Il diritto di parlare del carcere? di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 19 dicembre 2021 Ce l’hanno più di tutti “quelli che vi sono stati lungamente, che vi hanno sofferto”. “Bisogna aver visto” sono tre parole, significative se riferite a luoghi ancora pochissimo trasparenti come sono le carceri, usate da Piero Calamandrei nel 1948, in un intervento alla Camera, per richiamare l’importanza di conoscere la realtà del carcere per averla vista con i propri occhi, però ci sono due passaggi di quel discorso che meritano di essere ripresi e approfonditi ancora e ancora: “Si è parlato lungamente delle carceri e ne hanno parlato soprattutto coloro che più avevano il diritto di parlarne, cioè quelli che vi sono stati lungamente, che vi hanno sofferto e che hanno sperimentato quel che vuol dire essere recluso per dieci o venti anni”. “Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione sulla porta della Corte d’appello, il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo egli si rendeva conto che avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi, e avrebbe potuto poi, dopo quella esperienza, adempiere con coscienza a quella sua funzione di giudice di sorveglianza, che potrebbe esser pienamente efficace solo se fosse fatta da chi avesse prima esperimentato quella realtà sulla quale deve sorvegliare. Vedere! questo è il punto essenziale”. Marta Cartabia, prima di diventare ministra della Giustizia, aveva fatto con la Corte Costituzionale un viaggio importante nelle carceri proprio perché consapevole che “bisogna aver visto”. Certo “aver visto” è tanto, però è solo un inizio, bisogna anche ascoltare incessantemente chi il carcere lo vive sulla sua pelle, ma il fatto è che la parola a chi il carcere lo ha vissuto e lo conosce da anni non la sta dando quasi nessuno, e quasi nessuno porta come esempio quel magistrato, di cui parla Calamandrei, che aveva chiesto di stare per qualche mese in un reclusorio, prima di esercitare la funzione di giudice di sorveglianza. Le domande del Volontariato oggi sono tante: è cambiato qualcosa rispetto all’ascolto delle persone detenute? qualcuno le ascolta davvero? si confronta con loro? insegna loro, ma anche impara da loro, perché questa dovrebbe essere la rieducazione? riconosce loro la dignità di parlare di se stessi e della propria condizione in prima persona, e non sempre attraverso qualcun altro, che dovrebbe farsi portavoce della sofferenza altrui? Io faccio volontariato in carcere con Ristretti Orizzonti, che il prossimo anno “festeggia” le sue nozze d’argento con la galera, 25 anni in cui abbiamo ascoltato e raccolto le parole di migliaia di persone detenute (e anche di tanti operatori, addetti ai lavori, esperti, ma loro la voce per lo meno ce l’hanno autonomamente), eppure fatichiamo enormemente a vedere riconosciuto questo nostro ruolo. Mi è capitato tra le mani in questi giorni un libretto di don Milani dal titolo “L’obbedienza non è più una virtù” e ho pensato che in carcere invece spesso L’OBBEDIENZA è ANCORA UNA VIRTU’, e noi siamo considerati fastidiosamente poco obbedienti. Io prendo parte spesso a convegni dove si parla di carcere, ascolto, imparo, parlo, quindi ho il massimo rispetto dei luoghi dove si riflette sulla realtà delle pene e del carcere, però basta leggere Con gli occhi del nemico, il saggio di David Grossman, lo scrittore israeliano che vive dentro uno dei più duri conflitti del mondo contemporaneo, per capire che forse bisogna fare di più per conoscere quelli che la società considera “nemici”: “Quando abbiamo conosciuto l’altro dall’interno, da quel momento non possiamo più essere completamente indifferenti a lui. Ci risulterà difficile rinnegarlo del tutto. Fare come se fosse una ‘non persona’. Non potremo più rifuggire dalla sua sofferenza, dalla sua ragione, dalla sua storia. E forse diventeremo anche più indulgenti con i suoi errori”. “Conoscere l’altro dall’interno”: il Volontariato, il Terzo Settore spesso lo fanno, e quando lo fanno con una presenza continua nelle carceri e uno sguardo critico, non possono non vedere che oggi la vita detentiva è caratterizzata ancora da poco ascolto, da tanta rabbia, da conflitti pesanti, da attesa infinita senza risposte. Chiediamo troppo se chiediamo che a parlare di questa rabbia e questa attesa siano direttamente le persone detenute, e che il tema di una loro rappresentanza elettiva sia messo all’ordine del giorno dalla politica? Chiediamo troppo se chiediamo che la Giustizia riparativa, di cui oggi tutti parlano, sia declinata in tanti aspetti che non siano solo la mediazione tra vittima e reo, ma anche quei percorsi che, per esempio, permettono alle persone detenute di incontrare quelle vittime di reato, che hanno voglia di entrare in carcere e aprire un dialogo con chi è stato causa di tanto male; o quei percorsi dove le persone detenute riparano in qualche modo i danni prodotti dai loro reati mettendo a disposizione degli studenti la loro testimonianza, i disastri delle loro vite, le cadute, facendo così autentica prevenzione? E a proposito di questi progetti, ricordo che a Padova alcuni detenuti, anche dei circuiti di Alta Sicurezza, hanno portato e stanno portando la loro testimonianza in videoconferenza nelle scuole di Reggio Calabria, e questo significa un distacco profondo, difficile, importante dalle organizzazioni criminali di appartenenza. Una parlamentare della sinistra (in buona compagnia con tantissimi esponenti della destra) ha di recente definito la sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo “una sciagurata ordinanza” e ha affermato con categorica certezza come “tutti (diconsi tutti) i processi di mafia attestino che il mafioso lo è per la vita e che la sua rieducazione è sostanzialmente impossibile, con l’unica eccezione della fattiva collaborazione con la giustizia”. A tutte quelle persone che sono così sicure, così categoriche nelle loro certezze che “i mafiosi non cambiano”, possiamo solo augurare che non gli capiti mai di avere un famigliare che finisce in carcere, perché lì le certezze si sgretolano in fretta, e che abbiano l’occasione di ascoltare almeno quei figli che attendono da una vita di vedere per qualche ora il loro padre fuori da quei “cimiteri dei vivi”, come Filippo Turati nel 1904 definì le carceri, dopo averle conosciute a fondo, e non solo viste. *Direttrice di Ristretti Orizzonti e Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Mi dispiace ma non basta “aver visto”. Bisogna averlo camminato tanto, ascoltato tanto di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 19 dicembre 2021 Una frase suggestiva, pronunciata ormai tanti anni fa da una persona straordinaria (e ce ne fossero di così fatte!) ma non mi convince. Non basta aver visto il carcere per comprenderlo. Non basta nemmeno aver sentito i rumori e gli odori. Bisogna averlo camminato tanto, ascoltato tanto, bisogna aver avuto il coraggio di instaurare relazioni complesse, spinose e delicate. In un equilibrio instabile che deve essere continuamente adattato e ristabilito. Con le persone detenute ma anche con gli operatori impegnati ogni giorno in un ambiente non proprio facile. Coraggio e prudenza, curiosità e delicatezza. Una miscela non facile che ti richiede spesso di mettere in discussione ciò che ti sembrava acquisito. E non basta nemmeno una competenza giuridica, pur utile e necessaria, perché il carcere non è solo regole, mura, spazi, metri, parole che cambiano ma realtà immutate. Il carcere sono persone, carne viva, emozioni, storie, culture. E non mi basta che la cella oggi si chiami “camera di pernotto” se poi continua inesorabilmente a essere il luogo dove le persone ristrette passano grandissima parte della loro giornata. Entro in carcere tutte le settimane da più di vent’anni e mi rendo conto che ancora oggi sbaglio quando penso di aver capito tutto. E ogni volta che mi sfugge dalla bocca qualche certezza, chiedo scusa alle persone che in quel luogo ci vivono da 20, 30, 40 anni. Ci vivono ininterrottamente da tutti quegli anni, cioè dormono, si alzano e vivono lì da tutto quel tempo. Per questo ho molti dubbi sul fatto che siano dei magistrati a gestire l’amministrazione penitenziaria, così come mi convincono poco quei volontari che inventano attività rapide ad alta intensità promettendo risultati straordinari, così come tutti quelli che sostengono di aver trovato il modo per ridurre la recidiva avendo in realtà ben pochi dati obiettivi per poterlo dimostrare. Ma molto più mi indignano quelli che sostengono e scrivono che i “mafiosi” non cambiano mai. A meno che non collaborino con la giustizia. E su quali basi poggia questo dato così incontrovertibile? In quale mondo immaginario i “mafiosi” sono un monolite, una categoria compatta, perfettamente assimilabile? Nella redazione di Alta Sicurezza 1 nel carcere di Parma in cui sono impegnata da oltre sei anni tutte le settimane per tre o cinque ore, incontro nove ergastolani ostativi (anche se ormai l’ostatività dovrebbe essere superata ma nei fatti non è così) e nessuno assomiglia all’altro. Sono diversissime le storie e le provenienze, differente il carattere e il temperamento, diverse anche le famiglie e il modo di vivere la carcerazione. E allora? Discutiamo e ci confrontiamo con una sempre maggiore franchezza, costruita pazientemente nelle tante ore trascorse intorno al tavolo della redazione. Non ci facciamo sconti. Reciprocamente coraggiosi (ma sempre rispettosi) nel porci domande scomode e ogni tanto qualcosa ci sorprende ancora. Sempre più spesso in modo positivo. Ad esempio ieri S. che è sempre piuttosto categorico nell’affermare il suo pensiero - dopo aver detto la sua su un tema delicato come il lavoro di “scopino” in Alta Sicurezza - si è fermato un secondo e ha aggiunto: - Beh, perlomeno questa è la mia esperienza… - In tutta onestà devo ammettere che gli avrei fatto una standing ovation se non fosse stato che non era il caso visto il contesto, ma di certo ho pensato che se tu non hai la voglia e il coraggio o la possibilità o il tempo di incontrarle, queste persone, è importante che tu abbia comunque il pudore di sfumare un po’ le tue certezze. E questa considerazione vale un po’ per tutti: per i miei colleghi giornalisti, per i politici che devono fare le leggi e per i magistrati che tengono fra le mani le loro vite. *Giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Orizzonti di Parma I letali rischi dei carcerati al tempo del Covid di Alida Federico piolatorre.it, 19 dicembre 2021 Le precarie condizioni igieniche e la scarsa areazione dei luoghi chiusi, da una parte. Il sovraffollamento e il difficile accesso alle cure mediche, dall’altra. Così nelle carceri dell’era Covid il rispetto dei protocolli sanitari, in primis il distanziamento sociale, è stato messo a dura prova, assicurando al virus una corsia preferenziale di diffusione tra i carcerati. Sono 21 i detenuti che hanno perso la vita a causa del virus da novembre del 2020 a oggi in Italia. E la stessa pandemia, costringendo all’isolamento quale strumento per arginarla, ha finito per rendere ancora più isolato chi isolato lo era già dentro una cella. I detenuti sono tra i soggetti che, come le altre categorie più deboli, hanno pagato più degli altri gli effetti della pandemia, scontando un prezzo ancora più alto di quei problemi strutturali del sistema penitenziario che affliggono molte delle società e che la pandemia ha solo acuito. Tra questi vi è il sovraffollamento carcerario che rappresenta un problema comune per molti stati UE. Ben 10 paesi europei hanno un tasso di occupazione carceraria oltre il 100%, ma è l’Italia a registrare il dato peggiore: 120 detenuti ogni 100 posti disponibili. Peggio di noi solo Cipro (135 detenuti ogni 100 posti disponibili). La Germania, al contrario, ha la migliore performance (69 su 100). Sebbene i dati del Consiglio d’Europa, analizzati da Openpolis e da altre testate giornalistiche europee, facciano riferimento a periodi diversi- alcuni sono del gennaio 2020, altri del dicembre e marzo 2019 - la causa di questa emergenza è da ricercare, secondo il Consiglio d’Europa, nella progressiva estensione dei reati considerati punibili con la detenzione a cui non ha fatto seguito una adeguata riorganizzazione del sistema carcerario. In Italia, la popolazione carceraria è cresciuta progressivamente dagli anni ‘90 ad oggi, fatta eccezione di alcune specifiche fasi. Il riferimento è al 2006, quando si è registrato un forte calo per via dell’indulto approvato con la legge 241/2006, e agli anni 2010 e 2015. Secondo gli ultimi dati a disposizione, risalenti a prima dello scoppio della pandemia a inizio 2020, nelle carceri italiane erano recluse più di 62mila persone, con gravi problemi di sovraffollamento malgrado l’adeguamento della capienza regolamentare delle strutture penitenziarie. L’eccessiva popolazione carceraria rispetto alla capienza delle strutture presenta, tuttavia, delle differenze regionali lungo lo stivale. Secondo i dati aggiornati al 30 settembre 2021, il Friuli-Venezia Giulia è la regione con le carceri più sovraffollate, con un tasso di occupazione pari al 139,5%. Seguono Puglia (127,4%) e Lombardia (126,4%). Quest’ultima è anche la regione in cui, in valori assoluti, è recluso il numero più elevato di persone (7.763) ed è anche quella che dispone della maggiore capienza (6.139 posti), essendo anche la regione più popolosa d’Italia. Solo in 7 regioni del nostro Paese (circa 1 su 3) le carceri non sono sovraffollate. Tra queste, la Sardegna presenta i dati migliori in valori assoluti: nel 2021 i suoi istituti penitenziari disponevano di 559 posti non occupati. In termini di tasso di occupazione, invece, l’isola è preceduta soltanto dalla Valle d’Aosta (75,5%). In riferimento al numero di prigioni, è la Sicilia la regione ad averne di più di tutte (23), seguita dalla Lombardia. Sin dallo scoppio della pandemia i governi hanno messo in atto una serie di misure volte a evitare la circolazione del virus negli istituti. In Italia sono stati in gran parte sospesi i colloqui con le famiglie e gli ingressi esterni di persone con cui i detenuti svolgevano attività lavorative, educative, formative e ricreative. Con la proclamazione dello stato di emergenza, questi provvedimenti sono stati ulteriormente inaspriti, sebbene si sia cercato di sopperire a queste limitazioni introducendo altre misure come il permesso per i detenuti di ricorrere maggiormente a chiamate e videochiamate, per bilanciare la cessazione dei colloqui. Nonostante gli accorgimenti adottati per arrestare la diffusione del virus dentro le carceri, il tasso di positività tra i detenuti si è attestato su cifre superiori rispetto a quelle riferite a tutta la popolazione. Secondo le analisi condotte da Antigone, ad aprile 2020 erano positivi 18,7 detenuti ogni 100mila, contro i 16,8 di tutta la popolazione. Analogamente, a dicembre dello stesso anno, risultavano contagiati dal virus 179,3 carcerati ogni 100mila contro 100,5 tra la popolazione totale, e a febbraio 2021 91,1 contro 68,3. In altri paesi Ue, nello specifico in 12, il tasso di positività al Covid è stato inferiore tra i carcerati rispetto alla popolazione totale (dati Edjnet). Tra questi spicca il Lussemburgo, dove il tasso di positività tra la popolazione totale era maggiore di quasi 6 punti percentuali rispetto alla popolazione detenuta (8,74% contro 3%). In riferimento alle misure restrittive nello scenario europeo, è stata la Spagna (6) ad imporre il maggior numero di provvedimenti di questo tipo, seguita da Portogallo e Croazia (4). Il Portogallo è stato anche lo stato UE ad aver implementato il numero più elevato di misure deflattive (5), seguito da Cipro e Francia (3). Mentre l’unico paese UE che ha introdotto più di una misura compensatoria per i carcerati è stato la Bulgaria (2). Mai più bambini dietro le sbarre di Laura Bianconi L’Opinione, 19 dicembre 2021 Rinnovata la Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti. La Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti è stata rinnovata per ulteriori quattro anni. Il nuovo protocollo d’intesa è stato firmato tra il ministero della Giustizia, l’Agia (“Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza”) e “Bambinisenzasbarre Onlus”. La Carta è un esempio unico in Italia e in Europa, anche se l’esigenza di riconoscere il diritto dei minorenni alla continuità del legame affettivo con i genitori detenuti per sostenerne il diritto alla genitorialità affonda le radici in un’azione molto forte nel nostro Paese, che ha preso forma, soprattutto tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, attraverso due filoni culturali diversi: quello del socialismo riformista di Filippo Turati e quello cattolico rappresentato dalla grande opera di Bartolo Longo. Sono due linee di pensiero e d’azione confluite nella Costituzione della Repubblica ed oggi la Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti ne rappresenta la continuità come strumento per arrivare alla piena attuazione dell’articolo 27 che afferma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Al fine di realizzare una riduzione nella “distanza degli affetti” conseguente alla detenzione, significative sono le misure che la Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti prevede a tutela dei diritti dei bambini, ad oggi ancora costretti a vivere in una struttura detentiva con le madri: attualmente sono 19 i bambini piccolissimi al seguito di 17 madri detenute ed a fine 2019 questi numeri erano più del doppio. Con questo nuovo protocollo le autorità giudiziarie saranno indotte a sviluppare tutte le azioni necessarie a tutela dei diritti dei figli minorenni di persone detenute: verranno poste in essere iniziative in materia di custodia cautelare, di qualità dei luoghi di detenzione, di spazi per bambini nelle sale di attesa e di colloquio, di visite in giorni compatibili con la frequenza scolastica, di videochiamate, di formazione del personale carcerario che deve entrare in contatto con i bambini, di informazioni, assistenza e sostegno alla genitorialità. Inoltre, è ormai ampiamente verificato che la continuità dei legami familiari incide positivamente sul detenuto, nella prospettiva costituzionale della pena che deve essere volta alla rieducazione. La Carta rappresenta senz’altro un obiettivo importantissimo, come ha affermato il ministro Marta Cartabia, “tutti i bambini, anche se con genitori detenuti, hanno diritto all’infanzia”, perché “i bambini non devono pagare le pene inflitte alle madri”. È stato già fatto, quindi, un significativo passo in avanti verso la meta ben definita dallo slogan “mai più bambini in carcere”. Straniero affidato ai servizi sociali nel Paese di residenza di Mara Rodella Corriere della Sera, 19 dicembre 2021 Decisione epocale del tribunale di Sorveglianza di Brescia, che ha concesso una misura alternativa di detenzione all’estero, in Belgio, nel paese dove vive con famiglia e lavora il condannato che aveva da scontare una pena residua di due anni e mezzo. Una decisione che gli avvocati definiscono “epocale”. Di sicuro, senza precedenti. È quella che porta la firma del Tribunale di Sorveglianza di Brescia (presidente Ezia Gardoni, relatore Rosella Gangi), primo in Italia a concedere - in virtù del decreto legislativo numero 38 del 2016 - che un condannato straniero possa eseguire la misura alternativa alla detenzione all’estero, nel Paese in cui vive. Protagonista di questo caso è un cittadino belga di 58 anni, una famiglia e un lavoro a tempo indeterminato. A processo per traffico di droga libero è tornato in patria, la sua condanna è diventata definitiva. Portando con sé l’ordine di esecuzione per la carcerazione (emesso nel 2018 e sospeso): da scontare, la pena residua di due anni, sei mesi e otto giorni. Con una memoria i difensori, gli avvocati Alexandro Maria Tirelli e Federica Tartara, dello studio International Lawyers Associates di Milano, hanno evidenziato come il loro assistito sia ormai “da anni radicato in Belgio, dove ha residenza e impiego stabili” e richiamando il decreto (che a sua volta ha dato esecuzione a una decisione del Consiglio Europeo nel 2008, “volto a estendere agli stati dell’Ue il reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie relative all’esecuzione delle pene non restrittive della libertà personale”), oltre che una sentenza della Suprema Corte del 2019, hanno evidenziato la possibilità, per il condannato straniero residente all’estero, di “espiare la misura alternativa alla detenzione per paese in cui siano radicati i propri interessi economici e gli affetti famigliari”. Ricorso accolto. Per il Collegio bresciano, previo parere del sostituto pg Cristina Bertotti, “ricorrono le condizioni di legittimità e merito per l’accoglimento dell’istanza di affidamento in prova ai sevizi sociali da eseguire in Belgio”. A tal fine trova applicazione, appunto, il decreto 38 del 2016, sulla scia della decisione del Consiglio Europeo. Un orientamento del resto già “sancito” anche dalla Cassazione, nonostante, spiega l’avvocato Tirelli, le precedenti tredici richieste avanzate dai colleghi (e quattro da lui) siano state “valutate dai tribunali alla stregua del fanta-diritto”. Tutte rigettate, tranne una. Questa. Il condannato in questione ha precedenti datati e nessuna pendenza in Belgio. “Si aggiungono - scrivono i giudici - le notizie positive fornite dalle forze dell’ordine in Belgio, investite della richiesta per mezzo del Dipartimento degli Affari di Giustizia, che hanno rappresentato la sussistenza di un domicilio adatto per la fruizione della misura e la disponibilità di una valida attività lavorativa”. Nulla osta, quindi, all’accoglimento della domanda di affidamento in prova ai servizi sociali. In questa partita, spiega l’avvocato Tirelli, un ruolo importantissimo l’ha giocato anche il procuratore generale Guido Rispoli, che “facendosi parte attiva si è interessato alla vicenda e ha contattato la magistratura belga affinché procedesse con le verifiche del caso. Brescia si è dimostrata innovativa, segnando una rivoluzione in grado di creare un precedente giudiziario che tratteggia un prima e un dopo. Da parte mia, un encomio alla magistratura lombarda che oggi si sta indubbiamente dimostrando tra le più illuminate, consentendo l’ammodernamento dell’ordinamento giudiziario”. In calce alla sentenza, l’elenco di tutte le prescrizioni che il condannato dovrà osservare, affinché questa misura sia garantita nel tempo. Csm, tanti nodi ancora da sciogliere di Giulia Merlo Il Domani, 19 dicembre 2021 Tutte le notizie giuridiche della settimana, il dibattito tra magistrati e avvocati, le novità legislative e l’analisi delle riforme. La prossima settimana dovremmo finalmente avere a disposizione gli emendamenti ministeriali alla riforma dell’ordinamento giudiziario. A quel punto sarà possibile offrire una riflessione più articolata sul terzo pilastro delle riforme previste dal Pnrr. In attesa, tuttavia, il dibattito non si è placato. Anzi, le novità emerse dopo i colloqui tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e la maggioranza hanno animato le riflessioni tra gruppi associativi nella magistratura, che trovate riassunte in questa newsletter. Sul fronte del dibattito, l’entrata in vigore del decreto legislativo sulla presunzione di innocenza è lo spunto per il segretario di Unicost, Stefano Latorre, di esprimere la sua posizione critica sul testo, che già è stato oggetto di approfondita disamina. Inoltre, uno spunto di riflessione storica: il 12 dicembre è stato l’anniversario della strage di Piazza Fontana. Una fase buia della storia della repubblica, raccontata e attualizzata dal giornalista Enrico Deaglio. Tempi e contenuti del ddl di riforma - Gli emendamenti del governo al ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario arriveranno in consiglio dei ministri la prossima settimana. Ma, come ha sottolineato la ministra Marta Cartabia, il testo “non sarà blindato” e quindi potrà essere discusso e modificato dal dibattito parlamentare. Questo significa che il governo non è orientato a mettere la fiducia sul testo, come già stato per il ddl civile e penale. Il testo dovrebbe arrivare in aula a Montecitorio a gennaio, prima dell’elezione del capo dello stato, per poi essere approvato successivamente. Il termine ideale è quello di luglio, quando si svolgeranno le prossime elezioni del Csm che dovrebbero avvenire con la nuova legge elettorale. Il clima in maggioranza resta buono, ma restano alcune differenze sulle quali il responsabile di via Arenula sta mediando. In particolare, l’aspetto controverso riguarda il sistema elettorale del Csm: il centrodestra e in particolare Forza Italia, infatti, promuove il sorteggio temperato rispetto alla soluzione maggioritaria pensata dalla ministra. Controverse sono anche le regole per disciplinare le porte girevoli, ovvero il passaggio dei magistrati alla politica e poi il rientro in toga. Le posizioni sulla legge elettorale del Csm - I gruppi associativi della magistratura, da divisi che erano nel giudizio sul sistema proporzionale del singolo voto trasferibile contenuto nella bozza Luciani, commentano in maniera più compatta l’ipotesi di sistema maggioritario anticipato dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per la prossima elezione del Csm. L’unico gruppo non contrario a quanto anticipato è quello di Magistratura indipendente. Il segretario, Angelo Piraino, ha detto che “Del nuovo sistema elettorale del Csm possiamo valutare solo le linee fondamentali, che prevedono meccanismi di voto che non si prestano ad accordi opachi tra correnti, accorciano la distanza tra l’elettore e l’eletto e garantiscono un adeguato numero di candidati e una adeguata rappresentanza di genere”. Tuttavia, prima di dare una valutazione preferisce aspettare il testo scritto. Su tutt’altra linea gli altri gruppi associativi. Il coordinamento di Area ha pubblicato un duro comunicato in cui scrive che “la linea di intervento ministeriale è molto lontana dalle attese e dalle esigenze di riforma della magistratura e dell’autogoverno orientate a rimuovere le cause della deriva correntista e clientelare drammaticamente emersa negli ultimi due anni”. Secondo Area, con il sistema maggioritario, bi-nominale e a unica preferenza in collegi di grandi dimensioni “si determina che gli eletti saranno tutti riferibili ai due gruppi associativi che raccolgono i maggiori consensi, così lasciando fuori le altre identità culturali”. La paura di Area è che l’effetto sia quello di uno strapotere della politica nel Csm: “Due gruppi contrapposti che, alternativamente, acquisiranno una maggioranza relativa di scarsa misura, verrà di fatto dominato dagli eletti dal Parlamento, che costituiranno il vero ago della bilancia. Questa dinamica rischierà di aumentare il peso della politica e dei partiti sulle scelte del Csm”. Dello stesso avviso anche Autonomia & Indipendenza, secondo cui la riforma contiene “il rischio di un rafforzamento di tutti quegli elementi di sistema che la riforma vorrebbe combattere. La persistente presenza di un sistema maggioritario rafforzato dalla presenza di collegi binominali, con modestissimi correttivi proporzionali, verrebbe infatti a sopprimere il pluralismo di vedute all’interno del Csm contribuendo a realizzare una sorta di bipolarismo giudiziario destinato ad ideologizzare la magistratura ed a renderla definitivamente subalterna ai gruppi politici”. Inoltre, A&I sottolinea come la riforma non tocchi la componente laica, che nel caso Palamara ha avuto la sua quota di responsabilità. In un documento, Unicost scrive che il meccanismo del maggioritario binominale “non realizza l’obiettivo di ridurre il peso delle correnti, poichè i candidati, per avere chances concrete di elezione, avrebbero comunque bisogno dell’appoggio di un gruppo”. Con una interpretazione simile a quella di A&I, aggiunge che il sistema “porterebbe alla formazione di due poli contrapposti, non funzionale al ruolo del Csm che non ha esigenze di governabilità, bensì di rappresentanza di tutte le componenti culturali della Magistratura. Di conseguenza, i laici diventerebbero ago della bilancia nelle scelte del Csm”. Infine, anche Magistratura democratica esprime “il suo dissenso più netto rispetto a questo sistema di elezione di un organo che non ha necessità, per il suo funzionamento, di garantire la formazione di una stabile maggioranza”. Anche perchè, secondo Md, questo sistema non garantisce il necessario pluralismo nè una adeguata rappresentanza di genere. Paradossalmente, si legge, “il sistema proposto conduce a risultati esattamente opposti alle finalità dichiarate di eliminare “il potere delle correnti”, che sceglieranno per ciascun collegio “il” candidato, concentrando su questo le preferenze, in modo da farlo arrivare almeno secondo”. Le porte girevoli con la politica - La riforma dell’ordinamento giudiziario contiene anche un capitolo per disciplinare le porte girevoli tra magistratura e politica e collocamento fuori ruolo. L’argomento è tornato al centro del dibattito dopo il caso Maresca della settimana scorsa, quando si è saputo che l’ex candidato sindaco del centrodestra e oggi leader dell’opposizione in comune di Napoli prenderà servizio alla corte d’appello di Campobasso. La cosa è possibile secondo il testo unico sugli enti locali e il suo non è l’unico caso, ma la riforma dovrebbe renderlo impossibile. La questione del grande numero di fuori ruolo è stata recentemente sollevata con una interpellanza urgente al governo dal deputato di Azione, Enrico Costa, visti i dati sulla carenza di organico nei palazzi di giustizia e sulla mole di arretrato che appesantisce i tribunali. Elezioni Csm. Anm: “Riforma Cartabia rafforza correnti” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2021 L’Anm contro la ministra della Giustizia Marta Cartabia, per il merito della riforma del Csm, e per il metodo: convocazioni formali delle parti interessate, ma poi, dice nella sostanza l’Associazione dei magistrati, la ministra non recepisce le osservazioni. Venendo al merito, nel documento approvato ieri dal “Parlamentino”, con 22 sì e 11 no, l’Anm si dice “fortemente contraria” al sistema elettorale per i togati del Csm, il maggioritario bi-nominale: “Qualsiasi sistema maggioritario privilegerebbe gruppi maggiori, aumentando il potere che si vuole limitare” delle correnti. “È essenziale, prosegue, che il Csm sia rappresentativo di tutti i magistrati”, il pensiero è al proporzionale puro. Quanto al metodo, ha dichiarato il presidente Giuseppe Santalucia, quella dell’Anm è stata “una consultazione anomala, una forma di ascolto, più che di confronto”. Inoltre, la ministra “non ci ha sottoposto nulla di scritto. Non mi sembra il miglior modo di coinvolgere l’ordine giudiziario nel momento in cui si fa una riforma che dovrebbe sanare i mali”. L’unica corrente che ha votato contro il documento è la conservatrice MI, che ha avuto come leader Cosimo Ferri, ora deputato renziano: sbagliato “il no secco”, non si sono colti “i lati positivi” anche se “non è la riforma che avevamo in mente”. Astenuti i 3 membri di Articolo 101, gli unici a favore del sorteggio. Dal ministero, invece, filtra il cambio di idea della Cartabia su insistenza di M5s: sarà bloccare il ritorno in toga dei magistrati entrati in politica. La versione di Caiazza: “È la carriera unica a fiaccare la terzietà nei confronti del pm” di Errico Novi Il Dubbio, 19 dicembre 2021 Il presidente dei penalisti: “Il giudice deve riuscire in uno sforzo di consapevolezza tale da diffidare, diciamo così, del pubblico ministero, rispetto al quale è terzo nel processo. Ma quel pubblico ministero, ricordiamolo, proviene dal suo stesso concorso”. “La terzietà, signori, è un’ipotesi. Un’astrazione. Che si realizza in tanti giudici, sia chiaro. Ma in tanti altri fa fatica a venire fuori. E lo si vede, certo, anche dalle distorsioni del controesame. Aspetto cruciale nella formazione della prova ma che, come il Dubbio ha raccontatolo in questi giorni, spesso finisce per essere complicato dall’atteggiamento del giudice”. Gian Domenico Caiazza interviene su un fenomeno raccontato dal Dubbio ma di solito ignorato dal mainstream: gli ostacoli posti dal giudice nei confronti della difesa. La questione è riemersa al processo per la morte del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, in particolare durante il controesame dei teste d’accusa. Caso emblematico, certo non un isolato. A parlarne al nostro giornale è stato l’avvocato Renato Borzone, difensore di Lee Elder, uno dei due giovani Usa condannati all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso il militare. Borzone è stato l’avversario di Caiazza al congresso che ha eletto presidente l’attuale vertice dell’Unione Camere penali. Circostanza che un po’ ricorda come l’ostruzionismo da parte dei giudici durante il controesame sia un problema davvero trasversale per i penalisti. Presidente Caiazza, sono i segnali di un nuovo modello processuale in cui la riduzione dei tempi fa premio su tutto, garanzie comprese? Intanto diciamo che la logica dell’efficientismo, che non vuol dire efficienza, del produttivismo come obiettivo principale e prioritario, è molto condizionante nell’operato dei giudici, non da ora. Altra premessa: io non mi sento di operare generalizzazioni, molti giudici fanno scrupolosamente il loro lavoro, e non è quella di comprimere i tempi della difesa la loro prima preoccupazione. Dopodiché ce ne sono tanti altri che spesso compiono interventi, in particolare in fase di controesame, in modo fin troppo pressante: come se l’approfondimento del tema della prova potesse costituire un intralcio, superati certi limiti e certe soglie. Ancora: è vero che il nostro codice lascia al giudice il potere di governare la prova, di eliminare le prove superflue o ridondanti. Ma detto tutto questo, il problema c’è, e si verifica proprio quando il giudice si spinge oltre tale potere di selezione. E come si spiega? Con una diffidenza nei confronti dell’avvocato, che persino il giudice considera segnato dalla colpa di schierarsi col malfattore?… Ecco, qui siamo di fronte a un altro profilo della questione. Inevitabilmente e strettamente connesso con la terzietà, con la cultura e la consapevolezza della propria terzietà di cui ogni magistrato giudicante dovrebbe essere provvisto. Ebbene, nel nostro sistema penale, tale cultura della terzietà non può radicarsi in un oggettivo elemento ordinamentale perché, come ben sappiamo, le carriere di requirenti e giudicanti non sono separate. La terzietà è un aspetto cruciale nella formazione del giudice, ma è affidato esclusivamente alla cultura del singolo, e per questo finisce per essere più un’eccezione che la regola. Ecco cosa significa non avere carriere separate... Il giudice deve riuscire in uno sforzo di consapevolezza tale da diffidare, diciamo così, del pubblico ministero, rispetto al quale è terzo nel processo. Ma quel pubblico ministero, ricordiamolo, proviene dal suo stesso concorso, condivide con lui la stessa appartenenza associativa, e molto semplicemente è legato a lui, al giudice, dalla frequentazione quotidiana degli stessi uffici. Ed ecco che fatalmente il giudice è spinto a percepire il proprio ruolo come contrario all’operato del difensore. Un dato gravissimo... Che noi avvocati percepiamo molto spesso. E che d’altra parte non è ascrivibile praticamente mai a una prava volontà di alterare gli equilibri fra le parti: è un atteggiamento spiegabile con riflessi condizionati. Il giudice si sente istintivamente portato a preservare l’apparato accusatorio. E più vede il teste d’accusa in difficoltà, più accorre in suo aiuto, fino a contenere di molto l’efficacia del controesame condotto dal difensore. In pratica viene meno il senso stesso del controesame... Certo, anche considerato che il controesame del teste d’accusa da parte del difensore, così come quello ad opera del pm sui testi della difesa, può essere condotto anche con metodi suggestivi, con tecniche di pressione, anche psicologica, in modo da poter smascherare l’eventuale mendacia del teste. Ebbene, soprattutto quando la pressione del difensore mette in difficoltà un ufficiale di polizia giudiziaria chiamato a testimoniare dall’accusa, si assiste al soccorso del giudice. È la stessa logica in base alla quale Davigo chiede da anni di risparmiare, agli ufficiali di pg, la ripetizione in dibattimento delle dichiarazioni rese in fase preliminare... Sì, solo che è normale se lo dice Davigo, un pm, non se a tale schema aderisce un giudice. Ma ci risiamo con il nodo della comunanza delle carriere. Gli obiettivi di taglio dei tempi imposti dall’Ue come condizione per il Recovery fund rischia di esasperare gli atteggiamenti sbrigativi dei giudici? Purtroppo me lo aspetto. E invece vorrei tanto che quell’ansia da riduzione dei tempi si dirigesse verso i tempi morti del processo. Non sull’attività che noi difensori possiamo finalmente svolgere nel dibattimento. Come Ucpi lo abbiamo detto a Reynders, il commissario Ue alla Giustizia, che abbiamo incontrato durante la sua visita in Italia: sappiamo che la critica europea più ficcante riguarda la durata dell’appello, più che tripla rispetto al resto dei Paesi membri, ma è necessario tenere presente che nella maggior parte dei giudizi di secondo grado c’è solo una, dico una, udienza. Se abbiamo più imputati, si può arrivare a tre, massimo quattro. Parliamo di pochi mesi di processo vero. Gli altri 4 anni e 9 mesi trascorrono perché, semplicemente, il fascicolo è fermo. E allora perché ve la prendete con noi avvocati e siete sempre pronti a contestarci le troppe domande? Accordo sui giudici onorari: è rivolta di Liana Milella La Repubblica, 19 dicembre 2021 Per il governo il massimo possibile, per loro “una proposta umiliante e indecorosa”. Nella manovra al Senato arriva la proposta per stabilizzare 4.770 giudici onorari. Per la ministra della Giustizia Marta Cartabia un passo in avanti, ma tutte le associazioni di categoria protestano. Cinquemila anime in pena da vent’anni. Per la precisione, a oggi, 4.770. Dati aggiornati dal Csm. Sono i precari della giustizia, di cui Repubblica ha via via raccontato le vicissitudini, raccolto le testimonianze, come quella del giudice di Parma Livio Cancelliere che a luglio, a piedi, è venuto dalla Guardasigilli Marta Cartabia per descrivergli l’umiliazione del suo lavoro da precario della giustizia. Un piccolo esercito: 1.124 giudici di pace, 1.969 giudici onorari di tribunale (i Got), 1.677 vice procuratori onorari (i Vpo). Sono il pilastro della giustizia in Italia. E non si occupano solo di tutte le cause minori. Vanno in aula e giudicano nei processi “normali”. E sempre in aula sostengono la pubblica accusa. Quindi sono giudici a tutti gli effetti? Purtroppo no, non lo sono mai stati. Loro sono convinti di sì, sentono di esserlo. Ma lo Stato - che non ha i soldi per pagarli come dovrebbe e garantirgli le tutele che sono la regola per gli altri lavoratori - dice di no, e li mortifica da sempre. E per la legge italiana non saranno veri giudici, come quelli ordinari, neppure domani. Ma parificati al personale amministrativo. Anche se la Corte di giustizia del Lussemburgo ci ha bacchettato, e la Commissione Ue ha aperto una procedura d’infrazione che adesso ha costretto via Arenula ad affrontare il caso. Dunque siamo a uno snodo, che vede da una parte il governo e la ministra della Giustizia Marta Cartabia. E dall’altra loro, le toghe onorarie, per l’ennesima volta insoddisfatte e sul piede di guerra. Perché? È presto detto. E le notizie sono freschissime. Giusto di ieri. Frutto di una lunga trattativa. Al Senato, nell’ambito della manovra, in commissione Bilancio, è giunto l’emendamento del governo con la piattaforma per stabilizzare la magistratura onoraria, che arriva direttamente dalle stanze di Cartabia. In via Arenula la considerano, dopo anni di cronica crisi, una soluzione possibile e accettabile, che accomuna la stabilizzazione e la disponibilità dei fondi. Un compromesso? Certo. L’unico possibile al momento? Parrebbe proprio di sì. Un accordo accettabile? La risposta è sì, vista dalle stanze di Marta Cartabia, la Guardasigilli. Ma dall’altra parte, quella delle organizzazioni sindacali delle toghe onorarie il no è netto, anche drammatico, perfino sdegnato. Dice la Vpo di Milano Monica Cavassa, che fa parte della Consulta della magistratura onoraria: “Ancora una volta si è voluta umiliare la nostra categoria parametrandoci ai dipendenti amministrativi e ignorando volutamente il nostro ruolo negli uffici giudiziari. Sono orgogliosa di essere un servitore dello Stato, ma non sono orgogliosa di servire questo Stato da 22 anni”. La giudice di pace di Napoli Olga Rossella Barone, presidente del Coordinamento Magistratura giustizia di pace, è altrettanto netta: “L’emendamento che il governo si accinge a emanare, contestato fermamente da tutte le associazioni, non è lesivo solo in termini economici e di demansionamento, per le incerte funzioni amministrative, ma lede la nostra dignità di lavoratori, così come riconosciuti anche dalle Corti europee e italiane, ponendoci in una situazione di vero e proprio ricatto che riteniamo inammissibile se applicate in un Paese come il nostro che dovrebbe essere orientato, ancora, al rispetto dei principi costituzionali”. Ma è la lettera che Giulia Bentley, vpo a Palermo da 20 anni, ha appena indirizzato alla ministra Cartabia a contenere toni drammatici. Come questo passaggio: “Un giorno mia figlia, dodici anni appena compiuti, mi ha chiesto perché, dato che stavo male, non rimanevo a casa a riposare invece di andare in udienza o in ufficio per il mio turno di servizio. Le ho risposto che andare al lavoro - io al contrario di quanto fa lo Stato italiano lo considero tale - mi faceva stare meglio. Non ho mentito..., ma ho omesso. Ho omesso di dire che se non fossi andata, a lungo andare avremmo avuto preoccupazioni economiche importanti. E mentre proseguivo la terapia chemioterapica ho continuato, per quanto le forze mi concedevano, a svolgere il mio ruolo di pubblico ministero di udienza, orgogliosamente e senza risparmiarmi. Sono tornata in aula subito dopo l’intervento ed entro i sei mesi...per non rischiare un provvedimento di decadenza dalle mie funzioni”. Ecco, questo succede se eserciti la funzione di vice procuratore “onorario”, un precario pagato a cottimo, che se sta male per sei mesi perde il posto, ma in aula ha il ruolo di vero pubblico ministero. E adesso lo Stato che fa? Leggiamo assieme l’accordo che passerà nella manovra. Presentato ieri, verrà subemendato, ma con la fiducia passerà così com’è. La sintesi è questa: “Il governo si è proposto di riconoscere ai magistrati onorari in servizio al momento dell’entrata in vigore della legge Orlando (cioè il 15 agosto 2017) tutte le garanzie proprie di un lavoratore subordinato, comprese le tutele previdenziali rivendicate, prevedendo la possibilità di una permanenza in servizio fino a 70 anni, previa procedura valutativa di conferma nell’incarico”. Quindi, dice il governo, tutte le garanzie di un dipendente pubblico (previdenza, malattia, maternità), oltre che stabilità del rapporto di lavoro, sono la risposta di un governo che si è fatto carico, con responsabilità, della necessità di intervenire sul tema in un momento storico di ripartenza del Paese”. In sintesi ecco i punti: i magistrati onorari in servizio ad agosto 2017, possono essere confermati a domanda sin quando compiono 70 anni. Chi non accede alla conferma “tanto nell’ipotesi di mancata presentazione della domanda, che nell’ipotesi di mancato superamento della procedura valutativa” avrà un’indennità parametrata agli anni di servizio prestati per un massimo di 50mila euro. E questo è uno dei punti di massimo scontro, perché la somma viene considerata un vero schiaffo in faccia dopo anni di pagamenti a sentenza. Il Csm bandirà tre procedure di valutazione che si svolgeranno tra il 2022 e il 2024. I magistrati onorari confermati potranno optare per l’esclusività dell’incarico oppure no. Chi opta per l’esclusività otterrà un trattamento economico, assistenziale e previdenziale parametrato a quello di “un funzionario amministrativo di terza area in relazione al numero degli anni di servizio prestati oltre l’indennità giudiziaria nella misura del doppio di quella spettante al personale amministrativo”. E qui la collera delle toghe onorarie si fa enorme perché cade proprio la loro principale richiesta: essere a tutti gli effetti giudici come i colleghi ordinari. Verrà riconosciuto anche il buono pasto se l’attività di udienza supera le sei ore. Punto per punto la proposta viene giudicata “umiliante”. Perché, per i prossimi tre anni durante la cosiddetta fase di “stabilizzazione”, ci sarà ancora molto cottimo, con il solo gettone di presenza, il cui valore non è mai stato modificato dal 2003. Lo stipendio sarà parametrato ai dipendenti amministrativi, e non ai giudici. Nonostante l’Europa abbia detto “in modo cristallino” che i giudici onorari sono dei giudici a tutti gli effetti. Una follia aver scelto come data di partenza l’agosto 2017, “cristallizzando in quel momento l’anzianità di servizio, e quindi rubando altri 5-6 anni”. Un affronto i 50mila euro per sanare il passato rinunciando per iscritto a tutti i diritti, dal godimento delle ferie ai contributi previdenziali. Continuerà il sistema dei “doppi lavoristi”, anche in questo caso contro gli inviti dell’Europa. Alla fine, se sei un giudice stabilizzato con un lavoro esclusivo, anziché con una funzione promiscua che ti consente un’altra attività per due giorni a settimana, guadagni 300 euro al mese in più. Le valutazioni di professionalità si svolgeranno tra il 2022 e il 2024, quindi i più giovanni dovranno aspettare ancora 3 anni. Ma quanto sarà lo stipendio? Per 5 o addirittura 7 giorni 1.500 euro. Il commento delle toghe onorarie? Una “proposta del tutto indecorosa”. Caso Lucano. Il capovolgimento kafkiano della realtà di Marco Revelli Il Manifesto, 19 dicembre 2021 Non ho mai condiviso il luogo comune secondo cui le sentenze non si commentano né si giudicano, almeno fino a che non se ne leggono le motivazioni. Ci sono sentenze che gridano vendetta al cospetto di dio fin dal dispositivo. Quella finale che ha chiuso il processo per la strage di piazza Fontana senza nessun colpevole, per esempio. O quella sulla strage ferroviaria di Viareggio. O ancora quella sull’eccidio infinito dell’Eternit di Casale. La sentenza del tribunale di Locri contro Mimmo Lucano e il suo “modello Riace” aveva già fatto inorridire al momento del giudizio (condanne doppie rispetto alle richieste dello stesso Pubblico ministero). Ora, lette le motivazioni (904 pagine), la sensazione di trovarsi di fronte a uno scandalo giudiziario è rafforzata. Non solo un’ingiustizia, ma un capovolgimento kafkiano della realtà: della stessa realtà documentata negli atti processuali ampiamente riprodotti, come se i fatti, nel loro passaggio attraverso il labirinto mentale del giudice, mutassero senso e natura, in una metamorfosi mostruosa che rende i protagonisti irriconoscibili per chiunque li abbia conosciuti, da vicino o da lontano. Così il grande sogno di fare di questo piccolo borgo semiabbandonato della Locride un luogo dell’accoglienza dei migranti e insieme di recupero del territorio (la trasformazione del migrante da problema in risorsa territoriale: questa l’idea geniale che stava dietro quel “modello”) si rovescia, nella rappresentazione giudiziaria, in sordido esempio di “logica predatoria” in cui il denaro pubblico e i progetti ministeriali d’integrazione figurano come meri strumenti “asserviti agli appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica”, di un sindaco criminale. Chiunque sia stato anche solo qualche giorno a Riace, e abbia visto quella comunità (ora distrutta) farsi giorno per giorno, e la vita ritornare tra le antiche pietre, sa quanto “pulito” fosse quel progetto. Evidentemente chi ha in mente solo la sporcizia della vita, vede tutto sotto questa forma. E infatti i soliti giornali della peggior destra si sono riconosciuti immediatamente in quell’aberrazione giudiziaria, facendola propria. Libero, quello che a suo tempo aveva sparato in prima sui migranti che “Dopo la miseria portano malattie” ora titola: “La sentenza che inchioda Lucano e la sinistra”. Gli fa eco il Tempo - che i migranti li butterebbe a mare - con “Lucano derubava i migranti”. Spiace che al coro truculento si accodi sul Fatto anche Marco Travaglio con un tombale: “Accusati di essere troppo cattivi con Mimmo Lucano, dalle motivazioni della sua condanna scopriamo di essere stati troppo buoni”. Lucano - a differenza di molti difesi da Libero e dal Tempo e fustigati da Travaglio, non si è messo nemmeno un centesimo in tasca. Lo scrive lo stesso giudice che “l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca”, anche se subito aggiunge che questo “nulla importa” perché lui sa bene che l’utile, il furbacchione (termine di Travaglio) lucrava comunque, in immagine, successo politico, investimento per la vecchiaia (l’estensore delle motivazioni immagina di entrare nella testa stessa dell’imputato, per leggervi le reali intenzioni, non suffragate da nulla). A ben guardare i crimini di Lucano si ridurrebbero a tre: l’aver trattenuto più a lungo dei 900 giorni permessi un certo numero di migranti (i cosiddetti “lungo permanenti”, a cui sono dedicate decine e decine di pagine); l’aver investito alcune somme dei sussidi statali in migliorie del contesto (un frantoio, alcune case-albergo) per attrezzare il territorio ad una adeguata abitabilità; aver speso in concerti e spettacoli al fine di attrarre attenzione e turisti nel borgo. Le cose che ogni buon sindaco dovrebbe fare, soprattutto in quelle aree interne a rischio di abbandono di cui tanto si parla e per cui tanto poco si fa. Il tutto con un certo numero di forzature e di violazioni amministrative (che sono indubbie, ma che non meritano certo sanzioni riservate neppure ai colpevoli di reati di mafia). Chi lavora in quei contesti sa benissimo che se non si consolida la permanenza nei luoghi, se non si radicano i nuovi abitanti a un tessuto vivo e capace di produrre reddito, le misure di accoglienza sono come acqua sulle pietre. Ma né i giudici di Locri né i virtuosi della penna al veleno lo sanno, e comunque non gli interessa. Conta lo spettacolo crudele della virtù infangata nella terra dei troppi vizi ‘ndranghetisti. E a proposito di vizi, si è accorto Travaglio, leggendo “le carte”, del ruolo non certo secondario nella damnatio di Mimmo Lucano, svolto da un certo Michele Di Bari, al tempo prefetto di Reggio Calabria: l’uomo che tenne nel cassetto una relazione dei propri ispettori elogiativa per Riace e che innescò l’azione della Procura contro il suo sindaco? È lo stesso alto funzionario voluto da Matteo Salvini, quando era ministro dell’interno, al Viminale a occuparsi di contrasto ai migranti e costretto di recente alle dimissioni perché la moglie è indagata per una brutta storia di caporalato e di sfruttamento dei migranti. A ognuno i propri amici. E nemici. Mimmo Lucano e l’accoglienza da campeggio libero di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 19 dicembre 2021 Le motivazioni della sentenza che a settembre lo ha condannato alla pena di tredici anni e due mesi di reclusione. Non più “pasticcione ma buono”: piuttosto, astuto predatore. Non più Robin Hood ma sceriffo di Nottingham travestito da ribelle. La sentenza di Locri contro Mimmo Lucano dice di peggio, nelle motivazioni, di quanto avesse detto a settembre nella pur pesante condanna a tredici anni e due mesi. Perché non si limita a spiegare quello che a molti era apparso un verdetto di durezza smisurata: sfigura il mito che in questi anni una certa intellighenzia e tanta sinistra radicale a corto di simboli hanno edificato attorno all’ex sindaco di Riace e alla sua Città del Sole. Quel mito si reggeva, al di là delle evidenze processuali, su un assunto: l’esibito disinteresse di Lucano per il danaro, col suo conto corrente da 800 euro. L’uomo poteva finanche aver sbagliato, però a fin di bene, incorrendo insomma in “reati di umanità”. I giudici, cucendogli addosso l’abito di capo d’una combriccola volta a lucrare sull’accoglienza tramite carte false, spiegano che persino quell’ingenuo pauperismo era fasullo: poiché i complici del boss erano di fatto sue teste di legno, da cui attingere alla bisogna. Siamo al primo grado: e dunque Lucano avrà modo e tempo di rovesciare l’immagine di spregiudicato narcisista della politica che si trova ora sulle spalle. Persino alcune sue (sconcertanti) intercettazioni potranno trovare una lettura meno indiziante e univoca. Ma ciò che resta senza appello è una certa idea d’accoglienza, da campeggio libero: l’illusione che per gestirla basti spalancare le braccia. I guai di Riace, col loro carico di menzogne e retorica, mostrano come certi abbracci possano nascondere zone d’ombra dove qualsiasi mala gestione è possibile; come all’accoglienza vera servano mente fredda e rendicontazione certa, se non si vuole dar fiato alla peggiore propaganda xenofoba. Sicché una certa sinistra dovrebbe dedurne quanto sia meglio un bravo ragioniere che un presunto santo. E magari virare sul modello belga di Bart Somers, il sindaco di Mechelen capace di coniugare integrazione e legalità pur ospitando 128 nazionalità e 15 mila islamici su 87 mila residenti. Da liberale, non salutava a pugno chiuso dalla finestra; ma ha messo all’angolo un’estrema destra ipertrofica con una ricetta davvero rivoluzionaria: regole certe, per tutti, senza sconti. Milano. Senza fissa dimora sgomberati e dormitori aperti di Salvatore Frequente Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2021 Comune: “Erano in condizioni disumane e pericolose”. Mutuo Soccorso: “Gli avete buttato coperte e tende”. La polizia è intervenuta per invitare le persone senza fissa dimora a recuperare i beni essenziali e a trasferirsi, per la notte, in una struttura attivata dal Comune. L’assessorato alla Sicurezza: “Non c’è stata costrizione né sgombero”. L’associazione: “E’ questa la città inclusiva? Le strutture in questione sono senza una barzelletta” Sono le 18.30 di una fredda serata di dicembre. La temperatura sfiora gli zero gradi e decine di agenti della polizia locale iniziano a bloccare l’accesso ai tunnel dietro la stazione Centrale di Milano. Si tratta degli attraversamenti stradali che passano sotto i binari della ferrovia, utile snodo per il traffico cittadino e, ormai da tempo, uno dei ripari preferiti dei senza fissa dimora che trovano protezione dalla pioggia e dalle intemperie del rigido inverno milanese. L’arrivo delle volanti giovedì sera segna l’inizio dell’operazione di sgombero degli accampamenti di fortuna presenti nei 4 tunnel (Mortirolo, Zuccoli, Lumiere, Lunigiana). Un intervento durato diverse ore: i senza fissa dimora vengono invitati a recuperare i beni essenziali e a trasferirsi, per la notte, nel più vicino dormitorio attivato dal Comune con il “Piano freddo”. L’imperativo è uno: da lì devono andare via. Tutto quello che rimane (materassi, coperte, sacchi a pelo e altri oggetti) viene smaltito e portato via dagli operatori e dai mezzi dell’Amsa. In piena notte l’operazione è conclusa, i sottopassi sono vuoti e puliti e le persone senza fissa dimora sparite. La notizia però si diffonde, alcune associazioni denunciano sui social quanto accaduto: “Polizia e Amsa si mobilitano per buttare le coperte, i materassi e le tende dei senzatetto della città. Quindi è questa la Milano inclusiva di cui tanto ci si vanta?”, scrive su Facebook l’associazione Mutuo Soccorso, una delle più attive in città nel sostegno di chi vive per strada. La polemica è aperta. Poche ore dopo l’assessore alla sicurezza del Comune usa lo stesso mezzo per chiarire il punto di vista dell’Amministrazione: “Bivaccare sotto i tunnel non è umano e decoroso, è anche molto rischioso. Spesso si generano episodi di violenza. Meglio dormire nelle accoglienze, a partire da quelle a bassa soglia come il mezzanino”, scrive su Facebook l’assessore Marco Granelli che ha coordinato l’operazione. “Questo intervento del Comune di Milano con Polizia Locale, Servizi sociali con le unità mobili del piano freddo, ha evitato a numerose persone che ogni notte dormono nei tunnel una situazione inaccettabile”, aggiunge. E qui arriva la prima contestazione delle associazioni. “Passavo per caso nei pressi di uno dei tunnel e ho assistito a tutto. C’erano 40 agenti e un funzionario dell’assessorato alla sicurezza”, racconta al FattoQuotidiano.it uno dei volontari di Mutuo Soccorso: “Quando abbiamo chiesto dove fossero gli assistenti sociali ci ha risposto, allargando le braccia, che li stavano aspettando”. “Arriveranno solo dopo un’ora e mezza” quando quasi tutti i senza fissa dimora erano già andati via. “Molti di loro sono migranti irregolari e, alla vista delle forze dell’ordine, sono scappati via per paura di finire in un centro di rimpatrio”, aggiunge. “Il fatto che gli assistenti sociali siano arrivati con un’ora e mezza di ritardo è una prova del fatto che quello non era un intervento per la dignità dei senzatetto, ma solo un’operazione di sicurezza pubblica per ripristinare il decoro di un’area centrale di Milano”, commenta. Tutto questo mentre la polizia locale diffidava i presenti a scattare foto e video (e, proprio per evitare problemi, il volontario di Mutuo Soccorso ha chiesto di omettere il suo nome). “Non è stato un intervento di sgombero”, replicano dall’ufficio stampa dell’assessore Granelli: “La polizia locale è intervenuta anche per la sicurezza di queste persone. È stato detto loro che ci sono dei posti nel Comune dove andare a dormire. Se volete andate lì, se non volete vi chiediamo comunque di allontanarvi. Non vi è stata nessuna costrizione”. Subito dopo è partito l’intervento di smaltimento e pulizia dell’Amsa. “A queste persone - ribattono da Mutuo Soccorso - è stato detto di portare via quello che volevano perché il resto sarebbe stato buttato, ma come potevano fare? Mica potevano chiamare l’amico con il furgone per portare via il materasso. Quella era tutta roba recuperata, loro non avevano altro”. Smaltiti tra i rifiuti anche le tende e gli accampamenti di chi non era presente, commentano dalle associazioni. “Ma se li lasciano lì nel corso della giornata forse vuol dire che per loro non sono elementi primari”, è la replica alla contestazioni dell’ufficio stampa. Sta di fatto che, alla fine, come rende noto l’assessore Marco Granelli, “nel mezzanino della stazione Centrale sono arrivate 30 persone alle quali, in questo modo, è stato evitato di passare la notte all’addiaccio ed è stata data una sistemazione dignitosa e un pasto caldo”. Ma anche su questo punto arrivano altre critiche. “I dormitori di Milano sono una barzelletta, di quelle che non fanno ridere”, scrive Mutuo Soccorso: “Sono posti freddi, senza acqua calda, con letti pieni di cimici e liste d’attesa infinite. Ogni dormitorio ha una lista e chiamarli tutti ogni giorno, per scoprire se c’è posto è assolutamente disfunzionale per chi è in situazione di fragilità”. “Invece è dignitoso dormire per strada in mezzo alle macchine?”, replicano dall’ufficio stampa dell’assessore, sottolineando che si tratta di “posti riscaldati, con dei letti e non dei materassi per terra. Viene dato loro da mangiare e se hanno bisogno si possono lavare”. “Così come sono i dormitori non funzionano, per questo la gente preferisce dormire fuori sotto i ponti”, ci dice Roberto, un altro membro di Mutuo Soccorso: “Queste strutture dovrebbero essere meglio organizzate, con più posti e meno concentrati. Queste persone vanno seguite di più”. Dormitori che, ovviamente, sono aperti solo la sera: di giorno, anche nelle giornate fredde e piovose, le persone senza fissa dimora tornano per le strade di Milano. E alcuni di loro, da giovedì, hanno anche qualche coperta in meno per proteggersi dal freddo. La Spezia. Raccolta di alimenti per i detenuti ospiti di Villa Andreino La Nazione, 19 dicembre 2021 Si allarga l’iniziativa benefica ‘Siamo tutti Babbo Natale’, organizzata dal gruppo Terziario Donne di Confcommercio, da un’idea di Laura Porcile e Andrea Buondonno, con la collaborazione dell’associazione Vittoria, per raccogliere regali da distribuire ai bambini che si trovano a Gaggiola, ai figli dei detenuti e delle famiglie più fragili, al centro antiviolenza Irene e al centro antiviolenza ‘Mai più sola’, ai genitori in difficoltà, a chi accede alla mensa di Gaggiola per un pacco alimentare o di vestiario, ai detenuti del carcere di Villa Andreino e a chi è ospite in una comunità. “Nel carcere della nostra città - afferma Porcile - vi sono detenuti che versano in gravi difficoltà economiche, perché soli o lontani dalle famiglie, perché la loro posizione nella società è, fin da prima, ai margini. D’accordo con gli operatori di Villa Andreino raccoglieremo anche generi di prima necessità che di volta in volta consegneremo alla casa circondariale. Alimenti sigillati, scatole di pasta, pane, biscotti, merendine, riso. Formaggi, carne, salumi, sigillati sottovuoto. Niente liquidi e nulla con del vetro”. Intanto i regali per i bambini stanno già sfiorando quota 100. Tutto può essere portato al De Terminal, dalla banchina Revel, o in Confcommercio, nella sede di via Fontevivo. Info: 347 9660922. Avellino. Al Circolo della Stampa mostra degli articoli realizzati dai detenuti avellinotoday.it, 19 dicembre 2021 “Il nostro desiderio è di poterci reinserire nella società”. Nella giornata di oggi è stata presentata la mostra di articoli locali nelle carceri dell’avellinese presso la sala dell’Ordine dei giornalisti di Avellino. La mostra promossa dall’ufficio del Garante Regionale dei detenuti d’intesa con le direzioni delle carceri di Avellino, Ariano Irpino, Lauro e Sant’Angelo dei Lombardi si è svolta presso la Sala dell’Ordine dei giornalisti di Avellino con i prodotti realizzati dai detenuti e dalle detenute degli istituti di pena della provincia di Avellino. Sarà possibile visitarla nei giorni 18 dicembre dalle ore 10:30 alle ore 17:00 e 19 dicembre dalle ore 09:00 alle ore 14:00. Sono state anche coinvolte Associazioni e Cooperative che entrano con progetti di inclusione sociale dentro questi istituti e che operano costantemente negli Istituti di pena della provincia di Avellino. Per il Garante campano Samuele Ciambriello: “Questo è uno stimolo per gli enti locali, per i singoli cittadini, per le Caritas, per le associazioni del terzo settore, partecipare a questi due giorni di mostra che serve anche a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del carcere che spesso e rimosso. Ringrazio il direttore del carcere di Avellino, così come la direttrice del carcere di Ariano Irpino. Qui ci sono dei piccoli miracoli. Ringrazio la magistratura per aver autorizzato alcuni detenuti a stare qui. Mentre altri cercano di costruire muri, il garante cerca di costruire ponti. Il carcere non può essere una discarica sociale. Il messaggio che dobbiamo dare oggi e anche in vista del Natale è uno soltanto: andiamo oltre le mura dell’indifferenza”. Alcuni dei prodotti esposti sono stati presentati da Alfonso, uno dei detenuti del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi: “Siamo cinque detenuti e ci occupiamo di questa piccola azienda agricola presente nella casa circondariale. Io sono molto contento che oggi abbiamo avuto questa occasione. Ringraziamo la direttrice e gli operatori. Sicuramente è una giornata molto diversa dalle altre. Le carceri di oggi non somigliano per niente a quelle di qualche anno fa. Il nostro desiderio, ovviamente, è di poterci reinserire nella società”. Massa Marittima (Gr). “Orti in carcere” proseguirà in futuro. Gucci: “E’ una rinascita” La Nazione, 19 dicembre 2021 L’assessore al sociale: “Oltre al contesto detentivo viene garantito anche il reinserimento sociale”. Il progetto “Orti in carcere” proseguirà. È iniziato a febbraio grazie ad un finanziamento di 30mila euro della cassa “Ammende” ottenuto dal Comune di Massa Marittima nell’ambito di un progetto della Regione Toscana per la formazione di detenuti. Nella prima fase sono state messe a dimora 20 piante di olivo ed è iniziata la coltivazione di piante aromatiche in cassone, oltre alla potatura delle piante da frutto e degli olivi già presenti nei terreni del carcere e alla predisposizione un impianto di irrigazione basato sul recupero dell’acqua piovana. I possibili sviluppi del progetto, nella seconda fase, saranno la raccolta delle olive e la produzione interna di olio evo aromatizzato. Ma la finalità principale è quella di garantire ai detenuti una formazione professionalizzante, da spendere nel mercato del lavoro una volta scontata la pena. La logistica del progetto, dalla creazione delle superfici ortive alla formazione dei detenuti è stata curata dalla Cooperativa Melograno. “È un progetto di speranza e di rinascita - commenta Grazia Gucci, assessore comunale alle Politiche sociali - che permette ai detenuti di non sprecare il tempo trascorso in carcere, impiegandolo nell’acquisizione di nuove competenze, in modo da imparare un mestiere per potersi ricostruire una vita fuori, una volta scontata la pena. Viene così garantito anche in un contesto detentivo, il diritto della persona al reinserimento sociale e all’acquisizione di una formazione lavorativa specializzata. Sarà fondamentale per il successo di Orti in Carcere la collaborazione delle realtà imprenditoriali locali”. Catanzaro. Giustizia in Calabria, prospettive per una cultura dei diritti dei minori ilreggino.it, 19 dicembre 2021 A Catanzaro il convegno organizzato dal Coordinamento delle Camere Minorili della Calabria: “La dimensione calabrese: umanità e avvocatura, un patto che si rinnova”. Qual è la situazione della giustizia minorile in Calabria? A fornire alcuni dati ci ha pensato il Convegno organizzato dal Coordinamento delle Camere Minorili della Calabria: “La dimensione calabrese: umanità e avvocatura, un patto che si rinnova. Dall’avvocato in scarpe da tennis al compagno di cammino”. L’evento organizzato all’interno delle celebrazioni per il ventennale della fondazione dell’UNCM, avvenuta proprio a Catanzaro il 15 dicembre 2001, ha voluto sottolineare la peculiarità della situazione della Calabria all’interno del territorio italiano, nel variegato mondo della giustizia minorile, ove sono evidenti le differenze tra regione e regione e spesso all’interno delle stesse esperienze regionali. I lavori della mattina, aperti dall’avv. Raffaele Figliano con un intervento sull’ operato del coordinamento delle camere minorili sui diversi territori Calabresi, hanno visto dopo i saluti istituzionali del presidente del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro Teresa Chiodo e del procuratore presso il Tribunale dei Minorenni Maria Alessandra Ruperto e alcuni interventi programmati, lo svolgersi di una significativa tavola rotonda, coordinata dal responsabile scientifico del Coordinamento, avv. Pasquale Cananzi, che ha delineato gli scenari sociali, psicologici, antropologici e giuridici nei quali la felice intuizione fondativa dell’Unione oggi impegni gli avvocati e chiami a ulteriormente evolversi, partendo dalla interdisciplinarietà e specializzazione dell’esperto in materia minorile e familiare. Protagonisti sono stati poi i ragazzi ospiti dell’IPM di Catanzaro e della Comunità di Reggio Calabria che con la loro partecipazione hanno reso evidente, quanto di buono viene messo in campo per il loro recupero e la loro integrazione nella società dei giovani attraverso percorsi virtuosi. Nel pomeriggio c’è stato il collegamento con l’evento nazionale: Dentro il domani che, in occasione della ricorrenza, ha visto l’intervento del socio fondatore dell’UNCM, avv. Giuseppe Marino, il quale ha inteso sottolineare la unità e la condivisione con le quali svolgono la loro meritoria attività di formazione e supporto all’avvocatura ed ai TM, le Camere Minorili della Calabria che sono ben cinque per i distretti di Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria, Lamezia, Vibo Valentia e Palmi. L’occasione è stata utile per portare all’attenzione nazionale, le difficoltà del territorio calabrese, dove mancano servizi, strutture e soprattutto politiche giovanili adeguate. Sono emerse comunque nelle conclusioni della giornata importati prospettive per una cultura dei diritti dei minori, una formazione unitaria interdisciplinare allargata ai diversi operatori del settore, per un linguaggio comune ed una unità di intenti, la possibilità di creare sempre maggiori sinergie con i Tribunali e le Procure minorili, attraverso formazione, protocolli ad hoc e prassi comuni su tutto il territorio regionale. Caltagirone (Ct). La mostra in cui detenuti del carcere diventano fotografi di Simona Arena meridionews.it, 19 dicembre 2021 “Scatti testimoniano la condizione di anime sospese”. Una mostra che è soprattutto un’esperienza non solo visiva, ma emozionale. A cominciare dagli autori delle foto fino ad arrivare al luogo dove verranno esposte. A restare incuriosito dalle immagini immortalate dai detenuti del carcere di Caltagirone - finito di recente al centro dell’attenzione anche per due omicidi avvenuti al suo interno - è stato l’architetto Giovanni Leone. È lui che ha proposto all’Istituto per l’incremento ippico di allestire all’interno delle sue stalle l’esposizione che sarà inaugurata sabato 18 dicembre. “Il visitatore sarà costretto a stare in una cella così come gli autori delle foto - spiega a Meridionews. Quando però si girerà vedrà le immagini scattate da chi di solito è osservato e in quest’occasione è diventato osservatore”. Blocco 200 Anime sospese è il nome della mostra realizzata con la regia di Arianna Di Romano. “Una fotografa isolana, sarda di nascita e siciliana di elezione, che - continua Leone - dopo avere fatto numerose campagne fotografiche intorno (in giro per il mondo a fissare volti di persone e luoghi) ribalta il processo e va all’interno, della casa circondariale di Caltagirone e della testa dei detenuti, mettendo loro in mano la macchina fotografica e dando voce a immagini che regalano nuovi occhi all’osservatore - prosegue Leone -. La mostra collettiva è il risultato di un corso di fotografia per detenuti tenuto dalla maestra di fotografia. Gli autori degli scatti esposti sono la stessa fotografa e i detenuti che hanno seguito il corso ma non sono indicati nelle fotografie”. La mostra è stata esposta un mese fa al del centro equestre del Mediterraneo della Tenuta Ambelia “che ha una convenzione per l’inserimento lavorativo”, spiega l’architetto. Da lì la proposta di portarla a Catania. “In questo modo facciamo conoscere anche il centro di via Vittorio Emanuele 508. È un’occasione per visitare l’istituto che ha un fascino tutto suo”, va avanti Leone. L’esposizione sarà visitabile il mercoledì e il sabato di mattina dalle 9 alle 12 fino all’11 febbraio. “Si potranno apprezzare foto interessanti, sguardi inediti che vanno osservate senza fretta per acquisire nuovi occhi e vedere cosa racchiudono immagini che fissano un istante di libertà - commenta - In una foto l’osservato è la guardia carceraria che sta al centro dell’inquadratura, figura sfocata perché rappresenta il ruolo non la persona, a fuoco sono invece le sbarre inutilmente permeabili a uno sguardo murato”. Nelle foto si vedono esposte alle finestre sbarrate scarpe di detenuti, un mazzo di chiavi in mano. “La foto che più di ogni altra racconta la condizione di anime sospese è quella con le due figure attraverso la finestra di una porta blindata che serve a sorvegliare ma in questo caso le persone stanno fuori e sono dentro, in una condizione di sospensione tra apparenza e realtà, sono senza volto, sagome di una trama di rete e sbarre che raccontano la negazione dell’individuo a vantaggio - conclude - dell’indistinto, rappresentano un’identità smarrita, sospesa”. Roma. Rebibbia, detenuti-attori recitano terzine di Dante Alighieri “latitante fiorentino” di Laura Martellini Corriere della Sera, 19 dicembre 2021 Il 2021 ha riportato gli spettatori nell’ auditorium del carcere e nella sala Enrico Maria Salerno, dopo un anno sospeso, difficile, segnato dalla paura, dalle rivolte, dall’isolamento. Si conclude il Rebibbia Festival, dopo lunghi mesi di laboratori di cinema e teatro, spettacoli, rassegne cinematografiche che hanno coinvolto centinaia di persone in uno stato di costrizione, e altrettante che varcano i cancelli per dialogare con loro partendo dal terreno comune dell’arte e della poesia. Il 2021 ha riportato gli spettatori nell’Auditorium del carcere e nella sala Enrico Maria Salerno, dopo un anno sospeso, difficile, segnato dalla paura, dalle rivolte, dall’isolamento. “Rebibbia lockdown”, il docufilm di Fabio Cavalli presentato alla Mostra del cinema di Venezia, prodotto da Clipper Media con Rai Cinema e Luiss Guido Carli, racconta quell’anno di svolta attraverso gli sguardi e le vite di agenti e detenuti. E l’ansia di libertà è al centro della performance teatrale più vista delle ultime stagioni: “Dante Alighieri latitante fiorentino”, con i detenuti-attori del Teatro Libero di Rebibbia, nella speranza infine di “uscire a riveder le stelle…”. Sono disponibili sulla pagina facebook @teatroliberodirebibbia i video, le foto, le gallerie virtuali delle opere dei detenuti-artisti che hanno contribuito anche quest’anno ad animare il Rebibbia Festival. Piazza Armerina (En). “Voci da dentro”, debutta il coro gospel del carcere Giornale di Sicilia, 19 dicembre 2021 Un coro composto tutto da detenuti che ha cantato nel carcere di Piazza Armerina. Protagonisti di questo insolito spettacolo, un inedito gruppo corale, l’Infirmary and Prisoner gospel Band, diretto da Roberto Mistretta, in arte Cohiba, musicista e musico terapeuta, coadiuvato dalla psicologa Viviana Arangio, con il coordinamento degli educatori del carcere, Ivana La Rocca e Giovanni Giannone e con il coinvolgimento del medico di guardia Noemi Rinaldi e delle infermiere che prestano servizio in istituto. All’evento hanno partecipato, tra gli altri, il capo di gabinetto della Prefettura, Giuseppina Addelfio, il questore di Enna, Corrado Basile e Rosanna Provenzano, direttrice dell’ufficio esecuzione penale esterna di Caltanissetta. Al suono dei classici del Natale come “O Happy Day” ed “Hey man” e brani tipici quale “O when the saint go marching in”, il coro ha emozionato tutti. Il progetto “Battiti da dentro” - L’evento, dal titolo, “Voci da dentro”, rappresenta il terzo momento di un’azione progettuale che ha coinvolto diversi detenuti dell’Istituto penitenziario di Piazza Armerina. Iniziata a gennaio 2021 con il progetto “Battiti da dentro” ha lavorato molto sui processi di consapevolezza, sull’esperienza di gruppo e sull’utilizzo di tecniche narrative e musico terapeutiche. Il gruppo, lo scorso 21 giugno, ha inoltre partecipato alla festa della musica eseguendo diversi brani con l’uso degli Jambè esibendosi nel cortile del carcere di Piazza Armerina. Ci saranno anche i corsi di ceramica e pittura - “Grazie a tutti i presenti - ha detto Antonio Gelardi, direttore dell’istituto - Nonostante le limitazioni Covid ci siamo incontrati e questo mi permette di farvi gli auguri di persona. Poi, permettetemi di ringraziare tutto il personale delle aree sicurezza, educativa, segreteria, ragioneria, sanitaria, per tutto il lavoro fatto durante l’anno. E questo coro ne è una delle prove”. Il direttore Gelardi ha, nell’occasione, presentato le attività di prossimo avvio all’interno della casa circondariale di Piazza Armerina, quali il corso di ceramica e pittura ed il progetto biblioteca proposto dall’Uepe di Caltanissetta. Un’occasione per un Natale diverso - “Quello di oggi è un evento nato per regalare ai detenuti e, forse un poco, anche a noi stessi un Natale diverso, provando a dimenticare per un solo istante, una vita difficile, fatta di ostacoli e scandita dal rumore dei cancelli”, ha detto il medico del carcere, Noemi Rinaldi. Tutto questo è stato possibile grazie alla collaborazione portata avanti fra la direzione del carcere e Giovanni Bevilacqua, dirigente scolastico del Cpia di Caltanissetta-Enna che hanno lavorato per offrire ai detenuti un nuovo progetto di vita che passa attraverso l’istruzione e la rieducazione sociale della detenzione. “La musica, è un veicolo potentissimo di benessere e di interazione sociale che può aiutare ad abbattere il muro del pregiudizio e favorire un momento importante di integrazione e di speranza”, dice il dirigente scolastico, Giovanni Bevilacqua. Una novità assoluta è stata così rappresentata dal collegamento in streaming con le diverse sedi di Caltanissetta ed Enna del Cpia (centro per l’educazione per adulti), un modo anch’esso per fare partecipare la comunità esterna ad un momento significativo della vita del carcere. L’esibizione si è chiusa con il bis e poi il tris del brano Feliz navidad e con spettatori, anche i più autorevoli, commossi e con gli occhi, lucidi. I piccoli rom nel fuoco della nostra inciviltà di Elena Loewenthal La Stampa, 19 dicembre 2021 Quanto è crudele a volte il mondo, che al solo guardarlo fa orrore: succede ogni volta che muore un bambino. O due, come è successo ieri nel campo rom di Stornara, nel foggese: una bimba di quattro anni e un bimbo di due, cui vorremmo anche soltanto dare un nome perché un nome è la vita, e invece loro due sono morti bruciati sotto la loro baracca, dentro i loro lettini. Per colpa chissà se di un bidone d’olio adibito a braciere di fortuna o di una improvvisata stufa a legna. Certo, dovremmo indignarci prima di tutto per come vivevano quei due bambini, prima di morire bruciati: in mezzo ad altre mille persone, quasi tutti cittadini bulgari, nello squallore, nell’abbandono, senza uno straccio servizi primari. Un luogo dove l’unica cosa che abbonda è la spazzatura - oltre all’amianto delle lamiere. Certo, dovremmo indignarci prima di tutto per tutto questo. Ed è quasi una tragica beffa del destino anzi un terribile presagio, il fatto che proprio nei giorni scorsi sia stato pubblicato su “Avvenire” un appello di professionisti e intellettuali, fra i quali Luigi Manconi, Edith Bruck, Domenico Starnone e tanti altri, contro la discriminazione delle persone rom, sinti e camminanti. Però quando ci sono due bambini che muoiono, tutto il resto fa un passo indietro, sullo sfondo del mondo. Due bambini che muoiono a due e quattro anni gridano la rabbia, l’ingiustizia, l’impotenza, lo sgomento. L’assenza di parole. Che pena, che strazio, che scena inaccettabile. Quel fuoco che ha distrutto tre unità abitative, cioè tre baracche di Stornara, grida al mondo la cosa più brutta che possa mai succedere e che pure è successa milioni di volte. Perché la morte di un bambino nega tutto - ogni civiltà, ogni progresso, ogni umana ambizione. Perché la morte di un bambino è la cosa più intollerabile che ci sia. È la sconfitta più grande. Per chi lo ha messo al mondo, perché l’ha visto vivere, per chi l’ha visto morire. Per tutti. E poi, una volta urlato tutto questo al cielo e alla terra di fronte a quei due fratellini morti nel letto per colpa di una lingua di fuoco, dell’incuria e dell’abbandono che erano tutto il loro mondo, l’unico che conoscevano, non possiamo non dirci che quel loro brutto mondo tutti noi ce l’avevamo e ce l’abbiamo sotto gli occhi. E allora, oltre a non sopportare la morte di due bambini perché ogni morte di bambino è insopportabile, bisogna imporsi di fare in modo che non accada più. “I migranti hanno il diritto di opporsi alla riconsegna in Libia”: storica sentenza della Cassazione di Antonio Fraschilla L’Espresso, 19 dicembre 2021 Assolti due naufraghi accusati tre anni fa di resistenza a pubblico ufficiale per aver protestato contro il ritorno nei campi libici. Salvini li accusò di “aver dirottato” il rimorchiatore Vos Thalassa che li aveva soccorsi. L’allora ministro Matteo Salvini li aveva accusati a favore di telecamera di “aver dirottato” il rimorchiatore Vos Thalassa che li aveva soccorsi. Due naufraghi che si erano opposti al ritorno nei campi libici vennero accusati poi di resistenza a pubblico ufficiale. Ne nacque un processo con la procura che sostenne l’accusa. In appello vennero condannati. Ma adesso la Corte di Cassazione ha riformato la sentenza con cui la Corte d’appello di Palermo li aveva condannati per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, violenza e resistenza aggravata a pubblico ufficiale. I due naufraghi soccorsi dal rimorchiatore Vos Thalassa si erano opposti al rimpatrio in Libia a bordo dello stesso mezzo. Il giudice per le indagini preliminari di Trapani aveva ritenuto la condotta legittima difesa “poiché i due giovani, fuggiti dall’inferno libico, avevano agito al fine di salvare sé e gli altri naufraghi dal rischio di patire nuove, gravissime lesioni dei diritti alla vita, alla integrità fisica e sessuale, a tutela della loro prerogativa di essere portati in un place of safety e di ottenere protezione internazionale”. La Corte d’appello di Palermo, il 3 giugno del 2020, aveva riformato la sentenza di assoluzione e condannato i due giovani alla pena di tre anni e sei mesi di reclusione e 52.000 euro di multa ritenendo l’approccio del giudice di primo grado “ideologico” sul rilievo che “tali problematiche devono trovare adeguata soluzione nell’unica sede a ciò deputata, ossia quella politica del confronto interstatuale”. La Suprema Corte ha invece ribadito che il rispetto dei diritti umani è un tema sottratto alle autorità statali, che trova fondamento nelle norme di diritto internazionale a tutela della vita e della integrità della persona affermando che “è scriminata la condotta di resistenza a pubblico ufficiale da parte del migrante che, soccorso in alto mare e facendo vale il diritto al non respingimento, si opponga alla riconsegna allo Stato libico”. “Esprimiamo grande soddisfazione per questa importante pronuncia che, in linea con l’orientamento già espresso nella vicenda della comandante Rackete e, prima ancora, nella sentenza Hirsi Jamaa e altri del 23 febbraio 2012, ribadisce, una volta di più, che le operazioni di soccorso in mare che si concludano con il rimpatrio dei naufraghi in Libia costituiscono una violazione di principio del non refoulement e violano il diritto delle persone soccorse ad essere portate in un posto sicuro dove la loro vita non sia più minacciata e sia garantito il rispetto dei loro diritti fondamentali”, dicono gli avvocati che hanno seguito i migranti, Fabio Lanfranca e Serena Romano. Robot killer, la Conferenza dell’Onu decide di non agire di Francesco Vignarca* Il Manifesto, 19 dicembre 2021 Ginevra. Non si è raggiunto un accordo per una normativa sull’autonomia nei sistemi d’arma. Una minoranza di Stati, tra cui gli Usa e la Russia che già investono pesantemente nello sviluppo di armi autonome, ha utilizzato la “regola del consenso” che vige in seno alla Ccw per tenere in ostaggio la maggioranza della comunità internazionale e bloccare qualsiasi progresso. Una macchina non dovrebbe mai essere autorizzata a prendere decisioni sulla vita e sulla morte di essere umani, che non dovrebbero essere sottoposte a un algoritmo. Eppure oggi sono in pieno sviluppo sistemi d’arma in grado di selezionare obiettivi di attacco senza un significativo controllo umano, nonostante i pericoli di questo scenario siano stati abbondantemente segnalati da esperti e dalla società civile internazionale raccolta nella Campagna Stop Killer Robots (di cui fa parte anche Rete Italiana Pace e Disarmo). La questione dell’autonomia nei sistemi d’arma presenta seri interrogativi per tutta l’umanità. Riusciremo a prevenire un futuro in cui le persone siano uccise dalle macchine? Impediremo una corsa agli armamenti, proteggendoci dalle minacce alla pace e alla sicurezza che deriverebbero da un’ulteriore automatizzazione dell’uso della violenza? Non siamo lontani da uno scenario del genere: a meno che non vengano messi dei vincoli, le armi letali autonome saranno operative entro pochi anni e i sistemi semi-autonomi già attivi dimostrano la tendenza a integrare l’Intelligenza Artificiale nella strumentazione bellica. Una prospettiva tremenda che purtroppo non verrà fermata, almeno a breve, da norme internazionali di messa al bando o regolamentazione. Era questa la speranza di molti alla vigilia della Sesta Conferenza di Riesame della Convenzione delle Nazioni Unite sulle armi convenzionali (Ccw), che ha giurisdizione in materia di sviluppo di nuovi sistemi d’arma. Speranza disattesa in quanto una minoranza di Stati, tra cui gli Usa e Russia che già investono pesantemente nello sviluppo di armi autonome, ha utilizzato la “regola del consenso” che vige in seno alla Ccw per tenere in ostaggio la maggioranza della comunità internazionale e bloccare qualsiasi progresso verso una risposta legale internazionale all’autonomia nei sistemi d’arma. Dopo 8 anni di discussioni e nonostante l’evidenza di una nuova leadership politica globale su questo tema (il ministro degli Esteri austriaco Schallenberg e il ministro neozelandese per il disarmo Twyford hanno chiesto l’elaborazione di una legge internazionale, i nuovi accordi di governo in Norvegia e Germania promettono di agire su questo tema e 68 Stati hanno già chiesto uno strumento legale) la Conferenza di Revisione Ccw, che si è chiusa venerdì a Ginevra, ha deciso di non agire. Il compromesso votato prevede di continuare le discussioni sulle armi autonome nel 2022 per 10 giorni complessivi, con un mandato ambiguo e debole: “Considerare proposte ed elaborare, per consenso, possibili misure, anche prendendo in considerazione l’esempio dei protocolli esistenti”. Fumosa formula diplomatica che significa solo mancanza di volontà di azione, per favorire Stati e industrie che hanno già investito politicamente ed economicamente sullo sviluppo di questi sistemi. Non a caso la Campagna Stop Killer Robots ha commentato duramente che “questo mandato è drasticamente al di sotto della risposta di cui abbiamo bisogno: rappresenta solo una strada verso il nulla” oltre ad essere “una vergognosa risposta al lavoro diplomatico che in questi anni ha cercato di fare progressi. Un fallimento del multilateralismo come risposta ai pericoli chiari e presenti posti dall’autonomia nei sistemi d’arma”. L’Italia, che durante il dibattito si è detta pronta a sostenere un mandato per uno strumento sulle tecnologie per le armi autonome, ha sottoscritto una dichiarazione con altri Paesi sottolineando la propria frustrazione per il fallimento della Ccw. Una Dichiarazione sottoscritta tra gli altri da Belgio, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e Svizzera ha sottolineato come sia “abbondantemente chiaro che i risultati fino a oggi non sono sufficienti per affrontare l’urgenza di questo problema. Al ritmo attuale il progresso degli sviluppi tecnologici rischia di superare le nostre decisioni”. Altri Paesi (tra cui Costa Rica, Argentina, Palestina, Nigeria) hanno invece reiterato la richiesta di un mandato esplicito per l’elaborazione di una norma legale di messa al bando dei killer robots. Medesima prospettiva della Campagna internazionale, che ha esplicitato la necessità di un percorso normativo innovativo e specifico sui killer robots: “Piuttosto che abbassare le nostre aspirazioni, abbiamo bisogno di iniziare un processo che possa rispondere alle sfide etiche, legali e umanitarie che abbiamo davanti. Nel 2022 lavoreremo per lo sviluppo di uno strumento giuridico sull’autonomia nei sistemi d’arma avendo dalla nostra parte la maggioranza dell’opinione pubblica, esperti e ricercatori di intelligenza artificiale e tecnologia, leader religiosi di tutto il mondo e il segretario generale delle Nazioni Unite”. Il sogno è quello di riuscire, come per le mine anti-persona e le munizioni cluster, a ottenere un trattato internazionale negoziato al di fuori delle sabbie mobili degli inconcludenti forum multilaterali. *Rete Italiana Pace e Disarmo Carceri Usa, una lunga storia di tortura di Derek Jeffreys Tempi, 19 dicembre 2021 La denuncia di Derek Jeffreys, studioso e volontario nei penitenziari del paese: “Così il ricorso intensivo all’isolamento devasta da anni migliaia di detenuti”. Più di dieci anni fa, mentre scrivevo un libro sull’etica e la tortura, ho avuto un’esperienza scomoda che ha cambiato la mia vita. Nel libro discutevo di come gli Stati Uniti usassero tecniche di tortura come l’isolamento ad Abu Ghraib, Guantanamo Bay e nei “black sites” della Cia. Ho imparato che gli Stati Uniti usano l’isolamento anche per punire tanti esseri umani nelle loro prigioni nazionali. Ho deciso di scrivere un libro sull’isolamento. Per saperne di più sulla vita in prigione, ho cominciato a insegnare in un carcere e a fare volontariato nella cappella di una prigione. Queste attività sono diventate una parte importante della mia vita. In questa relazione, spiegherò prima come gli Stati Uniti usano l’isolamento; poi descriverò come esso aggredisce la dignità umana; infine, prenderò in esame le ragioni per le quali gli americani raramente riconoscono che l’isolamento può essere una forma di tortura. L’isolamento come metodo - Quando sono entrato per la prima volta nelle carceri, avevo una scarsa conoscenza dell’isolamento. Storicamente, le prigioni ne hanno fatto uso selettivamente per punire le persone che ritenevano problematiche. Tuttavia, negli anni Ottanta, gli Stati Uniti hanno iniziato a usare l’isolamento in modo nuovo e diffuso. Hanno costruito carceri di “massima sicurezza” interamente dedicate all’isolamento e nella maggior parte delle carceri e dei penitenziari hanno creato ali speciali di isolamento. La nostra prigione di Green Bay, per esempio, tiene 150 uomini in isolamento. In questi ambienti, le persone sono isolate in condizioni brutali e incredibilmente rigide per 22-24 ore al giorno, per periodi che vanno da diverse intere giornate sino a decenni. Le prigioni e le carceri usano anche la tecnologia per massimizzare l’isolamento e impedire ai confinati di avere contatti umani. Infine, le autorità fanno rispettare questo isolamento prolungato con squadre di agenti armati che si assicurano con la violenza che i detenuti obbediscano alle regole istituzionali. Gli studiosi stimano che a un certo punto gli Stati Uniti tenevano all’incirca 80 mila persone in isolamento. Il numero attuale probabilmente gira attorno alle 60 mila persone. Le conseguenze dell’isolamento sulle persone - Gli psicologi hanno mostrato al dettaglio come l’isolamento danneggi le persone. Dopo un periodo relativamente breve in isolamento, le persone cominciano a provare emozioni negative come rabbia, paranoia e ansia. Man mano che il loro tempo passato in solitudine aumenta, questi sintomi possono peggiorare e portare a gravi malattie mentali. Sono tanti i detenuti che soffrono di malattie mentali. Alcuni hanno portato questa malattia in isolamento, mentre altri l’hanno sviluppata dopo aver sopportato mesi o anni di vita in solitudine. Di fronte a qualsiasi considerazione seria sulla dignità umana, l’isolamento contemporaneo è un affronto. Ho scritto molto sulla dignità umana e difendo filosoficamente l’idea che tutte le persone possiedono una dignità intrinseca. La dignità non è qualcosa che decidiamo di attribuire alle persone in base a qualche caratteristica; essa è invece una proprietà propria di tutte le persone in quanto persone. Quando isoliamo le persone per lunghi periodi di tempo, denigriamo e aggrediamo questa loro proprietà. Lentamente, esse possono faticare a mantenere il senso della loro identità e la loro comprensione di ciò che significa essere umani. Le istituzioni penali offrono diverse giustificazioni per confinare le persone in isolamento. Certamente possono ravvisare delle difficoltà nella gestione dei detenuti violenti. Tuttavia, non possono nascondere il carattere etico dei loro atti. Usano l’isolamento per danneggiare intenzionalmente le persone, scegliendo di degradare la loro personalità per assicurarsi che si sottomettano alle regole istituzionali. Una forma di tortura - Le Nazioni Unite e altre autorità internazionali sostengono che l’isolamento prolungato può costituire una tortura. Hanno spesso considerato come una forma di tortura qualsiasi misura che superi i trenta giorni di isolamento. Molte nazioni nel mondo concordano con questa conclusione e rifiutano di adottare l’isolamento nelle loro prigioni. Tuttavia, nella loro giurisprudenza e nelle pratiche penali, gli Stati Uniti rifiutano di riconoscere che il trattamento riservato a migliaia di persone si potrebbe configurare come tortura. La Costituzione degli Stati Uniti comprende un emendamento (l’ottavo emendamento) che vieta “pene crudeli e inusitate”. Esso tenta di ridurre la brutalità delle pene e di limitare ciò che lo Stato può fare alle persone che infrangono le leggi. I tribunali hanno talvolta usato l’ottavo emendamento per criticare l’isolamento, ma non hanno stabilito che quest’ultimo costituisce una punizione crudele e insolita. Molti tribunali rifiutano persino di riconoscere che l’isolamento sia una tortura, e gli americani raramente prendono in considerazione tale ipotesi. La resistenza della cultura americana - Gli studiosi offrono diverse analisi dei motivi per cui gli Stati Uniti mostrano una tale riluttanza a riconoscere che l’isolamento è una tortura. Dal mio punto di vista, possiamo rintracciare una spiegazione di questo fenomeno nelle concezioni americane della tortura e del corpo. Troppo spesso associamo l’abuso della pena o la tortura con la sola aggressione del corpo. Non riusciamo a riconoscere i modi non fisici in cui gli esseri umani attaccano lo spirito umano e trattano gli altri come cose o animali non umani. Purtroppo, le persone, in particolare nel secolo scorso, hanno sviluppato tecniche di abuso e tortura che prendono di mira la vita interiore della persona. Sfortunatamente, la cultura americana celebra la tecnologia e le conquiste scientifiche, spesso ignorando il lato interiore della persona umana. Se qualcosa non assomiglia stereotipicamente alla tortura, la gente si rifiuta di considerarla. Un baco nell’eccezionalità Usa - Un’ulteriore ragione per cui gli americani ignorano gli orrori dell’isolamento risiede in questioni di identità nazionale. Nella mia esperienza, sono tanto gli intellettuali di destra quanto quelli di sinistra a resistere all’idea che gli Stati Uniti pratichino la tortura nelle loro prigioni. Durante l’amministrazione Bush, ho trovato una sponda in alcuni noti critici delle sue politiche di tortura. Dopo che quella amministrazione ha lasciato il suo incarico, tuttavia, mi è risultato difficile portare l’attenzione di questi critici a ciò che stava accadendo nelle prigioni nazionali. Anche per i più ferrei critici della politica estera degli Stati Uniti, sembrava inaccettabile pensare che avvenissero torture nelle prigioni, un affronto all’idea che gli Stati Uniti sono una nazione eccezionale sotto il profilo etico. Questa posizione intellettuale mostra una ostinata cecità nei confronti della storia carceraria degli Stati Uniti. Dalla prigione di Auburn nella New York del XIX secolo alle prigioni del Sud in tutti gli Stati Uniti, fino alla prigione di Attica nel 1971, i detenuti sono sempre stati soggetti ad abusi e torture. L’isolamento moderno è solo un altro capitolo di una lunga storia di tortura. La società chiusa fuori - Un’ultima ragione per cui gli americani ignorano il problema dell’isolamento risiede forse nel modo in cui siamo separati dai detenuti. Le prigioni contemporanee compiono sforzi considerevoli per assicurare che le persone che detengono rimangano separate dalle persone libere. Architettonicamente, burocraticamente e tecnicamente, le prigioni americane impediscono alla gente di entrare nelle loro strutture. Spesso, il pubblico sa poco di quello che succede dietro le sbarre del carcere e della prigione. Questo contrasta con molte altre prigioni nel mondo. Recentemente, per esempio, ho letto un manoscritto di un collega irlandese di nome Ian O’Donnell che fa ricerche comparative sulle carceri. Lui spiega come le prigioni etiopi permettano notevoli scambi tra detenuti, parenti e visitatori. Questi scambi consentono ai carcerati di mantenere le relazioni familiari e offrono agli esterni l’opportunità di conoscere ciò che accade nelle prigioni. Questa situazione esiste raramente negli Stati Uniti. Una svolta attesa invano - Molti di noi speravano che la piaga del coronavirus potesse portare le persone a ripensare le nostre politiche penali punitive. Tuttavia, sembra aver avuto poco impatto sulla riduzione sostanziale della popolazione carceraria negli Stati Uniti. Inoltre, molti americani hanno la percezione che il crimine violento stia aumentando. Questa percezione è di cattivo auspicio per i tentativi di ridurre la popolazione carceraria e porre fine all’isolamento. Prima di imbarcarci in un altro momento storico di crescita delle nostre prigioni, gli americani dovrebbero riflettere su come puniamo le persone. È necessario ricorrere all’incarcerazione delle persone a un livello sconosciuto nella maggior parte del mondo industrializzato? Se no, come possiamo ridurre la popolazione carceraria nel quadro attuale, quando molta gente teme un aumento del crimine? Le mie esperienze di volontariato nelle prigioni mi hanno portato a credere che ciò di cui abbiamo più bisogno è l’onestà rispetto alle nostre pratiche carcerarie attuali e storiche. Sì, gli Stati Uniti hanno torturato le persone durante la “guerra al terrorismo”. Tuttavia, questo è stato solo un episodio in una lunga storia di tortura nei confronti di coloro che sono in cattività. Ascoltare quanti hanno sperimentato tale tortura e riconoscere la loro dignità dovrebbe essere un prerequisito per qualsiasi discussione seria sul cambiamento del sistema carcerario americano. Bahrein. Arresti, torture, diritti negati: il volto oscuro della petrodittatura di Domenico Quirico La Stampa, 19 dicembre 2021 La denuncia delle Ong: “Arresti arbitrari e torture sui dissidenti”. Così il monarca sunnita regna da autocrate sulla maggioranza sciita. In Bahrein, regnuccio petrolifero tributario della Arabia Saudita, c’è di tutto: raffinatezze di oriente, cenciume, intrighi, edifici avveniristici e catapecchie, bolidi di Formula uno, harem più o meno segreti, puritanesimo intransigente e dissolutezze nascoste, grandi marchi e spiagge morbidamente sabbiose, bazar, debiti e petrodollari. Dovete aggiungere: torture, paura bruta, divieto di giornali liberi, caccia agli oppositori, divieto di dissenso, pirataggio della rete, polizia e magistratura senza regole. Sì: infondo, salvando le apparenze, è questo l’islam con cui vogliamo accomodarci, modernizzato, senza jihad, con un po’ di tarlato orientalismo e soprattutto l’aria condizionata, la palma e il grattacielo. Buoni affari e rassicuranti leggi contro “il terrorismo”: non si sa mai in questo Oriente ormai così selvatico e impraticabile... E poi per garantire ci sono anche i soldati della base inglese e le cannoniere della quinta flotta americana che ronfano nel porto. Nessuno dei personaggi che figurano in questo articolo è inventato, alcuni di loro a quest’ora forse sono morti, o lo saranno presto. Lottare anche al servizio di una causa impersonale come la democrazia rappresentativa e il rispetto dei diritti umani non è mai una faccenda personale e intima. Quelli che lo fanno, ovunque, dovrebbero appartenerci intimamente, essere i nostri eroi. Già. Per esempio il dottor Abdeljalil Al-Singace perché non è diventato un nostro eroe nonostante gli sforzi degli attivisti per i diritti umani dell’”Americans for Democracy & Human Rights in Bahrain”? Le loro sono documentazioni che si arroventano a toccarle. Al-Singace è un ingegnere di 60 anni, attivista per la libertà, uno degli animosi che hanno creduto nel 2011, dieci anni fa, alla chimera con gli occhietti cattivi dei gendarmi di una primavera araba. Le autorità di questo spietato regno da operetta lo definiscono terrorista che vuole rovesciare il governo e spia di un nemico straniero, ovviamente l’Iran. Ha subito torture e abusi sessuali nel carcere di Jau dove sono richiusi, a seconda degli umori repressivi, tra i duemila e i quattromila oppositori. Lui lotta moltiplicando gli scioperi della fame, l’ultimo nel luglio di quest’anno durato più di cento giorni che gli ha fatto perdere venti chili. È malato gravemente, ha una parestesia ai muscoli degli arti, cade continuamente per i dolori acuti ma non ha diritto a stampelle e a una sedia a rotelle. Le autorità da dieci anni gli negano cure specialistiche. Per ottenere la visita di un cardiologo gli hanno chiesto di indossare la tuta da carcerato e di essere incatenato. Ha rifiutato. La visita è stata negata. Il dottor Al-Singace si batte per la restituzione di un libro, una ricerca monumentale sui dialetti arabi costata quattro anni di lavoro e senza riflessioni politiche. Negata. Chissà se quando vedremo sfilare i bolidi del prossimo gran premio del Bahrein riusciremo a ricordarci il suo nome, a immaginare il primo giorno in cui è stato imprigionato, il rumore, che non ha eguali, della porta della cella che si chiude con fracasso, come un colpo di fucile, e che si smorza, come avviene in prigione, senza eco. Chissà se ci resterà in mente il nome del penitenziario di Jau, il padiglione quindici, dove si pratica intensivamente la tortura e perfino il Covid serve a sfoltire, lasciando volontariamente migliaia di detenuti esposti al virus. E il settantatreenne Hasan Mushaima, leader dell’opposizione politica del movimento Al-Haq, condannato all’ergastolo per aver partecipato alle dimostrazioni del 2011, non è forse nostro? L’attivista è sopravvissuto ad un linfoma, ma le sue condizioni di salute stanno peggiorando. Le autorità di Jau continuano a negargli accesso alle cure mediche. A partire dagli Anni 90 del secolo scorso Mushaima ha lottato per chiedere all’emiro di avviare riforme democratiche, denunciando le elezioni fasulle, accusato di incitare alla violenza e al settarismo. Forse dovremmo immaginarlo, così, scivolando via dalla bolsa retorica della giornata mondiale per i diritti umani: Hasan Mushaima quando ha affrontato il momento terribile dei prigionieri, quando ha provato l’impulso automatico a dire adesso esco di qui e vado via e poi in una frazione di secondo ti accorgi che sei dietro a una porta chiusa dal di fuori e la tua realtà è tutta in questa condizione acuta, lacerante, distruttiva. E gli altri: Abdulhadi al-Khawaja, presidente e co-fondatore del Bahrein Center for Human Rights. Le ultime informazioni indicano un grave peggioramento delle sue condizioni fisiche e di salute. Senza effetti personali, ogni tipo di contatto con la famiglia vietato. O tra i tanti Alaa Mansur Ansaif, studente arrestato senza mandato, pestato, torturato e costretto a confessare pubblicamente. Non ha mai visto un avvocato. Anche loro sentiranno le grida, le urla penetranti inconfondibili dei torturati del padiglione quindici, che ti si annidano nell’orecchio e restano lì anche dopo che l’uomo che grida è stato ridotto al silenzio. Bisognerebbe ricordarsene quando con l’occhio da turista si gira per le vie di Manama impegnati a cogliere il colore locale. E forse dovremmo cercare ovunque tracce e spie di iniquità. Siamo qui sulla faglia del duello tra sciiti e sunniti. La monarchia sunnita regna da autocrate su una maggioranza sciita. C’è anche mezzo milione di lavoratori asiatici a basso servizio, ma quelli non li conta nessuno, non esistono. Il credo politico dinastico è l’allineamento all’assolutismo teocratico dei suoi padrini, Arabia sSudita e Emirati. Quando a Manama fiorì la primavera democratica, centomila in strada, i padroni spedirono i blindati per far rinsavire i manifestanti. Gli sciiti, considerati possibile quinta colonna del satana iraniano, sono paria, tenuti alla larga da cariche importanti, costretti a non mettersi in mostra, ad essere umili. Si cerca in gran fretta di correggere lo scandalo del fatto che gli eretici siano maggioranza: importando sunniti dal Marocco dal Pakistan e da altri Paesi musulmani: il colpo di stato demografico. I processi qui hanno rituali staliniani, da Inquisizione: si esige la confessione pubblica del reprobo, provvede la tortura. Re Hamad Ben Issa Al Khalifa sa come rendere cieche le cancellerie. Compra, di tutto: caccia bombardieri americani che tiene in esercizio spianando le città degli sciiti in Yemen; a Parigi con 66 milioni di euro ha rilevato dalle suore il palazzo Borbone-Condé che gli serve quando scende in vacanza sui boulevard; compra atleti africani come se fossero purosangue o levrieri per vincere medaglie olimpiche; e sistemi di controllo e spionaggio della Rete come l’israeliano Pegasus. Il problema del buon re, sembra incredibile, sono i debiti: spende troppo per camuffarsi da sovrano moderno e paterno, nel 2026 l’indebitamento potrebbe arrivare al 155 per cento del Pil. Provvederà, forse, Riad che gli ha concesso un prestito di dieci miliardi di dollari. A Jau, dopo le grida, di nuovo il sordo silenzio della prigione riempie ogni fessura, come fosse bambagia. La Danimarca vuole mandare 300 detenuti stranieri in Kosovo di Giansandro Merli Il Manifesto, 19 dicembre 2021 La Danimarca affitterà 300 posti nelle prigioni del Kosovo per trasferirci i detenuti stranieri che al termine della loro condanna devono essere espulsi. Lo ha annunciato mercoledì scorso il ministro dell’Interno di Copenaghen Nick Hækkerup del partito socialdemoratico. La misura fa parte di un piano per aumentare la capacità del sistema carcerario e i fondi per le guardie penitenziarie. Negli ultimi sei anni, infatti, la popolazione detenuta è aumentata del 18%, sfiorando i 4mila individui, mentre il personale che lavora in carcere è diminuito del 19%. L’accordo è sostenuto da un fronte politico trasversale: oltre ai socialdemocratici, dal Partito popolare danese, Partito popolare socialista e Partito popolare conservatore. A Pristina, con cui i negoziati andavano avanti da un anno, arriveranno 210 milioni di euro in 10 anni e un aiuto di 6 milioni di euro l’anno per la transizione ecologica. Per il paese balcanico, che ambisce a entrare nell’Ue, è anche un modo per accreditarsi presso gli altri paesi membri e presentarsi come un partner affidabile. L’esternalizzazione dei detenuti stranieri risponde alla stessa logica che ha portato il parlamento di Copenaghen a votare nel giugno scorso una legge per trasferire all’estero i richiedenti asilo. Anche in quell’occasione la misura è stata proposta dal partito socialdemocratico della premier Mette Frederiksen, con il sostegno trasversale di verdi e destre. Nel 2020 i detenuti stranieri da rimpatriare dopo la detenzione nelle carceri danesi sono stati circa 350. Se il paese scandinavo non riuscirà a espellere quelli detenuti a Pristina li porterà indietro per rinchiuderli in centri di detenzione.