Carcere, tra Covid e sovraffollamento: l’Italia prenda esempio dall’Europa di Luca Cereda Vita, 15 dicembre 2021 Dallo scenario delle carceri italiane all’arrivo del Covid-19 al quello che il nostro Paese avrebbe potuto “importare” copiando alcuni paesi dell’Unione dove sono state introdotte misure esterne o alternative allo stare in carcere che hanno funzionato contro la diffusione del contagio. Le conseguenze della pandemia da Covid-19 sul mondo della sanità, del lavoro, dell’istruzione, sulla disparità di genere, su quelle sociali e su molti altri aspetti legati alla qualità della vita, hanno colpito più duramente rispetto ad altri creando anche nuove sacche di povertà. Tra i gruppi di persone che hanno subito in modo più pensante le conseguenze della pandemia vanno sicuramente inclusi i detenuti. Openpolis ha raccolto i dati su 32 Paesi europei che mostrano come le prigioni hanno gestito l’attuale pandemia, dai contagi negli istituti di pena, alle soluzioni adottate per evirarli, in particolare i quei paesi, come l’Italia, in cui il sovraffollamento è endemico. I numeri sono stati confrontati con quelli dell’Associazione Ristretti Orizzonti e mostrano quanto l’Italia avesse vicino a casa, in Europa, spunti ed esempi su come gestire la pandemia nelle carceri. Il sovraffollamento, prima della pandemia - Per quanto le carceri siano pensate come ambienti isolati e quindi in un certo senso protetti dall’esterno, la loro condizione di sovraffollamento cronico - nel Belpaese, ma anche in alcuni paesi del Vecchio continente - ha infatti comportato molte difficoltà nella gestione del virus. Sia dal punto di vista sanitario che sociale. Secondo l’associazione Ristetti Orizzonti, l’emergenza sanitaria ha avuto l’effetto di riproporre e acuire alcuni dei problemi strutturali, connaturati per com’è pensato il sistema detentivo italiano. Prima dello scoppio della pandemia a inizio 2020, nelle strutture penitenziarie del nostro paese erano recluse più di 62mila persone. Ma a fronte di poco più di 40mila posti. Il sovraffollamento carcerario, ovvero l’eccesso nel numero di detenuti effettivi rispetto alla capienza regolamentare dell’istituto, è una condizione che accomuna vari paesi membri dell’Ue. Anche se il “mal comune” non è affatto “mezzo gaudio”. È, riducendolo alle fondamenta, un problema di spazi, ed è esploso per via di un virus che si trasmette stando vicini e in assenza di dispositivi di protezione. Un fenomeno, quello del sovraffollamento che in Italia fa registrare il dato peggiore d’Europa, con circa 120 detenuti ogni 100 posti disponibili, superato negativamente solo da Cipro (134,6 su 100). Lo scenario delle carceri italiane all’arrivo del Covid-19 - Aggiungiamo qualche altro dato al quadro su cui si è innestata la pandemia: la Lombardia è anche - oltre che la più colpita dalla prima ondata di coronavirus - la regione in cui, in numeri assoluti, è recluso il numero più elevato di persone (7.763) oltre a disporre della maggiore capienza (6.139 posti), ed è anche la regione con più detenuti rispetto alla capienza regolamentare delle sue strutture (1.624 detenuti in più rispetto ai posti disponibili), essendo anche la regione più popolosa d’Italia. Solo in 7 regioni italiane (circa 1 su 3) le carceri non sono sovraffollate. La detenzione è già di per sé una condizione problematica e drammatica per le persone che la vivono, sia per ciò che possono subire nelle carceri, a livello mentale e fisico, sia per le gravi difficoltà di reinserimento nella società una volta usciti, che spesso portano a recidive. In Italia con l’avvento della pandemia e le rivotò avvenute in alcune carceri da parte dei detenuti che pretendevano chiarezza sulle ulteriori restrizioni dietro le sbarre - anche per via di situazione socio-sanitarie non prese in carico a dovere - hanno subito fine tragica: le rivolte hanno infatti coinvolto circa 6mila prigionieri in 49 diversi istituti e che hanno portato alla morte di 14 di loro, oltre che al ferimento di più di 40 agenti della polizia penitenziaria, alla distruzione di intere sezioni di alcune strutture carcerarie e all’evasione di decine di persone detenute nel carcere di Foggia. Le misure prese dai sistemi penitenziari europei - Se nel primo momento della pandemia i contagi nelle prigioni erano molto contenuti, è bastato poco perché la situazione esplodesse. L’Italia, come tutti gli altri paesi Ue ha affrontato la questione introducendo una serie di misure perlopiù restrittive, prima ancora dell’introduzione del lockdown generale. Con queste premesse [sovraffollamento, scarse condizioni igienico-sanitarie tra cui la quasi assente areazione delle prigioni], i governi hanno messo in atto diverse misure per evitare l’ingresso del virus negli istituti e, più raramente, per diminuire il numero dei detenuti. Misure che come in Italia purtroppo non hanno avuto in molti casi un ampio respiro e una valenza sistematica, ma si sono limitate al contrasto emergenziale. Il tutto mentre nel nostro paese sono stati sospesi i colloqui con i familiari e gli ingressi esterni di persone con cui i detenuti svolgevano attività lavorative, educative, formative e ricreative, tra cui i volontari. E con la proclamazione dello stato di emergenza, queste misure si sono poi ulteriormente inasprite. In alcuni paesi dell’Unione sono state introdotte misure esterne o alternative allo stare in carcere che hanno funzionato contro la diffusione del contagio. La Francia e la liberazione anticipata dei detenuti a fine pena - Un esempio da cui l’Italia avrebbe potuto - e potrebbe - prendere spunto è la Francia: Oltralpe la popolazione detenuta è scesa da 72.575 detenuti del 15 marzo 2020 (dopo aver ricevuto una condanna da parte della CEDU nel gennaio 2020 proprio per il sovraffollamento e le condizioni di detenzione) a 58.695 detenuti il 1 luglio 2020. Questo risultato è stato ottenuto grazie a un utilizzo più esteso della liberazione anticipata per i detenuti a fine pena e la riduzione dell’attività giudiziaria. Tuttavia questo fenomeno anche se con numeri inferiori, questo è avvenuto in Italia, ma dopo la prima ondata pandemica, la popolazione detenuta è tornata a crescere fino ad arrivare a 62.673 unità il 1 gennaio 2021. Mantenendo il modello di scarcerazione per chi è a fine pena il numero può restare vicino - quantomeno - anche in Italia al numero di posti in carcere. Quando l’educazione va di pari passo con la ri-educazione (del reo) - Durante la pandemia la scuola in presenza ha conosciuto interruzioni in quasi tutti gli Istituti (nel 94% del totale). Nel 60% delle carceri le attività in presenza sono state interrotte per almeno 3 mesi, cioè per almeno 1/3 dell’anno scolastico. Sono pochi i casi in cui è stata garantita la Didattica a distanza (Dad), a differenza di quanto avvenuto all’esterno. All’andamento irregolare della attività scolastiche, ha corrisposto un alto tasso di abbandono scolastico: ancora peggio è andata nelle carceri, dove nel 20% degli istituti e dei corsi monitorati almeno 1 studente su 3 ha abbandonato la scuola. Il 33%. Diversamente in Germania in un periodo di chiusura e di stallo delle attività lavorative all’esterno, ma anche all’interno degli istituti di pena, la volontà dei detenuti di seguire corsi di formazione, linguistica, ma anche pratica e teorica è aumentata. E alla domanda ha fatto seguito una risposta: la proposta di almeno cento nuovi corsi, soprattutto di tedesco, ma anche di discipline pratiche e di quelle teoriche. È da sottolineare come questo sia stato possibile grazie alla digitalizzazione avanzata nella maggioranza dei penitenziari tedeschi, che certo è un merito rispetto all’analfabetismo tecnologico e digitale che ancora oggi, nonostante la pandemia affligge la maggioranza delle carceri italiane, nelle quali i cellulari con le schede sim per le videochiamate sono entrate spesso grazie alle associazioni di volontariato. Il rapporto tra detenuti e personale penitenziario in Italia è tra i migliori in Europa - Le nostre carceri però rimangono indietro per quanto riguarda l’offerta di servizi educativi ai detenuti, fondamentali per dare attuazione concreta al principio costituzionale secondo cui le pene hanno una finalità rieducativa. In Italia, infatti, l’84% dello staff carcerario si occupa esclusivamente della custodia dei detenuti, contro una media europea del 61%. Gli addetti alle attività educative rappresentano l’1,9% del totale, a fronte di una media del 3,3%. Al momento sono in servizio nelle carceri 733 educatori, mentre il numero previsto è di 896: ne mancherebbero, quindi, circa un quinto. Gli agenti di Polizia penitenziaria attualmente impiegati sono invece 36.939, circa 240 in meno rispetto alle 37.181 indicate dal Ministero della Giustizia come “dotazione organica” per il settore nel 2017: ne mancherebbero, insomma, meno dell’1%. Ergastolo ostativo, strappo alla Camera di Errico Novi Il Dubbio, 15 dicembre 2021 Battaglia sugli emendamenti alla legge chiesta dalla Consulta. Annibali (IV) e Pittalis (FI): “Testo base da cambiare, va contro la Corte”. Da Miceli (Pd) e Ferraresi (5S) proposte che danno meno chances alle istanze dei condannati per 416 bis. Ci sarà battaglia, anche se i toni non sono da conflitto atomico. Sulla legge che dovrà riportare l’ergastolo ostativo nel perimetro della Costituzione, la commissione Giustizia della Camera resta divisa, e i 121 emendamenti depositati ieri (il termine era alle 18) lo confermano. Ci sono due linee di pensiero contrapposte. Da una parte uno schieramento garantista, più circoscritto del solito, composto essenzialmente da Forza Italia e Italia viva. Dall’altra un fronte intenzionato a rendere il più possibile rigidi i paletti per l’accesso degli ergastolani di mafia e terrorismo alla liberazione condizionale: ne fa parte il Movimento 5 Stelle e non ne è estraneo il Pd, che ha condiviso con i pentastellati alcune proposte di modifica (in tutto i dem ne hanno firmate 17). Dallo stesso lato della barricata si trova Fratelli d’Italia, pronta a rivedere il principio costituzionale per cui la pena ha un fine rieducativo. E la stessa Lega, al momento del voto, potrebbe voltare le spalle all’ala moderata. Resta dunque complicato il quadro della legge all’esame di Montecitorio, e che dovrebbe recepire l’invito della Corte costituzionale: scrivere norme in grado di introdurre senza traumi, nell’ordinamento penitenziario, l’accesso degli ergastolani ostativi al più importante dei benefici, la liberazione condizionale, anche in assenza di collaborazione con la giustizia. La Consulta ha dato tempo al Parlamento fino al 10 maggio 2022. E ha chiesto di tradurre un principio: la mancata collaborazione non può autorizzare una “presunzione assoluta” del persistente legame fra il condannato e la cosca, e non può dunque precludere sempre e comunque la liberazione. Se le Camere non rispondessero alla chiamata, nell’udienza fissata in primavera la Consulta potrebbe trovarsi costretta a tradurre i principi già espressi in una vera e propria sentenza demolitoria dell’articolo 4 bis. Eppure, arrivare a una legge non sarà facile. C’è un testo base: lo ha scritto il relatore Mario Perantoni, del Movimento 5 Stelle, che è anche presidente della commissione Giustizia. Ci sono però linee totalmente divergenti su come modificarlo. “Abbiamo depositato poco fa emendamenti che, innanzitutto, rimettono in equilibrio l’onere della prova”, spiega Lucia Annibali, capogruppo di Italia Viva in commissione. “Secondo il teso base del presidente Perantoni, l’onere ricade in gran parte sull’allegazione documentale richiesta al condannato, mentre noi riformuliamo quel primo articolo in modo da ribadire che l’accertamento spetta al magistrato, e che lo stesso giudice deve acquisire in termini di ragionevole probabilità, e non di certezza, elementi tali da desumere l’assenza di legami fra il condannato e il contesto criminale”. Annibali spiega che “non ha senso costruire la nuova legge come se dovesse rappresentare una reazione contraria alla pronuncia della Consulta: si deve andare nella direzione indicata dal giudice delle leggi. Ecco perché proponiamo di sfrondare il testo da formule troppo pesanti e, soprattutto, ripristiniamo una specifica fattispecie, la collaborazione inesigibile, cioè l’accesso alla liberazione consentito nel caso in cui il condannato non collabori perché non può fornire alcun elemento, ad esempio quando la cosca di cui faceva parte non esiste più”. Una scelta “netta”, come quella compiuta da Annibali anche con la proposta di “eliminare l’assolvimento integrale delle obbligazioni civili: è un’altra forzatura del testo base che, come tentai di segnalare in commissione, si tradurrebbe in un mero ostacolo procedurale. Chiediamo di far riferimento a condotte riparative in senso più ampio”. Italia Viva non è sola. Troverà dalla propria parte Forza Italia, altro partito che, come spiega il deputato azzurro Pietro Pittalis, non intende “andare contro la direzione indicata dalla Corte costituzionale: sull’assenza di legami col contesto criminale di origine può essere prevista una ragionevole probabilità, non la certezza, espressione che genera una probatio diabolica. È il senso di alcuni dei nostri 19 emendamenti. Va evitata una sfida alla Consulta che, in assenza di una nostra legge, sarebbe costretta a conclusioni inevitabilmente più estreme di quelle che alcuni partiti pensano di poter aggirare”. I pentastellati la guardano da un altro punto di vista. Perantoni fa notare di aver già “asciugato al massimo il testo base in modo da consentire a tutti di arricchirlo con proposte emendative”. E secondo il deputato del Movimento Vittorio Ferraresi, “l’inversione dell’onere della prova, prevista nel nostro testo originario, è già stata superata”. Poi conferma: “Abbiamo presentato un emendamento che attribuisce al Tribunale di Sorveglianza di Roma la competenza per giudicare le istanze degli ergastolani ostativi di mafia e terrorismo”. È un aspetto sul quale il dem Carmelo Miceli confida di poter “trovare un’intesa, in modo che a giudicare siano i Tribunali periferici”. Il deputato Pd segnala: “Tra le proposte condivise col Movimento c’è quella che distingue i reati associativi da quelli monosoggettivi, o che comunque non hanno il fine di rafforzare l’associazione criminale. Anche per i primi la presunzione negativa legata alla mancata collaborazione non è più assoluta, ma li si tratta in modo diverso”. Difficile invece che il Pd possa aderire a emendamenti come quello di Annibali sulla collaborazione inesigibile. Ed è chiaro che, fra asse garantista e giallorossi, la distanza è totale su più di un passaggio. “Ma noi abbiamo il dovere di approvare una legge in tempo per l’udienza fissata a maggio dalla Consulta”, dice Miceli. “Spero sia chiaro a tutti”. Ergastolo ostativo, il Parlamento sfida la Consulta? di Enza Bruno Bossio* Il Manifesto, 15 dicembre 2021 Sull’ergastolo ostativo in queste ore si va combattendo una battaglia contro il tempo e contro un fronte che si fa chiamare “antimafia” ma che in realtà difende un’impostazione di stato d’emergenza che contrasta con lo stato di diritto e con i valori fondanti della nostra democrazia. La Corte Costituzionale più volte, e in precedenza la Corte Europea dei diritti dell’uomo, hanno sancito che non può esistere il “fine pena mai”. Conseguentemente al legislatore italiano con ordinanza 97/2021 è stato affidato il compito di approvare entro maggio 2022 un nuovo testo che corregga la norma e possa ripristinare il dettato costituzionale dell’art. 27, affermando, nel diritto materiale, il fine rieducativo della pena. Già prima dell’ordinanza della Corte mi ero fatta promotrice di una proposta di legge che andasse a incidere nel nostro ordinamento nella direzione indicata dalla Corte stessa (A.C. n. 1951). Ma il procedimento legislativo non è agevole. Anzi, è ostacolato da un dibattito pubblico, politico e istituzionale, che si fonda sull’errata convinzione che l’ergastolo ostativo sia uno strumento per arginare le mafie. Non lo è in linea di principio e non lo è nei fatti. È urgente, pertanto, fare chiarezza su questo terreno: bonificare il dibattito da strumentalità e forzature interpretative utilizzate sia dal punto di vista giuridico che culturale. Innanzitutto i fatti ci dicono che le maglie dell’ergastolo ostativo oggi strozzano le vite di una popolazione carceraria che in maggioranza non sono i mafiosi più pericolosi. Su 54.530 detenuti, di cui 37.696 con condanna definitiva, 1.784 sono condannati all’ergastolo. Di questi, 1.267 sono ergastolani ostativi, ma solo 262 sono al 41 bis, e non tutti condannati per mafia (dati dicembre 2020). In più, leggendo il rapporto 2020 del Garante nazionale dei detenuti, l’uscita per liberazione condizionale di detenuti ergastolani dal 2019 al 2021 è stata di 5 persone. La narrazione sulla liberazione dei mafiosi pericolosi si infrange, dunque, sia sui numeri che sui fatti. L’ergastolo ostativo è stato piuttosto una risposta autoritaria dello Stato in un frangente storico emergenziale, con l’affermazione della perpetuità della pena detentiva per chi non fosse disposto a collaborare. A fondamento della previsione normativa dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario c’è infatti la condizione assoluta del condannato che non ha alternative alla collaborazione, sganciata da ogni valutazione sui singoli percorsi all’interno delle mura carcerarie, sulle singole attitudini al reinserimento sociale, sulle singole motivazioni che spingono o meno un detenuto alla collaborazione. Ma siamo sicuri che chi collabora lo faccia perché è uscito dall’apparato criminale? O di contro chi non è in grado di collaborare sia ancora dentro l’organizzazione mafiosa? Dunque nessuna “tana liberi tutti”. Quello che serve è piuttosto approvare una legge che conceda la possibilità di accedere ad un beneficio, previa accurata istruttoria, soppesando caso per caso e affidando al magistrato di sorveglianza il potere di definire la pericolosità o la mancata collaborazione di ciascun detenuto, ripristinando finalmente lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione, per come era stato correttamente scritto nel 2013 nel documento conclusivo della Commissione Giostra, in tema di ordinamento penitenziario. È auspicabile che l’aula della Camera, nelle prossime settimane, archivi dunque sia il precedente 4 bis, sia il nuovo testo base che si muove nella direzione opposta alle indicazioni della Corte, sapendo che comunque vada, come giustamente afferma Valerio Onida: “l’ergastolo ostativo nel senso in cui fino ad oggi l’abbiamo considerato, non ha più cittadinanza nel nostro ordinamento”. Se noi legislatori non saremo consapevoli di questa nuova condizione, ce lo ripeterà certamente la Corte Costituzionale dopo il 22 maggio. *Deputata del Pd Carceri, Covid-19: contagi in salita, ma è boom di vaccinazioni di Marco Belli gnewsonline.it, 15 dicembre 2021 Sale ancora il numero dei detenuti positivi al Covid-19 all’interno degli istituti penitenziari, anche se pressoché tutti i soggetti sono asintomatici. I dati dell’ultimo monitoraggio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornati al 13 dicembre 2021, registrano 239 detenuti positivi (43 in più rispetto alla scorsa settimana), a fronte di una popolazione reclusa di 54.059 unità effettivamente presenti. Soltanto due risultano sintomatici, mentre un terzo è ricoverato in una struttura ospedaliera. Tre sono gli istituti che presentano un cospicuo numero di positivi, tutti comunque asintomatici: a Santa Maria Capua Vetere, 45 detenuti e 6 poliziotti penitenziari; a Udine, 30 detenuti e 2 appartenenti al Corpo; a Taranto, 17 detenuti. Numeri al rialzo anche fra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, con 265 positivi (48 in più rispetto a sette giorni fa) e un solo ricoverato in ospedale. Salgono a 26 i contagi fra il personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione (6 in più rispetto alla scorsa settimana), con un solo ricoverato. Sul fronte delle vaccinazioni, l’Anagrafe Nazionale Vaccini del Ministero della Salute registra una forte impennata di dosi somministrate ai detenuti nell’ultima settimana: ben 2.639, che portano il totale delle somministrazioni a 88.311. Secondo il monitoraggio del DAP, alla data di ieri circa il 97% dei detenuti presenti o transitati negli istituti penitenziari ha ricevuto almeno una dose di vaccino anti-Covid; mentre il 74% dei detenuti ha ricevuto il ciclo completo. Variazioni di minore entità si registrano invece nei numeri relativi al personale a cui l’Amministrazione ha offerto l’opportunità di sottoporsi al vaccino in postazioni collocate all’esterno degli istituti o in altre sedi concordate con le ASL: sono rispettivamente 25.782 gli avviati alla vaccinazione fra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria e 2.848 quelli del comparto delle Funzioni Centrali. Dati ai quali occorre aggiungere il numero di quanti hanno scelto altre modalità per vaccinarsi. Più o meno stabile si mantiene il numero del personale assente ingiustificato, ai sensi del decreto-legge n. 127 del 21 settembre 2021 sulle Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde Covid-19 e il rafforzamento del sistema di screening: alla data di ieri erano 18 fra la Polizia Penitenziaria e 13 fra il personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione. La Corte Costituzionale al bivio: ritorno al manicomio giudiziario o grande riforma? di Franco Corleone, Giulia Melani, Katia Poneti, Grazia Zuffa Il Riformista, 15 dicembre 2021 Il 15 dicembre la Corte Costituzionale si pronuncerà su una istanza di un magistrato di Tivoli che ha sostenuto l’illegittimità della legge 81 del 2014, il provvedimento che ha disposto la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). La questione sollevata riguarda il passaggio di competenza della esecuzione delle misure di sicurezza dal Ministero della Giustizia alle Regioni, che gestiscono le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). La Corte con l’Ordinanza 131/2021 ha posto 14 quesiti al Governo sulle questioni aperte (riguardo in particolare alle liste di attesa per l’ingresso nelle REMS), allo scopo di avere tutti gli elementi per una decisione che si preannuncia difficile e contrastata. La chiusura degli OPG, una “rivoluzione gentile” - Per avere gli elementi di giudizio rispetto alla delicata questione, ricordiamo il percorso che ha condotto alla legge 81 del 2014. La legge che ha determinato il superamento della istituzione totale più ignobile, il manicomio giudiziario, è stata approvata sull’onda dello sdegno civile provocato dall’emergere della intollerabile realtà degli OPG, a seguito dell’iniziativa della Commissione Marino del Senato. L’orrore di quei luoghi provocò l’indignazione di molti, compreso il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che non esitò a definire gli Opg una istituzione indegna di un paese civile. Il Parlamento approvò dunque la legge 81, ma la sua applicazione si rivelò da subito difficile. Per superare i ritardi, il Governo nominò nel febbraio 2016 un Commissario unico per la chiusura degli OPG e un anno dopo si concluse quella che è stata definita “una rivoluzione gentile”. La riforma istituisce un nuovo sistema di presa in carico dei “folli rei” (le persone che hanno commesso un reato dichiarate “inferme di mente” e prosciolte): in cui le REMS dovrebbero rappresentare l’anello ultimo e residuale nelle offerte di cura da prestarsi di norma sul territorio. Le REMS non rappresentano dunque la sostituzione del OPG, poiché, nello spirito della riforma, la misura di sicurezza detentiva dovrebbe essere una extrema ratio. Proprio qui sta uno dei punti critici della riforma, poiché questo principio cardine, che segna la netta discontinuità con il modello precedente, appare ben poco applicato. Si determina perciò un conflitto fra lo spirito della legge e la sua concreta attuazione, alla base delle attuali difficoltà. Le REMS si differenziano dai precedenti OPG per alcune caratteristiche: il principio di territorialità, il numero chiuso, la messa al bando della contenzione e la gestione affidata al Servizio sanitario, senza la presenza di Polizia penitenziaria. In più, la misura di sicurezza detentiva (in REMS) ha un limite temporale. La gestione sanitaria delle REMS, col rispetto rigoroso del numero massimo di posti previsti per ciascuna struttura, ha garantito cure adeguate e programmi di reinserimento efficaci. Si sono però verificate liste di attesa di soggetti che hanno commesso reati e sono destinati alle REMS (persone valutate incapaci di intendere e volere, perciò prosciolte per “infermità mentale”; in più giudicate pericolose socialmente e in quanto tali destinate alle misure di sicurezza detentive da eseguirsi nelle REMS). Le liste di attesa per le REMS, le risposte giuste e quelle sbagliate - La presenza delle liste di attesa non è imputabile alla carenza di posti nelle REMS, né tantomeno alla gestione sanitaria che impone il numero chiuso per rispettare la qualità delle cure prestate; ma piuttosto al principio di extrema ratio della misura di sicurezza detentiva che la legge ha sancito, ma largamente disatteso nella pratica giudiziaria. Si è verificata una proliferazione di pronunce di pericolosità sociale con indicazione di misura di sicurezza detentiva che hanno saturato le REMS, con in più una percentuale abnorme di misure di sicurezza provvisorie (l’equivalente di una detenzione cautelare). Questo eccesso di ricorso alle misure di sicurezza provvisorie (in contrasto - lo ripetiamo- con la previsione della legge 81) è stato censurato dal Consiglio Superiore della Magistratura nell’aprile 2017. Anche il Comitato Nazionale di Bioetica, in ben due pareri, ha ripreso queste raccomandazioni (La cura delle persone con malattie mentali, settembre 2017; Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere, marzo 2019). Da qui scaturisce il problema della presenza in carcere di persone prosciolte in attesa di trovare disponibilità in REMS, falsamente imputato alla “carenza di posti” in REMS. Su queste presenze, occorre un approfondimento. In primo luogo, queste persone erano detenute in carcere poiché sottoposte a custodia cautelare: la loro posizione cambia quando un giudice, o spesso un PM, in seguito a una perizia psichiatrica, decide di trasformare la custodia cautelare in misura di sicurezza provvisoria, senza considerazione della fattibilità e senza individuare una soluzione alternativa non detentiva (sulla base del principio della REMS come extrema ratio). Basti pensare al caso sollevato dal Giudice di Tivoli: davvero non era possibile alcuna misura non detentiva per una persona imputata per aver lanciato un cartone di vino contro il sindaco senza peraltro colpirlo? Davvero la pericolosità sociale di chi ha commesso un reato così bagatellare non può essere contenuta che rinchiudendolo in una REMS? La condizione di chi permane in carcere illegittimamente è senza dubbio grave, tanto più che ad oggi in carcere il trattamento dei detenuti con patologie legate alla salute mentale non è affatto ottimale e le cosiddette articolazioni di salute mentale sono più simili a manicomi che a luoghi terapeutici. Occorre, però, mettere a fuoco il problema reale (il crescente ricorso a misure di sicurezza detentive) e non promuovere soluzioni, come l’aumento delle REMS e la loro gestione penitenziaria (invece che sanitaria), che ripropongono un ritorno all’OPG. Colpisce certo, che l’attenzione rivolta alla cura delle persone in lista d’attesa in carcere non sia la stessa rivolta alla cura di tutti i detenuti con problematiche di salute mentale, così come colpisce che le anime belle che gridano allo scandalo delle liste di attesa non segnalino la presenza di una REMS a Castiglione delle Stiviere che per dimensioni, collocazione e struttura rimane un reperto della archeologia criminale. Niente di nuovo sotto il sole. Basta ricordare le polemiche contro la 180 che venne accusata per anni di avere causato l’abbandono e la morte dei dimessi dai manicomi e la sofferenza delle famiglie, per capire le profonde radici della istituzionalizzazione. Se la Corte Costituzionale accogliesse il ricorso, torneremmo al manicomio giudiziario, cancellando una prova di civiltà e di umanità. Forse la Corte troverà un modo per uscire dall’impasse, suggerendo pratiche per risolvere le inevitabili contraddizioni. Dopo l’OPG: è ora di riformare il Codice Penale - Per risolvere la situazione delle REMS, un primo intervento è stato assunto, seppure in ritardo: nel dicembre 2021 è stato insediato un Organismo di Coordinamento che dovrà affrontare e risolvere le criticità che inevitabilmente si sono prodotte, considerando i diversi interlocutori delle 32 Rems presenti nelle regioni (Asl, magistrati di sorveglianza, prefetture, Dipartimenti Salute Mentale). In secondo luogo, va ingaggiata una battaglia culturale per la corretta attuazione della legge che ha chiuso gli OPG. Più alla radice, bisogna fare un passo avanti, dalla “rivoluzione gentile” ad una riforma complessiva che affronti il nodo del proscioglimento per infermità mentale. Il limite della legge attuale è stato quello di operare una riforma senza toccare il Codice Penale, il Codice Rocco fondamento del regime fascista. La soluzione legislativa elaborata dalla Società della Ragione è stata presentata da Riccardo Magi alla Camera dei Deputati (proposta di legge n. 2939): la proposta abolisce il “doppio binario” e istituisce il diritto di ogni persona al giudizio, contro ogni presunzione di “irresponsabilità”. Ma il destino delle persone con disabilità psicosociali non dovrà comunque essere il carcere, facendo leva sul diritto a cure adeguate, tramite misure alternative individualizzate. La Corte Costituzionale deve scegliere. Senza prefigurare il ritorno all’inferno. Sleghiamoli da quei letti di Luigi Manconi La Repubblica, 15 dicembre 2021 La morte del 26enne tunisino Wissem Ben Abdel Latif riapre il dibattito sul ricorso ai “mezzi di contenzione” negli istituti carcerari ma anche nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, nelle Rsa e nei reparti di neuropsichiatria infantile. Una misura prevista dalla legge che la riforma Basaglia del 1978 ha abrogato, eppure quello strumento di coercizione non solo è sopravvissuto, ma sembra essersi ancor più diffuso. Il direttore del carcere di Nisida, istituto penale per minorenni, ha chiesto all’Asl di Napoli di poter disporre del “presidio sanitario idoneo a contenere due ragazze” (in custodia cautelare) “alla luce dei quotidiani atti autolesivi posti in essere dalle stesse”. Tradotto, significa che la Direzione del carcere sollecita l’adozione del letto di contenzione per tenere sotto controllo le due minori e impedire che possano fare del male a sé stesse e ad altri. Il giurista Marco De Martino, che mi segnala quella richiesta, sottolinea come il ricorso ai “mezzi di contenzione” sia legittimo e - per quanto ci possa apparire irragionevole - previsto dal regolamento carcerario del 1975. Così come lo è nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc): secondo alcuni studi di qualche anno fa, nell’80% di essi si fa ricorso alla “contenzione meccanica”. E alcuni studi recenti ci dicono che l’utilizzo di quella pratica interesserebbe, nelle Residenze sanitarie per anziani (Rsa), decina di migliaia di ricoverati; e si diffonde nei reparti di neuropsichiatria infantile. La vicenda di Nisida fa venire alla mente la tragica fine della diciannovenne Elena Casetto, morta carbonizzata mentre si trovava legata, mani e piedi, a un letto, nell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Quando scoppia l’incendio, presumibilmente appiccato da lei stessa, la porta della stanza è chiusa a chiave dall’esterno. Da giorni Repubblica segue con grande attenzione quanto è accaduto a Wissem Ben Abdellatif, tunisino di ventisei anni che, mentre era trattenuto nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, alle porte di Roma, manifestava segni di sofferenza psichica. Ricoverato prima al Grassi e poi al San Camillo era stato legato, al letto di contenzione, in entrambi gli ospedali, in quanto appariva “agitato, confuso, smarrito” e “aggressivo”. Così, caviglie e polsi serrati da fasce, Wissem è morto al San Camillo dopo oltre 61 ore di costrizione. Il documento sanitario, chiamato “registro delle contenzioni”, riporta in modo assai approssimativo l’orario di inizio del trattamento e quello del decesso: il che autorizza a pensare che la contenzione sia stata ininterrotta. Non è la sola anomalia: la mancata comunicazione ai familiari - evidenzia l’avvocato Francesco Romeo - ha fatto sì che all’autopsia non fossero presenti i consulenti di parte. Dunque, la domanda che si impone è semplice e brutale: è possibile che, nelle democrazie mature e nei sistemi sanitari più avanzati del mondo, quale quello italiano, non si conoscano mezzi più intelligenti e razionali, e rispettosi della dignità, per controllare la “agitazione” del paziente? La contenzione era prevista dalla legge che la riforma Basaglia del 1978 ha abrogato, eppure quello strumento di coercizione non solo è sopravvissuto, ma sembra essersi ancor più diffuso. E sempre in nome dello “stato di necessità”: così che, quella che dovrebbe essere una circostanza eccezionale e una extrema ratio, è diventata la prassi per fronteggiare qualsiasi attrito, tensione, rifiuto e sottrazione da parte del paziente. Era il 2009 quando il maestro elementare Franco Mastrogiovanni morì nel letto di contenzione, al quale era stato crocefisso per 87 ore, nel reparto di Diagnosi e cura dell’ospedale di Vallo della Lucania. In realtà, le ore erano 93, perché, dopo il decesso, il cadavere rimase ancora a lungo legato al letto. Nel 2018, la Cassazione ha condannato in via definitiva, per sequestro di persona, sei medici e undici infermieri. Eppure, la sentenza non ha bloccato quella che sembra una irresistibile tendenza all’uso massiccio di quella pratica inumana. Per contro, nel 2015, il Comitato Nazionale di Bioetica redige un parere assai severo in materia. Vi viene raccomandata la predisposizione di “programmi finalizzati al superamento della contenzione, nell’ambito della promozione di una cultura generale della cura, rispettosa dei diritti”. Nel 2012 prende le mosse la campagna nazionale “...E tu slegalo subito” (da una affermazione di Franco Basaglia), che elabora un documento programmatico, approvato successivamente dal Tavolo tecnico sulla Salute Mentale del ministero della Salute. In quell’occasione (giugno 2021), il ministro Roberto Speranza ha manifestato la volontà di operare per superare la contenzione meccanica entro il 2023. E appena qualche giorno fa, la Corte Europea dei Diritti Umani ha ammesso il ricorso presentato dai legali di un giovane, allora diciannovenne, che nel 2014 era stato legato continuativamente a un letto di ospedale per otto giorni. Perché ciascuno di noi possa rendersi conto, nelle fibre del proprio corpo, cosa significhi essere “contenuto”, proviamo a immaginare di trovarci in quella condizione e in quella posizione non per interminabili otto giorni, bensì per appena otto ore. O anche solo per due. Rinnovamento nello Spirito Santo: al via la 3 edizione del Progetto “Auxilium” di Francesca Cipolloni rinnovamento.org, 15 dicembre 2021 “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25, 35-36). Non possono esserci parole più appropriate che quelle custodite dal Vangelo di Matteo per ‘descrivere’ il senso del progetto “Auxilium”, avviato nel 2017 dalla Fondazione Alleanza del Rinnovamento nello Spirito Santo onlus (https://www.fondazionealleanza.org), e rivolta ai nuclei familiari di detenuti che si trovano in forte stato di disagio economico. È fatto noto che le famiglie di quanti vivono l’esperienza della detenzione si trovano spesso in condizioni di grave sofferenza economica, in quanto chi si trova in carcere rappresenta, potenzialmente, la principale fonte di reddito della famiglia. Di conseguenza, e non di rado, purtroppo, ciò implica che tali famiglie siano sostenute dalla criminalità stessa: è così, quindi, che si crea un debito di riconoscenza con il mondo della malavita, alimentando di fatto un pericoloso circuito nel segno dell’illegalità. Per questo “Auxilium” - realizzata in collaborazione con il DAP (Direzione Generale Detenuti e Trattamento), l’Associazione Rinnovamento nello Spirito Santo, l’Associazione Prison Fellowship Italia onlus (https://www.prisonfellowshipitalia.it/) ed il patrocinio di Caritas Italiana - si pone come iniziativa virtuosa, incentivando le forme di sostegno alle famiglie dei detenuti che, esattamente come le pene alternative o il lavoro in carcere, rappresentano un importante investimento sociale: le recidive (detenuti che escono e tornano a delinquere) che normalmente si attestano intorno al 70%, si abbattono fino al 4,5% quando i detenuti, oltre a scontare la pena, vengono aiutati e accompagnati in processi di riabilitazione. L’impegno della Fondazione Alleanza del RnS - La Fondazione Alleanza del Rinnovamento nello Spirito Santo ETS, quale ente morale e senza scopo di lucro, ispirandosi ai principi della Dottrina Sociale della Chiesa persegue da sempre esclusive finalità di solidarietà e inclusione sociale. Agisce dunque promuovendo, in primis, la testimonianza della carità, della giustizia sociale e della pace in ogni ambito, contesto e iniziativa, avendo sempre come punto di riferimento il raggiungimento del bene comune. Con questo orientamento, il ‘cuore’ della sua mission consiste nel: promuovere la progettazione di attività e iniziative per il riconoscimento dei diritti e delle condizioni essenziali per l’inclusione sociale di ogni persona, in particolare quelle più debole e svantaggiate, specialmente famiglie; favorire, sulla base dei principi ispiratori, lo sviluppo integrale dell’uomo, che si rende concreto in progetti e azioni di solidarietà sociale e di cooperazione internazionale e che sono in grado di rispondere alle istanze di aiuto e di sostegno delle fasce più deboli della popolazione dei luoghi dove si trova ad operare; orientare il proprio impegno soprattutto a favore dei nuclei familiari, organizzando interventi dedicati proprio ad affrontare i bisogni più essenziali, materiali e immateriali; collaborare con le Istituzioni civili nazionali e internazionali per il raggiungimento delle proprie finalità. Cinque gli ambiti di intervento contemplati: solidarietà e inclusione sociale; educazione; assistenza sociale e socio-sanitaria; minori e famiglia; carcere. Come si struttura il Progetto “Auxilium” - È proprio sulla delicata realtà del carcere che si concentra il Progetto in questione, concepito a supporto di nuclei familiari di almeno 4 persone con un coniuge in regime di detenzione, con un familiare (preferibilmente figlio) disabile a carico e con un reddito prossimo o al di sotto della soglia di povertà?. Lo scopo di “Auxilium”, completamente sostenuto con le risorse del 5×1000 e finalizzato ad affrontare queste tre forme di disagio, è quello di assicurare un sostegno “economico” - non attraverso erogazione di denaro bensì attraverso la consegna a domicilio di beni e prodotti di prima necessità -, in modo da contrastare quelle dinamiche di indigenza e povertà materiale dovute a condizioni economiche estremamente complesse. L’iniziativa muove infatti da dati statistici inconfutabili: il 39,3% dei detenuti dichiara infatti che la propria famiglia può contare solo sul suo sostegno economico, il 24,5% che ne è la principale e, nell’80% dei casi, la carcerazione riduce in maniera sensibile o addirittura abbatte del tutto il reddito familiare disponibile, poiché chi non lavora in carcere (percentuali molto basse), non può inviare soldi a casa e, di conseguenza, concorrere alle spese di prima necessità della propria famiglia. Il Progetto è giunto ora alla terza edizione e gode di risultati significativi: nella prima, distribuiti su tutto il territorio nazionale, ha visto difatti la partecipazione di 103 nuclei familiari con 31 domande accolte, mentre nella seconda ne sono pervenute 72 con 30 beneficiari effettivamente presi in carico. Il piano di intervento prevede l’erogazione di crediti spesa dell’importo di 200 euro (300 euro per il mese di dicembre) per l’acquisto di beni di prima necessità (generi alimentari e prodotti per l’igiene personale e della casa). Quanto alla modalità di partecipazione, le famiglie fanno richiesta del contributo partecipando al bando pubblicato dalla Fondazione e diffuso in tutti gli Istituti penitenziari d’Italia. È il team dei collaboratori preposti ad assistere poi la famiglia nel formulare l’ordine, guidandola per usufruire dei buoni nella maniera più opportuna. Ad oggi, per la terza edizione, le richieste pervenute sono 85, 40 quelle selezionate (dieci in più rispetto alla precedente edizione). Diverse le zone di provenienza da tutto il Paese: si va dalla Lombardia, dal Veneto, dall’Emilia Romagna e dalla Toscana al Lazio e alla Campania, dal Friuli Venezia Giulia, dalla Liguria, dal Piemonte e dal Trentino Alto-Adige alle Marche, all’Umbria, all’Abruzzo e al Molise, fino ad arrivare in Puglia, Calabria e Sicilia. Un impegno e uno sforzo economico notevole da parte della Fondazione, dunque, mirati a non lasciare indietro e solo nessuno. Per sostenere l’iniziativa è possibile consultare: https://rinnovamento.org/progetti/progetto-auxilium/ Sostegno e vera prossimità in tempo di pandemia. La pandemia, con l’emergenza sanitaria su scala mondiale, ha evidentemente inciso profondamente sulla crisi sociale e ogni tipo di economia. Nitida è consapevolezza che il Covid-19 ha pesantemente investito vite umane, rapporti sociali, acuendo anche le povertà pre esistenti e, come emerso dal “Rapporto 2021 su povertà ed esclusione sociale” diramato lo scorso ottobre, cominciano ad affacciarsi i cosiddetti “nuovi poveri”. Un quadro drammatico, posto in luce anche dalle parole di Papa Francesco che, nell’Udienza generale del 26 agosto 2020, ebbe a dire: “La pandemia ha messo in rilievo e aggravato i problemi sociali, soprattutto la disuguaglianza. Noi stiamo vivendo una crisi. La pandemia ci ha messo tutti in crisi…dalla crisi o usciamo migliori o usciamo peggiori. È necessario recuperare la realtà della giustizia sociale mettendo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo”. Una speranza che si concretizza, in “Auxilium”, a partire dal rapporto diretto che si instaura con tutte le famiglie che procedono all’ordine previsto dal bando. “Avere la spesa a casa è stato di grande aiuto soprattutto in questo periodo di lockdown per mancanza di lavoro e impossibilità di uscire”, “È l’unico aiuto che abbiamo. Abbiamo potuto pagare le utenze e sostenere delle spese mediche”, “Aspettiamo il pacco mensile. È un grande aiuto perché non lavoriamo”, “Grazie a voi riusciamo a mangiare”, “I pacchi arrivano con regolarità. Non manca niente. È un aiuto in più viste le difficoltà economiche che viviamo. Ringraziamo di cuore la Fondazione!”, sono alcuni dei feedback che arrivano da coloro che, pur dovendo convivere con una situazione di disagio e sofferenza, sanno di poter contare su un ausilio, come evoca il nome stesso del Progetto, votato ad un’autentica prossimità verso i più vulnerabili, superando sempre più la logica della “cultura dello scarto”. Giustizia riparativa, il messaggio che arriva da Venezia di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 15 dicembre 2021 Curare le ferite, ricostruire le relazioni per contrastare i processi di radicalizzazione, dice la ministra Cartabia che ha chiuso ieri la conferenza del Consiglio d’Europa. La raccomandazione finale per gli Stati membri perché accolgano nei loro sistemi di giustizia penale questi strumenti che vanno oltre la punizione e il perdono. Si è svolta a Venezia, ieri e l’altro ieri, la prima conferenza ministeriale sotto la presidenza italiana del Consiglio d’Europa (partita lo scorso 17 novembre). A riunirsi a Venezia, in particolare, sono stati i ministri della giustizia di tutti i Paesi che compongono il Consiglio; l’argomento della conferenza era la giustizia riparativa. Fino ad alcuni anni fa, quasi nessuno avrebbe saputo dire di cosa si trattasse: la giustizia riparativa era un’idea, prima ancora che una pratica, quasi sconosciuta più o meno ovunque. Oggi lo è molto meno, ormai la giustizia riparativa è conosciuta e praticata in molti Paesi: in Italia come in Europa, e non solo in Europa. Del resto la stessa Conferenza dei giorni passati ha ripreso il discorso da dove lo aveva lasciato, da ultimo, la Raccomandazione numero 8 del 2018 del Comitato dei ministri del medesimo Consiglio d’Europa, che già incoraggiava gli Stati membri a promuovere la giustizia riparativa all’interno dei loro sistemi di giustizia penale. Di cosa parliamo, dunque, quando parliamo di giustizia riparativa? Parliamo, secondo la definizione contenuta appunto nella Raccomandazione del 2018, di un processo funzionale a consentire alle persone coinvolte in un reato - sia a quelle che lo hanno commesso, sia a quelle che lo hanno subìto - di partecipare attivamente, a patto di acconsentirvi in piena libertà, alla soluzione delle questioni che a partire da quel reato le oppongono le une alle altre, tramite l’aiuto di un soggetto terzo imparziale. Ed è vero che le definizioni incontrano sempre un limite nel fatto di voler chiudere in una clausola ciò che descrivono, ma qui la definizione ha il pregio di lasciar intendere molto bene la specialità dello sguardo della giustizia riparativa nel contesto del diritto penale: perché si capisce subito che il reato non viene più guardato come la pura e semplice violazione di una norma, quanto come un’esperienza di ingiustizia che frattura una relazione e procura una ferita. Ecco: la giustizia riparativa, come ha sottolineato la ministra italiana della giustizia Marta Cartabia in apertura dei lavori, scommette sulla possibilità di curare le ferite, di ricostruire le relazioni. Non le interessa il perdono, che riguarda le coscienze, né la punizione o l’assoluzione, che spetta ai tribunali infliggere o concedere: ciò che le interessa è cercare di mettere le parti l’una davanti all’altra, ciascuna nella condizione di poter raccontare all’altra la propria realtà, quale soggettivamente vissuta - ciascuna nella condizione di poter finalmente dare un volto ai propri fantasmi. Nel mondo, il modello più alto di giustizia riparativa che abbia mai visto la luce è quella della Commissione sudafricana per la Verità e la Riconciliazione; in Italia, è senza dubbio quello del confronto fra alcuni responsabili e alcune vittime della lotta armata fra gli anni settanta e ottanta, promosso qualche anno fa da Adolfo Ceretti, Guido Bertagna e Claudia Mazzucato (testimoniato poi da un volume memorabile, Il libro dell’incontro, da loro stessi curato). Ora la Dichiarazione finale della Conferenza di Venezia rappresenta, dal punto di vista della forza e della chiarezza delle sue parole, un passo ulteriore verso questi modelli rispetto alla Raccomandazione del 2018, tanto nelle sue premesse quanto nelle conclusioni. Nelle premesse, dove afferma il valore culturale e sociale tout court della giustizia riparativa, nella sua funzione di contrasto ai processi di radicalizzazione degli individui (dai quali deriva a sua volta la radicalizzazione delle violenze). Nelle conclusioni, dove invita tutti gli Stati membri a voler dare concretamente seguito alla Raccomandazione del 2018, sia nell’ambito della giustizia rivolta agli adulti sia nell’ambito di quella rivolta ai “giovani in conflitto con la legge”, anche attraverso una specifica formazione degli operatori del diritto e della polizia, e dove chiama il Consiglio d’Europa a favorire l’applicazione di principi comuni. Qualcuno forse dirà: è poco, sono solo auspici, sono considerazioni generiche. Tutt’altro, è moltissimo. Se ne può condividere o non condividere lo spirito, ma almeno una cosa sembra innegabile alla giustizia riparativa: il fatto di incarnare un ideale. È quello che dovrebbe sempre fare il diritto: non accontentarsi dell’esistente o del prevedibile, non ripiegarsi su di sé, ma tendere verso un orizzonte. E non esiste processo verso orizzonti ideali che non abbia bisogno, in primo luogo, di mutamenti culturali. Combattere il populismo penale con la giustizia riparativa: il buon metodo Cartabia di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 dicembre 2021 Implementare l’applicazione della giustizia riparativa nei rispettivi paesi. È questo l’impegno assunto dai ministri della giustizia dei paesi del Consiglio d’Europa nella dichiarazione approvata a conclusione del vertice tenutosi lunedì e martedì a Venezia. Si è trattata della prima conferenza dei ministri del semestre di presidenza italiana. Ad aprire e chiudere i lavori delle due giornate è stata la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che proprio alla giustizia riparativa ha deciso di dedicare un capitolo importante della riforma della giustizia penale italiana, già approvata dal parlamento in forma di legge delega. E’ sufficiente leggere la definizione del concetto di “giustizia riparativa”, fornita dallo stesso Consiglio d’Europa in una raccomandazione del 3 ottobre 2018, per comprendere come si sia di fronte a una potenziale rivoluzione culturale del modo di intendere il funzionamento e le finalità del sistema giudiziario: “Ogni processo che consente alle persone che subiscono un pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di tale pregiudizio, se vi acconsentono liberamente, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito, attraverso l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale”. La giustizia, in altre parole, non può consistere solo nella punizione e nell’applicazione di una sanzione, ma deve anche mirare a ricostruire, se possibile, il tessuto sociale lacerato a causa della commissione del reato, attraverso un percorso di confronto e di dialogo. L’esperienza più significativa e più celebre di giustizia riparativa è rappresentata dalla Commissione verità e riconciliazione, istituita nel 1996 in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid per volontà di Nelson Mandela, al fine di ricostruire i crimini e le violazioni dei diritti umani compiuti nei decenni precedenti, attraverso la raccolta delle testimonianze delle vittime e anche dei carnefici. Proprio il modello sudafricano (verità in cambio di riconciliazione) è stato più volte evocato in Italia per chiudere la pagina drammatica della stagione terroristica, in ultimo dalla ministra Cartabia e da Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi Calabresi, ucciso nel 1972. “La giustizia riparativa - ha sottolineato la Guardasigilli Marta Cartabia nelle dichiarazioni conclusive della conferenza di Venezia - non è un approccio soft al crimine ma un approccio più efficace, un complemento della tradizionale giustizia penale”. “La giustizia riparativa - ha aggiunto - è più efficace per tutti, per le vittime che sono liberate dall’incubo del male subito, per gli offensori che assumono la loro responsabilità guardando in faccia le vittime, per la società intera che può ricostruire i legami sociali distrutti dal crimine, perché il crimine è innanzitutto una rottura dei rapporti sociali”. La giustizia riparativa, come ha tenuto a precisare la ministra Cartabia, “non è un atto di clemenza”. Al contrario, essa pone al centro dell’attenzione la vittima, le sue istanze e il suo rapporto con l’autore del reato, superando il modello tradizionale incentrato sulle esigenze di difesa della società. Esperienze di giustizia riparativa sono già presenti in diversi paesi del mondo, europei e non, e anche in Italia, seppur in forma sperimentale. Secondo i dati del ministero della Giustizia, sono 79 i progetti di giustizia riparativa approvati in Italia nel 2021. Oltre la metà (41) riguarda l’area penale minorile. Insomma, giustizia riparativa significa passare dalla logica della vendetta alla logica del dialogo, dalla punizione alla riconciliazione. Una svolta culturale per un paese come il nostro, abituato dai tempi di Tangentopoli ad affrontare le vicende giudiziarie invocando la gogna per indagati e imputati. Non sarà facile, e di questo la stessa ministra Cartabia sembra esserne consapevole, ancor di più dopo la stagione della forca grillo-leghista. Ma è proprio per questo che la direzione indicata dalla Guardasigilli appare rivoluzionaria. Presunzione d’innocenza, dalle Procure le prime indicazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2021 Perugia e Bologna sui vincoli per Pm e polizia giudiziaria. Pur essendo in vigore da poche ore, il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza è già sottoposto ai primi test di efficacia nelle procure. E gli uffici giudiziari stanno iniziando ad attrezzarsi per fronteggiare un cambiamento che, adeguando il nostro ordinamento interno alla direttiva europea, sarà comunque significativo sulla comunicazione degli atti d’indagine e giudiziari. Vanno in questa direzione la direttiva del Procuratore di Perugia Raffaele Cantone, e la circolare di quello di Bologna, Giuseppe Amato. Entrambe provano, innanzitutto, a riempire di contenuti le due condizioni che legittimano il procuratore a fornire informazioni sui procedimenti penali: la necessità per la prosecuzione delle indagini e le ragioni di interesse pubblico. Per Cantone, le prime possono essere individuate in rari ma importanti casi come la necessità di stimolare la collaborazione dell’opinione pubblica, oppure di richiamare l’attenzione dei cittadini su situazioni in grado di compromettere la pubblica incolumità. Mentre le ragioni di interesse pubblico possono coinvolgere le indagini di maggiore rilievo con notizie, sempre rese dal procuratore, sull’esecuzione di provvedimenti cautelari, sia personali sia reali, oppure lo svolgimento di atti d’indagine per i quali è caduto il vincolo del segreto. Cantone poi mette nero su bianco di essere consapevole che criteri così rigorosi rischiano di limitare il diritto dei giornalisti all’accesso alle notizie e di, paradossalmente, incentivare il “mercato” della loro ricerca attraverso canali non ufficiali; preannuncia così un futuro provvedimento per regolamentare l’accesso agli atti d’indagine non più coperti da segreto. Per Amato, in termini generali, la scelta di concentrare i rapporti con la stampa nel procuratore o nel delegato è opportuna, perché consente una trattazione unitaria della materia, assicura una conoscenza diretta dei mezzi di informazione, contribuisce a realizzare un confronto equilibrato dei diversi interessi in gioco (soddisfazione del diritto di cronaca, esigenze di rispetto della privacy, dei dati sensibili, del segreto investigativo). A venire valorizzato è poi il rapporto fiduciario tra il capo della procura e i suoi sostituti, come pure quello con la polizia giudiziaria. Amato ricorda poi che la diffusione di particolari informativi - come le generalità degli indagati e il contesto del fatto, come pure le immagini degli indagati o dell’episodio investigato - può essere consentita se questi particolari permettono lo sviluppo dell’indagine penale, precisando sempre che “si tratta di contesto investigativo provvisorio sul quale, quindi, non può fondarsi il giudizio di colpevolezza dell’interessato”. L’interesse pubblico si può poi individuare nella particolare gravità del fatto investigato o nell’esigenza di evitare equivoci o fraintendimenti informativi. Un’attenzione particolare andrà poi comunque dedicata alla tutela della riservatezza dei soggetti diversi dall’indagato, in primo luogo le vittime del reato. Presunzione di innocenza. Sarà dura spezzare l’asse che lega magistrati e giornali di Giuseppe Sottile Il Foglio, 15 dicembre 2021 Ma sì, brindiamo pure al bavaglio e rendiamo omaggio dl ministro della Giustizia che - ancora una volta, dopo mille altre volte - tenta di arginare la deriva, tutta italiana, dello sputtanamento. Ma sì, accogliamo pure, con un applauso sincero, l’entrata in vigore della legge che teoricamente impone alle procure, e agli inquirenti tutti, di rispettare il principio costituzionale della presunzione d’innocenza e “fa assoluto divieto” a tutti i magistrati di impiccare gli indagati all’albero della gogna, di dare per certi fatti che devono ancora essere accertati, colpe e responsabilità che devono essere ancora verificate. Ma sì, facciamo finta di credere che la legge firmata da Marta Cartabia, ministro guardasigilli del governo presieduto da Mario Draghi, possa dare immediatamente i suoi frutti e che i rapporti tra gli uffici giudiziari e i giornali possano essere circoscritti, da oggi in poi, a una paludata conferenza stampa del procuratore capo o, in subordine, a un gelido comunicato nel quale si elencano burocraticamente gli elementi che hanno autorizzato “l’apertura dell’inchiesta in oggetto ai sensi e per gli effetti dell’articolo questo o quello del codice di procedura penale”. Sì, crediamoci. Ma non possiamo far finta di ignorare quello che è successo negli ultimi trent’anni, e che ancora succede, dentro e fuori i palazzi di giustizia. E’ successo che i magistrati, soprattutto quelli coraggiosi, hanno utilizzato il legame stretto e malsano con giornali e televisioni per glorificare ogni loro gesto, per rivestire di coraggio ogni loro iniziativa, per guadagnarsi un monumento nel piazzale degli eroi e avere quindi le mani libere contro ogni altro potere. In particolare contro il potere politico. Per abbattere il quale - ormai lo sanno pure le pietre - basta pochissimo: una indiscrezione, una frase strappata dal brogliaccio delle intercettazioni, un’insinuazione, un accenno a una relazione pruriginosa, un pizzino, una cartuzza trovata nel cestino della spazzatura che la stampa fidelizzata trasformerà immancabilmente, con una sfacciata dose di complicità, in un “libro mastro delle tangenti”. È la sublime arte del “mascariamento”, bellezza! Diciamolo: il “segreto istruttorio” esiste sin da tempi in cui c’erano i procuratori del regno. Non l’ha inventato Marta Cartabia con la legge entrata in vigore ieri. È fissato nell’articolo 329 del codice di procedura penale ma è il segreto che vanta, in assoluto, il maggior numero di violazioni. I sistemi per aggirarlo sono molteplici e non c’è riscontro, negli annali della storia giudiziaria, che un magistrato sia stato punito per avere passato sottobanco al suo giornalista di fiducia una notizia che non poteva dare, o lo stralcio di un interrogatorio o di un verbale che per nessun motivo poteva essere pubblicato, diffuso e amplificato. Ogni tanto - e quando non ne può proprio fare a meno - il capo della procura, dove è clamorosamente crollato il muro della riservatezza, lancia un segnale di rigore e apre una inchiesta per fuga di notizie. Lui, il signor Capo, conosce a menadito i canali attraverso i quali è stato compiuto il misfatto. E sa pure chi è il magistrato che ha combinato il guaio. Ma siccome cane non mangia cane, si limita a sventolare il peccato ma non il peccatore: apre il fascicolo con l’assoluta certezza che il procedimento sarà trasferito alla procura di un altro tribunale perché la legge impone che nessun ufficio giudiziario possa mai indagare sui propri uomini. Per quelli di Palermo c’è Caltanissetta, per quelli di Roma c’è Perugia, per quelli di Milano c’è Brescia. E così, saltellando da una procura all’altra, ogni peccato si dissolve in una impunità reale, effettiva, sicura. Il cronista giudiziario che gira ogni giorno per i corridoi del Palazzaccio ha fiuto e individua facilmente il magistrato con il quale stringere una liason di reciproche confidenze. Generalmente posa l’occhio sul pubblico ministero che mostra un amore particolare per i talk-show e per i dibattiti in studio, che non si perde la presentazione di un libro né una manifestazione per i diritti civili; che ama scrivere pensosi articoli - lui li chiama “editoriali” - sui giornali di maggiore grido; che ripete in ogni intervista di essere lontano mille miglia dalla politica ma sotto traccia si compiace di fiancheggiarla, di contrastarla, di indirizzarla: con i suoi metodi e secondo i propri interessi. È il magistrato di prima fila quello che piace tanto al circo mediatico; perché il magistrato di prima fila è abitualmente quello che ha in mano i più importanti procedimenti per mafia o per corruzione. Roba incandescente. Il giornalista gli promette ovviamente la massima visibilità, gli garantisce la più completa copertura e il gioco è fatto. Un gioco riservatissimo, va da sé. Nel quale comunque non rischia nessuno dei due: né il pm né il cronista. Quest’ultimo, se mai venisse chiamato a rispondere della fuga di notizie, potrebbe sempre opporre il segreto professionale: “Sono un giornalista e mi avvalgo della facoltà di non rivelare la fonte”, questa la formula di rito. Segreto professionale contro segreto istruttorio. E basta questo per spegnere ogni fuoco. Un tempo, quando giustizia e informazione non giocavano ancora sul tavolo dell’azzardo, era il giornalista che aveva un forte interesse a squarciare il velo del riserbo: si guadagnava il pane e, se l’indiscrezione comportava un titolo a cinque, sette o nove colonne, si portava a casa una lettera d’encomio se non addirittura una promozione. I magistrati invece erano molto cauti. Al massimo ti invitavano nella loro stanza e, con finta indifferenza, poggiavano sotto i tuoi occhi il fascicolo, oggetto del tuo desiderio. Poi fingevano di andare al bar o in bagno e ti concedevano cinque o dieci minuti di solitudine: giusto il tempo per sbirciare tra le carte del dossier e trovare la notizia che avrebbe coronato di successo la tua giornata di lavoro. Dopo - soprattutto negli anni infuocati di Mani Pulite e delle prime inchieste per mafia - le parti si sono invertite. Ora sono soprattutto i magistrati di prima fila che cercano i cronisti, che inseguono il fascino del titolo cubitale in prima pagina. Lo fanno non solo per rivestire di sacralità la propria inchiesta, ma anche per annientare la capacità difensiva dell’indagato. È la strategia del fango. O dello sputtanamento, appunto. Per il quale - ammettiamolo - non è necessario nemmeno violare il segreto istruttorio. Il codice di procedura penale - lo sbeffeggiatissimo articolo 329 - prevede che l’obbligo della riservatezza decade nel momento in cui il pubblico ministero deposita gli atti e mette tutto ciò che ha raccolto - intercettazioni, deposizioni, verbali, perizie, rapporti di polizia giudiziaria - non solo a disposizione del Gip, che è giudice per le indagini preliminari, ma anche della difesa. A quel punto il gioco si fa più sottile ma anche più perverso, più cinico, più destabilizzante: con la banalissima scusa di descrivere il contesto - parola chiave - nel quale il presunto reato sarebbe maturato il magistrato inquirente offre all’opinione pubblica, sull’altare del dileggio, anche dettagli privi di valenza penale ma comunque infamanti: una inconfessabile telefonata tra amanti, un estratto conto regolare ma con cifre tali da scandalizzare i leoni da tastiera, una imperdonabile volgarità contro un uomo delle istituzioni santificato in vita e venerato da tutti, una volgarissima lite tra marito e moglie, magari già risanata dal tempo e rimodulata non a caso in chiave criminosa e criminalizzante. Sconcezze, insomma. Raccattate in ore e ore di intercettazioni telefoniche o ambientali, in ore e ore di registrazioni eseguite con la barbarica e invasiva tecnica del trojan. Sconcezze o nefandezze, certo. Comportamenti indecenti, certo. Anche peccati contro il quarto o il sesto o il nono comandamento. Ma non reati. Negli anni Novanta - anni di furore antimafia - la procura di Palermo riuscì a istallare una cimice in casa di Corrado Carnevale presidente della prima sezione penale della suprema Corte di Cassazione. Le intercettazioni andarono avanti per oltre sette mesi, i pm cercavano le prove di un favoreggiamento dell’alto magistrato nei confronti di Cosa nostra. Non trovarono nulla di penalmente rilevante. Ma registrarono una frase pronunciata da Carnevale a casa sua, nel chiuso del suo studio: “Falcone e Borsellino sono due cretini”, si lasciò sfuggire in un momento in cui credeva che le proprie teorie giurisprudenziali potessero prevalere su tutto, anche sulla sete di giustizia che spingeva Falcone e Borsellino a sfidare i sanguinari corleonesi di Totò Riina. Apriti cielo. Quell’oltraggio ai due magistrati straziati poi dalle stragi di mafia suscitò un’indignazione enorme, senza fine. La procura lo inserì non a caso tra gli atti depositati e Carnevale andò a processo già sconfitto, già perdente, già segnato dalla stessa croce penitenziale con la quale la Confraternita dei Bianchi accompagnava al patibolo i condannati della Santa Inquisizione. Ci vollero anni, molti anni prima che “l’ammazzasentenze” - così lo svillaneggiavano - facesse prevalere le proprie ragioni con una sentenza di assoluzione che non gli ha lasciato addosso nessuna ombra. Sono tante - e tutte scivolose e tutte serpigne - le vie dello sputtanamento. Ci hanno provato in tanti a ostruirle, a smantellarle, ad affermare lo stato di diritto, a spezzare quel patto, sotterraneo e limaccioso, che da almeno trent’anni lega le ambizioni dei magistrati alla spregiudicatezza dei giornali. Le regole della Cartabia sono un buon segno. Solo un segno, purtroppo. Presunzione di innocenza, parla Cantone: “La legge non va usata contro la libertà di stampa” di Liana Milella La Repubblica, 15 dicembre 2021 Intervista al procuratore di Perugia: “La nuova norma non è un bavaglio, ma può burocratizzare troppo il rapporto tra media e pm. Il caso Maresca a Napoli? Lui ha fatto una scelta legittima che un legislatore serio avrebbe dovuto impedire”. La legge sulla presunzione d’innocenza? “Non è un bavaglio, ma burocratizza i rapporti tra giornalisti e procure”. Spariranno i fatti dai giornali? “Se uno stupratore viene arrestato, la notizia deve uscire”. Caso Maresca? “Scelta legittima ma che un legislatore serio avrebbe dovuto impedire”. La riforma del Consiglio superiore della magistratura? “No ai consiglieri dell’Anm che vanno al Csm”. Dice così il procuratore di Perugia Raffaele Cantone. In tempi non sospetti, era luglio 2017, lei ha scritto un articolo su “Repubblica” in cui ricordava che i media sono “il cane da guardia della democrazia”. Ma con la nuova direttiva sulla presunzione d’innocenza, entrata in vigore ieri, non le pare che a questo “cane” venga messa la museruola? “Non sono d’accordo. La nuova normativa, di certo, creerà dei problemi, ma rappresenta un passo in avanti. Per la prima volta viene superata l’ipocrisia per cui i giornalisti possono pubblicare notizie senza far capire da dove arrivano. Nasce un sistema tracciato e trasparente sull’origine delle news rispetto agli uffici”. Sia esplicito: questa legge è, o non è, un bavaglio per toghe e giornalisti? “No, non lo è. Di certo contiene degli eccessi e in alcune parti burocratizza troppo il rapporto tra stampa e uffici giudiziari. Ma non impedisce la comunicazione, anche se bisognerà capire entro quali limiti il rispetto della presunzione di non colpevolezza, principio sacrosanto, può rappresentare a sua volta un limite”. Dei limiti certo ci sono... “Il rischio può esserci. Non si può pretendere che vengano messi a tacere elementi di prova emersi su un indagato”. Chi ha sollecitato la direttiva, come Enrico Costa di Azione, pensa proprio a questo… “Non è così. La legge non può chiedere di tacere i fatti sulla responsabilità di un indagato. Se un soggetto viene visto da dieci persone mentre sferra una coltellata, nessuna norma può impedire di scriverlo”. I fan della direttiva la usano per bloccare notizie su incriminazioni e arresti... “Sbagliano. Quel testo al contrario consente al procuratore di dare le notizie. Se questo fosse stato l’obiettivo di qualcuno, la legge non lo legittima”. Nel testo ritrova quel “non semplice ma giusto equilibrio fra diritto di cronaca, diritto alla riservatezza e segreto d’indagine” che sollecitava nel 2017? “Assolutamente no, era necessario ampliare il diritto di accesso dei giornalisti alle informazioni giudiziarie pubbliche”. E quali sarebbero? “Per esempio, un’ordinanza di custodia cautelare notificata agli indagati che, se non ci sono dati sensibili e di privacy da tutelare, non vedo perché non possa essere data ai giornalisti”. Lei è buonista, i fan della direttiva non vogliono veder uscire niente... “Quest’esigenza mi sembra incompatibile con l’articolo 21 sulla libertà di stampa. Ed è contraria a un’idea immanente della trasparenza, perché impedirebbe ai cittadini di avere accesso a informazioni d’interesse pubblico. Perché non dovrebbero sapere che è stato arrestato uno stupratore seriale?”. Perché è un presunto innocente... “La Costituzione impone di garantire a un soggetto arrestato per stupro tutti i diritti di difesa, ma non che sia taciuto il fatto. L’aspetto positivo della direttiva sta nell’invito a essere moderati nel dare news in una fase fluida. Ma non può precludere la conoscenza perché, come diceva Bobbio, la trasparenza è un requisito indispensabile della democrazia”. Critica i procuratori che calcano troppo il talk show? “Nell’ultimo periodo vedo un self restraint positivo, le interviste sono rarissime, altrettanto le presenze in tv, io stesso sto dando la prima intervista da quando sono procuratore, e su una questione normativa, non certo su una indagine”. Catello Maresca, consigliere comunale e giudice di Corte di Appello a Campobasso: è possibile e comprensibile? “Mi fa velo il rapporto di amicizia con lui, mio uditore ed erede della mia indagine sui Casalesi. Il problema vero è che il legislatore, pur da tempo consapevole del problema, non ha mai voluto occuparsene. Maresca ha fatto una scelta legittima che un legislatore serio avrebbe dovuto impedire”. Lui dice che l’hanno fatto tutti… “In parte è vero, e rappresenta un’aggravante rispetto all’omissione di decisioni da parte del Parlamento”. Riforma del Csm in vista e grande querelle sulla legge elettorale. Ne esiste una che metta in difficoltà le correnti? “Non sono un esperto di tecniche elettorali e non saprei quale legge potrebbe davvero tagliare le unghie alle correnti, ma sarebbe opportuno prevedere formali incompatibilità tra l’essere componente dell’Anm e subito dopo candidato al Csm”. In via Arenula si lavora ai decreti sulla riforma penale, e la norma più discussa resta quella della improcedibilità. Favorevole o contrario? “In verità non mi entusiasma, mi preoccupano gli effetti, ma sarebbe stupido far finta di non vedere l’indecenza della durata di alcuni procedimenti penali. La riforma Cartabia andrà valutata a 360 gradi quando saranno emanati i decreti legislativi”. Tre mosse per riportare la magistratura nella Costituzione di Alberto Cisterna Il Riformista, 15 dicembre 2021 Abolire i fuori ruolo, dimezzare corti d’appello e tribunali, limitare circolari e linee guida del Csm per recuperare l’esclusiva soggezione dei giudici alla Carta anche per quanto riguarda le carriere. La riforma della legge per l’elezione del Csm agita le correnti della magistratura. È normale che sia così. Se, come pare, i poteri e le funzioni dell’Organo di autogoverno non verranno ridisegnati e rimodula ti in modo apprezzabile, è chiaro che Palazzo dei Marescialli resterà una meta irrinunciabile per le molte formazioni associative in cui è spacchettata la magistratura italiana. Luciano Violante, in una recente intervista su Il Dubbio, ha indicato nell’approvazione di una legge elettorale marcatamente proporzionale l’unica via praticabile per depotenziare le correnti, riducendone grandemente la proiezione consiliare con un voto pulviscolare. In altri termini, più correnti saranno rappresentate nel Csm, meno peso ciascuna di esse potrà avere; e per giunta i gruppi dovrebbero essere spinti a ricercare accordi e mediazioni al rialzo, a raggiungere convergenze positive non potendo più garantire da sole i propri apparati e accoliti. La tesi è chiara e immagina che una rappresentanza frammentata o quasi sia di ostacolo a quelle spartizioni che sono state la cifra di tempi in cui un paio di correnti al massimo gestivano dozzine, se non centinaia di incarichi e nomine. In teoria la proposta non dovrebbe avere oppositori. Il pluralismo associativo della magistratura (al momento 6 sigle) si è sempre giustificato in nome della varietà delle opinioni e degli approcci al tema della giustizia e della sua organizzazione. Niente di meglio, allora, che garantire a tutti un diritto di tribuna, uno strapuntino al Csm in cui far valere le proprie posizioni e i propri punti di vista. In teoria. In pratica gran parte dell’attività a Palazzo dei Marescialli non può che concentrarsi sulle attribuzioni costituzionali dell’organo che riguardano non tanto ideali quanto saltuarie prese di posizione sui temi generali della giustizia, ma più concretamente “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” (articolo 105 Costituzione). Tutte cose, insomma, particolarmente concrete e vive, dove - sempre e comunque - si decide della sorte dei circa diecimila magistrati italiani e dei loro colleghi onorari. E questo senza considerare la pletora di incarichi extragiudiziari, di distacchi presso ministeri, istituzioni pubbliche, organi costituzionali e quant’altro che sempre dal Csm transitano. Insomma, più che un parlamentino, come talvolta si dice, a Palazzo dei Marescialli siede una sorta di consiglio di amministrazione di un’azienda di medie proporzioni, con tutta la sua carica di aspettative, scalate, delusioni, promozioni e bocciature. Un universo in continua ebollizione. Il tema è come raffreddare la temperatura all’interno della magistratura italiana. Come sopire le ambizioni, alleviare le fatiche di tanti gravati da carichi di lavoro molte volte insostenibili, mitigare l’importanza degli incarichi direttivi e semidirettivi. Un’operazione complessa e di cui non si intravede neppure l’inizio. La strada maestra, com’è ovvio, è nella Costituzione secondo cui “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (articolo 107) e non per mostrine o gradi ed eliminare le diseguaglianze che si sono create in questi ultimi due decenni, tra tante api operaie e troppe api regine, dovrebbe essere il compito primario del legislatore. Parificare, democratizzare, livellare. uguagliare la magistratura italiana, per ricondurla nel suo necessario e naturale perimetro costituzionale, è un’opzione praticamente irrinunciabile e non ulteriormente differibile. Per farlo occorrerebbero almeno tre mosse secche: a) abolire ogni fuori ruolo dagli uffici a eccezione dei posti apicali del Ministero della giustizia per i quali è giusto che il ministro scelga i propri collaboratori di fiducia senza restrizioni; b) sopprimere di circa la metà il numero delle corti d’appello (quattro nella sola Sicilia) e dei tribunali italiani la cui sopravvivenza è resa ogni giorno faticosa da perenni vuoti d’organico e che drenano risorse maggiori dei vantaggi che giungono all’utenza; c) delimitare la funzione paranormativa del Csm, ossia l’elaborazione di dozzine di circolari, linee guida e così via, e per questa via recuperare l’esclusiva soggezione dei giudici alla legge (articolo 101 Costituzione) e non al Csm, anche per quanto concerne le loro carriere; si tratta di riconsegnare alla legge sull’Ordinamento giudiziario (articolo 108) una centralità che è stata quasi del tutto sommersa da un profluvio di produzioni consiliari. Quest’ultimo punto esige, come ovvio, che il Parlamento voglia riappropriarsi della propria funzione di regolazione normativa della magistratura che ha dismesso da oltre 15 anni. Era il 2006 quando il governo di centro- destra mise mano all’ordinamento dei giudici in vari campi (dal disciplinare alle carriere sino all’organizzazione delle procure) e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non è dato prevedere se e quando un progetto riformatore di questa latitudine entrerà nell’agenda delle forze politiche. Al momento l’urgenza del PNRR è tale da non concedere spazi a più complessive rivisitazioni. Ma bisogna essere leali verso il Paese: il modo con cui la magistratura è organizzata è un fattore che ostacola di per sé l’efficienza e il conseguimento di migliori risultati. Mettere mano ai codici, come si è fatto, o scrivere una nuova legge elettorale per il Csm non sarà sufficiente a raggiungere gli obiettivi imposti dall’Europa se mancherà un profondo e incisivo intervento sul modello di organizzazione che premi davvero i più capaci. Come il presidente Mattarella auspica, anzi invoca, ormai da molto tempo. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Violenze sui detenuti, udienza preliminare per i 108 imputati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 dicembre 2021 Udienza preliminare per le violenze avvenute il sei aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: si tiene davanti al Gup Pasquale D’Angelo. L’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che sorge a fianco al carcere dove sono avvenuti i fatti, si prepara a ospitare questa mattina 108 imputati e circa duecento avvocati, sistemati in due aule collegate virtualmente. Parliamo dell’udienza preliminare per le violenze avvenute il sei aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che si tiene davanti al Gup Pasquale D’Angelo, in cui sono imputati poliziotti della penitenziaria e funzionari del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. In aula potrebbero essere presenti in teoria tutti i 108 imputati: di questi solo venti sono attualmente ristretti ai domiciliari, ma potrebbero comunque essere autorizzati a venire in aula liberi. A carico dei venti ancora in arresto il Gup D’Angelo renderà nota stamattina, nel corso dell’udienza, la decisione sulla richiesta di proroga della misura dei domiciliari avanzata dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere, in particolare dall’aggiunto Alessandro Milita e sostituti Daniela Pannone e Alessandra Pinto. Santa Maria Capua Vetere, pestaggi in carcere: chi si costituirà parte civile - Il Garante campano dei diritti delle persone private della libertà Samuele Ciambriello, che con le sue denunce e la sua documentazione aveva fatto aprire il procedimento, si costituirà parte civile, assistito dall’avvocato Francesco Piccirillo. “Considero - spiega Ciambriello - quest’atto come un dovere morale, civile e istituzionale che è tutt’interno al mio Ufficio e alla sua funzione e che intende contribuire a fare luce sugli episodi di violenza accaduti lo scorso anno nel carcere di Santa Maria Capua Vetere”. E conclude: “Mi auguro di essere affiancato da tutte le Istituzioni in questa richiesta di giustizia che deve rafforzare l’esecuzione penale e i diritti di tutti i cittadini, anche quelli detenuti. La costituzione di parte civile è una battaglia di civiltà tesa a restituire al sistema penitenziario la sua dignità, anche in nome di tutte le migliaia di operatori penitenziari che con grandi sacrifici, quotidianamente, operano nelle carceri del nostro paese”. Santa Maria Capua Vetere, cosa contesta la procura - I fatti si verificarono il 6 aprile di un anno fa e i reati contestati a vario titolo sono la tortura, le lesioni, l’abuso di autorità, il falso in atto pubblico e la cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine. Un’indagine che si avvale delle immagini delle telecamere di videosorveglianza interne che hanno ripreso quei momenti definiti ‘un’orribile mattanza’ dal gip di Santa Maria Capua Vetere Sergio Enea, che il 28 giugno scorso emise 52 misure cautelari, spedendo otto agenti in carcere, 18 ai domiciliari, e disponendo tre obblighi di dimora e 23 misure di sospensione dall’attività lavorativa per poliziotti e funzionari, tra cui l’allora capo del Dap in Campania Antonio Fullone (tuttora interdetto dal servizio). Le telecamere ripresero i detenuti mentre venivano costretti a passare in un corridoio formato da agenti penitenziari con manganelli e caschi, subendo calci, pugni e manganellate. Tra i quasi trecento detenuti vittime dei pestaggi c’era anche l’algerino Hamine, deceduto il 4 maggio 2020 dopo essere stato tenuto in isolamento dal giorno delle violenze. Dopo il 6 aprile - ha accertato la Procura - iniziò inoltre l’attività di depistaggio da parte di agenti e funzionari con certificati medici falsificati per dimostrare che gli agenti avevano subito violenze dai detenuti. Caltagirone (Ct). Ucciso in carcere, slitta autopsia sul corpo di Costarelli: tanti dubbi dei familiari di Rosario Cauchi Quotidiano di Gela, 15 dicembre 2021 L’incarico ad un consulente è stato affidato dai pm della procura di Caltagirone, che hanno avviato indagini a seguito della morte, in carcere, del sessantenne gelese Paolo Costarelli. Dell’omicidio si è autoaccusato il quarantaquattrenne calabrese Salvatore Moio, già condannato per omicidio e che stava scontando la pena, proprio nella struttura penitenziaria calatina. Oggi, si sarebbe dovuta tenere l’autopsia sul corpo del gelese, che sarebbe stato strangolato da Moio, suo compagno di cella. Sembra però che la struttura frigorifera, nella quale è stata collocata la salma della vittima, non fosse stata mantenuta con la temperatura necessaria. Un particolare che ha fatto insospettire i familiari di Costarelli, ma anche i legali che li rappresentano, gli avvocati Giuseppe Cascino e Vittorio Giardino. Sicuramente, è un primo fatto anomalo, in una vicenda sulla quale la famiglia del detenuto ucciso vuole fare chiarezza. Pare che il quarantaquattrenne calabrese abbia spiegato di aver ucciso il compagno di cella, usando dei lacci per scarpe e quindi strangolandolo. Sul corpo di Costarelli, ci sarebbero ferite e segni che potrebbero far pensare anche a dinamiche differenti. I legali della famiglia hanno indicato un loro consulente di parte, che parteciperà all’attività tecnica e all’esame autoptico, spostato a giovedì. Costarelli era detenuto per scontare una pena definitiva, per maltrattamenti. Sembra che all’interno del penitenziario calatino non avesse mai avuto particolari problemi con gli altri detenuti. Moio ha però parlato di liti. Bisognerà anche capire come sia stato possibile che il corpo del gelese, ormai privo di vita, sia stato scoperto a quarantotto ore di distanza dal decesso. Nella stessa struttura penitenziaria, ci sono stati di recente episodi analoghi, con due detenuti morti. Viterbo. Suicidio di Sharaf Hassan in cella d’isolamento, la Procura generale avoca il caso di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 dicembre 2021 Revocata la richiesta di archiviazione. Il Garante dei detenuti del Lazio, Anastasia: “Una decisione che è il segno della volontà di non lasciare dubbi, e dunque è benvenuta”. Sharaf Hassan aveva 21 anni, un passato di tossicodipendenza e pesava 50 kg quando si impiccò, il 23 luglio 2018, nella cella del carcere per adulti di Viterbo “Mammagialla”, dove era recluso in isolamento “dopo avere ricevuto alcuni schiaffi dal personale di polizia penitenziaria”, come ricostruisce la Procura generale presso la corte d’Appello di Roma. Morì otto giorni dopo in ospedale. Quell’anno, nel 2018, non fu l’unico a suicidarsi in carcere: Ristretti orizzonti ne ha contati 67. Quest’anno un po’ di meno: 52. Ma il caso di Sharaf Hassan - che quando si è ucciso aveva un residuo di pena da scontare di un mese e 18 giorni per la detenzione di 0,4 grammi di hashish quando era minorenne; pochi giorni prima aveva denunciato al Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, di aver subito vessazioni e violenze da parte degli agenti; e che avrebbe dovuto essere trasferito dal maggio precedente in un istituto per minorenni come ordinato dal Tribunale dei minori - è stato riaperto pochi giorni fa dalla Procura generale che ha deciso di avocare il procedimento di cui si stava occupando la procura di Viterbo, di annullare la richiesta di archiviazione e e di indagare anche per tortura e omicidio colposo. I Pm della città laziale infatti avevano aperto un’inchiesta contro ignoti per istigazione al suicidio chiedendone in seguito l’archiviazione. Il Gip aveva fissato l’udienza nel 2024, anticipata poi al 22 gennaio 2022 su istanza dello stesso Pm. Da quel procedimento ne era seguito un secondo per abuso di contenzione a carico di due agenti del Mammagialla, il cui processo si è aperto lunedì scorso ma viene considerato dagli avvocati dei familiari, Giacomo Barelli, legale del cugino, e Michele Andreano, legale della madre del giovane e della Ong Moltaquael Hevar, un fatto minore. Gli avvocati si erano opposti all’archiviazione del fascicolo sull’istigazione al suicidio del povero ragazzo che era arrivato in Italia su un barcone quando aveva 14 anni e che di lì a poco era diventato tossicodipendente. Sul caso il presidente di + Europa, Riccardo Magi, aveva presentato due interrogazioni parlamentari, e ora la decisione della Procura generale di avocare il procedimento. “È il segno di una volontà di non lasciare dubbi intorno alle sue cause e dunque è benvenuta - commenta Stefano Anastasia - Se un ragazzo di ventun anni, che avrebbe dovuto essere in un istituto penale per minori, muore in una cella di isolamento di un carcere per adulti dopo aver denunciato, tramite il Garante, maltrattamenti ai suoi danni, qualcosa non ha funzionato ed è importante che la magistratura non lasci ombre su quanto è accaduto”. Roma. Abdel morto legato al letto in ospedale. Regione apre inchiesta sui medici del San Camillo di Romina Marceca La Repubblica, 15 dicembre 2021 Avviati gli accertamenti sui ricoveri del 26enne tunisino prima al Grassi e poi all’ospedale sulla Gianicolense di Roma dove è deceduto. Fratoianni: “Lo Stato non può tollerare zone grigie”. Una nuova inchiesta sulla fine di Wissem Ben Abdel Latif si affianca a quella penale per omicidio colposo. Si tratta di un’indagine interna avviata dalla Regione Lazio sui due ospedali dove Abdel ha trascorso i suoi ultimi cinque giorni di vita: il Grassi di Ostia e il Servizio di Psichiatria dell’Asl 3, ospitato al San Camillo. E da oggi inizieranno anche i nuovi accertamenti sul corpo del tunisino morto a 26 anni dopo due mesi dal suo arrivo in Italia e sulla documentazione sanitaria, come deciso dalla procura di Roma nei giorni scorsi. Abdel, il migrante tunisino trovato senza vita legato a un letto del San Camillo, era stato ricoverato il 23 novembre scorso al Grassi di Ostia. Era arrivato lì dopo un mese e dieci giorni trascorsi nel Cpr di Ponte Galeria con una diagnosi di “disturbo schizo-affettivo”. Il supporto psicologico del Cpr aveva rilevato che quel migrante stava dando segni di insofferenza. Eppure Abdel, come dicono i suoi familiari, era un ragazzo “sano”. Nel centro, secondo almeno quattro testimoni, Abdel era stato picchiato dagli agenti per i video-denuncia che aveva girato nelle stanze del Cpr e era riuscito a fare arrivare su Facebook. “Un giorno è stato prelevato dal modulo e poi è tornato con la testa gonfia”, è quanto sostiene una delle testimonianze pubblicate da Repubblica. La prima domanda è: “I medici del Grassi hanno annotato, se c’erano, segni di un pestaggio sul corpo di Abdel?”. Dopo due giorni, il 25 novembre, Abdel è stato trasferito al Servizio di psichiatria del San Camillo. L’inchiesta avviata dalla Regione Lazio punta a ricostruire cosa è accaduto al Grassi e al San Camillo. E, per quanto riguarda il Servizio psichiatrico, c’è da comprendere se le procedure di “contenimento” sono state eseguite secondo le norme. Di certo c’è stata una annotazione il 25 novembre e poi, nel diario dei controlli, ci sono gli orari dei giorni 26 e 27. Ma, come ha affermato anche il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, non c’è traccia di quelle braccia e gambe legate nelle ultime ore di vita di Abdel. Pugno duro della Regione: “Se dovessero emergere delle irregolarità sulle procedure eseguite, siamo pronti a rimuovere i medici”. Nel 2009 un insegnante di Salerno, Francesco Mastrogiovanni, morì dopo essere stato costretto al letto di ospedale per sette giorni. Ma nel caso di Abdel entrano in gioco anche i racconti dei suoi compagni di Cpr. Uno di questi, scappato all’estero, ha dichiarato che “Wissem è morto per farmaci neurologici sbagliati”. Il caso di Wissem Abdel è ormai esploso a livello nazionale mentre in Tunisia continua lo sciopero della fame della famiglia che chiede “giustizia”. È pronta un’interrogazione parlamentare da parte di Sinistra italiana. “Tutti coloro che sono in custodia dello Stato devono essere rispettati nella loro dignità e nei loro diritti. Sta qui il senso profondo di uno Stato democratico. Lo Stato italiano non può tollerare zone grigie o impunità di alcun genere. È per questo che la morte nei giorni scorsi in circostanze oscure del giovane tunisino nel Cpr di Roma deve essere chiarita fino in fondo”, afferma il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni. Intanto c’è attesa per i risultati dell’autopsia eseguita tra il 2 e il 3 dicembre scorsi quando ancora la famiglia di Wissem Abdel non sapeva di avere perso un figlio. I consulenti della procura hanno chiesto 60 giorni di tempo per rispondere alla domanda principale: “Perché è morto Abdel?”. Torino. Centro per il rimpatrio, tra i migranti aumentano i casi di autolesionismo di Luigi Manconi La Repubblica, 15 dicembre 2021 Tra ottobre e novembre si registra, in media, più di un “atto anticonservativo” al giorno. Ma il Siulp provinciale parla di “simulazioni” per uscire dalle strutture. Interviene dal Comune la Garante dei diritti delle persone private della libertà. Il Centro per il rimpatrio (Cpr) di corso Brunelleschi a Torino, conta sei aree detentive, ognuna delle quali prevede cinque camere dotate di sette posti letto, due bagni e una doccia. In questa struttura, come nelle altre 9 presenti in Italia, sono trattenuti migranti irregolari in attesa di essere rimpatriati nel Paese di origine, in una condizione di reclusione che può durare fino a 180 giorni. In una zona separata di quel Cpr si trova un settore, definito “Ospedaletto”, che accoglie le persone in “isolamento sanitario”. È stato qui che, il 22 maggio scorso, Mamadou Moussa Balde, proveniente dalla Guinea, si era tolto la vita. Si trattava di quel giovane trasferito nel Cpr dopo che era stato vittima, a Ventimiglia, di una aggressione da parte di tre italiani. In questa circostanza, le condizioni degradate dell’assistenza sanitaria nell’area Ospedaletto vengono denunciate, si apre un’indagine della Procura e si incomincia a sperare che qualcosa, infine, possa cambiare. Poi, ecco emergere un altro dato: il numero degli atti di autolesionismo e di tentato suicidio crescono vertiginosamente. Tra ottobre e novembre, si registra, in media, più di un “atto anticonservativo” al giorno. La notizia crea un notevole scalpore. Tanto che, un paio di settimane fa, Eugenio Bravo, segretario provinciale del sindacato di polizia Siulp, dichiara: “I tentativi di suicidio all’interno del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Torino, in atto dalla fine di settembre, sono un pretesto per uscire, per ottenere rapidamente il rilascio per motivi sanitari”. E prosegue: “È un fatto dimostrabile con i numeri. Negli ultimi due mesi 115 persone avrebbero cercato di togliersi la vita strofinandosi il collo con lenzuola di carta o ingerendo sorsate di bagno schiuma”. Quindi aggiunge che queste “persone sono state messe in libertà per questa simulazione di tentati suicidi”. È proprio quel termine “simulazione” a risultare del tutto improprio. E a rivelare una tonalità ideologica e un fine manipolativo. Certo, ogni suicidio e ogni tentato suicidio fanno storia a sé: infinite le possibili motivazioni, le pulsioni che determinano il gesto, le intenzioni consce e le dinamiche inconsapevoli che portano a quella scelta estrema. D’altra parte, la decisione di togliersi la vita è sempre e comunque un’”azione dimostrativa”, in quanto contiene, anche quando realizzata nella più totale solitudine, un messaggio indirizzato ad altri. Ma tutto questo non esclude che quegli atti - autolesionismo, tentato suicidio o lo stesso suicidio - siano autentici: ovvero, manifestazioni di un dolore non lenibile e di uno smarrimento senza scampo e senza via d’uscita. Si capisce bene, di conseguenza, lo sconcerto di Monica Gallo, valorosa Garante dei diritti delle persone private della libertà presso l’amministrazione comunale di Torino, che così replica: “La presunzione con cui si parla di “tentativi di simulazione” e di “gesti dimostrativi” di fronte ad un numero ingente di persone che si sono ferite, ed in alcuni casi sono state ricoverate, lascia senza parole”. “Rispetto al diritto fondamentale alla conservazione della propria vita, non esistono persone che meritino meno tutela: ma, al contrario, la massima attenzione”. Aggiunge la Garante: “Il motivo che induce a compiere un gesto simile è personale e, tuttavia, vanno comprese le ragioni di tipo strutturale che stanno alla base”. In sintesi, ecco le cause “di sistema”: “Le condizioni del Centro e degli ambienti sono degradate e offensive della dignità della persona e le carenze della gestione lasciano spazio a pratiche illegittime”. Infine, altre due considerazioni: i Cpr, sotto il profilo giuridico, non sono carceri e in essi, contrariamente a quanto vuole il senso comune, non sono trattenute in primo luogo i responsabili di gravi reati; vi si trovano, piuttosto, stranieri responsabili di quell’illecito amministrativo che consiste nella mancata disponibilità di documenti validi per l’ingresso e il soggiorno nel nostro Paese. Ancora: se il ripetersi di tanti casi di autolesionismo si deve a una “simulazione” che produce emulazione - così pensa il Siulp - come spiegarsi che, una settimana fa, nel Cpr di Gradisca di Isonzo - a 527 km di distanza da Corso Brunelleschi - un giovane marocchino abbia deciso di togliersi la vita? E ci sia riuscito. Sassari. Il giornalista Lirio Abbate ospite nel carcere ha parlato di 41bis ed ergastolo ostativo di Roberto Sanna La Nuova Sardegna, 15 dicembre 2021 Parlare di legalità, mafia, servizi deviati e giustizia non è mai semplice. Ed è ancora più difficile farlo in un carcere come quello di Bancali, che ospita diversi detenuti ristretti col 41 bis. Uno dei quali “in passato mi ha voluto molto bene” ha detto ieri mattina Lirio Abbate, vicedirettore dell’Espresso, autore di esclusive inchieste su corruzione e mafie, inserito da Reporters sans frontièresfra i “100 eroi dell’informazione” nel mondo. Il giornalista siciliano è stato invitato dalla direzione del carcere a presentare il suo ultimo libro “Faccia da mostro”, edito da Rizzoli, davanti a una platea composta da detenuti e studenti e studentesse della facoltà di Giurisprudenza. Il libro ha per protagonista un ex poliziotto, parla di omicidi eccellenti e stragi di mafia, svela l’esistenza di una donna legata a Gladio. Un mistero che dura da trent’anni con alcuni momenti vissuti in Sardegna da un personaggio che si muove in maniera spregiudicata a cavallo di legalità e illegalità, mafia e zone grigie dello Stato. Tutti argomenti affrontati anche nel successivo dialogo tra Lirio Abbate, alcuni detenuti e alcune studentesse, durante il quale si sono affrontati argomenti delicati come il regime del 41 bis e l’ergastolo ostativo: “La mafia, in questo momento, sta solo aspettando direttive. È potente ma in qualche modo è allo sbando perché chi può dare le direttive non può comunicare - ha detto. Il 41 bis serve a questo, è lo strumento giusto. Così come è giusto che venga affrontato una volta per tutte il tema dell’ergastolo ostativo. Perché se quelle menti criminali che ora sono isolate riprendono a comunicare, la mafia riparte”. Sul 41 bis e l’ergastolo ostativo (espressione che indicare quei casi in cui la perpetuità della pena detentiva è irriducibile, se non collaborando con la giustizia) ha poi voluto specificare che “deve essere attuato col massimo dell’umanità, però è la soluzione giusta. Anche se è un regime diverso, certamente non ci sono detenuti che dormono in dieci, o anche di più, dentro una cella. I materassi sono comodi, se uno ha il mal di schiena lo segnala e arriva chi gli fa il massaggio. Però quando una persona sta venti, venticinque anni senza pentirsi o collaborare, mantiene comunque una leadership. E se ritorna in libertà, quella leadership viene immediatamente riconosciuta ed esercitata”. In una mafia che, ha aggiunto, sta cooptando anche le donne: “Ho avuto diversi riscontri di donne che si stanno facendo spazio all’interno delle organizzazioni - ha aggiunto - alle quali hanno accesso, mi è stato detto, perché il reclutamento sul territorio sta diventando sempre più difficile e se il personale scarseggia allora si ricorre anche alle donne. Non ho notizie di affiliazioni vere e proprie, ma sicuramente ci sono donne coinvolte in attività mafiose, capaci di ricoprire ruoli sempre più importanti”. E in tutto questo “il giornalismo ha il compito di illuminare alcune delle storie che restano nell’ombra. Poi deve entrare in scena la magistratura, ricordandoci che esiste l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale”. Massa Marittima (Gr). Un orto per ricostruirsi la vita, in carcere si curano gli ulivi Il Tirreno, 15 dicembre 2021 Il progetto è attivo da febbraio nella Casa circondariale di Massa Marittima L’evento di presentazione ospiterà anche la testimonianza di un detenuto. Una vita dopo il carcere è possibile. E lo è ancora di più se c’è una passione che smuove il cuore. Come quella per l’agricoltura. Una passione, sì, ma anche un potenziale lavoro. È questo il concetto che sta alla base del progetto “Orti in Carcere”. Un’idea divenuta realtà nel carcere di Massa Marittima, che domani sarà oggetto di un convegno, fissato alle 11,30 nella sala dell’Abbondanza. Presente anche l’assessora regionale, Stefania Saccardi. Orti in Carcere ha preso il via lo scorso febbraio nella casa circondariale di Massa Marittima, con la messa a dimora di 20 piante di olivo e la realizzazione di orti in cassone. Con l’obiettivo di creare per i detenuti occasioni di formazione professionale, così da facilitarne l’inserimento lavorativo una volta terminato il periodo di detenzione. Il progetto è stato presentato dalla Regione in partenariato con il provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria della Toscana e dell’Umbria, ed è cofinanziato dalla Cassa ammende. Il Comune di Massa Marittima ha ottenuto il finanziamento di 30mila euro per realizzare le attività nella struttura penitenziaria cittadina. In questi mesi sono state fatte le prime esperienze, di cui si parlerà nel corso del convegno. La logistica del progetto - dalla creazione delle superfici ortive alla formazione dei detenuti - è curata dalla cooperativa Melograno. Orti in Carcere ha ottenuto anche l’interessamento e l’attenzione di Amnesty International, che parteciperà alla giornata di presentazione. Il convegno sarà preceduto alle 11 dalla benedizione dell’olivo centenario, che è stato donato da Terre dell’Etruria e Boscaglia e messo a dimora all’ingresso del carcere. Sarà il vescovo di Massa Marittima e Piombino, monsignor Carlo Ciattini, a impartire la benedizione. Ai piedi dell’olivo sarà posizionata una targa che ricorda i 60 anni di attività di Amnesty International per la difesa dei diritti umani. Il convegno apre con il saluto del sindaco di Massa Marittima, Marcello Giuntini, a cui segue l’intervento della direttrice del carcere di Massa Marittima, Maria Cristina Morrone, sul tema “Il carcere di Massa Marittima, finalità rieducativa della pena”. Marilena Rinaldi, responsabile area trattamentale del carcere, parlerà di “Formazione e l’inserimento lavorativo dei detenuti”. Seguiranno gli interventi di un ex detenuto e un detenuto. Massimo Iacci, presidente della cooperativa Melograno, racconterà l’esperienza del progetto “Orti Sociali: la sua genesi, le sue applicazioni”. Subito dopo verrà proiettato un video con le immagini fotografiche sul progetto, realizzate da Giulio Garosi, fotoreporter. Interverrà Riccardo Cappelli, responsabile finanziario e controllo di gestione della cooperativa Terre dell’Etruria su “Il ruolo delle Terre dell’Etruria e Boscaglia come supporto per l’ambiente, il territorio, il paesaggio, con una funzione di salvaguardia e valorizzazione dei territori e un’importante azione sull’inclusione lavorativa”. Monica Sanna, responsabile circoscrizionale Toscana di Amnesty International parlerà dell’associazione. Prenderanno poi la parola Simone Sabatini e Roberto Bocchieri, coordinatori del progetto regionale. Modera Grazia Gucci, assessora alle politiche sociali del Comune di Massa Marittima. Livorno. Sull’isola di Gorgona un murale realizzato da Zed1 e alcuni detenuti di Simone Lanari Corriere Fiorentino, 15 dicembre 2021 L’iniziativa fa parte del progetto “Coloriamo Gorgona” ed è stata realizzata con il contributo di Asa. È stato inaugurato il murale realizzato a Gorgona dall’artista internazionale Zed1 con l’aiuto di alcune delle persone detenute sull’isola. L’iniziativa è parte del progetto “Coloriamo Gorgona” realizzato con il sostegno del Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Livorno e grazie al contributo di Asa Livorno. “Questo progetto - dichiara il direttore del carcere Carlo Mazzerbo - rappresenta un ulteriore passo verso un disegno di apertura dell’isola e di incontro con la società”. Il progetto “Coloriamo Gorgona”, nel suo dialogare con progetti simili realizzati sulla terraferma, rappresenta un ponte ideale tra l’isola e la città. “Benzine”, i sogni di migrazione e la ferocia detentiva dei Cpr di Giuseppe Gariazzo Il Manifesto, 15 dicembre 2021 Il dolore di chi parte e di chi resta nell’opera prima della tunisina Abidi. I sogni del legittimo migrare che troppo spesso si trasformano in tragedie illegittime di cui sono responsabili tanto la manovalanza dei trafficanti di persone quanto le leggi disumane adottate dai paesi coinvolti; il partire doloroso per il distacco ma colmo di speranza e l’infrangersi di queste speranze nel corso di una traversata per mare (come in questo caso, dalla Tunisia all’Italia) o per terra; l’assenza di notizie da parte di coloro che hanno affrontato il viaggio e l’incubo nel quale sprofondano le famiglie la cui quotidianità diventa un’attesa senza fine. Sono elementi che il cinema “delle migrazioni” ha descritto a lungo. Ciò che differenzia Benzine (Benzina) dalla maggior parte di quei film è il punto di vista: non quello dei migranti, bensì quello dei familiari; non il viaggio, ma la vita che continua nella terra d’origine; non le sofferenze di donne e uomini in cammino, ma il silenzio che lacera i corpi e le menti di chi è rimasto a casa. Nel 2015 più di 1.500 tunisini sono spariti nel Mediterraneo tentando di raggiungere le coste italiane, mentre migliaia di famiglie vivevano nell’angoscia. Un dato di cronaca riportato nella didascalia finale dell’opera prima di Sarra Abidi. Benzine è del 2017, ma non ha nulla dell’instant movie girato a poca distanza da una tragedia. È un film asciutto, come la terra dura che popola le immagini, si concentra sui personaggi, sul loro (soprav)vivere in una zona arida e periferica del Sud della Tunisia attraversata da una strada che taglia la campagna come in un western. Lì abitano Halima e Salem, lei si occupa degli animali e della raccolta delle olive, lui vende benzina ai bordi della strada perché senza pioggia non può dedicarsi all’agricoltura. Del loro figlio Hmed non hanno notizie da nove mesi, da quando se n’è andato, come tanti altri, e in una scena le madri e i familiari manifestano in strada con le foto dei loro figli scomparsi. Inutile chiedere aiuto alle istituzioni. Impossibile non pensarci, fino a stare male, finire in ospedale (Halima), curarsi e riprendere a credere che qualcosa porrà fine a quello stallo. La cineasta tunisina, che proviene dal documentario, lavora per sottrazione, anche nel filmare le “scene madri”, e così fanno Sondos Belhassen e Ali Yahyaoui nel ruolo della madre e del padre, senza dimenticare la presenza nel cast di Fatma Ben Saïdane (icona del cinema tunisino dalla fine degli anni Ottanta con il suo volto immediatamente riconoscibile e dotata di un carisma immenso), che interpreta Hafsia, sempre vicina a Halima nei suoi momenti più difficili. Benzine sarà proiettato questa sera al CineTeatro Baretti di Torino a conclusione della giornata intitolata “Da Tunisi a Torino, alla ricerca della libertà”, organizzata da Mosaico Refugees, Associazione Museo Nazionale del Cinema, Asgi e Kriol e focalizzata sulla questione della detenzione amministrativa in Italia con specifico riferimento alla situazione del Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) del capoluogo piemontese e ai rapporti tra Italia e Tunisia. Approfondimenti tematici, danza, musica e cinema per affrontare quanto sta vivendo il paese maghrebino ripiombato nella crisi e nella repressione e scosso da nuove istanze di libertà. Una richiesta che, scrivono gli organizzatori, “infiamma le piazze e scuote anche i Cpr italiani dove sono reclusi centinaia di cittadini tunisini. Trattenuti in un sistema feroce e irrazionale, vivono una doppia oppressione e l’autolesionismo dilagante ne è la rappresentazione più violenta. Sono migliaia di voci, gesti e corpi che smentiscono la retorica, ormai diventata legge, della Tunisia come paese sicuro e che denunciano la collaborazione tra autorità tunisine e italiane per i rimpatri accelerati”. Sarra Abidi introdurrà Benzine alle 21.30 collegandosi attraverso internet. Un’occasione per ascoltare dalla sua voce le motivazioni che l’hanno portata a esordire nel lungometraggio scegliendo un approccio non usuale al tema migratorio e per vedere un film la cui proiezione è realizzata in collaborazione con il festival del cinema africano di Verona che presentò Benzine nell’edizione del 2019 e che da quarant’anni si batte per la diffusione dei tanti cinema delle Afriche che continuano a riservare bellissime sorprese. Il nuovo disagio ignorato di Dario Di Vico Corriere della Sera, 15 dicembre 2021 Il soggetto che per quantità degli interventi e qualità delle motivazioni rappresenta la maggiore novità è il terzo settore, che arriva a svolgere “una funzione di supplenza delle istituzioni”. Nel dibattito che si è aperto dopo la proclamazione dello sciopero generale da parte di Cgil e Uil c’è chi, tra gli intellettuali della sinistra italiana, ancor più che applaudire alla piattaforma dei sindacati ha visto in quella decisione soprattutto il valore di un rilancio e di una nuova centralità del conflitto. Ossigeno puro, è stato scritto, rispetto al rischio di un soffocamento della dialettica sociale e, per esteso, della stessa democrazia. Ma davvero corriamo questo pericolo? Si può dire in assoluta coscienza che le società della seconda modernità si caratterizzino per un’assenza di conflitti e per una tendenza all’unanimismo? Credo proprio di no e non lo dico per un pre-giudizio politico di merito ma partendo dal riconoscimento che i fattori oggettivi di conflitto non solo restano in campo ma si allargano nella gamma e nella profondità. Sullo sfondo c’è la difficoltà nella distribuzione di risorse il cui limite quantitativo è ormai strutturale e che solo in questa fase di gestione dell’emergenza Covid è stato temporaneamente messo tra parentesi, grazie alla generosa spesa extra-budget dei governi. Ma se una volta, secondo la nota vulgata, il conflitto distributivo che si proiettava sul terreno politico era prevalentemente quello iscritto nella relazione capitale-lavoro, oggi sappiamo bene che le linee di faglia sensibili riguardano il peso contrattuale e le prospettive delle nuove generazioni, la partecipazione di genere, l’integrazione degli immigrati e, in primo luogo, l’utilizzo razionale delle risorse naturali del pianeta. Di conseguenza più che piangere per la morte del conflitto l’operazione che la sinistra dovrebbe mettere in campo è quella di lavorare a una nuova mappatura delle contraddizioni sociali che aggiorni la vecchia. Non è un caso che almeno in due materie la gauche italiana si sia dimostrata impreparata e sia stata costretta a correre in affannoso recupero: la povertà assoluta e l’emergenza ecologica. Mentre è rimasta pervicacemente affezionata a una centralità del conflitto capitale-lavoro, nonostante nel frattempo quest’ultimo avesse trovato nel sistema delle relazioni industriali una buona regolazione. Se non sono spariti i fattori oggettivi di conflitto sono lungi dall’essersi spenti anche quelli soggettivi. Come testimoniano i sondaggi di opinione la percezione di vivere in un contesto caratterizzato da profonde ingiustizie sociali è ampiamente diffusa così come ha conquistato grande spazio il sentimento di deprivazione relativa, un combinato disposto generato dalla differenza aspettative/risultati e dal confronto tra la condizione odierna e quella “aurea” dei propri genitori. Non c’è quindi da temere che le platee del conflitto restino deserte, non ultimo perché sono alimentate da nuovi imprenditori della protesta-a-prescindere come buona parte dei talk show e dei social network. Il vero problema non è la mancanza di materia prima - il conflitto per l’appunto - ma la sua inadeguata mediazione, l’assenza di una “lavorazione” che sappia estrarre valore da quella mobilitazione emotiva e la indirizzi verso l’elaborazione di soluzioni o la creazione di esperienze di coesione e di comunità. E la sinistra, nella sua doppia versione tradizionalista o riformista, non è riuscita in questa operazione. Quella socialdemocratica ha subito un doppio scacco vedendo i poveri concorrere al successo dei 5 Stelle e gli operai votare per la Lega mentre la seconda, di tradizione blairiana, non è riuscita a scrivere un nuovo alfabeto del conflitto dando centralità ai temi della scuola e della mobilità sociale. In assenza di una cultura politica capace di rileggere la mappa dei conflitti della seconda modernità, di mitigare il sentimento di deprivazione relativa e in parallelo di affrontare i nodi irrisolti della giustizia sociale, ci sono rimaste solo le buone pratiche. Esperienze di massa che partono dall’interno della società, si muovono secondo nuovi modelli di mediazione del conflitto che non ricercano il potere di veto ma costruiscono quotidianamente soluzioni e valori di comunità. Una di queste fa riferimento al sistema delle relazioni industriali ma sicuramente il soggetto che per quantità degli interventi e qualità delle motivazioni rappresenta la maggiore novità è il terzo settore, capace di coltivare la sua identità non giocando “a specchio” contro la politica ma intermediando il bisogno delle persone e per questa via, come è accaduto durante la pandemia, arrivando a svolgere quella che Giuseppe Guzzetti ha definito come “una funzione di supplenza delle istituzioni”. E allora perché dedichiamo al mondo del non profit un centesimo dell’attenzione e degli approfondimenti che riserviamo a uno sciopero generale di vecchio conio? Forse perché molti, compreso chi scrive, sono ancora legati a un antico paradigma del conflitto, prigionieri dell’idea che la sinistra abbia ancora un diritto di primogenitura, attratti dall’estetica delle contrapposizioni e restii ad ammettere che conflitto e giustizia sociale non sempre sono sinonimi. Fine vita. Cappato: “Così il Paese perde credibilità e i malati restano in un limbo” di Federico Capurso La Stampa, 15 dicembre 2021 Il tesoriere dell’associazione Coscioni: “La legge rischia di essere inutile. Era l’occasione per non discriminare più chi è costretto a sopportare sofferenze terribili”. Per il tesoriere dell’associazione Coscioni, Marco Cappato, che con il processo per il caso dj Fabo ha aperto la strada alla legalizzazione del suicidio assistito, l’immagine dell’Aula di Montecitorio semivuota, nel giorno in cui inizia la discussione del testo sul fine vita, “è un danno che il Parlamento infligge a se stesso, prima ancora che ai malati che attendono questa legge. Così perde credibilità e non è un bene per il Paese”. Cappato, al di là del “danno di immagine”, che segnale ha colto dalla Camera? “Che questo non fosse un dibattito legato a una reale volontà di decidere in tempi brevi. Come se la stragrande maggioranza dei parlamentari la considerasse una discussione puramente interlocutoria, sapendo già che verrà rinviata al prossimo anno”. Il testo è arrivato in Aula troppo tardi o troppo presto? “Tardi, perché sono tre anni che è fermo alla Camera. Ma al tempo stesso, ho visto una fretta improvvisa in tutte le forze politiche, dopo anni di inazione, dopo che abbiamo raccolto le firme per il referendum sull’eutanasia. Sembra si voglia dare un segnale alla Corte costituzionale, chiamata a decidere a breve sull’ammissibilità del quesito referendario”. Teme che la Consulta possa dichiarare inammissibile il referendum? “Confido nel fatto che la Corte deciderà in pena autonomia e che questo tipo di pressioni non trovino ascolto. Anche perché l’oggetto del referendum riguarda l’omicidio del consenziente e non è coperto da questa legge, che riguarda il suicidio assistito. Mi preoccupano, invece, altre questioni”. Quali? “Ho sentito durante il dibattito in Aula, da parte di chi appoggia questa legge, prendere posizione come se il suicidio assistito non fosse legale in Italia. Come se l’approvare una qualunque legge fosse di per sé sufficiente. Ma il suicidio assistito è già un diritto garantito dalla sentenza della Consulta del 2019. Una legge, invece, è utile solo se garantisce e rafforza quel diritto già acquisito”. E questa legge non lo farebbe? “Doveva stabilire una procedura per accedere al suicidio assistito con dei tempi certi, ma questi tempi non ci sono. Anzi, si aggiungono una decina di passaggi burocratici. Il caso di Mario, il malato nella Marche che da settimane attende il farmaco letale, è la dimostrazione che l’assenza di termini certi di risposta lascerà altri malati come lui in un limbo, anche dopo l’eventuale approvazione della legge. E c’è poi un altro elemento fondamentale”. Prego... “La Corte è partita dal caso di Fabo, che era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitali. Ma come ha stabilito anche il comitato di bioetica, è discriminatorio escludere dal diritto a morire i malati che non hanno bisogno di trattamenti di sostegno vitali, ma che sono costretti a una sofferenza insopportabile. C’è l’occasione per eliminare questa discriminazione, ma se la legge resta nel recinto di quello che è già legale e anzi aggiunge dei paletti in più. Deve essere emendata”. Pd e M5S sostengono che il testo sia frutto di una lunga mediazione con il centrodestra... “Se si fanno solo passi indietro rispetto alla sentenza della Corte, che compromesso è?”. E se invece la legge naufragasse? “Ai malati direi che non c’è motivo di perdersi d’animo. Gli strumenti che abbiamo messo in campo in questi anni resteranno in piedi, dalla disobbedienza civile ai ricorsi in tribunale. Chi oggi vive questa urgenza e ha bisogno di risposte nell’arco di settimane o pochi mesi, è più probabile che le trovi nella sentenza di un giudice. Ma l’enorme differenza rispetto al tema del ddl Zan sta nel referendum sull’eutanasia, se la Corte lo ammetterà”. Fine vita. Beppino Englaro: “Il nostro Parlamento è disumano, ha paura di perdere voti e potere” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 15 dicembre 2021 Il padre di Eluana: “Ci sono voluti 15 anni e 9 mesi perché permettessero a mia figlia di lasciarci”. Quando hai dovuto lottare contro tutti per compiere la scelta più dolorosa della tua vita, sai cosa significa essere Mario: aver bisogno di mettere fine a una pena senza essere in grado di farlo. Sai come devono sentirsi i genitori di Samantha D’Incà, che hanno da poco ottenuto da un giudice il permesso di staccare la spina alla figlia, in coma da un anno per un banale intervento chirurgico. Sai quel che sa Beppino Englaro, quel che traspare dalla sua voce amorevole quando ricorda “la Eluana”, quella ragazza “purosangue” tanto amata. Una voce che si spezza e diventa fil di ferro, mentre dice: “Un Parlamento che non decide sul fine vita è disumano al massimo livello”. Beppino Englaro, la legge sul suicidio assistito è arrivata in aula alla Camera, ma non sappiamo ancora quando ci tornerà. Un termine per gli emendamenti non c’è ancora, un accordo tra le forze politiche nemmeno. Cos’ha pensato davanti a questo stallo che dura da anni? “Io dico sempre che ci sono voluti 15 anni e 9 mesi, 5750 giorni perché mi fosse riconosciuto un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione. Ho contato le ore a partire dall’incidente, dal 18 gennaio 1992. Chiedevamo, io e Saturnia, solo quel che Eluana avrebbe voluto: che le permettessero di andar via. Ma dal primo colloquio fummo sorpresi: non ne avevamo il diritto, mia figlia non aveva il diritto di scegliere”. Eluana aveva 22 anni il giorno dell’incidente. Due anni dopo, davanti a gravi danni cerebrali, alla frattura di una vertebra cervicale, al coma, lei voleva opporsi alla tracheotomia che serviva a tenerla in vita, ma non le fu permesso... “Io ero la sua voce. Dovevo essere la sua voce perché lei non era in grado di dire quello che avrebbe scelto per sé. Noi, io e mia moglie, lo sapevamo. Eluana aveva visto come può ridurti la rianimazione un anno prima nel suo amico Alessandro e aveva detto chiaramente che mai avrebbe voluto quello per sé. La sua reazione istintiva - perché Eluana aveva l’istinto di un purosangue - era stata quella di accendere un cero affinché Alessandro morisse. Pensava che quello sbocco fosse peggiore della morte e noi questo lo sapevamo. Lei non aveva il tabù della morte, il suo tabù era la profanazione del corpo. Chi non ha conosciuto questa ragazza non potrà mai concepire che sia esistita. In lei gli aneliti di libertà e dignità erano inesausti”. Lei però non poteva decidere al posto suo. E nel 1994 eravamo lontani dalla legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento varate dal Parlamento nel 2017... “Immagini come potevo sentirmi io, che la conoscevo e mi sentii dire che non avevano bisogno di alcun consenso. Se lei fosse stata in grado di parlare, avrebbero dovuto chiederlo, il consenso. Ma in quelle condizioni potevano decidere al suo posto. La non morte a qualsiasi condizione è qualcosa di spaventoso. Lo stato vegetativo permanente è uno stato che per lei era peggiore della morte. Ma ci dissero che non c’era niente su cui dialogare, la situazione culturale del Paese era quella, e per quattro anni non abbiamo avuto nessun interlocutore”. Come vi sentivate? “Come due randagi che abbaiavano alla luna. Saturnia e Eluana erano una cosa sola, lei si è spenta come una candela accanto a lei, e mi diceva: non parlare, tanto non ti ascoltano, sprechi energie. Ma io non potevo tacere. Io ero anche la voce di Eluana. Se la ricorda la lettera che ci aveva scritto per Natale? “Noi tre assieme formiamo un nucleo molto forte basato sul rispetto e l’aiuto reciproco”. Come potevo non aiutarla? Come faceva Eluana a perdere il diritto di dire: no, grazie, lasciate che la morte accada”. Lei è cattolico? “Sono agnostico, ma rispetto ogni convincimento: ognuno deve poter compiere la sua scelta. Credo in tutte le posizioni che rispettano il primato della coscienza personale. La sentenza della Cassazione che nel 2007 ci ha dato ragione ha chiarito che l’autodeterminazione terapeutica non può incontrare alcun limite”. Cosa pensa del caso di Mario, il tetraplegico che ha ottenuto, grazie alla sentenza della Consulta, il diritto al suicidio assistito, ma ora aspetta una legge che sblocchi le procedure... “Leonardo Sciascia ha scritto un libricino, “Una vita semplice”, in cui un personaggio dice: “A un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza”. Sono casi distinti: per Eluana dicevamo: lasciate che accada. Mario ha bisogno che si faccia qualcosa. E io penso che abbia il diritto di essere aiutato”. La politica cercò di fermarla. Il governo Berlusconi varò un decreto per impedirle di lasciar andare via Eluana nonostante le sentenze. Napolitano si rifiutò di firmarlo, in Parlamento ci furono parole terribili contro di lei. Cosa ricorda di quei giorni? “La peste del linguaggio! Cosa non hanno fatto, cosa non hanno detto, ma non mi hanno mai scalfito sa? Penso a Gaetano Quagliariello che urlò: “Eluana è stata ammazzata”: come fa un accademico, un professore universitario, a esprimersi a quei livelli? Cosa gli si può dire a una persona del genere? Al governatore celeste Formigoni che ancora un anno fa diceva che dovevo lasciare mia figlia alle suore misericordine?”. Cosa pensa del Parlamento che tentenna sul fine vita? “Non affrontano fino in fondo il problema perché hanno paura. Di perdere voti, di perdere il loro potere. Ma un Parlamento che non decide è disumano al massimo livello nei confronti di Mario. Più disumano di così, non potrebbe essere”. L’Ue cambia Schengen per fermare i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 15 dicembre 2021 Controlli di polizia alle frontiere per bloccare i movimenti secondari. Stretta sul diritto di asilo. La stretta era nell’aria ma la crisi ancora in corso alla frontiera tra Polonia e Bielorussia, con alcune migliaia di migranti bloccati da mesi al gelo e per ora senza via d’uscita, ha dato a Bruxelles il pretesto per intervenire sul codice Schengen, il trattato che garantisce la libertà di movimento tra gli Stati membri e fino a ieri uno dei principi fondativi dell’Unione europea. Che adesso, se parlamento e Consiglio daranno il via libera, viene cambiato inserendo nuovi limiti per svolgere controlli alle frontiere interne ma soprattutto ampliando la possibilità di limitare gli spostamenti dei migranti all’interno dell’Unione. Ufficialmente, infatti, le nuove norme serviranno per far fronte a emergenze come quelle dettate dai rischi legati al terrorismo o alla salute pubblica, come ad esempio la pandemia. Di fatto rappresentano l’ennesimo ostacolo, più volte chiesto da Paesi come la Francia a cui spetta il prossimo turno di presidenza Ue, ai cosiddetti movimenti secondari, gli spostamenti di quei migranti che una volta sbarcati cercano di trasferirsi in Nord Europa, in particolare verso Germania, Belgio, Olanda e la stessa Francia che adesso avranno la possibilità di rimandarli più velocemente verso i Paesi di primo approdo, come Spagna e Italia. “I movimenti secondari sono qualcosa che sta succedendo e non è previsto dalla legge. Si tratta del movimento non autorizzato di migranti irregolari”, ha spiegato il vicepresidente della Commissione Margaritis Schinas, che con la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson ha messo a punto la proposta di modifica del codice. “Quello che proponiamo oggi è stabilire una procedura in modo che quando una pattuglia intercetta qualcuno al confine, lo può trasferire nello Stato da dove proviene”. La premessa è che ogni Stato potrà ripristinare i controlli alle frontiere per motivi eccezionali ma “prevedibili”, come indicato dall’articolo 25 del trattato, fino a un massimo di due anni. Attualmente il temine è fissato in sei mesi, che però possono essere prorogati all’infinito. Cosa che di fatto rende definitiva la chiusura. “A oggi sono sei i Paesi Ue che hanno controlli interni. Andando avanti di sei mesi in sei, alcuni sono a sei anni di controlli interni”, ha spiegato Johansson. Chi vorrà chiudere i confini dovrà “giustificare la proporzionalità e necessità della sua azione tenendo in considerazione l’impatto sulla libertà di circolazione”. Prevista la modifica anche di un altro articolo, il 28, che oggi indica la possibilità di bloccare in maniera unilaterale le frontiere nel caso si verifichino eventi imprevisti per 30 giorni estendibili fino a tre mesi (oggi i limiti sono fissati in 10 giorni iniziali che possono essere prolungati fino a un massimo di due mesi). L’azione di contrasto dei migranti potrà avvenire però soltanto alle frontiere e la Commissione invita per questo gli Stati a organizzare pattugliamenti misti, con agenti di entrambi i paesi confinanti. “L’unica area che copriamo con questo regolamento per quanto riguarda i movimento secondari - ha proseguito Schinas - è quella dei pattugliamenti congiunti al confine dove è la polizia che stabilisce effettivamente l’arrivo di un irregolare da uno Stato membro e può intervenire per rimandarlo indietro”. Ma a Bruxelles si guarda anche a quanto accade ai confini orientali dell’Unione e in particolare all’uso dei migranti fatto dalla Bielorussia di Alexander Lukashenko. Per questo nel codice vengono introdotte nuove misure per contrastare “attacchi ibridi” come quelli visti ai confini di Polonia, Lituania e Lettonia. Tra queste il via libera a una limitazione dei passaggi alla frontiera e l’intensificazione dei controlli, ma anche la possibilità di estendere fino a quattro settimane il termine per la registrazione delle richieste di asilo che potranno essere esaminate direttamente alla frontiere. Un giro di vite inizialmente previsto solo per i tre Paesi interessati dalle manovre di Lukashenko ma che ora rischia di diventare valido per tutti gli Stati membri. Nel mondo aumentano i rifugiati, ma l’Europa fa eccezione di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 dicembre 2021 Il rapporto Migrantes 2021 smentita la propaganda dell’“invasione”. “Nonostante le evidenze mostrino che l’Europa non è sotto invasione, la politica europea continua a essere ostile verso i rifugiati”. Le parole di Yagoub Kibeida dell’Unione nazionale italiana per rifugiati ed esuli (Unire) sintetizzano i numeri raccolti nel report sul diritto d’asilo nel 2021 della fondazione Migrantes, intitolato Gli ostacoli verso un noi sempre più grande. Nel 2020, infatti, mentre nel mondo le persone in fuga da guerre, fame e cambiamento climatico sono aumentate, la stima record è di 82,4 milioni di individui, l’Europa si è posizionata in contro-tendenza rispetto al quadro globale. Per la prima volta i richiedenti asilo sono diminuiti di un terzo. Nel 2019 erano 631mila, lo scorso anno 417mila. Le domande di protezione nei paesi membri sono state 102.500 in Germania, 86mila in Spagna, 82mila in Spagna e 38mila in Grecia. Fuori dalle retoriche agitate dai diversi governi del nostro paese, l’Italia occupa solo la quinta posizione con 21.200 richieste. Siria e Afghanistan si confermano i principali Stati di provenienza, mentre Venezuela e Colombia hanno sostituito in terza e quarta posizione Iraq e Pakistan. A livello globale, invece, nella prima metà dell’anno in corso le persone che hanno chiesto l’asilo sono 555.400, in linea con i numeri del 2020. Il primo paese ricevente sono gli Usa (72.900), seguiti da Germania (58.900), Messico (51.700), Repubblica democratica del Congo (46.200) e Francia (36.500). Allarmante la cifra degli “sfollati da disastri ambientali”. Tra il 2019 e il 2020 sono cresciuti del 37% arrivando a 7milioni. Se però si utilizza l’indicatore dei “nuovi sfollati da disastri ambientali legati a eventi meteorologici” - cicloni, uragani, incendi, siccità, temperature estreme - il numero schizza fino a 30milioni di persone. Secondo il Groundswell report 2021 della Banca mondiale questa cifra potrebbe moltiplicarsi per sette da qui al 2050 in assenza di iniziative efficaci di contrasto del cambiamento climatico. Altrimenti la previsione si riduce dell’80%, ma riguarderebbe comunque 44milioni di individui. Un duro monito nei confronti dei governi che continuano a rimandare un definitivo cambio di rotta sulla questione ambientale e soprattutto di quelle forze politiche che spesso coniugano la richiesta di chiusura delle frontiere con lo scetticismo verso la catastrofe ecologica. Il rapporto della fondazione Migrantes si concentra anche sulla vera emergenza che continua a colpire il Mediterraneo centrale. Non una presunta invasione, ma le morti in mare e le catture di migranti da parte della sedicente “guardia costiera” libica. È vero, si legge nello studio, che i circa 53mila arrivi in Italia tra gennaio e ottobre 2021 sono quasi il doppio dello stesso periodo del 2020, ma questo dato andrebbe liberato “da allarmismi e cliché della propaganda politica” inquadrandolo in una scala temporale più ampia. Nel medesimo periodo del 2016 erano stati oltre il triplo. I numeri davvero inquietanti sono quelli delle persone inghiottite dal mare: 1.315 morti accertati nella sola rotta centrale dall’Oim. Che all’11 dicembre scorso ha contato 30.990 persone riportate a Tripoli dalla “guardia costiera” libica. Una cifra monstre che triplica le intercettazioni di tutto il 2020. Così nei soli centri di prigionia ufficiali del paese nordafricano ai primi di ottobre erano rinchiusi, in condizioni che le agenzie Onu definiscono inumane, circa 10mila tra donne, uomini e minori. A gennaio erano 1.100. Dietro i numeri ci sono storie, volti e sofferenze di migliaia di essere umani condannati a torture e morte dalle politiche europee e, rispetto alla Libia, soprattutto italiane. Un duro atto di accusa che coinvolge il primo ministro Mario Draghi e la titolare del Viminale Luciana Lamorgese, che in questi mesi hanno ribadito la centralità libica per frenare gli arrivi via mare. Rapporto Migrantes, decuplicate le detenzioni arbitrarie in Libia di Ivana Mingolla Il Domani, 15 dicembre 2021 Il rapporto della fondazione fa il punto sullo stato delle migrazioni forzate per l’anno appena trascorso. Oltre 1500 persone sono morte nel Mediterraneo nel 2021. Il Covid ha creato una “nuova disuguaglianza”. La Fondazione Migrantes ha presentato oggi il suo quinto rapporto sul mondo dei richiedenti asilo, dei rifugiati e delle migrazioni forzate. Intitolato “Gli ostacoli verso un noi sempre più grande”, il rapporto denuncia la crescita delle detenzioni arbitrarie in Libia e la scarsità di domande di asilo registrate dai paesi dell’Unione Europea, a fronte di una crescita del fenomeno migratorio. Inoltre pone l’accento sul diaframma che la pandemia da Covid ha creato tra la fetta di popolazione mondiale in grado di curarsi e la parte che invece non ha accesso alle cure. I centri di detenzione libici - Sono detti centri facenti capo alla Direzione per il contrasto dell’immigrazione illegale, ma sono veri e propri centri di detenzione. Il rapporto rivela che da gennaio a ottobre la presenza di migranti in questi centri si è decuplicato, passando a contenere dalle 1.100 persone di gennaio alle 10mila di giugno. Per non parlare delle torture, delle violenze e degli abusi, ai quali queste persone sono sottoposte, come denunciato nell’estate dal segretario generale dell’Onu e dall’Unsmil, la missione Onu in Libia. “Hanno denunciato come i prigionieri dei centri continuino ad essere sottoposti a torture, violenze e abusi, tra vitto insufficiente e scarsa assistenza”, si legge nel rapporto. Le domande di asilo negate - “Fino all’estate 2021 - ha evidenziato il rapporto - i livelli della “domanda di asilo” nei confini dell’Ue non aveva ancora raggiunto quelli del pre-pandemia”. Le persone che hanno potuto accedere alla richiesta di asilo (ma non anche all’accoglimento della loro domanda) sono state nei primi sei mesi del 2021 circa 200mila, più o meno lo stesso numero del primo semestre del 2020, investito dal fenomeno pandemico. Da marzo a giugno 2021, infatti, i richiedenti asilo registrati sono stati 103mila. Il doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando la prima ondata di Covid-19 aveva paralizzato il sistema dell’accettazione delle richieste e i migranti che avevano potuto ottenere una registrazione della propria domanda erano stati 48mila. Nei tre mesi precedenti (gennaio-marzo 2020) le registrazioni erano state 150 mila, cioè il triplo. Nel 2020 il totale dei richiedenti asilo è stato di 417mila persone, prima della pandemia, invece, nel 2019 a vedersi registrare la domanda erano stati in 631mila. Di queste 417 domande del 2020, solo 281 sono state accolte dai paesi dell’Unione europea. Mentre delle 631 del 2019 a ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o di quella umanitaria erano stati 296 mila persone. Mentre nel mondo il numero delle persone in fuga continuava ad aumentare, fino a una stima di 82,4 milioni, nel nostro continente si sono registrati meno arrivi “irregolari” di rifugiati e migranti (-12 per cento rispetto al 2019) e meno richiedenti asilo (crollati di ben un terzo). “Ma L’Ue vuole continuare ad alzare i muri alle frontiere non solo simbolicamente”, si legge. Il Covid ha approfondito la disuguaglianza - La pandemia, spiega il rapporto, “ha reso ancora più gravoso qualsiasi motivo, qualsiasi spinta a lasciare la propria casa, la propria terra. Il Covid-19 ha inasprito il divario fra una parte di mondo che vive in pace, si sta curando, tutelando e sopravvivendo e un’altra che soccombe, schiacciata da una disparità crudele”. La situazione è peggiorata nel 2021 che “ha visto dilagare la “nuova disuguaglianza” nell’accesso ai vaccini anti Covid”. Oltre 1.500 morti e dispersi nel Mediterraneo - Il rapporto riferisce che all’inizio di novembre 2021, “la stima (minima) dei migranti morti e dispersi nel Mediterraneo ha già superato il totale del 2020, 1.559 contro 1.448”. Di questi, più di 1.200, hanno perso la vita nella rotta che conduce verso l’italia e Malta. Un disastro umanitaro che si consuma nell’indifferenza degli Stati europei e appartenenti all’Ue. La quinta edizione del rapporto - Il rapporto della Fondazione Migrantes è oggi l’unico in Italia dedicato specificamente al mondo dei richiedenti asilo, dei rifugiati e delle migrazioni forzate. Si concentra in modo particolare sulla relazione tra questi fenomeni e l’Europa, con particolare focus sull’Italia. Il titolo dato all’edizione 2021, “Gli ostacoli verso un noi sempre più grande”, riprende il messaggio di Papa Francesco per la 107ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. I contributi che raccoglie, si legge nella presentazione, “sono curati da un’équipe di autori che, oltre ad essere studiosi di questi temi, nel corso degli anni hanno seguito e continuano a seguire concretamente i richiedenti asilo e i rifugiati nei loro percorsi in Italia, o sono essi stessi rifugiati”. Alla realizzazione del documento ha contribuito anche l’osservatorio Vie di fuga. Bielorussia. 18 anni di carcere al marito dell’oppositrice Tikhanovskaya di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 15 dicembre 2021 Il processo a porte chiuse. per i giudici è colpevole di “eversione”. Un tribunale bielorusso ha condannato a 18 anni di prigione Sergei Tikhanovsky, blogger ed esponente dell’opposizione al regime di Alexander Lukashenko. Dopo il suo arresto pochi mesi prima delle elezioni presidenziali di agosto 2020, la moglie Svetlana ha preso il suo posto nella campagna elettorale, divenendo uno dei volti del fronte anti- Minsk. Al termine di un processo a porte chiuse durato mesi in un centro di detenzione della città di Gomel, il tribunale ha trovato Tikhanovsky colpevole di organizzare rivolte e incitare all’odio sociale, scrive il quotidiano statale Sovetskaya Belarus. Uno degli altri cinque imputati processati insieme a Tikhanovsky, il sessantancinquenne Mikola Statkevich, è stato condannato a 14 anni. Statkevich aveva corso contro Lukashenko alle elezioni del 2010 ma era stato condannato a sei anni. Liberato nel 2015, gli fu impedito di correre alle presidenziali del 2020. Sia Tikhanovsky che Statkevich erano agli arresti dal maggio 2020. Igor Losik, accusato di utilizzare il suo popolare canale Telegram per incitare alla rivolta, e il blogger Vladimir Tsyganovich sono stati condannati a 15 anni. Artyom Sakov e Dmitry Popov, due attivisti vicini a Tikhanovsky, sono stati condannati a 16 anni. “Il dittatore si è vendicato pubblicamente dei suoi oppositori più forti. Spera di continuare la repressione in silenzio, nascondendo i prigionieri politici in processi a porte chiuse. Ma il mondo intero guarda. Non ci fermeremo. La sola esistenza di queste persone è un crimine per il regime. Vengono perseguiti per voler vivere in una Bielorussia libera”, ha commentato con amarezza Tsikhanovskaya. Parallelamente un altro blogger anti Lukashenko, Ihar Losik, è stato condannato a 15 anni di carcere per le stesse ragioni. L’ex candidato alle elezioni presidenziali nel 2010, Mikalay Statkevich, 65 anni, è stato condannato a 14 anni, gli attivisti Uladzimer Tsyhanovich a 15 anni, Artsyom Sakau a 16, e Dzmitry Papou, a 16. Danimarca. Separò le famiglie di richiedenti asilo, condannata l’ex ministra Inger Stojberg di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 15 dicembre 2021 Sessanta i giorni di carcere stabiliti dalla Corte di impeachment “Ha violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Colpevole di aver violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la legge sulla responsabilità ministeriale. È il verdetto che ieri ha portato alla condanna a 60 giorni di carcere per l’ex ministra dell’immigrazione danese Inger Stojberg. Secondo i giudici della Corte di impeachment del regno il reato è stato quello di aver separato illegalmente diverse coppie di richiedenti asilo in cui il membro femminile era minorenne. Nel 2016, 23 coppie, la maggior parte delle quali aveva una piccola differenza di età, sono state divise senza un esame individuale del loro caso, seguendo le dirette istruzioni del ministro. I rifugiati, siriani, sono stati poi spediti in diversi centri di raccolta in attesa che venisse presa una decisione sulla loro permanenza in Danimarca. Questa pratica è stata quindi giudicata illegale perché è stata portata avanti senza eccezioni nonostante gli avvertimenti del dipartimento immigrazione, si è così messo in pratica un provvedimento collettivo contrario alle leggi di Oslo. Il caso è scoppiato in seguito alla denuncia di una una giovane coppia siriana, Rimaz Alkayal, allora 17enne e suo marito Alnour Alwan, 26 anni erano stati costretti a vivere separati per quattro mesi, anche se lei era incinta. Nel complesso la maggior parte delle donne rifugiate aveva un’età compresa tra i 15 e i 17 anni, mentre gli uomini tra i 15 e i 32. Inoltre alcune coppie erano anche già dei genitori con i figli al seguito. Il ministro Stoejberg ha sempre dichiarato che il suo intento era quello di punire i matrimoni forzati per le ragazze minorenni anche se tutte le donne con meno di 18 anni hanno affermato davanti ai giudici di avere acconsentito spontaneamente alle loro unioni. In realtà in Danimarca l’età legale per il matrimonio è di 18 anni e proprio su questa base agiva il ministro ma vista la particolarità dei casi si è trattata di una forzatura che, secondo la Commissione di impeachment, ha portato la Stoejberg anche a mentire per ben 4 volte al Parlamento che le chiedeva conto di quanto stava succedendo. Un verdetto del genere è comunque un evento eccezionale in Danimarca, è solo la terza volta dal 1910 che un politico è stato deferito al tribunale speciale di 26 giudici che raramente viene convocato ed è stato creato proprio per processare i ministri accusati di negligenza. L’ultimo caso risale al 1993, viene ricordato con il nome di ‘Tamilgate’ e riguardava il congelamento illegale del ricongiungimento familiare per alcuni rifugiati srilankesi nel 1987 e nel 1988 da parte dell’ex ministro conservatore della Giustizia Erik Ninn- Hansen. Quest’ultimo venne condannato ad una pena detentiva, in seguito sospesa, di 4 mesi. La vicenda giudiziaria dell’ex ministro Stoejberg potrebbe portarla fuori dal Parlamento e chiudere la sua carriera politica, anche se la condanna a 60 giorni non la terrà probabilmente in carcere visto che in Danimarca le pene inferiori a 6 mesi prevedono il controllo elettronico. A pesare c’è comunque la sua storia, considerata un’estremista in materia d’immigrazione, ha guidato l’inasprimento delle norme sull’asilo fino a far adottare al suo paese una legge nel 2016 che richiede ai rifugiati appena arrivati di consegnare oggetti di valore come gioielli e oro per aiutare a pagare i loro soggiorni. Mentre era Ministro per l’immigrazione e l’integrazione, dal 2015 al 2019, in un governo di centro- destra sostenuto dal Partito popolare danese (DF) populista di destra, Stojberg non ha mai negato, vantandosi, di aver approvato più di 110 emendamenti che limitavano i diritti degli stranieri. La sentenza ha in ogni caso spaccato il paese, con gli schieramenti politici a rappresentare questa divisione. Il leader parlamentare del DF, Peter Skaarup, ha dichiarato di trovare il verdetto incomprensibile e di sostenere la politica di separazione della signora Stoejberg mentre Rosa Lund, deputata del partito di sinistra Unity List, ha accolto con favore la conclusione della procedura di impeachment. Vietnam. Giornalista condannata a nove anni di carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 dicembre 2021 Il 14 dicembre Pham Doan Trang, tra le più note giornaliste del Vietnam, una delle più autorevoli voci in favore dei diritti umani, è stata condannata a nove anni di carcere. Per anni, Phan Doan Tiang è stata sottoposta a sorveglianza, ha subito minacce ed è stata torturata per aver preso le parti dei dissidenti arrestati e soprattutto aver denunciato il disastro ambientale e le espropriazioni dei terreni del villaggio di Dong Tam. Era stata arrestata a Ho Chi Minh City il 7 ottobre 2020 e accusata, ai sensi del famigerato articolo 88 del codice penale, di “produzione, archiviazione, divulgazione e distribuzione di informazioni, documenti e materiale contro la Repubblica socialista del Viet Nam”. In suo favore erano intervenute, a ottobre, le Nazioni Unite e 28 organizzazioni per i diritti umani. Nel 2019 aveva ricevuto il premio per la libertà di stampa di Reporter senza frontiere e nel 2020 il premio Voltaire.