Dopo la primavera garantista, segni di “restaurazione” su ergastolo e processi mediatici di Errico Novi Il Dubbio, 18 dicembre 2021 Sono stati mesi diversi per la giustizia. Lontani dal precedente trend del ministro Bonafede, e in generale da anni in cui la politica ha preferito quasi sempre il proclama populista alla Costituzione. A quasi un anno dall’insediamento di Mario Draghi e Marta Cartabia, possiamo mettere in fila: l’addio al fine processo mai, cioè al blocca-prescrizione voluto dai 5S, l’adozione di norme a tutela della presunzione d’innocenza, la disciplina che obbliga i pm a chiedere l’autorizzazione del gip anche per acquisire i tabulati telefonici, il nuovo indirizzo sui dati “statici” custoditi sempre nei cellulari sequestrati, altri aspetti del processo penale che, pur fra qualche timidezza, aprono nuovi spazi per misure alternative e giustizia riparativa. Non è poco, non è il caso di fare gli “ingrati”. Ma è anche vero che ancora non si può parlare di definitivo cambio di passo. Lo si intuisce da alcuni segnali. Il primo è la coesione ritrovata fra Pd e Movimento 5 Stelle sull’ergastolo ostativo: i due partiti hanno condiviso alcuni emendamenti che tendono a stringere molto le maglie per l’accesso dei detenuti ai benefici, secondo una linea non del tutto coerente con le indicazioni della Consulta. E non si può ignorare una reazione piuttosto decisa di alcuni settori della magistratura alla norma simbolo di questa breve stagione, il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza, appena entrato in vigore. Ci sono sì eccezioni apprezzabili e autorevoli, da Raffaele Cantone a Federico Cafiero de Raho, ma una parte ancora molto rumorosa di pubblici ministeri continua a bollare come “abnormi” i nuovi limiti ai rapporti fra stampa e uffici giudiziari. A loro si è associato il nuovo presidente dell’Ordine dei giornalisti, che a propria volta, con un’intervista al Fatto quotidiano, ha bocciato il provvedimento. Da una parte si tratta di una inevitabile reazione. La pur breve stagione garantista ha prodotto un rimbalzo, un ritorno del trend giustizialista. Dall’altra c’è da fare i conti con alcuni segni di immaturità. Nella politica innanzitutto. L’attenuarsi del rinnovamento nella giustizia, che si coglie anche in certe timidezze dell’area moderata sull’ergastolo ostativo, potrebbe in realtà rivelare un’altra cosa, e cioè che la fiammata dei mesi scorsi per le garanzie aveva in fondo anche una matrice politica: era parte di quel processo da cui è uscito sconfitto il Movimento 5 Stelle, culminato nella caduta del governo Conte 2. Sarà un caso, ma nel pieno dell’entusiasmo per il tramonto della maggioranza giallorossa persino la Lega si è scoperta garantista: basti pensare al referendum sulla “giustizia giusta” promosso insieme al Partito radicale. Poi però, passato l’entusiasmo, siamo arrivati al punto che la Lega nemmeno si è impegnata a raccogliere e depositare le firme per i quesiti, accettati dalla Cassazione solo in base alle delibere adottate in cinque Consigli regionali. Il Pd, che pure ha avuto un ruolo non marginale nel superamento della prescrizione di Bonafede, ora torna a camminare insieme con i 5 Stelle sull’ergastolo ostativo. E non si può pretendere che, oltre a Forza Italia e renziani come Lucia Annibali, a tenere alta la bandiera del garantismo sia sempre l’instancabile Enrico Costa, che sulla legge relativa all’ordinamento penitenziario, ad esempio, non ha presentato emendamenti. Intanto la Lega non è certo schierata al fianco di FI, sul carcere, e può anzi ritrovarsi assai più vicina ai pentastellati, al pari di Fratelli d’Italia che addirittura vorrebbe modificare il principio costituzionale del fine rieducativo della pena. C’era da aspettarselo, va messo nel conto, è il segno che la partita sulla giustizia è ancora lunga. Forse si sottovaluta il peso di un passaggio come la riforma del Csm. Materia che sembra scaldare poco i partiti e sulla quale si procede verso un patchwork cucito a colpi di compromessi. E invece dare colpi ben assestati alle degenerazioni del correntismo ma anche agli eccessi discrezionali sulle nomine che hanno corroso, in questi anni, l’autogoverno dei giudici, sarebbe funzionale anche a una più complessiva maturazione del quadro sulla giustizia. Solo con una magistratura sottratta al corporativismo autoreferenziale e coinvolta appieno nel confronto su un nuovo equilibrio con la politica, il garantismo potrà trovare la sponda decisiva. Pensare che davvero possa affermarsi il tempo dei diritti se intanto l’ordine giudiziario non viene accompagnato fuori dal vortice dei conflitti e delle “supplenze”, è una pericolosa illusione. Ergastolo ostativo: un punto nel nuovo testo di legge è ambiguo, se non pericoloso di Davide Mattiello Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2021 Il Giudice della sorveglianza non è Gandalf, non ha poteri paranormali, non prevede il futuro, non ricevendo in dotazione dal Ministero della Giustizia né una palla di vetro, né una bacchetta magica, bisogna che qualcuno avverta i parlamentari. La questione è quella della riforma dell’ergastolo ostativo sulla quale già molte parole sono state spese. Secondo le supreme Corti italiana ed europea è intollerabile che la possibilità di accedere ai benefici carcerari per condannati di mafia (e non soltanto) sia fatta dipendere dalla decisione di collaborare con lo Stato. Questa decisione insomma non può in alcun modo essere “estorta” in cambio del sollievo concesso al detenuto, deve essere una decisione maturata liberamente a prescindere dalle condizioni della esecuzione della pena decise dallo Stato. Quindi è incostituzionale quella presunzione assoluta di pericolosità sociale fissata per legge a carico del detenuto mafioso che non collabori con lo Stato, quella presunzione assoluta che fino a qui ha impedito qualunque valutazione nel merito da parte della magistratura di sorveglianza relativamente alla possibilità di accesso ai benefici carcerari. Bisogna dare atto al Parlamento di avere preso molto sul serio il compito affidatogli dalla Corte Costituzionale di riformare l’istituto giuridico in oggetto, evitando così che a farlo sia ancora una volta la Corte Costituzionale stessa per sentenza. Il Parlamento ed in particolare Pd, M5S e LeU, stanno limando da tempo un testo equilibrato che punta a rispettare il dettato delle Corti senza però aprire immeritati varchi ai mafiosi che da sempre sperano proprio in questa riforma, considerata tra le più importanti per tornare in pista (oltre a questa, in cima alle aspettative mafiose ci stanno la fine dei collaboratori di Giustizia e delle misure di prevenzione patrimoniali). C’è un punto però che resta oltremodo ambiguo, se non proprio pericoloso. In assenza di collaborazione con lo Stato il mafioso detenuto potrà sperare di accedere lo stesso ai benefici carcerari qualora dimostri, tra le altre cose e oltre ogni ragionevole dubbio delle autorità che avranno il compito di verificare tale affermazione, non soltanto di non avere più rapporti con l’organizzazione criminale di provenienza, ma anche che non esista il rischio che questi rapporti possano essere ristrutturati. Non basta la dissociazione, bisogna che ci siano argomenti concreti che fondino la mancanza ora e per il futuro della possibilità di ricominciare a fare mafia sul territorio. Fin qui tutto bene, non si capisce allora perché il Giudice della Sorveglianza nel momento in cui dispone per il detenuto mafioso l’accesso ai benefici, dovrebbe poter disporre anche tutta una serie di misure di sicurezza, cioè di misure di prevenzione personali, volte ad impedire al mafioso di andare in certi posti, di incontrare certe persone, di svolgere certe attività. Ma come?! Delle due l’una: o il rischio della ripresa delle attività criminali c’è o non c’è. Se il rischio c’è, l’attualità della pericolosità sociale e belle che dimostrata e dunque non può esserci accesso ai benefici. Se il rischio non c’è, non c’è bisogno di disporre misure di prevenzione personali. Dunque non soltanto mi pare una grave contraddizione logica insistere nel prevedere questa possibilità da parte del Giudice della Sorveglianza, ma mi pare che possa essere interpretata anche come una spia rivelatrice di una riserva mentale di cui eventualmente i parlamentari dovrebbero assumersi la responsabilità e cioè che si voglia andare ben oltre il dettato delle Corti, annacquando di molto i paletti pure stabiliti nelle sentenze e permettendo di fatto ai mafiosi di tornare in circolazione a prescindere dal rigoroso accertamento dell’assenza del rischio che vengano ripristinati i legami criminali precedenti. Come a dire: andate e moltiplicatevi! Inaccettabile. Concludendo e tornando ai Giudici della Sorveglianza: ma di quali poteri predittivi dovrebbero esser dotati per riuscire a fare una prognosi sufficientemente articolata di tutte le relazioni pericolose che andrebbero vietate, di tutti i luoghi che andrebbero interdetti (come se ormai non esistesse quel “super” luogo chiamato web!), di tutte le attività che andrebbero impedite? Come se le cronache dal carcere sul 41 bis non ci avessero negli anni già consegnato storie tristi di bambini usati per far filtrare notizie criminali. Il tutto esponendo i provvedimenti del magistrato di sorveglianza a ricorsi continui sul piano della legittimità, per non parlare delle pressioni e dei pericoli a cui si esporrebbe in tal modo il magistrato della sorveglianza stesso. Morire di carcere: tante le motivazioni e poche misure preventive di Niva Mirakyan sputniknews.com, 18 dicembre 2021 Intervista a Valeria Verdolini, Sociologa dell’Università di Milano-Bicocca e responsabile di Antigone Lombardia. Purtroppo i problemi nelle carceri italiane non mancano - l’alto tasso di affollamento, le persone straniere detenute che aspettano la condanna definitiva in carcere in percentuale maggiore rispetto agli italiani e il suicidio che è spesso la causa più comune di morte nelle istituzioni penitenziarie. In un solo mese, tra il 25 ottobre e il 30 novembre, nel carcere di Torre del Gallo, a Pavia sono state registrate 3 suicidi. Si tratta di 3 detenuti che scontavano una condanna definitiva: un italiano di 36 anni condannato per estorsione, un uomo 47enne condannato per violenze familiari e infine un romeno di 36 anni che avrebbe dovuto scontare ancora 14 mesi. Cosa si può fare per affrontare la questione dell’affollamento nelle carceri? Per un approfondimento Sputnik Italia ha raggiunto Valeria Verdolini, Sociologa dell’Università di Milano-Bicocca e responsabile di Antigone Lombardia che era una delle osservatrici che ha effettuato la visita nel carcere di Torre del Gallo pochi giorni fa. Dott.ssa Verdolini, quali sono le difficoltà nell’esercitare il controllo che deve essere garantito ai detenuti? Il suicidio è un’azione dolorosa di cui difficilmente si possono individuare le cause. Noi non abbiamo la facoltà di indagare in tal senso, soprattutto perché si tratta di gesti individuali. Tuttavia questo tipo di azioni sono per noi dei sintomi di un malessere. Come l’Associazione ci interessa comprendere se ci sono dei “fattori ambientali” o comunque un tasso di sofferenza che in qualche modo ci ritorna da questo dato. Il suicidio potrebbe accadere per mille motivi differenti ma noi vogliamo capire come questo fenomeno si inserisce in un quadro generale di una struttura che rappresenta di una serie di problematiche. Il carcere di Pavia è una struttura sovraffollata, è una struttura con una fortissima presenza di detenuti protetti (300), una delle più alte del Nord Italia. A questo si aggiunge la presenza della più grande articolazione di salute mentale a livello regionale (12 persone), una struttura che comporta un aumento di psichiatri in organico, e che ha come conseguenza diretta che Pavia sia spesso la destinazione per molti detenuti in una condizione di fragilità psichica. Poi ci sono altri aspetti che non entrano direttamente come possibili cause inferenziali ma che sicuramente non migliorano la qualità della vita nella struttura, come fattori ambientali quali l’assenza di riscaldamento, la fatiscenza delle strutture, la mancanza di attività e di spazi ricreativi. Le cifre sono in crescita paragonando con l’anno scorso? Anche il 2020 è stato un anno particolare per la pandemia da Covid. In generale i numeri sono molto alti - hanno superato 50 suicidi nei 190 istituti. Solo tre di questi a Pavia in un mese rappresentano un dato molto significativo. Dopo il calo registrato nel 2020, torna ad aumentare anche il sovraffollamento dei penitenziari italiani citato spesso come uno dei fattori che incidono sul tasso dei suicidi. È così? È sicuramente una delle ragioni che peggiora la qualità della vita nel penitenziario, però c’è da dire che nel passato sono stati i dati peggiori, che hanno poi portato alla condanna per il sovraffollamento con la sentenza Torreggiani. Per quel che riguarda il presente, nel carcere di Pavia si contano 598 presenze rispetto ai 505 posti. A mio avviso, la sommatoria di molteplici fattori, tra cui quelli sopraelencati, ci restituisce una generale sofferenza nella vita quotidiana negli istituti italiani e in quell’istituto in particolare. Secondo il Consiglio d’Europa le carceri italiane sono le più sovraffollate dell’Unione europea. Il reale tasso di affollamento nazionale (105,6%) è tuttavia superiore a quello ufficiale in quanto, come ricordato dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, a metà giugno 2021 i posti effettivamente disponibili erano 47.445 per un tasso di affollamento reale del 113,1%. Come si può risolvere questo problema: bisogna ridurre la durata delle pene o magari costruire più prigioni, come propongono alcuni esperti? Se vengono costruite nuove istituzioni penitenziarie, verranno subito riempite, come è già accaduto nel 2014. Quindi, questa opzione non funzionerebbe nella pratica. Bisogna ragionare sulle pene possibili e anche su quali possono essere le soluzioni migliori. Dobbiamo tenere in considerazione che il 50% della popolazione carceraria ha una pena inferiore a 5 anni. Quindi, in realtà sarebbe possibile attivare una serie di misure alternative che permetterebbero non solo una migliore integrazione dei carcerati dal punto di vista sociale ma anche una minore sofferenza per coloro che sono costretti a trascorrere la loro vita in carcere. Il carcere in Italia ai tempi del Covid. Com’è gestita la pandemia e soprattutto la crescita dei contagi nelle carceri dove il distanziamento non può essere garantito sempre per il sovraffollamento? Devo ammettere che il sistema penitenziario ha saputo rispondere in maniera efficace alla pandemia. Per come poteva andare è andata abbastanza bene. C’è stata una riorganizzazione degli spazi, delle attività e delle procedure soprattutto durante la seconda ondata. In Lombardia, per esempio, sono stati organizzati gli hub Covid per contenere il tasso dei contagi e centralizzare malati e gestione sanitaria. Dove è possibile, la maggior parte dei detenuti sono stati vaccinati a tappeto già a partire dal mese di marzo. E quindi al momento la situazione è abbastanza sotto controllo… Com’è cambiata la “composizione” sociale del mondo del carcere negli ultimi anni? Qual è il percentuale delle donne e degli stranieri della popolazione carceraria? La percentuale degli stranieri negli ultimi 10 anni a livello nazionale si aggira attorno al 34-35%. Nelle regioni del nord questo dato sale fino a oltre 50%. Nel carcere di Cremona, per esempio, si arriva anche al 70%. Una percentuale così alta è dovuta a molteplici fattori, tra questi possiamo annoverare la minore accessibilità agli strumenti concreti della difesa, la qualità della testimonianza, la capacità di esprimersi in un italiano corretto, la capacità di richiedere una difesa di fiducia, ecc. Per quel che riguarda invece la presenza femminile, questo dato è costante e si attesta attorno al 4% della popolazione penitenziaria. E quali sono i reati i quali in Italia si va in carcere più spesso? Tornando al discorso precedente, ci sono molti detenuti che si trovano nel carcere per i reati connessi alla distribuzione e spaccio delle sostanze stupefacenti. È evidente che se dovesse passare il referendum sulle sostanze in corso di approvazione, ci potrebbe essere un alleggerimento del sistema penale e penitenziario. In generale la maggior parte sono i reati contro la proprietà, quindi raccontano di una sofferenza sociale che non ha nulla a che fare con la pericolosità in senso stretto. In generale, più del 50% dei detenuti ha pene brevi, inferiori ai 5 anni. Marta Cartabia: “Mai più bambini in carcere” di Chiara Pizzimenti Vanity Fair, 18 dicembre 2021 Ci sono 19 bambini piccolissimi al seguito di 17 madri detenute nelle carceri italiane. Per altri quattro anni è stata rinnovata la Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti, un protocollo d’intesa tra il ministero della Giustizia, l’Agia e Bambinisenzasbarre Onlus. Riconosce il diritto dei minorenni alla continuità del legame affettivo con i genitori. Sono più di 100mila i bambini che hanno un genitore in carcere in Italia. È una promessa, una meta e insieme una speranza quella della ministra della Giustizia Marta Cartabia: “Mai più bambini in carcere”. Lo ha detto al momento della firma del rinnovo per altri quattro anni della Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti, un protocollo d’intesa tra il ministero della Giustizia, l’Autorità Garante per l’infanzia e Bambinisenzasbarre Onlus. “Tutti i bambini, anche se con genitori detenuti, hanno diritto all’infanzia. Anche con questa Carta, lavoriamo perché i bambini, innocenti per definizione, non paghino le pene inflitte alle madri. Contemporaneamente, lavoriamo perché si riduca il più possibile quella “distanza dagli affetti” provocata dalla detenzione. Tutti i figli hanno il diritto di conservare un rapporto costante con i genitori, anche se reclusi. Assicurare la continuità dei legami familiari incide inoltre positivamente sul detenuto, nella prospettiva costituzionale della pena volta alla rieducazione. Lavoriamo per carceri che aiutino a dare una seconda occasione”, ha detto la ministra. La Carta riconosce il diritto dei minorenni alla continuità del legame affettivo con i genitori detenuti e vuole sostenere il diritto alla genitorialità. Le autorità giudiziarie devono essere sensibilizzate e invitate a una serie di azioni a tutela dei diritti dei figli minorenni di persone detenute. Oggi sono 19 i bambini piccolissimi che vivono cono 17 madri detenute, ma sono 100mila i bambini che hanno un genitore in carcere in Italia, 2,1 milioni in Europa. Fino al 30 novembre 2021 sono stati 280.675 i colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne. La carta chiede spazi bambini nelle sale d’attesa e nelle aule per i colloqui, la possibilità di videochiamate e di visite in giorni che non facciano perdere la scuola. Per il personale carcerario la richiesta è di una formazione specifica. La Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Carla Garlatti ha spiegato: “Laddove sia nel suo interesse, il bambino ha diritto a coltivare il legame con entrambi i genitori, anche quando uno dei due è detenuto. Ciò deve avvenire in condizioni e con modalità che non siano traumatizzanti e in spazi che favoriscano un rapporto autentico”. La Carta italiana è diventata modello per la prima Raccomandazione sul tema dei Paesi del Consiglio d’Europa nell’aprile del 2018. L’Associazione Bambinisenzasbarre ha fra i suoi principali obiettivi quelle di creare spazi nelle carceri, percorsi alternativi alla detenzione a tutela del rapporto mamma-figlio, gruppi di parola e colloquio per i papà detenuti, attività teatrali in carcere per figli e genitori detenuti, incontri di sensibilizzazione nelle scuole, percorsi di formazione nazionale per la Polizia Penitenziaria. La Presidente di Bambinisenzasbarre Lia Sarcedote, ricorda che “sono i ragazzi che hanno uno o entrambi i genitori in carcere che vivono il peso dello stigma sociale per questa condizione di figlio, il cui destino altri vedono come già scritto. La “Carta” libera questi bambini dall’esclusione, e dal facile buonismo, che toglie dignità alle scelte che la vita può loro proporre, a cui devono poter accedere con la consapevolezza e la forza di rappresentare una promessa per sé stessi e per tutta la società”. Taser, la FpCgil precisa: strumentalizzata la provocazione nella nostra lettera a Cartabia di Michele Bonetti* Il Dubbio, 18 dicembre 2021 Il vostro quotidiano ha pubblicato, in data 17 novembre u. s., un articolo, a firma di Damiano Aliprandi, dal titolo “Sorpresa, la Cgil vuole l’uso del Taser in carcere”. Con la presente la mia assistita si trova costretta a lamentare il contenuto impreciso e fuorviante di tale articolo, privo dei necessari requisiti di pertinenza e continenza, sia sostanziale che formale. L’articolo in parola infatti pare estrapolare in maniera capziosa e fuorviante solo una parte della comunicazione inviata alla Ministra Marta Cartabia. Nella comunicazione del 16 novembre, infatti, la Fp- Cgil, lungi dall’invocare la richiesta di taser per il corpo di polizia penitenziaria, utilizzava, solamente in tono meramente provocatorio, la decisione di fornire in dotazione tale strumento di “arresto non lesivo” alle altre forze di polizia, per portare all’attenzione della Ministra, anche le tante problematiche da tempo insolute, che riguardano il corpo della Polizia Penitenziaria. La comunicazione del 16 novembre infatti si inserisce nel solco delle osservazioni rese dal sindacato alla bozza di “circolare del Circuito Media Sicurezza - Direttive per il rilancio del regime penitenziario e del trattamento Penitenziario”, già inviate in data 12/ 10/ 2021, ove in maniera ampia ed articolata, si affrontano le problematiche del settore: dai carichi di lavoro, alle responsabilità degli operatori penitenziari, dalle criticità operative connesse alla necessità di migliorare le procedure di intervento, allo stato delle strutture penitenziarie, dal trattamento integrato del personale penitenziario, alle capacità ricettive degli istituti penitenziari, alla salute e sicurezza del personale. Su questi punti e aspetti, fondamentali dal nostro punto di vista, non vi è alcuna analisi concreta nell’articolo e la parte da me assistita non è stata in alcun modo interpellata dal Vostro giornale. A fronte di ciò è invece necessario rilevare come, volontariamente, l’articolo pubblicato su “Il Dubbio” abbia inteso strumentalizzare la provocazione contenuta nella lettera alla ministra concentrandosi esclusivamente su di essa ed omettendo qualsivoglia riferimento al reale contenuto della missiva, ove, in un’ottica di più ampio respiro, si legge: “Malgrado il notevole e costante aumento delle aggressioni registrate nelle strutture carcerarie italiane, ancora una volta dobbiamo registrare l’esclusione del personale di Polizia Penitenziaria da provvedimenti che riguardano la generalità delle altre forze di polizia. Spiace inoltre che, dopo l’introduzione del reato di tortura all’interno del sistema penitenziario e il dualismo che lo stesso ha creato con l’art. 42 dell’O. P., la S. V. non abbia ancora predisposto un protocollo per la coerente gestione del servizio ed evitare ulteriori eventi di difficile gestione che, giornalmente mettono a rischio le donne e gli uomini del Corpo. Tantomeno sono state date disposizioni sulle regole di ingaggio nei casi di eventi critici. (…) Così come Le ricordiamo che abbiamo presentato le nostre osservazioni sulla bozza di circolare sul circuito di media sicurezza, senza però ricevere alcun cenno di riscontro concreto da parte Sua nonostante l’insediamento di una commissione tecnica al riguardo. Restiamo ancora in attesa di un suo cortese riscontro e le porgiamo deferenti ossequi”. Tali assunti importantissimi non sono in alcun modo riportati nell’articolo. Evidente dunque come l’articolo in parola, lungi dal riportare una verità storica, tenda solo a screditare l’operato del sindacato attraverso una strumentale e parziale interpretazione della comunicazione inviata alla Ministra. È chiaro come tale pubblicazione, così posta, abbia un contenuto infamante ed illegittimo, volto esclusivamente a gettare discredito sull’attività del sindacato. Affinché l’esercizio del diritto di critica sia correttamente esercitato, la giurisprudenza di legittimità postula il rispetto del principio della verità, del principio della pertinenza e del principio della continenza, il quale, è necessario sottolinearlo, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti in modo che siano evitate gratuite aggressioni e lesioni all’altrui reputazione. Quest’ultimo principio è stato ad avviso della mia cliente violato dall’articolo pubblicato su “Il Dubbio”, considerando che il diritto di critica deve ritenersi superato quando le espressioni adottate risultino pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto allo scopo. La portata dell’articolo è dunque infamante rispetto a quelle che sono le reali richieste del sindacato, nella misura in cui tende a trasmettere un messaggio falso ed ingannevole. Doveroso altresì rappresentare che la notizia diffusa ha una portata diffamatoria oggettivamente in grado di ledere l’immagine della Fp-Cgil. *Avvocato Natale in carcere: ricette, tavole e doni solidali di Antonella Barone gnewsonline.it, 18 dicembre 2021 Dopo la sospensione del 2020 dovuta all’emergenza sanitaria, sono riprese negli istituti penitenziari, sia pure in forma ridotta e nel rispetto delle misure anti Covid-19, le tradizionali iniziative natalizie. Tra i mercatini più frequentati - con 350 visitatori esterni in una sola giornata - quelli della casa di reclusione di Milano Bollate che hanno coinvolto un centinaio di detenuti nell’allestimento degli stand e nella vendita di prodotti artigianali, alimentari e vivaistici. Per la prima volta è stato dedicato uno spazio espositivo alla Polizia Penitenziaria, per far conoscere al pubblico esterno il lavoro degli appartenenti al Corpo. E, a proposito di doni, Papa Francesco riceverà, oltre al primo dei presepi realizzati dai detenuti di Milano Opera con i legni dei barconi dei migranti, anche un altro regalo dall’importante valore simbolico: un ricettario pensato per i suoi gusti gastronomici. Lo hanno realizzato i redattori di ‘Cucinare al Fresco’, progetto editoriale che vanta al suo attivo la pubblicazione di 14 raccolte di ricette scritte da persone che in carcere le hanno sperimentate con ingredienti e strumenti a loro disposizione. La redazione centrale, presso il carcere di Como - dove si lavora ogni giorno agli articoli, al piano editoriale e alla ricerca di idee - si avvale anche della collaborazione di detenuti di altri 12 istituti che inviano i loro contributi per posta o tramite gli operatori penitenziari. Il 21 dicembre in 4 Istituti penitenziari - Roma Rebibbia femminile, Milano Opera, Ivrea e Cagliari - torna l’iniziativa ‘L’ALTrA Cucina… per un Pranzo d’Amore’, pasti gourmet preparati per i detenuti da chef stellati e serviti da testimonial del mondo dello spettacolo, della musica, della stampa e dello sport. Promossa e organizzata da ‘Prison Fellowship Italia onlus’, da ‘Rinnovamento nello Spirito Santo’ e da ‘Fondazione Alleanza del RnS’, coinvolgerà quest’anno circa 800 persone detenute. Tra gli esperti in materia enogastronomica che lavoreranno nelle cucine degli istituti ci saranno Gianfranco Pascucci, chef stellato del ristorante “Pascucci al Porticciolo “di Fiumicino (RM) ed Emanuela Scatena, master sommelier e presidente dell’associazione Wines. Tra gli addetti al servizio a tavola, invece, la cantante Francesca Alotta e il musicista Tiziano Leonardi (tastierista dei Cugini di Campagna). Nel 2020, in piena pandemia, fu consentito solo distribuire ai detenuti delle carceri, che avevano aderito all’evento, gli alimenti destinati alla preparazione dei pasti. L’iniziativa, giunta all’VIII edizione, ritrova quest’anno il suo scopo originario che è quello non solo di donare una giornata di festa a chi vive la dolorosa esperienza del carcere, ma anche di coinvolgere il maggior numero di persone per far sì che la detenzione, sottolineano gli organizzatori citando le parole di Papa Francesco, possa davvero “diventare un luogo d’inclusione e di stimolo per tutta la società, perché sia più giusta, più attenta alle persone”. Il Covid-19 non ha mai interrotto il dono delle stelle di Natale AIL alla casa circondariale di Catanzaro da parte dell’Associazione Universo Minori, promotrice di iniziative in particolare a favore dei figli di genitori detenuti. Un evento annuale nato per ricordare come dalle piccole iniziative di solidarietà possano nascere grandi progetti. L’importante campagna di sensibilizzazione AIL, infatti, iniziò nel 1989 proprio in Calabria dove grazie alla vendita del fiore natalizio fu possibile acquistare attrezzature per l’ematologia locale. Nel tempo, e soprattutto dopo la pandemia, le stelle di Natale nelle aiuole del carcere hanno assunto anche altri significati: oggi testimoniano l’importanza dell’impegno a favore dei malati come di tutti i soggetti fragili. Per un’altra giustizia, quella che cura le ferite di Padre Guido Bertagna Il Riformista, 18 dicembre 2021 “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”: l’intuizione e la ricerca di Gustav Radbruch guidano la riflessione del IX Congresso di Nessuno tocchi Caino. La frase di Radbruch - mi pare - prima ancora di essere una preziosa indicazione per gli esperti e i tecnici della materia giuridica, è una provocazione: ci invita a guardare le cose da altra angolazione, a modificare prospettive e punti panoramici. Allo stesso modo, la giustizia riparativa, l’itinerario che chiede e propone, prima di essere una mera alternativa alla giustizia retributiva, è un invito a cambiare il modo di guardare la complessità delle cose. Molto cammino è stato fatto anche dagli anni del lavoro di Howard Zehr: la giustizia riparativa continua a farsi strada attraverso riflessioni, studi ed esperienze diverse nel mondo e grazie alla disponibilità e alla profondità di tante persone che hanno accolto la proposta e intrapreso il percorso - certamente difficile ma anche, in tante situazioni, molto liberante - potendolo, a loro volta, comunicare. Io, per primo, sono grato a tante persone che hanno attraversato la violenza degli anni Settanta, gli anni del terrorismo, e con il loro impegno appassionato, spesso anche doloroso, mi hanno aiutato a capire profondità e potenzialità di queste vie di giustizia. Quindi: “changing lenses”, cambiare lenti, il punto di vista: così si intitola l’opera di Zehr (pubblicata nel 1990: Changing Lenses: A New Focus for Crime and Justice e ripubblicata, aggiornata, nel 2015) che ha contribuito così tanto a diffondere la conoscenza della giustizia riparativa nel mondo. “La lente che usiamo per esaminare il crimine e la giustizia - scrive Zehr - influisce su ciò che valutiamo come rilevante, su cosa consideriamo essere relativamente importante e anche su ciò che consideriamo come risultato proprio da raggiungere […] e determina anche come inquadriamo il problema e la sua ‘soluzione’. Abbiamo bisogno di guardare non solo a pene alternative o alternative alla punizione: abbiamo bisogno di altri, alternativi, modi di vedere entrambi, il problema e la soluzione”. Questa visione diversa, alternativa, del “problema” così come delle “soluzioni” coinvolge, nel pensiero di Zehr (appassionato fotografo, sensibile verso inquadrature e immagini), anche l’immaginario personale e collettivo. Come ci immaginiamo, allora, la giustizia? L’icona tradizionale e ricorrente resta tutt’oggi quella della dea bendata, con la bilancia in una mano e la spada nell’altra. Ma, nota Zehr, “la dea bendata con la bilancia in mano simboleggia bene la natura della giustizia impersonale, orientata al processo, propria del paradigma contemporaneo. Che alternativa abbiamo? - si chiede Zehr, provocatoriamente, e risponde - una possibilità è immaginare la giustizia che cura le ferite”. Una “giustizia-che-cura-le-ferite” procede diversamente rispetto alla giustizia retributiva anche, come accennato, nelle prospettive, nel modo di guardare i “problemi” e le “soluzioni”. Per questo, sinteticamente, Zehr ricorda il diverso modo di procedere, i diversi passaggi, le diverse prospettive. Vale a dire, le lenti con cui guardiamo le ferite, le ingiustizie e le possibili risposte: “Secondo la giustizia retributiva, il crimine viola lo Stato e le sue leggi; la giustizia si focalizza sullo stabilire la colpa e, in questo modo, può stabilire anche il dosaggio di pena che deve essere comminata; la giustizia si cerca attraverso un conflitto tra avversari nel quale il reo si pone contro lo Stato; regole e intenzioni compensano i risultati: una parte vince e l’altra perde. Secondo la giustizia riparativa - prosegue Zehr - il crimine viola persone e relazioni; la giustizia è tesa a identificare bisogni e compiti (obligation) in modo che le cose possano ritrovare il loro giusto posto; la giustizia incoraggia il dialogo e il reciproco accordo, offrendo alle vittime e ai colpevoli un ruolo centrale, ed è valutata nella misura in cui le responsabilità sono assunte, i bisogni trovano accoglienza, e la cura (degli individui e delle relazioni) è sostenuta”. Nella sua lucida riflessione, nell’appassionata ricerca di una diversa “messa a fuoco” sulla realtà dolorosa del crimine e del male, Zehr apre sulla prospettiva non solo di nuove lenti ma di un più ampio, diverso, paradigma di giustizia. Un paradigma che è più di una visione e di una proposta e combina insieme una nuova grammatica, una teoria ben articolata con possibili modalità di applicazione e anche un certo grado di consenso. “Non credo ci siamo ancora”, commenta. Ma, per il momento, “questa visione può aiutare a dare una direzione a quello che potrebbe diventare un viaggio condiviso di esperienze e di esplorazioni”. Se la sete di giustizia è parte intima e profonda della nostra identità umana, tutto quello che ci fa avvicinare a una giustizia che guarisce le ferite e riapre le possibilità di una vita più piena e libera diventa il fondamento solido per proseguire nel cammino. La presunzione d’innocenza? È già messa a dura prova di Valentina Stella Il Dubbio, 18 dicembre 2021 Tre operazioni sembrano non rispettare del tutto i criteri imposti dalla legge “chiesta” dall’Europa che garantisce gli indagati. Sono passati quattro giorni dall’entrata in vigore della nuova norma che ha recepito la direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Ancora presto per dire se ci sia un vero e proprio cambiamento della comunicazione, anche perché il monitoraggio nazionale delle attività delle polizie giudiziarie e delle varie procure è complesso da effettuare. Per questo l’onorevole Enrico Costa di Azione aveva fatto un appello a tutti gli avvocati sul territorio per ricevere segnalazioni di eventuali violazioni e il Presidente dell’Unione delle Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, aveva promesso il sostegno dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria. Però qualcosa possiamo dirla già da oggi. Quello che emerge è che la norma fornisce principi a cui ispirarsi ma lascia ampio spazio di interpretazione per la sua applicazione e non consente, tra l’altro, un controllo diretto sul rispetto degli articoli in essa contenuta. Come ci spiega il professor Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma, “ci muoviamo in una zona grigia. Capire in che termini si superi la previsione normativa è complicato da dire. E poi nelle prime fasi dall’entrata in vigore è difficile ricondurre immediatamente comportamenti stratificati nel tempo in ambiti comunicativi più restrittivi”; quindi dovremmo attendere per fare una valutazione più a lungo raggio. Ma vediamo perché è complesso al momento districarsi nell’applicazione concreta della norma. Ci siamo iscritti al portale della Sala Stampa della Guardia di Finanza, molto funzionale a dire la verità. Dal 14 dicembre, data dell’entrata in vigore della norma, fino a ieri pomeriggio sono stati pubblicati e diffusi 28 comunicati stampa. Ricordiamo che la norma prescrive che 1: “La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. 2: “Il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. L’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano”. Il sequestro di luminarie natalizie non a norma o quello di 400 calzature riproducenti la foggia di famosi marchi, quali “Converse” modello “All Star” e “Superga” a quale dei due canoni risponde: prosecuzione di indagine o interesse pubblico? Tanto è vero che il professor Spangher ci dice: “immagino l’interesse pubblico come qualcosa di più alto, più pregnante”. Inoltre per tutti i 28 comunicati non c’è scritto se sono stati autorizzati dal procuratore, bisogna darlo per scontato. Anzi, parlando con un tenente colonnello della Gdf ci è stato spiegato che un comunicato di due giorni fa era della Procura e loro hanno chiesto di caricarlo sul loro portale: ma di tutta questa trafila non c’è traccia. In più non c’è l’atto motivato che li giustifichi - la norma non prevede che venga inserito da qualche parte - e quindi non possiamo desumere le ragioni dell’interesse pubblico. La norma prevede anche che “nei comunicati e nelle conferenze stampa è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Ieri tre sono le operazioni a cui è stato dato un nome: “All black”, “Cavallo di Troia” e “Relax”: la prima si riferisce all’individuazione di 22 lavoratori in nero in un centro termale, la seconda ad arresti e sequestri alla ‘ndrangheta, la terza a presunti maltrattramenti e torture nei confronti di pazienti psichiatrici. Sono queste denominazioni lesive della presunzione di innocenza? Apparentemente no, in quanto non sembrerebbero essere in diretta correlazione con degli indagati, di cui non sono presenti i nomi. A meno che la gente del posto non riesca a risalire alle persone coinvolte. Rispetto al linguaggio sottoponiamo alla vostra attenzione questa espressione, tratta dal comunicato sull’operazione “Cavallo di Troia”: “sulla base del quadro accusatorio delineatosi nel corso delle investigazioni, allo stato in fase di indagini preliminari e fatte salve le successive valutazioni di merito, gli indagati risulterebbero aver gestito”. Questo passaggio sembra chiaramente rispettare la previsione normativa per cui “Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata”. Tuttavia nello stesso comunicato leggiamo che 8 persone sono “tutte ritenute responsabili, a vario titolo, di reati fiscali, fallimentari - aggravati dall’agevolazione mafiosa - e, per 2 di loro, anche di concorso nell’associazione mafiosa denominata “ndrangheta”“. In questo caso, evidenzia Spangher, “siamo in presenza di una pre-imputazione che potrebbe configurarsi oltre il limite della comunicazione consentita”. Inoltre nel comunicato sull’operazione “Relax”, prosegue Spangher, - “la Guardia di Finanza ha comunicato l’esecuzione di un’ordinanza applicativa di misure cautelari emessa dal gip. Perché lo ha fatto? In questo caso l’attività è esclusivamente in mano al pm e al giudice”. Infatti, ad esempio, come previsto dalla circolare emanata dal Procuratore Cantone, secondo la sua interpretazione della legge, gli atti di indagine su cui la polizia giudiziaria può fornire direttamente notizie sono quelli posti in essere prima dell’iscrizione della notizia di reato. E i video celebrativi delle operazioni della Gdf? Su 28 operazioni ne abbiamo trovati 15. La maggior parte di essi mostra le volanti che escono dalla caserma e vi rientrano, tralasciando quella che fino a poco tempo fa era la parte ‘migliore’ ossia l’atto dell’operazione vera e propria. In alcuni casi però si vedono gli indagati, ripresi col volto coperto, mentre starebbero commentando il presunto reato o mentre vengono condotti in caserma. In conclusione, in questi comunicati qualche precisa ed identificabile persona viene messsa alla gogna? Quasi sicuramente no. C’è una eccessiva comunicazione, oltre l’interesse pubblico? Molto probabilmente sì. Ci dice Spangher, “nessuna norma è in grado di coprire tutte le variabili concrete. E quindi dovremmo fare i conti con questo”. Intanto l’onorevole Costa ci ha partecipato: “sto raccogliendo i comunicati stampa e facendo un archivio delle conferenze stampa per una approfondita analisi. Chiederò al Ministero di verificare gli atti dei Procuratori su cui si fondano, in modo da comprendere le argomentazioni sulle specifiche ragioni di interesse pubblico”. Le nuove regole limitano il diritto all’informazione e non tutelano gli indagati di Stefano Latorre Il Domani, 18 dicembre 2021 Limitare ai soli casi di particolare rilevanza pubblica le conferenze stampa non ha senso. Così il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza limita immotivatamente lo spazio di comunicazione delle procure ed il conseguente esercizio da parte della stampa del diritto-dovere di informare. Dal 14 dicembre, è entrato in vigore il decreto legislativo 188 in attuazione della direttiva UE numero 343/2016 sulla presunzione di innocenza. Un provvedimento che ha suscitato molte polemiche. Cuore del citato decreto legislativo sono infatti alcune norme che mirano a limitare la diffusione di informazioni relative ai procedimenti penali e, in particolare, alle indagini in corso, e questo ha fatto parlare di bavaglio ai pubblici ministeri e di fine delle indagini-spettacolo. Come sottolineato nel recente convegno di Unicost dall’onorevole Caterina Chinnici, la direttiva europea non era diretta soltanto all’Italia, ma a tutti i 27 paesi, ed anzi l’Italia era tra i quanti presentavano un maggiore conformità della propria normativa ai principi europei. La sostanziale conformità della normativa italiana si rileva anche da una superficiale lettura del decreto legislativo, da cui si evince, icto oculi, che il legislatore ha ritenuto necessario dettare norme esclusivamente per l’attuazione degli articoli 4, 5 e 10 della norma UE. Passando all’esame del contenuto del provvedimento, etichettato da alcuni come bavaglio alle procure, in realtà esso inibisce non solo ai magistrati, ovvero ai pubblici ministeri, ma a qualunque pubblica autorità coinvolta nel procedimento penale, ivi compresi le autorità di polizia ed i ministri, di fare dichiarazioni che indichino qualcuno come colpevole in assenza di sentenza definitiva. In relazione, poi, al presunto bavaglio, è stata da taluni fortemente criticata la scelta di limitare l’utilizzo delle conferenze stampa da parte delle procure esclusivamente ai casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, a favore, invece, dei comunicati ufficiali scritti quale mezzo di comunicazione standard. Sotto questo profilo, va osservato che un comunicato ufficiale, tanto quanto una conferenza stampa o un’intervista, sono soltanto mezzi del tutto neutri, nessuno dei quali capace di costituire, di per sé, un pericolo per il principio della presunzione di innocenza. Limitare le conferenze stampa non ha senso - Dunque, la scelta del legislatore a favore di un mezzo di comunicazione piuttosto che di un altro non sembra aver alcuna logica in funzione della tutela del principio di presunzione di innocenza, posto che ciò che può violarlo sono, invece, le parole usate in un comunicato scritto o in una conferenza. Per questo, non si comprende la decisione del legislatore di limitare, ai soli casi di particolare rilevanza pubblica, le conferenze stampa. Taluni hanno affermato che queste restrizioni servirebbero per limitare la sovraesposizione mediatica dei pubblici ministeri, ma anche questo è un falso argomento, che non ha alcuna attinenza con la direttiva europea. Infatti, un pubblico ministero potrebbe fare tutti i giorni conferenze stampa senza mai violare la presunzione di innocenza, perché, per esempio, utilizza sempre termini adeguati e ponderati per indicare gli indagati/imputati: viceversa, un altro pubblico ministero, in un solo comunicato stampa, potrebbe, utilizzando termini gravemente colpevolisti, violare palesemente i principi del garantismo. Per questo, penso che questa normativa abbia introdotto, almeno in parte, regole che non sembrano in alcun modo funzionali al raggiungimento del risultato previsto dalla direttiva europea, che è quella di evitare che una persona indagata e/o imputata possa essere pubblicamente indicata come colpevole prima che sia intervenuta a suo carico una sentenza o un decreto penale di condanna irrevocabili. Queste regole, diversamente, sembrano destinate a limitare immotivatamente lo spazio di comunicazione delle procure ed il conseguente esercizio da parte della stampa del diritto-dovere di informare. Tenuto conto, come sottolineato sempre nel citato convegno di Unicost, che una corretta informazione, da parte dell’autorità giudiziaria, su importanti indagini ha anche una funzione sociale nel senso di dare sicurezza all’opinione pubblica sulla presenza dello Stato, soprattutto in territori dove è più forte la presenza di criminalità organizzata. “Arginare la gogna mediatico-giudiziaria è un dovere etico” di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 dicembre 2021 Lo dice il procuratore capo di Napoli. L’entrata in vigore della nuova normativa sulla presunzione di innocenza costituisce “un passaggio di grande valore culturale ed etico, che tutti dovrebbero accompagnare nella sua pratica realizzazione con consapevolezza e ancor più grande responsabilità”. Così, intervistato dal Foglio, il procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo, commenta l’entrata in vigore - dal 14 dicembre - del decreto legislativo con cui il nostro paese ha recepito la direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza. Le norme stabiliscono il divieto per le autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole una persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza definitiva. Di base, inoltre, le informazioni relative alle indagini potranno essere comunicate solo dal procuratore capo e solo attraverso comunicati stampa, mentre le conferenze stampa potranno essere convocate solo “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti” e con un atto motivato da ragioni specifiche. Vietato anche assegnare alle indagini “denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Princìpi che hanno spinto qualcuno a gridare al “bavaglio” contro la stampa. Un’espressione da respingere secondo Melillo, che però non nasconde alcune preoccupazioni. “La direttiva Ue e le norme introdotte riguardano soltanto i comportamenti delle autorità pubbliche e non dovrebbero incidere sulla libertà di informazione, ma le preoccupazioni espresse non vanno sottovalutate e potrebbero rivelarsi fondate alla prova dei fatti”, dichiara il capo della procura di Napoli. In particolare, per Melillo “la scelta legislativa di irrigidire le forme della comunicazione delle procure della Repubblica, costringendole ‘esclusivamente’ in quelle del comunicato e, nei casi più rilevanti, delle conferenze stampa, sembra giustificare il timore che le nuove regole possano, in concreto, produrre ostacoli al lavoro dei giornalisti e, per eterogenesi dei fini, una paradossale spinta a inabissare una parte delle relazioni con la stampa delle procure e della polizia giudiziaria, anziché promuoverne la trasparenza, la correttezza e la responsabilità”. “Dovrebbe sempre tenersi a mente che gli eccessi proibizionistici di solito non producono buoni frutti, come la realtà di regola si preoccupa di rendere poi evidente anche agli ostinati e agli indifferenti”, spiega Melillo. Il procuratore di Napoli respinge l’immagine di una magistratura scarsamente sensibile al problema delle conseguenze prodotte dalla mediatizzazione delle vicende giudiziarie (soprattutto nella fase delle indagini) sul piano individuale, sociale e persino economico: “Credo che la sensibilità della magistratura su questi temi sia molto più matura e diffusa di quanto possa pensarsi, anche se, come al solito, fa molto più rumore un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce. Ma sarebbe ipocrita e comunque vano negare l’esistenza del problema, soprattutto considerando le distorsioni aggiuntive prodotte dall’autentica anomalia del nostro sistema, che sembra concentrare ogni attenzione mediatica sulla fase delle indagini e sui suoi sempre precari esiti per trascurare invece ciò che avviene nella fase del giudizio e della formazione in contraddittorio della prova. Un’anomalia ingigantita da quel male profondo della giustizia italiana rappresentato da una sovente intollerabile durata del processo”. Per Melillo, è tuttavia “illusorio pensare che, per quanto possa svilupparsi la sensibilità degli attori del processo e della comunicazione pubblica, le tensioni intorno alle vicende giudiziarie potranno un giorno cessare, come d’incanto. La comunicazione delle procure potrà anche attingere alle più alte vette della correttezza e della sobrietà, ma quando le indagini e i processi toccheranno delicati interessi politici, economico-finanziari o prettamente criminali sarà comunque inevitabile l’insorgere di polemiche e conflitti. Lo dimostra anche un semplice sguardo a ciò che avviene nelle altre democrazie occidentali che preservano il valore dell’indipendenza della magistratura”. Limitare la gogna mediatico-giudiziaria comunque è possibile, se si vuole, e lo dimostrano anche le iniziative di alcune procure. Nel 2019 lo stesso procuratore Melillo ha adottato una circolare che mira, da un lato, a consentire un accesso paritario dei giornalisti ai provvedimenti giudiziari divenuti pubblici e, dall’altro, a evitare che negli atti siano inserite notizie prive di rilevanza penale o potenzialmente lesive della riservatezza delle persone coinvolte e dell’andamento delle indagini. “Potere accedere in condizioni di parità e trasparenza alle informazioni contenute in atti non più segreti - ribadisce Melillo - consente al giornalista di non dovere attingere clandestinamente alle proprie fonti e limita il pericolo che il pubblico ufficiale sia trascinato per la stessa via in sistemi di relazione scivolosi e comunque non coerenti con i suoi doveri di imparzialità e rispetto dei diritti della difesa. Naturalmente, non è una sorta di vaccino contro ogni virus, soprattutto quelli più resistenti a ogni profilassi, ma può agire da fattore di riduzione dei danni tipici delle relazioni sotterranee fra stampa e soggetti del processo”. Il capo della procura di Napoli, tuttavia, sottolinea come “la rinuncia a ogni ricerca di impropria promozione mediatica del lavoro del pubblico ministero sia quanto mai necessaria per evitare che si continui a scavare un fossato incolmabile fra magistratura requirente e giudici e fra la magistratura nel suo complesso e l’avvocatura, che hanno sempre più bisogno invece di una comune cultura delle garanzie”. D’altronde, Melillo diffida dell’idea che occorra affidare “sempre e solo al legislatore la speranza di costruire equilibri del sistema processuale più avanzati ed efficaci”. “In questo campo - aggiunge - i grandi rischi sono collegati alla capacità di governo delle tecnologie digitali impiegate nelle indagini e a quella dei magistrati di assicurare un rigoroso controllo delle sempre più gigantesche masse di dati personali che vi fanno ingresso quotidianamente”. Insomma, conclude il procuratore capo di Napoli, “nessuna riforma potrà in ogni caso sostituirsi alla responsabilità del magistrato, come a quella dell’avvocato, di fare uso quotidiano di una parola equilibrata, misurata, responsabile, ispirata al rispetto della funzione giudiziaria e dei diritti del cittadino”. Codice antimafia, va riformato per tornare allo stato di diritto di Paolo Giustozzi* Il Riformista, 18 dicembre 2021 Le oramai consolidate Riforme che incidono gravemente sui diritti fondamentali, quali quelle che estendono via via a nuove categorie di soggetti, colpiti soltanto da indizi di determinati delitti, le drastiche misure di prevenzione contenute nel codice antimafia, dovrebbero essere varate con attenta meditazione. Con il rispetto che si deve a un testo del disegno di legge ancora inedito in materia di contrasto alla violenza di genere, l’attenzione va rivolta all’ennesimo intervento espansivo del codice antimafia e del catalogo della pericolosità qualificata, che si manifesta come il segnale di un preoccupante indirizzo di politica criminale che incrementa e rafforza incessantemente, ormai da diversi anni, l’utilizzo di un sistema, quello appunto delle misure di prevenzione, che meriterebbe invece se non la sua totale eliminazione, una seria quanto urgente riforma esso stesso. Una integrale rivisitazione - di questo si parla - del codice antimafia, in passato vanamente promessa dai legislatori, dovrebbe ambiziosamente mirare a riportarlo entro i canali delle garanzie minime, sostanziali e processuali di un processo giusto, che in un sistema di ispirazione liberale e democratica non si possono derogare neppure facendo ricorso a ellittiche soluzioni terminologiche, che richiamano imperscrutabili distinzioni fra ciò che è semplicemente “afflittivo” e ciò che invece è dichiaratamente “repressivo”. Le misure di prevenzione, a dispetto della loro origine come strumenti eccezionali, sono divenute un autentico sottosistema del tutto parallelo a quello penale, del quale tuttavia esse emulano soltanto estesi poteri di indagine e strumenti afflittivi sulla persona e sui patrimoni, senza godere delle garanze riservate alla materia penale. Interi patrimoni vengono sottratti a soggetti, anche post mortem, attraverso indagini che svincolate da limiti di durata e di controllo di un Giudice terzo, toccano i meandri più intimi di soggetti e della cerchia dei più stretti parenti e conviventi del proposto, mettendo in controluce il tenore di vita tenuto per la intera vita. Sul piano della tipicità, ossia della precisione della legge, sembra arduo pretendere che dal quadro fumoso della “qualità di mero indiziato”, i cittadini possano orientare i propri comportamenti in previsione delle conseguenze che un determinato atto potrà comportare loro, in termini di limitazione della libertà e del patrimonio. La nozione di “indiziato” d’altro canto è elemento normativo che non individua il fatto storico dal quale doversi difendere in giudizio, ma è un dato che si indirizza a colui che dovrà applicare la norma, attraverso l’indicazione di uno “standard probatorio” che oltretutto nell’area della prevenzione può assumere spessore dimostrativo insufficiente per addivenire a una condanna in sede penale; persino una soluzione assolutoria in sede penale potrebbe legittimare in taluni casi la applicazione delle misure di prevenzione, in nome del noto principio della autonomia di valutazione delle prove del Giudice delle misure antimafia. Il sistema della prevenzione è uscito sostanzialmente indenne dalla ardua prova di resistenza cui è stato sottoposto dalla Consulta dopo la demolitoria sentenza della Corte Edu, sulla base del principio secondo il quale la norma, pur essendo imprecisa, sarebbe stata colmata di chiarezza e tipicità dalla costante interpretazione giurisprudenziale assurta a diritto vivente. È legittimo il timore proclamato da illustri commentatori di questa storica decisione dalla quale si intravedono le avvisaglie di una transizione dall’”età della legge” all’”età dell’interpretazione” connotata da un diritto liquido e senza codice, in cui la figura del Giudice si trasforma in un coartefice del prodotto legislativo, con il disco verde della Consulta che passa per la bollinatura della prevenzione come norma estranea al penale. Senza esagerazioni retoriche, viene da domandarsi in conclusione se il sacrificio enorme che il sistema della prevenzione impone sotto il profilo della rinuncia delle garanzie della persona, sia giustificato dal perseguimento degli obiettivi che esso mira a raggiungere. E ancora, se è vero che si tratti di misure irrinunciabili in vista della salvaguardia dell’economia sana a rischio dalla concorrenza malata di capitali infettati ab origine dalla loro illecita o opaca provenienza, considerato che l’ordinamento possiede efficacissimi strumenti di contrasto, in materia di evasione e riciclaggio, in grado di assicurare risultati efficaci al pari o superiori rispetto a quelli della confisca di prevenzione. In conclusione, non vorremmo che la prevenzione diventi un nuovo modello di processo, un semilavorato frutto di esperimenti avanzati su cui realizzare il prototipo di un nuovo sistema processuale. Un sistema futuro, ma che richiama vecchi e familiari sapori che sembravano dispersi dai tempi del 1889. *Co-Responsabile Osservatorio misure patrimoniali dell’Ucpi Il “trucco” di Mani pulite tra gelida indifferenza e opposte “concordanze” di Valter Vecellio Il Dubbio, 18 dicembre 2021 Otto dicembre scorso: Guido Salvini, giudice per le Indagini Preliminari in forza a Milano, scrive per Il Dubbio un circostanziato articolo, con espliciti riferimenti, fatti, nomi e cognomi, e spiega cosa è accaduto nell’ufficio del Gipdella sua città nella stagione di “Mani Pulite”. Per riprendere l’efficace sintesi giornalistica: “Il pool escogitò il semplice ma efficace trucco di un ‘registro’ con lo stesso numero per tutti i reati che era così di competenza di un solo Gip: Italo Ghitti”. Sempre Salvini racconta come un fascicolo, in questo modo, con questo “trucco” gli viene sottratto; stessa cosa accade ad altri Gip, il tutto con la fattiva copertura e tolleranza dei Capi dell’ufficio: “Non era il tempo di seguire la strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream”. In guerra e in amore tutto è lecito, si dice. Ma appunto: in guerra e in amore; amministrare la giustizia, applicare le leggi, non rientra nelle pratiche belliche, e neppure in quelle amorose, checché ne possa pensare qualcuno. Ad ogni modo: reazioni? Sì, qualche isolata voce, presto silenziata. Per il resto, sostanziale fastidio, gelida indifferenza. Un ulteriore passo indietro. A metà novembre Nino Di Matteo, magistrato attualmente membro del Consiglio Superiore della Magistratura, rilascia un’intervista a La7. Confessa un timore: “che si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura… Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Questa situazione dove (e chi) l’ha evocata e descritta prima di Di Matteo? Si deve recuperare un libro di grande successo, “Il sistema”, lunga conversazione tra l’ex magistrato Luca Palamara e Alessandro Sallusti: “Le spiego una cosa fondamentale per capire che cos’è successo in Italia negli ultimi vent’anni”, dice Palamara. “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti - e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentandone magari l’abitazione… Ecco se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo interno. Soprattutto perché fanno parte di un ‘ Sistema’ che lì li ha messi e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli”. Nella sostanza le affermazioni di Di Matteo e Palamara si possono sovrapporre, due “opposti” che coincidono. Ma Di Matteo dice anche altro, nel libro “I nemici della giustizia”, scritto con Saverio Lodato. Quando si arriva alle pagine 75 e 76 si può leggere: “Una cordata sorta attorno a qualche magistrato, di solito un importante procuratore, che ha saputo acquistare nel tempo, e spendere, la sua autorevolezza e il suo prestigio per occupare spazi sempre più ampi di potere dentro e fuori la magistratura…” con lo scopo “di fidelizzare altri colleghi, alti esponenti delle forze dell’ordine, acquisendo un potere tale da riuscire a influenzare scelte e nomine all’interno della magistratura e persino delle forze di polizia. Cordate, non più correnti”. Ora idealmente si può far scendere idealmente in campo un altro personaggio, l’ex magistrato Ilda Boccassini. Ha scritto “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, di cui molto si è parlato e scritto, più che altro per il quarto capitolo: il racconto di una liason con Giovanni Falcone. Capitolo che fa perdere di vista il cuore dei problemi che questo libro pone. Perché in fin dei conti, cos’abbiano combinato sono affari di Boccassini e Falcone; si può al massimo eccepire che questa storia poteva restare nel cono d’ombra dove era relegato, conosciuta da pochi. Ma è la sostanza delle questioni che si è persa di vista. La sostanza è il racconto di anni e anni di storia della magistratura, dei magistrati, del loro operare: il loro letterale trescare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: dal libro di Boccassini insomma, emerge un quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta. Del lato meschino e vanesio di magistrati ed ex magistrati famosi; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma: un contesto, una “scena” e tanti retroscena, deprimenti. Significative queste ‘concordanze’ di personaggi così diversi, perfino opposti. Tutto ciò aggravato dal fatto che tutto ciò sembra scivolare come acqua su pietra liscia. Si può infine segnalare un’ulteriore, non meno grave “indifferenza”, che evidentemente (mal) cela una diffusa ostilità: verso i sei referendum per una giustizia più giusta promossi da Partito Radicale e Lega. Hanno superato il primo ostacolo, il vaglio della Corte di Cassazione. Ora la parola spetta alla Corte Costituzionale; non potrà falcidiare l’intero pacchetto; potrà dichiarare che qualche quesito non può essere sottoposto a referendum popolare, ma bocciarli tutti e sei non è cosa. Dunque, se non saranno sciolte le Camere (evento non meno improbabile), a primavera ci si pronuncerà su importanti questioni di giustizia e di come la si vuole amministrare. Che cosa attendono i mezzi di comunicazione, e in particolare quello che dovrebbe essere il servizio pubblico radio-televisivo, ad allestire spazi di informazione, confronto e dibattito tra sostenitori e avversari delle referendarie, non si capisce (o al contrario: lo si comprende bene). ‘Conoscere per deliberare’ è uno dei precetti di Luigi Einaudi: diritto alla conoscenza presupposto senza il quale non è data una vera democrazia. Curioso, ma anche indicativo, che filosofi, giuristi, commentatori, dedichino tempo ed energie nella denuncia di rischi e pericoli più supposti che reali per la democrazia, in Italia, in Europa, nel mondo, a proposito di una Pandemia che sconvolge il pianeta; e non una briciola di attenzione sul fatto che una questione essenziale come la giustizia e il modo in cui si amministra è argomento tabù: è scattato un verboten a cui pochi volenterosi vogliono e sanno sottrarsi, rapidamente, implacabilmente, silenziati: ridotti come il protagonista del celebre dipinto del norvegese Edvard Munch. “La verità su Stefano Cucchi? Riscritta da chi temeva per la sua carriera” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 18 dicembre 2021 É iniziata la requisitoria contro gli otto carabinieri accusati dei depistaggi. Il pm Giovanni Musarò li accusa di “cinismo”: “si giocò con le vite degli altri”. Un gruppo di carabinieri, legati da “fedeltà e riconoscenza reciproca” assai più che all’Arma, riscrissero la verità del caso Cucchi, la veicolarono “ai più alti livelli istituzionali” quindi la promossero attraverso una campagna di “controinformazione”, al punto che chiunque ha finito per rappresentarsi Stefano Cucchi come un “tossicodipendente, anoressico ed epilettico” votato a una prematura morte naturale anziché la vittima di un orribile pestaggio. Quei carabinieri e in particolare l’imputato generale Alessandro Casarsa più il suo ex comandante provinciale, generale Vittorio Tomasone (non imputato ma testimone “reticente”) manipolarono la realtà per “salvare le loro carriere”. L’arresto di quattro carabinieri della compagnia Trionfale per il ricatto all’ex governatore Piero Marrazzo e il trasferimento di massa dei militari di quella compagnia, suggerirono a Tomasone e Casarsa di allontanare da sé lo spettro delle responsabilità nella morte di Cucchi. Nel primo giorno della requisitoria (si concluderà il 23 dicembre) il pm Giovanni Musarò, in aula con il procuratore capo Michele Prestipino, premette: “Qui non si processa l’Arma che da 200 anni serve il Paese” Il pm che ha ottenuto le condanne dei due carabinieri autori del pestaggio Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo spiega che “nell’arma ci sono militari come Pietro Schirone che disse la verità fin dal primo giorno e poi, a schiena dritta la ripetè di fronte al suo comandante”. Casarsa, imputato assieme ad altri sette militari, accusati di falso, favoreggiamento e omessa denuncia, è in aula. Un altro suo ex fedelissimo, il colonnello Lorenzo Sabatino, ex guida del nucleo investigativo di Roma, appunta le parole del pm. Musarò sottolinea il “cinismo” con cui “si giocò con le vite degli agenti della penitenziaria (sottoposti al primo processo, ndr) e della famiglia di Stefano Cucchi”. L’origine dei depistaggi risale ai giorni fra il 25 e il 26 ottobre 2009. Ci si mobilitò dopo aver letto l’agenzia stampa in cui Patrizio Gonnella di Antigone e il senatore Luigi Manconi si interrogavano sulle responsabilità dei carabinieri. Da qui la controffensiva. Annotazioni che dipingevano Stefano come un ragazzo compromesso e anticipavano, inquietanti, le conclusioni mediche dei consulenti della Procura depositate solo mesi dopo. Falsità che servirono a confezionare la risposta dell’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano al Parlamento. “Emozionante vedere in udienza il procuratore. Emozionante ascoltare il pm. Un lavoro enorme e una requisitoria devastante. Parole che mi hanno commossa” è il commento di Ilaria Cucchi. Il pm: “Cucchi, un’ostinata attività di depistaggio” di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 dicembre 2021 Requisitoria della procura, ultime fasi del processo sull’insabbiamento. “Si è voluto riscrivere una verità. Il politraumatizzato Stefano Cucchi che muore di suo, e sono riusciti a farlo credere, incredibilmente, per sei anni”. C’è stata “una attività di depistaggio ostinata, che a tratti definirei ossessiva. I fatti che oggi siamo chiamati a valutare non sono singole condotte isolate ma un’opera complessa di depistaggi andati avanti fino al febbraio 2021. Un’opera sconcertante con la finalità non solo di depistare l’autorità giudiziaria, ma farlo anche da un punto di vista mediatico e politico. Fattori che hanno un rilievo enorme dato che nello stesso giorno in cui muore Cucchi, 4 carabinieri vengono indagati per concussione nei confronti di Piero Marrazzo”. Sono alcuni passaggi della requisitoria che il pm Giovanni Musarò ha pronunciato ieri nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, durante una delle ultime udienze del processo sui depistaggi seguiti alla morte di Stefano Cucchi. Imputati, 8 carabinieri tra i quali il generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri della Capitale. La procura di Roma, che ha aperto il fascicolo sui depistaggi durante il processo Cucchi bis conclusosi con la condanna dei carabinieri imputati, era presente ieri anche con il capo Michele Prestipino. Musarò ha evidenziato che solo uno degli 8 imputati, Colombo Labriola, allora comandante della stazione di Tor Sapienza, è stato collaborativo: “È l’unico che ha detto tutto, che non si è sottratto alle domande, che non ha scaricato la responsabilità sugli altri. Ha accusato tutti gli ufficiali. E guarda caso è spuntata la testimonianza di un maresciallo finalizzata solo a dire che è inattendibile”. In ogni caso, ha sottolineato il pm antimafia, “questo non è un processo all’Arma, ma ad 8 militari, e bisogna evitare qualsiasi strumentalizzazione”. Nell’udienza fissata per la prossima settimana la procura presenterà le proprie richieste di condanna, poi sarà il turno alle difese per la requisitoria. Erika e Omar: il sangue, poi l’amore di un padre di Marco Imarisio Corriere della Sera, 18 dicembre 2021 Il delitto che ci ha cambiato. L’omicidio senza movente di una mamma e di un bambino, a Novi Ligure, per mano di due adolescenti, scatenò incubi e sgomento. Intatti anche oggi, a distanza di vent’anni. Fu la prima e unica volta che li vedemmo insieme. Non era il giorno della sentenza, che poi è la ragione di questo articolo, anniversario tondo, vent’anni fa la condanna di Erika e Omar, gli autori del delitto più atroce della storia recente e anche meno recente. “Una cosa del genere accade al massimo ogni secolo, per fortuna” disse l’allora presidentessa del Tribunale dei minori, Graziana Calcagno, che fino all’ultimo ha continuato a pensarci, a quel fatto di cronaca ormai lontano, eppure ancora così aguzzo e presente nella memoria di tutti, anche di chi scrive. Per la sua enormità, per le domande che obbligava qualunque madre o padre di famiglia a porsi, sui propri figli, che dopo l’infanzia non sappiamo più chi sono, quasi estranei che si muovono silenziosi nella stessa casa, sul ruolo di un genitore. Per l’assenza di qualunque spiegazione e di un movente plausibile, che rimase come un monito, a futura memoria. L’ultimo fotogramma - “Abbiamo perso la sicurezza degli affetti” scrisse Giuseppe De Rita sull’onda di una emozione collettiva. A distanza di così tanto tempo, il caso di Novi Ligure resta una verità troppo nuda e un mistero senza parole che neppure le condanne, e le nuove vite dei protagonisti e le indiscrezioni pettegole sul loro conto possono chiudere. Anche perché da questo grumo originato dall’indicibile, dalla rottura di ogni tabù, uccidere la propria madre e il proprio fratello dodicenne che nel suo ultimo tema aveva scritto “Il mio miglior amico è mia sorella Erika” ben presto nacque un altro mistero che ancora oggi turba, suscita curiosità anche morbose, e riguarda solo e soltanto il rapporto tra un padre e una figlia. Tra un padre che non aveva più nulla se non la figlia che gli aveva preso tutto, ed era tutto quel che gli rimaneva. Così è giusto tornare all’unico fotogramma che almeno nella memoria li ritrae entrambi, perché in realtà a parte qualche sguardo rubato dal pertugio di una porta, quell’incontro ce lo raccontarono gli avvocati e gli uscieri del tribunale. Il massimo della pena - Era l’udienza dell’11 dicembre 2001, mattina di sole ghiacciato, una folla di cronisti e telecamere a battere i piedi per il freddo, come al solito in attesa davanti al palazzo basso e squadrato di corso Unione Sovietica, dove si teneva il processo. Il pubblico ministero aveva appena formulato la richiesta di condanna. Il massimo della pena, venti anni per lei, 16 per il suo complice Omar Favaro. Al quale è sempre stata assegnata la parte del paggio, del fidanzato sottomesso, quasi fosse una nota a margine, quando invece nel suo stato apparente di imperturbabilità rappresentava un personaggio ancora più inquietante. Due giorni dopo il delitto, il mondo intero stava ancora cercando gli albanesi accusati da Erika. Ben presto si scoprirà che uno era una celebrità del bowling di Novi Ligure, e la sera del delitto stava facendo strike in compagnia di altre trenta persone, mentre l’altro era così reale che quando i carabinieri le avevano mostrato sia l’identikit di Michele Profeta, il serial killer di Padova, che una foto di Michele Placido, lei aveva risposto sicura che “era lui”, in entrambi i casi. La Lega e il ragazzo sul muretto di Novi - Intanto la Lega Nord faceva fiaccolate di protesta contro l’immigrazione clandestina “che porta gli assassini in casa nostra”. Un bravo e rimpianto cronista del Messaggero, Mario Menghetti, si era messo in testa di fare un reportage sui ragazzi del muretto di Novi ligure, cosa ne pensavano di quel delitto così tremendo avvenuto a pochi metri dal loro luogo di ritrovo abituale. Era rimasto colpito da un adolescente che fumava e rideva, fumava e rideva, e intanto prendeva in giro i giornalisti, dicendo “minchia speriamo che li prendono”, che l’unica legge è quella del taglione, e che “ai criminali che avevano fatto quel macello bisognerebbe tagliarci le balle”. La verità - Quel ragazzo si chiamava Omar Favaro. E da lì a poche ore sarebbe stato convocato in caserma con un pretesto insieme a Erika, rimanendo solo con lei in una stanza per qualche ora, senza sapere di essere ascoltato. E qui sarebbe facile ricopiare le intercettazioni, il dialogo tra due ragazzi che si rendono conto di aver colmato la misura dell’orrore con la tortura inflitta al povero Gianluca, che aveva 12 anni e idolatrava sua sorella e mentre si dibatteva nella vasca da bagno aveva strappato il coltello ai suoi carnefici e fu convinto con un sotterfugio dalla sorella a restituirlo, perché ancora si fidava di lei. “Io penso a tuo fratello...” “Eh, minchia aveva solo dieci anni vissuti, mio fratello. Poi ha urlato, quando uno lotta per...” “È un bambino, cazzo”. Gianluca, 12 anni, una delle due vittime, nel suo ultimo tema aveva scritto: “il mio migliore amico è mia sorella Erika” - Mesi dopo il delitto e la sentenza, un criminologo oggi volto noto della televisione che cominciò la sua ascesa mediatica proprio con il delitto di Novi Ligure, volle far sfoggio della sua conoscenza del caso gettando sulla sua scrivania le foto della scena del crimine, per mostrarle al giornalista che lo stava intervistando. Sono passati molti anni, e molte altre storie, piccole e grandi. Ma ancora oggi, mi capita di sognare quelle immagini in bianco e nero. Gli occhi spalancati di Susy Cassini, la madre di Erika. Erano gli occhi di chi stava provando non solo lo strazio del proprio corpo, ma anche l’orrore di quel che stava accadendo. Quella donna morì sapendo che anche suo figlio stava per morire. E poi, il corpo martoriato di quel bambino. L’abbraccio paterno - Una volta ogni secolo, davvero. Ma anche quel giorno, alla vigilia della sentenza, nessuno chiese di Omar. I suoi avvocati uscirono dall’aula pressoché indisturbati. Contavano solo Erika, e quel padre, l’ingegner Francesco De Nardo, che si trovava in una situazione incredibile, tanto paradossale quanto tragica. Non volle entrare in aula. Attese in corridoio, seduto su una panca. Lui non se la sentì di ascoltare la requisitoria, di risentire la storia di un massacro che era anche la sua storia. L’udienza precedente, quando il giudice gli aveva chiesto se voleva dire qualcosa sul futuro della figlia, aveva detto che preferiva non parlare, non se la sentiva. Poi aveva iniziato a piangere in modo sommesso. Francesco De Nardo parlò solo una volta: “io sono tutto quello che resta a mia figlia e lei tutto quello che resta a me” - Nessuno aveva osato avvicinarsi a lui, neppure l’avvocato Mauro Boccassi di Alessandria, un galantuomo che in quei mesi di tempesta e di dolore fu per lui molto più di un semplice legale. Dopo aver sentito le richieste dei pubblici ministeri, fu invece Erika a scoppiare in lacrime e singhiozzi. Si spalancò la porta, e lei - la intravedemmo per un attimo soltanto, indossava un piumino con il collo di pelliccia, aveva una espressione stravolta, stava urlando qualcosa che non riuscimmo a udire - si buttò tra le sue braccia. “Che cosa avreste fatto al posto del padre?” - Sui giornali dei giorni seguenti, molti si chiesero cosa avrebbero fatto al posto di quel padre. Mollarla? Lasciarla cadere? Darle una sberla? Francesco De Nardo invece la abbracciò. E le disse di farsi coraggio, ripetendo a sua figlia che non bisognava arrendersi. La tenne stretta, come aveva cominciato a fare subito dopo la scoperta che era stata lei, e come avrebbe continuato a fare negli anni, con una risolutezza che non hanno mai avuto deroghe o concessioni. Come se salvare quella figlia considerata da tutti un mostro per quel che gli aveva fatto fosse diventato per lui l’ultima ragione di vita, una missione da compiere per redimere, per espiare, forse l’unico modo per salvare entrambi. Quell’incontro e quei gesti rappresentarono un sigillo. Non importa se fu per stanchezza, per paura e per vero dolore, ma il pianto di Erika, per quanto giudicato con severità dai media, che avevano ancora negli occhi il racconto delle atrocità nella villetta di Novi Ligure, fu il primo segno di una consapevolezza, il primo passo di un percorso. Da quel momento, da quando fu pronunciata la sentenza di condanna, la figlia uscì di scena, come era giusto che fosse. Ogni tanto il suo nome riaffiorava sulle cronache, qualche foto rubata, qualche dettaglio sulla sua nuova vita. Nel 2011, quando finì di scontare la sua pena e tornò libera, sui social dell’epoca apparvero commenti sdegnati, gruppi Facebook contrari alla scarcerazione raccolsero in poche ore migliaia di iscritti. L’unico che in qualche modo non è mai andato via è l’autore di quell’abbraccio. Il vero mistero, così semplice nella sua nobiltà d’animo da apparire di difficile comprensione per chiunque altro non abbia avuto la sventura di vestire i suoi panni, è proprio lui, il padre. Un uomo salvo per caso - Quel 21 febbraio 2001, l’ingegner De Nardo era uscito per il calcetto del mercoledì. Fece un po’ tardi, e questo lo salvò. Dirigeva lo stabilimento dolciario della Pernigotti, viveva con la famiglia in una villetta di proprietà nella zona residenziale di Novi ligure. Aveva una buona posizione economica, era sposato con Susy, la compagna di sempre dai tempi della scuola. Una coppia che aveva una figlia adolescente e un po’ complicata, nulla che facesse presagire quel che poi accadde, e un bambino, Gianluca, al quale il padre aveva trasferito la sua passione per l’Inter. La domenica seguente, sarebbero andati insieme a vedere la sfida con la Juventus. Una famiglia normale, uguale a tante, magari anche alla nostra. Forse per questo, la voglia di sapere e di guardare del pubblico e dei media fu per una volta meno riconducibile a una curiosità morbosa e più a uno sgomento collettivo. La strada che scelse quel padre fu quella di incamerare il dolore e l’orrore per dedicare ogni energia e salvare quanto era possibile - E lo stesso sentimento che ha reso questo delitto un evento a parte, separato dagli altri celebri casi di cronaca nera del nuovo secolo. Perché guardare nell’abisso, non è mai facile. Francesco De Nardo lo ha fatto. E forse, non ha mai avuto altra scelta che questa. Quando dopo una attesa interminabile il maresciallo della caserma si affacciò al cancello per dire “li hanno arrestati, sono stati loro”, la folla di trecento persone che si era assiepata sul prato di fronte si spense all’improvviso. Andarono via tutti, in un silenzio dove galleggiavano stupore, smarrimento, paura. In un angolo del cortile, stretto nel suo Loden blu, l’ingegnere osservò quella ritirata con una espressione spaesata in volto. La mattina seguente ci sarebbero stati i funerali di sua moglie e del piccolo Gianluca. Quella notte, conclusi il mio articolo sostenendo che dal momento in cui lo avevano convocato per dirgli, a lui per primo, che era stata sua figlia, era diventato l’uomo più solo e triste del mondo. “Non è vero che sono solo” - Mesi dopo, erano passate da poco le 23, ero al giornale, feci un tentativo. Entrai in un ufficio vuoto, era quello di Mario Luzzatto Fegiz, il nostro critico musicale. Composi il numero. De Nardo rispose. La prima cosa che disse fu che non avrebbe mai parlato, che non avrebbe mai rilasciato una intervista in vita sua. Ma andò avanti, con uno sfogo. E cominciò proprio contestando la mia affermazione finale contenuta in quell’articolo. “La mia vita è stata spazzata via da un tornado” disse. “Ma non è vero che sono solo e disperato. Voi giornalisti vi ostinate a non capire che io ho ancora lei, ho Erika. E farò di tutto per proteggerla, finché rimarrò al mondo”. Sono le cose che poi gli sono state messe in bocca tante volte per interposta persona, ma è tutto quel che c’è da sapere, per capire le ragioni di quell’abbraccio, della scelta di Francesco De Nardo, per avere rispetto e non giudicare i suoi comportamenti. Quell’uomo voleva sparire, come poi fece, ma leggeva tutto, si informava. Sapeva che noi, e l’Italia, lo stava guardando, e lo giudicava, in gran parte senza comprenderlo. Chiese ogni dettaglio della strage - Fecero discutere le intercettazioni durante il primo colloquio in carcere dove chiede alla figlia in che modo avesse colpito le sue vittime, in cui le chiede di raccontargli ogni minimo dettaglio di quella strage. Un attimo dopo il dissequestro, tornò a dormire in quella casa. La Pernigotti gli offrì con discrezione la propria impresa di pulizie per lavare la villetta della strage. Lui rifiutò, e fece da solo. Ci mise quasi due giorni, per scrostare il sangue di sua moglie di suo figlio dai pavimenti e dalle pareti della villetta. Nel maggio del 2001 invitò a cena i tre consulenti di parte scelti per la perizia psichiatrica su Erika. Preparò la carne alla brace sul barbecue, come faceva nei giorni felici con la sua famiglia. Sullo stesso prato, proprio accanto al vialetto dal quale fuggirono i due assassini. Quando uno degli ospiti chiese se poteva avere un bicchiere d’acqua, indicò la cucina, il posto dove era stata massacrata sua moglie. Lo psicologo disse che non se la sentiva di entrare lì dentro. Lui annuì. Si alzò, e ritornò con una caraffa d’acqua. La scelta: non curarsi di quel che pensa la gente - La verità è che a Francesco De Nardo non è mai interessato quel che pensava la gente di lui. Divenne un personaggio per contrasto, con il suo silenzio, con la sua integrità quasi fuori dal tempo. A chi vent’anni fa gli consigliava di aspettare, di riflettere prima di prendere decisioni, ha sempre risposto che aveva già deciso quella notte in caserma, quando gli dissero chi era la persona che gli aveva portato vie le cose più preziose che un uomo può avere, quando si affacciò sull’abisso. Avrebbe potuto rinnegare sua figlia, vendere tutto, andarsene via. Ma nelle sue condizioni, l’unica cosa che poteva davvero fare un uomo così ferito, pieno di dignità, di dubbi, forse di sensi di colpa, era continuare a essere un padre. E per farlo doveva andare a ritroso, seguendo una sua strada solitaria, non risparmiarsi nulla, incamerare dentro di sé tutto quel dolore e quell’orrore, per esorcizzarlo per dedicarsi con tutto sé stesso a Erika. Si è battuto per il silenzio stampa - Si è battuto come un leone, per imporre il silenzio stampa, per spegnere il rumore di fondo ogni volta che tornava a farsi sentire, convincendo sua figlia a seguirlo su questo terreno, far sparire ogni traccia, scomparire come unica condizione per poter ricominciare. Non tutti hanno approvato questa scelta di vita quasi monastica, centrata su una figlia il cui nome per molti è ancora oggi sinonimo di un diavolo moderno. Ancora di recente, durante un talk show venne accusato di aver praticato la rimozione come medicina di per sé stesso, ammesso e non concesso che questa fosse una colpa. “Io non devo per forza capire perché lo ha fatto” disse durante quella telefonata. “Nelle mie condizioni, capire è un lusso”, usò questa espressione, aggiungendo che sarebbe venuto il momento di affrontare quella sua battaglia privata, ma dopo. Non c’era alcun mistero, disse. “In fondo è semplice: io sono suo padre, sono tutto quel che le rimane, lei è tutto quel che mi resta”. Anche questa rievocazione gli procurerà un fastidio profondo, come ogni refolo di notorietà che si solleva sul delitto di Novi ligure. Ma se dovesse mai arrivare in fondo a queste righe, sappia l’ingegner De Nardo che in questi lunghi anni lo abbiamo pensato spesso, augurandogli una vita finalmente serena, per quanto possibile. Perché poche persone lo meritano più di lui. Pubblicate le motivazioni “etico-sociologiche” della condanna a Lucano di Simona Musco Il Dubbio, 18 dicembre 2021 Un “falso innocente”. Il tribunale di Locri non risparmia nulla a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, condannato a 13 anni e due mesi nell’ambito del processo Xenia. Una sentenza di quasi mille pagine con la quale il collegio presieduto da Fulvio Accurso sembra soprattutto difendersi dalle accuse di aver fatto un processo politico, condannando la narrazione esterna su Riace e sull’operato di Lucano, richiamata a più riprese per giustificare una condanna durissima, sulla base di un principio che si esplicita tra le prime pagine: Lucano e i suoi “sodali” avrebbero agito in nome di una “logica predatoria delle risorse pubbliche” che sarebbero servite a soddisfare “appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica” - nonostante abbia rifiutato qualunque occasione per “salire” di grado - “e soddisfatti strumentalizzando a loro vantaggio il sistema dell’accoglienza dei migranti”, diventato “un comodo paravento dietro cui occultare le vistose sottrazioni di denaro pubblico che essi attuavano, per fini esclusivamente individuali”. Lucano sarebbe stato sì un politico illuminato, capace di creare, ispirandosi agli ideali utopici della Città del Sole di Tommaso Campanella, un sistema all’inizio apprezzabile. Ma poi tutto ciò sarebbe sparito. E “nulla importa che sia stato trovato senza un euro in tasca”, scrivono i giudici, “perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza”. Insomma: utilizzando i fondi dell’accoglienza per ristrutturare il frantoio e creare l’albergo diffuso, che hanno dato lavoro a migranti e riacesi, Lucano avrebbe creato una sorta di “fondo pensionistico” per gli anni a venire. Sfruttando il suo ruolo di “dominus indiscusso del sodalizio”, un’organizzazione “tutt’altro che rudimentale”, che avrebbe strumentalizzato “il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica”. I suoi sodali, in cambio, lo avrebbero sostenuto politicamente, portando in dote il loro pacchetto di voti, risultati inutili a eleggerlo persino consigliere comunale alle ultime elezioni. Ma c’è di più: nel motivare la propria decisione, il tribunale punta spesso il dito contro le difese, che avrebbero guardato il processo “da lontano”, cercando “a più riprese di sorvolare sulla pregnante ed inequivoca conducenza dei documenti e delle intercettazioni” nel tentativo “di accreditare una lettura delle prove che fosse del tutto “esterna” al procedimento, facendo leva su una sorta di persecuzione politica che avrebbe ricevuto l’ex sindaco Lucano”. Delle “lenti deformanti” che invece non sarebbero state usate della procura, nei confronti della quale il tribunale, a pagina 98, si lancia in difesa, sottolineando “l’indipendenza della sua azione”. E ciò perché non sarebbero state le relazioni della Prefettura, affermano i giudici, a far partire l’inchiesta, come più volte si è sostenuto: tutto è nato dalla querela - poi rivelatasi infondata - di un commerciante, che lo accusava di concussione. I giudici a questo punto citano proprio le sentenze della giustizia amministrativa, che aveva censurato la chiusura dei progetti voluta dal Viminale, pur evidenziando le criticità del sistema. Un annullamento motivato solo da motivi di ordine procedurale, scrivono i giudici, evidenziando un giudizio “tutt’altro che benevolo sull’operato del Comune di Riace”. Ma sono quelle stesse sentenze ad evidenziare un aspetto che, invece, il tribunale di Locri non riconosce nel recente passato di Lucano: “Che il “modello Riace” fosse assolutamente encomiabile negli intenti ed anche negli esiti del processo di integrazione - si legge nella decisione del Tar, poi confermata dal Consiglio di Stato - è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti dall’amministrazione resistente”. Per i giudici, invece, ai migranti sarebbero stati destinati gli scarti di quel modello, servito ad arricchire gli imputati. Colpa di Lucano (e di tutti gli altri imputati) è stata anche quella di essersi sottratto all’esame durante il processo, impedendo al collegio di porgli domande. Nessuna attenuante, dunque, non essendoci “traccia dei particolari motivi di valore morale o sociale per i quali avrebbe agito”. Quello che è emerso dal processo, secondo i giudici, è “un quadro per nulla rassicurante e a tinte fosche” : pur certificando l’integrazione “virtuosa e solidale che nei primi anni veniva senz’altro praticata su quel territorio”, si sarebbe arrivati alla nascita di una banda dedita a ruberie, tramite “meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità”, un vero e proprio ““arrembaggio” ai cospicui finanziamenti che arrivavano in quel paesino”. Insomma, “non vi è alcuna traccia dei fantomatici “reati di umanità” che sono stati in più occasione evocati da più parti, in quanto le vorticose sottrazioni che sono state compiute non servivano affatto a migliorare il sistema di accoglienza e la qualità dell’integrazione dei migranti, ma solo a trarre profitto”. Milano. “Rimediare alle ingiustizie che la giustizia può produrre” adnkronos.com, 18 dicembre 2021 Le parole della presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna di Rosa, al IX Congresso di Nessuno tocchi Caino. “Vorrei portarvi l’esempio di un’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Milano, in un caso specifico di cui si è molto parlato, ha ritenuto di escludere il pericolo di reiterazione dei reati compiuti, secondo la sentenza, in un contesto di associazione mafiosa. Badate che il caso si riferisce a una persona che nega la commissione dei reati e il Tribunale di Sorveglianza rispetta questa scelta, la ribadisce e la richiama. E allora cosa fa il Tribunale di Sorveglianza? Osserva che il lungo tempo trascorso dal fatto-reato deve essere coniugato ad altri fattori, tra cui l’impegno professionale e umano della persona a difesa della legalità nella lotta alla criminalità, compresa quella mafiosa, con il compimento di opere che sono oggetto di attestati di riconoscimento e perfino divulgate a fini educativi per le future generazioni”. Lo ha affermato la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna di Rosa, intervenendo al IX Congresso di Nessuno tocchi Caino che si svolge oggi e domani nel carcere di Opera a Milano, citando passaggi dell’ordinanza con la quale il TdS di Milano, il 23 giugno scorso, ha accolto, in seguito alla domanda di grazia (poi parzialmente concessa da Mattarella) la richiesta di differimento della pena per Ambrogio Crespi dopo la condanna definitiva a 6 anni di reclusione con l’accusa di aver procurato voti a Domenico Zambetti, assessore della Giunta Formigoni, per le regionali del 2010, servendosi, secondo i giudici, di conoscenze in ambienti della ‘ndrangheta. “La persona esaminata - ha sottolineato la presidente di Rosa - ha adoperato la sua arte per promuovere la cultura della legalità, della giustizia, della bellezza e della speranza. Pensate che parole positive, che termini concreti che danno valore a quella persona, a quella persona il cui corpo, purtroppo, secondo quello che si sente discutere come tematica generale, viene usato come ostaggio per dire agli altri ‘guardate non fate così altrimenti finite così’. Quello di trattenere il corpo per fare confessare è un modo di combattere proprio dell’Inquisizione, è un modo proprio degli anni più oscuri della storia d’Italia”. “Io appartengo allo Stato - ha aggiunto - svolgo dei compiti istituzionali, ma lo Stato non è questo, non è assolutamente questo, lo Stato ha compiuto centinaia di chilometri di distanza da questo ragionamento. Tornando alla nostra ordinanza, ci dice invece che con il compimento di queste opere per le future generazioni e con l’amore per questa etica condivisa, con l’indirizzare le proprie capacità professionali verso produzioni pubblicamente riconosciute di alto valore culturale, denuncia, impegno civile, strumenti efficaci per la diffusione di messaggi di legalità e di lotta alla criminalità, si porta a ritenere che la grazia, perché, guardate, l’istituto richiesto era il più ampio in assoluto possibile, qui non parliamo di istituti intermedi di benefici penitenziari, parliamo addirittura della grazia, che la grazia, dunque, potrebbe costituire un mezzo, leggo le parole testuali perché non so riepilogarle meglio, un mezzo di riparazione-rimedio alle possibili incoerenze del sistema rispetto al senso di giustizia sostanziale”. “Questo - ha evidenziato il giudice - è esattamente la traduzione del principio su cui si fonda questo nostro incontro. Il diritto penale che è meglio tradurre in qualcosa di meglio del diritto penale, perché bisogna pensare ad altro, perché bisogna rimediare a quelle ingiustizie che la giustizia può produrre. Qui si legge in un provvedimento firmato dai giudici che le finalità della pena si declinano anche per gli aspetti attinenti la responsabilizzazione del condannato rispetto alle azioni commesse, l’osservazione della sua personalità e la comprensione delle cause sottese al reato per la promozione di un cambiamento sostanziale, non solo comportamentale o formale, in un’ottica sia preventiva che riparativa. In questo senso appaiono certamente fondate, e qui ‘certamente’ è rafforzativo perché vuol dire il tribunale è proprio convinto (…), le osservazioni della difesa in merito alla già esaurita finalità di socializzazione e reinserimento sociale della pena rispetto al condannato. Abbiamo scoperto una persona a cui la pena non faceva più niente, non serviva più anche se doveva ancora farsi degli anni”. Subito dopo il giudice, applaudito dalla platea del congresso di Nessuno tocchi Caino, ha osservato: “Questo applauso secondo me va a questo provvedimento, a questo modo di sentire, a questo modo di essere, che è esattamente il contrario di quello che dicevamo prima, ti tengo per sempre dentro affinché altri guardino quello che ti succede e di te non me ne importa più nulla. No, lo Stato non fa così. E questo secondo me quel riportare all’ordine naturale delle cose la non violenza, di cui ha detto poco fa Sergio D’Elia, a quel vivere insieme, a quell’unire e non dividere. E un esempio espresso, esplicito di tutto questo, e porta a concludere che è felice, che è mirabile l’esperienza giudiziaria di questo provvedimento e di questa storia, che è una storia che dimostra che la verità non è quella che viene raccontata, è quella che viene vissuta da chi la conosce e ha questi risvolti”. “E questa verità - ha concluso - conferma che su tanti e diversi fronti si può arrivare a sanare il conflitto sociale nato con il reato, e sono fronti che portano l’intelligenza e il cuore a osare, e osando a sperare. E allora concludo questo mio intervento dicendo Spes Contra Spem”. Torino. “Sciopero del carrello” dei detenuti: protesta su qualità del cibo e sovraffollamento di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 18 dicembre 2021 Da sabato 18 fino a 23 dicembre l’intera popolazione carceraria, femminile e maschile, non ritirerà le pietanze “per lanciare un segnale d’allarme sulle condizioni del carcere”. Nuovo “sciopero del carrello” nella casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Da sabato 18 fino a 23 dicembre l’intera popolazione carceraria, femminile e maschile, non ritirerà il cibo “per lanciare un segnale d’allarme in merito alle condizioni in cui vertono le carceri”. I detenuti lo hanno annunciato con una lettera al ministro della Giustizia Marta Cartabia e alla direttrice della struttura delle Vallette Rosalia Marino. “La pandemia ha acuito antiche problematiche - spiegano gli organizzatori della protesta pacifica, ma neppure l’attuale governo ha preso una posizione netta per portare nelle prigioni dignità e buonsenso oltre che i diritti fondamentali sanciti dalle costituzioni italiana e europea. I problemi evidenziati riguardano - fra i tanti - il sovraffollamento, la mancata qualità dei prodotti utilizzati proprio per la realizzazione dei pasti e la mancanza di percorsi formativi e quindi riabilitativi e rieducativi. Questa sera l’associazione “Mamme in piazza per la libertà di dissenso” ha organizzato un presidio di fronte al carcere in solidarietà ai detenuti e per concludere la raccolta fondi a sostegno dello sciopero. Stefano Anastasia, a nome dei Garanti territoriali, chiede un atto di clemenza “Oggi, come a marzo 2020, di fronte alla nuova diffusione del Covid-19, che sta nuovamente ingessando le carceri, prive di sufficienti spazi di isolamento e quarantena dei positivi e dei loro contatti, sarebbe utile un minimo ma generale provvedimento di clemenza, anche solo di un anno, che oggi come allora consentirebbe una più efficace e ordinata gestione delle situazioni di rischio in carcere”. Un provvedimento di liberazione anticipata speciale potrebbe essere ripescato dal cassetto del Parlamento dove giace la misura proposta a settembre 2020 dal deputato di Iv, Roberto Giachetti, simile a quella assunta all’indomani della condanna europea per il sovraffollamento delle carceri. Anche se, conclude Anastasia, la proposta dei Garanti potrebbe essere anche più “radicale” di quella del deputato pannelliano: “Un giorno di liberazione anticipata per ogni giorno di pena scontata in pandemia”. Caltagirone (Ct): Apprendi e Leone, dell’Osservatorio di Antigone, in visita al carcere ilsicilia.it, 18 dicembre 2021 Pino Apprendi e Francesco Leone dell’osservatorio nazionale carceri di Antigone, si sono recati al carcere di Caltagirone, anche a seguito della notizia dell’uccisione di un detenuto, da parte del compagno di cella. I rappresentanti di Antigone hanno raccolto dati e notizie sui servizi erogati dal servizio sanitario, sull’attività trattamentale, sui corsi scolastici e professionali. “Complessivamente, dai dati che ci sono stati forniti e da ciò che si è potuto constatare, c’è una buona sinergia con il servizio sanitario regionale, sia per le visite specialistiche che per la fornitura dei farmaci. Oltre 200 dei 398 detenuti ospiti della struttura frequenta corsi scolastici o professionali, compresi 10 che frequentano un corso di laurea. L’attività trattamentale è intensa. Il problema che emerge, ancora una volta, come in altre carceri della Sicilia, è l’assenza di mediatori culturali, la carenza di organici, sia del personale amministrativo che quello della Polizia Penitenziaria”, dichiara Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia. “Malgrado la struttura sia di recente costruzione, é in continua manutenzione per vari problemi sin dalla sua apertura. I volontari sono stati presenti anche durante la chiusura per la pandemia, cosa molto importante che ha contribuito ad evitare clamorose proteste. Sull’omicidio del detenuto, per ovvi motivi, c’è il massimo riserbo per le indagini in corso” conclude Francesco Leone, dell’osservatorio nazionale carceri di Antigone. Modena. Rivolta al carcere Sant’Anna, tre nuovi racconti di pestaggi di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 18 dicembre 2021 Tre nuove testimonianze di pestaggi dopo la rivolta di Sant’Anna dell’8 marzo 2020 e i racconti di parenti di alcuni dei nove morti saranno al centro del documentario di Rainews24 che sarà trasmesso oggi e domani. Gli autori presenteranno queste testimonianze finora non note (e non si sa se note alla Procura di Modena). Una è nata dopo un esposto e due invece sono solo orali e davanti alle telecamere. Si tratta di detenuti che hanno raccontato ancora una volta di trattamenti brutali subiti, anche da denudati, da parte di agenti della polizia penitenziaria subito dopo che era stata sedata la rivolta che aveva prodotto devastazioni, un incendio e il saccheggio dell’infermeria. Pestaggi, da quanto è noto finora, che avvenivano prendendo spesso di mira detenuti che non avevano preso parte alla sommossa interna al carcere e quindi immotivati sotto ogni profilo. Saranno poi presentate le testimonianze raccolte dalla troupe televisiva in Tunisia, presso i familiari di alcuni dei nove morti, ufficialmente tutti stroncati da abusi di metadone, una vicenda sulla quale persistono dubbi e che presto porterà a un ricorso alla Cedu a Strasburgo per cercare di riaprire i fascicoli e rileggere i referti autoptici di un’inchiesta delicata chiusa in tempi rapidissimi (solo il caso di Sasà Piscitelli, il detenuto attore di teatro, resta aperto ad Ascoli, dove è morto dopo il trasporto da Modena. “Anatomia di una rivolta. I 9 morti del carcere Sant’Anna di Modena”: così si intitola il documentario di Maria Elena Scandaliato e la modenese Giulia Bondi con Raffaella Maria Cosentino che andrà in onda su Rainews24 (canale 48) in due puntate: questa sera alle 21.30 e sabato 18 dicembre alle 18.30. È un’inchiesta di Spotlight, il programma curato da Valerio Cataldi, realizzata in collaborazione con Tgr Rai. In replica domenica 19 dicembre alle 9.30 (prima parte) e alle 20.30 (seconda parte), poi su RaiPlay. Le immagini sono di Francesco Mugnaini Lorenzo Lucchini Mario Idone Cettina Forestieri Davide Manocchi Gabriella Bava. Nessuna novità nel frattempo trapela dalla procura di Modena dove i pm Franbcesca Graziano e Lucia de Santis stanno conducendo le indagini sui restando due dei tre filoni iniziali (il terzo, sui morti, come detto è stato archiviato). Sia per i responsabili della rivolta e dei gravi danneggiamenti alla struttura carceraria sia per le ormai numerose denunce di pestaggi di detenuti sono state chieste e ottenute proroghe per altri mesi. Se ne riparlerà in primavera. Torino. Niente vaccino per i migranti del Cpr. La denuncia di Sinistra ecologista La Stampa, 18 dicembre 2021 La denuncia dei consiglieri Grimaldi, Ravinale e Diena: “Manca una cura medica, continui atti di autolesionismo e presenza di persone con disagio psichico”. Partiamo da una costatazione che può sembrare banale, ma che poi ce la si scorsa spesso: i migranti trattenuti nei Cpr non sono detenuti. Non hanno commesso delitti. Non sono in prigione in attesa di un processo. Si trovano all’interno di una struttura solo per verificare il loro titolo amministrativo per restare in Italia. Eppure, o forse anche per questa condizione confusa, le persone che si trovano all’interno hanno meno diritti di chi è in carcere. E’ quanto denunciano i consiglieri Grimaldi, Ravinale e Diena (Sinistra Ecologista) che oggi hanno effettuato un sopralluogo al Cpr di corso Brunelleschi a Torino per verificare le condizioni della struttura e delle persone detenute. “Non c’è un luogo di separazione dopo il primo tampone che si effettua all’ingresso e non ne viene fatto un secondo - dichiarano i consiglieri - Molti trattenuti non sono vaccinati e vorrebbero esserlo, non è però presente una struttura Asl adibita ai vaccini e richiami, le visite specialistiche sono poche: tutto ciò determina una situazione sanitaria peggiore rispetto alle carceri. Abbiamo subito informato l’assessore Rosatelli e chiediamo all’assessore alla Sanità della Regione di garantire ai trattenuti almeno uguali diritti di chi è in prigione”. La mancanza di strutture sanitarie si ripercuote anche su altri ambiti. Per esempio, denunciano ancora i consiglieri, ci sono persone con un chiaro disagio psichiatrico ancora presenti e gli atti di autolesionismo sono aumentati dopo il suicidio di Mussa Balde (60 episodi in due mesi). Un uomo di nazionalità albanese ha raccontato ai consiglieri di aver tentato il suicidio e di essere stato comunque subito riportato nella struttura dopo la visita. Oggi, però, gli “ospedaletti” sono chiusi e non si sa se saranno riaperti dopo l’inchiesta in corso. La struttura - Il Cpr di corso Brunelleschi ha una capienza massima di 77 posti, di cui 53 occupati, a fronte di una capienza massima teorica di 210. Dal 1° gennaio ci sono stati 715 ingressi di persone di diverse nazionalità. La struttura è composta da sei aree, attualmente ne sono occupate due e parte di una terza. Le altre sono chiuse in attesa di ristrutturazione, Il 95% delle persone presenti ha già scontato condanne in carcere “ma le identificazioni nelle carceri italiane sono pochissime - denunciano i consiglieri - come pochi sono i rimpatri effettivi di chi viene trattenuto qui: 71 con voli charter, 3 con scorta, 53 senza. Solo due delle persone attualmente presenti hanno presentato domanda per la protezione internazionale”. Isolati e dimenticati - “Purtroppo - continuano i consiglieri - le condizioni delle persone trattenute non sono dignitose né rispettose dei diritti basilari. È vietato l’uso dei telefoni cellulari e dai telefoni pubblici presenti sono ammesse solo telefonate in uscita. Gli esterni (avvocati, parenti, consolati) non dispongono di un numero diretto per telefonare al Cpr e ricevere informazioni sui trattenuti. Uno psichiatra è presente una volta alla settimana e si cerca di sopperire alle carenze di personale sanitario con accordi di volontariato con medici esterni ma la presenza medica è limitata a sei ore al giorno”. Modena. Castelfranco, alla Ciclofficina il reinserimento sociale dei detenuti modenatoday.it, 18 dicembre 2021 La struttura ha aperto i battenti in questi giorni in via Tarozzi e vede al lavoro due persone: resterà aperta fino a febbraio. Entra nel vivo e, soprattutto nella piena operatività, la nuova Ciclofficina di Castelfranco Emilia, l’importante progetto finalizzato al reinserimento sociale dei detenuti della Casa di Reclusione a Custodia Attenuata del Forte Urbano. L’iniziativa, lo ricordiamo, voluta e ideata dall’Amministrazione comunale, e realizzata grazie al sostegno della Regione Emilia Romagna Assessorato Sicurezza e Legalità, e con la piena collaborazione della Direzione della struttura penitenziaria, ha “l’obiettivo di creare le basi per un nuovo cammino a chi in passato ha commesso degli errori e sta finendo di pagare il proprio conto con la Giustizia, ma che al contempo - ha dichiarato Nadia Caselgrandi, Vicesindaco e Assessore al Welfare del Comune di Castelfranco Emilia - ha il diritto di avere una chance per scrivere parole nuove sulle pagine del proprio futuro”. “Noi siamo veramente soddisfatti ed orgogliosi di vedere questo ulteriore progetto concretizzarsi: così come abbiamo fatto con l’inserimento dell’Associazione Maestre Sfogline per tramandare l’arte della preparazione dei tortellini (ora prodotti anche direttamente in carcere dai detenuti coinvolti nel progetto, nda), anche in questo caso ma con il supporto fondamentale dei volontari di Arci Solidarietà e di Yuri Costi in particolare, viene insegnato un mestiere prezioso quale appunto la riparazione delle biciclette, affinché le persone coinvolte abbiano in maniera tangibile una nuova opportunità”. “Un progetto questo - ha poi aggiunto - che posa le sue fondamenta anche su un altro aspetto non secondario: la sostenibilità ambientale. Vogliamo pensare, infatti, che anche grazie a questa iniziativa, avremo in circolazione sempre più biciclette e meno auto. Non solo. Ci preme anche sottolineare - ha concluso - che questa struttura rappresenta, insieme ai cubotti colorati posizionati proprio nell’area antistante la stessa Ciclofficina, il primissimo step dell’ampio progetto interamente partecipativo che riguarda l’area delle ex case operaie: uno spazio le cui finalità globali saranno decise a partire dal 2022 con il coinvolgimento diretto, e appunto partecipato, di tutta la nostra comunità”. La Ciclofficina, che ha aperto i battenti in questi giorni in via Tarozzi, al momento vede coinvolti due detenuti, già pienamente formati e attivi sia per quanto attiene le riparazioni, che per eventuali ristrutturazioni complete di vecchie due ruote, a seconda delle esigenze. Fino a tutto febbraio sarà aperta al pubblico il martedì, il venerdì e il sabato dalle 09.00 alle 13.00; da marzo a luglio, sempre nelle stesse giornate ma con orario esteso anche al pomeriggio dalle 14.00 alle 18.00. Tutto il ricavato sarà destinato al sostegno economico della struttura, dall’acquisto dei materiali al pagamento delle bollette. San Gimignano (Si). Reinserimento socio-lavorativo: consegnati 14 attestati agli allievi detenuti radiosienatv.it, 18 dicembre 2021 I detenuti hanno partecipato e concluso il corso della Scuola edile di Siena “Freeman 2 - Competenze nella manutenzione edilizia e impiantistica”. Consegnati gli attestati a 14 allievi detenuti che hanno partecipato al ‘Progetto Freeman 2 - Competenze nella manutenzione edilizia e impiantistica’ per il reinserimento socio lavorativo dei detenuti. È quanto effettuato dalla Scuola edile di Siena, nella Casa di Reclusione di San Gimignano, grazie alla disponibilità della Direzione. I certificati riconoscono ai partecipanti la qualità ed il valore della formazione svolta. La cerimonia ha concluso il percorso iniziato con il finanziamento della Regione Toscana sull’Avviso Pubblico per il finanziamento di ‘Progetti formativi rivolti a soggetti in stato di detenzione negli Istituti Penitenziari Toscani, gestito dalla Scuola Edile di Siena con il Cpia, Centro Provinciale Istruzione Adulti; il corso è terminato il 22 ottobre con l’esame finale. Con il direttore della Casa di Reclusione di San Gimignano Giuseppe Renna, erano presenti alla consegna il presidente della Scuola edile Giannetto Marchettini e il direttore della Scuola Edile di Siena Stefano Cerretani, Annalisa Pani del Cpia, docenti e collaboratori dell’Ente Senese Scuola Edile. La collaborazione con il Cpia ha consentito alla Scuola Edile di Siena di svolgere un corso con alto valore professionalizzante orientato alla rieducazione e al reinserimento, grazie ad una forte azione di orientamento collettivo e individuale. “La Scuola Edile di Siena - ha detto il presidente Marchettini -, nell’ambito della sua missione di formazione e inserimento di lavoratori nell’edilizia, sviluppa politiche attive con percorsi di reinserimento contro i rischi di esclusione e marginalizzazione. L’importanza della precedente esperienza di collaborazione con la Casa di Reclusione di San Gimignano ci ha stimolati a ripetere questo percorso. La consegna dei 14 attestati agli allievi detenuti realizza un grande obiettivo con una risposta alle necessità di coloro che, finito il periodo di detenzione, vivono problemi di reinserimento sociale”. “Un reale inserimento dei lavoratori nel mondo professionale - ha spiegato il direttore Cerretani - impone esperienze e competenze professionali, raramente presenti nella popolazione carceraria. Dopo la prima esperienza positiva nel 2018 della Scuola Edile con la Casa di Reclusione di San Gimignano e il primo percorso formativo, abbiamo realizzato questo nuovo progetto Freeman. Il modello formativo è stato condiviso e, con grande soddisfazione, molto apprezzato dalla Direzione della Casa di Reclusione e dai partecipanti. Si è articolato in un percorso di 226 ore dal precedente mese di giugno, sui temi dell’edilizia e impiantistica manutentiva con lo sviluppo di due Unità di Competenza del Repertorio Regionale delle Figure professionali”. “La strategia della nostra Scuola Edile - hanno anticipato Marchettini e Cerretani - è quella di continuare a sviluppare nuovi fattori di promozione e sensibilizzazione, anche in una logica di collegamento e comunicazione tra il dentro e il fuori: tra l’istituzione penitenziaria e il territorio circostante”. Milano. Dal legno dei barconi prendono vita i presepi di Giorgio Paolucci Famiglia Cristiana, 18 dicembre 2021 Nel carcere di Opera, a Milano, mani di detenuti realizzano scene della Natività usando i resti delle imbarcazioni naufragate nel Mediterraneo. Un laboratorio per passare dalla morte alla vita, per cavare speranza da un mare di dolore. Dal legno dei barconi che hanno portato i migranti dall’Africa a Lampedusa nascono presepi costruiti dai carcerati. Mani che, in qualche caso, si sono macchiate di sangue diventano strumenti per fare memoria della nascita del Signore della vita. Accade nel carcere di Opera, alle porte di Milano, all’interno di un laboratorio dove alcuni detenuti sono andati a scuola di falegnameria da Francesco Tuccio, figlio d’arte perché suo padre era maestro d’ascia sull’isola siciliana che in questi anni ha visto arrivare migliaia di persone e centinaia di cadaveri. Tuccio non è nuovo a queste “metamorfosi”: da anni raccoglie il legname delle imbarcazioni naufragate restituito dalle mareggiate e realizza croci che parlano della sofferenza di quanti cercano fortuna in Europa. “Ogni croce costruita è intrisa del dolore dei migranti, e con il mio lavoro cerco di tenere viva la memoria del loro dolore e di scuotere chi ancora rimane indifferente difronte ai drammi che si consumano nei nostri mari”. Nei mesi scorsi ha istruito cinque detenuti che ora ricavano piccoli presepi dai legni che lui ha raccolto in mare e portato nel laboratorio di falegnameria nato a Opera grazie alla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. “Questa iniziativa testimonia la volontà di espiazione e di riscatto che li anima”, commenta il direttore del carcere, Silvio Di Gregorio. “Così, accanto alla necessaria riparazione della colpa legata ai reati commessi, hanno la possibilità di ritrovare autostima e di diventare protagonisti di esperienze positive”. Artefice e appassionato animatore dell’iniziativa è Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Casa dello Spirito e delle Arti (www.casaspiritoarti.it): “In questo laboratorio il dolore che trasuda dai legni dei barconi diventa segno di speranza”, dice. “I presepi raccontano la nascita di Gesù e insieme testimoniano il desiderio di rinascita delle persone detenute, che con il loro lavoro collaborano a diffondere un messaggio di luce, la luce del Salvatore, in un’epoca popolata di ombre come quella che stiamo vivendo”. Il primo presepe è stato portato in dono a papa Francesco, quelli prodotti in queste settimane vengono messi a disposizione di chi vuole partecipare a questa esperienza di rinascita. “Non abbiamo stabilito un prezzo”, spiega Mondadori, “l’entità delle offerte è lasciata alla coscienza di chi li richiede, ben sapendo che con il suo contributo aiuta un’opera di grande valore umano e sociale. Il ricavato va a beneficio delle famiglie di coloro che li costruiscono: mogli e figli che conoscono il dolore legato all’assenza dei loro cari e fanno i conti con le ristrettezze economiche e lo stigma di cui sono vittime”. “Questa iniziativa ha anche una dimensione educativa”, continua Mondadori: “tra i primi acquirenti ci sono alcuni nonni che hanno raccontato ai nipoti - come solo un nonno sa fare- cosa c’è dentro quei pezzi di legno, da quale storia vengono, di quali sofferenze sono stati testimoni e quale messaggio di speranza comunicano. È un modo significativo per testimoniare alle nuove generazioni quanto il Natale sia qualcosa di contemporaneo, un Avvenimento che continua ad accadere e a parlarci”. Claudio è uno dei cinque detenuti scelti per realizzare i presepi: “Sono impressionato dal carico di umanità che passa nelle nostre mani, mani che hanno commesso reati molto gravi, mani che trasudano sangue e che diventano veicolo per costruire qualcosa che esalta la nascita e la vita. È un piccolo grande miracolo di cui siamo diventati indegnamente protagonisti, e che mi riempie di commozione e di orgoglio”. Nicolai, suo compagno di laboratorio, ci tiene a sottolineare che “il presepe non è un oggetto che parla di un fatto accaduto nel passato, ci ricorda un Dio presente, anche se spesso noi ci dimentichiamo di Lui”. E Vincenzo racconta di avere scoperto, costruendo la capanna e intagliando le statuine di Gesù, Giuseppe e Maria, “cosa conta davvero nella vita, per cosa vale la pena spendere l’esistenza”. Arnoldo Mosca Mondadori, che insieme a Marisa Baldoni ha fondato la Casa dello Spirito e delle Arti, ha promosso vari progetti che vedono protagoniste “le persone detenute”: ci tiene a chiamarle così, “perché detenuto è solo un aggettivo, il sostantivo è la parola “persona”. Non dobbiamo mai dimenticarlo”. Nel 2013 a Opera è stato avviato un laboratorio di liuteria sotto la guida di maestri dell’istituto Stradivari di Cremona. I violini sono frutto di ore di lavoro artigianale (per produrne uno sono necessarie 300 ore di lavoro) e le competenze acquisite da chi li realizza diventano uno strumento per il reinserimento nel mondo del lavoro. E nel 2016, anno del Giubileo della Misericordia, è nato nel carcere il progetto Il senso del Pane, un laboratorio per la produzione di ostie da parte di persone che hanno commesso gravi delitti e si sono pentite. Nel tempo sono stati avviati in Italia e all’estero altri laboratori di produzione di ostie in cui lavorano uomini e donne che fanno i conti con la fragilità: persone detenute, altre con disabilità fisiche e psichiche, ragazze che provengono dal mondo dello sfruttamento, persone con dipendenze. Un’altra testimonianza che racconta come la fragilità può diventare risorsa. Per sostenere il progetto - Chi è interessato ai presepi prodotti nel laboratorio di falegnameria di Opera può scrivere a casaspiritoarti@gmail.com. Sabato 18 dicembre alle 20.30 presso il teatro Factory 32 di Milano (via Watt 32) verrà presentata l’iniziativa. Nel corso della serata si esibiranno alcuni musicisti dell’Orchestra dei popoli, un progetto di integrazione di culture e nazionalità diverse che punta a far emergere, in Italia e nel mondo, talenti presenti ma spesso nascosti, contrastando situazioni di degrado e povertà attraverso la musica. Il progetto della Casa dello Spirito e delle Arti coinvolge orchestre in vari Paesi, tra le quali la piccola orchestra nata nella scuola di Nebek, in Siria. Per partecipare all’evento scrivere a casaspiritoarti@gmail.com. Fermo. Carcere, un aiuto per gli ultimi. Sapone ai detenuti indigenti Il Resto del Carlino, 18 dicembre 2021 La Camera penale di Fermo, in collaborazione con l’assessore ai Servizi sociali Mirco Giampieri, ha consegnato il materiale per la prima accoglienza: “Il prossimo passo sarà la biancheria”. Un aiuto concreto, per chi si trova a gestire un momento terribile. La Camera penale di Fermo, in collaborazione con l’assessore ai servizi sociali del comune di Fermo Mirco Giampieri, ha consegnato ieri alla direzione della casa di reclusione di Fermo materiale per la prima accoglienza delle persone che si trovano ad entrare in carcere in stato di indigenza. Nella delegazione anche Renzo Interlenghi che era stato in visita all’interno della struttura lo scorso agosto: “In quell’occasione, quale membro della Camera Penale di Fermo e Consigliere Comunale, avevo appreso dalla direttrice Daniela Valentini dell’esigenza di sostenere le persone in difficoltà che si trovassero a vivere l’esperienza del carcere senza avere mezzi. In particolare lamentavano la mancanza di saponi, prodotti per l’igiene personale e in questo primo passaggio ci siamo fatti carico di questa problematica. È un tempo difficile per tutti, anche fuori dal carcere, ma tra quelle mura il rischio è che si perda anche la dignità personale e la cura di sé”. Importante anche la sensibilità dell’assessore Giampieri, nella consapevolezza di quanto la pandemia abbia peggiorato anche le condizioni di lavoro degli operatori all’interno del carcere e la stessa esistenza delle persone detenute che per molti mesi non hanno avuto il conforto di attività riabilitative e di recupero e nemmeno la possibilità di avere visite da parte dei familiari. A ricevere il materiale la comandante della polizia penitenziaria, Loredana Napoli, a garantire l’impegno per la sicurezza di tutti ma anche per l’attenzione alle persone in difficoltà estrema. Una cinquantina le persone detenute a Fermo, molte le situazioni di tossicodipendenza, tanti anche gli stranieri che non hanno nessuno ad assisterli da fuori. “Il prossimo passo sarà una fornitura di biancheria per le emergenze, spiega Interlenghi, è essenziale che ci sia un dialogo per assicurare le condizioni di vita accettabili a tutti, per evitare di tenere persone senza assistenza alcuna. Il personale fa il possibile ma è vero anche che all’interno del carcere fermano ci sono pochi medici, lo spazio per attività trattamentali è ridotto al minimo, occorre essere attenti e sensibili per assicurare ad una casa di reclusione il ruolo di rieducazione che le spetta secondo quanto impone la Costituzione”. All’incontro era presente anche il presidente della Camera penale Andrea Albanesi e l’assessore all’ambiente del comune Alessandro Ciarrocchi, con lo staff del carcere, di fronte al muro alto che custodisce la vita di persone in cerca di una seconda possibilità. Piacenza. Sorpresa per i detenuti delle Novate: il Natale ha portato un campo da basket Libertà, 18 dicembre 2021 Natale più ricco che mai quest’anno per i detenuti del carcere di Piacenza, che hanno ricevuto una bella sorpresa da parte di un nutrito gruppo di generosi piacentini. Davvero tanti coloro che hanno partecipato a questa iniziativa e che hanno fatto visita alla Casa Circondariale di Piacenza. Un gruppo guidato da Valter Bulla, che, insieme alla Fondazione di Piacenza e Vigevano rappresentata dal presidente Roberto Reggi ha provveduto alla realizzazione di questo campo interno per giocare a basket. Contributo anche da parte della Bakery Basket Piacenza, che ha portato alcuni doni, tra cui una maglietta della squadra per la direttrice della Casa Circondariale Maria Gabriella Lusi, e poi 200 panettoni, frutto del progetto “Dona un panettone”, al quale hanno partecipato l’Associazione “Oltre il Muro” del presidente Enrico Rizzo, Valter Bulla, Bruno Giglio, Frutti del Grano, Groppi Pastificio, Associazione “Cuore Generoso”, Associazione “Fratello Mio”, azienda Fratelli Ercoli, Metronotte Città di Piacenza, i gestori della trattoria “Gino Lupi”, Caritas, Livio Villa con amici e la ditta Roberto Menta. Un momento di svago per i detenuti, che hanno anche potuto provare subito il campetto da pallacanestro facendo alcuni tiri con i campioni della Bakery Daniel Donzelli, Riccardo Chinellato e Michael Sacchettini, sotto gli occhi del coach Federico Campanella, accompagnati dal team manager Roberto Spagnoli. Felicissima la direttrice Lusi. Perché il campo da basket rappresenta “tante cose, innanzitutto uno spazio adeguato per i detenuti per l’esercizio di uno sport, che anche in carcere è disciplina e impegno, l’attività che svolgono qui è sempre finalizzata al reinserimento sociale. Quello che significa questo spazio, allestito con il contributo della Fondazione di Piacenza e Vigevano, è anche la forza dell’organizzazione penitenziaria, che dialoga e fa rete con il suo territorio”. Il concetto fondamentale di diritto allo sport è stato ribadito anche dal delegato provinciale Coni Robert Gionelli, così come ha aggiunto Reggi che ha promesso impegno continuo per il carcere: “La comunità piacentina è al fianco di un’altra comunità, di soggetti fragili, in questo modo noi vogliamo promuovere il diritto alla mobilità e allo sport per tutti, anche al fianco di soggetti che sono in carcere, con un’iniziativa che è piccola, ma alla quale vorremmo dare seguito con altre iniziative”. Enna. “Anche i santi vivono in cella”: un viaggio nella religiosità dei detenuti Giornale di Sicilia, 18 dicembre 2021 “Anche i Santi vivono in cella” è un lavoro che vede la luce, con una raccolta di foto di oltre 30 anni, all’interno del carcere di Enna. Lunedì prossimo, ore 17.30, all’Hennaion, La Biblioteca degli autori ennesi, Via Roma 414/416, ad Enna, sarà presentato il libro “Anche i Santi vivono in cella”, La moderna edizione, con le foto del regista e fotografo, Paolo Andolina e i testi della giornalista Pierelisa Rizzo. Un racconto, tra immagini e parole, di come i reclusi si ancorano ad un Dio per sopravvivere e coltivare la speranza. Contestualmente alla presentazione del libro, sarà inaugurata, sempre all’Hennaion, la personale di Paolo Andolina con alcuni scatti tratti dal libro, visitabile, fino al 5 gennaio 2022, da lunedì a sabato, dalle ore 11:00 alle ore 13:00 e dalle ore 17:30 alle 20:00. “Tanti, tantissimi, troppi sono i detenuti che transitano nelle “patrie galere”. Molti li ho incontrati e fotografati in questi anni di lavoro come fotografo all’interno di un carcere siciliano. Giovani e meno giovani, africani, albanesi, francesi, curdi, indiani e… anche paesani. - dice Andolina - Un reportage sull’uomo, dove “Ogni gesto, ogni oggetto ogni icona assume un significato purificatore e riconciliatore”. Qui ho compreso che la speranza nel proprio Dio dà la possibilità di vedere fuori da una finestra anche quando è ermeticamente chiusa. E che ti dà la forza e la dignità che ti permette di vivere anche quando si è morti. E con questa speranza che in questi luoghi sorge anche quel Dio che non ho mai incontrato, ma che va in ogni carcerato, poiché in carcere se ne sente particolarmente bisogno”. “Terra e cielo, arte e impegno. Questo progetto fotografico è anche un progetto di vita, il segno di una presenza costante e partecipe accanto a chi è temporaneamente privato della propria libertà” - scrive nella prefazione al libro Don Luigi Ciotti. All’evento, con il patrocinio del Comune di Enna, della Regione Sicilia, Assessorato ai Beni Culturali e all’Identità Siciliana e il Libero Consorzio comunale di Enna, i contributi di Riccardo Iacona, giornalista e conduttore Rai ed Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica, parteciperanno oltre gli autori, il sindaco di Enna, Maurizio Dipietro e Mario Messina, bibliotecario Hennaion. Terzo Settore, l’obbligo del regime Iva diventa legge: “Colpita la solidarietà” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 18 dicembre 2021 Migliaia di enti dovranno aprire la partita Iva e sopportare i costi di tenuta della contabilità. Un anno fa una mobilitazione ottenne che la norma fosse eliminata. Questa volta le proteste non sono state ascoltate. Vanessa Pallucchi: “Una norma vessatoria”. Anche le attività svolte da enti non profit che non svolgono attività commerciale, saranno sottoposte al regime Iva dal 1 gennaio 2022. Lo stabilisce il decreto Fiscale approvato in via definitiva alla Camera dei Deputati. Ciò significa per migliaia di enti l’obbligo di apertura della partita Iva sopportando i costi di tenuta della contabilità, ulteriori oneri e adempimenti burocratici. “Un anno fa tutto il Terzo settore si mobilitò ottenendo che questa stessa norma fosse eliminata - dichiara Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Nazionale del Terzo settore - dalla legge di Bilancio. Poi la scorsa settimana ci siamo ritrovati, in sede di conversione del dl Fiscale in Senato, nella stessa situazione di prima. Ci sono più ragioni per cancellare questa disposizione - nsiste la portavoce - perché oltre ad arrecare un ingiusto danno alle associazioni, soprattutto a quelle più piccole, senza peraltro alcun vantaggio per il bilancio dello Stato, non è raccordata con la legislazione fiscale del Terzo settore oggi in vigore. Inoltre, arriva proprio mentre sono in corso gli adempimenti per le iscrizioni al Registro unico nazionale del Terzo settore”. Il Terzo settore va sostenuto, non colpito, aveva detto con forza Vanessa Pallucchi, all’indomani della approvazione da parte del Senato di un emendamento al dl fiscale che assoggetta al regime Iva le associazioni. La protesta si è levata a gran voce. Tante sono già in grave affanno per gli effetti subiti dalla crisi pandemica. E molti esponenti politici di tutti gli schieramenti avevano assicurato il loro impegno per far ritirare questa norma dichiarata da tutti “irragionevolmente vessatoria”. Fino all’ultimo c’è stata la speranza che nel passaggio dal Senato alla Camera l’Articolo 5, nei commi da 15-bis a 15-quater, del dl fiscale venisse soppresso. “Non possiamo immaginare di gravare ulteriormente sulle nostre associazioni e di mettere a rischio la loro sopravvivenza - dice ancora Pallucchi - Esiste la possibilità di riparare a questo errore nella legge di bilancio ora in discussione - conclude Vanessa Pallucchi”. Ma facciamo un passo indietro. In Senato, l’emendamento del decreto fiscale sull’obbligo dei registri provvedimento è stato approvato per evitare all’Italia una multa di Bruxelles. Ora la protesta è dilagante. Alzano la voce contro il decreto Arci, Auser, le Acli. E Chiara Tommassini, presidente di CSVnet, che aveva già dichiarato che “gli oneri contabili e per gli adempimenti burocratici dovuti all’apertura della partita iva sarebbero insostenibili senza peraltro portare vantaggi alle casse dello Stato”, aggiunge: “Questo provvedimento metterebbe in grave difficoltà molte associazioni che sono in prima linea per sostenere le proprie comunità e le persone in difficoltà in questo difficile periodo di emergenza sanitaria”. Chi aiuta gli altri non deve finire nella ragnatela della burocrazia di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 18 dicembre 2021 Terzo settore: passerà il diktat ai volontari dell’Italia più generosa di aprire decine di migliaia di partite Iva impelagandosi in lacci e lacciuoli? “Vanno evitate “tasse sulla bontà”. Così disse Mattarella nel messaggio di Capodanno 2018 lodando il Terzo Settore e i No profit “che rappresentano una rete preziosa di solidarietà” e “meritano maggiore sostegno da parte delle istituzioni, anche perché, sovente, suppliscono a lacune o a ritardi dello Stato...”. Tanto bastò perché grillini e leghisti facessero marcia indré cancellando il raddoppio dell’Ires. Evviva. Ma ora? Passerà il diktat all’Italia più generosa di aprir decine di migliaia di partite Iva impelagandosi in lacci e lacciuoli? Per carità, immaginiamo che ogni mezzemaniche a suo agio tra un’”affrancazione canone gravante sulla quota n.327 fg. 74 part. 16 del demanio quotizzato del Comune” e un “Art. 135 quinquies decies”, dirà che stavolta non ci son soldi a carico del volontario ma solo il disbrigo di una pratica. Che sarà mai aprire una partita Iva anche se un po’ tutti i siti Web specializzati spiegano che non è un’operazione affatto gratuita e men che meno facile? Sempre meglio che il tentativo tre anni fa di imporre alle Ong senza fini di lucro il passaggio dell’Ires dal 12% al 24%. Quella delle maison del lusso. Idea allora bollata da Silvio Garattini come “stupida prima ancora che ingiusta”. Nonché “un cattivo affare per lo Stato stesso” che dal volontariato riceve più di quanto sparagnino dona. Parole che potrebbe ripetere oggi. Basti, per capire, l’elaborazione aggiornata dei dati ufficiali dell’Istat nella scia di un metodo di calcolo impostato anni fa dalla Johns Hopkins University: “Quanto vale il volontariato in Italia? I circa 5,5 milioni di volontari italiani rappresentano il lavoro equivalente di circa 585.000 dipendenti funzionali senza retribuzione”, spiega Riccardo Bonacina, fondatore e direttore editoriale di Vita, “Calcolando in venti ogni mese le ore donate in media da ogni volontario alla comunità si calcolano 1.320 milioni le ore annuali spese dai volontari per un valore economico stimato in oltre 12 miliardi di euro, calcolati col metodo del costo di sostituzione. E sono stime per difetto”. Una somma enorme. Una generosità enorme. Che come ricordava tre anni fa Mattarella tappa mille buchi lasciati dallo Stato. Vale la pena di scaricare addosso a questo mondo di buona volontà, che non chiede protocolli né timbri e per precipitarsi a soccorrere chi è nei guai, una cornice burocratica come la partita Iva, con annessi e connessi, che rischia di scoraggiare che è pronto a dedicare la vita agli altri ma ha l’orticaria per le scartoffie? Il servizio ambulanze dell’Alto Agordino, nel bellunese, per fare un esempio, si basa su 7 associazioni locali con 15 ambulanze (comprate dalle croci verdi e bianche) e 300 volontari (ricompense: zero) per coprire 400 chilometri quadrati al servizio di 12 comuni e 250 frazioni montane per un totale di 14 mila persone. Una struttura che va, senza partita Iva. Ma se dovesse arrabattarsi in pignolerie burocratiche? “Noi, da due anni, ce l’abbiamo la partita Iva”, sorride Don Dante Carraro, presidente del Cuamm, “Ma abbiamo una organizzazione collaudata. In grado contenere i costi. È un appesantimento, ma reggiamo. Il problema sarà per le associazioni piccole, a volte piccolissime. Non so quante ce la faranno”. Si pensi a qualche associazione parrocchiale che insegna l’italiano agli immigrati: chi glielo fa fare di adeguare gli Statuti alle nuove norme, chiedere consulenze, tenere un libro dei verbali delle assemblee, uno dei verbali del consiglio direttivo, uno dei soci... Perché, gira e rigira, il problema resta sempre lo stesso: un conto è la trasparenza, un altro l’esasperazione abnorme e caricaturale della trasparenza. Quello è il timore del Terzo Settore, che conta su oltre 359 mila istituzioni non profit, ha più di 63 mila dipendenti e (come ha raccontato Buone Notizie) si è sollevato con decine di associazioni, in testa la portavoce del Forum Nazionale Vanessa Pallucchi, contro la decisione del governo, contestata a parole perfino da un po’ tutti i partiti di destra e di sinistra prima che fosse approvata dalla Camera in via definitiva col Decreto fiscale. Tra i più delusi i promotori della candidatura all’Unesco del volontariato come “Patrimonio immateriale dell’umanità”. I quali hanno scritto a Mario Draghi ricordandogli quanto lui stesso, il premier, aveva detto a fine ottobre: “Voi lavoratori e volontari del Terzo settore avete fatto tanto per l’Italia, soprattutto per i più deboli. Ora tocca a noi aiutarvi, perché possiate continuare ad aiutarci”. Parole che gli esponenti del volontariato si aspettavano fossero seguite da scelte diverse. Arriverà, magari fuori tempo massimo, nella legge di bilancio, un rattoppo? Si vedrà. Quei due bimbi rom morti nel rogo di Foggia: uccisi dalla miseria e dal disprezzo di Carlo Stasolla* Il Dubbio, 18 dicembre 2021 Vittime della povertà. Ma peggio ancora vittime di un dispositivo denominato “campo nomadi”, espressione architettonica di un razzismo di Stato che, malgrado tutto, sopravvive da 40 anni in Italia, la nazione denominata in Europa dal 2000 il “Paese dei campi”. Due fratellini, un maschietto di 4 anni e una femminuccia di 2, sono morti arsi vivi nell’insediamento alle porte di Stornara, comune di 6.000 anime a 30 km da Foggia, la provincia più povera d’Italia. L’incendio sarebbe stato provocato da un bidone di metallo utilizzato come braciere per combattere le rigide notti di questo inverno. Qualcosa non ha funzionato e in pochi secondi la baracca che accoglieva i due fratellini si è ridotta a un cumulo di cenere. Sono quasi 10.000, in Italia, i minori che conducono dalla nascita un’esistenza dentro una baracca, una tenda, un container o una roulotte delle estreme periferie italiane. Il loro destino è segnato e, quando non si termina prematuramente l’esistenza davanti a un falò, sono i numeri a predeterminare il domani. Che non parla la lingua della speranza ma della dannazione. Ricerche e analisi ci dicono che un bambino che oggi nasce in un “campo nomadi” non potrà mai sognare di laurearsi e nemmeno di raggiungere il diploma. Avrà una possibilità su 7 di raggiungere la terza media e 12 possibilità in più di finire in adozione rispetto al coetaneo che abita in un appartamento; la sua aspettativa di vita ha un’asticella di 10 anni al di sotto della media nazionale. Figli di genitori poveri ma prima di tutto figli dei ghetti, fisici e mentali, che abbiamo creato e che continuiamo a gestire per tenere a galla la nostra tranquillità di cittadini esemplari. Questi luoghi dannati, denominati impropriamente “campi nomadi”, non nascono spontaneamente perché frutto di speculazioni urbanistiche o di lucide politiche del disprezzo che definiscono e delimitano, su un’arbitraria catalogazione etnica, lo spazio di un abitare diverso, per cittadini dalla cittadinanza amputata. Sono aree del dolore, della segregazione e della marginalità. Ma anche dove dall’alto, si gestiscono appalti e si costruiscono guadagni. Tutto nell’imperfetta e ipocrita legalità. La notizia della tragica morte dei due fratellini è apparsa nelle news dei notiziari per poi, piano piano, scendere nella scala dell’importanza. Tutto passerà e tutto diventerà inutile, anche la morte di due bambini. Resterà lo spazio temporale di un falò a ricordarci quanto siamo lontani da una giustizia sociale che oggi rappresenta solo un’illusione. E con essa i 109 “campi nomadi” italiani, le cui sagome emergono nei grigi tramonti delle nostre periferie estreme, dove fantasmi urbani vagano alla ricerca di una parola, un gesto, un’azione politica che parli il linguaggio dell’umanità. Davanti a tutti noi, condannati per aver scelto troppe volte il silenzio omertoso di chi, di fronte alla tragedia umana, trova solo la forza di scorrere il dito davanti alle notizie delle cronache locali. *Presidente Associazione 21 Luglio Suicidio assistito, “Mario” denuncia l’Asur Marche per “tortura” di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 dicembre 2021 Il paziente marchigiano tetraplegico che ha ottenuto tutti i via libera si rivolge alla procura. È in attesa da 16 mesi, ed ha tutti i requisiti richiesti dalla Corte costituzionale nella sentenza Cappato/Dj Fabo, per poter ottenere - primo in Italia - il suicidio medicalmente assistito. Anche senza la legge che è in stand-by alla Camera. Ma la Regione Marche, illegalmente, sta costringendo Mario, 43 anni tetraplegico e immobilizzato da oltre 10 anni a seguito di un grave incidente stradale, a convivere con sofferenze che egli reputa intollerabili. E in peggioramento. Per questo Mario (nome di fantasia) ha deciso di denunciare penalmente, tramite il suo collegio legale coordinato dalla segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, “i vertici dell’azienda sanitaria unica regionale Marche, Asur, e quelli del Comitato etico territoriale per il reato di tortura”. Denunciati - spiega in una nota la stessa associazione Coscioni che ha supportato la battaglia di Mario attraverso “una lunga serie di ricorsi giudiziari e lettere di diffida”, per far affermare il diritto sancito dalla Consulta - “per avergli cagionato acute sofferenze fisiche dovute all’aggravarsi delle sue condizioni negli ultimi 16 mesi (da quando è stata presentata la sua richiesta di accedere alla verifica delle condizioni), agendo con la crudeltà che caratterizza l’immobilismo e l’inerzia proprio di chi ha accertato, come ha fatto l’Asur, una condizione di sofferenza intollerabile e non si attiva per porvi fine. Il tutto nei confronti di una persona che si trovi in una condizione di minorata difesa”. Non solo: “Oltre al reato di tortura - tramite l’esposto depositato mercoledì mattina presso la Procura della Repubblica di Ancona - Mario ha denunciato ulteriori omissioni di atti d’ufficio e la mancata esecuzione dell’ordine del Tribunale di Ancona da parte dell’azienda sanitaria”. La verifica delle sue condizioni da parte della stessa Asur e del Comitato etico c’è stata, solo grazie a ben due pronunce del Tribunale di Ancona. Ma tutto ciò sembra non bastare all’assessore regionale alla Sanità, il leghista Filippo Saltamartini, secondo il quale il Comitato etico avrebbe “sollevato dubbi sulle modalità e sulla metodica del farmaco che il soggetto avrebbe chiesto (il tiopentone sodico nella quantità di 20 gr., senza specificare come dovesse essere somministrato)”. Un paio di settimane fa, dopo aver diffidato nuovamente la Asur a continuare le verifiche, Mario ha scritto una lettera aperta ai vertici sanitari della Regione, al ministro Speranza e al premier Draghi spiegando nei minimi particolari come si vive nelle sue condizioni. Ciascuna delle manovre a cui deve essere sottoposto per sopravvivere basterebbe a chiunque non fosse invasato da pregiudizi per astenersi dall’interferire nella sua decisione. “Mi state condannando a soffrire ogni giorno di più ed essere torturato”. Nessuna risposta. La parola ora alla Procura di Ancona. Referendum, contro il declino del Parlamento di Marco Cappato Il Manifesto, 18 dicembre 2021 Eutanasia Legale. Non è facile individuare soluzioni per invertire il declino del Parlamento, anche perché dovrebbero arrivare da quelle stesse forze politiche che l’hanno provocato e che ora forse si rendono conto che con la demolizione delle Assemblee hanno segato il ramo sul quale erano sedute Lunedì scorso l’aula (semivuota) della Camera dei deputati ha non-discusso la non-legge sull’aiuto a morire. Non voglio dir male del Parlamento. Sono tra quelli per i quali l’”antiparlamentarismo è l’anticamera di ogni fascismo”. Proprio per questo, però, ciò che accade da quelle parti non va taciuto, nemmeno per compassione. L’aula è sempre vuota il lunedì mattina, si dirà. Né voglio farne una questione di moralismo sui Parlamentari brutti e cattivi. Non è questo il punto. Se un Parlamentare non è presente significa che non gli conviene essere presente. Non gli porta attenzione, visibilità, voti, altrimenti ci sarebbe. Non gli porta potere, neanche in senso buono, cioè di capacità di incidere nelle scelte pubbliche, altrimenti sarebbe felice di partecipare. Andare a stanare i Parlamentari alla buvette e portarli per le orecchie in aula non servirebbe a nulla. È necessario dare una ragione perché convenga loro esserci. Sul fine vita è stato tutto impostato male alla radice. L’aiuto al suicidio è già legge, in base alla sentenza della Corte costituzionale che mi ha visto assolto per aver aiutato Dj Fabo. Servirebbe una legge, certo, per definire le modalità di applicazione della sentenza, includendo tra gli aventi diritto anche quei malati terminali che però non sono attaccati a una macchina, ad esempio i malati di cancro, e per stabilire scadenze certe in modo da evitare che una persona come “Mario”, tetraplegico da 11 anni, resti per 15 mesi in attesa di una risposta da parte del Servizio Sanitario nelle Marche. Invece, il testo base di Pd e M5S non aggiunge nulla a ciò che è già legge, se non qualche ostacolo fumoso tipo “obiezione di coscienza” e qualche restrizione rispetto alla sentenza della Consulta. D’altronde, l’obiettivo esplicito del relatore Pd Alfredo Bazoli è fermare l’eutanasia, il referendum e i ricorsi dei malati restringendo gli attuali diritti, e questo nonostante i tantissimi militanti e eletti Pd che hanno passato l’estate con noi a raccogliere firme. La discussione è stata fatta in gran fretta per poi rinviare la fase delle votazioni a gennaio, o magari anche a febbraio, o chissà quando. Una non-legge per una non-discussione, dunque. Quando qualcosa non ha senso, sono in pochi a volerci mettere la faccia, a meno di volerne approfittare per aggiungere non-senso: “Ci sono migliaia di Mario che chiedono di vivere!” ha osservato l’On. Bologna, come se “Mario” chiedesse di far morire qualcun altro. “Mario è una tattica dei radicali”, ha svelato l’On. Bagnasco. L’On Parisse ha portato oltre confine la visione dei colleghi, parlando di “omicidi senza consenso delle persone in Belgio e Olanda”, praticamente degli Stati canaglia. C’è chi ha parlato contro la “cultura dello scarto” e chi ha contrapposto il “favor vitae al favor mortis”. Poi è arrivata ora di pranzo, fine della discussione e rinvio a data da destinarsi. Per le tante persone che vivono condizioni di sofferenza insopportabile, l’inconsistenza della proposta in discussione e il rinvio di ogni decisione non sono buone notizie. Ma le alternative almeno per loro esistono! Il referendum per la legalizzazione dell’eutanasia sottoscritto da 1.240.000 cittadini, le denunce e i ricorsi nei tribunali. Non è facile individuare soluzioni per invertire il declino del Parlamento, anche perché dovrebbero arrivare da quelle stesse forze politiche che l’hanno provocato e che ora forse si rendono conto che con la demolizione delle Assemblee hanno segato il ramo sul quale erano sedute. Alcuni dei rimedi si conoscono: una legge elettorale in base alla quale gli eletti siano scelti dagli elettori e non dai capipartito; corsie privilegiate per la trattazione delle leggi di iniziativa popolare; dibattiti veri e collegati alle votazioni; autodifesa delle proprie prerogative nei confronti del Governo e dei partiti. Altre soluzioni si possono trovare, ma solo se si parte dall’idea che rinunciare a un luogo dove si discute pubblicamente prima di decidere è sbagliato e pericoloso. La crisi turca e l’incendio ai nostri confini di Federico Fubini Corriere della Sera, 18 dicembre 2021 L’inflazione è ormai sopra al 20%, ma il dittatore continua a imporre tagli dei tassi d’interesse. Ne ha già decisi quattro di fila e la lira turca nel 2021 è sprofondata del 56% sul dollaro. Oggi Recep Tayyip Erdo?an non è più semplicemente il presidente della Turchia. È un dittatore nel suo labirinto, sconfitto dalla realtà, imprigionato in una crisi che da finanziaria sta diventando sociale e forse presto migratoria o geopolitica. Erdo?an ha licenziato una serie di governatori e alti funzionari della banca centrale perché quelli hanno osato ricordargli il principio di realtà: una fuga di capitali rende un Paese emergente una caravella senza timone in un mare in tempesta. Si può rispondere solo alzando i tassi d’interesse per frenare l’inflazione, mostrando che si comprendono le leggi di base di un’economia da 83 milioni di abitanti. Erdo?an fa l’opposto. Reagisce all’incendio finanziario che lui stesso ha appiccato come un no vax deciso a curarsi dal Covid con una pozione magica. L’inflazione è ormai sopra al 20%, ma il dittatore continua a imporre tagli dei tassi d’interesse. Ne ha già decisi quattro di fila e la lira turca nel 2021 è sprofondata del 56% sul dollaro. Ora la caduta può solo accelerare, dopo l’ennesimo taglio del dittatore giovedì. Ieri la moneta ha vissuto un’altra disfatta, una caduta del 6% sul dollaro in poche ore. Aumenteranno i prezzi dell’energia, degli alimenti e di tutti i beni importati. L’inflazione supererà il 30%. I risparmi del ceto medio si stanno polverizzando, gli aumenti del salario minimo non basteranno a mettere cibo sulle tavole di milioni di poveri. Al contrario, alimenteranno la spirale infernale dei prezzi. La situazione rischia di scappare di mano e non ce lo possiamo augurare. Ai confini l’Europa ha già la minaccia bielorussa, quella di Mosca sull’ l’Ucraina, la polveriera libica. Lo spettacolo di milioni di migranti dal Venezuela ricorda che la povera gente fugge dall’iperinflazione, se può. Ora la minaccia è alle nostre porte, ma stiamo facendo il possibile per volgere lo sguardo da un’altra parte. La Cop27 può essere l’occasione per parlare dei diritti umani in Egitto di Andrea Rizzi Il Domani, 18 dicembre 2021 Qualche settimana fa, nell’alto Egitto, qualcuno deve avere pensato che fosse arrivato il giorno del giudizio. Dopo piogge torrenziali e raffiche di vento, gli abitanti della zona di Assuan si sono visti invadere da migliaia di scorpioni velenosi, stanati dalle precipitazioni. Una sorta di piaga d’Egitto 2.0, con artropodi al posto delle locuste, che nel giro di poche ore ha mandato all’ospedale oltre 500 persone e ne ha uccise tre (anche se in seguito è emerso che le morti sarebbero state dovute a folgorazione da cavi elettrici esposti). Sarà nello spirito di questo millenarismo, o sarà per più prosaici calcoli geopolitici, che l’Egitto ha voluto con forza la Cop27, la conferenza delle Nazioni unite sul cambiamento climatico, prevista per il novembre 2022 a Sharm el-Sheikh. Alcuni attivisti per i diritti umani hanno fatto notare l’ipocrisia della scelta di affidare le “chiavi” della prossima Cop a un dittatore come Abdel Fattah al-Sisi, uno che di solito, dopo aver sbattuto in cella i dissidenti politici, le chiavi le getta via a tempo indeterminato (lo sanno bene, loro malgrado, Patrick Zaki e gli altri 60mila prigionieri politici del regime). Non solo clima - Per quanto possa apparire paradossale, però, quella della Cop potrebbe essere una grande occasione per promuovere la causa dei diritti umani: per le due settimane della conferenza, infatti, il governo locale cede di fatto la propria giurisdizione all’interno di tutto il perimetro dell’evento, uno spazio pattugliato dal personale di sicurezza Onu che - a seconda della conformazione - può andare ben oltre i padiglioni riservati ai negoziati. Chi entra nei padiglioni, poi, lo decide la Convenzione quadro (Unfccc), e nulla, almeno in linea teorica, vieta all’agenzia organizzatrice di accreditare attivisti e giornalisti egiziani. Insomma, organizzando la Cop il regime egiziano si espone a possibili contestazioni in casa propria, un paese in cui, vale la pena di ricordarlo, ogni assembramento era vietato già ben prima della pandemia, anche fosse per assistere alle gesta del calciatore Mohamed Salah davanti al televisore di un bar. È un rischio che al-Sisi, però, pare essere disposto a correre in cambio della legittimità internazionale che la conferenza può conferirgli. Quello del clima è uno degli ambiti in cui il generale sta provando a rifarsi un’immagine agli occhi dell’occidente, come dimostra la nuova strategia per la sostenibilità presentata a Glasgow dal ministro dell’Ambiente Yasmine Fouad. Per fare bella figura a Sharm el-Sheikh, pare che il comitato organizzatore (presieduto dal primo ministro Mostafa Madbouly in attesa della nomina del presidente di turno della Cop, tradizionalmente espresso dal paese ospitante) voglia coinvolgere Tamer Mursi, re dei produttori cinematografici e strenuo sostenitore di al-Sisi. L’altro ambito chiave è quello dei diritti umani, l’unico in cui ogni tanto al-Sisi deve incassare le ramanzine occidentali. Ma il generale sa bene che quello che interessa ai partner occidentali è l’atteggiamento di facciata, e si regola di conseguenza: se da una parte mette fine allo stato d’emergenza che durava da quattro anni, rilascia qualche prigioniero politico e vara la strategia egiziana per i diritti umani (criticata da vari attivisti), dall’altra accresce ulteriormente le proprie prerogative legali con la scusa del controllo dell’ordine pubblico, inaugura un nuovo mega penitenziario diffondendo un grottesco video in cui il carcere appare come un centro benessere per la riabilitazione dei detenuti, e fa una trionfale apparizione alla fiera degli armamenti del Cairo. Fiera tra i cui sponsor principali, a proposito di ipocrisia, figura Fincantieri, e tra i partecipanti più in vista Leonardo (entrambe controllate dallo stato italiano). Anche loro, come Matteo Renzi, conquistate dal “rinascimento” saudita. Il MeToo egiziano - Eppure, nonostante tutti questi lati oscuri, l’Egitto dimostra quanto la realtà sociopolitica dei regimi non sia mai monolitica e nelle pieghe della repressione si aprano spiragli di progresso. Un esempio emblematico è quello dei diritti delle donne: non è un’esagerazione affermare che l’Egitto stia vivendo un proprio MeToo in versione araba, in cui le donne denunciano apertamente i propri molestatori, la stampa li sottopone a un’implacabile gogna mediatica e le autorità li sanzionano con pene talmente esemplari da far supporre talvolta un uso propagandistico della magistratura (non sono rari gli ergastoli e, nei casi più gravi, le condanne a morte). Un processo emancipatorio che si riscontra anche a livello legale e istituzionale: il ministero della Salute, ad esempio, sembra voler fare sul serio sulla lotta alla mutilazione genitale femminile, pratica ancora piuttosto diffusa soprattutto nelle zone rurali. A perseguire i medici compiacenti potrebbe contribuire la crescente presenza di donne nella magistratura, tendenza confermata dalla nomina di 98 donne al Consiglio di stato, organo supremo della giustizia amministrativa finora a esclusiva composizione maschile. A questo si aggiunge il vivace dibattito pubblico, in alcuni casi sfociato in disegni di legge, su temi tradizionalmente discriminatori quali il diritto matrimoniale e quello successorio. Certo è prematuro dire se si tratti di cambiamenti superficiali o sostanziali, ma è evidente che al-Sisi ha tutto l’interesse a passare per paladino arabo delle questioni di genere. Presentatosi fin da subito come nemico dell’oscurantismo religioso, il presidente sostiene apertamente che “il capo di stato è responsabile di tutto, compresa la religione”. Così, tra un braccio di ferro e l’altro, anche la massima autorità religiosa del paese, l’Imam della moschea-università di al-Azhar, è salito sul carro, condannando pubblicamente le molestie e formulando interpretazioni “ammorbidite” dei versetti coranici sulle libertà femminili. Non allineati - Di questi altri temi, per evitare imbarazzi in casa propria, al-Sisi dovrà rendere conto sulla strada di Sharm el-Sheikh. Se si dimostrerà un partner credibile, potrà beneficiarne ben oltre i limiti della conferenza: in una Cop che - vista l’urgenza della crisi climatica - si preannuncia tanto importante quanto quella da poco conclusasi, il generale potrà fare leva sul proprio ruolo di anfitrione per focalizzare l’attenzione internazionale sui punti prioritari della propria agenda. Primo fra tutti la “Diga del rinascimento” etiope, controversia nella quale si intersecano geopolitica, giustizia ambientale, sostenibilità e politiche energetiche e che, tanto per cambiare, interessa da vicino anche l’Italia, nello specifico la Salini Impregilo incaricata della costruzione. Non solo: se l’Egitto, in qualità di paese africano climaticamente vulnerabile, riuscirà a portare avanti le istanze dei paesi del sud del mondo (su tutte i meccanismi di finanziamento per l’adattamento climatico e per le cosiddette “perdite e danni”), al-Sisi potrà inserirsi nel solco dell’ex presidente egiziano Gamal Abdel Nasser ergendosi a novello leader dei “non allineati”. Il che, in un mondo multipolare, significa essere in grado di ricevere gli aiuti statunitensi mentre si accolgono gli investimenti cinesi, ci si fa costruire la prima centrale nucleare del paese dalla russa Rosatom e si instradano accordi di collaborazione nel settore bellico con, tra gli altri, Italia, Francia e Corea del sud. Insomma, a dispetto dell’immagine di stasi soffocante che arriva sul nostro lato del Mediterraneo, la realtà egiziana è molto dinamica ed effervescente, con forze sociali e politiche che navigano le insidiose acque del regime provando anche ad andare controcorrente. Tutto si muove, persino le antiche mummie trasportate con gran fanfara verso il nuovo museo egizio del Cairo o sull’antica strada che collegava i templi di Karnak e Luxor, recentemente riaperta in una sfarzosa cerimonia. Si muove anche il regime stesso, che prova a darsi slancio internazionale con un mix di collaborazioni militari, partnership energetiche e iniziative ambientali. E che alla Cop27 affronterà un banco di prova forse decisivo. La battaglia globale contro l’algoritmo della repressione che la Cina usa contro gli uiguri di Pasquale Annicchino Il Domani, 18 dicembre 2021 Il dipartimento del Tesoro Usa ha confermato le sanzioni contro alcune aziende tecnologiche cinesi e il Senato ha approvato una legge che limita gli acquisti di prodotti cinesi fabbricati con i lavori forzati. Continua senza sosta l’azione degli Stati Uniti contro il “complesso militare-industriale” cinese. Come aveva già anticipato il Financial Times nei giorni scorsi, il dipartimento del Tesoro ha confermato nuove sanzioni contro diverse società di biotecnologia e sorveglianza, un importante produttore di droni e diversi enti governativi dello Xinjiang a causa del loro concorso nelle gravi violazioni dei diritti della minoranza uigura che, secondo l’amministrazione statunitense, sarebbero da considerarsi un genocidio. Anche in questo caso le sanzioni inflitte dall’Office of Foreign Assets Control (Ofac) del dipartimento del Tesoro sono fondate sull’ordine esecutivo 13959, così come emendato dal successivo 14032. Le otto società sanzionate sarebbero coinvolte nelle attività di sorveglianza relative alla profilazione delle minoranze etniche e religiose, soprattutto quella musulmana. A causa delle nuove sanzioni sarà proibito ai cittadini e alle società statunitensi acquistare o vendere azioni delle società sanzionate. Le otto società indicate nella decisione statunitense sono: Cloudwalk Technology Co., Ltf.; Dawning Information Industry Co., Ltd; Leon Technology Company Limited; Megvii Technology Limited; Netposa Technologies Limited; SZ DJI Technology Co., Ltd.; Xiamen Meiya Pico Information Co., Ltd e Yitu Limited. Si tratta dell’ultimo capitolo della saga sulla discriminazione high-tech che le organizzazioni non governative attive per i diritti umani denunciano ormai da anni e che solleva la necessità di una riflessione globale sulla transizione digitale e la protezione dei diritti fondamentali. Esportare la repressione - Le soluzioni per la sorveglianza sviluppate in Cina sono infatti esportate in altri paesi con governi autoritari mediante la duplicazione di quello che un rapporto di Human Rights Watch ha chiamato l’”algoritmo della repressione”. La tenaglia istituzionale sullo stato nazionale di sorveglianza cinese si sta quindi stringendo, non solo per opera del governo americano. Proprio la scorsa settimana, il portavoce dell’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite ha annunciato che, a breve, sarà reso pubblico un rapporto sulle violazioni dei diritti della minoranza musulmana nello Xinjiang. Il 16 dicembre quattro relatori speciali delle Nazioni unite (Nils Melzer; Fionnuala Ní Aoláin, Mary Lawler e Fernand de Varennes) con un duro comunicato hanno criticato la decisione della Corte di cassazione del Marocco di concedere l’estradizione di Yidiresi Aishan, cittadino cinese di religione musulmana e appartenente alla minoranza uigura. Aishan è un attivista per i diritti umani accusato dal governo di Pechino di essere membro di un gruppo terrorista legato alla minoranza musulmana. Secondo i relatori dell’Onu l’estradizione non terrebbe conto dei potenziali rischi di tortura, detenzione arbitraria e altri trattamenti disumani e degradanti a cui sono regolarmente sottoposti gli appartenenti alla minoranza uigura. In precedenza, rappresentanti delle Nazioni unite avevano già definito come “profondamente inquietante” il rapporto del tribunale di Londra della scorsa settimana, che ha confermato le accuse di genocidio nei confronti di Pechino. All’azione delle istituzioni si aggiungono le rivelazioni e le inchieste della stampa. Secondo un’inchiesta del Washington Post la società cinese Huawei avrebbe fornito al governo cinese la tecnologia impiegata per le attività di sorveglianza sugli uiguri. Secondo i documenti consultati dal Washington Post, la tecnologia di Huawei consentirebbe di identificare i volti, profilare le persone con opinioni politiche non allineate e monitorare i detenuti nelle carceri. Il quadro che emerge dall’azione delle varie istituzioni che si stanno occupando del tema non è certo edificante. Ma è la naturale conseguenza della piena esecuzione delle volontà politiche del Partito Comunista Cinese e della sua volontà di controllo e di dominio sul corpo e sulla mente delle persone. Nessuna opinione dissenziente può essere tollerata in nome dell’”armonia sociale”. Era questa, già nel 2016, la volontà di Chen Quango, allora nuovo segretario per lo Xinjiang del partito che, da subito, decise di aumentare le misure di sorveglianza e repressione contro le minoranze. Tutto nel partito, nulla fuori dal partito. La ragion di partito può allora giustificare le detenzioni arbitrarie, le sterilizzazioni forzate, l’internamento nei campi di rieducazione politica, la sorveglianza di massa. L’opposizione delle aziende - È proprio contro Chen Quango che, il 9 luglio 2020, gli Stati Uniti hanno deciso ulteriori sanzioni a causa del suo ruolo nelle violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. L’altro ieri gli Stati Uniti hanno aggiunto una nuova arma alla lotta contro gli algoritmi della repressione di Pechino. È arrivata l’approvazione definitiva del testo di legge denominato Uyghur Forced Labor Prevention Act, la legge che vieta le importazioni dallo Xinjiang a meno che le aziende riescano a dimostrare che i loro prodotti non siano il risultato dell’uso di lavoro forzato. L’approvazione è avvenuta nonostante le pressioni di alcuni grandi marchi come Nike, Coca-Cola ed Apple, che hanno cercato in tutti modi di rendere più flessibili i criteri della legge che blocca l’importazione di beni prodotti in Cina. La legge è ora alla firma del Presidente Biden. La portata di quanto accade in Xinjiang e la risposta che il mondo sarà in grado di offrire non riguardano solo le questioni interne cinesi. Prove dell’esportazione del modello cinese legato agli algoritmi della repressione si sono ormai accumulate ed è bene che i governi occidentali e le istituzioni sovranazionali si rendano pienamente conto che quello che accade in Cina non resta in Cina. Proprio come la pandemia.