Cartabia promette: “Mai più bambini in carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 dicembre 2021 La ministra della Giustizia firma il protocollo d’intesa: rinnovata per altri quattro anni la “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti”. Rinnovata per altri quattro anni la “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti”. Il protocollo d’intesa tra il ministero della Giustizia, l’Agia e Bambinisenzasbarre Onlus è stato firmato dalla ministra Marta Cartabia, dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti e dalla presidente dell’associazione Lia Sacerdote, nella sede del Dicastero di via Arenula. La “Carta”, prima nel suo genere in Italia e in Europa, riconosce il diritto dei minorenni alla continuità del legame affettivo con i genitori detenuti e mira a sostenerne il diritto alla genitorialità. Il protocollo prevede che le autorità giudiziarie siano sensibilizzate e invitate ad una serie di azioni a tutela dei diritti dei figli minorenni di persone detenute. Solo nel 2021, fino al 30 novembre, sono stati 280.675 i colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne. Con l’accordo si intendono promuovere iniziative in materia di custodia cautelare, di luoghi di detenzione, di spazi bambini nelle sale d’attesa e di colloquio, di visite in giorni compatibili con la frequenza scolastica, di videochiamate, di formazione del personale carcerario che entra in contatto con i piccini, di informazioni, assistenza e supporto alla genitorialità. Prevista anche una raccolta dati e un monitoraggio sull’attuazione del protocollo. La “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti” contiene inoltre una serie di misure a tutela dei diritti dei bambini costretti a vivere in una struttura detentiva con le madri. A oggi sono 19 i bambini piccolissimi al seguito di 17 madri detenute, a fine 2019 questi numeri erano più del doppio (44 le madri e 48 i minori presenti negli istituti di pena). Proprio l’altro ieri una madre con un figlio è uscita dall’Icam di Torino. “La nostra meta è “mai più bambini in carcere”. Tutti i bambini, anche se con genitori detenuti, hanno diritto all’infanzia”, commenta la ministra della Giustizia, Marta Cartabia. “Anche con questa Carta, lavoriamo perché i bambini - innocenti per definizione - non paghino le pene inflitte alle madri. Contemporaneamente, lavoriamo perché si riduca il più possibile quella “distanza dagli affetti” provocata dalla detenzione. Tutti i figli hanno il diritto di conservare un rapporto costante con i genitori, anche se reclusi. Assicurare la continuità dei legami familiari incide inoltre positivamente sul detenuto, nella prospettiva costituzionale della pena volta alla rieducazione. Lavoriamo per carceri, che aiutino a dare una seconda occasione”, ha detto la Guardasigilli. “Laddove sia nel suo interesse, il bambino ha diritto a coltivare il legame con entrambi i genitori, anche quando uno dei due è detenuto. Ciò deve avvenire in condizioni e con modalità che non siano traumatizzanti e in spazi che favoriscano un rapporto autentico”, commenta l’Autorità garante Carla Garlatti. “È fondamentale sostenere le relazioni genitoriali e familiari durante e oltre la detenzione, dando supporto ai figli minorenni che vengono colpiti nel loro benessere complessivo, con ricadute sulla salute psicofisica e sulla continuità del percorso scolastico. La Carta impegna il sistema penitenziario italiano a confrontarsi con la presenza dei bambini in carcere e con il peso che la detenzione del proprio genitore comporta nel rispetto dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”. Aggiunge la Presidente di Bambinisenzasbarre Lia Sarcedote: “La Carta che è stata rinnovata oggi nasce da un lungo percorso iniziato dieci anni fa e rappresenta lo strumento che può cambiare la vita dei ragazzi che Bambinisenzasbarre segue da vent’anni”. Sottolinea: “Sono i ragazzi che hanno uno ed entrambi i genitori in carcere che vivono il peso dello stigma sociale per questa condizione di figlio, il cui destino altri vedono come già scritto. La “Carta” libera questi bambini dall’esclusione, e dal facile buonismo, che toglie dignità alle scelte che la vita può loro proporre, a cui devono poter accedere con la consapevolezza e la forza di rappresentare una promessa per sé stessi e per tutta la società”. Infine Lia Sacerdote conclude: “La Carta italiana è diventata modello per la prima Raccomandazione dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa nell’aprile del 2018, anticipando un percorso che gli altri paesi europei, e non solo, stanno ora affrontando”. Cartabia rinnova la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti di Francesca Mannocchi La Stampa, 17 dicembre 2021 Il ministro: “Lavoriamo per carceri, che aiutino a dare una seconda occasione”. È stata rinnovata per altri quattro anni la “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti”. Il protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia, l’Agia e Bambinisenzasbarre Onlus è stato firmato dalla Ministra Marta Cartabia, dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti e dalla presidente dell’associazione Lia Sacerdote, nella sede del Dicastero di via Arenula. La ‘Carta’, prima nel suo genere in Italia e in Europa, riconosce il diritto dei minorenni alla continuità del legame affettivo con i genitori detenuti e mira a sostenerne il diritto alla genitorialità. Il protocollo prevede che le autorità giudiziarie siano sensibilizzate e invitate ad una serie di azioni a tutela dei diritti dei figli minorenni di persone detenute. Solo nel 2021, fino al 30 novembre, sono stati 280.675 i colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne. Con l’accordo si intendono promuovere iniziative in materia di custodia cautelare, di luoghi di detenzione, di spazi bambini nelle sale d’attesa e di colloquio, di visite in giorni compatibili con la frequenza scolastica, di videochiamate, di formazione del personale carcerario che entra in contatto con i piccini, di informazioni, assistenza e supporto alla genitorialità. Prevista anche una raccolta dati e un monitoraggio sull’attuazione del protocollo. La ‘Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti’ contiene una serie di misure a tutela dei diritti dei bambini costretti a vivere in una struttura detentiva con le madri. A oggi sono 19 i bambini piccolissimi al seguito di 17 madri detenute, a fine 2019 questi numeri erano più del doppio (44 le madri e 48 i minori presenti negli istituti di pena). Proprio l’altro ieri una madre con un figlio è uscita dall’Icam di Torino. “La nostra meta è ‘mai più bambini in carcere’. Tutti i bambini, anche se con genitori detenuti, hanno diritto all’infanzia - commenta la ministra della Giustizia, Marta Cartabia - Anche con questa Carta, lavoriamo perché i bambini, innocenti per definizione, non paghino le pene inflitte alle madri”. “Contemporaneamente, lavoriamo perché si riduca il più possibile quella ‘distanza dagli affetti’ provocata dalla detenzione. Tutti i figli hanno il diritto di conservare un rapporto costante con i genitori, anche se reclusi - aggiunge - Assicurare la continuità dei legami familiari incide inoltre positivamente sul detenuto, nella prospettiva costituzionale della pena volta alla rieducazione. Lavoriamo per carceri, che aiutino a dare una seconda occasione”. “Laddove sia nel suo interesse, il bambino ha diritto a coltivare il legame con entrambi i genitori, anche quando uno dei due è detenuto. Ciò deve avvenire in condizioni e con modalità che non siano traumatizzanti e in spazi che favoriscano un rapporto autentico” commenta l’Autorità garante Carla Garlatti. “È fondamentale sostenere le relazioni genitoriali e familiari durante e oltre la detenzione, dando supporto ai figli minorenni che vengono colpiti nel loro benessere complessivo, con ricadute sulla salute psicofisica e sulla continuità del percorso scolastico. La Carta impegna il sistema penitenziario italiano a confrontarsi con la presenza dei bambini in carcere e con il peso che la detenzione del proprio genitore comporta nel rispetto dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”. “La Carta che è stata rinnovata oggi nasce da un lungo percorso iniziato dieci anni fa e rappresenta lo strumento che può cambiare la vita dei ragazzi che Bambinisenzasbarre segue da vent’anni - afferma la presidente dell’associazione, Lia Sarcedote - sono i ragazzi che hanno uno e entrambi i genitori in carcere che vivono il peso dello stigma sociale per questa condizione di figlio, il cui destino altri vedono come già scritto. La ‘Carta’ libera questi bambini dall’esclusione, e dal facile buonismo, che toglie dignità alle scelte che la vita può loro proporre, a cui devono poter accedere con la consapevolezza e la forza di rappresentare una promessa per sé stessi e per tutta la società. La Carta italiana è diventata modello per la prima Raccomandazione dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa nell’aprile del 2018, anticipando un percorso che gli altri paesi europei, e non solo, stanno ora affrontando”. Csm, l’accelerazione di Cartabia. Più componenti e niente sorteggio di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 dicembre 2021 L’obiettivo: evitare il “bipolarismo forzato” tra i consiglieri. Il confronto con i partiti. Il prossimo Consiglio superiore della magistratura sarà più numeroso, 20 componenti togati e 10 laici com’era fino al 2002. È la scelta illustrata ieri dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia ai partiti di maggioranza, per superare le perplessità sulla sua precedente proposta e portare la riforma dell’organo di autogoverno dei giudici al prossimo Consiglio dei ministri, come richiesto a Palazzo Chigi. Poi la partita si sposterà in Parlamento, dove la ministra conta di “trovare punti di convergenza sulle questioni aperte” vista l’urgenza - sottolineata dal capo dello Stato Mattarella e condivisa dal premier Draghi - di varare le modifiche prima del rinnovo del Csm fissato a metà 2022. Il ritorno a un Consiglio più ampio dovrebbe ridurre i rischi del “bipolarismo forzato” paventato dopo la prima ipotesi della Guardasigilli: sistema maggioritario con collegi binominali e assegnazione di alcuni seggi ai migliori terzi classificati. L’aumento dei consiglieri aumenterebbe questa quota, in modo da non lasciare tutto ai due gruppi attualmente più rappresentativi: la sinistra di Area e la destra di Magistratura indipendente. Tuttavia tra i partiti resta forte la spinta verso il sorteggio, sia pure “temperato”, riproposto sia da Forza Italia che dalla Lega. L’idea sarebbe di estrarre a sorte una platea di toghe tra le quali selezionare i candidati da sottoporre al voto. Ma Cartabia continua a contrapporre il pericolo di incostituzionalità di una simile norma: l’articolo 104 della Carta prevede che i consiglieri togati siano “eletti” e qualunque filtro, prima o dopo le urne, suona in contrasto con questa diposizione; e non sarà certo una ministra già presidente della Corte costituzionale a battezzare una riforma a rischio censura da parte della Consulta. “A parte la possibile incostituzionalità, il sorteggio sarebbe un segnale di sfiducia verso la categoria dei magistrati che non fa bene al sistema”, sostiene il deputato pd Alfredo Bazoli, capogruppo in commissione Giustizia, mentre la responsabile della Lega Giulia Bongiorno ribadisce: “Il tema merita un’attenzione adeguata, e con questa premessa il nostro apporto a una riforma incisiva sarà costruttivo”. I Cinque Stelle erano inizialmente favorevoli al sorteggio, ma preso atto della situazione si accontentano di correzioni che riducano la possibile bipolarizzazione del Csm, soddisfatti della sostanziale tenuta del testo-base dell’ex ministro Alfonso Bonafede. Infine c’è l’Associazione magistrati che esprimerà un giudizio non unitario, poiché le correnti sono a loro volta divise. Nel fine settimana potrebbe uscire, a maggioranza, un sostegno al sistema proporzionale, ma la diversità di vedute al proprio interno indebolisce la posizione dell’Anm, dove il sorteggio sembra piacere solo al gruppo autoproclamatosi anti-correnti. Ma la riforma Cartabia non si limiterà al sistema elettorale. Si proverà a fermare le “porte girevoli” tra magistratura e politica, e il leader grillino Giuseppe Conte torna a chiedere che “se un magistrato viene eletto non torni nelle aule dei tribunali”. E ci saranno modifiche alle valutazioni di professionalità (per incidere anche sulle nomine), sulle quali insistono sia il responsabile di Azione Enrico Costa sia il Pd, che chiede il voto degli avvocati nei giudizi espressi dai Consigli giudiziari a livello locale. Questioni apparentemente minori che, a seconda di come verranno risolte, potrebbero avere impatti significativi sulle carriere dei magistrati. Tenuto conto di tutte queste istanze dei partiti, la ministra presenterà a giorni il maxi-emendamento al progetto di riforma targato Bonafede che, una volta approvato dal Consiglio dei ministri, passerà all’esame del Parlamento. Lì Cartabia s’è detta pronta ad accogliere le modifiche proposte attraverso sub-emendamenti, che però non dovranno stravolgere l’impianto della riforma. Una partita dall’esito non scontato, che probabilmente si giocherà dopo l’elezione del presidente della Repubblica. Riforma del Csm Cartabia non la blinda. “Ora parliamone” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 dicembre 2021 Ieri vertice coi partiti, via Arenula disposta a “trattare” con le varie anime del governo Draghi. Ci siamo quasi, anche se la meta definitiva è ancora lontana: la ministra della Giustizia Marta Cartabia presenterà la prossima settimana al Consiglio dei ministri i suoi emendamenti al ddl Bonafede sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Alla fine degli incontri avuti ieri con le delegazioni dei partiti della maggioranza, e preceduti due giorni fa con quello con la presidente facente funzioni del Cnf Maria Masi, si è recata a Palazzo Chigi e ha ribadito con molta forza l’assoluta urgenza - già condivisa con il premier Mario Draghi in occasione dell’incontro del 7 dicembre scorso - che questa riforma arrivi in Cdm e possa procedere con il suo iter parlamentare quanto prima. Non si tratterà, come già preannunciato, di un testo blindato, come avvenuto per la riforma del processo penale, ma sarà aperto alle modifiche della Commissione Giustizia. L’obiettivo della ministra è trovare convergenze su quanti più punti possibili. Su un tema che riguarda da vicino gli avvocati, ossia il diritto di voto nei Consigli giudiziari, la Cartabia sarebbe orientata ad accogliere la proposta del Partito democratico per cui l’avvocato sarebbe un semplice delegato che si farebbe portatore di una decisione presa invece dal Consiglio dell’Ordine. La delegazione del Pd, composta da Walter Verini e Alfredo Bazoli, ha ribadito che pur non essendoci un sistema di voto perfetto per il rinnovo del Csm, l’importante è non cristallizzare il bipolarismo tra due aree della magistratura, ma garantire il pluralismo. Una necessità espressa ultimamente da tutti i commentatori. Per questo si starebbe rafforzando l’idea di aumentare a 20 i consiglieri togati. Il sistema resterebbe binominale, ma con l’aumento dei consiglieri da eleggere e dei collegi aumenterebbe il numero dei ‘ migliori terzi’, dando più spazio alle minoranze. Come ci ha scritto la senatrice della Lega Giulia Bongiorno, “noi abbiamo fatto le nostre proposte con spirito costruttivo. Abbiamo sottolineato l’importanza di un sorteggio iniziale in base a dei requisiti. Poi sulla base di questo si potrà procedere alle elezioni. Per noi è importante allargare il sorteggio”, poi potrebbe andar bene anche il binominale. Da Forza Italia parla l’onorevole Pierantonio Zanettin che nel suo incontro con la ministra ha ribadito le richieste di Forza Italia: sorteggio temperato per l’elezione del Csm, mai più ritorno in magistratura per i giudici che fanno un’esperienza politica, un solo passaggio di funzioni in tutta la carriera da giudici a pm o viceversa, e il diritto di voto dei presidenti dei Coa sulle valutazioni di professionalità dei magistrati. “Ho apprezzato la disponibilità al dialogo della ministra - dice Zanettin - alla quale ho ribadito che FI continua a sostenere la proposta del sorteggio temperato per l’elezione della componente togata del Csm. Proposta che negli ultimi giorni ha ottenuto il sostegno anche del procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho e del professor Benedetti, consigliere laico del Csm” proprio dalle pagine di questo giornale. Invece per il Movimento 5 Stelle, come ci ha segnalato il deputato Eugenio Saitta, “il punto nodale rimangono le porte girevoli: su questo abbiamo fatto presente alla ministra che non retrocediamo dalla proposta Bonafede. Sul resto siamo fiduciosi che in fase di discussione parlamentare potremo trovare delle convergenze”. E fermezza sul fatto che “un magistrato eletto non torna nelle aule di Tribunale” è espressa, via twitter, da Giuseppe Conte. La ministra, al momento, sarebbe pronta a confermare la riduzione dei magistrati fuori ruolo, il cui numero andrebbe definito in fase di delega. Ma, ancor più importante, a via Arenula sarebbero orientati ad includere, tra i parametri per le valutazioni di professionalità, anche la tenuta dei provvedimenti sui quattro anni. “Se queste ipotesi verranno confermate - ci dice la deputata di Italia Viva Lucia Annibali - potremo dirci soddisfatti di questa riforma. Per noi infatti i tre punti cardini sono: fuori ruolo, valutazioni, diritto di voto per gli avvocati. Ora però aspettiamo di vedere il testo”. Infine, il responsabile giustizia di Azione, l’onorevole Enrico Costa, non ha potuto prendere parte all’incontro con la ministra ma ci ha ribadito: “La riforma del Csm rischia di essere timida e conservativa. Perciò inutile. Se non verranno introdotte norme nette per premiare il merito e sanzionare chi sbaglia, non la voterò, perché continueranno a proliferare le correnti. Stiamo apprezzando molto gli sforzi della ministra, ma vediamo alcune forze di maggioranza troppo timide e in soggezione di fronte alle difese corporative delle toghe”. Riforma del Csm. Verso lo stop alle porte girevoli magistratura-politica di Liana Milella La Repubblica, 17 dicembre 2021 Aumentano i consiglieri laici e togati, ma la legge elettorale conterrà il sorteggio se i candidati sono pochi e 4 seggi, cioè il 20%, per i “migliori terzi” in lista. M5S verso il via libera perché viene confermato l’impianto dell’ex ministro Bonafede. Il Pd vuole garanzie sulla parità di genere. Bongiorno: “Non m’interessa il sistema elettorale, sorteggiamo chi si candida”. Ci siamo quasi. La riforma del Csm, come chiede Marta Cartabia, approderà a palazzo Chigi prima di Natale. Ed è proprio nel palazzo del governo che la ministra della Giustizia conclude una lunga giornata di incontri con la sua maggioranza. Politicamente, siamo alla soddisfazione del Pd sulla legge elettorale che dovrà garantire la parità di genere nel futuro Csm, ma anche al sostanziale via libera di M5S perché la stretta sui magistrati in politica, le cosiddette porte girevoli, sarà netta. E potrebbe consentire di attenuare la contrarietà di Lega e Forza Italia sull’assenza del sorteggio come futura legge elettorale del Csm. Per dirla con le parole di Giulia Bongiorno, la responsabile Giustizia della Lega, “il sorteggio dev’essere preliminare, perché m’interessa chi eleggi, non come lo eleggi, in quanto qualsiasi meccanismo, con le correnti di mezzo, non risolve nulla”. Il bilancio della giornata si può sintetizzare così: c’è la forte volontà politica di via Arenula di chiudere sulla riforma del Csm in tempi stretti, anche dopo le ripetute sollecitazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Per questo la ministra Cartabia porterà i suoi emendamenti al testo base di Bonafede nel consiglio dei ministri previsto prima di Natale. Dopo, nell’ambito della discussione parlamentare nella commissione Giustizia della Camera e poi in aula, sarà anche possibile fare ulteriori modifiche. Ma l’obiettivo ovviamente è quello di tenere insieme la maggioranza dove, su porte girevoli e sul sorteggio, ci sono richieste molto forti. Dopo il caso Maresca - candidato dove lavorava e, non eletto, prossimo a tornare giudice a Campobasso - bisogna voltare pagina. La ministra, nel rispetto dell’articolo 51 della Costituzione che garantisce il posto di lavoro, ha proposto la possibilità di un rientro in magistratura, ma con paletti molto rigidi, in un altro distretto, dopo un tempo lungo, con un incarico collegiale. Una soluzione che piace al Pd, come hanno detto sia Walter Verini che Alfredo Bazoli, rispettivamente relatore e capogruppo in commissione Giustizia alla Camera. Che la considerano “una soluzione che non mortifica chi si candida, nel rispetto della Costituzione, senza la clava”. Ma su questa ipotesi il no di M5S è netto. Lo dicono alla ministra la responsabile Giustizia di M5S Giulia Sarti, la sottosegretaria Anna Macina, il capogruppo in commissione Giustizia Eugenio Saitta. La richiesta è quella di restare magistrato certo, ma con un incarico lontano dai palazzi di giustizia, al ministero oppure all’Avvocatura dello Stato, o comunque nella pubblica amministrazione. Quindi garanzia del posto di lavoro, ma anche garanzia dell’immagine di totale indipendenza dalla politica del magistrato che indaga e che giudica. Una linea confermata da un tweet del leader del Movimento, Giuseppe Conte: ““Terzietà e indipendenza della magistratura sono i nostri irrinunciabili capisaldi. Il giudice deve essere e apparire terzo: perciò diciamo stop alle porte girevoli! Se un magistrato viene eletto poi non torna nelle aule dei tribunali. Si confermi l’impianto della Bonafede sul Csm”. La ministra potrebbe presentare la sua proposta e, a quel punto, M5S potrebbe chiedere di cambiarla in commissione alla Camera. Il centrodestra sarebbe favorevole alla soluzione più drastica di M5S. Non è escluso quindi che, prima della prossima settimana, sia la stessa Cartabia a trovare una formula che assicuri la garanzia costituzionale della salvaguardia del posto di lavoro, ma al contempo garantisca l’immagine di neutralità e imparzialità della toga che ovviamente può essere opacizzata dal suo impegno in politica. E comunque, nell’entourage di M5S, c’è soddisfazione per come sta andando la trattativa sul Csm, perché - è il giudizio che si può raccogliere - “nel complesso l’impianto della legge Bonafede viene confermato”. E siamo alla legge elettorale. Innanzitutto Cartabia propone l’aumento dei consiglieri togati - da 16 a 20 - e di quelli laici - da 8 a 10 - tornando così alle origini dello stesso Csm. Confermata la scelta del maggioritario binominale, l’idea è quella di dare più spazio alle minoranze dei candidati con un maggior numero di “migliori terzi”, cioè i primi non eletti che salirebbero a 4 su 20. L’obiettivo è evitare le spartizioni emerse con l’inchiesta su Luca Palamara. Inoltre entra anche una forma di sorteggio di altri candidati qualora il numero di quelli ufficiali non sia sufficiente. In consiglio dei ministri e alla Camera, sarà possibile evitare il braccio di ferro che si è verificato con l’improcedibilità per il processo penale quando M5S ha fatto le barricate? Cartabia, proprio per questo, sta trattando anticipatamente. Per esempio sulla presenza degli avvocati nei consigli giudiziari con possibilità anche di voto, e non del solo diritto di tribuna, anche sui profili dei magistrati. E qui va registrata una proposta di Walter Verini che potrebbe mettere d’accordo tutti, “sì al diritto di voto, ma a patto che esso non arrivi dal singolo avvocato, ma sia espressione di un voto precedente del consiglio dell’ordine degli avvocati, quindi un voto non della singola persona per evitare possibili conflitti di interessi”. Resta sempre il nodo politico del sorteggio. Su questo è netta Giulia Bongiorno che ha partecipato all’incontro. “Per me - dice l’avvocata penalista - è essenziale la selezione di chi deve essere eletto, e il sorteggio dev’essere a monte, seppure tra soggetti che abbiano certi requisiti, come l’anzianità e le buone valutazioni di professionalità. Poi non mi interessa il sistema elettorale. Il sorteggio dev’essere preliminare, m’interessa chi eleggi non come lo eleggi, qualsiasi meccanismo, con le correnti di mezzo, non risolve nulla. L’ideale sarebbe un sorteggio tra magistrati a fine carriera che quindi non hanno alcun interesse futuro”. Quanto alle porte girevoli la richiesta è netta, “paletti molto rigorosi e no al ritorno in magistratura”. La stessa richiesta arriva da Forza Italia dove Pierantonio Zanettin vuole “il sorteggio temperato per l’elezione del Csm, mai più il ritorno in magistratura per i giudici che hanno fatto un’esperienza politica, un solo passaggio di funzioni in tutta la carriera da giudici a pm o viceversa (la Bonafede ne concedeva al Massimino due, ndr.) e il diritto di voto degli avvocati sulle valutazioni di professionalità dei magistrati”. Ci vorrà tutto il savoir faire tecnico e politico di Cartabia per chiudere la partita. Che andrà al voto sicuramente dopo l’elezione del capo dello Stato. Riforma della giustizia, tutti i “casi Maresca” che la politica deve correggere di Giulia Merlo Il Domani, 17 dicembre 2021 Il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario dovrebbe contenere una serie di previsioni per mettere fine a due aspetti controversi nella carriera dei magistrati: le porte girevoli con la politica e il meccansimo del collocamento fuori ruolo. Il più recente caso di magistrato prestato alla politica e poi ritornato a svolgere il suo ruolo, ma senza abbandonare la carica pubblica, è quello di Catello Maresca. La cosa è possibile secondo il testo unico sugli enti locali e il suo non è l’unico caso, ma la riforma dovrebbe renderlo impossibile. La questione del grande numero di fuori ruolo è stata recentemente sollevata con una interpellanza urgente al governo dal deputato di Azione, Enrico Costa, visti i dati sulla carenza di organico nei palazzi di giustizia e sulla mole di arretrato che appesantisce i tribunali. Il testo scritto non esiste ancora ma dovrebbe venire presentato nei prossimi giorni. Tuttavia, il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario dovrebbe contenere anche una serie di previsioni per mettere fine a due aspetti controversi nella carriera dei magistrati: la possibilità di candidarsi alle elezioni e di venire collocati fuori ruolo dalle funzioni requirenti o giudicanti per svolgere funzioni a uffici internazionali, oppure per diventare capi di gabinetto e funzionari nei ministeri. Entrambe queste possibilità sono previste dall’ordinamento ma le regole, considerate poco restrittive, hanno creato una zona grigia che ha generato eccessi e casi limite, con una commistione tra politica e magistratura che stride, in particolare dopo il caso Palamara. I tanti casi Maresca - Il più recente caso di magistrato prestato alla politica e poi ritornato a svolgere il suo ruolo, ma senza abbandonare la carica pubblica, è quello di Catello Maresca. Il magistrato antimafia della corte d’appello di Napoli si è candidato come indipendente ma sostenuto dal centrodestra come sindaco della città, chiedendo d’aspettativa per svolgere la campagna elettorale. Già questa prima fase aveva generato polemiche: il suo nome è stato sui giornali come candidato per mesi, ma Maresca ha chiesto l’aspettativa solo con l’ufficializzazione della sua candidatura. Sconfitto dal candidato di centrosinistra, Gaetano Manfredi, Maresca è stato eletto in consiglio comunale e ha scelto di mantenere il suo seggio alla guida dell’opposizione a palazzo San Giacomo. Contemporaneamente, però, ha anche chiesto e ottenuto di rientrare in magistratura e il Consiglio superiore della magistratura, che pure si è spaccato sulla decisione, lo ha designato come consigliere di corte d’appello civile a Campobasso. A prevedere la possibilità che questo avvenga è il testo unico degli Enti locali del 2000, che prevede che un magistrato sia eleggibile a una carica amministrativa nel territorio in cui esercita la funzione solo se in aspettativa dal giorno prima della presentazione delle candidature. Una volta eletto, tuttavia, può chiedere di tornare in ruolo attivo e ricoprire entrambi i ruoli: quello di sindaco o di consigliere comunale e di magistrato. L’unica limitazione riguarda la sede: una circolare del Csm prevede che debba essere assegnato “un posto vacante in un distretto vicino a quello dove esercita il mandato”. Come nel caso di Maresca, a Campobasso. Davanti alla pioggia di critiche, soprattutto di una parte dei suoi colleghi magistrati, Maresca si è difeso dicendo di aver rispettato tutte le regole e che il suo non è certo l’unico caso di magistrato in ruolo prestato alla politica. In passato, Gennaro Marasca è stato contemporaneamente assessore della giunta regionale campana di Antonio Bassolino dal 1994 al 1997 e consigliere di corte d’appello a Campobasso. La differenza rispetto a Maresca, però, è che all’epoca venne nominato assessore tecnico e non partecipò alla corsa elettorale. Altro caso citato è quello di Nicola Graziano, che fu candidato sindaco e consigliere comunale ad Aversa nel 2005 e rimase in toga per un anno e mezzo dopo l’elezione facendo il giudice a Napoli. Lo stesso è avvenuto con Lorenzo Nicastro, che era pm a Bari e assessore all’Ambiente nella giunta regionale di Nichi Vendola. Giuseppe Adornato è stato pubblico ministero a Palmi e contemporaneamente assessore all’Urbanistica di Reggio Calabria nella giunta di centrodestra del 2003. Elio Costa, che proprio con Adornato ha lavorato, è stato insieme sindaco di Vibo Valentia nel 2002 e sostituto procuratore generale alla corte d’Appello di Roma. Nicola Marrone è stato giudice a Torre Annunziata e assessore dal 2009 e sindaco dal 2013 nel vicino comune di Portici. Mariano Biranda è stato giudice a Sassari e candidato sindaco nella città per il centrosinistra nel 2019, oggi consigliere comunale e consigliere in corte d’appello penale a Torino. L’attuale riforma dell’ordinamento giudiziario prevede che questa situazione cambi, regolando le cosiddette “porte girevoli” tra politica e magistratura. Il testo non è ancora disponbile, ma dal ministero è stato reso noto che i magistrati non potranno candidarsi nel collegio in cui è compreso in tutto o in parte l’ufficio giudiziario in cui hanno prestato servizio negli ultimi tre anni. All’atto dell’accettazione della candidatura dovranno essere posti in aspettativa senza assegni. Cambieranno anche le condizioni per poter tornare a indossare la toga al termine del mandato. Le indicazioni della commissione di esperti nominati da Cartabia, che dovrebbero essere una sorta di bozza dell’articolato finale, prevedono che i magistrati non siano eleggibili a nessuna carica, comprese quelle comunali, se hanno prestato servizio nei due anni precedenti la candidatura in un ufficio giudiziario di quel territorio. Nel corso del mandato, invece, il magistrato deve rimanere collocato fuori ruolo e senza stipendio (ma il tempo vale ai fini pensionistici e di anzianità professionale). Quando rientra in ruolo, infine, non può esercitare l’incarico nella sede in cui si è candidato. I casi come quelli precedenti - Maresca compreso - non dovrebbero più essere possibili. Anche adesso, per la verità, un divieto esisterebbe. Però è solo di natura disciplinare: l’articolo 8 del codice etico approvato dall’Associazione nazionale magistrati prevede che “nel territorio dove esercita la funzione giudiziaria il magistrato evita di accettare candidature e di assumere incarichi politico-amministrativi negli enti locali”. Ma spesso i magistrati che scelgono di candidarsi prima di farlo si cancellano dall’Anm. I fuori ruolo - Altro tema controverso all’interno della magistratura è quello dei magistrati fuori ruolo. Ovvero, i magistrati che chiedono di essere destinati a incarichi non giudiziari ma sempre all’intero della pubblica amministrazione, come nei ministeri, o presso autorità amministrative indipendenti come l’Anac, o ancora in progetti governativi di cooperazione internazionale all’estero. Attualmente, la collocazione fuori ruolo non può durare più di dieci anni complessivi e non dovrebbe riguardare più di 200 magistrati (anche se dal calcolo sono esclusi quelli che prestano attività presso organi costituzionali o di rilevanza costituzionale, come il Csm, la presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale). La questione del grande numero di fuori ruolo è stata recentemente sollevata con una interpellanza urgente al governo dal deputato di Azione, Enrico Costa, visti i dati sulla carenza di organico nei palazzi di giustizia e sulla mole di arretrato che appesantisce i tribunali. Non solo: Costa ha sottolineato come la presenza di un gran numero di magistrati dentro i ministeri (soprattutto quello della giustizia) e quindi nelle maglie dell’esecutivo inquini i rapporti tra poteri. Attualmente - gli elenchi pubblici sono aggiornati all’aprile 2021 - i magistrati fuori ruolo sono 161, più altri 42 presso organi costituzionali. Circa un centinaio di loro è distaccato presso il ministero della Giustizia. La sottosegretaria alla Giustizia, Anna Macina, ha risposto a Costa specificando gli impegni del ministero a correggere il sistema. Da quanto è stato anticipato, il maxi emendamento governativo al ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario contiene la previsione di un taglio nel numero di fuori ruolo consentiti e anche della durata dell’esperienza. La commissione Luciani ha proposto, nel suo articolato, di introdurre una serie di vincoli, come l’intervallo di tre anni tra un incarico fuori ruolo e l’altro, il principio dell’”interesse dell’amministrazione di appartenenza” e un controllo per evitare conflitti di interesse. Il dettaglio, però, sarà probabilmente disciplinato nei decreti delegati al ddl. Non possiamo lasciarli soli. Accanto a chi dice addio alla camorra di Maurizio Patriciello Avvenire, 17 dicembre 2021 Voleva riprendere in mano la sua vita, ritornare indietro, uscire dalla gabbia. Era stanco di nascondersi, fuggire alla vista delle forze dell’ordine e dei nemici. Aveva paura di essere ucciso o di finire in galera. Sapeva bene che i capi non glielo avrebbero permesso. Da quella trappola non te ne esci a cuor leggero: sai tante cose, conosci nomi, parentele, alleanze, situazioni, misteri che, tante volte, sfuggono agli stessi inquirenti. Sapeva tutto il povero pusher del rione Sanità, ma non ce l’ha fatta a continuare: “Ho sbagliato, mi pento, prometto che sto zitto, ma lasciatemi andare”. Niente da fare, ‘quelli’ non perdonano. La camorra, con i suoi mille addentellati, è anche questo. Gli affiliati si chiamano ‘famiglia’, si baciano sulle labbra, si giurano fedeltà mentre tra essi regnano diffidenze, cinismo, invidie, tradimenti. Tu sei solo una pedina e in quanto tale sarai gettata ai rovi quando non servi più. Una pedina guardata a vista quando ti fai venire gli scrupoli di coscienza, ti commuovi, t’intenerisci. Tu devi obbedire ai capi, e basta. Devi dare dimostrazione di essere all’altezza della situazione; devi pretendere il rispetto dagli amici, dal quartiere, dai parenti, dai nemici. Devi essere attento, guardingo, svelto, in grado di far fronte a eventuali agguati. Devi sapere, soprattutto, che, qualsiasi sia il tuo ruolo, fosse anche marginale, sei entrato a far parte di un sistema. Che ti tiene in pugno. Ma lui, il povero pusher pentito, da quella gabbia voleva uscire a ogni costo. Si sentiva oppresso, schiacciato, condannato a morte. Voleva vivere. Magari fare la fame, ritornare a comprare scarpe e vestiti sulle bancarelle dei mercati rionali, abitare nei vecchi, umidi bassi, ma con dignità. Lo aveva chiesto ai capi, li aveva pregati, implorati. Ma loro, i capi, questo non potevano permetterlo. La sua uscita avrebbe procurato una falla che a tutti i costi non si doveva aprire. Era diventato pericoloso, il pusher trentunenne. E lo hanno punito. Colpirne uno, per terrorizzarli tutti. Gli hanno dato fuoco dopo averlo cosparso di benzina la sera del 6 dicembre scorso, nell’androne di un portone, nel popoloso quartiere Sanità. Disumani. Forse, chissà, sarà stato proprio uno di cui si fidava. Uno che, però, pur volendo, non avrebbe potuto dire di no al capo. “Padre, ci credi che ti voglio bene?”, mi chiese un giorno uno di questi figuri che ogni tanto passava a salutarmi. “Sì, ci credo che mi vuoi bene”, gli risposi sorridendo e pensando di gettare tra noi un ponte di fiducia. E lui: “Eppure se ‘quelli’ mi ordinano di farlo, dovrò farlo... capisci? Non ti fidare di nessuno, padre, nemmeno di me...”. E, con gli occhi bassi, si allontanò dalla chiesa. Lo guardai fin quando scomparve alla vista. Un brivido mi attraversò la schiena. Avevo capito. Gli ordini si eseguono. Il pusher, gravemente ustionato, è in ospedale. Questa storia maledetta dice molto più di quanto, a prima vista, si possa immaginare. Dice che, una volta cascato nelle grinfie della camorra è difficile, per chiunque, fare marcia indietro. Dice a noi, società civile, che non possiamo permetterci il lusso di prendercela con comodo, che bisogna fare in fretta, arrivare ai ragazzi prima di ‘quelli’. Ci dice che occorre lanciare un potente salvagente a chi - e credo che non siano pochi - è pentito, vorrebbe mettersi in salvo, scappare via da una vita di finto benessere e di vero tormento, ma non osa, perché la paura di finire ammazzato lo pietrifica. Poveri ragazzi tra l’incudine e il martello. Occorre a tutti i costi gettare una rete di salvataggio a questi giovani pentiti, aiutarli a liberarsi dagli artigli dei loro aguzzini. E ridare loro la gioia di una vita finalmente normale e dignitosa. L’archivio Persichetti ancora bloccato di Marco Grispigni Il Manifesto, 17 dicembre 2021 La ricerca storica sotto indagine. Il gip rigetta in anticipo la richiesta di dissequestro presentata dalla difesa. Già militante della lotta armata, una volta scontata la sua condanna, Persichetti studia da anni come storico le vicende degli anni Settanta, pubblicando articoli e saggi. Ora lo si accusa di divulgazione di materiale riservato allo scopo di informare due dei partecipanti al rapimento di Moro. Peccato che i due “favoriti” dalla “divulgazione” sarebbero Lojacono e Casimirri già condannati all’ergastolo per il rapimento di Moro e l’uccisione della sua scorta. Esistono altri Paesi oltre l’Italia, nel ricco e democratico Occidente, nei quali si possa sequestrare da più di sei mesi tutti i documenti, cartacei o informatici, compresi documenti familiari e relativi a questioni sanitarie, a un ricercatore accusandolo di voler favorire con notizie riservate due persone implicate nel rapimento di Aldo Moro e per questa vicenda già condannate in via definitiva all’ergastolo? Probabilmente no. Probabilmente questa incredibile situazione kafkiana fa parte di quella specificità tutta italiana quando in gioco ci sono la magistratura e il buco nero degli anni Settanta e della lotta armata. Della incredibile vicenda che vede coinvolto Paolo Persichetti ci siamo già occupati alcuni mesi fa, quando tutto l’archivio dello studioso fu sequestrato. Ce ne siamo occupati con poche altre di quelle testate che tentano di ragionare intorno all’operato della magistratura senza un acritico sostegno. Ora dobbiamo ritornare sull’argomento perché la vicenda giudiziaria non è ancora finita. Teoricamente oggi il gip avrebbe dovuto pronunciarsi sulla legittimità del sequestro degli archivi di Persichetti, ma con un colpo di scena ha già accolto la richiesta di incidente probatorio rigettando quindi la richiesta della difesa di dissequestro dell’archivio, senza attendere l’udienza e quindi senza garantire alla difesa le sue prerogative. Di che cosa è accusato e chi è Paolo Persichetti? La risposta a questa domanda contiene già alcuni elementi fondamentali per comprendere la vicenda che altrimenti sembrerebbe uscita da una pièce del teatro dell’assurdo. Persichetti fu un militante della lotta armata che una volta scontata la sua condanna invece di scomparire nell’oblio pretende di studiare come storico quelle vicende, oltretutto senza neanche far parte dell’accademia. Per portare avanti i suoi studi, Persichetti legge e studia le carte processuali e quindi non può non confermare che della vicenda del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro si sa tutto; che quel mattino in via Fani non c’erano uomini della mafia o della ndrangheta, agenti israeliani o della Ddr. Legge e studia le carte processuali e interroga i membri del comando delle Brigate rosse, quelli disponibili a parlare, per comprendere, anche da un punto di vista tecnico e operativo, come un’azione talmente complessa e clamorosa fu gestita. Ma gli studi di Persichetti non passano inosservati. Le sue mail, con le quali pone domande agli ex brigatisti sono intercettate; addirittura si analizza con certosina pazienza lo scarto fra le ipotesi iniziali e i testi finali delle pubblicazioni. Ed ecco la geniale intuizione della Procura: siamo di fronte a una lunga serie di reati che partendo dalla divulgazione di materiale riservato giungono fino alla fantasmatica accusa di far parte di una banda terrorista, costituita per il momento dal solo Persichetti. Caduta l’accusa più ridicola, quella della banda armata, con un classico nei comportamenti di una buona parte della magistratura inquirente italiana, si cambiano le accuse in corso d’opera e ora la divulgazione di materiale riservato avrebbe come scopo quello di informare due dei partecipanti al rapimento di Moro per possibili “responsabilità penali per fatti di reato ancora non completamente chiariti”. Peccato che i due “favoriti” dalla “divulgazione” sarebbero Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri che per il rapimento di Moro e l’uccisione dei cinque uomini della sua scorta sono già stati condannati in via definitiva all’ergastolo. IL TUTTO È grottesco e inaccettabile. Resta, a fronte di questa incredibile situazione, anche un’altra domanda: che cosa sarebbe successo se gli archivi sequestrati fossero appartenuti a uno dei tanti professori universitari che si sono occupati del rapimento e dell’uccisione di Moro? Pavia. La protesta dei detenuti tra degrado e suicidi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 dicembre 2021 Al “Torre del gallo” i reclusi sono in stato di agitazione, rientrato lo sciopero dei carrelli, ma il Garante nazionale nella sua ultima visita ha rilevato che le criticità già segnalate nel 2017 sono peggiorate. Detenuti abbandonati a sé stessi, tre suicidi nel giro di poco tempo. Parliamo del carcere “Torre del gallo” di Pavia dove i detenuti sono in stato di agitazione. Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha dichiarato che l’annunciato sciopero del carrello, poi rientrato, è giustificato dalle gravi criticità che ha rilevato in una visita all’Istituto proprio in questi giorni. Il Garante: condizioni peggiori di quelle del 2017 - Sottolinea il Garante nazionale che la visita di questi giorni ha trovato l’istituto in condizioni analoghe, se non peggiori, rispetto alla visita del 2017. L’impressione del Garante è stata di trovarsi davanti al rischio di un carcere abbandonato a sé stesso con carenze di personale e di gestione. Non ci sono a Pavia opportunità trattamentali e strumenti per rendere il tempo detentivo un tempo utile alla risocializzazione. Tre suicidi in un mese nel carcere di Pavia - All’estremo degrado di alcuni padiglioni si aggiungono le carenze di personale e risorse nell’area sanitaria. Per questo il Garante ha avuto un incontro con la Procura per segnalare, tra l’altro, l’allarme sul dato inaccettabile di tre suicidi in un mese. I detenuti hanno spiegato in un documento che la protesta - ora rientrata - e che consisteva nel rifiutare il carrello del vitto carcerario, arriva dopo mesi di segnalazioni senza risposte: le celle, spiegano, sono fredde, fredde le salette, i corridoi, le sale avvocati e le sale comuni. Piove anche nella sala colloqui - L’abbandono strutturale, spiegano, si tramuta nell’impossibilità di effettuare corsi, attività sportive e ricreative e di effettuare i colloqui con i familiari “in un ambiente accogliente e dignitoso”. Piove infatti dal tetto nel teatro (chiuso), nella palestra (chiusa), nella chiesa (chiusa), persino nella sala dei colloqui: gli incontri, spiegano i detenuti, si svolgono dunque da tempo in un corridoio. Sospesi anche i corsi, le attività ricreative: nel 2021, spiegano i detenuti, sono stati attivati corsi per 40 persone su 350. Inoltre, segnalano nel documento, non c’è stata nessuna comunicazione delle attività nelle bacheche e dunque “risulta incomprensibile il metodo di selezione dei partecipanti”. Un solo medico per 700 detenuti - C’è poi il tema della salute, manca personale sanitario: “Secondo la normativa del 2016 - si legge - dovrebbero essere in servizio 3 medici, un direttore sanitario, un vice e il medico di guardia, mentre esiste un solo medico per 700 detenuti. Noi detenuti non veniamo visitati se non per urgenze, nella maggior parte dei casi atti autolesionistici, e non si riesce mai ad andare alla visita medica segnandosi perché non ti chiamano”. Questo significa stare “giorni e giorni in balia del dolore senza medicine”, perché senza una visita gli infermieri non somministrano farmaci. Significano “8-10 mesi di attesa per una visita specialistica, l’oculista non è pervenuto nella struttura”. Impossibile ottenere misure alternative - Impossibile poi ottenere misure alternative o essere messi all’interno di un percorso effettivamente di riabilitazione, che sarebbe secondo l’ordinamento italiano lo scopo della pena in carcere: educatori, psicologi e psichiatri sono oberati di lavoro e riescono a incontrare un detenuto se va bene ogni sei mesi, se va male una volta ogni 8 mesi. Il risultato? “Solo un detenuto su 700 è meritevole di fruire di permessi premio, che, come cita l’ordinamento penitenziario, sono fondamentali per il reinserimento nella società di persone private della libertà per anni”. Il 62% dei detenuti a Pavia ha problemi di dipendenza - Sul carcere pesa inoltre la carenza di personale al Servizio tossicodipendenze dell’Asst: nell’istituto il 62% dei detenuti ha problemi di dipendenze ma ci sono un solo psicologo e un solo assistente sociale: “Questo fa sì che molti arrivino a fine pena senza risolvere i problemi di dipendenza che li hanno portati dentro”, spiegano i detenuti. E ancora: le docce sono ammuffite o non funzionanti in alcune sezioni, mancano gli asciugacapelli, molte celle hanno solo acqua fredda (niente acqua calda per lavarsi o lavare le stoviglie), impossibilità di farsi la doccia per ore perché l’agente - spesso da solo - non può aprire il cancello che separa le celle dalle docce. Il Garante nazionale, com’è detto, ha confermato il disagio che incombe nel carcere di Pavia. Santa Maria Capua Vetere. I detenuti massacrati in carcere: “Chiederemo i danni al Ministero” di Mary Liguori Il Mattino, 17 dicembre 2021 Il “mondo alla rovescia” a Santa Maria Capua Vetere parte prima delle 9 di ieri quando i carabinieri si mettono a dirigere il traffico tra il parcheggio del carcere e il percorso verso le aule bunker. Una disposizione necessaria per gestire i numeri di un maxiprocesso che si profila lungo e articolato oltre che superaffollato. E che, inutile dirlo, si svolgerà a favore dei media. Le telecamere, i fotografi, i cronisti tornano nell’aula bunker di Santa Maria Capua Vetere quasi 17 anni dopo i maxiprocessi Spartacus che sancirono l’esistenza dell’antistato a Caserta, quello dei Casalesi, e si dibatterono sotto l’attento occhio dei reporter. Questa volta, però, alla sbarra c’è un pezzo di Stato. Il mondo alla rovescia. E sono centotto gli imputati, tra agenti di polizia penitenziaria e funzionari del Dap, per i quali la Procura è pronta a chiedere il processo. Un esercito di avvocati in fila davanti all’ingresso dell’aula bunker, un capannello di giornalisti, qualche sindacalista che, ancora e ancora, si mette a favore di camera per sottolineare che no, non è la Polizia penitenziaria sotto processo, ma solo “chi ha sbagliato” e che loro, gli agenti, son pronti a farsi “montare sul casco una webcam” in nome di una “trasparenza” nei reparti penitenziari che, allo stato, non è garantita manco dal codice identificativo sugli elmetti. Retorica a parte, scorre lento l’accesso all’aula. Arrivano i sostituti procuratori Daniela Pannone e Maria Alessandra Pinto, poi il procuratore aggiunto Alessandro Milita che ha coordinato la delicata inchiesta delegata ai carabinieri. Solo qualche avvocato si ferma con i giornalisti accreditati, ovviamente, solo per l’area antistante l’aula bunker - l’udienza preliminare si svolge a porte chiuse - e che cercano commenti, ma né per i difensori, né per la Procura è il momento di parlare. Almeno non fuori dall’aula con la prima partita da giocarsi sulla proroga delle venti misure cautelari ai domiciliari per i poliziotti ancora detenuti. Il gup rigetta l’istanza per la sospensione dei termini di custodia cautelare e passa all’esame della richiesta di proroga delle medesime ordinanze ai domiciliari. I tempi, è inevitabile, sono dilatati dai numeri imponenti del processo. Ed è evidente sin da subito. Solo l’appello - tra 108 indagati e 200 parti offese - richiede oltre un’ora, poi tocca alle aspiranti parti civili. Deciderà il gup il prossimo 11 gennaio chi ha titolo per la costituzione. Sono 54 le richieste. Oltre a una parte dei detenuti massacrati di botte il 6 aprile del 2020, e quindi che compaiono tra le parti offese, hanno presentato istanza per la costituzione l’Avvocatura di Stato, il Ministero della Giustizia, l’associazione Antigone, il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello e molte altre associazioni. Sin da subito, a ogni modo, le parti offese (tra le quali compaiono gli avvocati Mario Mangazzo e Rossella Luglio) hanno presentato eccezione annunciando che citeranno per il risarcimento dei danni anche il Ministero della Giustizia. La camerale per discutere la richiesta di proroga delle misure cautelari in scadenza a fine mese si è protratta fino alle 18. Il gup ha respinto l’istanza di sospensione dei termini di custodia cautelare (avanzata dalla Procura in virtù del rinvio all’11 gennaio) e i difensori hanno eccepito rispetto alla eventualità di proroga anche per le misure interdittive, citando la norma. Nel collegio difensivo compaiono 150 avvocati e, tra gli altri, i penalisti Carlo De Stavola, Giuseppe Stellato, Vittorio Giaquinto, Angelo Raucci, Claudio Botti, Rossana Ferraro, Natalina Mastellone, Marco Varletta, Raffaele Costanzo, Mariano Omarto. Il gup deciderà in merito alle proroghe la settimana prossima. Il 28 dicembre scadranno le venti misure dei domiciliari. Potrebbero passare il Capodanno da liberi, dunque, i dirigenti di polizia penitenziaria Anna Costanzo, Pasquale Manganelli e Pasquale Colucci, ritenuti dalla Procura tra i registi delle violenze e dei depistaggi, mentre per l’ex provveditore Antonio Fullone la sospensione sarà in vigore fino a marzo. L’11 gennaio il gup stilerà un calendario delle udienze: si terranno a cadenza settimanale ogni martedì. Santa Maria Capua Vetere. Le violenze nel carcere sono la punta di un iceberg di Massimo Congiu micromega.net, 17 dicembre 2021 È iniziato il processo in cui sono imputate 108 persone, tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari del Dap, per le violenze subite dai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, ad aprile dell’anno scorso. Gli imputati, di cui venti ancora agli arresti domiciliari, sono accusati a vario titolo di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine. Proviamo un attimo a ricostruire la vicenda sulla base delle informazioni a nostra disposizione: è il 5 aprile del 2020 e tra i detenuti della struttura si diffonde la notizia di un caso di Covid-19 in carcere. Alcuni di loro, reclusi nel reparto Nilo, iniziano a percuotere oggetti contro le porte delle celle in segno di protesta, altri si rifiutano di far ritorno nei loro “alloggi”, ma in sostanza gli animi si placano verso sera. Secondo quanto appreso, il giorno dopo arrivano sul posto circa 300 agenti sia interni che esterni al carcere. Tra essi un’unità speciale formata da agenti pronti a intervenire nel caso si riaccendesse la protesta. Il corpo speciale si chiama Gruppo di Intervento Rapido (GIR); la sua istituzione risale al mese precedente ed è motivata dalla necessità di fornire “attività di supporto agli interventi che dovessero rendersi necessari in ambito penitenziario regionale”. È in quella circostanza che si verificano le violenze: secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti grazie alle videocamere di sorveglianza e alle testimonianze delle vittime, gli agenti fanno irruzione nel reparto Nilo e lì si scatena la loro furia. Si parla di un pestaggio brutale e immotivato. A ciò si aggiunga che gli agenti avrebbero cercato di fabbricare prove false per giustificare il loro operato. Il gip Sergio Enea ha definito l’episodio “un’orribile mattanza”, e in effetti le riprese filmate dalle telecamere a circuito chiuso mostrano scene di violenza gratuita, di detenuti sottoposti ad abusi e umiliazioni da far rabbrividire. “Una mattanza di Stato”, secondo il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, che con le sue denunce aveva contribuito a far aprire il procedimento e che ha deciso di costituirsi parte civile, assistito dall’avvocato Francesco Piccirillo. Si tratta di una vicenda di estrema gravità che impone una riflessione sul sistema carcerario del nostro paese senza generalizzazioni e perniciose semplificazioni. L’articolo 27 della Costituzione attribuisce alla pena carceraria una funzione di recupero e riabilitazione del ristretto, ma in troppi casi le condizioni di detenzione sono insostenibili per problemi di sovraffollamento, di carenza quando non assenza di attività trattamentali e di igiene, giusto per menzionare le criticità forse più evidenti. Troppo spesso viene ignorato il criterio di qualità della pena e le carceri divengono una “discarica sociale” come afferma il garante Ciambriello. L’episodio di Santa Maria Capua Vetere contribuisce a evidenziare il carattere esplosivo di questa situazione e verosimilmente impone di rivedere i criteri di selezione degli agenti di Polizia penitenziaria. Il processo si preannuncia complesso e sarà probabilmente lungo. Si dovranno accertare le responsabilità individuali anche nell’interesse dello stesso corpo da cui ci si aspetta collaborazione per amore di giustizia e per rispetto di sé. Certo, la vita in carcere è dura, non solo per i detenuti ma anche per chi ci lavora, a maggior ragione nelle condizioni, spesso disperate, in cui versano diversi istituti di pena italiani. Questo però non giustifica l’orgia di violenza contro individui inermi mostrata dalle videocamere di sorveglianza: detenzione non deve significare privazione della dignità dell’individuo e questo sarà bene tenerlo a mente. Il pianeta carcere deve avere centralità nelle riflessioni e nei processi decisionali del mondo politico senza le tentazioni securitarie incoraggiate, sovente a scopo propagandistico, da certa destra che ama rivolgersi alla pancia delle persone. Del resto un paese che voglia dirsi civile non può permettersi un sistema carcerario inevitabilmente votato al fallimento e disumanizzante. Un sistema di cui, l’orrore di Santa Maria Capua Vetere è in fondo la punta di un iceberg. Si tratta di scegliere, e la scelta è tra civiltà e barbarie. Modena. Rivolta nel carcere di marzo 2020: depositato il ricorso alla Cedu ana.it, 17 dicembre 2021 Dai familiari di un detenuto morto, firmano anche Onida e Randazzo. È stato depositato il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo contro l’archiviazione dell’inchiesta sugli otto detenuti morti a marzo 2020, quando scoppiò una rivolta nel carcere di Modena, in concomitanza con altre proteste simili in altri penitenziari italiani. L’iniziativa è della famiglia di Chouchane Hafedh, assistita dall’avvocato Luca Sebastiani e il ricorso è stato firmato anche dai professori Barbara Randazzo e Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che hanno patrocinato e vinto il caso alla Cedu sul G8 di Genova. Il fascicolo, che ipotizzava l’omicidio colposo e morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, era stato archiviato, su richiesta della Procura, dopo che le autopsie avevano rilevato in overdose da metadone e psicofarmaci le cause delle morti. Nel frattempo a Modena sono state aperte altre inchieste, dopo esposti di detenuti, anche per il reato di tortura. Il Garante per i detenuti e l’associazione Antigone sono in attesa della pronuncia del tribunale modenese sul loro reclamo contro la dichiarazione di inammissibilità della loro opposizione: se sarà rigettato, è possibile che anche loro ricorreranno alla Cedu. Milano. A Rogoredo i libri contro la droga di Monica Serra La Stampa, 17 dicembre 2021 Nella piazza dello spaccio del paese nasce una nuova libreria di strada rivolta ai tossici e agli ultimi. Mattia scuote la testa con gli occhi un po’ persi nel vuoto: “Ma dov’è? Non lo trovo. Voglio Zerocalcare. Non ci credo, non c’è neanche stasera!”. Ha un cappello di lana nero e il corpo gracile avvolto in un giubbotto nocciola di tre taglie più grande. La cerniera tirata su fino al naso. Cammina a fatica ma le mani si muovono in fretta nel contenitore blu, quello dedicato a fumetti e fantasy. C’è un po’ di tutto, da Diabolik a Reinhard Kleist. “Mi spiace, è finito: l’ultimo lo ha preso un ragazzo poco fa”. Miriam propone un altro titolo. Poi si volta e sorride: “Vogliono tutti Zerocalcare, non basta mai!”. Ha 26 anni come una libraia, un po’ consiglia e un po’ consola. Davanti a lei, tra la balaustra e il corrimano della metropolitana, c’è la coloratissima “biblioteca del bosco”, come la chiamano i volontari del Rogoredo team. Una libreria di strada “che accende la speranza”. È stata pensata per i ragazzi “dimenticati da tutti” che come fantasmi abitano la più grande piazza di spaccio d’Italia, vicino all’imbocco dell’autostrada del Sole. Nel contenitore giallo ci sono thriller e noir, in quello rosa i romanzi d’amore, tutti gli altri generi sono raccolti nelle scatole di legno bianca e verde. Sono le nove di sera e la temperatura è scesa sotto lo zero. Al lato della stazione dei treni, in mezzo ai viaggiatori che con i loro trolley passano in fretta, i volontari, quasi tutti under 30, hanno piazzato i banchetti. Ci sono i thermos col tè caldo, i succhi di frutta, le coperte di lana, le torte salate che Rebecca e Giulia preparano con le loro mani e “hanno il sapore di casa”. Ci sono i libri, soprattutto. Migliaia di titoli arrivati qui da tutta Italia, grazie al progetto lanciato dal sito donaunlibroalbosco.org. In ogni volume una dedica speciale scritta a penna. Dal “Forza ragazzi!”, dell’allenatore della Nazionale, Roberto Mancini, a nonna Alberta, che incoraggia a “credere che sia possibile raggiungere una meta e impegnarsi al massimo per farlo accadere”. C’è anche Christian che ha lasciato la mail: “Accendi la mia luce: scrivimi. Cercheremo insieme il nostro interruttore”. “E pensare che tutto questo è nato per caso”, racconta Miriam, mentre aiuta Burba, coi lunghi dread e i suoi 19 anni, consumati in fretta in alloggi di fortuna in giro per l’Europa. “Un anno fa uno di noi ha portato qui tre, quattro libri. Erano titoli brutti di quelli che dimentichi in un angolo della casa. Eppure sono spariti in pochi istanti. Ho sgranato gli occhi, non mi sembrava vero. Mai avrei immaginato che i ragazzi del boschetto della droga avessero così tanta voglia di leggere. E di tutto, da Kafka a Topolino”. Così i volontari si sono organizzati: “Da buoni millennials abbiamo lanciato una campagna social e questa biblioteca è stata modellata sulle richieste dei lettori che ci aspettano qui ogni mercoledì”. D’estate come d’inverno, nonostante il freddo e la pandemia. Gli scatoloni di cartone presto hanno lasciato il posto alla libreria di legno, realizzata dai ragazzi della Casa del giovane di Pavia, una comunità terapeutica contro le dipendenze. Proprio la comunità in cui da due giorni finalmente è in cura Daniel, 29 anni, il primo e più accanito lettore del boschetto. “Lo vedevo soffrire, perdere chili ogni giorno. Per tre anni ho provato ad avvicinarlo, ma niente”, racconta Simone Feder, uno dei responsabili della comunità, che instancabile batte queste strade per aiutare “i pellegrini della disperazione” e nel 2020 ha pubblicato per Mondadori la storia di una di loro: “Alice e le regole del bosco”. Alla fine ad avvicinare Daniel ci hanno pensato i libri: “Ero nel buio più totale”, racconta al telefono. In lacrime ripercorre la sua storia da quando ha perso il lavoro ed è andato via di casa, lontano dalla mamma e dalla zia, a dormire in strada, a fare l’elemosina per comprare l’ennesima dose di eroina e cocaina da sparare in vena. “Ero nelle mani degli spacciatori che mi usavano come volevano. Ubriachi e fatti, non avevano rispetto per nessuno, soprattutto per le ragazze: in cambio di una dose abusavano di loro”. In quelle notti difficili “i libri mi davano speranza, mi dicevano che tutto era possibile: grazie a Stephen King e Dan Brown riuscivo a prendere sonno anche quando avevo più paura”. Un mercoledì dopo l’altro, “sono tornato alla vita”. Sassari. Unida decade dalla carica di Garante dei detenuti di Giovanni Bua La Nuova Sardegna, 17 dicembre 2021 La procedura avviata dopo le sue dichiarazioni no-vax si è chiusa con il voto di revoca del consiglio comunale: 17 sì e un no. Antonello Unida non è più il garante dei detenuti del Comune di Sassari. A decidere sulla sua revoca il consiglio comunale in una irrituale seduta “riservata” a porte chiuse (anche per la stampa), con voto segreto. Nella quale su 18 presenti (le opposizioni hanno polemicamente abbandonato l’aula) in 17 hanno votato a favore della decisione di revoca, peraltro presa unanimemente dalla conferenza dei capigruppo della scorsa settimana, e uno contro. Unida paga la bufera mediatica scatenata da alcuni video postati sulla sua vetrina social, nel quale ribadiva le sue teorie sulla lotta al covid attraverso la vita sana e riservata, e proclamava fiero la sua scelta “No vax” e anti green pass, rimbalzata su tutti i media nazionali. Bufera che ha innescato l’avvio della procedura di revoca, arrivata oggi, 16 dicembre, in consiglio. Lecce. “Il carcere durante la pandemia”: incontro a Palazzo Carafa di Adriana Greco leccesette.it, 17 dicembre 2021 La Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e Antigone Puglia hanno fatto il punto sulla vita in carcere. Nella Sala Open Space in Piazza Sant’Oronzo a Lecce, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e Antigone Puglia hanno fatto il punto sulla vita in carcere a due anni dalla pandemia, in un incontro sul tema “Il carcere durante la pandemia”. Dopo i saluti del sindaco di Lecce Carlo Salvemini e della direttrice reggente del carcere di Borgo San Nicola Valentina Meo Evoli, l’incontro introdotto e moderato da Maria Pia Scarciglia avvocato e presidente di Antigone Puglia, ha visto gli interventi della garante Maria Mancarella, di Alessandro Stomeo avvocato di Antigone Puglia, di Ines Casciaro magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Lecce, Alessandra Moscatello responsabile area sanitaria del carcere di Lecce e Marta Vignola delegata Unisalento per il Polo universitario penitenziario. La pandemia ha esasperato i gravi problemi già presenti in quasi tutti gli istituti penitenziari. Ha acuito difficoltà endemiche, evidenziando la grande contraddizione tra il dovere di essere rivolto verso la risocializzazione e il recupero e una realtà costituita in gran parte da custodia e disciplina. Mentre la vita negli istituti carcerari prova a ripartire, non senza difficoltà, il carcere e i detenuti sembrano ancora oggi un mondo dimenticato. È importante perciò riflettere sul futuro del sistema penitenziario che non può e non deve tornare a essere quello del passato. D’altro canto, proprio la pandemia, ha messo in luce l’utilità e l’importanza di sfruttare la tecnologia, che fino a quel momento era stata rifiutata in quanto considerata veicolo di insicurezza. Vasto (Ch). “Non servono Case di Lavoro ma comunità utili al vero inserimento” di Lea Di Scipio vastoweb.com, 17 dicembre 2021 Le Case di Lavoro dovrebbero essere sostituite con delle comunità utili al vero inserimento. Vi siamo vicini come comunità ecclesiale, nonché civile. Voi siete persone preziose e noi vi portiamo nel cuore perché avete delle storie di sofferenza e delle persone amate che a loro volta stanno soffrendo per voi”. Così l’arcivescovo Bruno Forte ha parlato oggi nel corso della visita presso la Casa lavoro Torre Sinello di Vasto. L’occasione è stata lo scambio di auguri, nonché la benedizione del presepe. Quest’ultimo è stato realizzato dall’educatore penitenziario Lucio Di Blasio, dall’assistenze amministrativo Luigi Maione, da Antonio Iannucci della Polizia Penitenziaria e da alcuni detenuti. A presenziare la direttrice Giuseppina Ruggero che ha sottolineato le difficoltà “anomale di questi ultimi due anni di pandemia, affrontati grazie a tutto il personale che opera all’interno di una struttura chiusa e per questo anche molto fragile”. Verona. “Orme oltre le mura”: una pensione per cani gestita dai detenuti Corriere Veneto, 17 dicembre 2021 Una pensione per i nostri amici a quattro zampe all’interno del carcere di Montorio. Il progetto “Orme oltre le mura” (nato nel 2014 come percorso di riabilitazione per chi deve scontare una pena) ieri ha fatto un passo in avanti inaugurando un percorso lavorativo per i detenuti gestito dalla cooperativa Città degli asini. Si tratta di una struttura residenziale per cani che potrà essere utilizzata anche dai cittadini. Le attività rieducative per persone con particolari necessità continueranno e, in parallelo, tra i 5 e i 10 detenuti si occuperanno dei cani acquisendo competenze e esperienza, per rientrare poi mondo del lavoro. Campobasso. Detenuto nel carcere cittadino vince il concorso nazionale “Scrittodicuore” molisetabloid.it, 17 dicembre 2021 “Lettera che spinge il lettore a procurarsi un raggio di sole, la riva di un fiume, un bacio innamorato, e scavalcando l’utopia, regalarli alla fame di un cuore”. È con questa motivazione che la Giuria Tecnica ha assegnato a Vincenzo, ospite nella Casa circondariale di Campobasso, la quinta edizione di Scrittodicuore, il concorso nazionale di scrittura destinato agli istituti carcerari italiani, promosso e organizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani con la direzione artistica di Brunella Santoli e con la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale di Campobasso nell’ambito di Ti racconto un libro laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione 2021. A selezionare le centinaia di lettere arrivate da ogni parte d’Italia, ci ha pensato la Giuria Tecnica composta dagli scrittori Franco Arminio, Pino Roveredo, Camilla Baresani e Anna Giurikovic Dato a cui è spettato il compito di decretare il primo e il secondo classificato. Sul secondo gradino del podio Omar, ospite nella Casa circondariale di Genova Marassi, per la sua lettera che parla di una storia d’amore struggente e universale, che dà luce a un sentimento senza confini. Segnalata dalla Giuria Tecnica anche la lettera di Romulus Marius, ospite nella Casa di Reclusione di Latina, mentre la Giuria Giovani, composta da Salvatore Dudiez, Roberta Tanno, Elena Sulmona e Angelica Calabrese ha voluto segnalare la lettera scritta da Michele, della Casa di Reclusione di Alghero, che celebra l’amore come sentimento altruistico per eccellenza, grazie al quale si dà priorità all’altro e alla sua felicità piuttosto che alla propria. La premiazione del concorso ha rappresentato l’occasione per ritornare “dentro il Carcere” e riaprire un dialogo più volte interrotto a causa della pandemia. Un modo per tenere aperto il dialogo con il mondo esterno e chi un giorno dovrà farvi ritorno. Nel teatro della Casa circondariale di Campobasso si sono alternati gli interventi del Direttore del carcere Antonella De Paola, di Brunella Santoli Direttore Artistico dell’Unione Lettori Italiani e responsabile del concorso “Scrittodicuore”, di Angelica Calabrese in rappresentanza della Giuria Giovani, e dell’assessore alle Politiche per il Sociale del Comune di Campobasso Luca Praitano. Tra i presenti anche una rappresentanza degli ospiti della casa circondariale, che hanno letto alcune lettere selezionate dalla Giuria. Avellino. Mostra di prodotti artigianali promossa dal Garante dei detenuti avellinotoday.it, 17 dicembre 2021 Sabato 18 dicembre alle ore 10.30, conferenza stampa e inaugurazione della mostra di articoli locali nelle carceri dell’avellinese presso la sala dell’Ordine dei giornalisti di Avellino. La mostra promossa dall’ufficio del Garante Regionale dei detenuti d’intesa con le direzioni delle carceri di Avellino, Ariano Irpino, Lauro e Sant’Angelo dei Lombardi, si terrà presso la Sala dell’Ordine dei giornalisti di Avellino in Corso Vittorio Emanuele 6, con i prodotti realizzati dai detenuti e dalle detenute degli istituti di pena della provincia di Avellino nei giorni 18 dicembre dalle ore 10:30 alle ore 17:00 e 19 dicembre dalle ore 09:00 alle ore 14:00. Sono state anche coinvolte Associazioni e Cooperative che entrano con progetti di inclusione sociale dentro questi istituti e che operano costantemente negli Istituti di pena della provincia di Avellino. Per il Garante campano Ciambriello “è uno stimolo per gli enti locali, per i singoli cittadini, per le Caritas, per le associazioni del terzo settore, partecipare a questi due giorni di mostra che serve anche a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del carcere che spesso e rimosso. All’incontro saranno presenti anche detenute e detenuti autorizzati dai Magistrati di Sorveglianza. È un’occasione anche di conoscenza oltre che di condivisione per costruire ponti e non muri”. Anatomia di una rivolta. Inchiesta sui 9 morti nel carcere Sant’Anna di Modena staseraintv.com, 17 dicembre 2021 Rai News 24 21:30 - 21:59. I nove detenuti morti durante la rivolta nel carcere di Modena l’8 marzo del 2020. Decessi su cui la magistratura tunisina ha appena aperto un’indagine per morti sospette. Spotlight ricostruisce con testimonianze e documenti inediti quello che accadde al Sant’Anna di Modena. “Anatomia di una rivolta. I 9 morti del carcere Sant’Anna di Modena”, di Maria Elena Scandaliato e Giulia Bondi con Raffaella Cosentino, andrà in onda su Rainews24 in due puntate, venerdì 17 dicembre alle 21.30 e sabato 18 dicembre alle 18.30 In replica domenica 19 dicembre alle 9.30 (prima parte) e alle 20.30 (seconda parte). È un’inchiesta di Spotlight, il programma curato da Valerio Cataldi. Queste due puntate sono presentate da Rainews24 e Testata giornalistica regionale della Rai. Da Bergoglio due documenti dedicati alla pace di Luca Kocci Il Manifesto, 17 dicembre 2021 Ultima visita di Mattarella da presidente in Vaticano. Papa Francesco saluta Sergio Mattarella, giunto ormai al termine del suo mandato come presidente della Repubblica. Quella di ieri mattina in Vaticano è stata infatti una sorta di udienza di commiato, alla conclusione della quale, per due volte, il pontefice ha ringraziato della “testimonianza” il capo dello Stato, che si prepara a lasciare il Quirinale, come ha ripetuto egli stesso in diverse occasioni. E il saluto al papa può essere interpretato come un’ulteriore conferma dell’intenzione di Mattarella di non accettare eventuali proposte di un secondo mandato. Nei suoi sette anni di permanenza al Quirinale, Bergoglio e Mattarella si sono incontrati almeno quattro volte: la prima nel 2015, due mesi dopo l’elezione a presidente della Repubblica; poi nel 2017, con la visita del papa al Quirinale; e due volte nel 2020, a Bari per la conclusione dell’evento “Mediterraneo frontiera di pace” (promosso dai vescovi italiani) e a Roma durante un’iniziativa internazionale per la pace promossa dalla Comunità di Sant’Egidio. Un tema, quello della pace, assai caro al papa, che domenica, al termine dell’Angelus a piazza San Pietro, parlando della crisi in Ucraina, ha nuovamente denunciato la proliferazione degli armamenti: “Quest’anno sono state fatte più armi dell’anno scorso. Le armi non sono la strada”. E che è stato al centro anche del colloquio di ieri, durato circa 45 minuti. Francesco ha infatti donato a Mattarella due documenti pontifici: quello “sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”, firmato dal papa e dal grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyib ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, il 4 febbraio 2019; e il Messaggio per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio 2022. Un testo inedito quest’ultimo, firmato da Bergoglio lo scorso 8 dicembre ma non ancora reso noto dalla Santa sede - verrà diffuso a breve - che Mattarella ha definito “fondamentale”. Durante il colloquio privato “cordiale”, secondo la consueta formula utilizzata dalla sala stampa vaticana, “è stata espressa soddisfazione per le buone relazioni intercorrenti tra la Santa sede e l’Italia, e ci si è soffermati su alcune questioni relative alla situazione sociale italiana, con particolare riferimento ai problemi della pandemia e alla campagna di vaccinazione in atto, alla famiglia, al fenomeno demografico e all’educazione dei giovani”. Nel seguito della conversazione, sono state prese in esame tematiche di carattere internazionale, con speciale attenzione al continente africano, alle migrazioni e al futuro e ai valori della democrazia in Europa”. Come del resto già sottolineato pochi giorni dal papa durante il suo viaggio in Grecia e a Cipro, da dove proprio ieri sono partiti i primi dodici dei cinquanta migranti che verranno accolti in Vaticano grazie all’intesa raggiunta con Nicosia: la democrazia in Europa sta subendo un “arretramento”, per colpa “dell’autoritarismo e dei populismi”. La fine della vita e la Costituzione di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 17 dicembre 2021 Le distorsioni che ha subìto il sistema definito dalla Costituzione sembrano assestarsi senza resistenze, tra senso di necessità, rassegnazione, indifferenza. Eppure, si tratta di cosa grave, nel contenuto e comunque nelle modalità: come prassi accettata da Camera e Senato, da tempo, e ora all’ombra del Covid o del Pnn o di altro. L’elenco delle prassi instauratesi giustifica l’allarme. Sempre più il governo ricorre a decreti-legge (che entrano subito in vigore e vanno convertiti in legge dal Parlamento entro 60 giorni), che la Costituzione ammette solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Il decreto-legge trasferisce al governo la funzione legislativa. Le necessità della pandemia, grave e in continua evoluzione, spiegano certo il ricorso ai decreti-legge, ma il fenomeno della loro dilatazione risale ormai ad anni e si manifesta in ogni campo. La discussione in Parlamento frequentemente è impedita dall’uso che i governi fanno di maxi-emendamenti, che propongono in un unico articolo il testo che il governo desidera e su cui pone la questione di fiducia. La regola costituzionale del voto parlamentare su ciascun articolo è così aggirata, mentre l’eterogeneità del testo dell’articolo unico impedisce una votazione consapevole ed eventualmente differenziata. La previsione costituzionale del doppio esame da parte di ciascuna delle due Camere del Parlamento è di fatto cancellata, quando la seconda Camera si limita ad approvare rapidamente il testo prodotto da quella che per prima è intervenuta. I tempi strettissimi imposti al Parlamento limitano oltremodo la sua possibilità di intervenire sui testi di legge. Da anni ormai persino l’esame del disegno di legge finanziaria viene operato di corsa, sotto la minaccia di far scattare l’esercizio provvisorio. Sempre più le leggi invece che a Montecitorio e a Palazzo Madama si fanno a Palazzo Chigi, con o senza consultazioni con i rappresentanti dei partiti o dei sindacati. Può darsi persino che ormai sia meglio così, ma la Costituzione dice altrimenti e non è irrilevante che ci si distacchi da essa senza una discussione, una scelta consapevole e motivata. La vicenda che si trascina in Parlamento, per una legge sul suicidio assistito, aggiunge un ulteriore esempio. Essa vede coinvolta anche la Corte costituzionale. In breve: la Corte avvertì il legislatore che la norma del codice penale che puniva chi aiutasse taluno a suicidarsi era incostituzionale, indicò il modo che riteneva adeguato a rimediare e attese inutilmente un anno perché il Parlamento provvedesse. Poi decise con sentenza in quale situazione dovesse trovarsi chi voleva por fine alla propria vita, perché la sua volontà potesse esser rispettata e quindi non punito chi gli prestasse aiuto. L’indicazione proveniente dalla Corte costituzionale è stata dettagliata su diversi piani, anche riguardando le procedure da seguire. Solo la mancanza di una esposizione separata in articoli la distingue da una legge. Infatti ora vi è chi chiede ai giudici che la sentenza venga applicata al proprio caso, come se si trattasse di dare esecuzione ad una legge. La Corte ha creato un sistema di limitato rispetto della volontà del suicida, adottandone uno tra quelli possibili e compatibili con la Costituzione. In effetti tra le indicazioni date dalla Corte non si coglie se ve ne siano di costituzionalmente vincolate o se l’esercizio cui la Corte si è piegata è solo il frutto della omissione da parte del Parlamento e della necessità di provvedere a disciplinare la materia rimuovendo una grave incostituzionalità. E ciò con lo strumento di cui la Corte dispone - la sentenza - ma con uno dei contenuti che potrebbe scegliere il Parlamento - con la legge-. Tanto è vero che in un primo tempo la Corte aveva ritenuto che dovesse essere il Parlamento a provvedere. Era ciò che a lungo essa si limitava a fare, dichiarando inammissibili le eccezioni di costituzionalità che implicavano scelte politiche per riempire il vuoto lasciato da una dichiarazione di incostituzionalità, successivamente lanciando moniti che il Parlamento però lasciava cadere e poi ancora provvedendo essa stessa ad introdurre o modificare norme che il sistema normativo era adatto a ricevere. Più recentemente la Corte ha cessato di tollerare il perdurare di situazioni di incostituzionalità che il Parlamento non rimuoveva. Non senza problemi, però. Ora, sul suicidio assistito, in Parlamento pare si ritenga impossibile separarsi dalla via indicata dalla Corte, se non lavorando sui dettagli (in senso restrittivo). Nessuna visione autonoma emerge e la sentenza della Corte viene usata come per indicare di chi è la colpa, ad opera di chi e dove va ricercata una soluzione che si sarebbe voluta evitare. Eppure, il Parlamento è lì per operare le sue scelte anche quando sono difficili, nel dibattito pubblico, assumendone la responsabilità. Così si dice in sede politica, quando si protesta per lo strapotere dei giudici. Ma in questo caso le scelte vengono volentieri lasciate alla Corte costituzionale. E non si tratta solo di una ulteriore distorsione rispetto ai rispettivi ruoli delle istituzioni di vertice della Repubblica. Ipotizziamo, come c’è ragione di credere, che nella impostazione di fondo e comunque per diversi aspetti specifici, la sentenza sia criticabile sulla base di considerazioni di costituzionalità, almeno per la irragionevolezza di talune previsioni. Se fossimo difronte ad una legge sarebbe possibile ottenere il controllo della Corte costituzionale. Ma così? La Corte è competente a giudicare le leggi e gli atti aventi forza di legge (i decreti-legge, i decreti legislativi), ma non le proprie sentenze, nemmeno con qualche acrobazia tecnica. E vorremmo immaginare che la Corte offra un controllo efficace su una legge fotocopia di quanto essa stessa ha indicato? Sempre più si afferma una realtà istituzionale affannosa, sconnessa, non organizzata a sistema, lontana dal meditato disegno costituzionale. Migranti. Due donne nigeriane hanno presentato ricorso all’Onu contro Italia e Libia di Sara Creta Il Domani, 17 dicembre 2021 Dopo anni di maltrattamenti, aggressioni e torture due donne nigeriane hanno fatto ritorno a Lagos dalla Libia, con un volo di rimpatrio volontario. Le due donne hanno presentato ricorso contro Italia e Libia al Comitato dell’Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw). Al centro del ricorso ci sono: le politiche di cooperazione che bloccano le partenze contribuendo attivamente al mantenimento dei modelli di sfruttamento dei migranti e la mancanza di garanzie sull’utilizzo dei fondi che l’Italia destina all’Oim per i programmi di rimpatrio volontario. Doris e Princess (nomi di fantasia), sono due donne nigeriane prese nella tratta di esseri umani. Dopo anni di maltrattamenti, aggressioni e torture hanno fatto ritorno a Lagos, in Nigeria, dalla Libia, con un volo di rimpatrio volontario. Nell’aprile del 2019 sono arrivate al terminal merci dell’aeroporto con un volo commerciale finanziato dall’Unione europea. Le due donne, con il sostegno degli avvocati di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e del network di cliniche legali nigeriane (Nulai), hanno presentato ricorso contro Italia e Libia al Comitato dell’Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw). Al centro del ricorso ci sono due aspetti: da un lato, le politiche di cooperazione tra Italia, Ue e Libia che bloccano le partenze contribuendo attivamente al mantenimento dei modelli di sfruttamento dei migranti. Dall’altro, la mancanza di garanzie sull’utilizzo dei fondi che l’Italia destina all’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) per i programmi di rimpatrio volontario attraverso i quali vengono riportate in Nigeria anche le vittime della tratta. “Le politiche di blocco delle partenze favoriscono la creazione di un modello economico basato sullo sfruttamento dei migranti in Libia”, hanno scritto gli avvocati nel ricorso presentato al Comitato Onu. I legali sostengono che Italia e Libia hanno violato gli articoli 2 e 6 della Convenzione per i diritti delle donne, che regolano il diritto alla non discriminazione e alla protezione dallo sfruttamento della prostituzione. Inoltre, continuano gli avvocati, le donne nigeriane sono state sottoposte a una forma di espulsione “mascherata” che le ha esposte a ulteriori rischi una volta ritornate nel paese di origine. Gli avvocati sostengono che l’Italia è responsabile, da un lato, per l’essenziale sostegno finanziario, logistico e politico fornito alle autorità libiche, senza il quale non sarebbe stata possibile l’implementazione di politiche di blocco e detenzione, ma anche per il finanziamento - con 11 milioni di euro tra il 2017 e il 2020 - dei programmi di rimpatrio eseguiti dall’Oim. “Le autorità italiane sono consapevoli che attraverso il rimpatrio volontario centinaia di donne vengono riportate in Nigeria senza che sia stata loro offerta un’alternativa di protezione e nonostante ciò hanno continuato a finanziare Oim senza chiedere alcuna garanzia”, ribadiscono gli avvocati nel ricorso presentato al Comitato Onu. Doris e Princess, dopo aver tentato la traversata del Mediterraneo, erano state intercettate dalla Guardia costiera libica e riportate in un centro di detenzione a Tripoli. Nel 2019 hanno deciso di fare ritorno a casa con il programma dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) definito di “rimpatrio volontario umanitario”, finanziato dall’Unione europea. Gli avvocati sostengono che è lo stesso elemento della “volontarietà” di tali rimpatri a dover essere messo in discussione, soprattutto quando avvengono dalla Libia o dal Niger. Dal 2016, infatti, sono aumentati i programmi di ritorno volontario e di reintegrazione in Africa, attuati dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) e finanziati sia dall’Unione europea attraverso il Fondo fiduciario d’emergenza per l’Africa, sia da paesi membri - quali l’Italia - tramite il Fondo Africa. I rimpatri volontari dalla Libia ai paesi d’origine diventano strumenti di gestione della migrazione e si inseriscono in una più ampia strategia di esternalizzazione sponsorizzata dai paesi dell’Ue con il fine ultimo di limitare il più possibile l’arrivo dei migranti in Europa. Dal 2017 l’Unione europea e i suoi paesi membri - in particolare l’Italia - hanno inaugurato una stagione di rinnovato sostegno alle autorità libiche attraverso un complesso mosaico di accordi, finanziamenti e donazioni. Degli oltre 95mila migranti che hanno accettato dal 2017 di far ritorno a casa grazie al programma gestito dall’Oim, più di 38mila migranti sono tornati dalla Libia attraverso il programma congiunto Ue-Oim, finanziato anche attraverso il Fondo Africa del ministero degli Affari esteri italiano. Molti di loro sono reduci da lunghi periodi di detenzione, abusi e violenze nelle mani dei trafficanti e delle milizie. Lo stesso relatore speciale delle Nazioni unite per i diritti dei migranti ha evidenziato come, nella maggior parte dei casi, tali rimpatri non possano considerarsi realmente “volontari”: molti migranti accettano il rimpatrio perché sono in una condizione di detenzione o per assenza di reali alternative. “Il rimpatrio non può essere considerato volontario: in primo luogo, non viene proposta nessuna alternativa per uscire dalla detenzione e dallo sfruttamento”, dice Giulia Crescini, avvocato di Asgi. Secondo gli avvocati italiani e nigeriani, i rimpatri volontari sono espulsioni “mascherate”. La partecipazione e il sostegno finanziario dell’Italia al programma dell’Oim fa sorgere una serie di dubbi sulle responsabilità italiane e sulle carenze di tutela dei migranti rimpatriati. Un recente report di Easo, agenzia dell’Ue che opera come centro specializzato in materia di asilo, affronta la situazione del ritorno delle vittime in Nigeria, soprattutto dal punto di vista della loro protezione, le possibilità di sostegno, l’atteggiamento dei familiari delle vittime e delle organizzazioni nei confronti dei rimpatriati: alcune fonti hanno indicato che le vittime tornate dall’estero o dall’Europa sono state costrette a prostituzione forzata nel proprio paese di origine. Molto spesso sono gli stessi trafficanti che, per assicurarsi il pagamento del debito, costringono le vittime a non collaborare con le autorità. Un operatore di un’organizzazione non governativa di Benin City ha raccontato che “è difficile tenere le donne e le ragazze di ritorno lontane dalle reti che le hanno trafficate (…) molte tornano a prostituirsi, altre sono ancora in contatto con i loro trafficanti”. Nel 2009, l’ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc) ha stimato in 3.800-5.700 il numero annuo di vittime della tratta a fini sessuali provenienti dall’Africa occidentale. Nel 2018 la Walk free foundation ha stimato che in Nigeria quasi 1,4 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù, prostituzione, servitù domestica o lavoro forzato e sono a rischio di prelievo di organi. In Nigeria lo sfruttamento fonda le proprie radici in un sistema complesso dove non solo le organizzazioni criminali ma anche la povertà, la grave condizione femminile all’interno della società e le famiglie hanno un ruolo fondamentale. “Il rischio di essere nuovamente trafficate una volta tornate in Nigeria non può essere ignorato”, dice Odinakaonye Lagi, avvocato delle cliniche legali nigeriane. L’agenzia governativa nigeriana che lavora contro il traffico di persone (Naptip) dovrebbe occuparsi di attività di indagine, persecuzione penale, ritorno e reintegrazione delle vittime di tratta. In realtà, molte donne sfuggite alla violenza e agli abusi sessuali in Libia, si ritrovano ancora una volta bloccate nel ciclo dello sfruttamento in Nigeria. Secondo il relatore speciale delle Nazioni unite sulla tratta di esseri umani, i rimpatriati spesso non ricevono alcun tipo di sostegno al loro arrivo, nonostante molti siano stati respinti dalle loro famiglie. Un recente rapporto del dipartimento di Stato americano ha ribadito che la corruzione in Nigeria coinvolge funzionari del governo, magistrati e polizia di frontiera. Tra il 2018 ed il 2019 è stato avviato un procedimento penale nei confronti di sette funzionari (appartenenti alla Naptip, alle forze di polizia, al servizio di immigrazione e al servizio penitenziario della Nigeria) accusati di essere complici nella tratta di persone. Nessuno di loro è stato condannato. Nel 2020, solo 33 casi sono stati oggetto di indagine, ma solo 14 di questi sono stati portati in tribunale. Nessun verdetto è stato ancora emesso. Il programma Oim-Ue prevede servizi di assistenza e accoglienza per i migranti rimpatriati, che in Nigeria vengono effettuati in collaborazione con la Commissione nazionale per i rifugiati, i migranti e gli sfollati interni, la Naptip, la National emergency management agency, i servizi sanitari portuali nigeriani e le task force federali contro la tratta di esseri umani. L’Oim, in collaborazione con Naptip e altre organizzazioni locali, fornisce accesso a programmi speciali di reinserimento, che includono alloggio, formazione, assistenza finanziaria e medica. Un ufficiale che lavora con il Servizio immigrazione nigeriano, che indaga sulle vittime di tratta rimpatriate attraverso i loro account Facebook, ha detto che molte donne vengono nuovamente coinvolte nel traffico di esseri umani nel giro di pochi mesi. Asgi: “Italia e Libia complici di gravi violazioni contro le donne vittime di tratta” di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 dicembre 2021 L’inferno libico fatto di torture, stupri, compravendita di esseri umani, riduzione in schiavitù è il prodotto della cooperazione con l’Italia, che condivide anche giuridicamente le responsabilità delle violazioni dei diritti umani subite da chi avrebbe diritto alla protezione internazionale. Come le donne vittime di tratta. L’accusa è mossa dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) attraverso un ricorso contro Italia e Libia presentato il 3 dicembre scorso, insieme alla Ong nigeriana Network of University Legal Aid Institutions (Nulai), davanti al Comitato per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne (Cedaw). L’organismo dell’Onu si occupa di verificare l’applicazione delle norme contenute nell’omonima convenzione, di cui i due paesi sono firmatari. Doris (nome di fantasia) è una delle due ricorrenti. Parte dalla Nigeria nel 2018. Viene venduta più volte dai trafficanti, fino all’arrivo in Libia. Lì diventa una schiava sessuale: deve prostituirsi in una “connection house” per ripagare il debito del viaggio. Riesce a fuggire ma viene arrestata da un poliziotto, che la porta nel centro di prigionia di Bani Walid. Subisce maltrattamenti e abusi. Un uomo la compra e la riduce di nuovo in schiavitù: la costringe a lavorare gratis per ripagare il debito della liberazione dal centro. Doris scappa ancora, trova un lavoro e compra un viaggio su un barcone diretto in Italia. La “guardia costiera” libica la cattura e la riporta indietro. Finisce nella prigione di Tajoura. Ha davanti una detenzione arbitraria e indefinita. Incontra i funzionari dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che le propongono il rimpatrio volontario. Accetta. Le storie delle due ricorrenti si assomigliano e sono emblematiche di quello che per Asgi e Nulai è un sistema nato nel contesto del memorandum italo-libico firmato nel 2017 per fermare le partenze dei migranti. Fu negoziato dall’allora titolare del Viminale Marco Minniti (fino a febbraio scorso deputato Pd) e poi siglato dai primi ministri Paolo Gentiloni e Fayez al-Sarraj. La prima parte del ricorso contesta alla Libia la violazione dell’obbligo di identificare e proteggere le vittime di tratta, ma chiede anche al Cedaw di riconoscere le responsabilità italiane. Perché è Roma che ha finanziato, formato e legittimato le condotte delle autorità di Tripoli. Secondo Asgi e Nulai le attività di contrasto delle partenze hanno posto le basi di un vero e proprio modello economico in cui attori istituzionali e di altra natura utilizzano in diverse forme i cittadini stranieri per ottenere profitti. Catture in mare, detenzioni arbitrarie, sfruttamento lavorativo, schiavitù sessuale, tratta di donne e uomini farebbero parte dello stesso meccanismo, “pianificato e sistemico”. La seconda parte del ricorso verte invece sui rimpatri umanitari volontari (Hvr) implementati dall’Oim, anche con finanziamenti italiani. La tesi, sostenuta dal parere di un pool di avvocati e giuristi della clinica legale dell’Università Roma 3, è che si tratti di “espulsioni mascherate”. Perché in un contesto segnato da violenze e privazione della libertà la scelta del rientro nel paese di origine, che alle vittime di tratta pone seri rischi di essere “ri-trafficate”, non può essere davvero libera. Oim Libia non ha risposto alla richiesta di commentare il ricorso. Giornalisti dietro le sbarre di Francesca Mannocchi La Stampa, 17 dicembre 2021 Reporters sans frontières lancia l’allarme: mai così tanti in carcere. Sono 488 nel mondo, più 20% rispetto al 2020. “Cosa sei disposto a sacrificare per la verità?”. Con queste parole, ripetute due volte durante il discorso di accettazione del Nobel per la Pace, Maria Ressa richiama gli eventi più dolorosi della sua biografia, evoca il valore del mestiere del giornalista, e chiama in causa la ragione prima e ultima di questo lavoro, del nostro scrivere: la consapevolezza del lettore. È a lui che scrive Maria Ressa, è a lui che parla. A lui che indirizza quell’interrogativo, prima che a se stessa: Cosa sei disposto a sacrificare per la verità? L’ultima volta che un giornalista ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace era il 1936. Si chiamava Carl von Ossietzky e non è mai arrivato a Oslo perché rinchiuso in un campo di concentramento nazista. Quando Maria Ressa e il collega russo Dmitry Muratov sono stati nominati vincitori del Premio Nobel per la pace, il Comitato norvegese li ha descritti come “rappresentanti di tutti i giornalisti che difendono questo ideale in un mondo in cui la democrazia e la libertà di stampa affrontano condizioni sempre più avverse”. Maria Ressa, parlando a Oslo, avrebbe potuto limitarsi a raccontare le vicende che l’hanno vista protagonista, i suoi arresti, avrebbe potuto compiacersi di un tale riconoscimento e ne avrebbe tutte le ragioni: fondatrice del sito indipendente Rappler, nelle Filippine, è da sempre impegnata nella difesa della libertà di stampa, pertanto invisa al potere. Soprattutto dal 2016, da quando cioè Rodrigo Duterte è a capo del Paese. Rappler ha raccontato le migliaia di esecuzioni extragiudiziali commesse con l’alibi della guerra alla droga ma che in realtà erano il capitolo armato di una guerra molto più profonda alla libera diffusione delle informazioni. L’altro capitolo era l’esposizione continua dei cittadini filippini alle campagne di disinformazione. È così, unendo le minacce alla propaganda che Duterte ha costruito il consenso. E, ovviamente, screditando chi lo criticava, come Rappler, accusato di essere un “sito di fake news finanziato dalla Cia”. E screditando Maria Ressa, trattata come spia. Avrebbe potuto mettere in fila questi eventi. Invece Maria Ressa ha chiamato in causa il lettore, ognuno di noi: Cosa siamo disposti a sacrificare per la verità? Negli ultimi anni, Ressa ha ricevuto dieci mandati di arresto, dal 2019 è stata detenuta due volte. Nel luglio del 2020 è stata condannata a sei anni per “diffamazione informativa”. Condanna per cui è ha fatto ricorso davanti al tribunale di Manila, appellandosi contro la legge filippina che criminalizza il giornalismo in violazione degli obblighi di diritto internazionale sui diritti umani. Era la gestione autoritaria dello Stato, da parte di Duterte, certo, con la responsabilità dei giganti della tecnologia che, ha affermato Ressa “hanno permesso a un virus di bugie di infettare ognuno di noi”. Ognuno di noi. Maria Ressa è stata il canarino in miniera. Le detenzioni arbitrarie e i processi a suo carico servivano a Duterte come ostensione del potere ma funzionavano anche da allarme: attenzione ai vettori di informazioni che permettono la disinformazione e l’incitamento all’odio virale. Questo raccontava e racconta la biografia di Maria Ressa. Attenzione, perché accade qui, a Manila, ma può accadere ovunque. E infatti accade. Ieri Reporters sans frontières (Rsf) ha pubblicato l’ultimo rapporto annuale sugli abusi commessi contro i giornalisti. L’organizzazione monitora lo stato di salute del rispetto dei giornalisti nel mondo dal 1995, e quest’anno il referto è pessimo. Il paziente grave. Sono 488 i giornalisti detenuti in tutto il mondo, il 20% in più dello scorso anno il numero più alto di operatori dei media incarcerati da vent’anni a questa parte. I dati, si legge nel report, si devono principalmente al risultato di tre Paesi: “La Cina con 127 giornalisti detenuti, numero che si deve anche alla legge sulla sicurezza nazionale ad Hong Kong, un tempo modello per il rispetto della libertà di stampa nella regione grazie allo suo status speciale, ma dove - negli ultimi mesi - sono stati arrestati almeno 10 cronisti, poi il Myanmar dove lo scorso febbraio i militari hanno ripreso il potere con un colpo di Stato e dove sono detenuti 53 giornalisti e la Bielorussia. Nel Paese governato da Alexander Lukashenko dopo la controversa rielezione, lo scorso anno i cronisti in prigione erano sette. Quest’anno 32. Mai tanti incarcerati. Mai tante donne, 60. Un terzo in più del 2020. Notizie pessime e notizie apparentemente buone ma da leggere in prospettiva. Calano i giornalisti uccisi, che sono 46. Bisogna tornare al 2003 per trovare un altro anno con meno di 50 giornalisti uccisi. Calano i morti perché calano le tensioni su alcuni fronti, certo, ma calano i morti anche perché ai giornalisti è sempre meno consentito di recarsi su quei fronti di guerra, conflitto, ingiustizie e documentarli. E calano i morti perché non andare in una zona di conflitto è una forma, come ricorda Christophe Deloire, direttore di RSf, di “autocensura che ha portato i giornalisti ad andare meno in territori pericolosi”. E perché si va meno, se a quello è chiamato il cronista, a esserci, documentare, verificare. Lì, a testimoniare. Si va sempre meno anche in conseguenza di nuovi equilibri geopolitici in cui i regimi autoritari non sono sottoposti a pressioni sufficienti per frenare le loro repressioni. Come a dire, ancora una volta, come funzioni il doppio standard dell’Occidente. Pronto a fare affari con regimi autoritari, ma non altrettanto pronto a puntare i piedi in difesa dei diritti umani, del diritto all’informazione. “Senza fatti, non si ha verità. Senza verità, non puoi avere fiducia. Senza fiducia non possediamo una realtà condivisa né democrazia, e diventa impossibile affrontare i problemi del nostro mondo: il clima, l’epidemia, la battaglia per la verità”. È anche ai governi occidentali che era rivolta la domanda di Maria Ressa: cosa siete disposti a sacrificare, voi? La consapevolezza del lettore, forse, l’ingrediente principale della coscienza condivisa. Qualche decennio fa, Vasilij Grossman raccontò le vicende del secondo conflitto mondiale sul fronte Est europeo, come inviato speciale di “Krasnaja zvezda” (Stella Rossa), il giornale dell’esercito sovietico che da giornalista seguì per tre anni tra l’Ucraina, Mosca e l’assedio di Stalingrado. Scrisse cercando di liberare i lettori dalla retorica della propaganda. I suoi anni di taccuini che hanno resistito al tempo e alle censure, si attenevano a un principio che Grossman annota così: “Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità”. Non solo il dovere civile di raccontare, ma il dovere civile di conoscere. È alla comunità che fa danno il potere quando censura, punisce, incarcera i giornalisti, perché è nello spazio di consapevolezza della comunità che si costruisce la coscienza della memoria e la capacità di distinguere il vero dal falso. Il caso Assange e la parodia della giustizia di Riccardo Noury* Left, 17 dicembre 2021 La libertà di stampa è un’attività protetta dal diritto internazionale e non dovrebbe mai essere criminalizzata. Il 10 dicembre 2021, Giornata internazionale dei diritti umani, l’Alta corte del Regno Unito ha accolto l’appello degli Stati Uniti contro la decisione di non estradare Julian Assange, rimandando dunque l’esame a una corte di grado inferiore. A ricorrere all’Alta Corte era stato il team legale statunitense, che si opponeva al divieto di estradizione fondato sul possibile pericolo di suicidio di Assange nelle carceri degli Usa. I giudici britannici hanno accolto le rassicurazioni sul trattamento in carcere di Assange, una volta che fosse estradato negli Usa. Siamo di fronte a una vera e propria parodia della giustizia. L’Alta corte britannica ha scelto di accettare le presunte rassicurazioni degli Usa secondo le quali Assange non sarebbe posto in isolamento all’interno di una prigione di massima sicurezza. Il fatto che gli Usa si siano riservati il diritto di cambiare idea in qualunque momento significa che tali rassicurazioni valgono meno del pezzo di carta su cui sono state scritte. Se estradato negli Usa, Assange potrebbe affrontare 18 capi d’accusa: 17 ai sensi della Legge sullo spionaggio - e si tratterebbe del primo soggetto editoriale incriminato in tale modo - e uno ai sensi della legge sulle frodi e gli abusi informatici. A prescindere dalle rassicurazioni di cui sopra, rischierebbe di subire gravi violazioni dei diritti umani tra cui condizioni detentive, come l’isolamento prolungato, che potrebbero equivalere a maltrattamento o tortura. La richiesta di estradizione da parte degli Usa si basa, come noto, su accuse riferite direttamente alla pubblicazione di informazioni riservate da parte di Assange nell’ambito del suo lavoro con Wikileaks: oltre 251mila documenti diplomatici statunitensi, molti dei quali etichettati come “confidenziali” o “segreti” e relativi a crimini di diritto internazionale commessi dalle forze Usa in teatri di guerra. Su tali crimini, per inciso, non sono mai state svolte indagini e, di conseguenza, nessuno è stato chiamato a risponderne davanti alla giustizia. Pubblicare informazioni che sono di interesse pubblico è una pietra angolare della libertà di stampa e del diritto dell’opinione pubblica a conoscere le malefatte dei governi. E un’attività protetta dal diritto internazionale che non dovrebbe mai essere criminalizzata. La posizione dell’amministrazione statunitense pone invece un enorme rischio per la libertà di stampa, tanto negli Usa quanto altrove. Se venisse definitivamente accolta dai tribunali britannici, il ruolo fondamentale dei giornalisti nel controllare l’operato dei governi e denunciare le loro malefatte sarebbe compromesso e i giornalisti sarebbero costretti a guardarsi dietro le spalle. Dopo aver trascorso otto anni braccato (e spiato) all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, Assange è da due anni detenuto nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh. Lì attenderà un ulteriore esame della richiesta di estradizione che, a seguito della decisione dell’Alta corte, spetterà nuovamente a un tribunale di primo grado. Annullare le accuse, respingere la richiesta di estradizione, rilasciare Assange. Qualsiasi cosa di meno sarà un affronto ai diritti umani. *Portavoce di Amnesty International Italia “Irresponsabilità penale”: la svolta della giustizia francese di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 17 dicembre 2021 Il guardasigilli: “Non giudicheremo mai i pazzi”. Il Parlamento francese approva il progetto di riforma del regime di irresponsabilità penale voluto dal governo in seguito al caso di Sarah Halimi. Con l’ultimo voto al Senato, il Parlamento francese ha definitivamente approvato la delicata riforma del regime di irresponsabilità penale. La misura è stata voluta dal presidente Emmanuel Macron dopo l’omicidio di Sarah Halimi, una sessantenne ebrea uccisa nel 2017 dal suo vicino di casa, che non è stato condannato perché al momento dell’aggressione era in preda a una “ventata delirante” causata della cannabis assunta, secondo le perizie psichiatriche. Il caso aveva suscitato un’ondata di polemiche in Francia, e in migliaia hanno manifestato per cambiare la legge. “Non giudichiamo e non giudicheremo i pazzi”, ha commentato il ministro della Giustizia, Eric Dupond-Moretti. Poco prima delle manifestazioni, il ministro aveva annunciato che a fine maggio avrebbe presentato un progetto di legge per “colmare un vuoto giuridico”. La richiesta è stata fatta anche dal presidente Emmanuel Macron: “Decidere di assumere degli stupefacenti e diventare allora “come un folle” non dovrebbe, a mio avviso, sopprimere la responsabilità penale”. Il testo prevede due eccezioni. La prima prevede che non ci sia irresponsabilità se l’interruzione temporanea del discernimento è causata dal consumo di sostanze psicotrope con l’obiettivo di compiere un reato. Sarà inoltre possibile perseguire il consumo di sostanze come droghe o alcool se la persona che le ha assunte sa che possono portare a commettere reati: per esempio nel caso di terroristi che assumano droghe prima di compiere attentati. “Non si tratta di reprimere l’atto commesso ma l’assunzione di sostanze psicotrope”, ha detto il guardasigilli. Contro la riforma si era schierata la sinistra, che ora presenterà ricorso alla Corte Costituzionale. I parlamentari sono giunti a un compromesso sul testo presentato dal governo dopo una complessa mediazione, con il Senato - dominato dalla destra - che avrebbe voluto estendere la discrezionalità dei giudici. Nei casi in cui vi sia esitazione tra abolizione o alterazione del discernimento (in seguito di perizie psichiatriche contraddittorie), allora il giudice competente delibererà a porte chiuse sulla responsabilità o sull’irresponsabilità, prima della sentenza. Una sedia vuota per Navalnyj al Parlamento europeo. La figlia: “Basta flirt con Putin” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 17 dicembre 2021 Dasha Navalnaja ha ritirato il premio Sakharov al posto del padre detenuto in una colonia penale: “Niente pragmatismo con i dittatori”. “L’Europa è un miracolo, un giorno ne faremo parte”. Al centro dell’emiciclo del Parlamento Europeo c’era una sedia vuota. Quella che simbolicamente avrebbe dovuto occupare l’oppositore russo Aleksej Navalnyj se non si trovasse incarcerato in una colonia penale. “Sta a simboleggiare che ancora una volta un vincitore del nostro Premio Sakharov per la libertà di pensiero è privato della libertà”, ha commentato David Sassoli, presidente dell’Europarlamento prima di chiederne un “rilascio immediato e incondizionato” e di consegnare il premio alla figlia di Navalnyj, Dasha Navalnaja, accompagnata dal suo consigliere politico, Leonid Volkov, e dalla sua portavoce, Kira Jarmish. “La pacificazione con i dittatori e con i tiranni non funziona mai”, ha detto la ventenne Navalnaja, arrivata a Strasburgo da Stanford negli Stati Uniti dove ha vinto una borsa di studio. “Non importa quanto la gente cerchi di illudersi sperando che un altro folle che si aggrappa al potere si comporti decentemente in risposta a concessioni e a flirt: non succederà mai. La vera essenza del potere autoritario comprende un aumento costante delle scommesse, delle aggressioni e della ricerca di nuovi nemici”, ha aggiunto prendendosela con “chi difende relazioni pragmatiche con i dittatori” e ricordando gli altri vincitori del premio Sakharov ancora in carcere. “Dove sono i vincitori dello scorso anno, gli oppositori bielorussi, adesso? La maggior parte in prigione”, ha detto proprio all’indomani dell’ultima sentenza di una corte di Minsk che ha condannato Serghej Tikhanovskij a 18 anni di carcere e comminato altre pene severe contro dissidenti bielorussi. “Anni di flirt con Putin gli hanno fatto capire che, per aumentare la sua popolarità, può anche iniziare una guerra”, ha continuato per poi ricordare l’avvelenamento con il Novichok a cui suo padre l’anno scorso è miracolosamente sopravvissuto. “Sappiamo che un vero gruppo terroristico è stato creato dentro i servizi speciali di Putin. Per uccidere cittadini del mio Paese senza un’udienza o un processo. Senza giustizia. Stavano per uccidere mia madre, hanno quasi ucciso mio padre e nessuno garantirà che domani i politici europei non cadranno senza vita per aver toccato una maniglia”. La studentessa ha poi ringraziato per il premio l’Europa “di idee, di celebrazione dei diritti umani, democrazia e integrità”. “L’Unione Europea è un incredibile miracolo creato da nazioni la cui intera storia è stata una storia di guerre infinite tra loro. Malgrado tutte le difficoltà che l’Ue ha e incontrerà io credo che nel suo futuro un giorno il mio paese ne diventerà parte”. Ma ha infine sottolineato, applaudita lungamente dagli eurodeputati che alla fine del suo discorso si sono alzati in piedi: “Non vogliamo l’Europa dei cancellieri e dei ministri che aspirano ad un posto nei consigli di amministrazione delle società statali di Putin o di navigare sugli yacht degli oligarchi”. Parole echeggiate in conferenza stampa da Volkov: “Chiediamo alla comunità europea di smetterla di considerare Putin alla pari, come leader credibile che rappresenta il nostro Paese. Non lo è”. Definendo Navalnyj un “prigioniero personale” di Putin, Volkov ha infine ricordato l’ong Memorial, fondata nel 1989 da Andrej Sakharov, il dissidente sovietico premio Nobel per la pace a cui è intitolato il premio europeo. L’organizzazione che difende i diritti umani e raccoglie testimonianze sulle atrocità commesse nei Gulag staliniani è attualmente minacciata di scioglimento. Stesso destino di diverse ong in Russia. Anche Sassoli ha ricordato Sakharov nel centenario della sua nascita. “Sarebbe triste e allo stesso tempo orgoglioso di sapere che a trent’anni dal crollo del comunismo, il premio che porta il suo nome è conferito a un suo compatriota. Se la tristezza può essere motivata dal fatto che oggi il regime politico russo è colpevole di reprimere le organizzazioni della società civile, limitare la libertà dei media e di mettere in prigione gli oppositori politici, senza alcun dubbio Sakharov sarebbe orgoglioso della determinazione con cui Aleksej Navalny sta lottando per i diritti umani e le libertà fondamentali”. Libia. È il caos, il processo democratico si allontana di Giuliano Pisapia* Il Manifesto, 17 dicembre 2021 Crisi libica. Le tensioni con i miliziani armati che hanno circondato gli uffici del Primo Ministro perché contestano la sostituzione del comandante del distretto militare di Tripoli sono la dimostrazione evidente dello scompiglio che domina quel Paese. La speranza, per l’antico adagio, è sempre l’ultima a morire, ma la speranza che le elezioni in Libia fissate per il 24 dicembre potessero essere un vero passo avanti nel processo democratico si sta purtroppo riducendo sempre di più. A otto giorni dalla data del voto i preparativi sono quasi nulli, salvo la stampa delle schede elettorali e poco altro; le tensioni con i miliziani armati che hanno circondato gli uffici del Primo Ministro libico perché contestano la sostituzione del comandante del distretto militare di Tripoli sono la dimostrazione evidente del caos che domina quel Paese. Ora è da gestire il possibile posticipo della data delle elezioni ed è cosa non da poco. Il 24 dicembre era ed è una data simbolo in quanto è quel giorno che avvenne l’indipendenza dello Stato. Sarà ben difficile trovare l’accordo di tutte le fazioni per trovare un’analoga data cosi significativa. Ed è un peccato perché le premesse sembravano invece incoraggianti dopo oltre dieci anni di guerra civile e atrocità. Prima il cessate il fuoco raggiunto nell’ottobre dello scorso anno, poi la formazione di un governo di unità nazionale ponevano le basi per un percorso che avrebbe potuto, e dovuto, portare la Libia in una situazione di ‘normalità politica e istituzionale, condizione fondamentale per avviare il processo di riconciliazione e ricostruzione del Paese. Ancora prima delle ultime tensioni era chiaro come il processo elettorale non fosse per nulla trasparente, ma minato dal riemergere dalle divisioni delle fazioni territoriali che hanno contraddistinto la politica libica negli ultimi anni. Alcuni candidati non sono stati ammessi, altri hanno annunciato boicottaggi e la stessa legge elettorale non è ancora definita chiaramente. A ciò si aggiunge il fatto che la data per il secondo turno delle presidenziali e per le elezioni parlamentari è stata fissata a quasi due mesi dal primo turno, rischiando quindi di creare una situazione di grave tensione nel periodo tra le due votazioni. Per evitare questo ‘ingorgo’ l’Italia aveva chiesto, giustamente, che elezioni presidenziali e parlamentari si svolgessero contemporaneamente, una scelta ragionevole che avrebbe avuto senza dubbio effetti positivi. Il timore che alla fine le elezioni in Libia si riducano ad una contesa tra la vecchia classe politica, per nulla gradita al popolo, che combatte per il potere con intimidazioni e brogli, si è fatto sempre più concreto ed esteso. A questo si aggiunge il fatto che nessuna delle premesse indispensabili per realizzare il processo democratico si è verificata. Non vi è stato il ritiro delle forze straniere e dei gruppi militari privati, Turchia e Russia continuano a interferire nelle vicende interne libiche senza che gli altri attori internazionali; la diplomazia dell’Unione Europea e dell’Onu appare sempre più debole; le Nazioni Unite non sono ancora riuscite a sostituire l’inviato speciale Jan Kubis dopo le sue inaspettate, e ancora incomprensibili, dimissioni. Un fatto alquanto grave e un segnale inquietante. In questi anni, purtroppo, l’Unione Europea non è mai riuscita ad avere una posizione comune e non ha mai veramente inciso nelle vicende libiche, anche perché molti Stati che aderiscono all’Ue non sono per nulla interessati, direttamente o indirettamente, alla questione libica. Per trasformare i fallimenti in opportunità l’Unione europea, e soprattutto i singoli Paesi interessati, debbono impegnarsi, ancora di più e più concretamente, perché le future elezioni, quando si terranno, si svolgano nel modo più regolare e trasparente possibile. Il futuro della Libia è sempre più appeso a un filo, la questione si è ulteriormente complicata, ma non tutto è perduto. C’è ancora spazio per una svolta credibile che sarà possibile se i Paesi europei del Mediterraneo si unissero con un’unica voce con proposte concrete di aiuto per elezioni realmente democratiche, per missioni di controllo e di mediazione, per contributi economici, e non solo, in Libia. Il nostro Paese dovrebbe essere il promotore di questa iniziativa favorita anche dal clima positivo che si è generato con il ‘Trattato del Quirinale’ con la Francia che da gennaio guiderà il Consiglio della Ue e dall’insediamento del nuovo governo tedesco a guida socialista. I presupposti ci sono, per questo sarebbe un vero e proprio disastro e una perdita di credibilità se si perdesse questa occasione. Pace e democrazia in Libia si potranno ottenere solo attraverso questo percorso che comunque non potrà prescindere anche da una operazione di verità e giustizia sul passato, altrimenti le tante ferite del passato peseranno per sempre sul futuro di quel Paese. *Europarlamentare-Relatore Permanente per la Libia del Parlamento europeo Afghanistan. La strada verso Kabul: nei mesi scorsi, una scia di crimini di guerra di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 dicembre 2021 Secondo un rapporto diffuso oggi da Amnesty International, prima della presa del potere dei talebani in Afghanistan le forze di sicurezza afgane, l’esercito statunitense e gli stessi talebani si sono resi responsabili di attacchi che hanno causato enormi sofferenze alla popolazione civile. Il rapporto, intitolato “Senza scampo: crimini di guerra e sofferenze dei civili prima della caduta dell’Afghanistan nelle mani dei talebani”, denuncia torture, esecuzioni extragiudiziali e uccisioni ad opera dei talebani durante l’ultima fase del conflitto così come vittime civili durante una serie di attacchi aerei e terrestri da parte dell’esercito statunitense e delle forze di sicurezza afgane. Altro che transizione pacifica del potere, come hanno sostenuto i talebani: i mesi che hanno preceduto il collasso del governo di Kabul sono stati segnati da ripetuti crimini di guerra e da bagni di sangue senza sosta. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan ha riferito che nei primi sei mesi del 2021 sono stati uccisi 1659 civili e altri 3524 sono rimasti feriti, il 47 per cento in più rispetto al 2020. Le atrocità commesse dai talebani - Mentre tra luglio e agosto prendevano il controllo delle varie province dell’Afghanistan, i talebani compiuto rappresaglie, torturato e ucciso appartenenti a minoranze etniche e religiose, ex soldati afgani e altre persone sospettate di simpatie per il governo civile. Il 6 settembre i talebani hanno attaccato la città di Bazarak, nella provincia del Panjshir. Dopo una breve battaglia, hanno catturato 20 uomini trattenendoli per due giorni, a volte all’interno di gabbie per uccelli. Li hanno torturati, hanno negato loro cibo, acqua e assistenza medica e hanno ripetutamente minacciato di ucciderli. “Uno di loro, con un coltello in mano, diceva che voleva decapitare i feriti perché erano infedeli ed ebrei”, ha dichiarato uno di loro. “Ci tenevano sottoterra. Quando chiedevamo cure mediche per i feriti, dicevano ‘Lasciamoli morire’. Non c’erano né acqua né cibo. Quando chiedevamo acqua, rispondevano che dovevamo morire di sete”, ha aggiunto un altro. Lo stesso giorno i talebani hanno attaccato il vicino villaggio di Urmaz, cercando casa per casa persone sospettate di aver lavorato per il deposto governo. Nel giro di 24 ore hanno passato per le armi sei civili. Sebbene alcune delle vittime avessero prestato servizio nelle forze di sicurezza, nessuna di loro era coinvolta in attività militari al momento dell’attacco. Altre persone sospettate di aver collaborato col deposto governo hanno subito rappresaglie o sono state uccise a Spin Boldak. In precedenza, Amnesty International aveva documentato massacri di civili di etnia hazara nelle province di Ghazni e Daykundi. Non è strato possibile determinare l’ampiezza e la gravità di questi crimini su scala nazionale, poiché i talebani hanno tagliato le linee telefoniche e limitato fortemente l’accesso a Internet in molte zone rurali. Vittime civili di attacchi aerei statunitensi e afgani - Il rapporto di Amnesty International documenta quattro attacchi aerei - tre dei quali probabilmente compiuti dalle forze Usa, l’altro da quelle afgane - che hanno causato 28 morti (15 uomini, cinque donne e otto bambini) e sei feriti tra la popolazione civile. Questo bilancio tragico è stato dovuto al fatto che le forze Usa hanno usato munizioni esplosive contro aree densamente popolate. Il 9 novembre 2020 un attacco aereo lanciato con ogni probabilità dalle forze Usa ha ucciso cinque civili (tra cui un neonato di tre mesi) e ferito altri sei componenti di una famiglia a Khanabad, nella provincia di Kunduz. “Stavo dormendo quando è arrivata la prima bomba. Ci hanno detto di nasconderci da qualche parte se ci fosse stata una seconda esplosione. Mio padre mi ha chiesto di cercare il mio fratellino. La seconda bomba ha ucciso mia madre, mia sorella, mia zia e mio zio”, ha raccontato un superstite di appena nove anni di età. Il 29 agosto 2020 a Kabul un drone Usa ha ucciso dieci persone, tra cui sette bambini. In seguito, le forze statunitensi hanno ammesso che si trattava di civili. Civili uccisi durante gli scontri - Il rapporto di Amnesty International documenta otto casi in cui 12 civili (cinque uomini, una donna e sei bambini) sono morti e altri 15 feriti durante scontri a fuoco. Attraverso una combinazione di negligenza e disprezzo per il diritto, le forze di sicurezza afgane addestrate dagli Usa erano solite lanciare attacchi coi mortai contro le abitazioni e i civili che cercavano di trovare riparo. Nella città di Kunduz, nel giugno 2021, la battaglia è stata particolarmente violenta. Le forze governative hanno colpito coi mortai il quartiere di Zakhail mentre i talebani avanzavano requisendo scuole e moschee per lanciare attacchi e chiedevano cibo alle famiglie intrappolate nelle loro abitazioni. Un testimone ha riferito che spesso i talebani avvisavano dell’imminenza degli attacchi, al contrario delle forze governative: “I talebani ci dicevano che la notte avrebbero combattuto e chi poteva si allontanava. Ma i più poveri non potevano perché altrimenti non avrebbero più trovato da mangiare”. Riparazioni e ricerca delle responsabilità - Molti familiari di vittime di operazioni militari hanno riferito ad Amnesty International di non aver ricevuto riparazioni sufficienti, o di non averne ricevute affatto, dal governo. Amnesty International chiede ai talebani e alle forze Usa di adempiere ai loro obblighi internazionali istituendo meccanismi efficaci cui i civili possano rivolgersi per chiedere riparazioni per i danni subiti durante il conflitto. Mali. La disfatta di Timbuctù di Domenico Quirico La Stampa, 17 dicembre 2021 I soldati francesi abbandonano la mitica città del Mali otto anni dopo l’arrivo trionfale e la cacciata degli jihadisti. Per Macron una sconfitta come l’Afghanistan per Biden. Quando i francesi riconquistarono Timbuctù togliendola al Califfato del deserto, il 28 gennaio del 2013, per arrivare in città bisognava attraversare il Niger con una piroga. I jihadisti avevano distrutto il traghetto prima di ritirarsi da questo fiume bizzarro, frontiera interna dalle onde veloci e distratte. Un ragazzo affondava lunghe bracciate con l’unico remo, a strappi, come una gondola. La appassita meraviglia delle sabbie, la città santa polverizzata dai secoli era buia senza luce. Ovunque rovine, e un popolo affamato e dolente, che poteva raccontare le infinite ferite di antichissime miserie, corruzioni e furfanterie. Sulle pareti di un distributore una scritta lasciata dai fuggiaschi: “La jihad è la strada di dio” ma le parole erano zeppe di errori. Una immensa bomba francese aveva polverizzato il palazzo di Gheddafi dove risiedevano i capi di Aqmi. Il saccheggio del poco che si era salvato impediva di leggerne il fasto. Il piccone dei fanatici invece aveva raso al suolo il mausoleo di Sidi Mahmoud, uno dei trecento santi della città dove da secoli, ogni venerdì, si portavano doni per guarire dal malocchio. I soldati francesi avanzavano cauti in quel disastro agghindato di sole, in un silenzio minerale, trascinandosi dietro anche le loro tarlate memorie imperiali. Vicino al cimitero dove le dune si gonfiavano e si urtavano si scoprirono i corpi appena coperti dalla sabbia delle vittime delle vendette, la minutaglia delle catastrofi. Gli assassini qui non hanno pudore si sentono invulnerabili, non fanno la fatica di nascondere. Strana guerra fu quella della operazione “Serval”, dove i protagonisti si chiamavano il Guercio, il Macellaio, il Contrabbandiere. Con i jihadisti c’era anche Abu Jial, il Francese. Un vecchio cooperante passato alla guerra santa che a Timbuctù, dove viveva con la moglie marocchina incinta, faceva funzionare la centrale elettrica. La città che attendeva i liberatori dell’Armée era svuotata. I tuareg erano fuggiti nel deserto temendo le vendette feroci dell’esercito maliano formato da neri del Sud che arrancava al seguito delle truppe di Hollande. Fu il grande unico fragile successo del Timidone, presidente tentenna di un Empire abbarbicato al suo passato come edera alla muraglia. Dopo otto anni i soldati francesi se ne sono andati: un malinconico ammaina bandiera, le chiavi del forte consegnate ai maliani e a un pugno di soldati della sgangherata missione Onu. Kidal e Tessalit sono state abbandonate già da alcuni mesi. Ci si arrocca per ora a Gao in attesa che “la trasformazione profonda” dell’impegno militare annunciata da Macron si delinei. Trucci linguistici dei massaggiatori di cervelli: il punto pericoloso in cui la bugia diventa verità, e gli artefici di quella strategia ne sono intrappolati. Questa, per dirla chiara, è un’altra sconfitta, una Kabul nel Sahel: perché la guerra ai gruppi jihadisti condotta dalla Francia e dai suoi lacchè africani è fallita e l’eterno sistema coloniale francese vacilla. I taleban del deserto esultano. Da mesi si moltiplicano dalla società civile dei Paesi dell’area, dai partiti politici, le richieste di abbandonare la inutile e sanguinosa strategia militare contro il terrorismo, indigesta ormai anche ai più rozzi palati, e avviare una trattativa, esplicita, ufficiale, con i movimenti jihadisti per un accordo che dia respiro alle popolazioni prese nelle grinfie della miseria e della violenza. Genti che hanno vissuto sulla propria carne le severe lezioni della Storia. È il modello afgano che si è allargato fino alla sua prima scansione: il ritiro della presenza militare straniera sentita come coloniale e inutile. A seguire verranno la accettazione del ruolo dei gruppi radicali islamici nella società. Si accetta la realtà: la vittoria contro i jihadisti è impossibile anche per eserciti armati in modo sofisticato e con il controllo assoluto dell’aria. Ma a sostituire la Francia si affacciano nuovi soggetti: il governo del Mali uscito da uno degli innumerevoli golpe sta trattando con i mercenari russi della Wagner, braccio armato di Putin che fa contratti ovunque in Africa, per “assicurare la sicurezza”. Gli Stati Uniti sono già in allarme. Riprende nel Sahelistan l’antico grande gioco. Quale le cause della sconfitta? La Franceafrique come l’Afghanistan americano è un desolante panorama di giunte golpiste, presidenti le cui elezioni sono contestate come frutto di brogli mostruosi, dove la elementare alternanza democratica si è trasformata in autoritarismi corrotti. Gli eserciti alleati come quello maliano sono una feccia vandalica responsabile di massacri tra le popolazioni che dovrebbero difendere. I gruppi di autodifesa a base tribale, sorti per disperazione, saldano i conti non con gli jihadisti, troppo pericolosi da ammansire, ma con le altre etnie per secolari odi tribali o religiosi. Questi son luoghi dove la violenza non prevede purtroppo tempi morti da un decennio, e implica la propria escalation. Il bilancio di dieci anni di guerra francese al terrorismo come quello americano è disastroso. Da un lato la mobilitazione massiccia di forze militari, con costi enormi: due miliardi di euro per un anno di guerra, che ha fruttato il controllo di poco più delle capitali. Dall’altro duemila cinquecento morti in Mali Burkina Faso e Niger nel solo 2020, due milioni di profughi, i gruppi jihadisti che controllano vaste aree, moltiplicano con accorta strategia le lotte tra le comunità, avanzano in direzione del golfo di Guinea, massacri che si moltiplicano e restano impuniti, in cui i civili sono uccisi più dai militari che dai jihadisti; e tragici effetti collaterali come la morte di 19 civili innocenti a Bounti in Mali per un errore dell’aviazione francese, che aumentano rabbia e umori anti occidentali.