo, isolazionismo esistono a ogni latitudine. Troppa libertà e mescolanza spaventano molti ed è qui che si innesta l’eversione jihadista. Cosa vogliono realmente i jihadisti, a qualunque sigla appartengano? Hanno in programma il “negare l’accesso” agli altri, alle altrui culture, ai diversi stili di vita e così via. Sono i veri rappresentanti dell’odierna dottrina della segregazione. Guardando ciò che accade si ha l’impressione che la strategia militare del jihadismo internazionale, pur con le sue diversità e divergenze teologiche, punti precisamente ad impedire l’accesso a spazi sempre più grandi, iniziando con l’allontanare gli occidentali. La tattica del terrorismo è dunque rendere impossibile e insicura l’entrata o il passaggio in aree territoriali sempre più ampie. Non c’è solo il pericolo della pandemia: davanti a una mappa geografica ci si rende conto del progressivo restringersi della possibilità di attraversare interi territori ormai considerai a rischio. Dal Sahel jihadista all’Africa centrale e dei grandi laghi pieni di milizie, al Corno d’Africa in fiamme fino al Mozambico settentrionale attaccato dai jihadisti, all’Asia centrale sempre più insicura (si pensi all’Afghanistan ma anche ai paesi suoi frontalieri) e ora anche a Siria, Yemen, Libano, Tunisia, Libia e gran parte del medio oriente fino al Caucaso. In estremo oriente si possono indicare come pericolose zone delle Filippine meridionali, una parte delle isole indonesiane e così via. Ci sono paesi, come le Maldive, in cui i turisti stranieri vengono tenuti strettamente separati dalla popolazione, senza poter andare se non nelle aree assegnate loro. Ribellioni vecchio stampo - Non è solo il jihadismo a negare l’accesso: vi sono anche ribellioni vecchio stampo sia in Africa che in America Latina, legate a una rabbia contro il nord ricco del mondo che non ha saputo fare giustizia né produrre uguaglianza. Il rischio è che siano riutilizzate e manipolate dai jihadisti che utilizzano i loro slogan. Fa impressione, ad esempio, come nelle propagande di tutte le rivolte che in un modo o nell’altro si oppongono all’interconnessione della globalizzazione e alla libertà di accesso, spunti sempre il medesimo antico slogan anti imperialista. In generale si considera il radicalismo islamico come una dottrina passatista e retrograda ma è proprio questa la sua forza: rappresentare la sicurezza del mondo di ieri con le sue regole e delimitazioni, rifiutando quello di oggi così confuso, aperto e complesso. Il jihadismo è il simbolo di chi non si adatta alla postmodernità della globalizzazione: è questo il suo messaggio e la sua forza. In un mondo di spaesati che non riconoscono più il tempo in cui vivono, si apprezzano tali valori tradizionali dalle solide certezze. Ciò può attecchire tra i nostalgici di tutto il mondo. Più avanza la globalizzazione dei costumi e delle idee, più sale una sorda collera tra chi crede di essere stato tradito, lasciato indietro o abbandonato. Costoro possono opporsi in vari modi al processo globalizzante in atto: con la violenza, la rabbia o la rivolta. Ma uno dei modi più efficaci pare diventare la silenziosa ostilità che separa, impedisce ogni contatto e scambio e alla fine vieta il libero accesso. Tale sorda contrarietà crea inimicizia, inibisce il dialogo e allontana le genti. Davanti a tali fenomeni si può reagire con rassegnazione, iniziando a credere che il disordinato ma fecondo convivere non valga per tutti. Sarebbe un errore capitale far crescere tali pregiudizi complici dell’inerzia e della mancanza di visione politica. Ecco perché ogni dialogo è utile e vitale in sé stesso: impedisce il radicarsi di tali convinzioni e apre ognuno allo stupore dell’incontro. La Siria non è un paese da scoop di Filippo Merli Italia Oggi, 21 dicembre 2021 Secondo Rsf, su un totale di 65 cronisti detenuti nel mondo, ben 44 si trovano a Damasco. Rischiano la vita con un computer portatile e una macchina fotografica al collo. Oppure, con i loro pezzi di giornale, sfidano quotidianamente dittature e censure in regimi totalitari. Oggi, per i giornalisti, l’area geografica più rischiosa è il Medio Oriente, dove sono tenuti in ostaggio 64 dei 65 cronisti detenuti in tutto il mondo. Secondo un’indagine di Reporters sans frontières, la Ong fondata nel 1985 in Francia che promuove e difende la libertà d’informazione, attualmente sono 65 i giornalisti ancora in ostaggio, di cui 64 divisi tra Siria (44), Iraq (11) e Yemen (9), oltre al giornalista francese Olivier Dubois, che da aprile è prigioniero in Africa. In Siria la più grande minaccia attuale proviene da Hayat Tahrir al-Sham, un gruppo militante che controlla l’area settentrionale di Idlib e che tiene in ostaggio sette reporter. Nel 2021 la stessa organizzazione ha rapito altri quattro giornalisti. Il rapporto di Rsf diffuso lo scorso giovedì evidenzia che oggi ci sono 488 professionisti dei media imprigionati in tutto il mondo, il numero più alto da quando l’organizzazione non governativa per la libertà di stampa ha iniziato a divulgare il dossier. Al contrario, il numero delle vittime di quest’anno, 46, è stato il più basso proprio a causa della relativa stabilizzazione dei conflitti mediorientali. Secondo l’Ong francese, il calo del numero di morti dal picco del 2016 riflette le mutevoli dinamiche in Siria, Iraq e Yemen, dove la riduzione delle guerre interne ha spinto un minor numero di giornalisti a recarsi sul posto. Il 65% delle vittime, si legge nel documento di Rsf, è stato “deliberatamente preso di mira ed eliminato”. Una vera e propria esecuzione. Tra i casi più eclatanti in Medio Oriente evidenziati da Reporters sans frontières c’è la condanna congiunta più lunga di quest’anno inflitta a un cronista: si tratta di Ali Aboluhom, un reporter di origine yemenita che è stato condannato a 15 anni di carcere in Arabia Saudita per alcuni tweet che, secondo le autorità saudite, sono stati utilizzati per diffondere “idee di apostasia, ateismo e blasfemia”. Uno dei due giornalisti più anziani detenuti è Kayvan Samimi Behbahani, 72 anni, tenuto in ostaggio in Iran. Caporedattore del mensile Iran Farda e presidente dell’Associazione per la difesa della libertà di stampa, Behbahani, nel dicembre del 2020, è stato condannato a tre anni di carcere con l’accusa di “propaganda antigovernativa”. Una sorta di tribunale del popolo per ottenere giustizia per i giornalisti assassinati è stato aperto all’Aia il mese scorso per difendere la libertà dei media in un’epoca di crescente autoritarismo e populismo. Il tribunale è stato organizzato da Free press unlimited, Committee to protect journalists e dalla stessa Rsf. Le udienze, della durata di sei mesi, si concentreranno sui casi irrisolti di tre giornalisti assassinati in Messico, Sri Lanka e Siria. Sebbene non abbia poteri legali per infliggere condanne, il tribunale mira a sensibilizzare, fare pressione sui governi e raccogliere prove attraverso quella che chiama la sua “forma di giustizia di base”. Bielorussia. Il dramma dei bambini, da soli nella foresta senza la famiglia di Alessandra Fabbretti Il Manifesto, 21 dicembre 2021 Bloccati alla frontiera con la Polonia. I volontari polacchi fanno di tutto per assisterli ma la polizia li ostacola. Nei gelidi boschi che ricoprono le frontiere tra Polonia e Bielorussia al dramma dei migranti che da settimane sono accampati tra la neve si aggiunge quello dei minori. Tra loro alcuni viaggiano addirittura senza famiglia, come nel caso di Ali, un quindicenne dell’Iraq. “Sono stati i genitori a farlo partire via dopo che una delle tante milizie armate locali ha ucciso uno dei suoi fratelli. Ce lo ha spiegato al telefono il padre, che fa da tramite con Ali che non parla ancora bene inglese”. A riferire questa storia è Ewa, una volontaria polacca che da mesi raccoglie le richieste di aiuto che giungono dai profughi bloccati in questo angolo di Europa. Fa parte di una delle associazioni dell’alleanza “Grupa Granica” che da agosto si è costituita per rispondere alla crisi umanitaria innescata da un inedito aumento negli arrivi di profughi mediorientali e africani dalla Bielorussia e che il governo di Varsavia sta gestendo come una minaccia alla sicurezza interna. Raggiungiamo Ewa telefonicamente e ci risponde col tono di chi va di fretta: “Devo dedicarmi agli Sos che ricevo dal confine”, dice. Tra le persone da assistere, però, Ali è in cima alla sua lista: “Sono sempre in pensiero - continua- me ne occupo da settimane. Qualche notte fa non sono riuscita a chiudere occhio perché non ci rispondeva al cellulare”. Ewa riferisce che il quindicenne ha vagato da solo per giorni prima tra le foreste sul lato bielorusso del confine, poi una settimana fa è entrato in Polonia dove ha continuato il viaggio con un migrante più grande. “Stando al suo racconto- prosegue Ewa- sono stati i militari bielorussi a costringerlo ad attraversare il confine ed entrare in Polonia. Qualche giorno fa però è stato trovato dagli agenti di frontiera che invece di accoglierlo, lo hanno respinto di nuovo verso la Bielorussia. Ora è laggiù, ha la febbre”. A Ewa, il papà di Ali ha detto che “gli agenti polacchi avrebbero riso tanto quando il figlio, piangendo, li ha supplicati di non respingerlo”. Da quando è iniziata l’emergenza umanitaria alle frontiere bielorusse si sono creati vari gruppi sui social network per mettere in contatto i profughi con i volontari. Scorrendo i vari post, racconti come quelli di Ewa sono frequenti ma non verificabili fino in fondo perché da settembre solo i militari e i media di Stato hanno accesso alla zona di confine e chiunque voglia avvicinarsi - che si tratti di politici, giornalisti o operatori umanitari - rischia una multa fino a 500 zloty (in un paese dove il salario medio si aggira intorno ai 2.000-3.000 zloty) e l’arresto. Tra le varie storie che viaggiano in rete si trova quella di Eileen, una bambina irachena di quattro anni che sarebbe rimasta da sola sul lato polacco del confine nella notte tra il 6 e il 7 dicembre. A Grupa Granica i genitori hanno denunciato di aver perso la figlioletta quando gli agenti polacchi sono intervenuti per respingere il loro gruppo. Le ricerche dei volontari sono state infruttuose mentre il 10 dicembre la polizia di Byalistok ha fatto sapere di aver intercettato anche dei bambini senza chiarire se Eileen fosse tra loro. E in quella foresta - evidenziano i media polacchi - ci sono i lupi. “Questa crisi umanitaria è di dimensioni enormi” riferisce Anna, volontaria polacca indipendente, “non abbiamo stime esatte ma sappiamo che ci sono centinaia di persone nascoste nelle foreste, tra cui anche alcuni adolescenti senza famiglia”. Se il diritto internazionale vieta i respingimenti forzati di profughi che fuggono da guerre o situazioni di pericolo, esistono ancora più responsabilità in capo agli Stati quando si tratta di un Msna, un minore straniero non accompagnato. Ma la presenza dei minorenni, che siano soli o con le famiglie, piccoli o adolescenti, non ridurrebbe il rischio dei respingimenti: “La polizia polacca di frontiera qualche settimana fa ha garantito l’accoglienza alle mamme con bambini - prosegue Anna - ma non abbiamo modo di verificarlo. Da un lato speriamo che questo sia il motivo per cui stiamo ricevendo meno chiamate da parte di famiglie con bambini piccoli, potrebbero aver deciso di non avventurarsi nei boschi con queste temperature. Ma temiamo anche un’altra spiegazione”. Alcuni volontari, dice Anna, hanno riferito di essere stati pedinati da agenti a bordo di auto civili. “Se è già capitato che i volontari a loro insaputa abbiano guidato gli agenti dai migranti, e questi poi sono stati arrestati o respinti, è normale che ora gli altri abbiano paura a contattarci”. D’altronde coi bambini è più complicato scappare. Ma anche i volontari vivono nel timore di essere “tenuti d’occhio dai militari”: è il motivo per cui sia Ewa che Anna non rivelano né il loro cognome né l’area in cui operano. Egitto. Alaa Abd el-Fattah, calvario senza fine: altri 5 anni di carcere di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 dicembre 2021 Insieme all’attivista volto di piazza Tahrir, condannati anche il suo avvocato Mohamed Baqer e il blogger Mohamed “Oxygen” Ibrahim. Tutti in prigione da settembre 2019, ma i due anni di detenzione cautelari non saranno scalati dalla pena. Il giudice della corte per lo stato di emergenza di New Cairo non è nemmeno uscito per leggere la sentenza, l’ha fatta gridare da un funzionario del tribunale: cinque anni di carcere per Alaa Abd el-Fattah, quattro a testa per Mohamed el-Baqer e per Mohamed “Oxygen” Ibrahim. Il primo è il più noto attivista egiziano, anima di piazza Tahrir, informatico e pensatore gramsciano. Il secondo è il suo avvocato, arrestato in un’aula di giustizia mentre lo difendeva. Il terzo è un blogger. Per tutti le accuse sono le stesse: diffusione di notizie false e appartenenza a gruppo illegale che avrebbe tentato di sospendere la costituzione. Due i fascicoli: il caso 1356 del 2019 era scaduto, da cui l’apertura del caso 1228 del 2021, lanciato per impedire il rilascio dei tre (arrestati nel settembre 2019) dopo i due anni di detenzione cautelare legali. Un trucco che, tra le altre cose, permette di non scalare i due anni già trascorsi dietro le sbarre dalla sentenza finale. L’udienza di ieri era attesissima, temuta: non si immaginavano sconti né clemenza. Né tantomeno il rispetto degli standard di un processo equo: come denunciato da mesi, i legali dei tre imputati non hanno avuto accesso ai fascicoli della procura, rimanendo all’oscuro delle effettive accuse e delle eventuali prove, né hanno potuto incontrare i loro assistiti da maggio scorso. Insomma, impossibilitati a costruire una difesa. Senza dimenticare che le accuse mosse ad Abd el-Fattah, Baqer e Ibrahim rientrano nello stato di emergenza, rimosso lo scorso settembre dal presidente al-Sisi. Poco importa: i casi aperti nel quadro dello stato di emergenza sono rimasti in piedi. Come una delle caratteristiche principe delle sentenze “emergenziali”: niente appello, solo la ratifica da parte del presidente. Nessuno si aspetta una grazia. Basta vedere come il governo egiziano ha risposto a quello tedesco dopo la richiesta di Berlino di rispettare i diritti degli imputati (richiesta mossa dopo aver venduto al regime egiziano tre fregate della Thyssenkrupp e 16 batterie antiaeree prodotte di Diehl Defense, all’insaputa del Parlamento. L’efficacia del contiano “fare affari per essere influenti sulle scelte politiche di al-Sisi” non funziona nemmeno a Berlino). Alla Germania, domenica, il ministero degli esteri egiziano ha detto di non impicciarsi: “Una palese e ingiustificata ingerenza negli affari interni egiziani - si legge nella nota - È sorprendente che il governo tedesco chieda al Cairo il rispetto della legge e allo stesso tempo voglia influenzare le decisioni della magistratura egiziana, che è ben nota per la sua indipendenza, imparzialità”. Il calvario di Alaa sembra senza fine: arrestato sotto Mubarak e poi sotto Morsi, è tornato in prigione nel 2013; condannato a cinque anni per partecipazione a manifestazione non autorizzata, era stato rilasciato nel marzo 2019. Libero a metà: doveva trascorrere ogni giorno, dalle 18 alle 6 in una stazione di polizia. È stato di nuovo arrestato nel settembre 2019: “Sono stato incarcerato e condannato già in passato per la mia partecipazione alle proteste - ha detto ieri Abd el-Fattah durante l’ultima udienza, come ha riportato la sorella Mona Saif - Non sono mai stato in prigione per atti violenti. Ma almeno potevo passare qualche ora al sole. Ne sono stato privato negli ultimi due anni. Non riesco a capire nemmeno le cose più semplici: ad esempio, perché mi è vietato leggere”. Una quotidianità insopportabile che lo scorso settembre ha spinto Alaa sull’orlo del suicidio. “Il verdetto è un chiaro messaggio del governo di al-Sisi alla comunità internazionale - ha commentato Ahmed Mefreh, avvocato e direttore del Committee for Justice di Ginevra - Non ci sarà alcun reale cambiamento per la situazione dei diritti umani nel paese”. Orrore in Birmania, la gente torturata a morte di Sara Perria La Stampa, 21 dicembre 2021 Trovate fosse comuni con 40 cadaveri. Sequestri, decapitazioni, i militari uccidevano anche donne e bambini. Nella prima settimana di dicembre, un padre in Birmania postava un annuncio: “Se qualcuno ha visto mio figlio, rapito dalla giunta, vi prego di farmi sapere qualcosa”. Negli stessi giorni, immagini di corpi carbonizzati, immobilizzati nell’ultimo tentativo di salvarsi sono iniziate a circolare su Facebook e Twitter. Non ci è voluto molto prima che la Burmese Associated Press confermasse che uno dei corpi bruciati vivi era proprio il ragazzo scomparso. Questo è solo uno degli episodi più violenti a danno di civili birmani a dieci mesi dal colpo di Stato che ha portato al potere il generale Min Aung Hlaing, interrompendo la fragile transizione democratica guidata da Aung San Suu Kyi, finita agli arresti. Ora la Bbc aggiunge alla lista di accuse contro la giunta l’esistenza di una serie di fosse comuni risalenti a circa 40 uccisioni sommarie del mese di luglio, supportando con controlli incrociati quanto già denunciato attraverso filmati amatoriali e testimonianze. La giunta birmana non ha voluto negare la possibilità di fosse comuni: “Può succedere”, ha detto il vice ministro per l’Informazione, il generale Zaw Min Tun. “Quando ci trattano come nemici, abbiamo il diritto di difenderci”. Il riferimento è al contrasto della People’s Defence Forces, un esercito rivoluzionario formato da giovani, studenti, lavoratori, musicisti, che non aveva mai preso in mano un fucile prima di decidere di lottare contro la giunta per restaurare la democrazia. Molti appartengono alla generazione Z, vissuta con l’orizzonte di un’apertura democratica e per nulla intenzionata a ricadere nell’isolamento e nelle limitazioni repressive vissute da genitori e nonni. Ci sono anche donne, chi a volte mette giù il fucile e prende in mano un violino, o chi, come M.A.Y, che prima di farsi immortalare in uniforme lavorava per una Ong, occupandosi di ambiente e contrasto all’uso di plastica. Tutte e tutti, addestrati nella giungla dalle milizie etniche, sono consapevoli della reazione brutale dei militari, secondo modalità ben rodate durante le cinque decadi al potere. Sono tragici i dettagli dell’identità delle vittime trovate dentro le fosse o in fondo a un dirupo: un uomo disabile, un ragazzo di 17 anni. Anche un bambino. Secondo i testimoni, i militari sarebbero arrivati al villaggio nello Stato di Sagaing, in Birmania centro-occidentale, separando gli uomini dalle donne, per poi torturarli, legarli, picchiarli e infine ucciderli. L’accaduto era stato denunciato più volte, e ora si conferma l’esistenza di quattro episodi differenti, con il maggior numero di persone uccise - 14 - nel villaggio di Yin. Ricordano, fotogramma dopo fotogramma e testimonianza dopo testimonianza, le atrocità denunciate dai Rohingya, la minoranza musulmana nel vicino Stato Rakhine che accusa i militari birmani di genocidio. “Non riuscivamo a guardare, così abbiamo tenuto la testa giù, piangendo”, ha detto una donna che ha visto uccidere tre membri della sua famiglia: fratello, nipote e cognato. Le uccisioni sommarie nei villaggi e le fosse comuni non sono un incidente, ma si tratta della rodata strategia dei “quattro tagli” che mira a privare la guerriglia - in questo caso quella sostenuta dal governo civile eletto in esilio - dei quattro elementi che li sostengono: finanze, cibo, intelligence e reclute.