Papa Francesco: “Il sovraffollamento delle carceri non è umano, è un muro” di Davide Varì Il Dubbio, 20 dicembre 2021 Papa Francesco ha incontrato gli “invisibili”, affrontando tanti temi: dalla violenza sulle donne al sovraffollamento delle carceri. E anche del Covid. “È tanto, tanto grande il numero di donne picchiate, abusate in casa, anche dal marito. Il problema è che per me è quasi satanico, perché è approfittare della debolezza di qualcuno che non può difendersi, può soltanto fermare i colpi. È umiliante, molto umiliante”. Lo ha detto Papa Francesco a una donna vittima di violenza protagonista con altri “invisibili” di un eccezionale incontro a casa Santa Marta trasmesso ieri sera da Canale 5. “È umiliante quando un papà o una mamma dà uno schiaffo in faccia a un bambino, mai dare uno schiaffo in faccia. Perché la dignità è la faccia. Questa è la parola che io vorrei riprendere”, ha aggiunto Bergoglio. Papa Francesco parla del sovraffollamento delle carceri - “Il sovraffollamento delle carceri è un muro, non è umano! Qualsiasi condanna per un delitto commesso deve avere una speranza, una finestra. Un carcere senza finestra non va, è un muro” ha affermato papa Francesco sul principale canale di Mediaset. “Una cella senza finestra - continua papa Francesco rispondendo alle domande di un ex ergastolano che ha raccontato anche l’esperienza della pandemia in carcere - non va. Finestra non necessariamente fisica, finestra esistenziale, finestra spirituale. Poter dire: “Io so che uscirò, io so che potrei fare quello o quell’altro”. Per questo la Chiesa è contro la pena di morte, perché nella morte non c’è finestra, lì non c’è speranza, si chiude una vita”. Bergoglio e il Natale - Natale “è Gesù, è la nascita di Gesù, fermati un po’ e pensa al Natale come un messaggio, un messaggio di pace. Auguro, a tutti voi, un Natale con Gesù, un vero Natale. Questo vuol dire che non possiamo mangiare? Che non possiamo fare festa? No, fate festa, mangiate tutto, ma fatelo con Gesù, cioè con la pace nel cuore”. È il messaggio lanciato da papa Francesco a tutti i fedeli nel corso di un incontro con un gruppo di “invisibili” trasmesso questa sera su Canale 5. “Fate festa, fate dei regali - dice il Papa -, ma non dimenticatevi di Gesù. Natale è Gesù che viene a toccarti il cuore, buon Santo Natale a tutti”. Papa Francesco e il lockdown - “Nel lockdown tutto va alla prova, anche il rapporto con Dio, la religiosità; il rapporto con Dio non è una cosa lineare che sempre va bene, il rapporto con Dio ha delle crisi come ogni rapporto di amore in una famiglia” ha detto papa Francesco, nel corso della trasmissione condotta dal vaticanista Fabio Marchese Ragona. Gli stessi figli, spiega il Papa, “delle volte si arrabbiano e dicono qualche cosa non è tanto bella ma è normale; il rapporto con Dio è lo stesso, delle volte io mi arrabbio perché non vedo le cose come vorrei e si entra in crisi. Cosa si deve fare in quel momento? Stare zitto, pensare alle difficoltà che sorgono e che non permettono il rapporto con Dio, ma soprattutto pacificare il cuore”. “La mente può andare da tante parti - prosegue - ma il problema è il cuore pacificato; col cuore in ansia non si può cercare Dio, non si può mantenere il rapporto con Dio. Potrete cercarlo ma non potrete mantenerlo perché l’importante è pacificare il cuore anche nel dolore, anche nelle difficoltà. Prendi il Vangelo, nello stesso Vangelo è la parola di Dio che ti sistemerà un’altra volta; io ho paura dei predicatori che vogliono sanare la vita in crisi con le parole, parole, parole. La vita in crisi si risana con la vicinanza, la compassione, la tenerezza. Lo stile di Dio. Questo te lo dà il Vangelo”. Papa Francesco: “Il Covid ci ha messo a dura prova” - “Il Covid ci ha messo tutti in crisi. Una strada per uscire dalla crisi è amareggiarsi e un’amarezza tante volte è farla finita. Il numero dei suicidi è aumentato tanto con la crisi. Una via d’uscita è dire la faccio finita ma che succede quando noi non abbiamo più la forza di resistere nella crisi e trasformiamo la crisi in conflitto? La crisi è aperta, il conflitto ti chiude” ha dichiarato papa Francesco dialogando con una donna vittima di violenza domestica protagonista assieme ad altri “invisibili”. “Tu non vedi uscita dal conflitto - ha detto il Papa alla donna che ha illustrato al Pontefice una situazione personale resa ancora più difficile dalla pandemia - con la tua lotta io vedo che stai lottando per uscire migliore dalla crisi, non ti sei data per vinta e questo è grande, stai dando una lezione di resistenza, una lezione di resistenza alle calamità perché tu puoi dirmi “Perché fai questo? ma io penso ai miei bambini ai miei ragazzi!”. Tu fai una scommessa, per la vita e per la vita dei tuoi vai avanti. Non sai dove, perché non hai casa e non hai lavoro, non sai cosa fare - prosegue Francesco. Ma stai guardando avanti, stai uscendo meglio di prima ma non da sola. Questo è importante: che tu cerchi qualcuno, gente che ti accompagni. Tutti noi abbiamo passato questa crisi di lockdown: alcuni, come il caso mio, non lo sentono tanto perché (dicono, ndr) “io ho il mio lavoro, qualche sicurezza”, ma nel caso tuo si vede e tu hai la volontà di uscirne. Dobbiamo pensare bene cos’è una crisi, non avere paura delle crisi, cercare gente amica, gente vicina per uscirne insieme perché non si può uscire da soli e anche fare un’azione per uscire migliori”. Se il sovraffollamento continua a mangiare spazi vitali ai detenuti di Domenico Guarino La Nazione, 20 dicembre 2021 Se come diceva Dostoevskij il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri, l’Italia deve ripartire dai metri quadrati delle sue celle. Da Antigone e Ristretti Orizzonti i numeri dell’altra emergenza. Sono ormai in pochi a ricordarlo, ma tra il 7 e il 10 marzo 2020 nelle carceri italiane si è verificata una delle più violente ondate di protesta che abbia mai interessato gli istituti penitenziari del nostro Paese. Alla fine secondo i dati di Antigone sono stati circa 6mila i detenuti coinvolti in 49 diversi istituti: 14 di loro sono morti, mentre tra gli agenti della polizia penitenziaria si contarono oltre 40 feriti. Ingenti i danni, dovuti alla distruzione di intere sezioni di alcune strutture carcerarie. Oltre all’evasione di decine di persone detenute nel carcere di Foggia. Quell’ondata di proteste scattò, non casualmente, a ridosso del primo lockdown nazionale, in seguito ad una serie di misure che già avevano a che fare con l’ondata pandemica e con le politiche di contrasto che il governo stava mettendo in campo. Ad accendere la miccia fu l’arrivo delle prime restrizioni per i carcerati tra cui la sospensione dei colloqui con i familiari, e l’implementazione delle regole di distanziamento sociale, che andavano ad aggravare la situazione di forte isolamento sociale. Ma, a di là della situazione contingente, è chiaro che quelle rivolte erano radicate in una serie di condizioni di forte stress delle strutture carcerarie che le misure di contenimento derivate dal Covid avevano rese letteralmente esplosive: ambienti chiusi, spesso insalubri e già caratterizzati da molte restrizioni. In Italia, uno dei paesi con gli istituti più sovraffollati, il Covid ha dunque acuito vari problemi strutturali preesistenti. Nelle carceri italiane 120 detenuti ogni 100 posti - Prima dello scoppio della pandemia a inizio 2020, nelle strutture penitenziarie italiane erano recluse più di 62mila persone, collocando il nostro Paese al quarto posto in Ue, dopo Polonia, Francia e Germania, che ne avevano rispettivamente circa 75mila, 71mila e 63mila. Diverso è il discorso se si prende in esame il numero di carcerati in rapporto alla popolazione totale: nel nostro Paese, stando ai dati del 2019, ci sono 104 carcerati ogni 100mila abitanti, al di sotto della media Ue che è pari a 119,6. Con una tendenza all’aumento progressivo, soprattutto a partire dal 2006, quando, in virtù dell’indulto concesso dalla legge 241/2006, il numero di detenuti era passato da quasi 60mila a circa 39mila. Il risultato di questa crescita, anche in funzione del fatto che nel frattempo non sono state costruite nuove strutture penitenziarie, né sono state ammodernate le vecchie, è che in Italia il numero di detenuti ha continuato a eccedere la capacità degli istituti, rendendo il sovraffollamento un problema particolarmente pesante. Da questo punto di vista l’Italia vanta il risultato peggiore: con circa 120 detenuti ogni 100 posti disponibili, superato negativamente solo da Cipro (134,6 su 100). Nel nostro Paese inoltre si registrano forti differenze a livello regionale: solo in sette gioni italiane (circa 1 su 3) le carceri non sono sovraffollate. In particolare in Sardegna, i cui istituti nel 2021 disponevano di 559 posti non occupati, mentre come tasso di occupazione la precede soltanto la Valle d’Aosta (75,5%). La Sicilia, seguita dalla Lombardia, è invece la regione con il maggior numero di prigioni (23). La regione con le carceri più sovraffollate è invece Il Friuli Venezia Giulia, con un tasso di occupazione pari al 139,5%. Seguono Puglia (127,4%) e Lombardia (126,4%). La Lombardia è anche la regione in cui, in numeri assoluti, è recluso il numero più elevato di persone (7.763) oltre a disporre della maggiore capienza (6.139 posti), ed è anche la regione con più detenuti rispetto alla capienza regolamentare delle sue strutture (1.624 detenuti in più rispetto ai posti disponibili), essendo anche la regione più popolosa d’Italia. Meno di quattro metri quadrati di spazio pro capite - Il risultato è che in molte carceri italiane i detenuti hanno a disposizione meno di quei già miseri 4 metri quadrati di spazio pro capite, che è la soglia minima indicata dal comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Con l’arrivo del Covid, il sovraffollamento, da questione di civiltà, si è immediatamente trasformato in un problema sanitario. Gli spazi ridotti, la scarsa aereazione e la scarsa igiene hanno infatti facilitato la diffusione del virus, rendendo difficile il rispetto dei protocolli sanitari (in primis il distanziamento sociale) e aumentando in maniera esponenziale la probabilità di contagio. Secondo il monitoraggio condotto da Antigone, durante la prima ondata della pandemia, tra marzo e ottobre del 2020, si sono registrati pochi contagi nelle carceri italiane. Durante la seconda ondata (tra ottobre e dicembre del 2020) invece i numeri sono rapidamente saliti, facendo registrare un tasso di positività superiore a quello del resto della popolazione: ad aprile 2020 erano positivi infatti 18,7 detenuti ogni 100mila, contro i 16,8 di tutta la popolazione. Analogamente, a dicembre dello stesso anno, risultavano contagiati dal virus 179,3 carcerati ogni 100mila contro 100,5 tra la popolazione totale, e a febbraio 2021 91,1 contro 68,3. Dal sovraffollamento al problema sanitario - Secondo i dati raccolti da Ristretti orizzonti, che conduce un’azione di monitoraggio dei decessi all’interno delle carceri, sono invece 21 detenuti che hanno perso la vita a causa del virus da novembre del 2020 a oggi. Quattro solo nelle carceri di Milano. Dati drammatici, anche perché il Covid è andato ad impattare su una situazione sanitaria già molto precaria, con le numerose comorbilità pregresse di molti detenuti che ne hanno aggravato gli effetti: dalle malattie psichiatriche o infettive, ai problemi cardiaci, all’epatite, al diabete e, naturalmente, alla tossicodipendenza. Tutte patologie che hanno mediamente un’incidenza più elevata nella popolazione carceraria, anche a causa delle condizioni socio-economiche, inferiori alla media, della maggior parte dei detenuti. A fronte di questo ogni struttura penitenziaria disponeva, nel 2019, in media di appena 1 medico di base ogni 315 reclusi, e nel 70% dei casi si trattava di lavoratori precari. Risorse cioè assolutamente insufficienti già in condizioni normali, figuriamoci durante una pandemia. Una condizione diffusa direte voi. In realtà no. In numerosi Paesi UE, il tasso di positività tra i detenuti è stato costantemente inferiore a quello del resto della popolazione. Tra questi spicca il Lussemburgo, dove il tasso di positività tra la popolazione totale era maggiore di quasi 6 punti percentuali rispetto alla popolazione detenuta (8,74% contro 3%). Seguono Repubblica Ceca e Spagna, con una differenza tra i due gruppi considerati di oltre 5 punti. Segno che le condizioni dei detenuti, all’arrivo del Covid, erano molto migliori che nel nostro Paese. L’Anm lancia il referendum tra toghe sulla legge elettorale per il futuro Csm di Liana Milella La Repubblica, 20 dicembre 2021 Il voto si terrà il 27 e il 28 gennaio, quando però i giochi sulla riforma del Csm saranno già stati fatti in Parlamento. Non era mai accaduto. Addirittura un referendum tra tutte le toghe italiane per sapere da loro quale può essere la legge elettorale migliore per eleggere i futuri componenti togati del nuovo Csm. Venti poltrone che contano moltissimo e sono determinanti per decidere i capi degli uffici, per punire chi sbaglia, per chiosare le leggi del governo. Come quella che sta per approdare a palazzo Chigi, la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Una legge strategica che ovviamente risente del caso Palamara e dopo due anni dovrebbe essere la risposta del governo allo strapotere delle correnti. E proprio qui s’innesta la polemica sulla legge elettorale. L’Associazione nazionale dei magistrati, per una volta con un solo astenuto, ha appena votato la proposta di due correnti - Articolo 101 e Autonomia e indipendenza - di promuovere un referendum tra tutti gli iscritti. Parliamo di circa 7mila giudici sui 9.500 in servizio. Un voto che si terrà tra il 27 e il 28 gennaio, giusto a ridosso delle rituali inaugurazioni dell’anno giudiziario in Cassazione e nei singoli distretti che sono una sorta di sfogatoio dei malanni della giustizia. Una data comprensibile quella di fine gennaio per organizzare il referendum, ma che appare “troppo in là” rispetto ai tempi di approvazione della riforma alla Camera. Vediamo perché: la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha appena concluso con le forze politiche il giro di consultazioni che le consente a sua volta di chiudere il pacchetto degli emendamenti rispetto al testo base dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede che la commissione Giustizia della Camera ha deciso di adottare come testo base. Lo stesso aveva fatto con le riforme del processo civile e di quello penale. La ministra porterà gli emendamenti a palazzo Chigi prima di Natale per un via libera da tutta la maggioranza. Subito dopo il testo, sotto forma di emendamenti, sarà depositato presso la commissione Giustizia della Camera dove sarà dato il via ai subemendamenti. È molto probabile che la commissione chiuda l’esame prima del 18 gennaio quando cominceranno le votazioni a Camere riunite per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Ma un voto delle toghe sul referendum che arriva a fine gennaio rischia di essere poco influente rispetto al lavoro della Camera stessa che sarà chiuso prima. Non solo. Le due precedenti riforme sono state approvate come la fiducia, rispettivamente prima alla Camera quella penale, e prima al Senato quella civile. Di sicuro si andrà alla fiducia anche per la legge elettorale del Csm che deve essere approvata con la massima urgenza perché per il nuovo Csm si andrà al voto a luglio 2022. Nel 2018 i 16 membri togati (che diventeranno 20 con la nuova legge) erano stati votati dai colleghi nella prima settimana di luglio, mentre le Camere avevano indicato gli 8 laici (10 in futuro) a settembre quando poi era stato eletto l’attuale vice presidente David Ermini. Un referendum tardivo dunque? Certo un voto che può creare difficoltà al governo, ma anche spaccare la magistratura. A proporlo è stata la corrente di Articolo 101, la più movimentista e anti sistema, che è rimasta fuori dal governo dell’Anm. Ma a sostenere il voto ci sono anche i “davighiani” di Autonomia e indipendenza che invece fanno parte della maggioranza. Articolo 101 si batte sin dalla sua nascita per il sistema del sorteggio. Una via - secondo i leader del gruppo Andrea Reale e Giuliano Castiglia, entrambi siciliani - per disarticolare il potere delle correnti. È la stessa idea sostenuta dal centrodestra. Lega e Forza Italia si battono per il sorteggio e a Repubblica Giulia Bongiorno, la responsabile Giustizia del partito di Salvini ha dichiarato così giovedì scorso dopo il vertice con Cartabia: “Il sorteggio deve essere preliminare, a me interessa chi eleggi, non come lo eleggi. Qualsiasi sistema elettorale, con le correnti di mezzo, non risolve nulla. Per me l’ideale sarebbe un Csm con il sorteggio dei magistrati a fine carriera che non hanno ulteriori aspirazioni di posti”. Anche l’ex Guardasigilli Bonafede all’inizio aveva ipotizzato il sorteggio, ma poi ha prevalso il rischio di una possibile violazione della Costituzione che all’articolo 104 parla espressamente di elezione e recita così: “Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie”. La commissione presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani aveva ipotizzato il “voto singolo trasferibile” su cui era d’accordo Enrico Costa di Azione. Ma la ministra ha preferito scegliere un sistema maggioritario binominale, con la garanzia della parità di genere e la possibilità di distribuire 4 posti tra i 4 migliori piazzati. Ma da subito le correnti hanno contestato la proposta perché un sistema maggioritario rischia di favorire i gruppi più potenti e organizzati a discapito di quelli più piccoli. Senza contare che le correnti stesse continueranno ad avere “potere” nella scelta dei candidati da piazzare meglio. A questo punto sarà il voto di fine gennaio - vedremo su quale quesito - a dare numericamente l’orientamento delle toghe. Un algoritmo ci giudicherà! di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 20 dicembre 2021 L’uso sempre più massiccio delle tecnologie induce a pensare che stiamo vivendo una nuova rivoluzione nell’attività professionale degli avvocati. Alcuni passi sono stati fatti e si stanno facendo. Altri ne occorre fare, ma pensare che la toga verrà indossata solo in studio, davanti ad un computer, senza recarsi più in Tribunale potrebbe essere illusorio, oltre che fuorviante. Come è stato rilevato da più parti - avvocati e magistrati - il processo telematico sembra essersi bloccato dopo l’avvio di una stagione iniziata sotto i migliori auspici. Si è partiti sostituendo il deposito cartaceo con il deposito telematico. Non sono state invece sfruttate le potenzialità dell’atto informatico. L’importanza dei metadati, data base che potrebbero costituire un inesauribile patrimonio di giurisprudenza. È stata invece migliorata la qualità del lavoro, eliminando le code davanti alle Cancellerie, senza avere più l’assillo di correre in Tribunale per adempimenti materiali, non essere sopraffatti da una marea di documenti cartacei. La pandemia ha accelerato alcuni cambiamenti radicali. Le udienze a trattazione scritta sono diventate, nel processo civile, quasi una realtà. Ma questa situazione ha i suoi pro e contro. Tra gli aspetti positivi di sicuro vi è una ottimizzazione dei tempi ed è stato evitato un blocco dei procedimenti (anche se i casi di rinvii di udienza lunghissimi sono stati frequenti). Si evita di andare in andare in Tribunale, si evitano assembramenti e rischi di contagio, dato che il virus continua a circolare, ma al tempo stesso il principio dell’oralità è inevitabilmente compresso (e compromesso). Il contraddittorio telematico si realizza con uno scambio di memorie digitali. La controparte ne prende conoscenza, senza discussione in funzione della successiva decisione del giudice. Una situazione del genere manda in crisi il principio contenuto nell’articolo 180 del Codice di procedura civile (“Forma di trattazione”), secondo il quale “la trattazione della causa è orale”, ma anche il principio del giusto processo e, infine, quello del contraddittorio. Chissà cosa direbbero osservando questa realtà processual-civilisti come Chiovenda e Carnelutti. I cambiamenti però non si possono arrestare. Ecco che in questo contesto, con l’avverarsi della quarta rivoluzione industriale, come riferito qualche giorno fa dall’ex presidente del Cnf, Guido Alpa, “tra l’impronta liberista statunitense e quella accentratrice e stato-centrica cinese, la scelta europea si segnala per la via mediana dell’intervento regolatorio”. La libertà economica e la tutela dei diritti fondamentali, che passano attraverso una serie di interventi diretti a controllare la digitalizzazione, devono muoversi alla stessa velocità. A questo riguardo entrano con una certa dirompenza nella vita degli operatori del diritto i temi dell’intelligenza artificiale e della giustizia predittiva da non intendere come sinonimi. La giustizia predittiva è una delle numerose applicazioni dell’intelligenza artificiale (un’ampia disamina su questo tema viene fatta dall’avvocato Luigi Viola). “Il diritto - dice Viola - va verso il nuovo. Per questo è importante prestare molta attenzione ai modelli di giustizia predittiva che si stanno diffondendo: deve essere sempre salvaguardata la possibilità di difesa dell’avvocato sul singolo caso. Se si afferma che due più tre è uguale a cinque, deve comunque essere data la possibilità all’avvocato di dimostrare che una variabile inserita non è corretta, come ad esempio 2 o 3, così da poter determinare un risultato diverso che non sarà più 5. È importante che non si ambisca ad una giustizia “robot” dove si preme un tasto e viene prodotto il provvedimento, ma ad una giustizia giurimetrica ed antropocentrica dove è sempre possibile verificare il singolo passaggio della decisione viziato, così da poterlo rilevare e far modificare, per il tramite dell’impugnazione. La difesa deve restare “diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” in base a quanto indicato dall’articolo 24 della Costituzione”. Sull’intelligenza artificiale applicata all’organizzazione, come ha rilevato la consigliera del Cnf Carla Secchieri nel plenum dell’avvocatura, svoltosi a Reggio Calabria poche settimane fa, è utile avere un approccio molto aperto. “Chat-bot - ha evidenziato - che sostituiscono inutili attese al telefono con le Cancellerie, razionalizzazione delle assegnazioni delle cause ai giudici, utilizzo dei dati presenti nei registri di cancelleria per analisi non più solo quantitative ma anche qualitative, che consentano di intervenire laddove il sistema è più debole, sono sicuramente strumenti per una maggiore efficienza. Come sempre, la verità sta nel mezzo: occorre prendere coscienza degli indubbi vantaggi che la tecnologia può portare alla nostra professione, senza pregiudizi o rifiuti aprioristici, ma con consapevolezza, e quindi con una adeguata formazione, ma anche con la coscienza che, se pure cambierà o potrà cambiare il modo di svolgere la professione, non per questo la nostra funzione di difensori dei diritti dei cittadini potrà venire meno”. La digitalizzazione, dunque, è una componente essenziale della vita gli avvocati e non va vista come una minaccia. Anzi, è una opportunità da cogliere al volo, senza, però, volare sulle ali di facili entusiasmi. Non basta un click per assicurarci un giusto processo, per ridurre i tempi della giustizia e, più in generale, per cancellare i tanti problemi che si affrontano stando ore ed ore in Tribunale. Questi ultimi continueranno ad esistere, a meno che qualche nuovo teorico della giustizia senza esseri umani voglia ridurli a luoghi metafisici. Come in un quadro di Giorgio De Chirico. “La giustizia predittiva è già realtà” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 20 dicembre 2021 Pensare alla giustizia predittiva come ad una miscela di calcoli cervellotici che si riportano su appunti sparsi e si riversano su un computer per ottenere formule magiche significa non avere il contatto con la realtà ed immaginare scenari fantascientifici. L’avvocato Luigi Viola del Foro di Lecce è uno dei massimi esperti in Italia di giustizia predittiva. La studia da molti anni e le sue analisi, contenute in diversi libri tradotti pure in cinese, stanno suscitando vivo interesse tra gli operatori del diritto e non solo. Avvocato Viola, la giustizia predittiva è destinata ad entrare nella vita degli avvocati e degli operatori del diritto? “Penso di sì. Va precisato però il significato di giustizia predittiva. Per l’enciclopedia Treccani, deve intendersi la possibilità di prevedere l’esito di un giudizio tramite alcuni calcoli. Non si tratta di predire tramite formule magiche, ma di prevedere la probabile sentenza, relativa ad uno specifico caso, attraverso l’ausilio di algoritmi. Si vuole dire che bisogna verificare la possibilità di prevedere l’esito di un processo, dati alcuni elementi noti come fatto accertato e difese delle parti. All’università abbiamo studiato che il diritto deve essere certo. Ma se così è, allora è anche prevedibile. Diversamente, nelle aule giudiziarie vediamo che spesso la sentenza non è prevedibile. Forse, qualcosa non ha funzionato. Se il diritto vivente si è allontanato da quello vigente, allora è un problema per il cittadino che non sa più cosa fare perché in teoria dovrebbe allineare i suoi comportamenti alla legge, ma poi il diritto vivente ne impone altri. È un’aporia che genera caos e, dunque, ingiustizia”. I modelli matematici si conciliano con le norme, la giurisprudenza e la dottrina? Si conciliano con il vantaggio di assicurare logicità e coerenza. Il diritto funziona con la formula PG: F --> D, ovvero il provvedimento giudiziale PG manda il fatto F nel diritto D. Tale formula è in linea con il sillogismo aristotelico della premessa minore mandata nella premessa maggiore per produrre la conclusione. Per chiarire il concetto, poniamo il seguente esempio: Tizio cagiona una lesione a Caio. Questo è il fatto F. Il giudice, per scrivere il provvedimento giudiziale PG, dovrà mandare il fatto F nel diritto D, che nel caso in esame potrebbe essere l’articolo 2043 del Codice civile, con la conseguenza che si potrebbe avere una condanna di Tizio a risarcire il danno non patrimoniale a Caio. Ebbene, l’avvocato potrebbe mutare l’esito di PG, rilevando elementi fattuali diversi oppure disposizioni di legge diverse. Ad esempio, Caio potrebbe aver agito per legittima difesa ex articolo 2044 del Codice civile. In questo caso, l’avvocato può mutare l’esito del processo, in quanto introduce elementi aggiuntivi, che ben possono essere costruiti con l’ausilio di altre norme, dottrina, giurisprudenza. Un modello matematico non produce risultati sempre uguali e rigidi, ma dipende dalle variabili inserite. Queste ultime vengono selezionate dall’avvocato, che esercita il diritto di difesa ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione. La funzione dell’avvocato ne esce valorizzata”. Come nascono il suo interesse per la giustizia predittiva e per i modelli matematici applicati al diritto? “Nascono dall’esigenza sentita, come avvocato, di difendere al meglio i clienti. Volevo provare a trovare tesi non criticabili da alcuno, al fine di perfezionare la difesa, così ho pensato che la matematica poteva aiutare. Ne è nato un libro, al quale sono molto legato, che è diventato best seller Amazon per la classifica International Law, tradotto in sei lingue e da ultimo anche in cinese: “Interpretazione della legge con modelli matematici”, edito dal Centro Studi Diritto Avanzato. Per la giustizia predittiva è accaduto che i clienti mi chiedessero un possibile esito del processo. Cosa rispondeva in questo caso? Cercavo di dare una risposta, come la maggior parte degli avvocati, con la giurisprudenza relativa a casi similari. Eppure non mi sentivo soddisfatto. Questo modello di risposta basato sui precedenti giudiziari va sotto il nome di giustizia predittiva di tipo induttivo, che mi ha sempre convinto poco, anche perché lascia poco margine alla difesa. Russell, per esempio, avvertiva del rischio dei modelli induttivi e poneva il seguente esempio: immaginate di essere un tacchino, che ogni giorno viene alimentato dal proprietario. Il tacchino penserà che in futuro verrà ancora alimentato e che il proprietario è buono, ma arriva il giorno del Ringraziamento ed il tacchino viene ucciso. Il fatto narrato dimostra che la previsione cosiddetta induttiva, basata solo sui precedenti, è fisiologicamente fallace. Così ho ritenuto di approfondire un modello matematico di giustizia predittiva di tipo deduttivo che ha il grande vantaggio di lasciare maggior margine alla difesa ed alle argomentazioni della parte. Una sentenza diviene prevedibile non perché si guardano i precedenti, ma in quanto si guardano le prove e le difese presenti nel singolo processo. Ho cercato di dimostrare che non c’è il libero convincimento del giudice, ma vincolo alle prove, prudenza nella valutazione e regole rigorose per l’interpretazione. Questa non è libertà, piuttosto ne è il limite. Gli avvocati si recheranno sempre meno in Tribunale? Il lavoro legale si svolgerà sempre più davanti ad un computer? “Il processo civile telematico dimostra che si va nella direzione di attività online. Non so dire, in assoluto, se gli avvocati si recheranno sempre meno in Tribunale, ma posso dire che l’obiettivo è maggiore giustizia, che vuol dire fare bene e fare presto, dando a ciascuno secondo il suo, in linea con l’articolo 111 della Costituzione. Il lavoro del legale è sempre più online, ma questo è il visibile. Diversamente, il lavoro invisibile è fatto di riflessioni a qualsiasi ora, confronti con colleghi, ricerche, studio di dottrina e giurisprudenza, con appunti sparsi, cancellati, riscritti, perfezionati. Forse il lavoro visibile è mutato e cambierà nel tempo, ma quello invisibile mi sembra similare”. “Per fare giustizia non si può fare a meno dell’uomo” di Simona Musco Il Dubbio, 20 dicembre 2021 Intelligenza artificiale sì, giustizia predittiva no. Carla Secchieri, consigliera del Cnf, lo dice a gran voce: su questo argomento si sta correndo troppo, senza valutare appieno quali potrebbero essere le conseguenze se si decidesse di “sostituire” il giudice con un algoritmo. “Pensare adesso che si possano applicare i sistemi di intelligenza artificiale alla giustizia è prematuro - spiega. Nel far giustizia, non si può prescindere dall’uomo”. Consigliera, come si può applicare l’intelligenza artificiale alla giustizia? Può sicuramente produrre dei benefici nell’organizzazione della giustizia. Utilizzare algoritmi allenati nell’elaborazione dei dati può certamente consentire lo sveltimento di questioni di attività di cancelleria, può aiutare a comprendere quali sono le disfunzioni del sistema, per esempio in quali tipologie di cause e in quali zone ci sono dei ritardi, per gestire meglio l’organizzazione tabellare dei giudici. Penso anche a delle chatbox che possono essere utilizzate per migliorare il servizio di cancelleria. Avere la possibilità di gestire dei dati in maniera organica può consentire una gestione ragionata e molto più veloce per andare a migliorare laddove i sistemi si rappresentano carenti. Si possono utilizzare i dati che vengono raccolti dal processo telematico per elaborarli e capire quali sono le disfunzioni che determinano l’allungamento del processo e intervenire valutando le risorse che possono servire, quindi il numero di magistrati, e quali sezioni sono più interessate da un maggior numero di procedimenti. Qual è il rischio? Prendiamo l’esempio francese: lì questo sistema ha dato il La per le proteste dei magistrati, che hanno ottenuto una norma che impedisce la profilazione dei giudici. Uno dei rischi ad intervenire in questo campo è proprio questo: se una sezione è poco produttiva, quei magistrati potrebbero essere schedati. Si parla molto di giustizia predittiva: cosa bisogna aspettarsi? È una possibilità ancora lontana, perché per noi non ci sono dati sufficienti per l’elaborazione, non c’è un algoritmo allenato, sia per la carenza, appunto, di dati sia perché gli algoritmi, oggi come oggi, non riescono ad intervenire con un linguaggio confacente all’italiano. Sostanzialmente c’è una carenza di possibilità. Ci sono poi troppe variabili che non consentono un’applicazione al nostro tipo di ordinamento, che è basato non sul precedente, ma sull’esame del caso di concreto. La giustizia predittiva, in questo momento, trova anche un ostacolo sotto il profilo dei diritti umani e dell’accessibilità delle parti ai sistemi. Se è vero che i giudici possono contare su un sistema statale, con la possibilità di investimenti importanti, la parte che non ha accesso a questi sistemi sicuramente si trova svantaggiata. Il rischio è che diventi una giustizia per ricchi, cioè per coloro che possono permettersi avvocati che siano in grado di creare i propri sistemi. Penso, ad esempio, al cliente che ricorre al patrocinio a spese dello Stato: in quel caso è escluso a priori. Il rischio è anche quello che la giustizia si disumanizzi? Il mito dell’intelligenza artificiale si discosta da quella che è la giustizia del caso concreto. Il precedente non riesce ad evolvere la giurisprudenza, perché l’algoritmo prende i dati del passato, li rielabora, ma dovrebbe avere anche un contatto che non può avere col caso specifico e anche con la realtà sociale. Quindi può servire in termini statistici? Certamente; e anche in termini di calcolo: penso alle tabelle, ad esempio. Ma voglio andare oltre: ci sono dei sistemi, che si definiscono di intelligenza artificiale, per il calcolo dell’assegno di mantenimento. Secondo me anche quello rischia di essere pericoloso: ogni famiglia è una monade a sé stante, quindi valutare l’importo di un assegno di mantenimento sulla base di un calcolo statistico è rischioso. Certo, se per intelligenza artificiale s’intende un’evoluzione della banca dati che noi attualmente abbiamo, che è la raccolta della giurisprudenza, allora ben venga. I tentativi in atto, pubblicizzati come prime applicazioni dell’intelligenza artificiale alla giustizia, sono, in realtà, grandi raccolte di dati sui quali non c’è una elaborazione. La pandemia ha fatto emergere l’esigenza di fare un passo in avanti in termini di digitalizzazione. In questo senso l’intelligenza artificiale potrebbe tornare utile? Certamente è utile. Ma se parliamo di come la stessa possa essere utile agli studi legali, anche in questo caso, almeno in Italia, siamo molto lontani dal poter avere una soluzione: gli unici programmi disponibili sono in inglese e uno studio che voglia creare il proprio sistema per aiutarsi nella gestione dei clienti deve investire moltissimo, con il rischio, in questo momento, che il ritorno sia davvero modesto. Ma questo non significa che tutto vada buttato via: l’importante è distinguere questa applicazione dalla giustizia predittiva. Un altro tema è quello della possibilità di predire i reati... Il principio è che nessuna decisione può essere completamente automatizzata, bisogna riconoscere quale parte della decisione è fondata sull’intelligenza artificiale e comunque non basta dire che la giustizia predittiva è un’attività ad alto rischio, ma andrebbe esclusa del tutto la sentenza resa dalle macchine. È necessario essere assolutamente trasparenti e che questi meccanismi siano riconoscibili e messi a disposizione delle parti che possano valutare la correttezza del ragionamento algoritmico. E questo è un problema secondo me irrisolvibile, perché un algoritmo si autoalimenta e non si conoscano gli input, forniti da un soggetto estraneo alla giustizia. Il riconoscimento facciale e il rischio della violazione dei diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 dicembre 2021 L’allarme lanciato dall’associazione Hermes Center for Transparency and Digital Human Rights. Quello che Foucault chiamava biopotere, ovvero l’insieme di tecnologie, pratiche e metodi per il controllo dei corpi e della vita della popolazione, è ora un’interpretazione sempre più precisa del modello di società odierna. Parliamo dell’applicazione dell’intelligenza artificiale (IA) nel campo della prevenzione del crimine, la selezione del lavoro e, nel futuro, nel campo della giustizia penale. Di fatto, è già realtà in numerosi Paesi. Ma senza una regolamentazione c’è il rischio di una deriva dove si accentuano le discriminazioni, così come in alcuni Stati si rafforza l’autoritarismo. L’esempio pratico è la Cina, che ne è all’avanguardia. Quest’ultima ha avviato una politica di controllo digitale, sfruttando l’IA nella sorveglianza, il machine learning in strumenti che controllano, identificano e prevedono i comportamenti della popolazione, e creando il cosiddetto “sistema di credito sociale”. In Italia, in parte, è già realtà l’utilizzo della IA nel campo del controllo. Parliamo del riconoscimento facciale. È una tecnica che si basa sull’elaborazione digitale di immagini (video o immagini statiche) all’interno delle quali si richiede all’intelligenza artificiale di riconoscere il volto di una persona. In biometria è utilizzato per verificare l’identità di una persona a partire da una o più immagini che la ritraggono. Attraverso il riconoscimento facciale, ad esempio, le forze dell’ordine possono trovare una corrispondenza tra l’immagine di un individuo sospetto e il database al quale fanno riferimento, contenente i pregiudicati. Ebbene, nel 2017, il ministero dell’Interno ha comprato il Sistema Automatico Riconoscimento Immagini (SARI): è il nome dato al sistema di riconoscimento facciale dall’azienda Parsec 3.26. È disponibile in due versioni: SARI Enterprise (ad oggi in uso) e SARI Real-Time. Il SARI Enterprise è un sistema di riconoscimento facciale in grado di confrontare l’immagine di un volto, presa ad esempio dalle registrazioni di una videocamera a circuito chiuso, con i volti inclusi nel database AFIS. La polizia italiana usa questo software per automatizzare la ricerca dei sospetti durante le indagini. Il garante privacy ha formalmente approvato il suo utilizzo nel 2018. Il SARI Real-Time, invece, è un sistema di riconoscimento facciale in tempo reale. La polizia italiana ha dichiarato di voler utilizzarlo utilizzare durante manifestazioni o eventi pubblici, anche se ciò non è mai successo perché il ministero dell’Interno ha atteso un parere positivo del Garante per la protezione dei dati personali dal 2018 al 2021. Nell’aprile 2021 il Garante ha dichiarato che la polizia italiana non avrebbe nessuna base legale per utilizzare il sistema SARI Real-Time. Ancor prima di ricevere il parere del Garante, però, il ministero ha pubblicato un appalto per il potenziamento del sistema, da utilizzare per monitorare lo sbarco di migranti e richiedenti asilo sulle coste italiane. Ed è su questo che l’associazione Hermes Center for Transparency and Digital Human Rights ha puntato il dito, tanto da indirizzare delle raccomandazioni al governo, al ministero dell’Interno e alle associazioni che si occupano dei diritti umani. Il primo punto riguarda la criminalizzazione della persona migrante, rifugiata o richiedente asilo che è iscritta nell’infrastruttura tecnologica italiana. I dati biometrici raccolti al momento dello sbarco o dell’arrivo sul territorio nazionale sono inclusi in un database (Afis) che contiene potenziali sospetti ed è utilizzato per ritrovare corrispondenze di volti e identità attraverso il sistema di riconoscimento facciale in uso alla polizia italiana, SARI. Questa criminalizzazione, secondo l’associazione, avverrebbe senza la possibilità che la società civile possa conoscere esattamente il numero di persone fotosegnalate per ogni categoria prevista dalla legge, e quindi in modo incontrollabile e opaco. L’altro aspetto è che la gestione e il controllo dei flussi migratori in Europa non passa più solo attraverso le politiche dei flussi o il mero controllo delle frontiere. Le procedure di identificazione allo sbarco o all’arrivo su suolo italiano sono sempre più automatizzate e invasive. I database che conservano dati personali e biometrici unici di migranti, richiedenti asilo e rifugiati sono popolati quotidianamente da ogni stato membro europeo, informazioni alle quali attingono varie autorità europee e forze dell’ordine nel corso delle loro indagini. Ulteriore preoccupazione nasce poi dai finanziamenti che l’Europa garantisce a paesi come Grecia, Spagna e Italia per il controllo e la gestione delle frontiere. In questa ricerca l’associazione ha quindi cercato anche di chiarire il percorso che questi soldi fanno, e di verificare l’impatto che le tecnologie (anche biometriche) hanno o potrebbero avere in campo migratorio. C’è infine una denuncia tutta rivolta al nostro Paese. Il riconoscimento facciale usato in Italia nelle attività di indagine rischia di avere già conseguenze più gravi su migranti e richiedenti asilo. Ciò avviene perché non vi sono attualmente valutazioni pubbliche sull’accuratezza degli algoritmi impiegati nel sistema di riconoscimento facciale in dotazione alla polizia. “Senza la corretta supervisione degli algoritmi impiegati, potrebbero prodursi casi di falso positivo che porterebbero alla violazione dei diritti umani di gruppi vulnerabili”, denuncia l’associazione Hermes Center for Transparency and Digital Human Rights. I collaboratori di giustizia che lo stato ha abbandonato di Pietro Mecarozzi Il Domani, 20 dicembre 2021 Da vent’anni il programma di protezione dei testimoni non viene aggiornato e avrebbe bisogno di nuove risorse. Così rifarsi una vita diventa pressoché impossibile, anche per coloro che non sono criminali. I collaboratori di giustizia in Italia sono circa 1.200 e i familiari che vivono sotto il programma di protezione circa 5mila, molti minori. “Ogni minuto che passa rimpiango il giorno in cui sono diventata una collaboratrice di giustizia”. A dirlo è Maria (nome di fantasia), moglie di un reggente di ‘Ndrangheta che dal 2012 è entrata assieme alla sua famiglia all’interno del Servizio centrale di protezione testimoni. Una scelta non sua, ma indotta dalla presa di posizione del coniuge, che sceglie di dissociarsi dall’organizzazione criminale e diventare un pentito, ottenendo in cambio minacce di morte da alcuni suoi ex “colleghi”. “Io ero fuori dagli affari della ‘ndrina di mio marito, avevo una mia attività legale. Adesso i miei figli, i miei genitori e i miei fratelli sono stati tutti riconosciuti dallo stato come testimoni ad “alto pericolo”, spiega Maria a Domani. E rifarsi una vita è pressoché impossibile. “La mia storia è stata del tutto cancellata. E per trovare un nuovo impiego il programma di protezione prevede un sistema contorto: se vuoi lavorare puoi farlo solamente con il vero nome e non nella regione di residenza, a tuo rischio e pericolo, in quanto lo stato non è in grado di passare i tuoi titoli e le tue esperienze lavorative sul nome di copertura”, continua. Una storia di tanti - Quella di Maria è la storia di tanti. Secondo gli ultimi numeri resi pubblici del ministero dell’Interno, sono circa 1.200 i collaboratori di giustizia e 5mila i familiari che vivono sotto il programma di protezione. I minori, dai dati, risultano essere addirittura il 40 per cento della popolazione sotto protezione. Queste persone, molto spesso estranee agli ambienti criminali, sono quindi costrette a pagare le inefficienze di un programma di protezione “fermo da circa 20 anni, che necessita di un aggiornamento in termini di formazione di personale e di un maggior investimento economico per garantire una qualità della vita dignitosa”, ammette Luigi Gaetti, ex sottosegretario dell’Interno in quota Cinque stelle e in passato presidente della Commissione centrale di protezione. I fondi per il programma sono stati infatti notevolmente tagliati. Nel secondo semestre 2018 i fondi a disposizione per i circa 6.200 soggetti sotto protezione sono stati circa 44 milioni di euro, con alcune voci di spesa come i canoni di locazione, l’assistenza legale o le spese mediche che rimangono in balìa della disponibilità di volta in volta accertabile in bilancio. È vera protezione? Per intenderci: a Gennaro Panzuto, 46 anni, detto “Terremoto”, ex reggente del clan Piccirillo nella zona della Torretta a Chiaia e killer di fiducia del potente clan Licciardi dell’Alleanza di Secondigliano, gli è stato revocato qualche mese fa il programma di protezione. Liquidato con poco meno di 30mila euro di capitalizzazione dopo 14 anni vissuti sotto protezione e cacciato con un foglio di via dalla Liguria, la procura di Napoli le scorse settimane ha fatto però dietrofront, e gli ha proposto di tornare a vivere sotto copertura. Gennaro ha rifiutato senza battere ciglio. “Non voglio essere più strumento di nessuno, né della Camorra né tantomeno dei Nop (Nuclei Operativi di Protezione ndr)”, racconta a Domani. Vive a Napoli da nove mesi nonostante i clan che ha accusato da collaboratore sono ad oggi attivi sul territorio. Dai Licciardi ai Piccirillo e i Frizziero di Chiaia, fino ai Mazzarella. “Sono stato umiliato per anni, costretto a vivere perfino nello stesso paese del pentito Bruno Danese (camorrista prima al servizio dei clan del Vomero, poi “esiliato” nel cartello degli scissionisti di Mugnano ndr), che io stesso ho fatto condannare dopo una testimonianza. Si può chiamare protezione questa?”. Ma la denuncia di Panzuto riguarda anche le condizioni basilari di vita. “Mi sono sempre fatto carico di tutte le spese, anche quelle dei traslochi per i trasferimenti che mi hanno obbligato a fare. La mia vita ormai è rovinata, i miei otto figli vivono lontano e sono tornato a stare dai miei genitori. Mai e poi mai però tornerò a vivere quell’inferno”, aggiunge Panzuto. I documenti - L’altra grande tara riguarda i documenti. Il Servizio centrale di protezione può creare documenti di identità, patenti, tessere sanitarie e codici fiscali. Sono tutti documenti che - eccetto il caso in cui si effettui un cambio di generalità, molto raro - non hanno corrispondenza anagrafica. “Significa che non esisti, e non puoi né svelare il tuo indirizzo di residenza né tantomeno il vero nome. Ma se per esempio vuoi iscrivere tuo figlio a scuola, saranno direttamente i Nop a farlo, e, dunque, i vertici di una scuola verranno comunque a sapere chi sei. Facendo così i ragazzi vengono emarginati e finiscono con l’abbandonare gli studi”, ci dice Luigi Bonaventura, ex boss della cosca Vrenna-Bonaventura, collaboratore di giustizia di ben 14 procure italiane e straniere. Questo buco nero anagrafico colpisce in particolare i familiari dei collaboratori, che pagano sulla propria pelle crimini da loro mai commessi. “Mio figlio Nemo si è diplomato con 96 su 100 al liceo, ma adesso non gli viene permesso di frequentare l’università nella località protetta. L’unica alternativa è sfoggiare il suo cognome originale al di fuori della provincia e quindi senza alcuna protezione. In alternativa io e tutta la mia famiglia dovremmo nuovamente trasferirci ed utilizzare un documento di copertura non definitivo”, continua Bonaventura, abituato a essere bersaglio del Servizio centrale, il quale in estate ha provato a revocare il programma alla moglie, Paola Emmolo, e ai suoi familiari, sette persone tutte incensurate di cui tre soggetti malati e un minorenne. Risposte che mancano - Perché questo tipo di trattamento? Il ministero dell’Interno e il sottosegretario leghista Nicola Molteni, alla guida della Commissione centrale di protezione, interpellati da Domani, non hanno fornito alcuna risposta. Anche se qualcuno un’idea se l’è fatta: “Certe volte sembra proprio che non ci sia l’effettiva volontà politica di far collaborare questi soggetti, forse proprio per proteggere qualcuno che potrebbe essere danneggiato da determinate confessioni”, dice Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia. Estinzione delle pene minori, il termine decorre dalla irrevocabilità della sentenza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2021 Lo hanno deciso le Sezioni unite penali della Cassazione, sentenza 46387 depositata oggi, affermando un principio di diritto. “Il procedimento di esecuzione della pena detentiva, ai sensi dell’articolo 656 co. 5 c.p.p., non rientra in una delle ipotesi previste dall’articolo 172 co. quinto del codice penale”. (Secondo il quale: “Se l’esecuzione della pena è subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il tempo necessario per l’estinzione della pena decorre dal giorno in cui il termine è scaduto o la condizione si è verificata”). Ragion per cui i tempi per la notifica nei confronti del condannato ad una pena breve, dell’ordine di esecuzione e del contestuale decreto di sospensione dell’esecuzione e la mancata formulazione di istanza di misura alternativa alla detenzione nel termine previsto dalla norma, non incidono sul decorso del termine stabilito dall’articolo 172, primo comma, cod. pen. (“La pena della reclusione si estingue col decorso di un tempo pari al doppio della pena inflitta e, in ogni caso, non superiore a trenta e non inferiore a dieci anni.”). Piuttosto bisogna guardare al momento in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. Lo hanno deciso le Sezioni unite penali della Cassazione, sentenza 46387 depositata oggi, affermando un principio di diritto e respingendo il ricorso del Procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere nei confronti della decisione del Gip che aveva dichiarato l’estinzione della pena (a due anni di reclusione e 3.000 euro di multa) per decorso del tempo, inflitta ad un extracomunitario con sentenza divenuta irrevocabile il 21 dicembre 2007. La notifica nei confronti del condannato era intervenuta solo il 6 marzo 2017, quando era rientrato in Italia, da cui era stato espulso fin dal 2006. Da quel momento egli aveva trenta giorni per presentare istanza di concessione di una misura alternativa alla detenzione, cosa che però non aveva fatto. Il Pm allora, il 9 maggio 2017, aveva revocato il decreto di sospensione dell’esecuzione (peraltro, le ricerche del condannato avevano avuto esito negativo per sua irreperibilità fino al suo rintraccio, avvenuto il 12 febbraio 2020, quando Io stesso era stato tradotto in carcere). Secondo il Giudice per le indagini preliminari, però la pena inflitta si era estinta il 21 dicembre 2017 in applicazione dell’art. 172, 1° comma. Per le S.U. dunque correttamente il giudice dell’esecuzione ha dichiarato estinta la pena per il decorso del termine di dieci anni dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna. In effetti, il condannato, nei dieci anni successivi, non era mai stato tradotto in carcere in forza del titolo esecutivo costituito dalla sentenza irrevocabile di condanna. L’orientamento contrario, argomenta la decisione (quello cioè che sostiene l’applicabilità dell’articolo 172, quinto comma, cod. pen, nel caso di sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi ai sensi dell’articolo 656, comma 5, cod. proc. pen.) “fa dipendere l’esecuzione della sentenza di condanna dal tempo necessario per i vari adempimenti previsti, facendo subire al condannato gli effetti di ritardi e inefficienze, per di più attribuibili a diversi organi e non solo all’autorità giudiziaria”. Sostituendo un termine di decorrenza fisso e certo - la data di irrevocabilità della sentenza di condanna - “con uno mobile e del tutto incerto, senza alcuna responsabilità del condannato”. E generando un effetto che contrasta con i principi di ragionevole durata del processo, applicabile anche alla fase esecutiva (articolo III, secondo comma, Cost.; articolo 6, primo comma, CEDU), e della finalità rieducativa della pena (articolo 27, terzo comma, Cost.). “In quanto l’effetto del trattamento penitenziario è possibile se l’esecuzione della stessa è temporalmente vicina alla commissione del reato e alla irrevocabilità della sentenza di condanna”. Ciò riguarda anche l’esecuzione delle misure alternative alla detenzione, “la cui efficacia rieducativa è senza dubbio differente se le stesse vengono eseguite a grande distanza di tempo dalla data del reato”. In definitiva il condannato rischierebbe di restare sottoposto alla minaccia dell’esecuzione della pena detentiva per un periodo indeterminato, infatti: “sono incerti i tempi di notificazione al condannato dei provvedimenti del pubblico ministero (nel caso di specie, la notificazione era stata effettuata solo quando Io straniero era tornato in Italia alcuni anni dopo la sua espulsione, venendo identificato), così come quelli del suo rintraccio in caso di mancata presentazione dell’istanza di concessione delle misure alternative nel termine previsto ovvero della decisione del tribunale di sorveglianza nel caso che l’istanza sia stata presentata”. Dunque: “Il decorso del tempo ai fini dell’estinzione della pena detentiva, ai sensi dell’art. 172, quarto comma, cod. pen., ha inizio il giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile e si interrompe con la carcerazione del condannato”. Ma aggiungono le S.U.: “Esso comincia nuovamente a decorrere se il condannato, una volta iniziata la esecuzione della pena mediante la carcerazione, vi si sottragga volontariamente con condotta di evasione”. La Cassazione individua il confine tra bancarotta semplice e bancarotta fraudolenta di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi * Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2021 Nota a sentenza: Cass. pen., Sez. V, 2 settembre 2021, n. 32733. La Suprema Corte ha recentemente delineato i termini della configurabilità dei delitti di bancarotta semplice e bancarotta fraudolenta documentale affermando il seguente principio di diritto “in tema di bancarotta fraudolenta documentale (art. 216, comma primo, n. 2, L.F.) è illegittima l’affermazione di responsabilità dell’amministratore che faccia derivare l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato dal solo fatto, costituente l’elemento materiale del reato, che lo stato delle scritture sia tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, considerato che, in tal caso, trattandosi per di più, nella specie, di omissione limitata ad una singola operazione, che impone di chiarire gli elementi sulla base dei quali l’imputato abbia avuto coscienza e volontà di realizzare detta oggettiva impossibilità e non, invece, di trascurare semplicemente la regolare tenuta delle scritture, senza por mente alle conseguenze di tale condotta, considerato che, in quest’ultimo caso, si integra l’atteggiamento psicologico del diverso e meno grave reato di bancarotta semplice di cui all’art. 217, comma secondo, L.F.”. Questa in sintesi la vicenda processuale. La Corte d’Appello di Firenze confermava la sentenza di condanna di primo grado nei confronti dell’amministratore unico di una società per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, cagionata dalla mancata precisazione all’interno delle scritture contabili di una singola operazione. L’imputato, ricorrendo per Cassazione, lamentava l’insussistenza del predetto reato in ragione della tenuità ed eccezionalità della condotta, nonché per l’inadeguatezza della motivazione fornita dalla Corte territoriale circa la sussistenza della volontà in capo al ricorrente di ostacolare la ricostruzione della movimentazione societaria. Secondo l’assunto difensivo, pertanto, non sarebbe stata data adeguata giustificazione alla qualificazione giuridica del fatto contestato. La Cassazione accoglie il ricorso dell’imputato, dichiarando, in conformità alla propria costante giurisprudenza, che il mancato adempimento del dovere di tenuta delle scritture contabili può integrare la fattispecie di cui all’art. 216 co. 1, n. 2 L.F. a condizione che detta omissione del soggetto agente sia finalizzata e idonea a rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari del passivo. Viene, dunque, specificato dalla Corte come per la configurazione del delitto di bancarotta fraudolenta documentale non sia sufficiente la mera incompletezza delle scritture contabili - ancorché funzionale a ostacolare la ricostruzione del movimento degli affari - in quanto già elemento materiale del reato di bancarotta semplice, risultando necessaria, altresì, la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, individuato nel dolo generico e consistente nella consapevolezza e nella volontà di rendere impossibile la ricostruzione patrimoniale e finanziaria della società. Nel caso di specie, la Corte ritiene che non sia stata data prova di tale coscienza e volontà in capo all’imputato, non avendo l’impugnata sentenza rappresentato come la condotta omissiva del medesimo sarebbe stata mossa dall’intento di impedire la ricostruzione delle operazioni societarie. Pertanto, in mancanza di adeguata motivazione circa la sussistenza dell’elemento soggettivo richiesto per la configurazione della fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale, i Giudici di legittimità considerano integrato l’elemento psicologico del meno grave reato di bancarotta semplice, ovvero la mera negligenza del soggetto attivo nella regolare tenuta delle scritture contabili. Napoli. Tribunale di Sorveglianza, tre candidate alla presidenza e sui nomi è polemica di Viviana Lanza Il Riformista, 20 dicembre 2021 Il Tribunale di Sorveglianza è una sezione del Tribunale ordinario chiamato a decidere sulle richieste di pene alternative alla detenzione in carcere presentate da condannati a pene brevi o da detenuti nelle carceri italiane. Si occupa, essenzialmente, di concedere o revocare misure o pene alternative alla detenzione in carcere, permessi o altri benefici. Gestisce, quindi, tutta la fase post-processo. Una fase delicata e cruciale se si vuole riconoscere un senso al processo e una funzione (che, secondo la Costituzione, dovrebbe essere quella finalizzata al reinserimento del detenuto) alla pena. Ebbene, un po’ ovunque è spesso considerato un Tribunale di serie B forse perchè tratta di carcere e il carcere continua ad essere un argomento secondario per larga parte della politica e dell’opinione pubblica. E a Napoli, in particolare, è un Tribunale storicamente in affanno per via di croniche carenze e biblici ritardi. Questa premessa è d’obbligo per descrivere il clima in cui si consuma, nel distretto giudiziario della nostra città, l’attesa per la nomina del nuovo presidente del Tribunale di Sorveglianza. E anche per comprendere le preoccupazioni e le aspettative che ruotano attorno a questa nomina: parliamo di un tribunale che dovrà occuparsi di una popolazione di 6.730 detenuti in Campania e che si trova a lavorare con un organico ridotto e enormi ritardi nelle decisioni. In questo contesto quindi, e sulla scorta di tali aspettative che condividono in larga parte sia avvocati che operatori della giustizia, la rosa di nomi scelta dalla Quinta commissione per il conferimento di uffici direttivi e semidirettivi del Csm ha sollevato alcune perplessità e qualche polemica. Tutte concentrate non sulla professionalità dei singoli candidati ma sui criteri che devono aver guidato il Csm verso la scelta di quei candidati e non di altri. L’anzianità di servizio nella Sorveglianza, che in genere è il requisito più seguito, in questo caso non sembra essere stato la priorità. E lo stesso dicasi per il criterio della capacità mostrata nel superare le criticità del settore e gli ostacoli e le carenze della burocrazia, e nel credere pervicacemente alla funzione rieducativa della pena. Criterio, questo, che parte dei penalisti aveva richiesto proprio con una lettera al Csm. Tra un mese circa ci sarà la seduta del plenum e la nomina del nuovo presidente. La Quinta Commissione ha proposto tre candidati già in servizio a Napoli: Maria Picardi, magistrato di Sorveglianza, e Patrizia Mirra, consigliere di Corte d’appello (con due voti ognuna), e Daria Vecchione, consigliere di Corte d’appello (con un voto). Tre giudici di esperienza, ma che non mettono d’accordo il mondo napoletano della giustizia. Milano. “Donne incinte, il no al carcere esiste per tutelare il bambino” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 20 dicembre 2021 “Non va bene crescere con limitazioni senza avere alcuna colpa”. Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza, e il caso della ladra con 30 anni di pena mai scontata: “Le condizioni di costrizione e limitazione del carcere non sono adeguate ad una donna in condizione di fragilità e delicatezza”. In un film del 1963, due coniugi innamorati, Sophia Loren e Marcello Mastroianni, approfittano delle gravidanze per evitare che lei finisca in carcere dopo una condanna. Lo stesso ha fatto una donna di etnia rom con alle spalle condanne per 30 anni arrestata per la 18esima volta a Milano e subito scarcerata. Dottoressa Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza, perché una donna incinta non deve andare in carcere? “Perché deve essere tutelata la sua maternità. Le condizioni di costrizione e limitazione del carcere non sono adeguate ad una donna che trova in una condizione di fragilità e di delicatezza. Non deve essere reclusa per rispetto della sua persona e della persona che porta in grembo in quanto i vincoli, la coabitazione, i disagi fisici e morali in cella non sono adeguati. E infine perché lo Stato non può farsi carico di gestire la sua situazione”. Difende questo principio? “Assolutamente sì, anche perché è sempre stato così. Questo principio, che è nel codice penale da molti anni, stabilisce che l’esecuzione della pena è differita nei confronti di una donna incinta o di una madre di un bambino che ha meno di un anno. La legge prevede anche che l’esecuzione della pena venga differita finché il neonato non ha compiuto un anno e che a questo periodo si possa aggiungere, a discrezione del magistrato, un ulteriore differimento fino ai tre anni del bambino”. Periodicamente fanno sensazione notizie su donne che sembrano sfruttare la gravidanza per evitare il carcere. Qualcuno dice che si fa un uso distorto di un diritto e vorrebbe eliminarlo... “Premesso che non è isolato il caso di donne, spesso nomadi, che cumulando tanti reati arrivano a una quantità di pena lunghissima, il rispetto per la maternità non può e non deve venire meno”. Nelle carceri attualmente, però, ci sono 19 bambini che vivono con le madri. “Fortunatamente sono pochi casi e si stanno riducendo, ma il problema esisterebbe anche se in carcere ci fosse un solo bambino”. Perché è un problema? “Perché quello che il bambino apprende nel primissimo periodo di vita si imprime quasi geneticamente in lui rischiando che cresca come un piccolo detenuto. Non va bene che il bambino veda che l’autorità governa la mamma, i suoi spostamenti, che le apre e chiude la porta della cella. Senza avere colpe, questi bambini crescono, con una limitazione visiva dovuta alla reclusione, con il rumore delle chiavi che aprono e chiudono le porte, con gli odori del carcere. Ho in mente una fotografia che è all’Icam, l’istituto custodia attenuata di Milano, in cui c’è un bimbo che si specchia. Una foto molto bella, peccato che quel bambino sia nato in carcere da una donna nata in carcere. Questo fa pensare a una tradizione negativa che si è perpetrata, ecco perché bisogna spezzare questo legame ed evitare che un certo modello di vita si riproponga”. Non tutte le carceri hanno strutture adeguate ad accogliere i figli delle detenute... “Sì, ma ci sono nidi che aiutano, fino ad arrivare all’esempio migliore dell’Icam dove la gestione della detenzione è anche esteticamente alleggerita per far sì che venga percepita il meno possibile dai bambini”. I servizi sociali potrebbero fare qualcosa, se è vero che ci sono donne che usano le gravidanze? “Il lavoro che si fa all’Icam è proprio orientato in questa direzione. Io, però, non sono convintissima che ci sia una necessaria strumentalità legata all’evitare il carcere. Per la tradizione culturale di alcune etnie, la gravidanza, l’avere molti figli, è un compito che la donna deve assolvere già da molto giovane, e infatti a volte si vede che a commettere questi furti sono due o tre insieme e che più di una è in stato interessante”. Siracusa. Detenuti ricoverati in ospedale, il Garante: “Una tv per la stanza di degenza” di Gianni Catania siracusaoggi.it, 20 dicembre 2021 Visita del Garante dei Detenuti, Giovanni Villari, nei locali dell’ospedale Umberto I di Siracusa destinati all’accoglienza e trattamento di chi, ristretto in carcere, abbisogna di cure mediche di una certa entità. Anche nel nosocomio siracusano c’è la cosiddetta stanza di degenza con custodia fissa, con porta blindata. Oltre alla camera per i degenti, la sezione comprende il posto di controllo e sicurezza ed i servizi igienici con doccia separata. “La stanza di degenza è estremamente spartana e spoglia. Oltre al letto e al comodino non c’è altro. Non una TV, né una radio, né qualche libro o giornale per rompere il silenzio e la solitudine delle giornate di degenza”, spiega al termine dell’ispezione. “È duro resistere e qualcuno alle volte desiste: rifiuta il ricovero o lascia la degenza per rientrare in istituto quando invece la stanza di degenza ospedaliera dovrebbe essere concepita e arredata secondo gli standard delle normali camere ospedaliere, avendo i detenuti pari diritto alla salute come tutti gli altri individui della nostra società”. Ecco perchè Villari ha inviato anche una comunicazione all’Asp di Siracusa, chiedendo che venga aggiunto “in corredo” alla stanza almeno un televisore. Nei mesi scorsi, acceso era stato anche il confronto tra il garante dei detenuti e la stessa azienda sanitaria sul tema dei tempi di attesa, definiti “inumani”, per le visite specialistiche per chi si ritrova ristretto in carcere. Bologna. Il Partito Radicale dopo la visita all’Ipm: “Promosso il Pratello” Il Resto del Carlino, 20 dicembre 2021 Desi Bruno: “La situazione nel carcere minorile è buona. Ma servono alternative”. “La situazione al Pratello è buona. I ragazzi fanno tante attività, vanno a scuola, sono partecipi della vita dell’istituto. E proprio questa constatazione ci fa ribadire che per i minorenni il carcere non è la strada giusta: ci sono alternative alla detenzione”. Lo dice l’avvocato Desi Bruno che, ieri mattina, assieme a una delegazione del Partito Radicale, composta da Silvia De Pasquale, Ivan Innocenti e Monica Mischiati, ha fatto visita ai ragazzi dell’Istituto penale minorile. “Ci sono 32 ragazzi in questo momento al Pratello - dice l’avvocato Bruno - divisi tra il piano terra, dove ci sono undici minorenni, e il primo piano, dove si trovano gli altri 21 ragazzi, tra i 18 e i 25 anni, che hanno commesso reati quando ancora non erano maggiorenni e che hanno un fine pena previsto entro il compimento dei 25 anni”. La struttura, dal prossimo primo gennaio, sarà omologata per accogliere 36 ragazzi “perché la pandemia prevede spazi più ampi, altrimenti sarebbero stati 40”, puntualizzano i membri della delegazione, che ieri mattina hanno parlato con tutti i ragazzi: “Eccetto uno, che era a pulire la sua stanza - spiega Innocenti -. Questo ragazzo sta per iscriversi al Dams e debutterà al Duse, con la compagnia con cui recita”. Un esempio “dell’ottimo lavoro che si fa al Pratello in termini di offerta educativa”, dicono. “Quello che abbiamo visto - concludono - avvalora la nostra convinzione che per i minorenni la detenzione in carcere non serve. Servono comunità attrezzate, alternative valide. L’istituto può invece continuare a ospitare i maggiorenni, come già avviene”. Ferrara. “Il solo aumento di organico della Polizia penitenziaria non basta” estense.com, 20 dicembre 2021 Zappaterra (Pd) e Amico (Emilia-Romagna Coraggiosa) rispondono alla Lega, che presenta un’interrogazione in Regione. “Oggi, lunedì 20 dicembre, il consigliere Fabio Bergamini presenterà in Assemblea legislativa una interrogazione alla Giunta regionale chiedendo un aumento del personale penitenziario impiegato al carcere di Ferrara. Bene che anche la Lega con i suoi consiglieri dimostri attenzione al tema, ma la richiesta è tardiva e sufficiente”. A dichiararlo sono i consiglieri di maggioranza Marcella Zappaterra, capogruppo del Partito Democratico, e Federico Amico, presidente della Commissione Parità e diritti ed esponente di Emilia-Romagna Coraggiosa. “Portare all’attenzione della Regione quanto accade nelle carceri dell’Emilia-Romagna è quanto da molti mesi la maggioranza sta facendo”, ricordano i consiglieri che ribadiscono come “in particolare, rispetto al carcere dell’Arginone a Ferrara, avevamo già sollecitato la giunta a intervenire perché non si procedesse all’insediamento di un nuovo padiglione in quanto la costruzione di nuovi spazi non è affatto garanzia né di riduzione del sovraffollamento, né di implementazione del personale penitenziario”. “In questi mesi i gruppi di maggioranza hanno seguito e sollecitato alla priorità sia la campagna vaccinale per i reclusi e il personale penitenziario, sia, in collaborazione con il Garante Regionale Marcello Marighelli, monitorato lo stato delle carceri regionali che da lungo tempo versa in una condizione di sovraffollamento strutturale”. “Gli episodi di esasperazione tra le celle sono senz’altro da ricondurre a una situazione da troppo tempo critica cui l’amministrazione penitenziaria non sta rispondendo prontamente” scandiscono i consiglieri di Pd ed Emilia-Romagna Coraggiosa che ricordano come in una risoluzione approvata lo scorso ottobre, a firma Zappaterra e Amico, si sottolineava come al conclamato problema di sovraffollamento si aggiunga un sottodimensionamento del personale carcerario di polizia e dei servizi educativi, con conseguenze pericolose sia dal punto di vista della diffusione pandemica - come è stato il caso degli elevati contagi da Covid19 nell’ultimo anno - sia sul fronte di episodi di violenze e rivolte avvenute nelle carceri italiane. “La risoluzione, approvata anche dalla Lega che riottosamente aveva espresso il suo voto favorevole, ha impegnato la Regione Emilia-Romagna a perorare il superamento di modelli di gestione eccessivamente centralizzati, ritenendo necessario un maggiore coordinamento con le Regioni anche per le dotazioni penitenziarie” proseguono. “Chiedere semplicemente di aumentare l’organico della polizia penitenziaria per una maggiore capacità repressiva non è sufficiente - chiariscono Zappaterra e Amico aggiungendo - Fortemente carente è anche quel personale socioeducativo che avrebbe il compito di avviare i reclusi al reinserimento e alla riduzione della recidiva. Le carceri emiliano-romagnole necessitano di interventi importanti a cui lo Stato non può sottrarsi: per la manutenzione, per l’accrescimento e la qualificazione dell’organico, non solo di polizia, nel mettere in atto tutte quelle forme alternative alla detenzione per i reati minori, che allenterebbero la pressione sulle case circondariali e che possono rappresentare una vera opzione perché la giustizia sia effettivamente riparativa”. San Gimignano (Si). Detenuti a lezione di edilizia: arrivano gli attestati di partecipazione La Nazione, 20 dicembre 2021 La Scuola Edile di Siena ha consegnato ai 14 allievi del carcere di San Gimignano gli attestati di partecipazione al corso di reinserimento. La Scuola Edile di Siena, nella Casa di Reclusione di San Gimignano, grazie alla disponibilità della Direzione, ha consegnato gli attestati a 14 allievi detenuti che hanno partecipato al ‘Progetto Freeman 2 - Competenze nella manutenzione edilizia e impiantistica’ per il reinserimento socio lavorativo dei detenuti. I certificati riconoscono ai partecipanti la qualità ed il valore della formazione svolta. La cerimonia ha concluso il percorso iniziato con il finanziamento della Regione Toscana sull’Avviso Pubblico per il finanziamento di ‘Progetti formativi rivolti a soggetti in stato di detenzione negli Istituti Penitenziari Toscani, gestito dalla Scuola Edile di Siena con il Cpia, Centro Provinciale Istruzione Adulti; il corso è terminato il 22 ottobre con l’esame finale. Con il direttore della Casa di Reclusione di San Gimignano Giuseppe Renna, hanno partecipato il presidente Giannetto Marchettini e il direttore della Scuola Edile di Siena Stefano Cerretani, Annalisa Pani del Cpia, docenti e collaboratori dell’Ente Senese Scuola Edile. La collaborazione con il Cpia ha consentito alla Scuola Edile di Siena di svolgere un corso con alto valore professionalizzante orientato alla rieducazione e al reinserimento, grazie ad una forte azione di orientamento collettivo e individuale. “La Scuola Edile di Siena da sempre - ha detto il presidente Marchettini -, nell’ambito della sua missione di formazione e inserimento di lavoratori nell’edilizia, sviluppa politiche attive con percorsi di reinserimento contro i rischi di esclusione e marginalizzazione. L’importanza della precedente esperienza di collaborazione con la Casa di Reclusione di San Gimignano ci ha stimolati a ripetere questo percorso. La consegna dei 14 attestati agli allievi detenuti realizza un grande obiettivo con una risposta alle necessità di coloro che, finito il periodo di detenzione, vivono problemi di reinserimento sociale”. “Un reale inserimento dei lavoratori nel mondo professionale - ha spiegato il direttore Cerretani - impone esperienze e competenze professionali, raramente presenti nella popolazione carceraria. Dopo la prima esperienza positiva nel 2018 della Scuola Edile con la Casa di Reclusione di San Gimignano e il primo percorso formativo, abbiamo realizzato questo nuovo progetto Freeman. Il modello formativo è stato condiviso e, con grande soddisfazione, molto apprezzato dalla Direzione della Casa di Reclusione e dai partecipanti. Si è articolato in un percorso di 226 ore dal precedente mese di giugno, sui temi dell’edilizia e impiantistica manutentiva con lo sviluppo di due Unità di Competenza del Repertorio Regionale delle Figure professionali”. Larino (Cb). I detenuti contro il muro del pregiudizio, attori in “La Giara” di Roberta Morrone primonumero.it, 20 dicembre 2021 “Senza teatro è stata una prigione nella prigione”. Il 17 e il 18 dicembre le porte del carcere di Larino si sono aperte per la rappresentazione teatrale - tornata dopo due anni di assenza causa pandemia - che ha visto protagonisti alcuni dei detenuti della sezione di Alta Sicurezza. Il mondo carcerario e la comunità, il ‘dentro’ e il fuori’, e il medium del teatro a fare da collante. Dove eravamo rimasti? Con questa battuta presa in prestito da Enzo Tortora la direttrice dell’istituto penitenziario di Larino, Rosa La Ginestra, ha accolto il pubblico - 50 persone circa - accorso per lo spettacolo La Giara affidato alla recitazione - in alcuni casi sorprendente - di un gruppo di detenuti della sezione di Alta Sicurezza del carcere frentano. Un evento che mancava da ormai due anni e che la pandemia ha bruscamente e ‘dolorosamente’ interrotto. “È stata come una prigione nella prigione”, le parole della direttrice che ha salutato con entusiasmo questa ripresa degli incontri che ha scalfito un muro fattosi sempre più spesso. L’occasione è stata la rappresentazione teatrale de La Giara, commedia di Luigi Pirandello incentrata su un tema a lui caro, quello della ‘roba’. Il grosso contenitore, acquistato dal taccagno proprietario terriero Don Lollò per conservare l’olio, domina il centro della scena (realizzata nella cappella del carcere) ed è il fulcro della grottesca diatriba tra i protagonisti. Perché a un certo punto, per ragioni inspiegabili, la giara nuova di zecca si rompe e per ripararla Don Lollò (irresistibile l’interpretazione che lo riguarda) si affida a Zì Dima, vecchio conciabrocche del posto che vanta il possesso di un “mantice miracoloso” e infallibile. Tra l’ottuso Don Lollò e l’altrettanto cocciuto artigiano una infinita sequela di litigi, alla quale prende parte anche un avvocato e in cui finiscono per parteggiare anche tutti i contadini della zona. Ma non è che l’inizio perché il tutto si acuisce quando Zì Dima (esilarante e brillante, complice anche il suo dialetto siculo), entrato nella giara per ripararla come da indicazioni - mal sopportate - del padrone, finisce per rimanervi incastrato. Ne nascono momenti scenici spassosi che raggiungono l’apice con la rottura della giara da parte di un esasperato Don Lollò stesso. E l’uscita del mastro dalla grossa brocca diventa una catarsi (quasi) collettiva. Due le rappresentazioni tenute nello scorso fine settimana al carcere di Larino da parte dei detenuti (la maggior parte provenienti da Campania e Sicilia e forse anche per questo incredibilmente portati per la recitazione), il 17 e il 18 dicembre. Una ripartenza resa possibile grazie al contributo concesso dall’Otto per mille della Chiesa Valdese con cui il progetto ha avuto un finanziamento. “La cosa più importante non è la rappresentazione finale (il prodotto) bensì tutto ciò che c’è dietro, tutti i mesi di preparazione (il processo, ndr)”, così la dottoressa La Ginestra che ha annunciato che presto partiranno i preparativi per la rappresentazione estiva, da tenersi - come d’abitudine ormai da anni - nel cortile esterno. A guidare gli attori, come da 4 anni a questa parte, il regista Giandomenico Sale della Frentania Teatri. “Un amico oltre che un bravo professore”, il commento a margine della rappresentazione di uno degli attori protagonisti. Da parte di tutti - personale dell’istituto, detenuti, pubblico - grande commozione per un incontro, “abbiamo scelto il teatro perché è uno splendido modo per emozionarci insieme”, che ha ripreso i fili di un discorso di dialogo e integrazione tra il carcere e la comunità che mai dovrebbe interrompersi. Emblematiche le parole di E., alias Zì Dima: “Troppo spesso si pensa a noi dentro come i ‘mostri’ contrapposti ai buoni che sono fuori, e forse anche noi a volte la pensiamo così. Eppure siamo persone come gli altri. Vi ringraziamo per essere stati presenti, questi momenti per noi sono importantissimi, ci danno la forza di andare avanti”. Milano. Piatti “stellati” per 40 detenuti di Opera chiesadimilano.it, 20 dicembre 2021 Martedì 21 dicembre l’ottava edizione de “L’Altra Cucina... per un Pranzo d’Amore”, promossa da Rinnovamento nello Spirito Santo, Prison Fellowship Italia Onlus e Fondazione Alleanza RnS, e patrocinata dal Ministero della Giustizia. Quest’anno sarà un Natale speciale per quaranta detenuti del carcere di Opera: scelti tra i più meritevoli, potranno sedersi a tavola con le rispettive famiglie e godersi un pranzo stellato e uno spettacolo all’insegna della comicità e della buona musica. Giunge infatti alla sua ottava edizione “L’Altra Cucina… per un Pranzo d’Amore”, l’evento che dal 2014 in occasione del Natale offre a chi vive l’esperienza della detenzione pasti gourmet preparati da chef stellati e serviti da numerosi testimonial del mondo dello spettacolo, della musica, della stampa e dello sport. Quattro carceri coinvolte - A cura del Rinnovamento nello Spirito Santo, Prison Fellowship Italia Onlus e Fondazione Alleanza RnS, e patrocinato dal Ministero della Giustizia, l’evento si svolgerà martedì 21 dicembre e contemporaneamente in altre tre carceri italiane: Roma (Rebibbia Femminile), Ivrea e Cagliari. In tutto saranno coinvolti 800 detenuti e detenute, con la collaborazione di decine di volontari e di operatori della giustizia. In particolare a Opera verranno apparecchiati 40 tavoli, per un totale di 160 persone, detenuti e loro familiari che si ritroveranno in via del tutto eccezionale attorno alla stressa tavola per gustare un menù stellato. A servire saranno volti noti del mondo dello spettacolo che dopo il pranzo allieteranno le famiglie con uno spettacolo all’insegna della comicità: Pier Paolo Pollastri, Aurelio Cammarata, Renzo Sinacori, Eddy Mirabella, Rosy Cannas, Francesco Rizzuto e Salvatore Ferrara, presidente Nic. Si esibiranno in un concerto natalizio anche 28 giovani musicisti dell’Istituto “Steiner” di Milano. Il Giubileo di RnS - Questa edizione, in ragione delle attuali restrizioni vigenti nel mondo carcerario e della concomitanza del Giubileo d’Oro del Rinnovamento in Italia, per i 50 anni dalla sua fondazione, si connota come un particolare evento, segno di carità giubilare. “Ci sono forti idealità a fondamento del gesto che ci accingiamo a compiere - afferma il presidente del Rinnovamento nello Spirito Santo, Salvatore Martínez -. Siamo mossi dalla fede, non ne facciamo certo mistero; ed è in obbedienza a questa legge interiore che crediamo nelle parole che padre Ernesto Balducci amava ripetere: “Non ci rassegniamo al male” e che san Paolo, 2000 anni fa, aveva già fatto diventare una massima: “Vinci il male con il bene” (Lettera ai Romani 12, 21), come in epoca più recente Denis Diderot: “Non basta fare il bene, bisogna anche farlo bene”! (in Massime e pensieri). In un tempo che sta esaltando le diversità e che spesso non riesce ad armonizzarle o a riconciliarle, così che poi finiscono con l’entrare in confitto, in proteste, in violenza, noi e tanti amici vogliamo ritrovare “il gusto”, “il sapore” di essere veramente uomini e donne incarnati tra le piaghe dolorose di questo nostro tempo”. Da L’Altra Cucina all’altra giustizia - Il pranzo di Natale nel carcere di Opera non è un evento annuale fine a stesso: è inserito infatti in un più ampio progetto di giustizia riparativa e di reinserimento nel mondo del lavoro. Sono molte le azioni in campo: dal progetto Sicomoro al progetto “Auxilium”, alla formazione. Il progetto Sicomoro nel carcere di Opera è stato portato avanti in collaborazione con Prison Fellowship Italia, che da 12 anni ha a cuore la diffusione della giustizia riparativa. Si tratta di un progetto che fa incontrare all’interno delle carceri i detenuti con le vittime che hanno subito lo stesso reato. In più occasioni è stato dimostrato che la giustizia riparativa funziona, perché permette alle vittime di recuperare la serenità che è stata rubata dal reato subito, e consente ai detenuti di acquisire la responsabilità di ciò che è accaduto e cambiare strada, cuore, mente. È così che l’intera società ne beneficia. Da questi incontri a Opera è nato un piccolo gruppo di preghiera carismatica. Fino allo scoppio della pandemia 22 detenuti supportati da volontari del Rinnovamento nello Spirito si riunivano una volta a settimana per un incontro di preghiera comunitaria carismatica. Il progetto “Auxilium”, avviato nel 2017 dalla Fondazione Alleanza del Rinnovamento nello Spirito Santo, è rivolto ai nuclei familiari di detenuti che si trovano in forte stato di disagio economico. È noto che le famiglie di quanti vivono l’esperienza della detenzione si trovano spesso in condizioni di grave sofferenza economica, in quanto chi si trova in carcere rappresenta la principale fonte di reddito della famiglia. Di conseguenza, e non di rado, ciò implica che tali famiglie siano sostenute dalla criminalità stessa: è così, quindi, che si crea un debito di riconoscenza con il mondo della malavita, alimentando di fatto un pericoloso circuito nel segno dell’illegalità. Per questo “Auxilium” con il patrocinio di Caritas Italiana, incentiva le forme di sostegno alle famiglie dei detenuti e i processi di riabilitazione nella società. Il progetto di reinserimento, infine, consiste nella formazione di detenuti e detenute nel settore della ristorazione per offrire competenze e conoscenze adeguate e possano adire efficacemente a processi di riabilitazione e di reintegro nella società nel settore della ristorazione, settore che offre concrete e continue possibilità di impiego. Lettere da un carcere durante il lockdown: testimonianza di una volontaria di Lorenzo Cipolla interris.it, 20 dicembre 2021 L’intervista a Ida Matrone, volontaria nel carcere di Bollate e autrice del libro “Lettere da un carcere. Racconti e volti di un’amicizia”. “Ciò che costituisce ogni uomo è un fascio di esigenze, di verità, di bene, di bellezza, di giustizia di felicità. Quello che la Bibbia chiama il ‘cuore di ogni uomo’ lo si può incontrare in ogni persona, anche in chi ha sbagliato tanto o se n’è dimenticato”, racconta a Interris Ida Matrone, insegnante, volontaria dell’associazione “Incontro e Presenza” nel carcere milanese di Bollate e autrice del libro “Lettere da un carcere. Racconti e volti di un’amicizia”, pubblicato dalla casa editrice Ares. Un epistolario di corrispondenze cominciato a scambiarsi con le persone detenute nella casa di reclusione dell’hinterland meneghino nei giorni in cui la pandemia di Coronavirus irrompeva con tutta la sua tragicità nelle vite di ciascuno di noi, con le conseguenti restrizioni e il lockdown scattato il 9 marzo 2020. “Attraverso l’incontro e l’amicizia che da esso scaturisce, queste esigenze possono rifiorire, tornare a esprimersi e diventare operative nella nostra vita. Nessun male e nessun errore può eliminare totalmente questo cuore, e nessuno può strapparcelo”, testimonia ancora Matrone, che da 12 anni porta la sua presenza e il suo ascolto ai detenuti di Bollate. Un’esperienza nata quasi per caso, ma che aveva radici antiche. L’inizio - Il seme di questa storia l’aveva gettato, quando Ida era una giovane studentessa, la sua insegnante Mirella Bocchini, la fondatrice, nel 1986, di “Incontro e Presenza”. Da suoi racconti degli incontri con i detenuti, Matrone comincia a conoscere la realtà carceraria. Questa è entrata davvero dentro la sua vita un decennio fa. “Per un caso fortuito, una volta ho accompagnato una volontaria a un incontro a Bollate e da lì tutto è cominciato”. In cosa consiste la sua attività come volontaria? “Ogni due settimane incontro i detenuti, circa una ventina, per un paio d’ore, e cominciamo a dialogare sulla vita, sul nostro rapporto con essa e con ciò che ci sta a cuore. Per trovare una rotta occorre capire chi siamo e come siamo fatti, serve chiarezza sull’io della persone e di come questo si rapporta con la realtà. Da questo dialogare sono pure nate iniziative a carattere culturale, ma si parte sempre dall’incontro, per capire di cosa hanno bisogno i detenuti”. Di cosa hanno più bisogno i detenuti? “Per quanto attiene i bisogni materiali, di tutto e di più. Ci sono poi quelli che, per esempio, cominciano a studiare e sviluppano bisogni culturali. Ancora, spesso sono preoccupati per le loro famiglie perché si sentono impotenti nel sopperire alle loro necessità e magari chiedono di fare ‘da tramite’. Proviamo anche ad aiutarli nel trovare delle strutture, quando sono quasi a fine pena e possono uscire per andare a lavoro o per fare volontariato”. Cosa s’incontra più spesso in carcere, l’angoscia o la speranza? “Provano un forte pudore per il loro passato, per cui è difficile che ‘tirino fuori’ l’angoscia legata ad esso, e noi non chiediamo mai cosa hanno fatto, che reato abbiano commesso. Molti sono disillusi, soprattutto quelli di una certa età o che vivono situazioni complicate anche fuori dal carcere, perché magari non hanno una casa dove andare. In carcere c’è chi entra in depressione e chi trova una speranza per il presente, se li si aiuta a capire che è proprio il quel momento, in quella situazione, che devono riprendere in mano la loro vita”. In che modo un volontario nel carcere può dare sostegno e supporto morale, oltre che materiale? “Lo si fa stando accanto alle persone, ascoltando le loro domande, le loro paure e il loro bisogno di comprendere quello che stanno vivendo e il loro bisogno di compagnia. Lo si fa condividendo con loro un pezzo di strada, perché la solitudine ti fa sentire abbandonato. Un detenuto, Filippo, in una lettera che ha scritto in un momento complicato - era in attesa di un permesso per incontrare i famigliari e gli era morto il padre - diceva “nel momento del bisogno vi ho incontrato”. Queste persone hanno le ‘antenne’ per il rapporto umano gratuito, che può proseguire anche fuori dal carcere”. Perché ha deciso di raccogliere questo scambio di lettere? “Durante il lockdown non potevamo più entrare nel carcere, così ci siamo scritti, ed è stato reso possibile da tutta l’esperienza vissuta in questi anni. In questi rapporti umani c’è un’incredibile ricchezza, molti si sono fatti ancora più profondi. Quando ho avuto tra le mani questo gruzzolo di lettere, molte delle quali trovo commoventi, un amico mi ha proposto di pubblicarlo. L’ho fatto raccontando in prima persone come mi sono posta come volontaria e cosa ho visto in questi dieci anni”. Qual è stato l’impatto pandemia sui detenuti? “Hanno vissuto una fortissima preoccupazione perché dall’esterno arrivavano notizie drammatiche e i loro rapporti con le famiglie erano stati interrotti. A Bollate l’amministrazione ha ‘tamponato’ un po’ la situazione dando possibilità ai detenuti di telefonare più spesso ai propri cari o di usare il tablet per le videochiamate. Purtroppo sono anche stati interrotti i corsi e i laboratori e si è fermato tutto anche per quelli che potevano uscire per lavorare fuori dal carcere, ancora adesso si fa fatica a ricominciare”. Quanto sono importanti, insieme, la giustizia e il perdono per consentire all’uomo che ha commesso un errore di rialzarsi e alla società di riaccoglierlo? “Il carcere deve aiutare la persona a ricominciare un cammino, così come la società deve accogliere chi ha scontato la propria pena. Il perdono non è solo questione personale, la società su questo deve interrogarsi. La Costituzione ci dice che la pena deve tendere a far rialzare la persona, e questo è possibile se non si guardano soltanto l’errore e la colpa, ma tutta la persona”. Povertà, le mille ombre dell’Italia: gli indigenti aumentati del 22% rispetto all’anno scorso di Francesca Mannocchi La Stampa, 20 dicembre 2021 Secondo il rapporto Censis-Tendercapital Inclusione ed esclusione sociale, più si protrae l’emergenza da pandemia, più tutte le persone che vedono drasticamente ridurre i propri risparmi saranno esposte al rischio di finire in povertà assoluta. Marina ha lasciato la provincia romana vent’anni fa per scappare da un uomo violento che minacciava lei e suo figlio. Oggi Marina vive a Baggio, periferia occidentale di Milano, in una casa di quaranta metri quadri appena. Il figlio dorme sul divano letto e non vuole che la madre lo chiuda al mattino “perché è la sua stanza - dice Marina - se ogni giorno lo ripiego e lo rimetto a posto dice che si sente un ospite”. La sua stanza è quel divano aperto tra la tv e l’angolo cottura. Alle tre del pomeriggio, la casa profuma di sugo. L’acqua è sul fuoco da un po’, Marina aspetta che torni il ragazzo che ha da poco ripreso a lavorare come autista per le mense scolastiche. È stato fermo, senza stipendio, durante tutti i mesi di lockdown e di scuole chiuse. Anche lei è rimasta a casa, lavorava come cameriera ai piani in un hotel del centro. Dice: “Lo sai quanto costa la tessera mensile dei mezzi pubblici? Quaranta euro”. Alla fine delle prime chiusure, con la cassa integrazione che non arrivava, non aveva risparmi neanche per comprare un biglietto giornaliero della metro per raggiungere il centro città: quattro euro. Marina ha un contratto a tempo indeterminato, “pensi che questo mi renda più fortunata di altri, ma è un’illusione”. Nonostante le garanzie previste dal suo contratto, l’anno scorso per i sussidi ha aspettato mesi e ha dovuto chiedere un aiuto per mangiare, diventando, come migliaia di altri a Milano, beneficiaria di un pacco alimentare settimanale. Tentenna Marina, omette, menziona la sua storia come una storia comune, il destino di molti: “Ho visto tante facce che conosco in coda per il pacco. Non sono mica la sola”. Non lo è, ma ribadirlo le serve a sottolineare quanto diffusa sia la povertà alimentare a Milano, certo, ma anche a condividere un imbarazzo. Ho bisogno d’aiuto, dice il suo volto, ma almeno non sono sola, “anche la Alessia ha bisogno, me l’ha detto lei che al parco il sabato mattina distribuiscono le scatole, non ho problemi solo io”. Mal comune, mezzo gaudio. Ora ha ripreso a lavorare, ma al pacco alimentare non rinuncia perché ha debiti da ripagare, eredità del 2020, e “perché non si sa cosa succederà domani”. Intanto la pentola a bollire sul fuoco è il solo angolo caldo di casa. Marina ha due maglioni, la felpa e la sciarpa. I pantaloni della tuta sono lisi all’altezza delle ginocchia e il colore sbiadito di un capo lavato troppe volte. Nel 2016, gli economisti e ricercatori Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi hanno mappato alcune città metropolitane italiane, mettendo a confronto Roma, Milano, Napoli e Torino. Nel libro “Le mappe della disuguaglianza” (Donzelli), analizzano i dati e le conclusioni che propongono, riflettono le realtà di grandi centri urbani caratterizzati da una comune natura multi dimensionale delle disuguaglianze: elevati differenziali nei livelli di istruzione, nella dotazione di servizi, delle attività culturale, dunque di opportunità economiche. Disuguaglianze che non solo coesistono le une con le altre, ma si alimentano a vicenda. Milano ha una popolazione residente di un milione e trecentomila abitanti, la metà di Roma. È sette volte più piccola della capitale, ed è la città più ricca d’Italia, con una dichiarazione reddituale media di 36 mila euro, otto mila euro più di Roma “eppure mantiene i medesimi problemi di disuguaglianze strutturali - spiega uno degli autori, Salvatore Monni, economista dello sviluppo - paradossalmente la presenza di redditi molto elevati a volte impedisce di vedere. Nelle città più povere è più facile immaginarci queste disuguaglianze, in città con più benessere, proprio in virtù della loro ricchezza, siamo portati a vedere le luci splendenti. Questo è il periodo dell’anno in cui le luci sono più splendenti: forse è la ragione per cui non ci accorgiamo di queste differenze”. Differenze che continuano a crescere. Estremità che continuano ad allontanarsi. Secondo il rapporto Censis-Tendercapital Inclusione ed esclusione sociale: cosa ci lascerà la pandemia, pubblicato pochi giorni fa, più si protrae l’emergenza da pandemia, più tutte le persone che vedono drasticamente ridurre i propri risparmi saranno esposte al rischio di finire in povertà assoluta. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,3 per cento della popolazione residente in Italia. Oggi, sedici anni dopo si trova nelle medesime condizioni il 9,4 per cento della popolazione. Cinque milioni e mezzo di persone, il 22 per cento più dell’anno scorso. Tra loro un milione e trecentomila bambini. “La maggioranza delle persone che aiutiamo è composta da giovani, tante sono donne. Molte di loro sole con bambini”, dice Francesca Agnello, la responsabile del progetto Nessuno Escluso, un programma di supporto alimentare che va avanti da giugno del 2020. All’inizio della pandemia, i volontari di Emergency si erano messi a disposizione per andare a fare la spesa alle famiglie e soprattutto agli anziani che non uscivano di casa per paura del contagio. Prendevano le liste della spesa, i loro soldi e tornavano a casa con le buste e il resto del denaro. Poi, man mano che passavano le settimane, tutti hanno cominciato a chiedere di togliere qualcosa. Prima il deodorante, lo shampoo, i prodotti per l’igiene, e poi le cose più costose da mangiare, come l’olio, il caffè: i volontari hanno capito che a quelle rinunce corrispondeva una mappa che, a seguirla, portava dritta alle nuove povertà. Famiglie che hanno smesso di pagare l’affitto, il mutuo, le bollette. “Persone che vivono nella costante incertezza di portare a casa qualcosa da mettere in tavola - continua Francesca Agnello - così abbiamo istituito un centralino aperto tutti i giorni, stilato una lista di beneficiari cui consegniamo gratuitamente pacchi che contengono cibo secco, talvolta anche frutta e verdura. Ogni settimana aiutiamo 1300 famiglie”. Come quella di Adriana. Madre sola di due figli, una ragazza di 27 anni e un ragazzo di 18. Adriana è nata e cresciuta a Quarto Oggiaro, un tempo quartiere frontiera alla periferia nord occidentale di Milano: spaccio, malavita, occupazione abusive. Quarto Oggiaro oggi è una piccola città di 35 mila persone e, sebbene l’amministrazione si sforzi di emanciparla dall’etichetta di area degradata (Quarto Oggiaro è anche un quartiere vivo e ricco di attività sociali e culturali, frutto della collaborazione tra istituzioni, associazioni e cittadini) lungo le sue strade si incontrano i volti segnati dalla crisi e dalle ingiustizie sociali. Comequello di Adriana. “La gente ha cominciato ad andare all’Esselunga, aprire i pacchi di cibo, mangiarli lì e poi tornare a casa - racconta - le persone qui sono sempre le stesse, e se qualcuno arriva a mangiare al supermercato perché non ha niente, vuol dire che non ha ricevuto aiuti. Questa è la discriminazione”. Adriana lavora in un’impresa di pulizie dal 1999. La sua famiglia è andata avanti con 1000 euro al mese per tanto tempo. Quando è iniziato il lockdown, la ditta le ha dimezzato le ore di lavoro, quanto più passavano le settimane, tanto più si svuotava la dispensa. Così ha presentato la sua situazione a Emergency e ha iniziato a ricevere il sussidio settimanale. Dice: “È un grande aiuto sapere che puoi mettere sempre in tavola un piatto di pasta, che non muori di fame. Vai avanti anche se non hai la bistecca, la pasta ti fa andare avanti lo stesso”. La sua preoccupazione non era sfamarsi, ma pagare gli studi di sua figlia, farla laureare. Anche in questo caso le differenze tra centro e periferia sono nette, a Pagano e Nocetta, due zone centrali della città ci sono sette volte i laureati di Quarto Oggiaro. È per stringere questa forbice, per sostenere il riscatto di sua figlia, che Adriana ha cercato lavoro a ogni angolo. Da qualche mese, fa le pulizie a casa di un medico, ma gli ha detto di abitare “vicino all’ospedale Sacco, ancora adesso se dici che abiti a Quarto Oggiaro ti guardano come se arrivassi dal terzo mondo”. Per dare una possibilità a sua figlia, per non vanificare gli impegni degli ultimi anni, Adriana ha fatto ogni lavoro che ha trovato: accompagnare gli anziani dal medico, la badante, le pulizie anche la sera tardi e la mattina presto, stirare per cinque euro l’ora. Vederla laureata era il suo unico obiettivo. Per questo, quando non lavorava, durante il lockdown, pensava solo a come pagare la retta della scuola paritaria per traduttori e interpreti, le due rate che mancavano per farle finire gli studi. Un totale di otto mila euro. “Alla scuola non interessava se lavoravi o no, la retta è quella e se non paghi non entri, e anche questa è discriminazione sempre più accentuata, sempre più incisiva, e ne fanno le spese i giovani”, dice. L’8 novembre scorso, la figlia di Adriana si è laureata. Insieme hanno brindato, hanno pianto. Hanno gioito, soprattutto. Adriana dice che sua figlia era bella, che nelle avversità ce l’avevano fatta, insieme. E che lei, sua figlia, “è brava, proprio brava”. È proprio brava, ma rischia di restare bloccata in una trappola territoriale che impedisce la mobilità sociale perché, come ricorda l’economista Salvatore Monni, “Milano produce una ricchezza importante, il reddito medio più alto del paese ma questa ricchezza non riesce ad arrivare a tutti. C’è un problema nel nostro modello di sviluppo”. Un modello di sviluppo che si è inceppato sulla soglia della redistribuzione del reddito anche a Milano, una città che genera ricchezza ma la ripartisce in modo disomogeneo, allontanando sempre di più chi ha opportunità da chi non le ha né le avrà. Generando a caduta una povertà che va guardata negli occhi, blu profondo di malinconia e tenacia, come quelli di Adriana. Seduta al sole del parco di Quarto Oggiaro, di fronte alla sede dell’associazione che distribuisce i pacchi alimentari, dice: “La periferia è sempre periferia, e loro, i ricchi, pensano sempre: quelli in periferia sono abituati così, si arrangiano e ne vengono fuori. Ma siamo tutti esseri umani, c’è chi ha lavorato tanto e fa successo e c’è chi lavora e va avanti con dignità. E così alla persona gliela togli la dignità”. Caro Piero, a noi Welby resta soltanto il referendum di Mina Welby La Stampa, 20 dicembre 2021 Oggi, quindici anni fa, poco prima delle undici di sera, moriva Piergiorgio, conquistando il diritto umano a morire. La sua battaglia era cominciata molti anni prima. Con l’obiettivo di arrivare passo dopo passo prima alle disposizioni anticipate di trattamento, e poi a una legge sull’eutanasia simile a quella promulgata nel 2002 in Belgio e in Olanda. Era una persona squisita, intelligente, sapeva discutere e correggere senza offendere. Difendeva il diritto di morire come diritto umano. Lo disse Umberto Veronesi, quando era ministro della salute. Piergiorgio aveva aperto il forum eutanasia e lo portava avanti discutendo con i cittadini che venivano su quella che lui chiamava la barca dei pazzi. Era fantasioso, ironico, sapeva prendere la vita con ironia, anche se la sua era tanto difficile. Non si è mai lamentato, nonostante un continuo peggioramento della sua salute. Da anni Welby conosceva i radicali e aveva partecipato alla fondazione dell’associazione a cui Luca Coscioni dette il proprio nome. Luca morì nel febbraio 2006 e Piergiorgio fu eletto co-presidente dell’associazione Luca Coscioni. Si rivolse anzitutto alla dirigenza dell’associazione chiedendo aiuto per poter morire. Per riuscire a fare un atto politico pubblico scrisse una lettera al Presidente della Repubblica, chiedendogli una legge per l’eutanasia. Il presidente rispose che avrebbe rimandato al Parlamento, unico competente per legiferare. Dal Parlamento uscivano voci contrapposte alla richiesta di Welby. Altri parlamentari lo vollero venire a trovare. Piergiorgio declinò ringraziando e chiese di fare una legge. Altre voci dicevano perché la moglie non lo aiuta se vuole morire? Parole che mi hanno molto ferito. La nostra era una battaglia civile, non avremmo mai fatto scelte diverse. Scrisse anche una lettera ai direttori dei Tg in cui disse “mi sento prigioniero, come Aldo Moro”. Per la distrofia muscolare i muscoli si erano disfatti e lo sterno si era infossato e gli premeva sugli organi interni provocandogli dolori laceranti. Lo seppi solo dopo l’autopsia. Su richiesta di Piergiorgio Marco Cappato, allora parlamentare europeo, gli portò dei medici specialisti del Belgio che confermarono a Piergiorgio che in Belgio un malato come lui avrebbe potuto morire con la loro legge per l’eutanasia o in sedazione profonda distaccato dal ventilatore automatico. Per questo si rivolse al medico palliativista, il dottor Casale, che gli spiegò che lui poteva sedarlo ma non staccargli il ventilatore. Con i suoi avvocati Welby si rivolse al giudice civile di Roma che riconobbe il diritto ma obiettò che non c’era ordinamento sul rifiuto dei trattamenti. Intanto il dottor Mario Riccio, anestesista-rianimatore all’ospedale di Cremona si era fatto avanti, contattando i Radicali della sua città. Venne in visita a Piergiorgio e si misero d’accordo per mercoledì 20 dicembre. Quel pomeriggio, il nostro ultimo insieme, abbiamo parlato poco. Gli chiesi se volesse sentire la sua musica o vedere foto o qualche video, non volle nulla. Mi chiese il suo funerale per consolare la sua mamma. Ma il funerale gli fu negato. Io ho molto redarguito Ruini, negare il funerale è stato davvero disumano. Anche Giovanni Paolo II aveva rifiutato le cure, dicendo “lasciatemi andare dal Padre”. Nei quindici anni dalla sua morte molto è cambiato. È caduto il tabù morte, si scambiano opinioni. I cittadini hanno imparato a usufruire della magistratura per rivendicare i propri diritti. L’associazione Coscioni è diventata un punto di riferimento anche in campo legale. Stiamo aiutando Mario. Ma ci sono tanti Mario. Non si parla mai delle tante persone in stato vegetativo. In Italia ogni anno all’incirca tremila. Chi non ha rilasciato le disposizioni anticipate di trattamento, rimane per anni in questo stato, grave peso di dolore per i familiari. Serve per loro, se la famiglia lo vuole il procedimento con un Amministratore di sostegno. L’associazione Luca Coscioni nel 2013 aveva depositato la proposta di legge di iniziativa popolare sul rifiuto dei trattamenti sanitari e la liceità dell’eutanasia. Era entrata in commissioni congiunte Giustizia e Affari sociali. Insieme ad altre proposte di legge parlamentari è stata fatta una legge che soddisfa i requisiti della sentenza 242 della Corte Costituzionale. La sentenza dice che una persona deve avere una patologia inguaribile, sofferenze fisiche o psicologiche insopportabili e deve essere capace di intendere e volere e a fare azioni autonome e avere dei sostegni vitali. Ma non tutte le persone malate hanno sostegni vitali e persone totalmente incapaci a muoversi per autosomministrarsi il farmaco letale non vengono prese in considerazione. Per loro ci vuole legge per l’eutanasia. Altro punto è l’obiezione di coscienza che non va decisa per legge, ma può essere praticata per un singolo caso alla volta. L’unica speranza è il referendum. Si spera che vada a votare il 50 % (più uno) degli aventi diritto al voto. Intanto io direi ai medici di studiare un regolamento e norme applicative. Ribadisco che le cure palliative possono aiutare moltissimo i malati e i loro familiari, ma ci vorrà una sensibilità profonda in più per capire quando dare ragione al malato che chiede di poter morire. È appunto il momento dove la morte rimane l’ultima speranza. Ddl Zan, il Pd si mobilita: un tour in tutta Italia per rilanciare la legge sull’omotransfobia di Giovanna Casadio La Repubblica, 20 dicembre 2021 Due mesi dopo il naufragio al Senato, Letta e Zan annunciano una serie di manifestazioni in presenza e via web. Il segretario dem crede nelle agorà. Ad aprile il disegno di legge sarà ripresentato a Palazzo Madama. Contro l’omotransfobia il Pd rilancia. Due mesi dopo il naufragio al Senato del ddl Zan, il segretario dem Enrico Letta e Alessandro Zan, il deputato del Pd e attivista Lgbt che ha dato il nome alla legge, annunciano una mobilitazione nazionale. Partirà un tour in tutta Italia, sia con manifestazioni in presenza che via web. Ma soprattutto nella prima data utile, ad aprile prossimo (essendoci stata una bocciatura in aula), la legge contro l’omotransfobia sarà ripresentata al Senato. Testo identico o cambiato? Letta crede nelle “agorà”, le iniziative di partecipazione dal basso che coinvolgono militanti ma anche cittadini interessati, nelle quali si elaborano proposte. Finora sono circa 200 le “agorà” che si sono tenute sui temi più disparati. Sull’omotransfobia e su come contrastare i crimini d’odio sono state fissate cinque “agorà” nelle principali città italiane, da Milano a Napoli. Il calendario è in corso d’opera. Ma la scommessa politica è che in Parlamento si torni a discutere del ddl Zan, senza svendere i principi dell’identità di genere né l’informazione nelle scuole: i due nodi su cui si è abbattuta la scure della destra e dei franchi tiratori, nell’ottobre scorso. Lontani dalle manovre per il Quirinale, Letta è convinto che gli stessi renziani approderanno a più miti consigli e non si smarcheranno di nuovo, alleandosi di fatto con il centrodestra. Un punto d’incontro insomma, si può trovare. Il Pd non molla. Domani alle 18,30 la campagna dem contro l’omotransfobia sarà spiegata su Instagram alle 18,30 da Letta e da Zan in una diretta. Coinvolte molte associazioni Lgbt. Gaynet, con il suo segretario Rosario Coco e il presidente Franco Grillini, hanno rilanciato l’agenda arcobaleno. Dice Coco: “Noi poniamo sul tavolo le nostre richieste: il diritto all’identità di genere, l’estensione della legge Mancino contro il razzismo all’omotransfobia, il matrimonio egalitario, l’adozione per tutti e tutte, il riconoscimento dei figli alla nascita, la procreazione assistita per coppie e single, il divieto dei vergognosi trattamenti cosiddetti “riparativi” per omosessuali”. Riparte e si allarga la discussione sui diritti. Il Pd la mette sul tavolo del confronto politico, sapendo bene che per la destra in maggioranza, ovvero Lega e Forza Italia, sono temi urticanti. Tra i forzisti ci sono però esponenti liberal, che già da tempo si sono schierati a favore. Elio Vito, l’ex ministro per i Rapporti con il Parlamento ed ex capogruppo di FI, afferma che “la battaglia sui diritti Lgbt deve fare un passo avanti, non fermarsi. Oltre alla norma penale contro odio, discriminazioni e violenza, occorre rimuovere gli ostacoli per un vero matrimonio egualitario”. La proposta di Vito di un gesto simbolico contro l’omotransfobia, ovvero di una panchina arcobaleno nel cortile di Montecitorio, ha superato le cento adesioni di deputati. Sui diritti e sul ddl Zan si rinsalda l’asse giallo-rosso. Alessandra Maiorino, senatrice pentastellata, ne è convinta. Perché oggi i giornalisti sono le vere vittime di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 20 dicembre 2021 Raccontare la verità, in questo mondo capovolto, fa paura. I casi di Lucia Goracci, di Clarissa Ward, di Giovanna Botteri e di Gaja Pellegrini Bettoli. In coda c’è anche il mio, che ho 75 anni. È davvero un grido di dolore. Nella mia fortunata vita professionale, come inviato del Corriere della Sera, ho scavalcato centinaia di ostacoli in guerra e nei Paesi che un tempo gravitavano nel comunismo pilotato dall’URSS. Ma credetemi. Non ho mai visto né ascoltato, come adesso, le porcherie di cui sono vittime in tutto il mondo i miei colleghi. Il caso di Lucia Goracci, una delle giornaliste televisive più brave e coraggiose, è emblematico. Stimo Lucia da sempre. Abbiamo lavorato assieme più volte. Ma quanto le è accaduto pochi giorni fa a Bucarest, città che conosco molto bene, è davvero osceno. Atterrata nella capitale romena per un’intervista importante, è stata rapita, sequestrata, e chiusa a chiave in una stanza con la sua spaventata interprete romena. La donna che le aveva concesso l’intervista e suo marito l’hanno spintonata, colpita, ferita. Ma Lucia non si è persa d’animo. E alla fine è stata liberata, grazie all’intervento dell’ambasciata d’Italia. Una mia nuova e cara amica, Clarissa Ward, alla quale abbiamo assegnato in Sicilia il premio dedicato alla memoria della nostra collega del Corriere Maria Grazia Cutuli, ammazzata dai terroristi mentre cercava di raggiungere Kabul, si trovava proprio in Afghanistan poche settimane fa. Al lavoro per la CNN, uno dei maggiori canali televisivi del mondo. Clarissa è stata brutalmente minacciata di morte, ed è stata costretta ad abbandonare la sua postazione professionale. Il giornalismo vero però resiste con coraggio e dignità. Una cara collega che conosco personalmente e stimo, Gaja Pellegrini Bettoli, è stata pronta a pagarsi missioni ad alto rischio. Ultimamente, vista la carenza generale di interesse per la politica estera, era costretta a fare la Cameriera-Donna delle pulizie in una trattoria di Trastevere. Ingiustamente umiliata, si è pagata un viaggio proprio in Afghanistan, l’unico Paese del mondo di cui oggi si parla spesso, ha fatto eccellenti servizi per Rainews24, e magari la pagheranno (poco) in ritardo. Un altro caso è quello di Giovanna Botteri, intrepida giornalista triestina, che ho incontrato sul campo in zone di guerra nel Medio Oriente e nel Kosovo. Giovanna, al denaro e alla gloria antepone la forza di testimoniare la realtà per averla vissuta di persona, non scorrazzando soltanto su Internet. Sa bene che il web e i social sono essenziali soprattutto oggi. Ma sa anche che c’è sempre bisogno del filtro di un giornalista credibile. Mi cito per ultimo perché a 75 anni, come più anziano giornalista del Corriere della Sera, dove lavoro da 53 anni, sono da tempo preso di mira da mafiosi italiani della Costa d’Avorio, con velenose propaggini francesi. Minacce e Ricatti. Non tanto con l’amo di storie di donne compiacenti, ma con manovre per cercare di distruggere la mia credibilità. Ho denunciato tutto alla magistratura italiana, alla polizia postale e all’Interpol. Ma quanto mi è accaduto recentemente a Sanremo, dove ero invitato per tenere una conferenza, è davvero mostruoso. Conosco la città ligure dai tempi in cui lavoravo al Secolo XIX di Genova e seguivo il festival. Con un pizzico di nostalgia ho prenotato una stanza all’hotel Globo, dove scendevo oltre mezzo secolo fa. Non ho avuto problemi a raccontare per telefono ad amici e parenti quanto tenessi a questo albergo, dove ovviamente non c’è più il personale del passato. Qualcuno ha colto, come si dice, la palla al balzo, telefonando al Globo, con foto oscene di uomini nudi, sostenendo che avevo strane relazioni. Pagai il conto, mi scusai con l’albergo per l’anticipata partenza, andai a presentare denuncia alla polizia. Poi presi il primo treno e mi diressi a Genova da mia sorella, raccontandole quanto era accaduto. Certo, di sicuro ora qualcuno dirà che ci sono giornalisti con la schiena dritta (a me hanno attribuito il premio dedicato alla memoria del giudice Paolo Borsellino proprio per aver tenuto sempre fede alla feroce volontà di raccontare la verità, coltivata per tutta la vita), ma ce ne sono altri che si comportano diversamente. Lo so bene che ci sono giornalisti che hanno tradito la professione, prestandosi a giochetti, a menzogne, a invenzioni volgari e a vergognose ruffianerie, soprattutto in TV, o magari entrando in uno degli ascensori sociali, ad esempio una loggia massonica. Ne conosco alcuni anche io, anche parecchi ahimè. Ma sono pienamente d’accordo e solidale con il vero leader del nostro sindacato professionale Beppe Giulietti. È la voce più preparata e limpida per difendere chi rischia la vita o magari violenze spesso taciute, e chi va a lavorare per quattro soldi, da precario, nei giornali periferici. Pensiamo a loro, per piacere. Elena Ferrante: “Cosa ci dice il dolore di Patrick Zaki e di Giulio Regeni” di Francesca Caferri e Ilaria Venturi La Repubblica, 20 dicembre 2021 Intervista della scrittrice a Repubblica. “Questi due ragazzi hanno riassunto in sé ingiustizie e pericoli a cui i nostri figli sono esposti anche solo studiando e pensando”. “In cella ho letto l’intera saga di Elena Ferrante. È bellissima. La migliore letteratura italiana che io abbia letto. Mi ha tenuto compagnia. Adesso non vedo l’ora di andare a Napoli”. Così parlava qualche minuto dopo il suo rilascio dalla casa di Mansoura, Patrick Zaki. Parole che hanno colpito tutti quelli che hanno seguito la vicenda dello studente egiziano dell’università di Bologna, in carcere per 22 mesi in Egitto. Fra loro, anche l’autrice de “L’amica geniale”. L’ha colpita che Patrick Zaki leggesse i suoi libri in cella e che l’abbia indicata tra gli autori preferiti? “Sì, e sono contenta che la storia delle mie due ragazze gli sia stata d’aiuto. Ma se penso a Zaki che legge, non riesco a prescindere dallo sfondo. Vedo la cella, con rabbia, non i libri”. Libri che però lo consolavano, dice Patrick. La letteratura come evasione, via di fuga in una situazione di oppressione o è qualcosa di più? “Qualcosa di più. La scrittura sprigiona mondi, voci, idee, emozioni. Tutto il corpo ne è investito e ha l’impressione di fortificarsi, di accrescere la propria potenza di vita. Un libro, insomma, non può che moltiplicare il bisogno di sopravvivenza. Mi immagino quindi che, in stato di detenzione, ciò che consola sia non l’evasione virtuale, ma quel di più di energia vitale attivato dalla finzione letteraria. La letteratura rende più forti, più resistenti. Ma per quanto piacevole e intensa possa essere una lettura, l’obbrobrio della prigione - in Egitto, qui da noi, in ogni parte del mondo - resta”. Quando gli abbiamo chiesto dei libri che ha letto, ci ha parlato di letteratura araba e poi di tre autori tanto diversi fra loro: lei, Jose Saramago e Fedor Dovstoevskji. C’è qualcosa che vi unisce pensando a un lettore come lui? “Bisognerebbe chiedere a Zaki. Ha fatto questo suo percorso di lettura in una situazione duramente condizionata e sa molto più di me dei nessi che ha dovuto o saputo stabilire, per sopravvivere, tra testi distanti. È giovane, è colto, ascoltarlo ci gioverebbe”. L’appartenenza a una comunità universitaria che si è mobilitata in Italia e in Europa ha contribuito a fare di Patrick un simbolo, icona della lotta per le libertà. Crede anche lei che la cultura abbia un potere tale da costringere la politica a muoversi, a non spegnere i riflettori? “No, non mi pare che il mondo attuale attribuisca alla cultura il peso necessario per incidere sulla politica. Ma in questa circostanza è successo qualcosa che fa ben sperare. Intorno a Patrick Zaki è cresciuta una comunità tenuta insieme dalla consapevolezza di quanto sia a rischio oggi, in ogni angolo del mondo, la gioventù più generosa e più sensibile. È Giulio Regeni, credo - con la sua vicenda atroce e senza giustizia - che ha reso i quasi due anni di prigione di Zaki una ferita insopportabile per le nostre coscienze. Questi due ragazzi hanno riassunto in sé tutte le ingiustizie e tutti i pericoli a cui le nostre figlie, i figli, i nipoti, sono esposti anche solo studiando e pensando e cercando di capire, in piena autonomia, in quale mondo gli è toccato di vivere”. Patrick è convinto che ci sia un legame importante tra la teoria e la vita, dice la sua docente del Master Rita Monticelli. Ha desiderio di confrontarsi con tutte le culture, quelle minoritarie per lui sono da coltivare non solo sui libri: le devi conoscere e ti devi impegnare in loro difesa. La letteratura come arma nella lotta per i diritti umani? “La letteratura deve fare il suo lavoro: costruire mondi dove il nostro realissimo caotico mondo di ogni giorno si riveli in tutte le sue fluttuazioni, anche quelle più impercettibili. Il compito di un romanzo è addestrare lo sguardo a vedere con attenzione, senza indifferenza. Dopo, sì, c’è la vita, tutta da sperimentare, tutta da riorganizzare, con dedizione. La mia generazione ha provato a migliorarla, come tutte le generazioni, credo. Ma i diritti umani sono sempre più violati, le grandi ricchezze sono sempre più nelle mani di pochissimi, le democrazie tendono sempre più alla democratura o al flirt con le dittature, il pianeta è sempre più malato, ogni privilegio presuppone sempre più un sopruso. Ma bisogna insistere, cocciutamente. I giovani come Zaki sanno leggere meglio di noi, scrivere meglio di noi, partecipare più generosamente di noi”. Patrick Zaky a “Che tempo che fa”: “Ora sto bene e devo ringraziare davvero tutti” Patrick si è innamorato di Napoli leggendo i suoi libri. Non l’ha mai vista, ma non vede l’ora di visitarla. Dove gli direbbe di andare? Cosa gli consiglierebbe di fare? “Credo che quando la vedrà, pur non conoscendola, la riconoscerà. Innanzitutto perché so che ha letto parecchi altri scrittori napoletani e quindi ha già estratto dai libri una sua mappa personalissima della città. E poi perché Napoli, oltre che ricca di storia - la città, se ricordo bene, ha avuto secoli fa una comunità egiziana di grande influenza culturale - e di storie significative, è uno straordinario riassunto dei problemi del sud del pianeta”. Se potesse costruire un dialogo con questo ragazzo che ha passato 22 mesi in carcere vedendo il mondo attraverso la letteratura, cosa gli chiederebbe? Cosa la tocca di questa esperienza così drammatica che ha vissuto? “Lo lascerei raccontare in assoluta libertà. Faccio fatica a immaginare cosa può essere per qualsiasi essere umano, e soprattutto per un giovane, una lunga prigionia e il rischio implicito in ogni parola, persino in ogni pensiero”. Crede che ora il governo debba riconoscergli la cittadinanza italiana? Bologna, Napoli e altre città lo hanno fatto cittadino onorario nei loro Comuni... “Sì. Assolutamente sì. Anche in questo Zaki, ormai intimamente legato all’Italia, è una figura-sintesi di tanti giovani cittadini di questo Paese che tuttavia non hanno cittadinanza”. Egitto. Ahmed Douma, uno dei simboli della rivoluzione egiziana, è in carcere da otto anni di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2021 Il 3 dicembre Ahmed Douma è entrato nell’ottavo dei 15 anni di carcere che gli sono stati inflitti al termine del processo, passato alla storia egiziana come quello dei “fatti del Consiglio dei ministri”: nel dicembre 2011 le forze di sicurezza sgomberarono dopo tre settimane un sit-in di fronte alla sede del governo, dando vita a duri scontri con i manifestanti. Douma è, con Alaa Abd El-Fattah (che oggi conoscerà il suo destino al termine del processo che lo vede alla sbarra insieme al suo avvocato, Mohamed el-Baqer e al blogger Mohamed “Oxygen” Ibrahim), uno dei simboli più potenti della rivoluzione del gennaio 2011. Ha contribuito alla fondazione dei più importanti movimenti di protesta dell’inizio di questo secolo, come “Kefaya” (Ora basta), e la Coalizione dei giovani rivoluzionari. È stato arrestato nel dicembre 2013 per la sua asserita presenza a una manifestazione contro la legge che impediva le proteste. Condannato a tre anni di carcere e ad altri tre di sorveglianza di polizia, poco prima della fine della pena è stato iscritto a una nuova indagine, per l’appunto quella dei “fatti del Consiglio dei ministri”, e nel febbraio 2015 condannato all’ergastolo, insieme ad altri 268 imputati, per attacco alla sede del governo, alle forze di sicurezza e all’Istituto di scienze, manifestazioni non autorizzata, possesso di armi e di ordigni incendiari e aggressione a soldati e agenti di polizia. Il giudice del processo, Mohamed Nagi Shehata, non ha mai fatto mistero della sua ostilità alla rivoluzione del 2011 e alla persona di Ahmed Douma. L’avvocato di Douma ha presentato ricorso e, in un nuovo processo, il suo assistito è stato condannato a 15 anni e a una multa di sei milioni di lire egiziane. Anche in questo caso il giudice, Mohamed Sherin Fahmy, non ha mancato di rivolgere accuse alla rivoluzione e ai suoi promotori. Douma è detenuto nel famigerato complesso penitenziario di Tora, in condizioni inumane, in una cella minuscola dotata di ventilazione insufficiente. Dal dicembre 2013 al febbraio 2020 è rimasto in isolamento e per molti mesi non ha potuto svolgere esercizi fisici fuori dalla cella o dormire su un letto. Per sei mesi, lo scorso anno, durante la fase acuta della pandemia, non ha potuto incontrare i familiari. All’interno del carcere è stato aggredito da estremisti islamici e la direzione di Tora non lo ha protetto. Le sue condizioni di salute sono preoccupanti: le giunture delle ginocchia sono deteriorate, ha infiammazioni croniche alle terminazioni nervose, dolori vertebrali, soffre di depressione e di attacchi d’ansia, rigidità nei movimenti delle spalle, attacchi di emicrania, battito cardiaco irregolare, scompensi nella pressione sanguigna e altro ancora. In carcere, Douma ha scritto un libro di poesie, Curly, di cui le autorità egiziane hanno vietato la stampa e la distribuzione. *Portavoce di Amnesty International Italia Etiopia. “Rastrellamenti e violenze da parte delle milizie Amara” di Gianfranco Bianchi La Repubblica, 20 dicembre 2021 La denuncia di Amnesty e Human Rights Watch. Secondo le testimonianze raccolte dalle due organizzazioni indipendenti le forze di sicurezza amara, alleate con il governo federale, sarebbero responsabili di un’ondata di detenzioni di massa, uccisioni ed espulsioni forzate nella regione del Tigray occidentale. L’Onu avvia un’indagine indipendente sui crimini commessi nel conflitto. Al tredicesimo mese di conflitto, la guerra civile etiope non accenna a placarsi, nonostante la riconquista da parte dell’esercito federale di alcune città chiave dislocate lungo la strada per Addis Abeba che erano cadute nelle mani dei separatisti tigrini. E si moltiplicano le denunce di abusi e violenze da entrambe le parti. Secondo Amnesty International e Human Rights Watch le forze di sicurezza degli Amara, alleate con il governo federale, sono responsabili di un’ondata di detenzioni di massa, uccisioni ed espulsioni forzate nella regione del Tigray, nell’Etiopia settentrionale. I civili del Tigray che hanno tentato di sfuggire alla nuova ondata di violenze sono stati attaccati e uccisi. Decine di persone sono detenute, torturate e ridotte alla fame senza cure mediche. “La nuova ondata di abusi da parte delle forze degli Amara contro i civili tigrini rimasti in diverse zone del Tigray occidentale è un drammatico campanello d’allarme”, ha affermato Joanne Mariner, direttore crisi di Amnesty International. “Senza un’azione internazionale urgente per prevenire ulteriori atrocità, i tigrini, in particolare quelli in detenzione, sono a grave rischio”. Dall’inizio del conflitto armato nel novembre 2020, nel Tigray occidentale sono avvenute alcune delle peggiori atrocità, tra cui massacri, bombardamenti indiscriminati e sfollamenti forzati su larga scala della popolazione tigrina. Il 2 dicembre 2021, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) ha riferito che più di un milione di persone sono state sfollate dal Tigray occidentale dall’inizio del conflitto. Un rapporto dell’Ocha del 9 dicembre ha rivelato che tra il 25 novembre e il 1 dicembre oltre 10mila tigrini sono stati sfollati. Il Tigray occidentale è rimasto inaccessibile alle agenzie umanitarie a causa dell’insicurezza della zona. A novembre e dicembre, Amnesty International e Human Rights Watch hanno raccolto 31 testimonianze sugli abusi delle milizie regionali e governative nelle città di Adebai, Humera e Rawyan. Dall’inizio di novembre, le forze di polizia, compresi i gruppi speciali dei Fanos, hanno sistematicamente rastrellato i tigrini, separando le famiglie e arrestando gli adolescenti dai 15 anni in su. Hanno espulso con la forza donne e bambini oltre ai malati e agli anziani dalla zona. “I tigrini, indipendentemente dal sesso e all’età, sono stati portati in una scuola”, ha raccontato un uomo a Rawyan che ha assistito ai rastrellamenti casa per casa delle milizie Fano. “Hanno separato i vecchi dai giovani, hanno preso i loro soldi e confiscato i loro beni, le persone anziane e i genitori sono stati caricati su grossi camion. Li hanno lasciati andare senza nulla”. Dopo i rastrellamenti a Humera del 20 e 21 novembre, due testimoni hanno raccontato di aver visto 20 camion pieni di persone in partenza verso il Tigray centrale. Sei testimoni hanno affermato che le forze degli Amara hanno sparato ai tigrini che cercavano di sfuggire ai rastrellamenti ad Adebai. “Quando le persone hanno cercato di scappare, i Fano li hanno attaccati con machete e asce in modo che nessuno potesse scappare. Ovunque ti voltassi, c’erano cadaveri”, ha affermato un contadino sopravvissuto di 35 anni. “I corpi sono rimasti insepolti, l’intera città puzzava ed era piena di cadaveri”, ha proseguito l’uomo. Altri quattro residenti hanno detto di aver altri morti alla periferia della città. “Per due giorni hanno bruciato i vestiti dei cadaveri”, hanno dichiarato. “La paralisi globale del conflitto armato in Etiopia ha incoraggiato le milizie ad agire impunemente e ha lasciato le comunità a rischio sole a se stesse”, ha affermato Letizia Bader, direttrice per il Corno d’Africa di Human Rights Watch. “Man mano che le prove delle atrocità aumentano, i leader mondiali dovrebbero sostenere un’indagine investigativa”. Si stima che migliaia di detenuti del Tigray siano detenuti in luoghi di detenzione sovraffollati nel Tigray occidentale. Un lavoratore in carcere da luglio nella prigione di Bet Hintset, controllata dalla polizia regionale degli Amara, ha detto di essere stato tenuto fino alla sua fuga a metà novembre in una stanza di tre metri per quattro con picchi di 200 persone. “Dimenticatevi le docce, non usavamo i servizi igienici. Non ci davano né cibo né acqua, a volte quando la nostra famiglia ci portava da mangiare, non ce lo permettevano. Molte persone si ammalavano, c’erano tutti i giorni almeno 30 cadaveri, ne sono sicuro, nella nostra cella sono morte 7 persone, tutte avevano più di 70 anni”, ha testimoniato un sopravvissuto che ha descritto come i Fanos torturavano sistematicamente i gruppi dei detenuti bastonando le mani, la testa, il petto e i genitali con il calcio o la canna dei fucili. Un altro detenuto, anch’egli arrestato a metà luglio e trattenuto a Bet Hintset, ha raccontato: “Usavano fili elettrici, le persone dai 12 ai 30 anni venivano picchiate, gli altri più anziani venivano adagiati a pancia in giù e colpiti dal collo ai piedi”. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, venerdì, ha votato una risoluzione per avviare un’indagine indipendente sugli abusi nel conflitto etiope. L’Etiopia si è detta “estremamente delusa” dalla decisione giudicando il meccanismo come “motivato politicamente”. La risoluzione, portata avanti dall’Unione Europea e sostenuta dagli Stati occidentali, è passata nonostante le obiezioni di Addis Abeba, che ha respinto le accuse di abusi e ha affermato di aver già collaborato alle indagini. “Molte di queste violazioni possono costituire crimini contro l’umanità e richiedono urgentemente ulteriori indagini da parte di esperti indipendenti”, ha affermato in un comunicato la delegazione della Ue presso le Nazioni Unite a Ginevra. La risoluzione istituisce un gruppo di tre membri che raccoglierà per un anno le prove volte a identificare i responsabili delle violazioni contro i diritti umani. In precedenza, l’inviato etiope presso le Nazioni Unite a Ginevra, Zenebe Kebede, aveva denunciato gli abusi da parte delle forze ribelli della regione settentrionale del Tigray. Migliaia di civili sono morti e milioni di persone sono scappate a causa del conflitto tra il governo federale e le forze ribelli del Tplf, che ha governato l’Etiopia per quasi 30 anni. Kabul, la crisi alimentare (e politica) da evitare di Franco Venturini Corriere della Sera, 20 dicembre 2021 L’Occidente e l’Afghanistan: un milione di bambini rischia di morire di fame, il 98 per cento della popolazione vive sotto gli standard minimi. Va ripensato il blocco dei fondi umanitari. Il popolo afghano, come tutti i popoli musulmani, non festeggia il Natale. Ma dovremmo essere noi, l’Occidente, a trovargli un posto sotto il nostro albero di festa prima che sia troppo tardi. Sono passati poco più di quattro mesi da quel ferragosto di Kabul, dalla vittoria senza colpo ferire dei Talebani e dal ritiro troppo simile a una fuga dei contingenti occidentali. E in questi quattro mesi si è alzato un muro invisibile, un muro fatto di silenzi e di indifferenza. Le sirene d’allarme suonate dall’ONU e dalle ONG cadono nel vuoto, come se fossero bollettini senza importanza. Ma l’importanza c’è. Un milione di bambini rischia di morire di fame. Il 98 per cento della popolazione vive al di sotto degli standard alimentari minimi. Occorre andare oltre, ricordare che comincia un inverno durissimo, che l’economia è al collasso e non ci sono riserve agricole (con l’eccezione dei papaveri da oppio, quelli ci sono), che centinaia di migliaia di salari pubblici non vengono ancora pagati? No, non occorre perché la morte per fame cancella, annulla tutto il resto. Certo, non è questa l’unica crisi umanitaria che ferisce il mondo. Ed è anche vero che i Talebani al potere si comportano come peggio non potrebbero, verso qualsiasi tentativo di critica, verso le donne emarginate da tutto come vuole l’interpretazione fondamentalista della Sharia, verso il “governo di inclusione” che era stato quasi promesso e non ha mai visto la luce. Ma basta, per voltare la testa dall’altra parte quando si tratta di evitare morti per fame? Non c’eravamo noi occidentali, in Afghanistan, fino allo scorso ferragosto? Non abbiamo sbagliato qualcosa, davvero non abbiamo alcuna responsabilità verso quella gente, e anche se il disastro è stato gestito (malissimo) dagli Usa, le previsioni di morte per fame non riguardano anche noi italiani che in Afghanistan ci siamo comportati con onore e lasciandoci alle spalle 53 militari morti? Anche chi, come il sottoscritto, era inizialmente favorevole alla linea dura dell’Occidente verso i Talebani, oggi deve riconoscere che l’emergenza umanitaria impone un cambiamento di linea (e tale cambiamento può nascere soltanto a Washington, anche se la Ue si sforza di ristabilire contati con Kabul). In questo senso vanno gli appelli sempre più drammatici dell’Onu, che pure ha fatto il possibile inviando in Afghanistan aiuti alimentari generosi ma non sufficienti, e non può sostituirsi agli Stati. Perché il cambiamento necessario riguarda appunto i singoli Stati, Usa in testa, e riguarda, attenzione, anche i loro interessi. Il conto è presto fatto. Le riserve della Banca centrale afghana (nove miliardi di dollari) sono detenuti in America e in Gran Bretagna e non vengono restituite, a complemento di una nutrita serie di sanzioni. Più grave ancora è il problema degli aiuti internazionali scomparsi. Per vent’anni, dal 2001, questi versamenti hanno coperto i tre quarti del bilancio afghano. Poi, cacciate le forze straniere, gli aiuti sono stati totalmente cancellati facendo crollare tutta l’economia e provocando una malnutrizione diffusa soprattutto nei bambini. I Talebani se la sono cercata e continuano a cercarsela, dirà qualcuno. Ma i disastri umanitari dove noi abbiamo tenuto lo zampino fino a ieri dovrebbero meritare una risposta altrettanto umanitaria, ci sarà modo e tempo per sistemare la montagna di contrasti che ci divide dagli “studenti coranici”. Peraltro questa considerazione, molto simile ai reiterati e ignorati appelli delle Nazioni Unite, non è sufficiente. Perché esistono tre altre motivazioni più vicine alla logica di potenza, che anche senza umanitarismi dovrebbero indurre l’Occidente, e soprattutto l’America, a cambiare linea strategica. La prima riguarda il consenso. I Talebani hanno dimostrato di tenerci assai poco, se serve loro sparano o rinchiudono, usano la paura come sono da sempre abituati a fare. Ma se anche fossero gli stessi Talebani a distribuire gli aiuti firmati Occidente e ad evitare la deriva dei loro bilanci, la gente afghana senza dubbio capirebbe chi li sta salvando. La storia dell’Afghanistan è piena di svolte improvvise, questa memoria potrebbe un giorno risultare utile. La seconda motivazione riguarda il terrorismo. L’Isis-Khorasan si è già reso protagonista di numerosi attentati, dimostrando che i Talebani non controllano il Paese quanto dicono. In un Afghanistan alla fame, non sarebbe assai più facile per l’Isis-K reclutare nuovi adepti? E una sua crescita esponenziale, non sarebbe per l’Occidente ancor più pericolosa dei Talebani? La terza motivazione riguarda la Cina. Già dal 16 agosto Pechino ha offerto ai Talebani aiuti consistenti alla condizione che non si verificasse un “contagio” tra il nuovo potere islamico di Kabul e i confinanti musulmani Uiguri dello Xinjiang. Se domani fosse la Cina a salvare Kabul e gli afghani, gli Usa sarebbero contenti? Catastrofe umanitaria, interessi concreti. Dovrebbe bastare perché l’Occidente metta qualche novità sotto l’albero. E l’Italia, da sola o nell’ambito Ue, ha titoli validi per dire la sua.