Vita in prigione, “Serve la riforma del regolamento” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 dicembre 2021 Dopo il caso del Sestante, il reparto degli “orrori” di osservazione psichiatrica del carcere di Torino, chiuso dopo la denuncia dell’associazione Antigone, assume ancora più importanza la discussione aperta a partire dalle proposte di riforma avanzate da Antigone stesso sulla vita negli istituti di pena. Nelle settimane scorse, infatti, l’associazione ha costruito un documento che prevede più possibilità di contatti telefonici e visivi, un maggiore uso delle tecnologie, un sistema disciplinare orientato al rispetto della dignità della persona, una riduzione dell’uso dell’isolamento, forme di prevenzione degli abusi, sorveglianza dinamica e molto altro. Per Antigone è necessario un nuovo Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario a oltre vent’anni dal precedente. L’attuale regolamento in vigore dal 20 settembre 2000 con lungimiranza proponeva un’idea di detenzione fondata sul rispetto della dignità della persona e sul progressivo riavvicinamento alla società. Una parte delle norme ha sicuramente contribuito ad elevare gli standard di detenzione nel nostro Paese; un’altra parte però necessita di una rivisitazione alla luce dei tanti cambiamenti normativi sociali, culturali, legislativi, tecnologici intervenuti negli ultimi due decenni; infine una terza parte (quella che prevedeva interventi di tipo strutturale) richiede ancora piena attuazione. Non poche disposizioni regolamentari sono rimaste lettera morta lungo gli scorsi vent’anni, a cominciare dalle indicazioni edilizie per adeguarsi alle quali era previsto un arco di tempo non superiore ai cinque anni. Nell’ultimo Rapporto di Antigone leggiamo che nel 47,7% degli istituti visitati vi sono celle senza doccia; nel 38,6% vi sono celle con schermature alle finestre che non favoriscono l’ingresso di luce naturale; nel 77,3% non è prevista una separazione dei giovani adulti (meno di 25 anni) dai detenuti più grandi; nel 79,5% non c’è uno spazio ad hoc per i detenuti e gli internati di culto non cattolico; nel 20,5% dei luoghi non vi è un’area verde per i colloqui visivi nel periodo estivo. Tanti i diritti delle persone detenute che possono essere tutelati con un regolamento in linea con l’attualità dei tempi: dal diritto alla salute, al diritto ai contatti con i propri affetti, ai diritti delle minoranze (stranieri, donne), ai diritti lavorativi, educativi, religiosi. Tra i vari punti proposti da Antigone, vale la pena soffermarsi sulle articolazioni per la Tutela della Salute mentale. Le articolazioni sono luoghi di cura, diagnosi e trattamento delle persone detenute e internate con patologie psichiatriche. “La collocazione in tali Articolazioni - sottolinea Antigone - non può avere mai ragioni disciplinari, di sicurezza o di gestione dell’ordine interno all’istituto”. Vi sono collocate le persone che sono in “osservazione psichiatrica” al fine di valutare la compatibilità con il carcere, le persone dichiarate incapaci di intendere e volere per vizio parziale o totale di mente, i “minorati psichici” e tutti coloro per cui, in ragione delle condizioni di salute mentale, non possono essere collocati in altre sezioni. Ogni Articolazione ha una capienza massima di 15 posti (identica a quella prevista dalla l. 180/ 1978 per gli Spdc degli ospedali). L’assegnazione è obbligatoriamente proposta da un medico psichiatra e approvata dal direttore sanitario e dal dirigente penitenziario: secondo Antigone non può mai autonomamente essere decisa dall’Amministrazione Penitenziaria e, al fine dell’assegnazione all’Articolazione, occorre considerare il criterio della territorialità. La permanenza non può superare i 15 giorni, prorogabili di altri 15, informando il Tavolo permanente della salute mentale. La collocazione delle Articolazioni deve essere, per quanto possibile, distaccata dal resto dell’istituto, al piano terra e con possibilità di accesso ad area verde. L’accesso all’aria, in proroga rispetto al regime ordinario, è garantito per almeno 8 ore al giorno. Le camere detentive non devono essere strutturalmente diverse da quelle delle altre sezioni, va garantito il wc in ambiente separato e la doccia in cella. La possibilità di avere celle “diverse” (ad esempio prive di suppellettili o con mobilio ancorato ai pavimenti), secondo Antigone deve rispettare gli standard internazionali in materia, non deve mai avere carattere afflittivo, disciplinare o punitivo. La permanenza in queste camere deve essere costantemente monitorata e non può protrarsi oltre le 48 ore. Tali celle sono contigue al resto dell’Articolazione e mai distaccate o isolate. Nelle Articolazioni deve essere impiegato soltanto personale socio- sanitario, mentre il personale di polizia penitenziaria si deve occupare solo della sorveglianza esterna dell’Articolazione e interviene all’interno solo su richiesta del personale sanitario o in caso di necessità. Antigone, sottolinea nella sua proposta, che la loro presenza non deve essere comunque mai continuativa e avviene solo dopo specifica formazione. Nello stesso tempo deve essere agevolato l’accesso di professionisti sanitari esterni rispetto al personale Asl, di fiducia della persona detenuta o internata. 4-bis. Senza benefici e murati vivi da una legge assurda di Simona Giannetti Il Dubbio, 1 dicembre 2021 La vicenda è quella del calciatore Fabrizio Miccoli, entrato in carcere pochi giorni fa dopo che la Cassazione ha confermato la sua condanna. Il tema è quello attuale dei reati ostativi dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, introdotto con d. l. 152 del 1991 e modificato dopo le stragi mafiose di Capaci e Via D’Amelio. Quella di Miccoli è la storia dell’esecuzione di una condanna a tre anni e sei mesi di reclusione, per cui l’aggravante del 416-bis 1 c. p. impedisce ogni alternativa al carcere per tutta la durata della pena in assenza di collaborazione. Quindi non solo esclusione della sospensione dell’esecuzione, ma anche insormontabile divieto di misure alternative. È questo l’epilogo della vicenda, che rimanda a quel principio del diritto alla progressione trattamentale, di cui già aveva dedotto la Consulta in un insospettabile anno 2018 con la sentenza 149. Qui, la Corte aveva rilevato l’incompatibilità con l’assetto costituzionale delle previsioni, che escludevano in modo assoluto l’accesso ai benefici solo per certi condannati, pur in presenza di un percorso di rieducazione e solo in ragione della gravità del reato. Miccoli allo stato non può accedere all’affidamento in prova ai servizi sociali, neppure se dimostrasse nel corso della sua detenzione di aver portato a termine un percorso di rieducazione, salvo non scegliere la collaborazione. Forse apparentemente più una storiaccia di amicizie viziate prima ancora che una vicenda di malavita, la contestazione dell’aggravante “mafiosa” inserita nell’articolo 416 bis. 1 c. p. al calciatore è la ragione del vincolo ostativo assoluto. Si tratta dell’aggravante speciale, che presuppone che l’illecito sia stato realizzato con l’utilizzo della forza intimidatoria dell’associazione mafiosa. A parte la nota frase di innegabile gravità riferita a Giovanni Falcone, l’intercettazione che porta Miccoli alla condanna è infatti quella intercorsa con il figlio del boss Lauricella, a cui avrebbe chiesto di aiutarlo a far restituire del denaro. Il reato risalirebbe al 2011, ma l’avviso di garanzia al 2013: nell’occasione Miccoli chiese scusa in una conferenza stampa, per quanto detto nella conversazione intercettata rispetto alla memoria di Falcone. Sembra che ci fossero anche dei messaggi sulla sua inversione di marcia rispetto alla richiesta avanzata al Lauricella. Ebbene, è però da dire che numerose sono le vicende come quella di Fabrizio Miccoli. Col tempo l’assoluto vincolo della collaborazione ha infatti interessato sempre più reati inseriti nel catalogo “della prima fascia”, oltre a quelli di mafia e terrorismo dell’originaria previsione: l’ultima frontiera si è avuta con la cosiddetta legge “spazza-corrotti”, che ha gettato nel 4 bis numerosi delitti contro la pubblica amministrazione, secondo la ratio populista che li ha equiparati ai reati di mafia. Oggi il tema è sul tavolo della politica anche grazie alla Corte Costituzionale: con la sua ordinanza 97 del 2021, visto il carattere demolitorio della decisione e i suoi possibili “effetti disarmonici” sulla disciplina nel complesso, ha imposto a un legislatore, da anni impegnato ad evitare la discussione, di “ricercare il punto di equilibrio anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione”. Per questo motivo alla Camera è in discussione la modifica legislativa del 4 bis, che dovrebbe recepire le sollecitazioni della Consulta: il condizionale è d’obbligo, visto che quando si parla di mafia l’assedio conservatore schiera i suoi più autorevoli generali. Il dato certo è che il Parlamento dovrebbe portare a termine il mandato della Consulta almeno prima del 10 maggio prossimo, quando all’udienza pubblica la Corte tratterà le questioni di legittimità costituzionale sul vincolo della collaborazione a proposito della liberazione condizionale di ergastolano ostativo. E ciò seppur con la sua sentenza 253 del 2019 avesse già detto della collaborazione, che non dovesse essere sintomo di credibile ravvedimento, ma neanche indice del contrario. Ferma l’irragionevolezza del vincolo assoluto della collaborazione, l’auspicio è che il legislatore non tralasci le applicazioni del diritto alla progressione trattamentale, ma nemmeno dimentichi le sollecitazioni della Consulta sulla diversificazione di trattamento rispetto ai vari gradi di offensività dei reati del catalogo del 4 bis. Gli articoli da non tradire sono 3 e 27 della Carta; sul punto la Corte Costituzionale si è conservata il diritto di replica al 2022, se così vogliamo chiamarlo. Ergastolo ostativo. “I fondi del Pnrr fanno gola alle mafie, da noi nessun cedimento” di Liana Milella La Repubblica, 1 dicembre 2021 Ergastolo ostativo, tandem Letta-Grasso. Il tema trattato durante uno degli appuntamenti delle Agorà del Pd. In molti sollecitano la nuova legge sul carcere a vita dopo l’intervento della Consulta. Se il Parlamento non deciderà entro maggio 2022, l’anniversario della morte di Falcone coinciderà con una sconfitta. I miliardi di euro del Pnrr in arrivo fanno gola alle mafie. E alle potenti organizzazioni criminali italiane non si può lanciare alcun segnale di cedimento. Tantomeno su una questione delicatissima come l’ergastolo ostativo, quello dal quale, fino a maggio scorso, nessun mafioso poteva uscire se non collaborando pienamente con la giustizia. Ma dopo l’intervento della Consulta, che ha ritenuto questo automatismo incostituzionale, il Parlamento deve cambiare la legge. Ma è già in ritardo, visto che il termine ultimo scade a maggio dell’anno prossimo, giusto quando, a Palermo e in tutt’Italia, ricorre l’anniversario della morte di Giovanni Falcone. Il rischio è che la Corte decida da sola, se la politica non si mette d’accordo. Bisogna partire da qui per comprendere l’ansia del segretario del Pd Enrico Letta nel dedicare una delle sue “agorà democratiche” alla lotta alla mafia, affidandola a Piero Grasso, oggi senatore di Leu ed ex presidente del Senato, che sceglie proprio l’ergastolo ostativo per organizzare un parterre di interventi. Dal costituzionalista Ugo De Siervo, a Rosy Bindi, da Franco Roberti ad Anna Rossomando, da Mauro Palma a Mario Perantoni. Tantissime voci che, in soli quattro minuti di intervento per ciascuno, mettono sul tavolo la necessità, ma anche l’estrema difficoltà di giungere a un’intesa. Politicamente, il messaggio è chiaro. Sta nelle parole di Letta: “Non credo a un centrosinistra delle sigle, dei partitini, dei partitoni. Non funzionerà mai, non attirerà nessuno. Credo a un’operazione che nasca sui temi e parta dalle persone e dai cittadini”. Stavolta tocca alla mafia e all’ergastolo ostativo. Perché arrivano i fondi del Pnrr e “il segnale peggiore che può capitare è quello di non tenere alta l’asticella rispetto all’aggressione mafiosa”. In uno scambio insistente di “caro Piero”, “caro Enrico”, Letta e Grasso si trovano d’accordo, la legge va fatta e la coesione della sinistra è fondamentale per arrivarci. La materia è complessa tecnicamente, e i pareri dei tecnici e dei politici s’incrociano in due ore. Emerge tutta la difficoltà di mettere mano a una questione che divide profondamente il fronte dell’Antimafia, tant’è che il presidente del tribunale di Palermo Antonio Balsamo definisce “paradossale” il rischio “di demolire l’impianto voluto da Falcone proprio negli stessi giorni in cui ricorre l’anniversario della strage”. Certo, esistono i margini offerti dalla giustizia riparativa, quella per cui si batte la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ma molto deve fare un boss di una potente famiglia mafiosa per poter dimostrare di non avere più alcun contatto con l’organizzazione. Ecco le preoccupazioni di Rosy Bindi, l’ex presidente della commissione parlamentare Antimafia: “Non ho accolto a cuor leggero la decisione della Consulta. La mafia è un fenomeno eccezionale e questo l’Europa non lo comprende. Dalla mafia non si esce con facilità, ma con la collaborazione o con la morte”. Eppure, dopo la sentenza della Corte bisogna decidere, avendo ben chiaro che “nella lotta alla mafia lo Stato ha sempre rispettato la Costituzione”. Bindi suggerisce di “mettere paletti, di valutare il percorso del detenuto e della sua famiglia, ma anche lo stato dell’organizzazione a cui appartiene”. Certo è che l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario del 1975 non può restare quello che è diventato. Come dice Piero Grasso 15 interventi consecutivi tutti su quell’articolo sono troppi. Soprattutto quando mescolano, con le stesse norme, i reati di mafia, di terrorismo, ma anche di corruzione, di violenza sessuale, di peculato. “Trovo inaccettabile - dice l’ex procuratore nazionale Antimafia - che chi abbia fatto uno stupro di gruppo possa avere dei permessi premio solo con la buona condotta o partecipando a percorsi riabilitativi, senza una valutazione della pericolosità e di un concreto ravvedimento; al tempo stesso, però, per questo tipo di reati, i criteri pensati per i reati associativi come la collaborazione o l’attualità dei collegamenti, non hanno senso”. Ovviamente Grasso condivide i dubbi - quelli di Maria Falcone, assente dall’agorà per via di una brutta influenza - sulla collaborazione come pietra miliare per buttarsi l’ergastolo ostativo alle spalle e ottenere la “liberazione condizionale”. “Continuo a ritenere la collaborazione fondamentale per fare giustizia - dice Grasso - per ricercare la verità e dare certezza sulla definitiva rottura del patto criminale. Non avremmo mai fatto il maxiprocesso senza Buscetta; mai saputo parte della verità su Via D’Amelio senza Spatuzza, e lo stesso vale per Brusca su Capaci. Non bisogna assolutamente depotenziare questo strumento”. Già, ma la Consulta dice che l’essere pentiti non può essere l’unica via per ottenere i benefici. E allora, per Grasso, toccherà “al detenuto, come dice la stessa Corte, dimostrare di non avere più nulla a che fare con le mafie”. E su questo Franco Roberti, oggi europarlamentare del Pd ed ex procuratore nazionale Antimafia anche lui, non è d’accordo, non dovrà essere l’ergastolano stesso a dare questa prova, ma la conferma dovrà arrivare dal suo percorso carcerario e dai magistrati. Un fatto è certo, e Grasso ne parla espressamente quando dice che “il rischio è chiarissimo, non costruire un sistema sufficientemente rigoroso può riportare senza le dovute certezze fuori dal carcere mafiosi del calibro dei Graviano”. Esistono i margini per arrivare a una legge entro maggio dell’anno prossimo? Il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni di M5S, relatore del provvedimento, dice di sì, perché, “con il consenso di tutti”, si è già giunti a un testo base, al termine per gli emendamenti che scadono il 7 dicembre. Per lui “un buon risultato è possibile” perché “non possiamo permettere che certe persone possano tornare a compromettere la pace sociale ed economica che sta ripartendo dopo un periodo terribile”. Ma è necessario “contemperare la Costituzione con le esigenze di sicurezza”. Eppure proprio la voce di un deputato del Pd come Carmelo Miceli, siciliano, dimostra che il percorso sarà pieno di ostacoli, perché la decisione della Consulta viene definita “demolitoria”, perché “dalla mafia si esce o morti o perché si collabora”, perché, come chiede la Fondazione Falcone che ha presentato un suo progetto di legge alla Camera, “è fondamentale che l’ergastolano fornisca il suo contributo alla verità”. Affermazioni che certo suonano differenti da quelle più aperturiste della responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando e del vice capogruppo dei Dem al Senato Franco Mirabelli. Per Rossomando “come ha detto la Consulta, la legge deve preservare la funzione riabilitativa della pena insieme all’efficacia e alla peculiarità degli strumenti di contrasto alla criminalità di stampo mafioso”. Per Mirabelli non si può “rinunciare all’idea che anche persone colpevoli di delitti tremendi possano cambiare, ma non sarebbe tollerabile se queste persone avessero benefici mantenendo i rapporti con le mafie, ed è su questo che bisogna essere rigorosi”. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ricorda che anche i numeri contano e che ad avere la liberazione anticipata negli ultimi anni sono stai 33 ergastolani ostativi e che oggi gli ergastolani sono 1.807 su 37.696 detenuti definitivi. La media delle condanne all’ergastolo dal 2000 al 2020 è stata di 140 all’anno. Ma, dopo la sentenza della Consulta, secondo Palma, è necessaria “una norma che sia punto di equilibrio tra diversi aspetti, la sicurezza della collettività, il chiaro messaggio alla criminalità organizzata, il non affievolimento degli strumenti di contrasto, l’inderogabilità di diritti fondamentali”. Questa carrellata si può chiudere con le parole di Franco Corleone, oggi Garante dei detenuti del Friuli - autore di un volume con il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia e il costituzionalista Andrea Pugiotto dal titolo Contro gli ergastoli appena uscito - che ricorda quando hanno detto Papa Francesco oggi e Aldo Moro nel 1976. Ecco le parole del Pontefice: “L’ergastolo è il problema, non è la soluzione”. E quelle di Moro: “L’ergastolo, privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte”. Grasso: “La Cedu ha sottovalutato la pericolosità delle mafie” di Davide Mattiello Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2021 “Non depotenziare la collaborazione con la giustizia”. “La mafia stragista e sanguinaria ha lasciato un segno indelebile nella vita di molte persone e nella storia del nostro Paese. Quella di oggi, invisibile e trasnazionale, è ancora più pericolosa: basta pensare alle enormi risorse del Pnrr e alla fragilità del tessuto economico e sociale conseguente alla pandemia. La lotta alle mafie non può conoscere cedimenti e ora deve essere più intensa che mai”. Così Pietro Grasso, senatore di Leu, ha chiuso l’Agorà democratica dal titolo “Combattere le mafie difendendo la Costituzione”, incentrata sull’ergastolo ostativo. Proprio “la disciplina della concessione dei benefici”, al centro della riforma sull’ergastolo ostativo, il cui testo base è stato approvato in Commissione Giustizia, “è un tassello cruciale di questa battaglia, per questo la sua revisione è così delicata”. Per Grasso, “la Cedu ha sottovalutato la peculiarità delle organizzazioni mafiose, e la Corte Costituzionale, dovendosi muovere in quel solco, ha lasciato al Parlamento il tempo per intervenire”. Ora però, bisogna, “prendere atto delle loro valutazioni e costruire insieme una normativa che sia rigorosa e costituzionalmente orientata”. Il senatore, parlando ai partecipanti all’Agorà democratica, ha spiegato che si possono distinguere i reati “pur egualmente gravi” in due fasce “da una parte quelli associativi, con criteri stringenti attraverso i quali valutare se il ‘patto’ che lega il detenuto e la sua famiglia mafiosa sia ancora esistente” dall’altra “tutti gli altri reati, giustamente inclusi nel 4bis per la loro gravità e il loro disvalore sociale, ma con diversi e specifici criteri di pericolosità ai fini della concessione di benefici”. Durante l’intervento conclusivo, Grasso ha quindi evidenziato l’importanza della collaborazione di giustizia. Uno strumento, ha specificato, che “non va assolutamente depotenziato”. “Dobbiamo quindi pensare ad una legge che, oltre alla collaborazione, preveda criteri altrettanto rigorosi per raggiungere la medesima, pur ragionata e individualizzata, certezza, per l’ammissione ai benefici dei condannati per reati gravissimi”. Superamento Opg, parte l’Organismo di coordinamento di Stefano Cecconi* Il Manifesto, 1 dicembre 2021 Il prossimo 6 dicembre verrà finalmente insediato “l’Organismo di coordinamento relativo al processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”. L’Organismo è stato istituito con il Decreto (firmato il 22 settembre) dal Ministro della Salute Speranza, che ha così rispettato l’impegno che aveva assunto nel corso della Conferenza nazionale 2021 “Per una Salute mentale di comunità”. Siamo a sette anni dall’approvazione della legge 81, la Riforma che ha sancito la chiusura e il superamento degli Opg - una grande conquista civile e sociale coerente con la legge 180. Da tempo associazioni e sindacati, coalizzati nel “Coordinamento nazionale per la salute mentale”, sollecitavano Governo e Regioni a riattivare un monitoraggio e un coordinamento nazionale sul complesso e delicato processo di superamento dei vecchi manicomi giudiziari. Un processo, quello innescato dalla legge 81, che, è bene ricordare, non ha sostituito i vecchi Opg con le Rems, ma con un sistema di servizi territoriali per la salute mentale, che presuppone un progetto terapeutico riabilitativo individuale per ciascuna persona e la misura non detentiva come soluzione da privilegiare. In questo senso, il mandato che il Decreto del Ministro affida all’Organismo è molto positivo, si dovrà infatti occupare della applicazione integrale della legge 81/2014. Il Decreto ricorda che la legge “dispone che l’opzione primaria per assicurare la tutela della salute mentale e le cure della persona sia la misura di sicurezza non detentiva e che le misure di sicurezza detentive all’interno della Rems siano l’extrema ratio”. E ancora precisa che: “Particolare attenzione sarà rivolta alle attività di presa in carico e di realizzazione dei Progetti Terapeutico Riabilitativi Individuali da parte dei Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm) sia nei servizi territoriali che nelle Rems e ai rapporti di collaborazione fra Regione (Aziende Sanitarie e Dsm) e Magistratura”. È evidente che, con un simile mandato, l’Organismo ha la possibilità e la responsabilità di sostenere il difficile percorso innescato dalla riforma Basaglia e ripreso dalla legge 81. E, per quanto ci riguarda, siamo pronti a collaborare, con proposte e mobilitazione. L’Organismo diventa così l’occasione per creare un legame forte tra i diversi soggetti istituzionali impegnati nell’attuazione della riforma (della Salute e della Giustizia in primo luogo). Sappiamo però che si troverà ad esaminare una situazione assai complessa, anche per gli ostacoli che in questi anni la riforma ha incontrato. Primo fra tutti un ricorso eccessivo a misure di sicurezza provvisorie che alimenta un uso improprio delle Rems. Con il rischio di concentrare attenzione e investimenti su queste strutture invece che su percorsi di cura alternativi. Infine, l’insediamento dell’Organismo può essere un segnale positivo in vista dell’imminente pronunciamento della Corte Costituzionale sul ricorso del tribunale di Tivoli contro la legge 81, per ribadire la piena legittimità della riforma che ha chiuso gli Opg e avviato un percorso per assicurare la reintegrazione sociale. Se, come ci auguriamo, la Corte confermerà la legittimità della legge 81, questa potrà essere completata con l’abolizione degli articoli del Codice Rocco sulla non imputabilità dei “folli rei” che ancora li destina, diversamente dagli altri cittadini autori di reato, al binario speciale delle misure di sicurezza (su questo vedi: societadellaragione.it/responsabilitaterapeutica”) La mobilitazione dunque continua, perché i muri del manicomio persistono, ma si possono abbattere, ampliando così spazi di libertà e accesso ai diritti. I materiali del seminario di Treppo 2021 “Dopo gli Opg, salute mentale e folli rei: lo stato dell’arte e la battaglia per la riforma”: societadellaragione.it/treppo2021. *Osservatorio stop opg per la salute mentale Covid-19 nelle carceri: contenuto l’aumento dei contagi di Antonella Barone gnewsonline.it, 1 dicembre 2021 L’ultimo monitoraggio Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) sulla situazione dell’ambiente penitenziario registra un aumento di 12 unità tra i detenuti positivi, che passano quindi a 162, rispetto ai 150 rilevati lunedì 23 (su 53954 presenze effettive), di cui 158 asintomatici. Invariati numeri e condizione dei sintomatici: 2 curati nei rispettivi istituti e 2 ricoverati in ospedale. Mantengono lo stesso trend di crescita della scorsa settimana i dati relativi ai contagiati tra la Polizia Penitenziaria, che passano da 152 a 171, nessuno dei quali è dovuto ricorrere a cure ospedaliere. Tra i 18 positivi rilevati tra il personale amministrativo e dirigenziale (erano 12 la settimana scorsa) si registra invece un ricoverato. Con le 781 dosi di questa settimana raggiungono quota 84.159 le somministrazioni vaccinali ai detenuti. Restano invece sostanzialmente invariati i dati relativi ai dipendenti cui l’Amministrazione ha offerto l’opportunità di sottoporsi al vaccino in postazioni collocate all’esterno degli istituti o in altre sedi concordate con le Asl: sono 25.054 tra la Polizia Penitenziaria e 2823 tra il personale amministrativo. A questi dati occorre aggiungere il numero di quanti hanno scelto altre modalità per vaccinarsi. Gli assenti ingiustificati, ai sensi del DL 21 settembre 2021, risultano 16 tra la Polizia Penitenziaria e 10 tra i dipendenti amministrativi e dirigenziali. Presunzione di innocenza in vigore dal 14 dicembre di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2021 Il decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 284 del 29 novembre 2021 (Suppl. Ordinario n. 40) con l’indicazione della vigenza. Entrerà in vigore il 14 dicembre prossimo il decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188 che adegua il nostro ordinamento alla direttiva Ue (2016/343) sulla presunzione di innocenza e che accorda una serie di garanzie alle persone fisiche sottoposte a indagini o imputate in u procedimento penale. Il provvedimento è stato infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 284 del 29 novembre 2021 (Suppl. Ordinario n. 40) con l’indicazione della vigenza. Ricordiamo che tra le principali novità introdotte vi è il divieto, per le autorità pubbliche, di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. In caso di violazione del divieto, poi, oltre all’applicazione delle eventuali sanzioni penali e disciplinari ed al risarcimento del danno, l’interessato potrà richiedere la rettifica della dichiarazione. E l’autorità dovrà procedervi “immediatamente e, comunque, non oltre quarantotto ore dalla ricezione della richiesta”. Tale rettifica poi dovrà essere resa pubblica “con le medesime modalità della dichiarazione” o comunque con “modalità idonee”. In caso di diniego, invece, l’interessato potrà sempre rivolgersi al tribunale in via d’urgenza. Per quanto riguarda le modalità di raccordo tra le Procure e gli organi di informazione, la norma stabilisce, innanzitutto, che le esternazioni avvengano esclusivamente tramite comunicati “ufficiali” oppure tramite “conferenze stampa” ma in questo caso soltanto quando le vicende da trattare rivestano “particolare rilevanza pubblica”. Si prevede, infine, che la diffusione di notizie riguardanti i procedimenti penali possa aver luogo unicamente in due casi: a) quando risulti “strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini”; b) quando “ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Le medesime regole di condotta vanno poi osservate anche quando il procuratore della Repubblica autorizzi gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire informazioni sulle attività di indagini svolte, possibilità che viene ora espressamente consentita. Il testo interviene poi sul codice di procedura penale inserendo l’articolo 115-bis (Garanzia della presunzione di innocenza) che tra l’altro riproduce nello specifico contesto normativo del codice, la generale formulazione del divieto di riferimenti pubblici alla colpevolezza in relazione ai “provvedimenti diversi da quelli volti alla decisione in merito alla responsabilità penale dell’imputato”, dal quale vengono esclusi - conformemente a quanto previsto dalla direttiva - gli “atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato” (art. 115-bis, comma 1). Vengono poi modificati l’articolo 314, comma 1, (aggiungendo un periodo); l’articolo 329, comma 2, (inserendo una parola); l’articolo 474 (aggiungendo il comma 1-bis). L’Habeas corpus “horridum” degli errori giudiziari di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno L’Opinione, 1 dicembre 2021 Abraham Lincoln, in riferimento alla guerra civile scoppiata fra i nordisti e i sudisti, affermò, durante un discorso tenuto presso la città di Baltimora, nello stato del Maryland, che essa era stata generata in qualche modo da una errata comprensione del significante “libertà”. Infatti, per il sedicesimo presidente degli Stati Uniti la ragione di tale conflitto consisteva nel fatto che: “Il mondo non ha mai avuto una buona definizione della parola “libertà” (…) Usando la medesima parola, non intendiamo la stessa cosa”. Ogni ordinamento politico assegna al termine “libertà” un significato diverso, sebbene sia utilizzato per designare un principio generale e per questo apparentemente similare in ogni sua accezione declinata. Gli ordinamenti politici britannici e statunitensi si sono strutturati fondando le loro istituzioni sul principio fondamentale della “libertà” politica e sebbene molte nazioni europee abbiano imitato la struttura costituzionale basilare di questi Paesi, nella realtà dei fatti si sono dimostrati lungi dal poter concretamente vantare una vera “libertà” politica. Un esempio eclatante è rappresentato dall’Italia che, pur essendo una delle più antiche civiltà europee, nel declinare il principio politico della “libertà” dimostra di interpretarlo nel modo più antinomico a come è considerato in Inghilterra e negli Usa. Infatti, negli Stati Uniti il termine “libertà” fu sancito come principio politico in modo chiaro e concreto con i primi dieci emendamenti della costituzione. Mentre in Inghilterra tale significante divenne il perno del suo Stato di diritto con l’istituzione del principio definito “Habeas corpus” (onde il nome, in latino “abbi il - tuo - corpo), il quale consiste in un atto, rilasciato dalla giurisdizione competente, con cui si ingiunge a chi detiene un prigioniero di dichiarare sia il giorno in cui è stato arrestato e sia il motivo per cui è detenuto. Il suddetto principio fu inizialmente sancito nella “Petition of Rights” del 1627, per poi essere successivamente promulgato nel 1679 con “Habeas corpus Act”, il quale ha decretato il principio dell’inviolabilità personale e ne regola ancora oggi le garanzie, le quali, nel 1816, furono estese anche riguardo alle detenzioni per cause civili, assegnando ai giudici la competenza di stabilire la verità del rapporto. Questa differente cultura giuridica e di conseguenza politica ha determinato due visioni antitetiche tra loro, che di seguito esporrò. La prima è costituita da quella anglosassone in cui per esempio le vertenze penali devono essere risolte, come fattivamente poi accade, con un “procedimento rapido e pubblico”, principio ribadito anche nel sesto emendamento della Costituzione americana. La seconda è ben rappresentata da quella italiana, in cui nonostante sia vigente una formulazione normativa che esprime la garanzia fondamentale del principio di legalità, improntato sulla riserva di legge, affinché venga tutelato il principio della libertà personale di matrice costituzionale, nei fatti ciò non si concretizza. Infatti, all’articolo 13 della Carta costituzionale italiana si sancisce il principio inviolabile secondo il quale: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”. In questo dettame, il costituente esplicita in modo categorico che la libertà personale è un diritto naturale dell’individuo a non subire nessun tipo di menomazione della sua dignità, né alcuna coercizione fisica, né assoggettamento all’altrui potere che non trovi fondamento nella Costituzione, prevedendo che la tutela della libertà personale sia salvaguardata da tre garanzie: la riserva assoluta di legge, la riserva di giurisdizione e l’obbligo della motivazione. A maggior garanzia, viene comunque sempre riconosciuta la facoltà di ricorrere sia al Tribunale della Libertà che in Cassazione, ma in questo caso solo per una eventuale violazione di legge. Ebbene, nonostante tutte queste garantiste declinazioni del principio di legalità che si evincono dalla nostra Costituzione, ancora oggi in Italia si può riscontrare che un imputato venga detenuto diverso tempo prima del giudizio, al punto che qualora venisse riconosciuto colpevole, verrebbe comunque rimesso in libertà per aver già scontato il periodo detentivo previsto dalla successiva e tarda sentenza. E se invece fosse ritenuto innocente, avrebbe subito una gravissima violazione della propria libertà. A ritroso, tornando alla diversa interpretazione dello stesso significante “libertà”, per la prevalente opinione pubblica italiana, l’Italia è una nazione libera, proprio perché questo aberrante sistema giudiziario alla maggioranza degli italiani non appare incomparabile col principio della libertà politica, come invece risulterebbe per l’opinione pubblica inglese e statunitense. A conferma di quanto finora esposto, riporto i dati aggiornati al 31 dicembre del 2020, in riferimento agli errori giudiziari che hanno determinato un’ingiusta detenzione. Secondo quanto indica il sito errorigiudiziari, dal 1991 al 31 dicembre 2020 si sono registrati 29.659 casi di errori giudiziari, con una media di poco più di 988 casi all’anno, sommando i dati inerenti alle vittime di ingiusta detenzione (coloro che subiscono una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, per poi venire assolti), con i dati riguardanti le vittime di un errore giudiziario in senso stretto, ossia di coloro che dopo essere stati condannati con una sentenza definitiva, vengono assolti grazie a un successivo processo di revisione. Inoltre, questa erronea procedura costituisce un ingente costo per l’erario dello Stato, a causa degli indennizzi e dei risarcimenti che genera e che assomma a 869.759.850 euro, con una media superiore ai 28.990.000 euro all’anno. Al postutto, come può definirsi libera una nazione in cui lo Stato di diritto è compromesso da un modus operandi lesivo della libertà personale e del principio inviolabile dell’”Habeas corpus”? “Tribunali del Sud in ritardo!”. Svimez cede al mito efficientista di Errico Novi Il Dubbio, 1 dicembre 2021 I dati del Rapporto sul Mezzogiorno diffusi dall’Istituto sono accompagnati da un messaggio chiaro: si insegue la rapidità prima che la qualità. Nel primo “rimbalzo ciclico” della crisi legata alla pandemia, il Sud cresce. Un po’ meno del Nord ma cresce. E resta al vertice delle classifiche per area geografica rispetto a un parametro del tutto particolare: la domanda di giustizia e la conseguente maggiore durata dei procedimenti. Sono dati offerti dal Rapporto 2021 sull’economia e la società del Mezzogiorno, diffuso ieri dallo Svimez. Uno studio centrato innanzitutto sull’impatto del Pnrr e sulla possibilità che i miliardi assicurati dall’Ue aiutino, fra le tante cose, anche a ridurre il divario fra Nord e Sud del Paese. Un tema “storico” e, certo, reso perfino affascinante dalle prospettive legate al Recovery. Eppure dietro i numeri, dietro le statistiche non sorprendenti sui giorni di attesa per avere giustizia, per ottenere una prima sentenza sia nel civile che nel penale, quasi doppi al Sud, dove si raggiunge la media dei 500 giorni, affiora un altro interrogativo: c’è il rischio che il mito efficientista costruito attorno al Pnrr ci porti verso un modello di giustizia devoto al rispetto dei parametri più che alla qualità della giurisdizione? Non è un interrogativo ozioso, se si considera che attorno alla dialettica fra “score” dei tribunali ed effettivo accesso alla giustizia si gioca per esempio la riforma del processo civile appena approvata. Ad avvalorare il timore di uno sbilanciamento “quantitativo” rispetto alle garanzie è una figura centrale nel sistema ordinistico come il presidente del Coa di Napoli Antonio Tafuri: “Sì, c’è il rischio che si vada verso un modello di giustizia in cui la rapidità schiaccia l’equità delle decisioni. È d’altra parte il messaggio sotteso alla riforma del processo civile, che il governo ha consapevolmente disegnato e che ormai il Parlamento ha vidimato con l’approvazione dei giorni scorsi: viene prima la rapidità, poi il resto”. Tafuri fa notare come “la posizione assunta dall’intera avvocatura sulle riforme della giustizia segnali proprio lo sbilanciamento di cui parliamo. Certo nel civile si nota in modo particolare. Basti pensare”, nota il presidente dell’Ordine partenopeo, “alle modifiche che impongono di anticipare tutte le domande e gli elementi della controversia, ma anche alla perdita di collegialità in diversi ambiti”. La retorica efficientista veicolata con le riforme del Pnrr può cambiare anche la cultura diffusa? La rapidità a tutti i costi inseguita anche in un settore delicatissimo come la giustizia, che tocca la vita delle persone, può condurre verso un approccio nuovo, più “anglosassone”? “Non credo”, replica Tafuri, “il modello della rapidità a tutti i costi è coltivato dalle élites politiche, nei centri decisionali, ma il comune utente del servizio giustizia non è, e credo mai sarà, disposto a barattare la qualità e l’effettività della tutela con i tempi delle decisioni. D’altra parte, ci si rende conto meglio delle questioni in gioco quando se ne è toccati in prima persona. Cominceremo a capire tutto con chiarezza quando ci arriveranno le prime sentenze emesse dall’Ufficio del processo: non sarà un giudice a studiare e valutare davvero la controversia ma degli ausiliari. Con tutto il deficit che ne può conseguire in termini di garanzie”. Si diceva dei dati a doppio risvolto raccolti dallo Svimez. Da una parte, il Mezzogiorno esprime una più intensa domanda di giustizia: la media dei casi iscritti a ruolo è di 777 per ogni 10mila abitanti, un po’ più che nel Centro Italia (704) e molto più che al Nord (541). Non sorprende che la lenta ma costante riduzione dei tempi medi per la chiusura di un procedimento civile sia quasi dimezzata nel Settentrione (280 giorni) rispetto al Sud (quasi 500 giorni), con il Centro a metà strada (380). Non è solo un problema di modelli organizzativi ma anche di maggior carico, appunto: e fin dove ci si può spingere, con la cosiddetta “ottimizzazione”? Un osservatore pronto a utilizzare proprio i numeri come il presidente dell’Unine Ordini forensi della Toscana Fabrizio Spagnoli indica un ulteriore pericolo: sottovalutare “la assoluta disomogeneità delle forze su cui può fare affidamento la macchina della giustizia. Le statistiche sono lapidarie, non raccontano che spesso le differenze fra un ufficio giudiziario e l’altro sono legate al diverso numero di magistrati e di unità di personale amministrativo. Posso citare il mio foro, Livorno, come esempio: l’organico degli amministrativi è coperto all’80 per cento, e se consideriamo tirocinanti e altre figure possiamo dire di essere a ranghi completi: sarà un caso”, osserva il presidente Spagnoli, “ma Livorno è uno dei tribunali migliori d’Italia, per le statistiche. Peccato che se si guarda all’intero paese il panorama sia a macchia di leopardo, quanto a organici e, in modo quasi sempre correlato, rispetto all’efficienza”. La soluzione scelta dal governo è sbilanciata sull’Ufficio del processo: “Un’indicazione chiara, ma sulla cui efficacia è legittimo avere qualche perplessità: un conto è il personale di magistratura, altro sono figure come quelle che si sta per immettere nel sistema. Certo”, osserva il presidente dell’Unione Ordini della Toscana, “parliamo di un costo diverso per i conti dello Stato: sull’Ufficio del processo ci si gioca un investimento da 2 miliardi, circa il 30 per cento del bilancio della giustizia. A me non sembra una cifra enorme, rispetto a voci di spesa come quella per il reddito di cittadinanza”. Quale può essere il punto di caduta? La preoccupazione di Spagnoli è che, “se pure si ridurrà la durata dei processi, non so se del 40 per cento come abbiamo promesso all’Ue, il risultato arrivi a discapito della qualità. Il governo ha fatto una scelta, vediamo se sarà premiata”. Però l’efficienza ha un prezzo. Se per raggiungerla si punta su un modello quantitativo, su uno smaltimento seriale, le statistiche migliorano: vedremo se per la data fatidica del 2025, quando si dovrà ridurre del 40 per cento, appunto, la durata delle cause civili, potremo dirci soddisfatti anche della qualità delle sentenze, oltre che del loro numero. Lazio. Affettività e carcere: una proposta di riforma garantedetenutilazio.it, 1 dicembre 2021 Il vicepresidente del Consiglio regionale Porrello: “L’Udp del Consiglio sarà il motore di un disegno di legge ad hoc”. La senatrice Cirinnà lancia un appello a tutte le regioni, affinché ognuna presenti una proposta da inviare al Parlamento e la Pisana risponde. “Ci è stata presentata una ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale che ci ha portato la voce nei detenuti sul tema di come vivono la propria affettività. L’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale del Lazio sarà il motore per tradurre le conclusioni legislative di questo lavoro in un disegno di legge da inviare al Parlamento”. Così il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio Devid Porrello, a conclusione dell’incontro per la presentazione “Affettività e carcere, un progetto di riforma tra esigenze di tutela contrapposte” che si è svolto oggi alla Pisana. è questa la risposta all’appello della senatrice Monica Cirinnà, relatrice in commissione Giustizia del Senato di un disegno di legge d’iniziativa del Consiglio regionale della Toscana, volto appunto a modificare le norme in materia di relazioni tra le persone detenute e i propri familiari e i propri affetti, “persone innocenti all’esterno che scontano anche loro una pena”, come ha sottolineato Cirinnà durante il suo intervento in sala Mechelli del Consiglio. La senatrice ha riferito anche delle difficoltà che incontra il disegno di legge di cui è relatrice. “Non credo che il Parlamento approverà mai la legge della Regione Toscana, ma chiedo a tutte le regioni e di presentarne una analoga, a cominciare dal Consiglio regionale del Lazio”. Di qui la risposta di Porrello e del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, secondo il quale “durante la pandemia si è rotto il tabù del digitale con le videochiamate, adesso è tempo di rompere il tabù delle sessualità nelle carceri, così avviene in molti paesi del mondo spesso considerati meno avanzati del nostro”. Anastasìa, dal canto suo, auspica che la commissione per la riforma del sistema carcerario istituita dalla ministra Marta Cartabia tenga conto delle necessità emerse dalla ricerca dell’Università di Cassino presentata alla Pisana. Dopo i saluti del presidente del Consiglio regionale del Lazio, Marco Vincenzi, e del Rettore dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, Marco Dell’Isola hanno illustrato i risultati della ricerca “Affettività e carcere”, Sarah Grieco, responsabile della ricerca, e Simone Digennaro. Dalla ricerca nel corso della quale sono stati intervistati 200 detenuti e operatori penitenziari di quattro istituti penitenziari del Lazio sono emersi numerosi disagi socio-affettivi e relazionali, dovuti soprattutto al sovraffollamento che non consente la predisposizione di locali adeguati, dove poter effettuare colloqui con i propri familiari. Insufficienti sono considerati gli spazi verdi dotati di attrezzatura per bambini e i colloqui telefonici, di soli dieci minuti ciascuno, con costi sproporzionati e in assenza di privacy. Inadeguati gli spazi per l’affettività, inesistenti quelli per l’intimità, considerata dalle persone detenute fondamentale per preservare il rapporto con il proprio partner. Gestite da operatori esterni, sono a pagamento le email sia in uscita sia in entrata. Le restrizioni e i contatti con il mondo esterno sono considerati inadeguati dalla maggior parte delle persone detenute intervistate. Di qui la proposta dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, volta a modificare la normativa vigente in modo da poter permettere il colloquio intimo, a prevedere soluzioni differenti per gli incontri tra adulti e per quelli tra persone detenute adulte e bambini, e a istituzionalizzare il colloquio pranzo, oggi nella discrezionalità della direzione dell’istituto penitenziario, nonché a rivedere la disciplina delle comunicazioni telefoniche Nel corso dell’incontro, sono intervenuti anche Leonardo Circelli, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Roma e Ottavio Casarano, direttore della casa di reclusione di Roma Rebibbia. Lazio. La voce dei detenuti: “Noi senza libertà, dateci almeno un po’ d’amore” di Angela Stella Il Riformista, 1 dicembre 2021 Ieri al Consiglio regionale del Lazio la presentazione della ricerca sull’affettività in carcere, con interviste a oltre 200 reclusi, e una proposta di legge. Anastasia: “Superare il tabù della sessualità”. Affettività e carcere, una proposta di riforma tra esigenze di tutela contrapposte” è il titolo dell’evento che si è svolto ieri nella sede del Consiglio regionale a Roma per presentare i risultati della ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale proprio sul tema dell’affettività dietro le sbarre. Come si legge nell’abstract del lavoro, “è stata realizzata una “ricerca-intervento”, finalizzata a sviluppare una base empirica su cui costruire una proposta di legge volta allo sviluppo della qualità delle relazioni affettive nelle case circondariali italiane”. Sono stati intervistati 203 detenuti tramite questionari standardizzati e diverse figure professionali e dirigenziali penitenziarie. “I dati raccolti dalle interviste effettuate nei quattro istituti penitenziari (“San Domenico” di Cassino, la “Pagliei” di Frosinone, la casa di reclusione di Paliano e di Rebibbia femminile) ci raccontano di numerosi disagi socio-affettivi e relazionali, riscontrati nella popolazione intervistata. In particolare, le relazioni familiari, in oltre il 50% dei casi, anche a seguito delle pesanti restrizioni connesse al Covid-19, si rivelano in bilico poiché connotate da bisogni insoddisfatti, mancanza di affetto e di gesti di intimità”. La situazione peggiora per i detenuti stranieri. “Il sovraffollamento resta la causa principale dei disagi riscontrati in quanto non consente la predisposizione di locali adeguati, dove poter effettuare colloqui con i propri familiari. La presenza dei bambini in quegli stessi ambienti, con l’inevitabile aumento di rumori, rende tutto ancora più intollerabile, sia per i minori che per i detenuti”. Ma guardiamo al punto fondamentale: il sesso in carcere. “L’introduzione della sessualità in carcere con il proprio partner ha trovato un generalizzato consenso, legato soprattutto alla salvaguardia del rapporto coniugale e al benessere psicofisico; ma molti di questi pongono come condizioni indispensabili un tempo e uno spazio adeguato, lontano dalle sezioni, che vengono definite “un continuo teatro”, e con accessi riservati. La mancanza di sessualità viene avvertita con un generale senso di frustrazione, come privazione ingiustificata di libertà e “speranza” (detenuto ostativo, 28 anni, CC. di Frosinone) e punizione ulteriore per il proprio partner. Significative alcune risposte negative che mostrano l’astinenza come pena accessoria, in quanto “il carcere è incompatibile con tutto il resto perché è privazione” (detenuto alta sicurezza di 58 anni, CC. di Frosinone)”. La conclusione che si trae dalla lunga relazione di circa 80 pagine è che c’è bisogno assolutamente di un cambiamento. “Le relazioni affettive e sentimentali dei detenuti sono state messe a dura prova con il Covid e hanno mostrato tutti i limiti del nostro quadro normativo”, ha spiegato il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasia, presente all’incontro, secondo il quale la ricerca “ci consente di rivedere tutta la materia, superando anche il tabù della sessualità che può essere consentita attraverso la riservatezza dei colloqui dei detenuti e delle detenute con i propri nuclei familiari e i propri partner”. La proposta di legge, elaborata a seguito dell’analisi condotta, ha preso spunto dai risultati della ricerca e dal disegno di legge a tutela delle relazioni affettive dei detenuti, presentato lo scorso luglio 2020 in Commissione Giustizia del Senato, su iniziativa del Consiglio Regionale della Toscana e che vede come relatrice la senatrice Monica Cirinnà. Rappresenta un progetto di riforma che il Consiglio regionale del Lazio potrebbe far proprio, per poi presentarlo al Parlamento. Tra le previsioni quella di introdurre le cosiddette “Visite o colloqui intimi”, accompagnate tuttavia, oltre alla mancanza di controllo visivo, da tempi (da 6 a 24 ore) e spazi adeguati. Pistoia. “Detenuti senza garante”, un vuoto che dura da cinque anni di Alessandro Benigni La Nazione, 1 dicembre 2021 Il Consiglio comunale ha bocciato l’unica candidatura proposta per il ruolo. Pd e Associazione Palomar critici: “Non è stata gradita alla maggioranza”. La città di Pistoia continuerà a non avere il proprio garante delle persone private della libertà personale. Una mancanza che va avanti ormai dal lontano 2015 (dopo la conclusione del mandato triennale di Antonio Sammartino) e che non è stata stata sanata nemmeno nell’ultima occasione utile, ovvero il consiglio comunale di lunedì: l’unica candidata al ruolo (da svolgere a titolo gratuito, dopo le modifiche operate al bando pubblicato lo scorso agosto), Giulia Melani, è stata infatti bocciata con 17 voti di astensione e sei favorevoli. I rappresentanti di Partito Democratico, Movimento 5 stelle e Pistoia Spirito Libero sono intervenuti esponendo il proprio (vano) sostegno alla candidatura della sociologa del diritto pistoiese, mentre erano assenti i consiglieri di Italia Viva, Azione e Pistoia città di tutti. Ma soprattutto nessun esponente della maggioranza ha motivato il proprio voto. Fatto, questo, che ha scatenato inevitabili polemiche: “Una pagina davvero vergognosa, quella scritta ieri dal consiglio comunale - afferma senza mezzi termini l’associazione Palomar - Giulia Melani è volontaria di AltroDiritto (associazione da anni impegnata per tutelare i diritti umani e costituzionali inalienabili anche per chi è detenuto, nda), da tempo svolge attività nelle carceri toscane e conosce molto bene la realtà della casa circondariale di Pistoia. Si era candidata perché è una missione, la sua, esercitata con passione e competenza, nonostante il bando modificato dagli attuali consiglieri comunali non prevedesse più alcun compenso per questa figura - prosegue - ma nonostante un curriculum ineccepibile, non è stata gradita alla maggioranza. E il perché non hanno avuto nemmeno il coraggio di dichiararlo poiché non c’erano argomenti di merito ma solo mediocri motivi di schieramento che sono prevalsi sulla necessità di dotarsi di una figura di garanzia e di tutelare i diritti. È stato già annunciato un nuovo bando - conclude Palomar - lo seguiremo con attenzione, ma per ora i detenuti a Pistoia continueranno a non avere un punto di riferimento”. Durissimo anche il comunicato del gruppo Pd: “la Maggioranza non ha perso l’occasione per scrivere una pagina vergognosa di questo consiglio Comunale - affermano - l’unica candidata, giovane, con un curriculum impeccabile fatto di esperienze già maturate sul tema, disponibile ad assumere un ruolo dalle enormi difficoltà e senza alcuna retribuzione, evidentemente non rispondeva alle esigenze di lottizzazione della giunta Tomasi, che ha preferito far decadere la votazione”. Il carcere di Udine cambia volto e diventa un modello per tutta l’Italia di Jeena Cucciniello friulioggi.it, 1 dicembre 2021 La struttura penitenziale di via Spalato a Udine sarà un modello per tutte le altre iniziative di riorganizzazione delle carceri italiane. Ad affermarlo è Bernardo Petralia, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che di recente ha presentato il nuovo progetto per il carcere. Il progetto. La riqualificazione del carcere di via Spalato è necessaria in quanto l’edificio risale al 1925 ed è privo di spazi adeguati per i detenuti. Secondo il programma, i lavori inizieranno nel 2022 e verranno portati a termine in tre anni. Tre saranno le principali aree di intervento. La prima è relativa alla sezione femminile, in uno stato di abbandono da venti anni: qui verrà realizzato un polo didattico e di formazione. La seconda sarà su alcuni ex alloggi demaniali, che ospiteranno i detenuti che durante la giornata lavorano all’esterno e la sera devono rientrare. Infine, sarà riqualificato anche il cortile: diventerà un nuovo punto di ritrovo con la realizzazione di un teatro da 100 posti. I fondi per la realizzazione del progetto provengono dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e rientra nel fondo da 20 milioni di euro che sono stati stanziati per il trattamento dei detenuti. Dal progetto di Udine sono stati avviati poi anche nel resto della Penisola degli interventi simili. Un esempio è a Lecce, dove sarà realizzato uno spazio dedicato solo alle attività di trattamento. Altre carceri per le quali sono previste delle riorganizzazioni sono a Padova, a Firenze, a Santa Maria Capua Vetere, Reggio Calabria, Viterbo e Rovigo. La situazione in Fvg. La riqualificazione della struttura di via Spalato è un vero e proprio punto di inizio per la condizione generale delle carceri in Friuli Venezia Giulia. Secondo l’ultimo report di Antigone, associazione che si focalizza sulla realtà carceraria, gli edifici sono sovraffollati, sporchi e tra i peggiori d’Italia. “Tutto va rivisto e riorganizzato non solo nell’ottica di avere più posti letto, quindi dal punto di vista della quantità, ma, soprattutto, in funzione qualitativa, per consentire spazi maggiori e un benessere maggiore. Un ‘nuovo volto’ del carcere - afferma Petralia in un’intervista ad Agenzia Italia - che per il Dap è la priorità”. Milano. Attestato di benemerenza alla rivista “In corso d’Opera” fnsi.it, 1 dicembre 2021 Fnsi e Alg in visita ai “redattori diversamente liberi”. Il Comune di Milano ha deciso di premiare, nell’ambito dei riconoscimenti dell’Ambrogino d’oro 2021, i detenuti del carcere di Opera impegnati nella realizzazione del progetto editoriale nato nel 2013. Giulietti: “Valorizzare iniziative come questa perché portano le persone a condividere percorsi di recupero”. Il Comune di Milano ha deciso di premiare, nell’ambito dei riconoscimenti dell’Ambrogino d’oro 2021, i detenuti del carcere di Opera impegnati nella realizzazione del progetto editoriale “In corso d’Opera”, periodico nato nel 2013. Alla vigilia della consegna dell’attestato di benemerenza, prevista per il 7 dicembre, una delegazione del sindacato dei giornalisti si è recato nella casa circondariale per incontrare i redattori di “In corso d’Opera” e “dare loro una specie di diploma “redattori diversamente liberi” e farli sentire parte di coloro che si battono ogni giorno per realizzare l’articolo 21 della Costituzione”, ha spiegato il presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti. Con lui il collega Renzo Magosso, direttore responsabile del trimestrale e il presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti, Paolo Perucchini. Ad accoglierli il direttore della casa di reclusione di Milano-Opera, Silvio Di Gregorio. “Occorre valorizzare iniziative come questa perché portano le persone a condividere percorsi di recupero”, ha anche rilevato il presidente Giulietti. “Quelli che sono usciti, anche dopo 10 o 20 anni di prigione, e hanno fatto con noi questa esperienza di giornalismo fanno un’altra cosa e sono felici di non delinquere più”, ha osservato Magosso. Palermo. “Giulietta e Romeo… una storia infinita”: in scena detenuti ed ex detenuti di Serena Termini difesapopolo.it, 1 dicembre 2021 La compagnia teatrale “Liberiamo Talenti” insieme all’associazione “Un nuovo giorno” insieme per raccoglie i fondi per sostenere l’avvio de “La Locanda della Spazzina”, bar food gestito da ex detenuti a Palermo. I passaggi delle opere più note di William Shakespeare recitati da alcune persone detenute ed ex detenute, hanno introdotto, al teatro Politeama Garibaldi di Palermo, “Giulietta e Romeo… una storia infinita” un musical interpretato in chiave moderna che non si ferma solo alla tragica storia d’amore ma apre una finestra di riflessione sui tanti conflitti attuali che affliggono la società. Tra i pensieri attuali, infatti, profondi e significativi campeggiano: “Ama e cambia il mondo con la tua forza e la presenza nella vita” e poi ancora “Ama senza confini e cambia il mondo”. Lo spettacolo è stato realizzato dal direttore artistico e di regia Giangrazia Calì della compagnia teatrale “Liberiamo Talenti” in collaborazione con l’associazione “Un nuovo giorno”, da anni impegnata nell’avvio di percorsi di inserimento sociale per persone detenute ed ex detenute, e la onlus “AiutiAmoilBurundi”. Allo spettacolo era presente inoltre il comandante della legione dei carabinieri della Sicilia B. Rosario Castello che ha fatto suonare il gruppo della fanfara dei carabinieri. La serata artistica di beneficenza ha permesso la raccolta dei fondi utili per avviare la start up “La Locanda della Spazzina” un bar food gestito da persone ex detenute che sarà realizzato nei locali che si trovano nel popolare quartiere della Marinella donati da madre Antonina Cataldo. L’obiettivo del progetto è quello che, le persone ex detenute, uscendo dal circuito penitenziario, possano superare le difficolta? di inserimento sociale, trovando un’opportunità lavorativa per rimettersi in gioco. Il musical “Giulietta e Romeo.... una storia infinita” opera intrisa di teatro e danza, ricca di riferimenti moderni che si armonizzano con la trama classica, nasce dall’idea di Antonella Macaluso, presidente di Un Nuovo Giorno e Giangrazia Cali? della compagnia teatrale. Entrambe hanno una lunga esperienza promozionale del teatro sociale seppur in ambienti diversi: quello carcerario e quello scolastico in cui hanno utilizzato le arti teatrali come strumento pedagogico. Il gruppo teatrale, in particolare, e? ispirato al modello dei “Laboratori Teatrali Integrati” che prevede una stretta collaborazione fra persone detenute ed ex detenute, sottoposte a misure alternative, studenti, volontari e professionisti dello spettacolo. “Dal 30 settembre mi hanno ormai scarcerato - racconta Gaspare Lo Giudice di 43 anni - è sono molto contento di essere ritornato un uomo libero a tutti gli effetti. Quella che ho fatto con il teatro è stata una esperienza bellissima perché, come gruppo misto, abbiamo interagito molto, imparando tante cose. Se ci si crede si può cambiare. Oggi sto per diventare anche papà e la mia vita sta cambiando completamente”. “Con tanta forza e buona volontà se si incontrano le persone giuste si può cambiare - aggiunge pure Nicolò Brunetti di 54 anni che è in semilibertà -. La differenza tra dentro e fuori è grande e non ci sono soldi per comprare la libertà che va conquistata a piccoli passi con il nostro impegno. Purtroppo indietro non si può ritornare. Già dentro il carcere ho fatto tre anni di teatro che mi hanno aiutato tantissimo. Ringrazio il mio magistrato e tutti coloro che stanno credendo in me. Voglio invitare le persone a godersi la famiglia, i nipoti perché la libertà è un dono troppo prezioso che va sempre curato e custodito”. “Sono un ex detenuto che ha fatto purtroppo tanti anni di carcere - continua pure Rosario Polizzi -. Oggi non mi sento solo perché ho incontrato tante persone che si stanno prendendo cura di noi e questa è una cosa meravigliosa. Sono orgoglioso oggi ci impegnarmi come volontario in tante iniziative dell’associazione Un nuovo giorno”. “Abbiamo iniziato in pandemia senza scoraggiarci - aggiunge anche il giovane direttore musicale Marco Dentici -. Devo dire che questa bella esperienza insieme mi ha dato la possibilità di conoscere più da vicino il mondo carcerario nei confronti del quale nutrivo prima qualche pregiudizio. Il teatro è stato occasione di scambio di vite completamente diverse che ci hanno reso persone sempre più aperte agli altri a maggior ragione nei confronti di chi ha una maggiore fragilità sociale. È stato, quindi, un arricchimento umano ma anche culturale perché ognuno di loro ha una storia che in parte abbiamo conosciuto. Nelle persone che escono dal carcere c’è tanta voglia di riscattarsi ma spesso queste si devono confrontare con una parte della società che ha paura e rimane chiusa ed ignorante nei loro confronti”. “‘Una storia infinità è una storia che si ripete nel tempo e che le cronache giornaliere ci fanno rivivere nella continua violenza sulle donne, sulle figlie, avvicinandoci pure alla situazione vissuta per il momento dalle donne afghane - afferma Giangrazia Cali, ex insegnante di lungo corso. È una storia che ci fa riflettere anche sulla lotta di classe e le diverse forme di prevaricazione sociale e il conflitto di ideali tra vecchi e giovani. Nel gruppo di 26 persone abbiamo inserito alcune persone che hanno avuto dei trascorsi penali. Credo che il teatro sia molto importante soprattutto per fare crescere la propria autostima che dopo le esperienze detentive potrebbero anche perdersi”. “Seguiamo in questo momento 35 persone del circuito carcerario e penale - dice Antonella Macaluso -. Allo spettacolo hanno partecipato un buon numero di loro che ha dato un contributo diverso. Il gruppo misto è importantissimo perché avviene uno scambio molto arricchente tra tutti loro che hanno avuto un vissuto, chi dentro e chi fuori, molto diverso. Tra i temi capiscono molto cosa significa stare dentro e uscire nel dopo il carcere diventando invisibili alla società. Purtroppo, infatti, quando si esce dal carcere, la società e molto dura perché tende ad emarginare e ad escludere chi nella vita ha pagato già i propri errori. Pertanto, crediamo molto che la dignità delle persone passi soprattutto dal lavoro e per questo i fondi raccolti serviranno per offrire una opportunità lavorativa ad alcuni di loro”. Napoli. “Il Garante”, al via le riprese del documentario di Gaetano Di Vaio napoliclick.it, 1 dicembre 2021 Dal carcere di Santa Maria Capua Vetere a quello di Modena: un viaggio per far conoscere vite difficili, alcune da recuperare, raccontate in due episodi. È “Il Garante”, il docuserie del regista e produttore napoletano Gaetano Di Vaio, prodotto dalla Bronx Film Production, in collaborazione con Gesco Sociale di Sergio D’Angelo. È una storia incentrata su Pietro Ioia, che da narcotrafficante internazionale diventa garante dei detenuti. Set del documentario, le cui riprese partiranno lunedì 13 dicembre, saranno Napoli e la Campania, ma anche le carceri di Foggia e Modena. “In Pietro - spiega Gaetano Di Vaio - ho rivisto una parte di me. E proprio da questa parte di me che lui rappresenta, nasce l’idea del mio film. Ho conosciuto Pietro circa dieci anni fa, nel periodo in cui da attivista era presente fuori al carcere di Poggioreale e si impegnava per il riconoscimento dei diritti, della dignità di chi era ancora dietro le sbarre. Come lui, anche io sono un ex detenuto che, una volta uscito dal carcere, si è impegnato per reinventarsi, per lasciarsi alle spalle un passato “scomodo”. E in tutti i lavori che ho realizzato, come produttore e come regista, c’è un forte collegamento con il mio trascorso, con la vicenda personale che mi ha profondamente segnato e da cui sono uscito. In questo documentario Pietro rappresenta il Caronte nell’Inferno di Dante, colui che ci condurrà in questi mondi complicati, e spesso dimenticati, per mostrarceli, farceli conoscere in tutte sfaccettature”. Dal sovraffollamento delle carceri al tema delle condizioni di salute dei detenuti. Nel film c’è la storia di due ragazzi inseriti nei percorsi di recupero dalla devianza, in affidamento a Gesco, seguiti da Pietro Ioia, quella di un detenuto di Poggioreale malato di tumore, quella di un tossicodipendente che si sta battendo per essere ammesso in comunità. “Intervisteremo - continua Di Vaio - persone che erano detenute durante il lockdown. Racconteremo l’esperienza di coloro che erano reclusi, come in una gabbia, durante quel periodo. Per loro, senza contatti con l’esterno, con i familiari, con gli educatori, devono essere stati mesi terribili e interminabili”. Un film che non si riduce alla denuncia delle ingiustizie nelle carceri, ma che attraverso il racconto delle attività di Pietro Ioia, lancia un segnale positivo, un messaggio di speranza di miglioramento delle condizioni dei detenuti e dei loro familiari. “Continueremo a batterci - prosegue Di Vaio - per un carcere che si basi non sull’afflizione, sulla punizione, ma sul recupero di chi ha commesso un reato. Sarà un lavoro non stabilito a priori, ma sarà dettato dall’incontro con le vite degli uomini e delle donne coinvolte, dai luoghi, dalle abitazioni, dai vicoli della città, percorsi da Pietro Ioia nella sua febbrile attività quotidiana. Questo perché la sofferenza che caratterizza le storie dei personaggi, in quanto raccolte in un momento di pesante angoscia, esige un approccio onesto e leale, basato sulla fiducia reciproca”. “Sono felice di partecipare al documentario con l’amico Gaetano - commenta Pietro Ioia - Lo conosco da tanti anni e so bene quanto le dinamiche dei carcerati siano importanti per lui. Con questo docufilm vogliamo che l’opinione pubblica sia informata su tutto ciò che fa un garante per la vasta platea di chi è privato della libertà. Anche perché stiamo attraversando un brutto periodo nelle carceri dove la situazione è disperata. Sarà un buon lavoro, arriverà dritto nel cuore della gente. Ci saranno testimonianze vive di persone che sono state aiutate, persone sofferenti che non hanno voce e che gridano aiuto”. Roma. Vito Minoia: “Il carcere non sia luogo di conferma di un destino segnato” redattoresociale.it, 1 dicembre 2021 Un successo la quattro giorni romana che ha unificato due edizioni della rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini Incrociati”. Il Ministero annuncia il rinnovo del Protocollo d’Intesa triennale. “Il carcere non deve essere un luogo di conferma del destino segnato, fatto di marginalità ed esclusione. Grazie alle sue peculiarità creative e artistico espressive, il linguaggio teatrale diventa uno strumento privilegiato di intervento, fuoriuscendo dagli schemi imposti e individuando forme di conoscenza in grado di far fronte a una vera e propria emergenza educativa”. Commenta così il successo della settima e ottava edizione della Rassegna di teatro in carcere ‘Destini Incrociati’, Vito Minoia, promotore delle iniziative messe in campo nella quattro giorni romana, esperto di teatro educativo inclusivo all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. Originali e di alto livello espressivo i sette spettacoli presentati nell’evento promosso in rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con soggetto capofila il Teatro Universitario Aenigma di Urbino. La rassegna, realizzata con il contributo del Ministero della Cultura, Direzione Generale Spettacolo, ha unito quest’anno, attraverso una iniziativa speciale, due edizioni, recuperando terreno dopo lo stop provocato dalla pandemia. Le opere, selezionate da una qualificata direzione artistica, hanno portato in scena al Teatro Palladium dell’Università di Roma Tre alcuni testi classici ispirati all’Odissea, “Ulisse o i colori della mente” con la regia di Gianfranco Pedullà, realizzato nel carcere di Gorgona dal Teatro Popolare d’Arte, a Shakespeare con Ramona e Giulietta, delle Donne del Muro Alto del femminile di Rebibbia dirette da Francesca Tricarico, ai racconti di Primo Levi con “I sopravvissuti” dalla Casa Circondariale di Pesaro con la Compagnia Lo Spacco e il Teatro Universitario Aenigma per la regia di Francesco Gigliotti. A Bernard-Marie Koltès con “La svolta” presentato in anteprima nel nuovo spazio scenico dell’istituto penitenziario di Civitavecchia dalla Compagnia ADentro con la regia di Ludovica Andò. “Sono stati molto apprezzati - racconta Vito Minoia - anche i testi inediti come ‘It’s just a game’, riflessione tragicomica sulla società capitalistica di Robert Da Ponte con la regia di Livia Gionfrida di Teatro Metropopolare, e ‘Questo è il mio regno’, monologo di Cosimo Rega che in chiave autobiografica, grazie alla collaborazione drammaturgica di Valentina Venturini e a quella registica di Fabio Cavalli, riflette su come, da detenuto condannato all’ergastolo, sia stato aiutato nel progressivo percorso di riscatto personale e sociale. Non ultimo, ‘Destinazione non umana’, spettacolo conclusivo, rappresentato allo spazio Rossellini, sulla tragica precarietà e brevità dell’esistenza per la regia di Valentina Esposito con la compagnia costituita da ex detenuti di Fort Apache Cinema Teatro”. “Scalfite nella memoria degli spettatori - sottolinea il presidente del Coordinamento nazionale teatro in carcere - rimarranno le immagini di Saka, Said, Denis, Aattif, Alban, interpreti dello spettacolo ‘I Sopravvissuti’ in una dimensione di ‘tempo fuori del tempo’ generatrice di microracconti fra i protagonisti che nello scambio di ricordi ritrovano empatia e solidarietà. Una nuova dimensione, quella che lo spettacolo fa scaturire emozionalmente, dove il valore simbolico dei gesti, delle parole, dei corpi, agisce contro il degrado fisico patito e contro il naufragio spirituale degli uomini e delle cose. Sarà la figura di un angelo, interpretato nello spettacolo dal giovane musicista Francesco Scaramuzzino, evocato dall’immaginario degli altri protagonisti, a determinare, in un finale lirico sulle note di un’inarrivabile melodia, un coinvolgente effetto catartico con il quale tutto sembra perdere peso e svanire, come il tentativo di aver voluto evocare quegli stessi ricordi”. Molto nutrita e seguita anche la Rassegna Video, con le sue 21 opere selezionate e arrivate da istituti penitenziari di tutta Italia. Tra le tante testimonianze di lavoro documentate dalle immagini, si è distinta l’opera “Il piccolo Amleto” di Federico Cruciani sull’esperienza con i minori seguiti a Palermo dall’Ufficio di Servizio sociale per i minorenni e condotta da Claudio Collovà, preziosa figura di artista, intellettuale e regista che ha ottenuto il Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere promosso dalla Rivista Europea “Catarsi Teatri delle diversità” con l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, l’International Network Theatre in Prison e l’Associazione Casa Natale Gramsci di Ales. Nella realizzazione scenica, Collovà rielabora criticamente l’opera di Shakespeare con felice intuizione dei ragazzi che ritengono ingiusto un padre che chieda ai figli di proseguire nella logica della vendetta. “Una sfida importante e a più livelli quella della formazione - prosegue Minoia - Ne abbiamo discusso nel Centro culturale Moby Dick della Regione Lazio durante le tavole rotonde che hanno accompagnato la Rassegna, dove è stato fatto un punto sui primi dieci anni di attività del Coordinamento nazionale, divenuto negli anni Osservatorio privilegiato per l’analisi del fenomeno e già considerato come buona pratica dall’Istituto Internazionale del Teatro dell’Unesco”. Tra le proposte per sostenere in modo più organico le iniziative di settore, il Ministero della Giustizia ha annunciato il rinnovo del Protocollo d’Intesa triennale per la promozione del teatro in carcere in Italia. Aids: un libro su cos’è accaduto in Italia, per evitare che la memoria storica vada perduta di Marinella Zetti Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2021 Per una volta, pur restando in ambito editoria digitale, non vi parlerò di numeri ma del libro Anni positivi - La storia dell’HIV in Italia attraverso i 30 anni di EssePiù, il periodico di Asa-Associazione Solidarietà Aids, nato nel 1991. Ho ideato e curato il progetto per evitare che la memoria storica andasse perduta. Racconti, testimonianze, denunce. A mio avviso, è importante conoscere cos’è accaduto in Italia quando si è scoperto il virus e il grande lavoro svolto dalle associazioni e dai volontari, attività di informazione e prevenzione che non si è mai interrotta. Il saggio, proposto in versione digitale e cartacea, è pubblicato in self-publishing con la piattaforma Kdp di Amazon, una scelta ponderata perché permette all’opera di essere sempre reperibile ed evita lo spiacevole “fuori catalogo” riservato dagli editori ai libri che non scalano le classifiche. Vi propongo la prefazione di Massimo Cernuschi, medico infettivologo e Presidente di Asa, in associazione da quando è nata nel 1985. Un viaggio lungo trent’anni, di Massimo Cernuschi - Una vita passata in mezzo a persone con HIV. Ho iniziato a vederne prima ancora che fosse possibile fare il test sierologico, il famoso Elisa. Ovviamente si capiva ben poco. Poi sono arrivati i primi test nel 1984, le prime diagnosi di HIV e le prime diagnosi di Aids. Era difficile, per un medico, accettare che la persona che ci stava davanti, con HIV e difese immunitarie molto basse, in apparenti ottime condizioni di salute, era destinata a star male e morire nel giro di poco tempo. Io facevo i test e restituivo il risultato, spiegando il significato (per quello che si poteva dire negli anni ‘80) della positività e invitando a fare attenzione a chi risultava negativo. C’era molto bisogno di informazione e l’Asa è partita proprio spinta da questo, nel 1985. Subito si è capito che le persone con HIV andavano accompagnate nel loro percorso con un sostegno non solamente medico, ma di solidarietà. E sono stati creati i gruppi di autoaiuto e sono cominciate le attività di informazione e sensibilizzazione. L’attività di Asa è sempre stata più orientata verso il mondo gay che a Milano è stato subito duramente colpito. Pur essendo molto coinvolto dal punto di vista personale (amici, conoscenti, pazienti a cui mi affezionavo), ho sempre fatto, in associazione, la parte del dottore. La parte principale è stata quella di spiegare le cose in maniera comprensibile ai non addetti ai lavori e dire in maniera chiara, senza omissioni, alle persone con HIV come era la loro situazione. Non sempre facile. Avevamo anche un gruppo di assistenza domiciliare, di accompagnamento delle persone più sole e meno fortunate. La parte sanitaria (esecuzione di fleboclisi al domicilio, che non venivano effettuate dal servizio pubblico) era forse quella meno “importante”. Le persone con AIDS avevano bisogno di qualcuno con cui parlare, che le portasse al cinema o a fare la spesa, che facessero vivere loro una vita “normale”. Senza stigma, senza paura. EssePiù è nato al culmine di questa catastrofe. Leggendo i pezzi “riesumati” da un tempo che sembra preistoria, mi sono ritrovato davanti le facce degli amici che se ne sono andati, la storia delle lotte che abbiamo portato avanti, le mie frasi che ormai suonano incomprensibili per chi non ha vissuto in quel periodo. In effetti, quando parlo ai giovani medici del mio reparto, futuri infettivologi, loro restano stupiti. Non possono capire quanto siamo stati immersi in un incubo. Un periodo in cui non si avevano certezze, in cui non si potevano dare rassicurazioni alle persone con HIV, in cui la paura di chi aveva l’HIV era mille volte maggiore della paura di prendersi l’infezione da un rapporto non protetto. EssePiù ci ha accompagnati, grazie alle persone che hanno dedicato un po’ del loro tempo per quello che adesso è la storia di ciò che è successo (e sta succedendo). La lotta è diversa, ora, ma non è finita. Eutanasia, dopo il caso di “Mario” è chiaro: l’unico modo per arrivare alla legge è il referendum di Carlo Troilo Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2021 “Mario”, nome di fantasia a tutela della sua privacy, è la prima persona in Italia a ricevere il via libera al suicidio assistito. “Mario” è marchigiano, tetraplegico, immobilizzato da 10 anni. Oltre un anno fa ha chiesto all’azienda ospedaliera locale che fossero verificate le sue condizioni di salute per poter accedere legalmente in Italia ad un farmaco letale per porre fine alle sue sofferenze, in applicazione della sentenza di incostituzionalità della Corte Costituzionale n. 242/2019 che indica le condizioni di non punibilità dell’aiuto al suicidio assistito. Dopo il diniego dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche (Asur), una prima e una seconda decisione definitiva del Tribunale di Ancona e ben due diffide legali all’Asur, “Mario” ha finalmente ottenuto il parere del Comitato etico dell’Asur Marche. Il Comitato etico, a seguito di verifica delle sue condizioni tramite un gruppo di medici specialisti, ha confermato che “Mario” possiede i requisiti per l’accesso legale al suicidio assistito così come stabilito nella sentenza Cappato-Antoniani della Corte Costituzionale. Ma cosa succede, intanto, in Parlamento? Mentre i tribunali procedono, il Parlamento continua a rinviare (o porta avanti con esasperante lentezza) il dibattito sul testo di una legge di iniziativa popolare che è stata depositata alla Camera dalla Associazione Luca Coscioni nel settembre del 2013 con 67.000 firme di cittadini elettori (divenute molte di più nei mesi successivi) ed è rimasta nei cassetti delle Commissioni competenti per diversi anni. Fra l’altro, Marco Cappato - tesoriere della Associazione e protagonista della famosa vicenda del dj Fabio Antoniani, che lo stesso Cappato e Mina Welby accompagnarono a morire in Svizzera - ha dato vita ad un Intergruppo parlamentare in favore della eutanasia, cui hanno aderito decine di deputati di diverse parti politiche. La prossima seduta di discussione all’interno delle Commissioni parlamentari competenti (Giustizia e Sanità) è prevista per il 9 dicembre, mentre l’invio del testo unificato all’Aula della Camera è rimandato al 13 dicembre. Nelle stesse ore dello scaricabarile di Regione Marche sul caso di Mario, in Commissione alla Camera c’è da prendere atto che c’è parere contrario agli emendamenti sull’eutanasia legale da parte dei relatori Bazoli (Pd) e Provenza (M5S). “Per loro, la legge deve riguardare solo le procedure di ciò che è già legale: l’aiuto medico al suicidio”, dice Marco Cappato che continua: “Secondo Bazoli e Provenza, dunque, una persona totalmente paralizzata dovrebbe essere discriminata nella possibilità di essere aiutata a morire”. Di fronte a tale scelta politica dei principali gruppi parlamentari, che sulla carta avrebbero potuto non essere ostili alla regolamentazione dell’eutanasia, è evidente che l’unico strumento per arrivare all’eutanasia legale sarà il Referendum di abrogazione parziale del reato di “omicidio del consenziente”, sottoscritto da 1.240.000 cittadini. Aspettiamo dunque che la primavera ci porti finalmente - con il voto a favore di una larga maggioranza di elettori - alla possibilità di una “morte opportuna”, come la definì Piergiorgio Welby. Ricordo fra l’altro ai miei lettori un dato che viene sempre trascurato dai politici e dalla stampa: secondo le rilevazioni dell’Istat, ogni anno si registrano in Italia oltre mille suicidi di malati, lo stesso numero dei morti per infortuni sul lavoro, per i quali giustamente si alza con forza la denuncia di giornalisti e politici, fino al Capo dello Stato. E solo chi ha seguito da vicino la vicenda di uno di questi suicidi può capire quanta sofferenza precede e segue questa tremenda decisione. E quel che ho vissuto io con mio fratello Michele, malato terminale di cancro, che decise di porre fine alle sue atroci e inutili sofferenze gettandosi dal quarto piano della sua casa di Roma: uno dei tanti - dei troppi - che finiscono in forme atroci (l’impiccagione è “lo strumento” di suicidio più frequente, sempre secondo i dati dell’Istat) perché in Italia non è consentita quella eutanasia che da anni è lecita in molti paesi del mondo. Ius soli, che cos’è, come funziona in Italia e nel mondo. L’odissea di un milione di bambini di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 1 dicembre 2021 È il 27 luglio 2019 quando il 13enne Ramy Shehata e il 12 enne Adam El Hamami, entrambi nati in Italia da genitori di origine egiziana, ricevono la cittadinanza italiana come massimo riconoscimento per essere riusciti, su un autobus dirottato e poi dato alle fiamme, ad avvertire il 112 e i genitori senza farsi scoprire. Il loro coraggio è stato determinante nello sventare il piano dell’autista del bus sul quale viaggiavano insieme a compagni e insegnanti della scuola media Vailati di Crema. “Questi giovani hanno reso eminenti servizi al nostro Paese per aver contribuito, con il proprio gesto di alto valore etico e civico, a sventare la tentata strage”, sono state le parole pronunciate dal sindaco di Crema, dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, e dal presidente della Repubblica, che il 14 giugno 2019 ha firmato il decreto di cittadinanza italiana per i due ragazzi. Le loro storie, insieme a quelle degli sportivi italiani finiti sotto i riflettori alle scorse Olimpiadi, commuovono per qualche giorno, ma poi il problema resta. Oggi ci sono almeno un milione di ragazzini minorenni nati in Italia, o che frequentano da anni le nostre scuole, ma che non sono cittadini italiani. Continuiamo a definirlo Ius soli, ma è sbagliato. Si chiama così negli Stati Uniti e significa che sei automaticamente cittadino del Paese in cui nasci. Quello di cui si discute in Italia da oltre vent’anni è il “diritto di cittadinanza”, e si riferisce all’emigrato che diventa cittadino italiano in base a una serie di requisiti stabiliti dalla legge 91 del 1992, firmata dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga e dal premier Giulio Andreotti. Di tutti i cittadini stranieri che acquisiscono la cittadinanza italiana ogni anno (127 mila nel 2019), la metà ha meno di 29 anni (61.508). Il tema aperto è proprio su come possono ottenere oggi la cittadinanza i bambini e i giovanissimi figli di genitori spesso arrivati su un barcone, ai quali è stato riconosciuto uno status provvisorio (come richiedenti asilo, con una protezione sussidiaria o una speciale), e poi hanno ottenuto il permesso di soggiorno grazie ad un lavoro regolare che garantisce un reddito minimo, e da rinnovare di anno in anno. Bambini e giovani stranieri: come diventano italiani? Un minorenne può avere la cittadinanza se uno dei genitori con cui vive l’ha ottenuta dopo 10 anni di residenza regolare in Italia e possiede un reddito minimo di 8.263 euro (tecnicamente si chiama “cittadinanza per trasmissione”). Con questa modalità, dal 2015 al 2019, l’hanno presa in 254.420. Invece chi ha il genitore che non ha ancora ottenuto la cittadinanza, anche se è nato in Italia, deve attendere il compimento del diciottesimo anno di età. E per richiederla ha un solo anno di tempo. È la cosiddetta “cittadinanza per elezione”, e a trascrivere l’avvenuto acquisto è l’Ufficiale di Stato civile del Comune di residenza. Dal 2015 al 2019 l’hanno presa in 36.303. Il giovane che non è nato in Italia, infine, ed è stato residente in Italia ininterrottamente per dieci anni, può presentare la domanda al ministero dell’Interno quando diventa maggiorenne. Per legge la domanda deve essere accolta o respinta entro 2-3 anni, ma spesso ne passano anche 4. Vuol dire che è difficile ottenere la cittadinanza prima dei 22 anni. Chi, per esempio, è arrivato in Italia a 9 anni, la può chiedere solo dopo 10 anni, cioè a 19, e qui le cose si complicano perché è maggiorenne, e quindi deve presentare domanda di permesso di soggiorno, che può ottenere se ha un reddito da lavoro o va all’università, o i suoi genitori hanno un reddito sufficiente a garantire per lui. In caso contrario diventa un “irregolare”. Nei cinque anni di riferimento i giovani stranieri che sono diventati cittadini italiani “per residenza” tra i 19 e i 29 anni sono 62.071. Cosa ci dicono le storie dei campioni sportivi - Abdelhakim Elliasmine, 22 anni, mezzofondista con 10 titoli nazionali, arrivato in Italia dal Marocco a 7 anni, non è riuscito ad averla compiuti i 18 anni perché al reddito familiare mancavano 300 euro. Gli è stata concessa lo scorso agosto per “alti meriti sportivi” su decreto del presidente della Repubblica. Danielle Madam, in Italia da 17 anni, ossia da quando ne aveva 7, per 5 volte campionessa italiana di lancio del peso, è riuscita a ottenere la cittadinanza italiana solo il 30 aprile 2021, a 24 anni, anche grazie all’intervento del sindaco leghista di Pavia Mario Fabrizio Fracassi. Questo perché è cresciuta in una casa-famiglia, e non riusciva a dimostrare di avere avuto la residenza regolare di 10 anni, anche se ha frequentato regolarmente le scuole. Mentre Eseosa Desalu, detto Fausto, nato a Casalmaggiore (Cremona) nel 1994 da genitori nigeriani, è il velocista vincitore della medaglia d’oro alle Olimpiadi nella staffetta 4×100 metri, emozionando l’Italia intera. Ebbene, è diventato italiano nel 2012 compiuti i 18 anni, e fino ad allora non ha potuto partecipare a gare internazionali. I diritti riconosciuti e quelli negati - Senza cittadinanza il giovane straniero ha diritto ad andare a scuola, essere curato dal servizio sanitario nazionale, partecipare a competizioni sportive nazionali, ma non può votare anche se ha compiuto 18 anni, né partecipare a concorsi pubblici e competizioni internazionali come le Olimpiadi, né fare viaggi studio o di lavoro all’estero senza visto. Impedimenti che comportano risvolti psicologici negativi: ti senti diverso dai compagni di scuola, fai fatica ad integrarti, e rischio di comportamenti devianti. Cosa fa il resto d’Europa - Non c’è un Paese europeo che faccia aspettare così tanto per dare la cittadinanza ai ragazzi o ragazze con genitori residenti, o arrivati quando erano piccoli. In Gran Bretagna i bambini nati da genitori che hanno la residenza, la cittadinanza viene concessa subito, mentre i nati in Uk la ottengono dopo 5 anni di residenza. I nati in Spagna dopo un anno di residenza nel Paese (gli altri 10 anni); in Francia possono averla a 13 anni (gli altri a 18 con 5 anni di residenza). Dunque, nel resto d’Europa, almeno ai bambini nati nel Paese viene data la possibilità di avere la cittadinanza ben prima di diventare maggiorenni, e per chi proviene da un Paese extracomunitario il tempo d’attesa è più breve. Più simile all’Italia la Germania, che comunque è meno rigida: la cittadinanza tedesca può essere acquisita solo a 18 anni, ma ci sono 5 anni di tempo per richiederla (non uno solo come da noi). E chi non è nato lì può fare domanda sempre a 18 anni, ma dopo 8 anni di residenza stabile, e non dieci come da noi. Mezzo milione di bambini e giovani in un limbo - Su come rivedere il diritto alla cittadinanza in Italia si discute da oltre vent’anni. Le proposte di legge presentate in Parlamento nella XVI (2008-2013) e nella XVII legislatura (2013-2018) sono 40. Il 13 ottobre 2015 la Camera approva un testo unificato di 25 proposte di legge: viene riconosciuta automaticamente la cittadinanza italiana al bambino nato in Italia se uno dei due genitori si trova legalmente nel Paese da almeno 5 anni, oppure quando è nato in Italia o è arrivato prima dei 12 anni, ed ha frequentato regolarmente per almeno 5 anni uno o più cicli di studio. Per chi non è arrivato entro i 12 anni, deve risiedere legalmente da almeno sei anni, e avere frequentato nel medesimo territorio regolarmente un ciclo scolastico (Ius culturae). Il provvedimento si è impantanato al Senato finché le Camere si sono sciolte. Risultato: in base a questi requisiti, secondo le stime di Dataroom su dati Istat, su oltre un milione di bambini e ragazzi stranieri che oggi vivono in Italia, almeno la metà potrebbe essere italiano subito, e invece è in un limbo. Rendergli la vita difficile vuol dire non integrarli e questo ci porta solo svantaggi. Oggi in Parlamento sono depositate altre tre proposte di legge: 1) quella del Pd ricalca all’incirca quella del 2015 passata alla Camera; 2) Leu lascia le maglie più larghe (cittadinanza dopo un anno per i nati in Italia da genitori con permesso di soggiorno); 3) la proposta di Renata Polverini, Fi, che alle regole attuali aggiunge per i nati in Italia la possibilità di ottenere la cittadinanza con ciclo di studi delle elementari completato, oppure la residenza di tre anni e un esame di cultura e lingua italiana. Dopo il fallimento del Ddl Zan contro le discriminazioni sessuali, il segretario del Pd Enrico Letta, uno dei principali fautori dello Ius soli, ha preso atto: “In questo Parlamento la maggioranza purtroppo non c’è”. Nel frattempo, continuerà a ricevere la cittadinanza italiana per naturalizzazione chi ha un lontano avo emigrato italiano, anche se in Italia non ha mai vissuto e tantomeno parla la nostra lingua. Chi è nato e cresciuto qui invece no. Nessuna tutela per i migranti di Emma Bonino La Stampa, 1 dicembre 2021 Mentre in molte parti del continente europeo vengono alzati muri e fili spinati (intorno alla piccola enclave di Ceuta e Melilla, in Ungheria per 175 chilometri, in Bulgaria per 176 e più recentemente tra Polonia - Bielorussia con le relative tragedie, cui si aggiunge il perenne muro liquido del Mediterraneo con naufragi, annegamenti, eccetera) anche per coloro che riescono ad entrare la vita è grama. Prendiamo l’Italia. Sono ancora decine di migliaia i lavoratori e le lavoratrici irregolari che oltre un anno e mezzo fa hanno fatto domanda per essere assunti dai propri datori di lavoro, ottenere il permesso di soggiorno e tornare nella legalità, ma i ritardi pesantissimi delle Prefetture e degli altri uffici coinvolti nell’esame delle domande stanno rallentando e ostacolando l’integrazione di queste persone. Poco più di un terzo delle 230 mila pratiche è stato finalizzato finora da parte delle Prefetture. Di fronte a tale situazione, grave e ingiusta, è necessario adottare alcune misure urgenti e ripristinare un po’ di equità nei confronti non solo di questi cittadini - a cui la pubblica amministrazione non dà risposte e, anzi, crea complicazioni - ma anche dei datori di lavoro, che sono per lo più famiglie in attesa di poter rendere stabile il rapporto di lavoro con badanti, babysitter e le altre figure impiegate nelle nostre case. Grazie al lavoro della campagna Ero straniero (promossa da Radicali italiani, A buon diritto, Action Aid, Centro Astalli, Oxfam, Casa della carità, Arci e altre organizzazioni) abbiamo potuto monitorare tutta la procedura e mettere a fuoco quali sono i punti critici su cui bisogna intervenire nei prossimi giorni. Innanzitutto, come prevede il primo dei tre emendamenti (a mia firma), vanno stanziate le risorse necessarie a prorogare almeno per il 2022 i contratti degli interinali già assunti presso gli uffici del ministero dell’interno proprio per occuparsi di queste domande e tamponare il perenne sotto organico delle prefetture. I contratti scadono nel 2021 ma senza il loro apporto l’esame delle pratiche rischia di fermarsi del tutto, soprattutto nelle grandi città (a Milano, delle oltre 25 mila domande ricevute, circa 2.500 sono state definite; a Roma su oltre 17 mila domande, siamo a poco più di mille). Abbiamo poi sottoscritto un secondo emendamento - prima firmataria Loredana De Petris - per tutelare chi ha presentato la domanda di emersione ma poi, a causa dei tempi lunghi delle risposte, ha perso uno o più requisiti necessari per completare la procedura: in molti casi, per esempio, lo stesso datore di lavoro si è tirato indietro, non avendo più bisogno di assumere una persona. Crediamo che a queste persone vada dato in ogni caso un permesso di soggiorno, in attesa che trovino un altro impiego: un intervento di questo tipo, del resto, è stato già fatto a seguito della sanatoria del 2012. L’ultima proposta è più ambiziosa ma non per questo dovrebbe spaventare parlamento e governo, essendo un intervento di buon senso e vantaggioso per il Paese in termini di entrate fiscali e contributive e di stabilità sociale. Se è vero - come ha dimostrato l’Inps - che a ogni sanatoria aderiscono centinaia di migliaia di persone che poi rimangono a lungo a vivere e lavorare dignitosamente nel nostro paese, contribuendo in maniera importante al nostro Pil e al nostro sistema pensionistico, non sarebbe meglio introdurre la possibilità di mettersi in regola se si ha la disponibilità di un contratto di lavoro in qualsiasi momento, senza dover aspettare la sanatoria successiva? Questo prevede il terzo emendamento: l’introduzione di una procedura permanente di regolarizzazione a fronte di un lavoro, non legata a una misura straordinaria e a una determinata finestra temporale né limitata solo ad alcuni settori produttivi. Cosa che del resto avviene in Germania e ha dimostrato di funzionare. In queste ora il Senato ha, dunque, un’occasione importante, da non sprecare: intervenire per migliorare l’efficienza della nostra amministrazione e per consentire di rientrare nell’economia legale a migliaia di persone indispensabili, soprattutto in questo momento, per la ripresa e lo sviluppo del nostro Paese. L’Italia alla ricerca di una strategia per prevenire la radicalizzazione di Matteo Pugliese Il Domani, 1 dicembre 2021 Giovedì 25 novembre il gruppo del Partito democratico alla Camera ha organizzato un incontro per ridare slancio a una proposta di legge sulla prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento. Nella scorsa legislatura era passata alla Camera una proposta simile, di iniziativa di Andrea Manciulli (Pd) e Stefano Dambruoso (Scelta civica), mancava soltanto l’ultimo passaggio in aula al Senato, ma le dinamiche parlamentari hanno impedito la sua approvazione. Il testo raccoglieva le migliori pratiche europee di prevenzione e Dambruoso forniva l’esperienza da magistrato antiterrorismo negli anni di al Qaida a Milano. Quella proposta era anche figlia del rapporto elaborato da una commissione, nominata dal governo Renzi su iniziativa dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, presieduta dal direttore del programma sull’estremismo della George Washington University, Lorenzo Vidino. I risultati della commissione, presentati al governo Gentiloni e secretati, segnalavano che il rischio di radicalizzazione in Italia sarebbe stato simile a quello vissuto da Francia e Inghilterra, ma con un ritardo di 5-10 anni, dovuto alle premature seconde e terze generazioni rispetto a quei paesi. La legislazione antiterrorismo - L’Italia è all’avanguardia nella legislazione antiterrorismo, grazie alle norme introdotte nel 2015 e all’esperienza di forze di polizia e servizi, ma manca totalmente una strategia nazionale di prevenzione della radicalizzazione. Il nuovo tipo di terrorismo e di estremismo violento vede spesso protagonisti singoli individui, in quello che Gilles Kepel ha definito “terrorismo di atmosfera”, con attacchi ispirati dalla propaganda senza una struttura alle spalle, ma anche da persone alienate e disturbate, casi borderline difficili da inserire in categorie precise. Per questo la prevenzione a 360 gradi diventa fondamentale, con un intervento a monte fatto da operatori sociali, scuole, famiglie, referenti religiosi e comunità locali. I principali luoghi di radicalizzazione, per quanto riguarda il terrorismo jihadista, non sono le moschee bensì il web, il contesto familiare, le carceri. Sarebbe impossibile contrastare una minaccia così labile affidandosi solo alla repressione e al codice penale, non si può seguire ogni singolo radicalizzato 24 ore al giorno. Quindi diventa prioritario garantire un controllo sociale di quei segnali d’allarme per usare misure di correzione che non siano quelle penali. Come dimostrano vari studi, la detenzione può anzi aumentare la radicalizzazione e costruire terroristi. La nuova proposta, a prima firma di Emanuele Fiano, è in esame in commissione Affari costituzionali e poi andrà in aula per la discussione. A novembre anche il deputato di Forza Italia Matteo Perego di Cremnago ha presentato un’analoga proposta di legge in commissione, che però intendeva affrontare il contrasto di ogni forma di estremismo violento, e il presidente della commissione ha suggerito un abbinamento delle due. Inizialmente Fiano si era detto contrario a unire le proposte perché il fenomeno della radicalizzazione jihadista ha caratteristiche peculiari non assimilabili ad altre forme di estremismo. Il deputato forzista ha infatti citato il contrasto all’estremismo anarco-insurrezionalista, che però si sviluppa con altre dinamiche e ha una base diversa per età ed estrazione sociale. Si è arrivati a un compromesso, che prevede di utilizzare il testo base di Fiano e integrarlo con emendamenti della proposta Perego, che includano ogni matrice ideologica, quindi sia di destra che di sinistra. Si tratta di un terreno delicato e scivoloso, perché non vi sono confini netti e precisi sulla libertà di opinione ed l’espressione di idee radicali violente. È un argomento che la Radicalization Awareness Network dell’Unione europea ha a lungo dibattito, mentre in Italia si è espressa su singoli casi la Corte di cassazione, ma non è possibile lasciare la risposta alla giurisprudenza. Premesse diverse - Si tratta di un problema reale, perché le due forme di estremismo hanno premesse diverse, sarebbe complicato stabilire indicatori di radicalizzazione neutri e comuni ai due fenomeni, che richiedono anche tipi di intervento e attori differenti. È anche vero che il rischio di terrorismo suprematista di estrema destra, come di altre matrici, è in ascesa in tutta Europa. Vale la pena ricordare che gli unici due recenti attentati con vittime in Italia sono stati compiuti da estremisti di destra: nel 2011 Gianluca Casseri ha sparato e ha ucciso due senegalesi a Firenze, nel 2018 Luca Traini ha sparato a sei africani a Macerata. A conferma di questa tendenza, anche in Inghilterra il programma Prevent ha evidenziato che nell’ultimo anno le segnalazioni per radicalizzazione di estrema destra sono state 1.229, contro le 1.064 per radicalizzazione islamista. Anche in quel paese non sono mancati gli attentati xenofobi o suprematisti. L’innesto della proposta forzista potrebbe complicare l’iter legislativo, ma se sfruttato adeguatamente potrebbe offrire anche uno strumento contro il suprematismo e il neofascismo, minaccia concreta come dimostrano gli arresti della cellula neonazista di Andrea Cavalleri a Savona e di altri giovani in Emilia-Romagna. Se negli anni di piombo l’estremismo di destra colpiva con stragi indiscriminate e bombe, oggi utilizza strumenti meno sofisticati: dalle auto lanciate contro i fedeli all’uscita della moschea di Finsbury Park all’incendio di luoghi di culto islamici, per finire con l’uso di armi da fuoco, talvolta acquistate illegalmente. Sono rari i casi di attacchi ben organizzati come quello di Anders Breivik in Norvegia. Il Crad - Enrico Borghi, responsabile Sicurezza della segreteria Pd di Letta, ha ribadito l’importanza dell’iniziativa e ha fatto appello insieme a Fiano affinché i partiti di destra come Lega e Fratelli d’Italia non strumentalizzino il tema delicato dell’islam a fini di propaganda. È stato ribadito l’interessamento dei gruppi parlamentari di Camera e Senato, oltre che del presidente Fico, per garantire un iter snello alla proposta che uscirà dalla commissione. Il testo in discussione prevede la creazione di un Centro nazionale sulla radicalizzazione (Crad) presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno. Del Crad farebbero parte rappresentanti ministeriali e dei servizi di intelligence, ma anche esponenti della società civile nei settori chiave. A cascata, verrebbero creati dei centri di coordinamento regionali presieduti dai prefetti e dagli operatori sociali. È prevista anche l’istituzione di un Comitato parlamentare per il monitoraggio dei fenomeni della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista, con il compito di vigilare sulle attività della strategia. La proposta di Perego è quella di nominare anche l’eversione anarco-insurrezionalista e di estrema destra. Gli interventi del piano strategico si concentrano in ambito scolastico, nella comunicazione anche online, nella formazione di personale universitario specializzato e nel recupero dei detenuti. È vero che i programmi di prevenzione della radicalizzazione talvolta hanno fallito. I casi più clamorosi e drammatici sono quello dell’ex detenuto radicale Usman Khan, che nel 2019 ha partecipato a una conferenza sulla riabilitazione carceraria e ha ucciso a coltellate due persone, e quello dell’austriaco-macedone Kujtim Fejzulai che ha seminato il terrore a Vienna nel 2020: aveva ingannato gli operatori del programma di de-radicalizzazione fingendosi cambiato. Alcuni report recenti affermano che detenuti jihadisti nel Regno Unito seguano corsi di psicologia per mentire ai funzionari che devono stabilire la loro de-radicalizzazione. Questi fallimenti, tuttavia, non giustificano l’assenza di una strategia italiana di prevenzione, che potrebbe portare i suoi frutti in tempo per quella finestra di 5-10 anni stabilita dalla commissione Vidino. Ecuador. 305 morti nelle stragi in carcere nei primi 11 mesi del 2021 di Diego Battistessa osservatoriodiritti.it, 1 dicembre 2021 Quattro massacri, per un totale di 305 morti: è quanto sta accadendo nelle carceri dell’Ecuador. Dove la violenza è ormai fuori controllo, soprattutto per scontri tra bande di narcotrafficanti. Nel carcere di Guayaquil si sono avute le stragi più efferate. Già più di 300 persone sono state uccise in carcere in Ecuador nel 2021 in quattro massacri che hanno sconvolto il paese: 23 febbraio, 22 luglio, 28 settembre e 13 novembre. Una carneficina che sembra inarrestabile e che fa capo alla nuova geografia del potere delle bande criminali ecuadoregne che rispondono ai grossi cartelli della droga del Messico. Tra le vittime di questi scontri anche Victor Guaillas Gutama, contadino del Guayas, difensore della terra e dell’acqua, incarcerato ingiustamente e in attesa di giudizio nel carcere di Guyaquil. Ecuador, nel carcere di Guayaquil si continua a morire - La mattina di sabato 13 novembre nel carcere del Litorale, a Guayaquil, seconda città più importante dell’Ecuador dopo la capitale Quito, si è registrato il quarto massacro di questo terrificante 2021. Secondo fonti governative sono stati 68 i morti e 25 i feriti: un vero e proprio bollettino di guerra. E di guerra si tratta. Uno scontro scoppiato nel padiglione numero 2, dove ci si contende il controllo di un mercato carcerario molto lucrativo e della distribuzione della droga. Guillermo Lasso, neoeletto presidente ecuadoregno, aveva già dichiarato lo stato d’emergenza a seguito di quanto successo il 28 settembre scorso nello stesso carcere: uno scontro tra bande che aveva fatto 118 morti e 79 feriti. Il governo dell’Ecuador sembra non avere però gli strumenti per frenare la violenza, promossa dai cartelli messicani di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación che hanno bisogno di alleati sul territorio per controllare la rotta portuale di Guayquil verso gli Usa e l’Europa. In questo senso Lasso chiede a gran voce da settimane nuovi poteri speciali alla Corte Costituzionale per poter usare l’esercito e militarizzare le carceri. Tra i i morti in carcere c’è un difensore della natura - Le vittime di questi efferati massacri non sono però solo persone appartenenti alle varie fazioni criminali in lotta, come le bande dei Choneros (vincolati al Cartello di Sinaloa) e i Tiguerones, i Lobos e i Lagartos (legati al cartello Jalisco Nueva Generación), ma anche persone comuni: alle volte detenute in modo arbitrario e ancora in attesa di giudizio. Un caso emblematico è quello di Victor Guaillas Gutama, 50 anni, difensore della natura, incarcerato per i fatti di Molleturo (provincia di Cuenca) nel 2019 e che si trovava ancora in attesa di giudizio nel carcere del Litorale. Victor è tra i morti del 13 novembre e la sua famiglia non si dà pace. Dopo la notizia della sua morte sono state innumerevoli le proteste e le richieste di verità su quanto sta succedendo nelle carceri del Paese andino. Nel pomeriggio del 18 novembre, a Quito, davanti al palazzo presidenziale di Carondelet, c’è stata una concentrazione per chiedere giustizia e riparazione per l’assassinio di Victor, incarcerato con l’accusa di sabotaggio mentre difendeva la Madre Terra. Ecuador, città di Guayaquil: soprusi nel carcere del Litorale - La lettera scritta dalla figlia di Victor, Letizia Guaillas, 27 anni, ci parla non solo del dolore che vivono ora i suoi cari, ma di una situazione di completo abbandono nella quale le istituzioni ecuadoregne lasciano i carcerati e le loro famiglie. Scrive Letizia: “In più di due anni abbiamo visto mio padre solo una volta… Il primo e unico incontro è stato con mia madre (Adriana Sarmiento), quattro mesi dopo l’arresto… Lo ha trovato triste e il suo corpo era totalmente segnato dalle botte e dalle torture. Lo hanno frustato per fare in modo che ci chiedesse di dare soldi in cambio della sua integrità fisica… una volta lo hanno schiacciato sul pavimento e gli hanno tirato la lingua per estorcegli denaro”. Si parla dunque di continue vessazioni e violenze all’interno del carcere, in alcuni casi con la connivenza del personale penitenziario. Letizia spiega che dopo quelle violenze “abbiamo pagato 300 dollari. Poi è arrivata la pandemia, le visite sono state interrotte e non hanno permesso a mia madre di entrare, anche con il test Covid-19 negativo”. Strage in carcere: alla radice dei massacri - Più di 50 omicidi nel 2019, 103 nel 2020 e 305 le persone assassinate nelle carceri ecuadoregne in questi 11 mesi del 2021. Dopo i cinque giorni dell’operazione reconquista (riconquista) lanciata dalla polizia e dall’esercito il 28 settembre scorso per riprendere il controllo del carcere del Litorale, Lasso aveva dichiarato venerdì 1° ottobre lo stato d’emergenza nel Paese: misura estrema della durata di 60 giorni che mirava a salvaguardare l’integrità fisica dei detenuti. Come dimostrato però dai fatti del 13 novembre, la autorità non hanno il controllo delle strutture penitenziarie che rispondono a dinamiche criminali che si appoggiano alla corruzione e complicità di parte del personale delle strutture. La popolazione carceraria in Ecuador si attesta intorno alle 40 000 persone, di cui 8.542 si trovano nel carcere diventato lo scenario di questi bagno di sangue. I problemi del settore penitenziario in Ecuador vengono da lontano e vanno da un tasso di sovraffollamento nazionale del 55% (il 62% nel carcere del Litorale), alla sproporzione del rapporto tra guardie carcerarie e detenuti (Primicia.ec parla di 1 guardia ogni 27 detenuti). Il dovere di garantire l’integrità dei detenuti - La garanzia dell’integrità psicofisica dei carcerati e dei loro diritti è prevista sia dai trattati e protocolli internazionali (si vedano le Regole di base per il trattamento dei detenuti adottate dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti, tenutosi a Ginevra nel 1955), sia dalla Costituzione di Montecristi del 2008, la Costituzione dell’Ecuador (leggi anche Personale penitenziario: ecco chi deve garantire i diritti umani in carcere). La Costituzione del paese Sudamericano contempla infatti, all’art. 35, che le persone private della libertà sono un gruppo in condizione di vulnerabilità che richiede un’attenzione prioritaria sia nella sfera pubblica sia in quella privata. E, di conseguenza, sono riconosciuti specifici diritti a chi si trova in carcere, ai sensi dell’articolo 51 di detta norma. Inoltre, per far sì che i diritti costituzionali a favore della popolazione in una situazione di privazione della libertà diventassero effettivi, nel 2014 entrò in vigore il Codice organico integrale penale, nel quale vennero regolarizzate in modo concreto le azioni dell’amministrazione penitenziaria, con l’obiettivo di garantire il rispetto dei diritti e della dignità di questo gruppo vulnerabile. Sudan. Tra gli sfollati tigrini: “Sono fuggita perché non volevo che stuprassero le mie figlie” di Antonella Napoli La Repubblica, 1 dicembre 2021 Il campo di Gadaref accoglie 60 mila rifugiati scappati dalla guerra tra le forze etiopi e tigrine. Intanto “il conflitto per l’acqua” torna ad alimentare i viaggi dei migranti lungo le rotte che attraversano il deserto fino al Mediterraneo. Una lunga distesa di casupole in lamiera e tende che spiccano con bagliori metallici e macchie azzurre, il colore dell’Onu. Appare così, dall’alto, il campo di Gadaref che accoglie 60 mila sfollati del Tigray. Intere famiglie in fuga da bombardamenti, repressioni e stupri dopo che il primo ministro etiope, e premio Nobel per la pace, Abiy Ahmed ha ordinato nel novembre del 2020 un’offensiva militare per scalzare dal potere il Fronte di liberazione del Tigray. “Appena sono iniziati gli scontri abbiano capito che non eravamo più al sicuro. Sono scappata con tutta la mia famiglia perché non volevo che le mie figlie venissero stuprate come era accaduto a me quando avevo solo 13 anni, durante la guerra tra Etiopia ed Eritrea. Ma la vita in questi campi è davvero dura. Ci sono stati giorni, durante la stagione delle piogge, che abbiamo rischiato di essere portati via dalle alluvioni”, è il racconto di Almaz Regat, 33 anni madre di due ragazze adolescenti e di due maschi di 11 e 13 anni. “Abbiamo passato settimane ammucchiati in tende che potevano ospitare al massimo quattro persone, notti insonni perché non riuscivamo a sdraiarci per dormire. E oggi che la stagione delle piogge è finita non va meglio perché c’è poco da mangiare e molti sono ammalati”, la sua amara conclusione. Almaz non dice di più. Ma i suoi occhi parlano per lei. Esprimono terrore, incertezza, anche se cerca di sorridere. Nel suo Paese si stanno compiendo atrocità. “Le truppe etiopi fanno continui rastrellamenti, ora sono concentrate intorno a Gotera. Il tutto a poche centinaia di metri dal quartier generale dell’Unione Africana che cerca una soluzione politica del conflitto attraverso il mediatore Obasanjo che però non pronuncia una parola sugli arresti di massa di tigrini”, denuncia Kindeya Gebreiwot, ex presidente nell’Università di Mekelle. “Sono stati aperti veri e propri campi di concentramento, ai deportati vengono sequestrati i cellulari. Parenti e amici di abitanti del Tigray che cercano di far loro visita vengono bloccati fuori dalle strutture e rimangono lì per giorni cercando di avere notizie dei loro familiari. Ogni giorno, alcuni prigionieri vengono selezionati e portati in luoghi sconosciuti e di loro non si sa più nulla”, sostiene Tghat, collettivo di ricercatori, attivisti e volontari. Ed è a chi fugge da queste realtà che il Sudan nonostante le grandi emergenze che lo destabilizzano, sia dall’interno che dall’esterno, cerca di offrire assistenza seppur non ottimale. Il “conflitto per l’acqua” tra etiopi, eritrei e sudanesi. A meno di 500 chilometri dalla capitale Khartoum, scossa dalle proteste contro il colpo di stato del 25 ottobre, si combatte una vera e propria guerra tra truppe etiopi, eritree e sudanesi. “Ci hanno sparato addosso con artiglieria pesante, per oltre 8 ore. Sono morti più di 23 dei nostri, tra cui un ufficiale con il grado di maggiore e primo luogotenente”, ha dichiarato un militare di Khartoum ai medici che lo hanno assistito all’ospedale di Al Quereisha insieme ad altri 33 feriti. La “Grande diga della rinascita” - Il casus belli è la costruzione della “Grande Diga della rinascita”, un progetto su cui i tre paesi coinvolti, Etiopia, Egitto e Sudan, avevano trovato un accordo poi venuto meno per il mancato rispetto di alcuni termini da parte di Addis Abeba, che ha fortemente voluto e realizzato la grande opera. L’instabilità a causa della “guerra per l’acqua” e per il predominio su un’area di oltre 600 mila acri di terreni fertili nella regione di Fashaqa, rischia di aggravare ulteriormente la crisi per la pandemia di Covid 19 che ha ampliato le sacche di disagio e di insussistenza per milioni di persone nel Paese. Le rotte migratorie - Il Sudan rappresenta una mina per la sicurezza in tutta la regione. Il controllo del passaggio dei migranti, che dal paese si estende verso la Libia, con lo spostamento dei militari sul fronte al confine con l’Etiopia si è ridimensionato. Rotte che secondo gli accordi tra Ue e Paesi dell’area sub sahariana, non sempre rispettosi dei diritti umani, dovrebbero essere chiuse. E invece il deserto del Sahara continua a riversare migliaia di persone sulle coste del Mediterraneo che provano a raggiungere l’Europa. Un viaggio spesso mortale per chi decide di affrontarlo sfidando il “Grande mare di sabbia”, che si estende a nord est del Sahara e occupa l’Egitto sudoccidentale, la Libia orientale e il Sudan nordoccidentale per 1.000 km da nord a sud e circa 1.100 km da Est a Ovest. L’enorme area desertica fa perdere il senso della distanza e della dimensione a chi tenta di attraversarla. La notte, poi, si trasforma in un incubo e prevale il disorientamento, temporale e spaziale, che amplifica la paura e l’incertezza. La marcia è lenta e difficoltosa, ci vogliono tempi lunghi per coprire anche distanze minime. Una via di fuga suicida. Eppure è l’unica alternativa per un immenso popolo di senza speranze.