Emergenza Covid: misure prorogate anche per il carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 dicembre 2021 In considerazione del rischio sanitario connesso al protrarsi della diffusione degli agenti virali da Covid, lo stato di emergenza dichiarato con deliberazione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, è ulteriormente prorogato fino al 31 marzo 2022. Tra le misure prorogate, anche le disposizioni della disciplina emergenziale in ambito penitenziario. Sono tre le misure prorogate sul carcere. La prima è quella relativa al possibile termine massimo delle licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà concesse ai sensi dell’art. 28 comma 1 d. l. 137/ 2020 : “ferme le ulteriori disposizioni di cui all’articolo 52 della legge 26 luglio 1975, n. 354, al condannato ammesso al regime di semilibertà possono essere concesse licenze con durata superiore a quella prevista dal primo comma del predetto articolo 52, salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”. La seconda riguarda la possibilità di concedere permessi premio di cui all’art. 30-ter dell’ordinamento penitenziario in deroga ai limiti temporali ordinari, ai sensi dell’art. 29 comma 1 d. l. 137/ 2020 : “ai condannati cui siano stati già concessi i permessi di cui all’articolo 30-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 o che siano stati assegnati al lavoro all’esterno ai sensi dell’articolo 21 della legge 26 luglio 1975, n. 354 o ammessi all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno ai sensi dell’articolo 18 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, i permessi di cui all’articolo 30-ter della citata legge n. 354 del 1975, quando ne ricorrono i presupposti, possono essere concessi anche in deroga ai limiti temporali indicati dai commi 1 e 2 dello stesso articolo 30- ter”. La terza è la possibilità di consentire l’esecuzione domiciliare delle pene detentive non superiori a 18 mesi, ai sensi dell’art. 30 comma 1 d. l. 137/ 2020: “in deroga a quanto disposto ai commi 1, 2 e 4 dell’articolo 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199, la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena”, salve le eccezioni ivi contemplate”. Tali misure servirebbero per prevenire l’insorgenza di nuovi focolai epidemici all’interno degli istituti penitenziari attraverso l’adozione di misure in grado di alleviare la condizione di sovraffollamento carcerario nella quale sono ricadute le carceri dopo la tregua segnata dai provvedimenti seguiti alla nota vicenda “Torreggiani” nel 2013. Ma, abbiamo visto, che il sovraffollamento è in continuo aumento e sembrerebbe che l’efficacia sia svanita da tempo. Con la pandemia, diventa urgente la necessità di ridurre la popolazione penitenziaria. Le carceri proprio per il fatto che sono luoghi chiusi e con affollamenti sono predisposti per focolai improvvisi. Non solo. Come sottolineato nel rapporto di Antigone” Il carcere al tempo del coronavirus”, vanno tenute presenti due questioni di fronte a questa emergenza sanitaria: un’ampia fascia della popolazione carceraria spesso soffre di patologie pregresse (HIV, epatiti, ecc.) quindi è ad alto rischio rispetto al contagio; le condizioni nelle carceri, oltre all’insalubrità delle strutture, sono per la maggior parte in condizione di sovraffollamento quindi impossibilitate a garantire il distanziamento fisico. Ma la pandemia è un fattore scatenante che ha messo in risalto le criticità preesistenti. Il sovraffollamento va ridotto a prescindere delle emergenze. Garantire spazi sufficienti è una questione di diritti fondamentali della persona, di rispetto della sua privacy. E diventa, appunto, anche una questione rilevante da un punto di vista sanitario. Questo aspetto ha infatti giocato un ruolo particolarmente significativo durante la prima devastante ondata della pandemia. Gli spazi ridotti, insieme alle scarse condizioni igieniche all’interno delle strutture, hanno reso difficile il rispetto dei protocolli sanitari, in primis il distanziamento sociale. Così è aumentata esponenzialmente la probabilità di contagio, e il contesto carcerario è risultato non solo non protetto, ma anzi particolarmente esposto al virus. Ergastolo ostativo: non sia annacquato il testo attuale di Lucrezia Ricchiuti* Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2021 Il 10 dicembre, su La7, don Luigi Ciotti ha fatto affermazioni tanto nette quanto necessarie. Ha detto che le forze politiche sulle mafie si sono accomodate per la normalizzazione. E ha detto che la normalizzazione è un alibi che uccide le persone e la democrazia e che umilia i magistrati e gli esponenti delle forze dell’ordine, che contro le mafie hanno combattuto e sono morte. Ma la normalizzazione mortifica anche chi lotta ancora, chi si impegna allo spasimo per contendere al potere mafioso quei pochi spazi di libertà rimasti, nel meridione d’Italia, ma soprattutto al Nord, dove le mafie si sono ben insediate da molti anni nelle fessure dell’economia legale, come don Ciotti ha giustamente sottolineato. È allora importantissimo attirare l’attenzione sul lavoro silenzioso, ma faticoso, che la Commissione giustizia della Camera sta portando avanti sull’ergastolo ostativo (proposte 1951 e abbinate). Come i lettori ricorderanno, una sciagurata ordinanza della Corte costituzionale (la n. 87 del 2021) ha messo in mora il Parlamento su un meccanismo voluto da Giovanni Falcone per rendere più efficace il contrasto delle mafie. Gli ergastolani per i reati di mafia potevano accedere ad alcuni benefici penitenziari solo se collaboravano con la giustizia. Con una motivazione per molti aspetti paradossale, la Corte costituzionale ha ritenuto questo meccanismo - ispirato all’incontrovertibile dato d’esperienza che l’adesione alle cosche mafiose è una scelta di vita irreversibile - illegittimo. Secondo la Corte, una chance diversa dal pentimento deve essere offerta anche ai mafiosi, nonostante abbiano commesso i più efferati delitti e nonostante che tutti (diconsi tutti) i processi di mafia attestino che il mafioso lo è per la vita e che la sua rieducazione è sostanzialmente impossibile, con l’unica eccezione della fattiva collaborazione con la giustizia. Lo stesso 10 dicembre, presso la Commissione giustizia, è scaduto il termine per presentare emendamenti al testo base della proposta di legge che disciplinerebbe nuovamente l’ergastolo ostativo, dando però ampi poteri al giudice di sorveglianza (cosa che Falcone non voleva, perché preferiva il governo della legge a quello degli uomini). Ma tant’è. Allo stato attuale del testo, è affermato - in sintesi - che i benefici penitenziari possono essere concessi dal giudice all’ergastolano mafioso anche in mancanza di pentimento solo se vi sia il parere positivo del Procuratore nazionale antimafia e se risultino dati certi che conducano a escludere ogni residuo collegamento del condannato con la cosca di appartenenza e l’impossibilità che una nuova banda possa ricostituirsi. È anche previsto che - a ogni modo - prima della concessione dei benefici, il colpevole abbia risarcito i danni e scontato una parte significativa della pena. Voglio esprimere ai parlamentari che portano avanti questo lavoro il mio sostegno più convinto: dobbiamo vigilare affinché il testo di legge vada in porto e non sia annacquato. *Senatrice e membro della Commissione parlamentare antimafia Presunzione d’innocenza, Bartoli: “Norma spropositata, cancella le notizie” di Errico Novi Il Dubbio, 16 dicembre 2021 Il presidente dell’Ordine dei giornalisti: “La presunzione d’innocenza va salvaguardata, ma la norma è rischiosa per la democrazia e per i cittadini”. Il neo presidente dell’ordine dei giornalisti, Carlo Bartoli, eletto al posto di Carlo Verna, storico cronista Rai, non approva la normativa sulla presunzione d’innocenza. In un’intervista al “Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio, il rappresentante nazionale dei giornalisti italiani fa una distinzione tra la necessità di salvaguardare il principio d’innocenza delle persone che finiscono sotto indagine o che sono imputate e il dovere e il diritto della stampa di pubblicare notizie di interesse pubblico riguardanti inchieste giudiziarie, senza omettere nulla. “L’esigenza alla quale prova a rispondere questa nuova legge - afferma Bartoli - è assolutamente giusta e la condividiamo tutti. Va certamente salvaguardata la presunzione d’innocenza” “Il punto è: come la si salvaguarda? È questo il vero strumento, o per salvare la presunzione di innocenza si è disposti a ridurre la possibilità di dare conto di quella che è l’attività della giustizia? Perché, al di là di ogni altra considerazione, una delle preoccupazioni di uno Stato è sicuramente quella di dimostrare ai cittadini che esercita l’azione della giustizia in maniera imparziale, senza guardare in faccia a nessuno. Il solo fatto di non poterlo raccontare, secondo me, rappresenta un grave problema” dichiara Carlo Bartoli. Secondo Bartoli, la norma sulla presunzione d’innocenza “è spropositata”, perché “le notizie rischiano di scomparire dietro questo paravento. Ma io voglio dire una cosa e la voglio dire molto chiaramente: i giornali sicuramente talvolta hanno commesso degli errori, anche gravi. Poi ciascuno paga. Ma non ci si è accorti che sono altri gli ambiti che vedono la presunzione di innocenza massacrata, a cominciare da trasmissioni televisive che non hanno alcun carattere giornalistico. Forse dovrebbero cominciare da lì, non dal limitare la fruizione di informazioni su inchieste, indagini e processi”. “Questa norma va ben oltre, è molto rischiosa per la democrazia e per il senso che i cittadini devono avere della giustizia. Ormai la norma è in vigore. Cosa si può fare per limitare i danni adesso? L’ideale sarebbe la possibilità di ridiscutere, di rivalutare questa norma, ma nel frattempo bisogna chiedere ai magistrati di applicarla con molto buon senso. Vediamo che conseguenze pratiche avrà e poi prenderemo una decisione. Forse l’Ordine dei giornalisti avrebbe dovuto fare qualcosa prima. A settembre scorso, convocati in Commissione Giustizia dove si stava discutendo lo schema di decreto legislativo, l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della Stampa non si sono presentati. In questo c’è del vero. Io sono stato eletto presidente da pochi giorni, ma mi prendo la responsabilità anche per quello che non è stato fatto in precedenza. Se è stato fatto poco me ne assumo la responsabilità”. Il problema non sono le toghe in politica ma le inchieste politiche di Davide Varì Il Dubbio, 16 dicembre 2021 I magistrati - lo si ripete da anni, decenni - non solo devono essere indipendenti ma devono anche apparire indipendenti. E lo ha ricordato giorni fa, nelle ore in cui esplodeva il caso Maresca - il magistrato- politico che indosserà la toga nella Corte d’Appello di Campobasso e la “fascia tricolore’ di consigliere nel comune di Napoli - lo ha detto, dicevamo, la ministra Cartabia. Ma al di là delle buone intenzioni, la questione appare sostanzialmente irrisolvibile perché non appena qualcuno prova ad alzare la mano per chiedere un passo indietro, una limitazione dei magistrati in politica, ecco che viene immediatamente sfoderato l’articolo 51 della Costituzione, il quale garantisce l’elettorato passivo a tutti i cittadini italiani, magistrati compresi, naturalmente. A questa obiezione potremmo rispondere citando l’articolo 98 della Carta il quale, e lo diciamo con le parole di Giovanni Maria Flick, “stabilisce che per legge si possono indicare limitazioni per i magistrati al diritto di iscriversi ai partiti politici”. E tra i due articoli, tanto per complicare la questione, troviamo una sentenza della Consulta la quale ha ribadito che “non è contraddittorio né lesivo dei diritti politici consentire ai magistrati di partecipare, sebbene a determinate condizioni, alla vita politica, anche candidandosi alle elezioni o ottenendo incarichi di natura politica e al tempo stesso prevedere come illecito disciplinare la loro iscrizione a partiti politici nonché la partecipazione sistematica e continuativa all’attività di partito”. Insomma, un ginepraio costituzionale e legislativo dal quale è difficile uscire. Certo, dovrebbe essere la politica, il legislatore a intervenire, a fissare paletti più stringenti, più rigidi sull’attività politica dei magistrati. Ma lo sappiamo bene: da trent’anni a questa parte, dall’esplosione di Mani pulite a oggi, la politica vive nel terrore della magistratura e, dunque, difficilmente sarà in grado di regolare una materia tanto incandescente. In questi anni le procure - alcune procure sono entrate surrettiziamente nel nostro Parlamento con la forza minacciosa di inchieste che hanno ribaltato maggioranze e determinato la caduta di più di un governo. Hanno fatto le fortune di alcuni partiti, di alcuni movimenti e, nello stesso tempo, indebolito leader politici. Non ultimo l’ex premier Matteo Renzi che è alle prese con un’inchiesta resa ancora più complicata dalla pubblicazione di atti che poco o nulla avranno a che fare con l’inchiesta. Eppure, a ben vedere, questo potere sembra essere scappato di mano e così sì è avuto un effetto paradosso, una strana eterogenesi dei fini che ha colpito la stessa magistratura, la quale sta vivendo una crisi di credibilità senza precedenti. L’aver ceduto alla seduzione di un potere in grado di fare e disfare governi e maggioranze e di determinare sfortune e disgrazie di partiti e leader, ha corroso, logorato la sua reputazione e il suo prestigio. Una hybris che ha raggiunto il suo apice e insieme il suo punto più basso col caso Palamara, ovvero con quel sistema che ha trasformato la nostra magistratura in un luogo di gestione del potere per il potere. Insomma, a ben vedere l’ingresso delle toghe in politica non è il peggiore dei mali; ben più insidioso è l’ingresso surrettizio della magistratura che più di una volta ha condizionato la nostra democrazia con la forza di inchieste “mirate”. È questo potere che va spezzato e può farlo solo la parte sana della magistratura, quella gran massa di servitori dello stato che lavora in silenzio e subisce la forza selvaggia e incontrollata di alcune procure. Coltivare il dubbio libera dalla gogna di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 dicembre 2021 Anche De Raho elogia le norme sulla presunzione d’innocenza. Bene A sorpresa, nei giorni scorsi procuratore nazionale Antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho, ha preso posizione in favore delle nuove norme sulla presunzione di innocenza. Intervenendo a un convegno organizzato dalla corrente Unicost, De Raho si è detto d’accordo con i princìpi enunciati dalla direttiva europea, finalmente recepita dal nostro paese con un decreto legislativo entrato in vigore il 14 dicembre: “Nelle conferenze stampa e nei comunicati bisogna escludere qualunque indicazione che possa far apparire i soggetti coinvolti come colpevoli”, ha detto De Raho. “Il decreto legislativo - ha aggiunto - ha voluto richiamare l’attenzione di tutti sulle conseguenze di un’informazione che sia particolarmente cattiva nei confronti di coloro che vengono raggiunti da una misura cautelare o da altro provvedimento. Abbiamo assistito addirittura a suicidi di persone raggiunte da informazioni di questo tipo, che si ritenevano del tutto innocenti”. Nel suo intervento, il procuratore nazionale Antimafia ha anche affermato che “si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici, ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative, mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazione”. De Raho non si è fermato qui, ma ha anche sostenuto che “coltivare il dubbio deve fare parte della cultura del magistrato. Mai pensare che la persona nei cui confronti è stata emessa anche un’ordinanza di custodia sia di per sé un colpevole”. La presa di posizione di De Raho (che ha vissuto in parte sulla propria pelle gli effetti della gogna durante lo scandalo Palamara) è significativa, soprattutto se si considerano gli allarmi lanciati negli ultimi tempi da altri magistrati per il presunto “bavaglio” all’informazione: i pm che si preoccupano davvero della libertà di stampa dovrebbero ricordarsi che la priorità è difendersi dalla libertà di sputtanamento. Licia Pinelli e piazza Fontana, quella verità che non rende davvero giustizia di Roberta De Monticelli Il Domani, 16 dicembre 2021 Licia Rognoni, vedova dell’anarchico Giuseppe Pinelli trovato agonizzante nel cortile della questura di Milano la notte del 16 dicembre 1969, all’inizio degli anni Ottanta disse che “la questione della giustizia è una cosa più ampia” rispetto alle sentenze di tribunale. “Avere giustizia è che tutti sappiano la verità”. Il rapporto fra giustizia e verità illumina non soltanto la natura della giustizia, ma anche quella della catarsi. Il saggio di Enrico Deaglio sulla strage di piazza Fontana porta porta a conoscenza un dramma: nel fare giustizia non c’è stata nessuna catarsi. Quello che manca è la coincidenza di fiat justitia e fiat veritas. Dove tutti sappiamo chi, in verità, siamo stati, e chi siamo. Alla catarsi non basta che tutto sia noto. Occorre che tutti vedano. Il giornalista Enrico Deaglio, con la forza della memoria e della scrittura, ci ha offerto un saggio indimenticabile su Piazza Fontana e quella verità nascosta da troppo tempo, forse condensando all’estremo le verità del libro che ha pubblicato l’anno scorso, “La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana”, edito da Feltrinelli. “Se fossi il nuovo presidente della Repubblica, nominerei senatrice a vita Licia Pinelli, perché senza di lei non si sarebbe mai raggiunta la verità”, conclude. Mai auspicio fu più condivisibile. In attesa che si realizzi, vorrei - in occasione dell’anniversario della “morte accidentale di un anarchico”, Giuseppe Pinelli, trovato agonizzante nel cortile della questura di Milano la notte del 16 dicembre 1969 - dedicare una riflessione a questa donna che con una sola frase, emersa dalla profondità di quel dolore che, come dicevano i tragici greci “insegna”, ha fatto in me più luce di mille professori sulla natura della giustizia. O almeno della giustizia penale, ma anche, in senso più lato, morale. La frase è tratta da una lunga intervista che Licia Rognoni Pinelli rilasciò all’inizio degli anni Ottanta: “Io parlo di giustizia, e si intende sempre la giustizia del tribunale. Benissimo, la vuoi ottenere anche dai tribunali. Ma non basta, la questione della giustizia per me e una cosa più ampia. Avere giustizia è che tutti sappiano la verità” (L. Pinelli, P. Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli). Non ho più dimenticato questa frase, che illumina di evidenza un problema su cui i filosofi si sono tormentati nei secoli: qual è il rapporto fra verità e giustizia? È vero che al fondo del nostro bisogno di giustizia troviamo, come sostenne Simone Weil, “il più nobile” dei bisogni dell’anima umana, il bisogno di verità? O ha ragione quel giudice di cui racconta il grande filosofo americano del diritto, Ronald Dworkin, che all’esortazione ingenua di un ragazzo “Fà giustizia, giudice!” rispose seccamente, sporgendosi dal finestrino della sua carrozza, “Non è il mio mestiere”? La luminosa frase di Licia Pinelli colpisce per il paradosso che contiene: ottenere giustizia è uno dei bisogni più profondi e personali dell’essere umano, soprattutto quando è una vittima che lo esprime: eppure questo bisogno profondo e personale è soddisfatto solo quando “tutti sanno” chi è innocente, e chi è colpevole. Ottenere giustizia è, al suo livello più profondo, non ottenere qualcosa per sé, ma luce per tutti. Il più personale dei bisogni si tramuta in una richiesta impersonale, anzi: tanto più profondo è il sollievo personale che la sua soddisfazione comporta, quanto meno mista di vantaggio personale è la contemplazione della verità accertata di fronte a tutti. Certo, di Piazza Fontana ormai si sa tutto: chi, come perché, ci ricorda Deaglio. “Il sindaco di Milano ha finalmente dichiarato Pinelli un innocente perseguitato e il presidente Sergio Mattarella, nel cinquantenario, ha detto parole forti, non solo consolatorie”. E tuttavia: come sia morto Pinelli, troppo a lungo è rimasto un fatto sepolto in un bruttissimo errore di logica, da nessuno rilevato, né allora né poi, anche se non era meno vertiginoso degli ossimori, “suicidio passivo” o “malore attivo”, escogitati da quello stesso magistrato Gerardo D’Ambrosio che nel ‘75 concluse l’istruttoria sul caso Pinelli, scagionando chiunque fosse stato presente quella notte in questura. Scrisse che “la mancanza assoluta di prove che un fatto è avvenuto equivale alla prova che un fatto non è avvenuto”. Un errore di logica madornale, perché non avere prove equivale semplicemente a non sapere quale sia la verità a riguardo e non che sia falsa l’ipotesi, o addirittura vera quella opposta. E non è detto che il giudice D’Ambrosio, persona certo integerrima che si illustrò poi nell’epoca di Mani Pulite, non fosse in buona fede: purtroppo alle fedi, della logica, è sempre interessato poco. Ecco: ma ora che - dice Deaglio - sappiamo tutto: c’è stata una catarsi? Il processo catartico - Perché era questa l’altra luce nella frase di Licia Pinelli. Il rapporto fra giustizia e verità illumina non soltanto la natura della giustizia, ma anche quella della catarsi. E il dramma che il saggio di Deaglio porta a coscienza è proprio questo. No, non c’è stata nessuna catarsi. “Il passato non è morto e sepolto. In realtà non è neppure passato”, Deaglio ripete con lo scrittore William Cuthbert Faulkner. C’è un aspetto dell’universalità implicita nel bisogno di giustizia che risalta nella differenza fra un sentimento morale come l’indignazione e una reazione psicologica come il risentimento o il rancore, per un male che offende solo me o i miei cari. Oggetto dell’indignazione è qualunque forma di torto, chiunque ne sia vittima. E un torto come questo, di una giustizia negata per quarant’anni, è fatto a tutti i cittadini. Ma a una catarsi non basta che tutto sia noto. Occorre che tutti vedano. Quella che manca è l’universalità spettacolare che così bene intuiamo di fronte alle rappresentazioni del giudizio universale. Dove il momento culminante della giustizia non è l’esecuzione, ma la pronunzia del giudizio o forse dove la pronunzia è già l’esecuzione. È ciò che idealmente conta. Dove fiat justitia e fiat veritas coincidono. Dove tutti sappiamo chi, in verità, siamo stati, e chi siamo. Se preghiamo Dio di esistere, è perché questo avvenga. Ma non avviene. Non avviene quasi mai. Lazio. Pasti ai detenuti: indagine sui danni di immagine alla pubblica amministrazione di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 16 dicembre 2021 La prima mossa della procura regionale sarà acquisire documenti presso il Dap. L’ipotesi della frode in pubbliche forniture formulata dai pm di piazzale Clodio. Quei 2 euro e 39 centesimi al giorno per colazione, pranzo e cena quotidiani dei detenuti potrebbero costare alla pubblica amministrazione un danno di immagine inversamente proporzionale alla povertà dell’ammontare. La Procura regionale della Corte dei Conti, guidata da Pio Silvestri, ha deciso di avviare un’inchiesta sull’argomento. Una mossa ragionata dopo la bocciatura espressa dalla sezione di controllo lo scorso settembre, quando i colleghi avevano parlato di “irragionevolezza” del regime carcerario nel quale il vitto giornaliero appare in contrasto con i principi umanitari riconosciuti dalla Costituzione, come il diritto alla salute dell’individuo. Quanto alla Procura penale che ha avviato indagini per frode in pubbliche forniture sul tema, il Dap (dipendente dal ministero di Giustizia) potrebbe aver favorito i privati aggiudicatari delle gare d’appalto sul vitto concedendo loro l’arbitrio di gestire gli spacci interni ai penitenziari a pagamento (cosiddetto sopravvitto) a prezzi quasi mai di convenienza. Sta di fatto che il ministro Marta Cartabia ha deciso di azzerare le gare d’appalto per vitto e sopravvitto e di bandirne di nuove. Ora sta alla magistratura contabile - per una volta chiamata non a valutare profili di possibile spreco ma eventuali danni di immagine per la pubblica amministrazione - effettuare verifiche. Per cominciare chiederà documenti allo stesso Dap. Per il Garante capitolino dei diritti dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, “le proteste per il cibo nelle carceri si moltiplicano”. Molise. Garante Diritti: ciclo di visite nelle carceri, sotto la lente le condizioni dei detenuti molisetabloid.it, 16 dicembre 2021 Un ciclo di visite istituzionali presso le case circondariali molisane per consentire una verifica in prima persona delle condizioni attuali del sistema penitenziario locale. Lo ha promosso la Garante regionale dei Diritti della Persona, Leontina Lanciano, nel suo ruolo di organismo di tutela dei Diritti delle Persone private della libertà personale. Questa mattina si è tenuto il primo di tali incontri, presso la struttura carceraria di Larino, al quale ha preso parte anche l’assessore regionale alle Politiche sociali. La visita ha consentito di fare il punto della situazione con la direttrice della casa circondariale, Rosa La Ginestra, e con la funzionaria dell’Area educativa Brigida Fanelli. “Un’iniziativa, quella del sopralluogo nei penitenziari molisani - sottolinea Leontina Lanciano - che è motivata dalla necessità di avere un quadro preciso e dettagliato sia dei punti di forza che delle criticità che caratterizzano le realtà detentive molisane”. Nel corso di questa settimana sono previste anche le visite presso le strutture detentive di Campobasso ed Isernia. Santa Maria Capua Vetere. Il Ministero della giustizia chiede di costituirsi parte civile di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 dicembre 2021 Al via l’udienza preliminare per 108 agenti e dirigenti indagati per le violenze sui detenuti. Ma il ministero di Giustizia è anche citato da alcune parti offese per risarcimento civile. Il ministero della Giustizia è parte civile o civilmente responsabile, nel processo contro i 108 agenti e dirigenti penitenziari accusati di violenze e torture ai danni dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere? Sarà il Gup Pasquale D’Angelo a decidere, il prossimo 11 gennaio, se accettare o meno, tra le tante richieste di costituzione di parte civile, quella presentata ieri in apertura dell’udienza preliminare dal dicastero di Marta Cartabia, ministra che insieme al premier Draghi si recò personalmente nel carcere sammaritano in segno di condanna, quando la bomba delle videoregistrazioni esplosa sui media impedì la consueta linea negazionista delle istituzioni. Alcuni dei 200 detenuti che avrebbero subito violenze, infatti, hanno annunciato ieri tramite i loro legali che intendono citare per danni il ministero in sede civile. L’11 gennaio 2022 sarà solo un’altra tappa di quella che si prospetta come una lunga udienza preliminare volta a decidere se rinviare a giudizio gli indagati a cui i pm contestano, a vario titolo, i reati di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico per depistaggio, e cooperazione (per 12 indagati) nell’omicidio colposo del detenuto algerino schizofrenico Lakimi Hamine, morto un mese dopo essere stato anch’egli vittima di quell’”orribile mattanza” con cui numerosi agenti vollero punire i rivoltosi del 6 aprile 2020. È la prima volta, da quando venne introdotto nel 2017, che nel nostro Paese viene contestato il reato di tortura, questa volta a quasi cinquanta pubblici ufficiali. I tempi sono lunghi, come è stato lungo perfino il primo atto ieri - quasi cinque ore -, per via dell’enorme mole di avvocati (circa 200), degli imputati presenti (tra gli altri l’ex comandante della Polizia Penitenziaria Gaetano Manganelli, attualmente ai domiciliari) e delle parti offese, tanto da dove impegnare l’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, confinante con il carcere delle violenze. Anche il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e quello regionale della Campania, Samuele Ciambriello, che ha denunciato per primo le violenze permettendo le indagini della magistratura, si sono costituiti parte civile, come pure le associazioni Antigone, Abusi in divisa e Carcere possibile. Oltre naturalmente ai detenuti e le loro famiglie: finora solo 60 delle 178 parti offese individuate ne hanno fatto richiesta. Ma c’è tempo fino a inizio dibattimento. Per il momento sono state prorogate le misure cautelari per i 20 agenti ancora in arresto domiciliare (tra cui gli ufficiali della penitenziaria Pasquale Colucci, Anna Rita Costanzo e Gaetano Manganelli) come richiesto dai pm Alessandro Milita, Daniela Pannone e Alessandra Pinto. Ma il Gup potrebbe decidere di revocarle nei prossimi giorni. Lo scorso 28 giugno il gip Sergio Enea aveva emesso 52 misure cautelari: carcere per 8 agenti, 18 ai domiciliari, tre obblighi di dimora e 23 sospensioni dal lavoro per poliziotti penitenziari e funzionari quali Antonio Fullone, che all’epoca dei fatti era capo del Dap ed è ancora interdetto. Fullone è, insieme con il comandante Manganelli, tra i 12 indagati per la morte di Lakimi Hamine, il cui fascicolo inizialmente era stato stralciato dai Pm ma, dopo le denunce dell’associazione Antigone e l’interrogazione parlamentare di Riccardo Magi (+ Europa) alla ministra Cartabia, il caso del detenuto malato psichico morto il 4 maggio 2020 dopo essere stato tenuto in isolamento dal giorno delle violenze è stato reintegrato. Eppure, ancora oggi nel carcere sammaritano qualcosa ancora non deve andare per il verso giusto. Almeno stando a quanto denunciato ieri da Ciambriello e dalla garante provinciale dei detenuti di Caserta, Emanuela Belcuore, che “dopo aver appreso da un comunicato stampa di un’associazione sindacale di polizia penitenziaria e aver letto su alcuni siti e quotidiani che era in atto una rivolta” nell’istituto, sono stati costretti a smentire. “Nessuna rivolta nel carcere di Santa Maria tra ieri e oggi”, hanno scritto ufficialmente dopo essersi recati personalmente all’interno dell’istituto. Pavia. Celle fredde e pioggia dal tetto, i detenuti fanno lo “sciopero del carrello” La Provincia Pavese, 16 dicembre 2021 Il Garante nazionale: il penitenziario di Pavia è abbandonato a sé stesso. “Impossibile essere visitati per mancanza di medici, manca personale educativo e per la mancanza di spazi agibili la maggior parte delle attività sono sospese”. Tre suicidi in un mese al carcere di Torre del Gallo, a Pavia. Il 3 dicembre, a pochi giorni dal terzo suicidio nel giro di un mese, la denuncia dell’associazione Antigone sull’impossibilità di entrare per una visita vista la contemporanea assenza della direttrice in carica (in congedo), della sostituta che ne fa le veci, del Comandante della Polizia penitenziaria e della sua vice. Ora lo stato di agitazione dei detenuti al carcere di Pavia e l’annunciato sciopero del carrello, che, secondo il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà “sono giustificati dalle gravi criticità” che il Garante stesso ha rilevato in una visita all’Istituto proprio in questi giorni. I detenuti hanno spiegato in un documento che la protesta - ora rientrata - e che consisteva nel rifiutare il carrello del vitto carcerario, arriva dopo mesi di segnalazioni senza risposte: le celle, spiegano, sono fredde, fredde le salette, i corridoi, le sale avvocati e le sale comuni. L’”abbandono strutturale”, spiegano, si tramuta nell’impossibilità di effettuare corsi, attività sportive e ricreative e di effettuare i colloqui con i familiari “in un ambiente accogliente e dignitoso”. Piove infatti dal tetto nel teatro (chiuso), nella palestra (chiusa), nella chiesa (chiusa), persino nella sala dei colloqui: gli incontri, spiegano i detenuti, si svolgono dunque da tempo in un corridoio. Sospesi anche i corsi, le attività ricreative: nel 2021, spiegano i detenuti, sono stati attivati corsi per 40 persone su 350. Inoltre, segnalano nel documento, non c’è stata nessuna comunicazione delle attività nelle bacheche e dunque “risulta incomprensibile il metodo di selezione dei partecipanti”. C’è poi il tema della salute, manca personale sanitario: “secondo la normativa del 2016 - si legge - dovrebbero essere in servizio 3 medici, un direttore sanitario, un vice e il medico di guardia, mentre esiste un solo medico per 700 detenuti. Noi detenuti non veniamo visitati se non per urgenze, nella maggior parte dei casi atti autolesionistici, e non si riesce mai ad andare alla visita medica segnandosi perché non ti chiamano”. Questo significa stare “giorni e giorni in balia del dolore senza medicine”, perché senza una visita gli infermieri non somministrano farmaci. Significano “8-10 mesi di attesa per una visita specialistica, l’oculista non è pervenuto nella struttura”. Impossibile poi ottenere misure alternative o essere messi all’interno di un percorso effettivamente di riabilitazione, che sarebbe secondo l’ordinamento italiano lo scopo della pena in carcere: educatori, psicologi e psichiatri sono oberati di lavoro e riescono a incontrare un detenuto se va bene ogni sei mesi, se va male una volta ogni 8 mesi. Il risultato? “Solo un detenuto su 700 è meritevole di fruire di permessi premio, che, come cita l’ordinamento penitenziario. sono fondamentali per il reinserimento nella società di persone private della libertà per anni”. Sul carcere pesa inoltre la carenza di personale al Servizio tossicodipendenze dell’Asst: nell’istituto il 62% dei detenuti ha problemi di dipendenze ma ci sono un solo psicologo e un solo assistente sociale: “Questo fa sì che molti arrivino a fine pena senza risolvere i problemi di dipendenza che li hanno portati dentro”, spiegano i detenuti. E ancora: le docce sono ammuffite o non funzionanti in alcune sezioni, mancano gli asciugacapelli, molte celle hanno solo acqua fredda (niente acqua calda per lavarsi o lavare le stoviglie), impossibilità di farsi la doccia per ore perché l’agente - spesso da solo - non può aprire il cancello che separa le celle dalle docce. Lo stesso Garante dei detenuti ha affermato che con la visita di questi giorni ha trovato l’istituto “in condizioni analoghe, se non peggiori, rispetto alla visita del 2017”. L’impressione del Garante nazionale, si legge ancora nel documento, “è stata di trovarsi davanti al rischio di un carcere abbandonato a sé stesso con carenze di personale e di gestione: non ci sono a Pavia opportunità trattamentali e strumenti per rendere il tempo detentivo un tempo utile alla risocializzazione. All’estremo degrado di alcuni padiglioni si aggiungono le carenze di personale e risorse nell’area sanitaria”. Il Garante ha avuto anche un incontro con i magistrati della procura per segnalare l’allarme sul “dato inaccettabile di tre suicidi in un mese”. Roma. La morte di Abdel: “Legato anche all’ospedale Grassi per altri due giorni” di Romina Marceca La Repubblica, 16 dicembre 2021 Richiesti nuovi esami autoptici. Il particolare emerso dalla nuova perizia sulle carte sanitarie disposta dalla procura, che sulla morte del migrante tunisino di 26 anni ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Wissem Ben Abdel Latif è stato legato al letto durante il ricovero all’ospedale Grassi, per due giorni: il 23 e il 24 novembre scorsi. È quanto emerge dalla nuova perizia sulle carte sanitarie disposta dalla procura, che sulla morte del migrante tunisino di 26 anni ha aperto un fascicolo per omicidio colposo. Abdel è morto il 28 novembre all’ospedale San Camillo, in un letto del Servizio psichiatrico. Anche lì è rimasto legato mani e piedi per almeno due giorni, dal 25 novembre. E così i giorni in cui è rimasto legato salgono a cinque. Tra il 27 e il 28 c’è un buco nei controlli. Il migrante è arrivato nei due ospedali un mese e mezzo dopo il suo ingresso al Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria. È lì che era stato richiesto un consulto psichiatrico e era stata prescritta una terapia con farmaci per disagio “schizo-affettivo”. Ieri al Policlinico Umberto I sul corpo del tunisino è stato eseguito un nuovo esame esterno, visto che l’autopsia è già stata eseguita i primi di dicembre e senza avvertire i familiari. Sono state disposte radiografie e esami tossicologici. Le prime per comprendere se Abdel, come sostengono sei testimoni, abbia i segni di pestaggi da parte degli agenti dentro al Cpr. I secondi per accertare se è stato vittima di una terapia farmacologica sbagliata. Ma la novità che arriva dalle carte sanitarie del Grassi non è di poco conto. Sulla cartella non vengono evidenziate situazioni critiche del paziente. Erano state valutate altre soluzioni alternative a quelle cinture, come disposto dalle linee guida? In cartella ci sono solo gli esiti degli esami di routine che erano regolari. C’era quella diagnosi sul disagio psichico, è vero. Ma era sufficiente? Sono tutti gli interrogativi di chi sta cercando di ricostruire come è morto Abdel. Sempre nelle linee guida c’è scritto che nella ricerca di soluzioni alternative c’è anche la richiesta di collaborazione alla famiglia. Peccato che i genitori di Abdel del ricovero del figlio non erano al corrente e hanno saputo della morte solo il 3 dicembre, cinque giorni dopo la sua fine e quando l’autopsia era stata già eseguita. Adesso un altro duro colpo per i familiari del tunisino che da dieci giorni chiedono “verità e giustizia”. Sotto esame dei periti di parte, compresi quelli del Garante dei detenuti, ci sono anche le cartelle cliniche del San Camillo. Il 25 novembre, giorno dell’arrivo di Abdel, viene annotato nella scheda l’inizio del “contenimento”, alle 20. Nella scheda del 26 ci sono due controlli alle cinture alle 12 e alle 13. I controlli si fermano al 27 mattina. Cosa accade dopo? La famiglia continua a ripetere: “Era sano, non aveva alcuna malattia”. E adesso su quel ragazzo morto anche la Regione Lazio indaga e a breve presenterà una relazione dettagliata sull’inchiesta interna aperta tre giorni fa. Catanzaro. Detenuti del “Caridi” diventano pasticceri grazie al progetto “Dolce Lavoro” Gazzetta del Sud, 16 dicembre 2021 Il passo successivo, conclusa la formazione e la selezione da parte della Regione, è la costituzione di una cooperativa sociale per la produzione e commercializzazione di prodotti dolciari e da forno. Il progetto “Dolce lavoro”, sostenuto da “Fondazione Con il Sud” all’interno del bando “e-vado a lavorare”, procede speditamente. E fa passi avanti l’aspirazione ad apprendere il “mestiere del pasticcere” nell’Istituto penitenziario “Ugo Caridi” di Catanzaro. I dieci detenuti d’alta sicurezza, dopo le previste seicento ore di formazione, nei giorni scorsi hanno infatti conseguito il titolo di “Operatore per la lavorazione e la commercializzazione dei prodotti della panificazione/pasticceria”. La commissione d’esami era composta dal presidente Luigia Colella (in rappresentanza della Regione Calabria), dai membri Luca Mancuso (per l’Ispettorato del Lavoro) e Luigi Leone (per il Miur di Catanzaro) e dai docenti Valentina Amato e Fabio Mellace. Gli allievi hanno effettuato la prova scritta consistente in un test di 30 domande a risposta multipla e sostenuto gli orali inerenti le materie di studio (tra cui: i principali ingredienti degli impasti dolci e lieviti; farine e amidi; creme; salse; glasse; decorazioni e assemblaggio; il gelato artigianale; emulsionanti; tecniche di conservazione degli alimenti). L’iniziativa è apprezzata dalla direttrice dell’”Ugo Caridi” Angela Paravati: “L’impegno in svariate attività per chi è dietro le sbarre - ha commentato - è una delle modalità senz’altro da favorire, sia per aderire a quanto prevede l’articolo 27 della Costituzione (“…Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”) che al fine di agevolare percorsi concreti di inclusione socio-lavorativa con l’obiettivo di un reinserimento che sia utile per le persone detenute e per la società”. Il passo successivo, conclusa la formazione e la selezione da parte della Regione, è la costituzione di una cooperativa sociale per la produzione e commercializzazione di prodotti dolciari e da forno. L’iniziativa ha come partner l’impresa sociale Promidea, l’associazione Amici con il cuore (soggetto capofila), l’Associazione Liberamente, la Casa circondariale Ugo Caridi e l’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Catanzaro. Insieme alla costituzione della cooperativa sociale, al marchio identificativo per i prodotti e l’avvio di tirocini formativi (concernenti anche i due soggetti in misura alternativa impegnati all’interno di aziende che si occupano di e-commerce per imparare ad utilizzare gli strumenti social ed i market place di supporto alla fase di commercializzazione), il progetto prevede la dotazione di strumenti e attrezzature idonee, al fine di consentire la diversificazione della produzione e l’apertura al mercato esterno. Particolare attenzione è riservata all’animazione territoriale con la realizzazione di stands degustativi in occasione dell’avvio della produzione e nel corso di eventi pubblici. La fase di commercializzazione dei prodotti prevede, inoltre, di utilizzare il canale web attraverso l’iscrizione nei marketplace specializzati e la predisposizione di account della cooperativa sui principali social e sulle app di corrieri on demand. Fossombrone. Nel carcere un polo universitario più inclusivo di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 dicembre 2021 Sono 10 i corsi di laurea, 19 i detenuti iscritti e 4 i laureati nell’anno accademico in corso. Sono alcuni dati che descrivono la realtà del Polo universitario penitenziario regionale attivo dal 2015 nella casa di reclusione di Fossombrone. “Il Polo risulta essere anche un ponte verso la comunità esterna attraverso la realizzazione di incontri con il progetto ‘Studenti dentro - Studenti fuori’ - ha spiegato il Provveditore regionale di Emilia Romagna e Marche Gloria Manzelli, firmataria, insieme al Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Urbino Giorgio Calcagnini e al Garante regionale dei diritti della persona Giancarlo Giulianelli, del rinnovo del protocollo d’intesa. “L’iniziativa - aggiunge la dirigente - ha consentito l’accesso in carcere di 550 studenti universitari liberi che si sono confrontati con i colleghi detenuti in occasione di 10 seminari interdisciplinari”. Il Polo, finanziato dall’Ufficio del garante regionale e dal Centro di Psicologia Giuridica del Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Urbino, si avvale di un tutor remunerato e di 10 volontari che mantengono i contatti con i docenti, orientano e sostengono nello studio i detenuti ma si occupano anche del disbrigo di pratiche amministrative e di tutti gli aspetti burocratici relativi all’iscrizione universitaria. Ogni studente, per poter continuare a frequentare il Polo deve conseguire almeno 18 crediti formativi l’anno, secondo quanto stabilito dal comitato didattico organizzativo composto da docenti universitari e da personale del PRAP e della casa di reclusione di Fossombrone. In occasione del terzo rinnovo, la convenzione si è allineata alle Linee Guida sulle modalità organizzative della didattica in ambito penitenziario elaborate sulla base del protocollo d’intesa tra DAP e CNUPP (Conferenza Nazionale universitaria poli) dell’11 settembre 2019. L’accordo contiene anche un altro importante elemento di novità: l’accesso al Polo di detenuti stranieri anche se privi di permesso di soggiorno, in quanto le parti hanno convenuto all’art. 3 “che la presenza in Italia per l’esecuzione della pena deve intendersi come presenza legale, e quindi dà titolo all’iscrizione all’Università”. “Questo articolo del protocollo -ha sottolineato - Gloria Manzelli - rappresenta un elemento di apertura, non solo amministrativa, ma anche culturale e una scommessa verso una porzione della popolazione detenuta per la quale le opportunità di riscatto e inserimento nel tessuto sociale appaiono ancora lontane”. Roma. Le vite degli altri. Il ritorno dall’inferno di Alessandro Banfi Vita, 16 dicembre 2021 Chiara Amirante è la fondatrice del movimento Nuovi orizzonti, con cui aiuta i giovani e i poveri di strada ad uscire dalle dipendenze e dal degrado. Si chiama Chiara Amirante e il racconto della sua vita comincia in quell’inferno particolare che erano una volta i sotterranei della stazione Termini a Roma. Luoghi dove allora nessuno, né ferrovieri, né volontari della Caritas, né poliziotti, osava mettere piede. Un porto franco ma anche un rifugio per gli invisibili, gli ultimi, spesso i moribondi. Una terra di nessuno lasciata al dolore e alla disperazione. Racconta Chiara: “Termini era divisa in tante zone quindi si cercava di portare il tè e un panino ai cosiddetti barboni, ma in questi inferi che erano i sottopassaggi si sapeva bene che era pericoloso andare. Ecco, lì ho scoperto un mondo non di persone pericolose ma di persone che avevano subìto ogni sorta di abuso, di ferite e di violenza e quindi sì avevano indurito il cuore. Ma erano persone che soffrivano. Uno dei primi incontri che ho fatto, era il bello della mia scuola, che mi è venuto incontro. Io non lo riconoscevano perché era ridotto a uno scheletro”. Quella discesa, 30 anni fa, cambia la vita di Chiara Amirante. Da allora aiuta i giovani e i poveri di strada ad uscire dalle dipendenze e dal degrado. Oggi ha 56 anni ed è una personalità conosciuta in tutto il mondo. Nel 1993 ha fondato la comunità Nuovi Orizzonti, impegnata nel recupero degli emarginati, dei giovani con problemi di tossicodipendenza, alcolismo oppure costretti alla prostituzione, attiva nelle carceri e con i bambini di strada. Una realtà già undici anni fa riconosciuta dal Pontificio consiglio per i laici. Sulla spinta del successo dell’opera della sua Comunità, nel 1996 Amirante ha dato vita anche al progetto “Cittadella Cielo”, una struttura che si compone di numerosi Centri impegnati nella realizzazione di iniziative sociali di solidarietà: da comunità di accoglienza a case famiglia, da centri di ascolto ad equipe di strada, da cooperative sociali a gruppi di sostegno negli ospedali, nelle carceri, nelle baraccopoli. Il riconoscimento del Capo dello Stato le ha arrivato insieme a molti altri, in Italia e all’estero. Due caratteristiche dell’esperienza fatta da Chiara colpiscono sopra le altre: la capacità di ascoltare e la semplicità dell’annuncio evangelico. Molti aiutano gli invisibili con cibo e indumenti, articoli di prima necessità che per fortuna non mancano nelle nostre strade. Ma pochi, anche fra i volontari più generosi, fanno la fatica di ascoltare i problemi degli “scartati” della nostra società. Le loro storie, il perché sono finiti per la strada. Chiara ha insegnato ai suoi ragazzi di Nuovi Orizzonti a prendere sul serio le storie umane degli ultimi, ad ascoltarli davvero e a dare una risposta alle loro domande di vita. L’altro segreto è quello di proporre un Vangelo della gioia, non una promessa vaga di un futuro migliore, magari nell’al di là, ma una felicità già tutta terrena. Racconta Chiara Amirante: “Dico sempre ai ragazzi: partite dal considerare Cristo un uomo che ha segnato la storia. Proviamo insieme a vivere il Vangelo. Proviamo insieme a vivere quello che il cuore di questo grande uomo ci ha chiesto. Andare nelle scuole, nelle strade, nelle spiagge, nei luoghi di aggregazione giovanile, per dire: ‘Ho percorso queste strade che mi hanno detto essere di felicità e mi sono ritrovato all’inferno’. Non percorretele perché io ero morto e sono tornato in vita”. Una puntata perfetta per introdursi al Natale. Milano. Nel carcere di Opera l’XI congresso di Nessuno Tocchi Caino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 dicembre 2021 “Quando prevenire è meglio che punire”. Domani e sabato, in collegamento con Rebibbia e Parma. Domani e sabato 18 dicembre nel carcere di Opera a Milano si svolgerà Il IX Congresso di Nessuno tocchi Caino. È la quarta volta che l’associazione organizza il suo Congresso in questo istituto e per la prima volta i lavori saranno collegati con le carceri di Rebibbia e Parma. Il IX Congresso sarà incentrato su due sessioni di dibattito generale dal titolo: “Quando prevenire è peggio che punire”, perché - secondo l’associazione di Nessuno Tocchi Caino - negli ultimi anni gli stessi processi e castighi penali, per certi versi troppo garantisti e dagli esiti incerti, sono stati soppiantati da processi e castighi sommari, immediati e più distruttivi, quelli delle misure di prevenzione, dei sequestri e delle confische personali e patrimoniali, delle informazioni interdittive antimafia, dello scioglimento dei Comuni per mafia. La seconda sezione sarà invece dal titolo: “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale” perché una pena retributiva - sempre l’associazione radicale -, che è speculare al delitto, “è insensata e inutile, perché il carcere non è solo un luogo di privazione della libertà e volto al reinserimento sociale come la Costituzione prevede, ma è diventato, davvero, anche “un luogo di pena” dove la malattia, il dolore, la sofferenza, il patimento sono i tratti dominanti, strutturali, istituzionali”. I lavori avranno inizio nella mattinata di domani, alle ore 10.30 con i saluti d’accoglienza di Silvio Di Gregorio e Amerigo Fusco, direttore e comandante del carcere, e del provveditore regionale Pietro Buffa. Seguiranno, dalle 11.30, le relazioni introduttive del segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio d’Elia, della tesoriera Elisabetta Zamparutti e della presidente Rita Bernardini, dalla mezzanotte del 5 dicembre in sciopero della fame per il persistente problema del sovraffollamento carcerario. Tra gli esponenti del governo interverranno il Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto e il sottosegretario agli Esteri Benedetto della Vedova. È previsto un saluto del presidente del Dap Bernardo Petralia nella mattinata di sabato e nel primo pomeriggio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma. Nel corso del Congresso interverranno anche i detenuti condannati all’ergastolo, gli iscritti a Nessuno Tocchi Caino, la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano Giovanna di Rosa, il Presidente dell’Unione Camere Penali italiane Giandomenico Caiazza, il segretario di Magistratura Democratica Stefano Musolino, Davide Galliani e Gherardo Colombo. Nella prima sessione di dibattito di domani dalle 14.30 alle 18.30, interverranno, tra gli altri, Luigi Crespi, Salvatore Galluzzo, Paolo Ingrao, Vincenzo Maiello, Francesco Morelli, Andrea Nicolosi, Daniele Piccione e Michele Vaira oltre a sindaci di Comuni sciolti per mafia e imprenditori colpiti da misure di prevenzione e interdittive antimafia. Nella seconda sessione, di sabato dalle 10.30 alle 18.00, interverranno, tra gli altri, Paola Balducci, Guido Bertagna, Pasquale Bronzo, Stefano Castellino, Totò Cuffaro, Vincenzo Improta, Baldassarre Lauria, Daniel Lumera, Tiziana Maiolo, Luigi Manconi, Beniamino Migliucci e don Vincenzo Russo. I lavori, come di consueto, saranno trasmessi in diretta da Radio Radicale oltre che dai canali social dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Livorno. “A Gorgona vogliamo trasformare un bruco in farfalla” di Luca Filippi Il Tirreno, 16 dicembre 2021 “Anche i carcerati devono poter immaginare un mondo migliore”. Un murale, realizzato dall’artista internazionale Zed1 con l’aiuto di alcuni detenuti, come parte del progetto “Coloriamo Gorgona”. L’obiettivo è quello di costruire percorsi di vita che uniscano arte e attenzione alla comunità, esprimendo storie, vissuti e speranze di chi quell’isola la abita da recluso. Non è Alcatraz, non è l’isola carcere terrore di tutti i detenuti. Anzi arrivando Gorgona si pensa a tutto, tra il mare azzurro e il verde smeraldo dei boschi, fuorché a un carcere. E ora nella piazza principale del paese c’è anche un’opera d’arte realizzata con il contributo dei detenuti. “Questo murale rappresenta bene quello che vogliamo fare qui a Gorgona, trasformare un bruco in una farfalla”. Carlo Mazzerbo, direttore del carcere di Livorno e della sezione staccata di Gorgona è convinto che il compito del suo istituto non sia solo quello di far scontare una pena, ma formare una persona in grado di potersi reinserire nella società. “E per questo non dobbiamo costringere i detenuti a vivere in un ambiente brutto e degradato, ma dare loro delle regole e farli vivere in un ambiente ricco di stimoli positivi. L’arte in questo senso è un mezzo formidabile per immaginare un mondo migliore. Il murale non è stato calato dall’alto, ma è nato qui sull’isola, dal rapporto con l’artista e i detenuti. E anche loro sono stati coinvolti, hanno dato una mano nelle parti meno difficili dell’opera”. È stato inaugurato in questi giorni, infatti, il murale realizzato sull’Isola dall’artista internazionale Zed1 con l’aiuto di alcune delle persone detenute. L’opera si trova terrazza Belvedere, la piazza ‘vissuta’ paese dove c’è l’unico bar. L’iniziativa, nata dalla spinta del direttore Mazzerbo, è parte del progetto “Coloriamo Gorgona”. È stato portato a termine con il sostegno del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Livorno Marco Solimano, e grazie al contributo di Asa Livorno. Il progetto, costruito da Murali, Arci Livorno e Linc, tre organizzazioni che da tempo collaborano per costruire iniziative sociali che uniscono arte e attenzione alla comunità, prende vita dalla volontà di cogliere e raccontare l’identità così particolare della Gorgona esprimendo, attraverso il segno artistico, storie, vissuti e speranze di chi quell’isola la abita da recluso. In una fase iniziale Linc e Arci hanno condotto una ricerca sul campo che ha individuato nella “rinascita” una tematica sentita profondamente dai detenuti. Successivamente l’artista Zed1, grazie al coordinamento organizzativo di Murali, ha dato forma a questo tema, con il suo tratto distintivo in grado di raccontare temi sociali complessi con la leggerezza di una rappresentazione fiabesca. “Il tema della rinascita” spiega il Garante Marco Solimano “esprime un desiderio radicato in chi vive quest’isola e l’arte è un mezzo straordinario per esprimerlo. Il tentativo di costruire percorsi nuovi, che diano spazio alla volontà di rimettersi in gioco delle persone ristrette prende forma, anche simbolicamente, attraverso i colori e le linee di questo murale”.”Questo progetto - sottolinea poi il direttore Carlo Mazzerbo - rappresenta un ulteriore passo verso un disegno di apertura dell’isola e di incontro con la società. La volontà di aprire Gorgona all’arte racconta la volontà di creare integrazione, incontro e contaminazioni, permettendo ai detenuti di partecipare, da attori protagonisti, a progetti di riqualificazione dell’isola. Con questo progetto, fornendo l’opportunità di collaborare con un artista conosciuto a livello internazionale, e grazie alla collaborazione con i partner, abbiamo fatto un ulteriore importante passo in questa direzione”. All’inaugurazione anche l’assessore al sociale del Comune di Livorno Andrea Raspanti. “Siamo impegnati - dice - a dare sostanza e continuità ad iniziative che rinsaldano la relazione naturale tra Gorgona e Livorno. Il progetto ‘Coloriamo Gorgona’, nel suo dialogare con progetti simili realizzati sulla terraferma, rappresenta un ponte ideale tra l’isola e la città. Il nostro auspicio è riuscire a rendere sempre più concreti questi ponti soprattutto per chi da quest’isola riparte grazie a percorsi di inclusione”. A Gorgona vivono attualmente 90 detenuti. È una colonia agricola, i reclusi lavorano tutti fuori dal carcere nelle vigne e nei campi, tornano in cella solo per dormire. “È la dimostrazione che si può fare qualcosa di buono - commenta Mazzerbo - è chiaro che le persone detenute qui a Gorgona hanno caratteristiche particolari, sono tutti con pene da scontare non superiori a 10 anni, non possono avere condanne per reati di criminalità organizzata e devono essere interessate attivamente al loro riscatto non solo con il lavoro, ma non la formazione, lo studio. Però se si può fare qui, si può fare anche altrove e avremo persone migliori da reinserire nella società, come del resto vuole l’articolo 27 della Costituzione che prevede la funzione rieducativa della pena”. Massa Marittima (Gr). Progetto “Orti in carcere”, l’assessore regionale Saccardi in visita toscana-notizie.it, 16 dicembre 2021 Si chiama “Orti in carcere” ed è il progetto partito a febbraio grazie ad un finanziamento della Cassa Ammende ottenuto dal Comune di Massa Marittima nell’ambito dell’iniziativa della Regione Toscana per la formazione dei detenuti. Un’esperienza applicata alla realtà della Casa circondariale di Massa Marittima dove stamani è andata in visita la vicepresidente e assessora all’agroalimentare Stefania Saccardi, accompagnata dal sindaco Marcello Giuntini, dall’assessore alle politiche sociali di Massa Grazia Gucci e dalla direttrice del carcere Maria Cristina Morrone. “Coltivare un orto è un po’ coltivare noi stessi grazie alla capacità che hanno le piante di riportarci alle radici del nostro essere. Trovo pertanto straordinaria per la sua ricchezza l’iniziativa della casa circondariale di Massa Marittima, un esempio senza dubbio da replicare - ha detto Saccardi - Questo progetto rappresenta tra l’altro una seria occasione di riqualificazione professionale per persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria, valorizzando competenze già acquisite, da acquisire o da accrescere. Crediamo che sia una buona misura capace di offrire maggiori e diverse opportunità occupazionali. E mi fa particolarmente piacere che abbia un legame con un bel progetto della Regione Toscana come i Centomila orti che è stato capace di coinvolgere nel corso del tempo cittadine, cittadini e numerose amministrazioni locali e istituzioni presenti sul territorio regionale”. Nella prima fase del progetto sono state messe a dimora 20 piante di olivo ed è iniziata la coltivazione di piante aromatiche in cassone, oltre alla potatura delle piante da frutto e degli olivi già presenti nei terreni del carcere e alla predisposizione un impianto di irrigazione basato sul recupero dell’acqua piovana. I possibili sviluppi del progetto, nella seconda fase, saranno la raccolta delle olive e la produzione interna di olio evo aromatizzato. Ma la finalità principale è quella di garantire ai detenuti una formazione professionalizzante, da spendere nel mercato del lavoro una volta scontata la pena. La logistica del progetto, dalla creazione delle superfici ortive alla formazione dei detenuti è stata curata dalla Cooperativa Melograno. Orti in carcere ha ottenuto l’interessamento e l’attenzione di Amnesty International. All’inizio della mattinata si è fatta anche la benedizione dell’olivo centenario, donato da Terre dell’Etruria e Boscaglia e messo a dimora all’ingresso del carcere. È stato il vescovo di Massa Marittima e Piombino, monsignor Carlo Ciattini, ad impartire la benedizione. Ai piedi dell’olivo è posizionata una targa che ricorda i 60 anni di attività di Amnesty International per la difesa dei diritti umani. Covid, cosa ci insegna il lessico del virus di Stefano Massini La Repubblica, 16 dicembre 2021 L’opinione pubblica si è assopita davanti a un B-movie in cui ogni dieci minuti compare un mostro più feroce del precedente, ma nessuno più urla né trema. Perfino il futuro appare già delineato. Ma più ci penso e più mi pare di intuire che in questo circolo vizioso si nasconda il punto più vero di un così lungo guado, che ci ha messi davanti a una ridefinizione del concetto stesso di paura e di rischio. D’accordo, la variante Omicron è spaventosa: moltiplica i contagi, e l’Oms prevede uno tsunami. Questa la notizia. Ma come la mettiamo, se allo spavento ci siamo assuefatti e il terrore ormai è un sentimento consueto? Sono passati i tempi del puro sbigottimento da Covid, quelli in cui il fiato si fermava a mezza gola e i centri neuronali della paura, dal profondo del nostro sistema limbico, si attivavano come fossimo davanti a una pantera. Già, perché l’essere umano è un software programmato così: reagisce alla novità dell’incognita, al suo imporsi improvviso, al coup-de-théâtre che funziona sempre proprio perché ti coglie più fragile, nell’impreparazione. Ma poi? Il genere horror, non per niente, si nutre a piene mani dell’effetto sorpresa, ma al tempo stesso stabilisce come regola ferrea che c’è una misura da non varcare, pena l’assuefazione. Come dire che i professionisti del sudore freddo come Stephen King sanno perfettamente di non poter abusare, perché al terzo zombie nascosto nell’armadio, tu avrai già elaborato dentro di te la consapevolezza che da ogni anta potrebbe sbucare un cadavere ambulante, e in questo “mettere in conto” consiste la tua innata strategia di difesa. Alfred Hitchcock ne era talmente cosciente da temere ogni precedente cinematografico, perché gli bastava un fotogramma di un’altra pellicola per inficiare l’effetto di un sussulto. Ecco, chissà come avresti commentato, caro Hitchcock, l’ingrata sorte di chi da venti mesi cerca le parole per raccontare il terrore di una lotta in cui tutto sa di déjà-vu. La prima pagina di Repubblica ha titolato nel marzo del 2020 con i toni necessari di un cataclisma: eravamo davanti all’inaudito, assistevamo allo spettacolo spettrale di metropoli deserte, a fosse comuni scavate in Amazzonia, mentre il Pontefice celebrava da solo in piazza San Pietro una Pasqua da incubo. Come non dar fondo, davanti a tutto ciò, all’intero serbatoio lessicale del terrore? Inevitabile. Peccato che cominciasse poi la danza delle varianti. Prima fu la volta della Brasiliana, poi dell’Indiana tramutatasi in Inglese, ed era arduo declinare in aggettivi qualcosa che fosse peggiore di ciò che già era stato narrato come infimo baratro, soprattutto perché la narrazione iniziava a inflazionarsi. E a pieno diritto, perché Dante colloca Lucifero in fondo alla conca infernale, ed ha buon gioco di descrivere quella ghiaccia come l’abisso degli abissi, ma come la mettiamo se sotto Lucifero fosse emerso un ulteriore demone più sprofondato e più reietto dal Divino? Ci abbiamo tuttavia provato, e nei mesi abbiamo tentato ogni metodo per riferire ai lettori quello che potremmo definire “l’aggravamento della gravità”. Adesso giunge la mannaia della variante Omicron, trenta volte più contagiosa. E come fai a narrarla ai lettori, se l’arma della suggestione è spuntata e niente fa più effetto? L’opinione pubblica si è irreversibilmente assopita davanti a un B-movie in cui ogni dieci minuti compare un mostro più feroce del precedente, ma nessuno più urla né trema, attendendo solo a gloria i titoli di coda. Perfino il futuro appare già delineato, e siamo pressoché certi che faremo i conti con varianti Pi, Rho, Sigma, Tau di cui ci toccherà dire che “stavolta superano ogni previsione”, e quello “stavolta” suonerà ad un tempo tragico e ridicolo. Ma più ci penso, e più mi pare di intuire che in questo circolo vizioso si nasconda il punto più vero di un così lungo guado, che ci ha messi davanti a una ridefinizione del concetto stesso di paura e di rischio. Ci mancano le parole, ma forse non è un caso: ci toccherà reimparare, ad usarle meglio. Nessuno difende giovani e precari di Elsa Fornero La Stampa, 16 dicembre 2021 Per la prima volta da quando è al governo, con lo sciopero generale di otto ore proclamato per oggi da Cgil e Uil, Mario Draghi si trova ad affrontare - insieme al virus, purtroppo ben lontano dall’essere debellato - un vero e proprio conflitto distributivo. Anzi, si tratta forse della prima volta nella sua vita professionale, dato che i banchieri centrali si occupano di moneta e di stabilità di prezzi e cambi e non di distribuzione dei redditi e della ricchezza, materia specifica della politica fiscale. Per il governo si tratta di una difficoltà inattesa e non piccola, visto il clima di inusuale apprezzamento nei confronti del presidente del Consiglio. L’irrigidimento del sindacato (di una sua parte, visto che la Cisl non partecipa allo sciopero) è però più comprensibile se inquadrato nella prospettiva di un ritorno del “vincolo di bilancio” nella finanza pubblica. A ogni aumento di spesa deve corrispondere un parallelo ed equivalente aumento della tassazione o del debito. Vincolo che il populismo prima (molto incline alla spesa e poco alla tassazione), la pandemia poi (con la possibilità di aumentare il debito quasi a dismisura: oggi siamo a 2734 miliardi di euro, ossia al 160 per cento del Pil, contro il 135 per cento del 2019) e infine anche le ingenti risorse del Pnrr sembravano avere definitivamente seppellito come “cosa del secolo scorso”. Guai a parlare di debito pubblico eccessivo. La posizione sindacale sembra allora così riassumibile: il governo sta forse sostenendo che non ci sono risorse per una maggiore detassazione dei redditi da lavoro o per indennizzare le famiglie e le imprese colpite dal caro-bollette? Se così è, se torna a “mordere” il vincolo di un limite all’indebitamento netto di un anno, allora - è la conclusione - “si prenda da chi sta meglio per dare a chi sta peggio”. La ragione di fondo dello sciopero sembra così poggiare sulla volontà di riportare in primo piano la questione distributiva: se con la grande recessione del 2008-2012 prima, e con la pandemia poi, il Paese intero ha sofferto e perso risorse, non tutti hanno sofferto e perso nello stesso modo. Qualcuno, anzi, si è avvantaggiato, e non si tratta soltanto delle multinazionali del web. Per esempio, i numerosi aumenti dei prezzi degli immobili non sono certo andati a favore dei poveri; alcuni settori hanno visto aumentare la domanda e i prezzi relativi dei loro prodotti, mentre altri hanno subito danni devastanti dal lockdown, dai quali sarà difficile che riescano stabilmente a riprendersi. Il sindacato indica come perdenti - e non solo da oggi - i lavoratori dipendenti e i pensionati e chiede, in particolare, che la riduzione fiscale di sette miliardi prevista per il 2022, nell’anticipo di una riforma più complessiva del fisco, vada per intero o quasi a beneficio di queste categorie, dei cui interessi è portatore. E con lo sciopero si ribella all’idea che anche i ricchi possano trarre vantaggio da questo inizio di riforma in conseguenza del vincolo - questa volta politico - di non aumentare l’aliquota massima (rimasta al 43 per cento) neppure sotto forma di un temporaneo contributo di solidarietà, ciò che avrebbe evitato che il beneficio finisse anche ai redditi più elevati. Sia la richiesta, sia lo sciopero come strumento di pressione sono ovviamente legittimi. Ugualmente legittimi sono però i dubbi che si possono esprimere sull’opportunità temporale e sostanziale dello sciopero di oggi (e che sono stati espressi anche dalla parte del sindacato che non vi ha aderito). Si può senz’altro concordare sul fatto che l’economia italiana abbia, e ormai da molti anni, un problema di distribuzione del reddito e, più ancora, della ricchezza. È lecito però dubitare che la situazione odierna sia semplicemente una nuova puntata del tradizionale conflitto tra lavoratori e pensionati, da un lato, e “capitalisti” dall’altro: in un mondo sempre più dominato dalla finanza e dai grandi manager, il conflitto si frantuma e si diffonde in rivoli di privilegio, magari temporaneo e comunque spesso dovuto alla possibilità di sottrarsi alla disciplina della concorrenza oppure alla vicinanza al potere politico (quante ricchezze sono state generate dalla corruzione? E quante dall’evasione/elusione fiscale?). E come dimenticare che, accanto ai grandi professionisti, il mondo del lavoro autonomo è sempre più caratterizzato da situazioni precarie, da tentativi di start up non riusciti anche per lo scarso aiuto della burocrazia e del fisco? E, soprattutto, come tralasciare che quello dei perdenti è oggi il mondo dei giovani, ai quali la nostra società dà sempre minori opportunità e nessuna vera garanzia? Chi dà voce a questi giovani se la politica se ne scorda e il sindacato li rappresenta poco? Migranti. Rifugiati accolti dalle famiglie: svolta per l’integrazione di Errico Novi Il Dubbio, 16 dicembre 2021 Ieri i dati del progetto in 5 città: il 90% dei migranti ora ha un lavoro. Siamo alla sperimentazione. In alcune città, tra cui Roma, e con il coinvolgimento di un ateneo importante come Tor Vergata. Eppure il modello di accoglienza in famiglia per i rifugiati è già una realtà. Un paradigma. A illustrarne il meccanismo è stata ieri, in un evento on line, l’associazione Refugees Welcome Italia. Sono stati presentati gli esiti del percorso avviato nel 2019, che ha visto attivate 113 convivenze di rifugiati presso famiglie italiane. Il progetto è stato così intitolato: “Dalle Esperienze al Modello: l’accoglienza in famiglia come percorso di integrazione”. Le città che hanno aderito sono Roma, Palermo, Bari, Ravenna e Macerata. A dar loro man forte, appunto, l’università capitolina di Tor Vergata. Da cui proviene gran parte dei componenti del “board”, cioè del comitato scientifico che, si legge in una nota, “ha accompagnato l’evoluzione del progetto”. Docenti universitari ed esperti di welfare e accoglienza hanno dunque rilevato come “l’accoglienza in famiglia promossa da Refugees Welcome Italia rappresenti a tutti gli effetti un’innovativa esperienza di welfare di prossimità. Un’esperienza che, se adeguatamente sostenuta dalle istituzioni, potrebbe costituire una concreta risposta ai bisogni di ampie fasce della popolazione”. Integrazione, opportunità per i rifugiati ma anche per chi ne assicura e promuove l’accoglienza. Definizione di un modello di convivenza efficace da diversi punti di vista: umano ma anche economico. “Auspichiamo che in futuro questa esperienza non rimanga solo una buona pratica sperimentata localmente, ma che diventi una policy e uno strumento di governance a livello nazionale, per garantire una sua diffusione capillare”, ha detto Fabiana Musicco, direttrice di Refugees Welcome Italia. L’associazione ricorda che l’integrazione dei rifugiati attraverso l’accoglienza in famiglia “non rappresenta una novità assoluta nel panorama italiano”. Eppure il modello sperimentato nei cinque comuni coinvolti dal progetto, “propone forti elementi di innovazione”. A cominciare da quelli che riguardano l’inserimento lavorativo e il contributo di “gruppi di attivisti radicati sul territorio, che fungono da presidio di comunità”. Facilitatori dell’integrazione, in pratica. In prima linea, ovviamente, le amministrazioni dei comuni presso cui si è svolta la sperimentazione. Ed è grazie agli enti locali che, spiega ancora Refugees Welcome Italia, si è potuti arrivare all’articolazione forse più importante, anche in prospettiva futura, del progetto: l’Albo delle famiglie accoglienti, promosso in particolare dai comuni di Ravenna e Bari, e anche dall’amministrazione capitolina attraverso una memoria di giunta. Come si legge ancora nella nota diffusa dall’associazione al termine dell’evento di ieri, l’Albo delle famiglie accoglienti rappresenta “lo strumento più avanzato in termini di policy per ottenere il coinvolgimento strutturato della cittadinanza attiva nell’accoglienza in famiglia, oltre che altre forme di aiuto e sostegno comunitario: uno strumento che aiuta a superare la frammentazione delle diverse realtà, affido, tutori volontari, famiglie affiancanti, e che crea una procedura amministrativa univoca e un modello condiviso”. Si diceva dell’integrazione lavorativa. I dati della sperimentazione dicono che dal 2019 ad oggi “il 90% dei rifugiati accolti ha raggiunto la piena autonomia, e l’associazione ha formato 140 persone tra operatori e attivisti. Le famiglie iscritte nei territori di progetto e pronte a farsi carico dell’accoglienza di un rifugiato sono 754, dato che dimostra interesse e apertura da parte delle comunità nei confronti del progetto”. Refugees ha poi chiesto a Tor Vergata di creare un parametro di valutazione quantitativa dell’impatto sociale del modello sperimentato: ne è risultato che “per ogni euro investito nel progetto di accoglienza in famiglia sono stati generati 3,01 euro di beneficio sociale”. Ma forse ancora più significativa è la solidarietà strutturata e organica che trasforma l’ideale dell’integrazione in esperienza vissuta. È un inizio. Ma è anche una promessa per un modello sociale e una tutela dei più deboli finalmente in grado di funzionare. Roma e i rom. La normalità di una sistematica esclusione di Anna Pizzo Il Manifesto, 16 dicembre 2021 L’appello dell’associazione “Cittadinanza e minoranze”. Le femministe della Casa delle donne di Roma e Milano e le suore della Sacra famiglia. La scrittrice Edith Bruch e lo scrittore Domenico Starnone. L’Arci nazionale e Sant’Egidio, Veronica Pivetti, attrice, tutto l’equipaggio di Mediterranea e la Caritas di Latina, e poi Luigi Manconi, Marco Revelli, Luigi Ferrajoli, il direttore del quotidiano Avvenire e il condirettore de il manifesto. E ancora Adriano Sofri, Luigi Ciotti, Goffredo Fofi, Gad Lerner, Alex Zanotelli, Tomaso Montanari. Moltiplicate per duecentocinquanta e otterrete il numero di persone o associazioni che hanno firmato, e stanno continuando a farlo in queste ore, l’appello “Liberiamo Roma dall’apartheid” che l’associazione Cittadinanza e Minoranze ha deciso di lanciare un po’ per disperazione e un po’ di più per sfida. La disperazione nasce dalla situazione che, soprattutto a Roma, dopo anni di “ragionevoli” persecuzioni da parte dei variopinti sindaci che si sono succeduti, ha colpito duramente i Rom sgomberati, umiliati, perseguitati, ignorati. La sfida è per opporsi a quello che stanno subendo e che nessuno vede o vuole vedere. Ecco perché la parola non è stata scelta a caso. Avrebbero potuto scrivere che è in atto un tentativo di genocidio, oppure che stiamo assistendo a una tempesta perfetta, quella che in meteorologia descrive un ipotetico uragano che colpisce esattamente l’area più vulnerabile. Invece hanno scelto apartheid perché “è una parola terribile: indica un sistema di esclusione e dominio codificato in leggi - si legge nell’appello - Ma esiste un apartheid non scritto, perciò ancora più terribile. Perché si nega, non si vede”. E non voler vedere è come non voler sentire e, invece, le parole sono pietre e le cose, dicono i firmatari dell’appello, vanno nominate per quello che sono. “Chi si indigna, nei media, tra gli intellettuali, nella politica, se si pratica un ferreo apartheid nei confronti di Rom, Sinti e Caminanti? - recita l’appello - E quante calunnie, quanti pregiudizi, azioni discriminatorie, sottrazioni di bambini alle loro famiglie saranno necessari perché ci si renda conto che nel nostro paese c’è una minoranza sistematicamente discriminata e perseguitata? Che per andare a scuola i bambini faticano il doppio degli altri? Ma chi li vede come scolari? Chi li ascolta?”. Domande senza risposte se non quelle di un bel po’ di gente perbene, non importa se cattolica, ebrea o senza religione che sì, si è indignata, fortunatamente, e del quotidiano della Cei, Avvenire, che domenica scorsa ha dedicato l’apertura del giornale, un’intera pagina interna e la spalla nella home page del sito all’appello e a dare conto della significativa raccolta di firme che prosegue (annapizzo2014@gmail.com). Tre storie minime, esempi di una insopportabile “normalità”: in due mesi la ex sindaca di Roma ha fatto sgomberare due campi autorizzati in cui molti di quelli che li abitavano sono nati e cresciuti. Ma a molti di loro non ha “offerto” alcuna alternativa perché colpevoli di non aver voluto firmare un patto fasullo con il Comune. Molti di loro vivono ancora nelle loro scassatissime automobili ai margini dei campi ormai ridotti un cumulo di macerie. E allora la sindaca cosa fa? Manda i vigili a controllare che le auto/case abbiano l’assicurazione pagata, altrimenti c’è il sequestro. Secondo esempio: c’è una giovane donna rom che ha partorito un anno fa un bel bambino che le è stato rubato prima dalle assistenti sociali e poi dai tribunali perché quando era minorenne è andata in prigione per furti di motorini. “Pericolosa per sé e per gli altri”. L’adozione resa necessaria “nell’interesse del minore”. A nulla vale dire che non è più la ragazzina di allora, lei e il suo compagno, guardia giurata, vogliono il figlio e hanno i mezzi per mantenerlo. Sbagliato: lui viene licenziato perché la guardia giurata ha l’obbligo di portare l’arma ma la sua gli viene requisita perché convive con una persona “borderline”. Infine: parecchi rom sono riusciti a sopravvivere, in tempi di pandemia, grazie al reddito di cittadinanza. Ma ora arrivano i controlli e se chi ne ha goduto non può dimostrare che vive in Italia da almeno dieci anni, l’appannaggio mensile decade e, dulcis in fundo, deve restituire gli arretrati fino all’ultimo euro. Pochi rom hanno i documenti in regola e, dopo quello che abbiamo raccontato, è purtroppo facile capire perché. Malta primo Paese dell’Ue a legalizzare la cannabis di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 16 dicembre 2021 Malta è il primo Paese dell’Unione Europea a legalizzare coltivazione e possesso di cannabis per uso personale e a prevedere l’apertura di Cannabis Social Club. Si potranno coltivare fino a 4 piante di marijuana e detenere in luogo pubblico sino a 7 grammi di cannabis. Una quantità superiore, ma fino ai 28 grammi, prevede la comparizione davanti a un commissario di giustizia che potrà infliggere ammende da 50 a 100 euro. Sanzionato anche il consumo in pubblico e davanti ai minori. È prevista la cancellazione delle condanne pregresse. LE NORME non prevedono un sistema commerciale ma associazioni senza scopo di lucro, i club, che potranno coltivare per conto dei soci (massimo 500), e cedere loro fino a 7 grammi al giorno e 50 al mese. Nati e sviluppatisi fra le maglie della legge in Spagna e Belgio, i Cannabis social club sono legali in Uruguay. A Malta sarà la prima volta che questi saranno messi alla prova come unico canale di distribuzione legale dei prodotti con Thc. Un modello non-profit che può limitare i rischi legati all’eccessiva commercializzazione di una sostanza psicoattiva. I club inoltre consentono la costruzione di reti sociali e culturali che favoriscono la condivisione delle esperienze e dei saperi, promuovendo un consumo consapevole. Come dimostrato in varie ricerche, tra cui una di Forum Droghe, in questi contesti si raggiunge una maggiore capacità di autoregolazione dell’uso di cannabis e quindi di controllo dei suoi effetti rispetto alle traiettorie di vita di chi la consuma. La nuova legge maltese è frutto di una importante azione di advocacy dell’associazione Releaf Malta che ha salutato il “giorno storico”, anche perché “il governo ha mantenuto la promessa di modificare le leggi draconiane verso una politica basata sui diritti umani”. Proprio la questione dei diritti sembra finalmente essere entrata nel lessico istituzionale quando si parla di politiche sulle droghe. Il 10 dicembre, giornata mondiale per i diritti umani, l’International Narcotics Control Board (Incb) - che monitora l’applicazione delle Convenzioni Onu in materia di stupefacenti - ha emesso un comunicato in cui ha ricordato che il “diritto al trattamento e all’accesso per fini medici alle sostanze controllate” fa parte del diritto alla salute tutelato dai trattati in materia di diritti umani, e che questi ultimi devono “esser posti al centro delle politiche nazionali sulle droghe”. L’ufficio di Vienna elenca quali siano le violazioni, passando in rassegna “arresti e detenzioni arbitrarie, torture, altre forme di maltrattamento e uccisioni extragiudiziali, commessi in nome del controllo della droga”, aggiungendo che “il problema mondiale della droga richiede un approccio bilanciato e il rispetto del principio di proporzionalità e dei diritti umani”. Dopo anni di silenzi conniventi con le più violente politiche di “controllo degli stupefacenti”, l’Incb pare aver finalmente cambiato linea. Già con la precedente presidenza dell’olandese Joncheere aveva messo sul tavolo la necessità di una revisione delle tabelle delle Convenzioni, evidenziando anche che i tre documenti “non richiedono che le persone che usano droghe, o quelle che commettono reati minori per droghe siano incarcerati”. Significativi passi avanti rispetto a quando, a metà anni ‘90, gli stessi funzionari dell’Incb si recarono al Ministero della Giustizia italiano per chiedere conto del referendum radicale del 1993 che cancellò il carcere per le persone che facevano uso personale di droghe. Allora la risposta fu “l’ha voluto il popolo sovrano”, oggi pare che più che domande l’Incb sia intento a fare autocritica - anche se non lo ammette. Ma non dappertutto le cose cambiano. Alla sua ultima sessione di inizio dicembre, la Commissione droghe delle Nazioni unite ha negato al Gruppo di lavoro dell’Onu sulle detenzioni arbitrarie di presentare il lungo rapporto coordinato da Elina Steinerte che documenta l’uso delle normative sulle droghe come strumento di violazione dei diritti umani inerenti alla libertà personale. Una decisione doppiamente grave: da una parte si conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la guerra alla droga è in realtà una guerra contro le persone, dall’altro che le Nazioni unite lavorano a compartimenti stagni, specie quando si parla di diritti umani. Gli Stati che hanno ratificato gli strumenti internazionali hanno precisi obblighi da rispettare che non prevedono solo il diritto alla salute e che sono più stringenti dai principi enunciati nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. La legalizzazione a Malta e queste prese di posizione internazionali seguono di pochi giorni la VI Conferenza Nazionale sulle droghe del Governo e vanno nella stessa direzione. Quanto passerà prima che dai documenti si passi ad emendare le norme che violano molti più diritti di quanti ne vorrebbero proteggere? Soldi, milizie e potere: le elezioni in Libia a un passo dal fallimento di Vincenzo Nigro La Repubblica, 16 dicembre 2021 La situazione a Tripoli è tranquilla dopo il colpo di mano dei gruppi armati che ieri hanno messo sotto assedio il governo. Ma è ormai certo che le consultazioni previste fra otto giorni sono destinate a saltare. È stata una notte tranquilla, ma la città rimane presidiata dalle milizie, il governo dovrà trattare e le elezioni di sicuro salteranno”. Al telefono da Tripoli un importante professionista libico descrive la situazione nella capitale a poche ore dal colpo di mano delle milizie che hanno messo sotto assedio il governo di Abdelhamid Dbeibah. Questa mattina il traffico è inesistente, anche perché siamo alla vigilia del venerdì, il giorno di festa islamico. Le strade sono deserte, decine di “tecniche”, le jeep e i fuoristrada armati con mitragliatrici sul cassone, sono schierate dappertutto, per esempio a lato della strada costiera, davanti alla base di Abu Sitta, il porto militare dove per mesi aveva alloggiato il presidente Fayez Serraj. Altre auto delle milizie sono ancora attorno ai palazzi del potere, la sede del primo ministro, del Consiglio presidenziale, del ministero della Difesa. A 8 giorni dalla presunta data delle elezioni a Tripoli ormai è chiaro cosa è accaduto: praticamente tutte le milizie che hanno controllato la città per anni, assieme alla corrente politica del Fratelli Musulmani, hanno ritenuto pericolosissimo far avanzare il processo politico. E sono scese in campo. La milizia di Salha Badi lo ha dichiarato apertamente, “le elezioni non si terranno”. Questo perché le elezioni presidenziali avrebbero continuano a ridimensionare il loro ruolo nel gioco libico, a favore di nuovi soggetti. Le milizie scese in strada sono la “Nawasi” guidata dal potente Mustafa Ibrahim Gaddur, la milizia “Ghneiwa”, comandata da Abdel Ghani al-Kikli. Con loro c’è anche “Al Somoud” di Salah Badi. Quest’ultimo è un deputato-miliziano di Misurata, soprannominato “cavallo pazzo” ha combattuto per mesi in prima linea ai tempi della rivoluzione contro Gheddafi e non ha mai accettato nessun tipo di “riconciliazione” con i gheddafiani. Si attende un pronunciamento anche di un altro gruppo, la “Tripoli Revolutionaries Brigade” dell’ex capitano di polizia Haitam Tajuri: anche lui sarebbe vicino ai “colleghi-rivali” con cui tante volte si è scontrato in passato, ma che adesso sono alleati nel tentativo di non perdere potere. La causa che ha scatenato la mossa militare di mercoledì sera è la sostituzione del comandante militare di Tripoli, il generale Abdelbaset Marwan, rimpiazzato dal generale Abdelkader Khalifa. Marwan era considerato una “garanzia” per le milizie, e soprattutto era un freno a una nuova milizia, la “Brigata 444” che è stata formata da pochi mesi e che è sostenuta massicciamente dal nuovo governo e dall’esercito turco. Il nuovo comandante militare di Tripoli, il generale Khalifa, è un ufficiale dalle credenziali “rivoluzionarie” specchiate. Ha partecipato alla rivoluzione del “17 febbraio” sin dall’inizio, ha partecipato alla “Bunyan Al Marsous” (la liberazione di Sirte dall’Isis) e all’operazione “Vulcano di rabbia” (la resistenza all’attacco di Haftar”. Ma viene visto dalle milizie di Tripoli come uno strumento del nuovo governo per ridurre il loro ruolo. Secondo alcune versioni che circolavano ieri notte a Tripoli, alcuni fra i “signori della guerra” hanno chiesto un incontro con il presidente Mohammed al Menfi, che però era in viaggio fuori dal Paese. Appoggiati dalla milizia di Salah Badi, i 2 capi di “Ghneiwa” e “Nawasi” hanno allora deciso di circondare gli uffici presidenziali e di far partire quello che sarà un vero e proprio negoziato. La fiammata della notte potrebbe essere recuperata come altre volte è accaduto in Libia negli ultimi anni: una trattativa sarebbe già partita. Ma l’incidente è la conferma di molte cose: innanzitutto le milizie di Tripoli rimangono i gruppi che hanno tutto da perdere da un ritorno al percorso democratico. Perderanno ruolo militare, controllo di fette della città e dei suoi traffici e perderanno quindi introiti economici. Nel precedente governo, quello di Fayez Serraj, il ministro dell’Interno Fathi Bashaga aveva provato a mettere in riga le milizie di Tripoli, ma era stato costretto all’impotenza. Il secondo elemento chiaro a tutti è che in queste condizioni sarà impossibile tenere le elezioni presidenziali il 24 dicembre. Già nelle ore scorse a Tripoli era girata la voce che la prossima settimana il presidente della Alta Commissione Elettorale avrebbe annunciato un “breve rinvio” del voto dovuto a ragioni tecniche. Il problema è che anche in altre aree del paese, dall’Est al Sud, ci sono milizie o altri gruppi che potrebbero obiettare qualcosa, che potrebbero avere interesse a sabotare un processo politico che metta da parte i militari. Se qualcuno iniziasse ad imitare le milizie di Tripoli la situazione tornerebbe del tutto fuori controllo. Ultima notizia, quella relativa al lavoro che in queste ore sta facendo Stephanie Williams, l’inviata speciale del segretario generale dell’Onu Guterres. La ex diplomatica americana ieri è stata a Misurata, dove ha incontrato capi politici e militari. Da quel che si capisce, tutti sono contrari a tenere adesso le elezioni presidenziali. Vorrebbero prima le politiche, per rinnovare il Parlamento, per pesare i rapporti di forza fra le varie correnti e le diverse aree del paese. Soltanto dopo si arriverebbe ad elezioni presidenziali. Misurata non è un elemento marginale sullo scacchiere libico. Se questa richiesta venisse confermata, tutto il processo politico in Libia verrebbe dirottato quindi in una direzione del tutto diversa. Marocco. “Torturato dalla polizia per aver filmato le proteste” di Gianluca Diana Il Manifesto, 16 dicembre 2021 Il giornalista saharawi Al-Wali Hammad, direttore dell’agenzia stampa Nushatta, racconta il suo arresto, le violenze e le intimidazioni subite, lanciando un appello internazionale a difesa dei media liberi e dei diritti umani nel Sahara Occidentale. Il caso simbolo di Sultana Khaya. E la festa per la sconfitta calcistica del Marocco con l’Algeria. “Sono stato arrestato dalla polizia davanti alla casa della mia famiglia mentre stavo filmando le manifestazioni di protesta in corso in città. Otto autovetture mi hanno circondato all’improvviso, da queste sono scesi gli agenti che mi hanno ammanettato e coperto gli occhi con una coperta mentre mi portavano via”. Così Al-Wali Hammad, direttore dell’agenzia di stampa Nushatta Foundation for Media and Human Rights, racconta il momento del fermo da parte delle forze di sicurezza marocchina avvenuto ad El Aaiún, Sahara Occidentale, lo scorso 11 dicembre. Proprio in quella giornata, in occasione della partita di calcio tra Marocco e Algeria valida per il passaggio al turno di semifinale della Fifa Arab Cup 2021 in corso in Qatar, il movimento saharawi che contesta nei territori occupati l’oppressione da parte del governo di Mohammed VI, ha inscenato alcune contestazioni. Il giornalista è stato accusato di incitare tali dimostrazioni: “Mi hanno condotto in una caserma dove, dopo avermi sequestrato il telefono, sono stato interrogato e torturato. Per oltre quattro ore sono stato bastonato e manganellato nei loro uffici. Fino allo svenimento. Sono stato rilasciato la mattina successiva, con la minaccia da parte della polizia che se mi sorprenderanno ancora a filmare eventi o manifestazioni di qualsiasi tipo, sarò incarcerato. Tutto questo, non fermerà né il mio lavoro, né tantomeno la mia richiesta di libertà e indipendenza per il Sahara Occidentale”. Come riferito direttamente dalla redazione di Nushatta, l’interrogatorio che Hammad ha subito, è stato incentrato oltre che sulle attività e il modus operandi dell’agenzia stampa, anche sulle identità e generalità dei singoli giornalisti e mediattivisti che la compongono. Nushatta, in una nota diffusa lunedi 13 dicembre, chiede un pronunciamento da parte delle organizzazioni internazionali che si occupano di difesa dei professionisti dei media e degli attivisti dei diritti umani a intervenire con urgenza per dissuadere il governo marocchino da ciò che sta compiendo contro i professionisti dei media saharawi. Quanto accaduto è il segno di un ulteriore inasprimento delle vessazioni contro i residenti nei territori occupati. Dalla ripresa del conflitto tra le parti avvenuta il 13 novembre 2020, vi è stata una costante escalation delle misure repressive attuate dal Marocco. L’esempio più eclatante riguarda l’attivista Sultana Khaya, icona della lotta di liberazione in corso, che lo scorso 5 dicembre ha denunciato l’ennesima aggressione da parte di paramilitari marocchini, che oltre a violentarla hanno contaminato il serbatoio dell’acqua potabile della sua abitazione e sigillato la porta d’accesso al tetto per impedire a Khaya di accedervi per sventolare bandiere e manifestare dissenso. Intanto Nushatta Foundation sta sviluppando il suo lavoro oltre quello strettamente giornalistico in altri ambiti, mettendo al centro delle narrazioni proprio Khaya e la sua famiglia, da un’altra prospettiva, quella artistica. Da qualche giorno è disponibile online la canzone Your Struggle, dedicata all’attivista e firmata da vari cantanti dell’attuale scena saharawi, i quali hanno prestato il loro talento alla vicenda, sotto il coordinamento della fondazione coordinata e diretta da Al-Wali Hammad. E mentre il 10 dicembre è stata rilanciata l’ennesima campagna che rammenta come al momento siano rinchiusi in diverse carceri del regno di Rabat 41 prigionieri politici, inclusi quelli arrestati nel 2010 durante la protesta di Gdeim Izik oltre a due giornalisti di Equipo Mediatico, l’altra agenzia di stampa saharawi, il calcio assume nuovamente un valore comunicativo fuori dall’ordinario. Proprio il match tra Algeria e Marocco, vinto dagli algerini ai rigori, ha fornito l’occasione in vari paesi d’Europa oltre che nei campi profughi nei pressi di Tindouf di dar vita a caroselli e festeggiamenti dal forte valore politico. Congo. Quell’umanità miserabile nel fango, per la guerra del cobalto di Michele Farina Corriere della Sera, 16 dicembre 2021 Il Paese, vasto dieci volte l’Italia, possiede il prezioso minerale (batterie elettriche) ma è una delle nazioni più povere del mondo: dove finisce questa ricchezza? In Cina. Un’ordinata schiera di camion gialli affacciati sulla voragine di una miniera di cobalto: l’immagine sembra avere poco a che fare con il Congo brulicante e sgarrupato che ci rimane più impresso nella memoria, quello che colpisce i lettori e (non sempre) i photoeditor: facce e storie di ragazzini che scavano cunicoli con le mani nella terra rossastra, umanità seminuda con gli occhi spalancati che si spacca la schiena dall’alba al tramonto per rubare al sottosuolo briciole di preziosi metalli africani e piazzarle nelle tasche di feroci caporali e intermediari sanguisughe. Certo, ci sono anche loro (anzi sono la maggioranza) nel ritratto collettivo dei minatori della Repubblica (sedicente) Democratica del Congo, nazione disastrata e ricchissima di materie prime (vasta quasi dieci volte l’Italia) da cui si estrae il 60-70% di un minerale oggi molto molto ricercato: il cobalto. Il secondo Paese più povero del mondo - I minatori cosiddetti “artigianali”, che scavano ai margini (o di straforo all’interno dei recinti) delle grandi miniere, rappresentano numericamente il grosso della categoria. Eppure quei camion in bella fila sul ciglio dello scavo rappresentano la ricchezza vera e principale, quella che potrebbe contribuire al progresso dei 90 milioni di abitanti del secondo Paese più povero del mondo, e che invece continua a finire altrove. Sulle 100 mila tonnellate di cobalto estratte nell’ultimo anno dalle viscere del Congo, 93 mila (secondo i dati di Benchmark Mineral Intelligence) provengono dalle miniere che operano su grande scala. Macchinari di precisione, camion per il trasporto, padroni in cravatta all’estero. Un mercato in espansione: la Banca Mondiale stima che la domanda di cobalto crescerà del 585% da qui al 2050. Il motivo principale di questa fame di “oro blu” (che già gli antichi egizi usavano per colorare manufatti) sta nel settore dell’automotive. Il resistentissimo cobalto è componente essenziale per i catodi delle batterie al litio che fanno muovere i veicoli elettrici (EV), la cui produzione (ibridi esclusi) dovrebbe balzare dai 3,3 milioni di unità vendute nel mondo nel 2021 ai 66 milioni del 2040. Come il petrolio - Per il Congo il cobalto è sulla carta come il petrolio per l’Arabia Saudita. A estrarre la fetta maggiore del tesoro blu nazionale sono marchi esteri, dall’anglo-svizzera Glencore alle varie imprese che fanno capo a China Molybdenum (CMOC), gigante (naturalmente) statale con quartier generale a Pechino. Come lavorano queste aziende? Come trattano i lavoratori e le comunità locali? Un mese fa, mentre nell’affollatissima Glasgow il mondo cercava una via per disinnescare la mina del cambiamento climatico, alla chetichella è uscito un dettagliato rapporto di 87 pagine redatto dall’associazione britannica Raid (Rights and Accountability in Development), che in cinque miniere industriali del Congo ha condotto un’indagine durata 28 mesi con oltre 130 interviste sul campo. Il progetto è stato realizzato con la collaborazione del Centre d’Aide Juridico-Judiciaire, un centro congolese specializzato in diritti del lavoro. Il risultato dell’inchiesta è una fotografia da abbinare a quella dei camion gialli sul bordo della miniera: sfruttamento, maltrattamenti, paghe avare, razzismo. I nuovi colonizzatori - “Da quando sono arrivati i cinesi” ha raccontato un lavoratore “stiamo peggio di prima”. Calci, insulti, botte: “Sono i nuovi colonizzatori”. Anneke Van Woudenberg, direttrice esecutiva di Raid, ha allargato il tiro: “L’industria mineraria sostiene di operare in maniera pulita e sostenibile senza abusi dei diritti umani. Ma questa lettura non corrisponde alla realtà. La transizione verde non deve avvenire grazie allo sfruttamento dei minatori congolesi”. Pierre mostra al fotografo di Raid due piccoli paninetti: sono l’unica razione di cibo quotidiano fornita ai lavoratori alla Tenke Fungurume Mine, all’80% di proprietà della cinese CMOC. Lo stipendio base di Pierre è di 3,5 euro al giorno. Se si ammala per più di due giorni, niente paga. “E devi stare zitto altrimenti sei licenziato. Il rapporto di lavoro è quello tra schiavi e padroni”, ha raccontato a Pete Pattisson del quotidiano The Guardian. Telefonini insanguinati - Il coltan dei nostri telefonini viene (anche) dal Kivu insanguinato da mille conflitti. Il regno del cobalto è nel Sud del Congo, lontano dalla zona dell’eterna guerra nel Nord-Est del Paese con epicentro Goma (dove il 22 febbraio di quest’anno è stato assassinato il nostro ambasciatore Luca Attanasio). Kolwezi è la sua polverosa capitale. La grande città più vicina è Lumumbashi, che porta il nome del grande premier riformatore Patrice Lubumba (fatto fuori nel 1961 da mercenari belgi per conto dell’ex amico e futuro dittatore Mobutu con il beneplacito dell’Occidente). Cosa direbbe Lumumba visitando le miniere a cielo aperto di Kolvezi? Guarderebbe ai camion in bella fila o ascolterebbe le parole di Pierre accettando uno dei suoi due panini quotidiani? Cosa direbbe ai rappresentanti delle grandi case automobilistiche quando sostengono che la loro filiera del cobalto è sostanzialmente pulita? Il cobalto estratto nella miniera dove lavora Pierre secondo il Guardian termina alla fin della filiera nelle batterie al litio che vanno a caricare i mezzi dei principali produttori di auto elettriche (comprese Tesla, VW, Volvo, Renault e Mercedes-Benz). Le ditte intermediarie - Vero che negli ultimi tempi da parte di queste aziende si è registrato uno sforzo per migliorare la situazione (e togliere le mani dei bambini dall’attività estrattiva). Ma il nodo più problematico (o se volete la foglia di fico) sta nel fatto che almeno il 57% dei lavoratori in questione (secondo il rapporto di Raid) viene assunto da ditte intermediarie, subcontractor. Da qui la linea di difesa dei Big: sono loro i responsabili, cosa c’entriamo noi se le condizioni di lavoro per estrarre il nostro “cobalto certificato” sono inaccettabili? E pensare che Pierre e i suoi colleghi di lavoro la certezza di un reddito ce l’hanno comunque assicurata. I minatori artigianali lavorano in un Far West dove possono guadagnare anche di più oppure morire nel crollo di una galleria. E sono ancora la grande maggioranza. Nelle sue due miniere, il gigante Glencore ha in tutto 15 mila dipendenti. Gli artigianali, secondo una stima di un inviato dell’ Economist a Kolwezi, potrebbero essere 200 mila. Gente come Claude Mwansa, che al mese riesce a guadagnare l’equivalente di 50 dollari (in Congo il 70% degli abitanti vive con 2 dollari) scavando abusivamente nei siti delle grandi imprese. Al mattino quelli come lui controllano il prezzo del cobalto al telefonino sulla ruota del London Metal Exchange. Poi via sui motorini, con picconi e arnesi di fortuna. E alla sera il suo raccolto (come quello dei minatori bambini) finirà nei sacchi degli intermediari sulla via principale di Kolwezi. Mercanti cinesi, naturalmente.