L’Europa dialoga sulla giustizia riparativa di Giulia Merlo Il Domani, 14 dicembre 2021 La prima conferenza dei ministri del semestre italiano è dedicata alla giustizia riparativa. La ministra Marta Cartabia: “Non è uno strumento di clemenza, ma è una giustizia che aiuta il trasgressore ad assumersi la sua responsabilità nei confronti della vittima e nei confronti della comunità, attraverso l’incontro e il dialogo” È cominciato a Venezia il vertice dei ministri della Giustizia degli Stati membri del Consiglio d’Europa e la prima conferenza dei ministri del semestre di Presidenza italiana sarà dedicata alla giustizia riparativa. L’evento si pone l’obiettivo di fare avanzare il dibattito sulla giustizia riparativa in materia penale all’interno del Consiglio d’Europa, sulla base dell’analisi di dati provenienti da fonti europee e internazionali e tenendo conto delle migliori esperienze pratiche realizzate negli Stati membri. Il discorso di Cartabia - La guardasigilli, Marta Cartabia, ha sottolineato la scelta di questo tema: “Il mio Paese ha deciso di richiamare l’attenzione dei Ministri della Giustizia degli Stati membri sulla giustizia riparativa in quello che è un momento cruciale e particolarmente fruttuoso per l’Italia in termini di riforme del sistema della giustizia penale”. Cartabia, che per storia professionale è da sempre sensibile ai temi legati al carcere, ha ricordato che “le istituzioni pubbliche hanno il dovere di prevedere ed offrire ai condannati, soprattutto ai giovani condannati, una seconda possibilità per poi provvedere al loro reinserimento sociale. Attuando infine le nostre politiche in materia di giustizia riparativa siamo convinti di contribuire alla diffusione di una cultura di risoluzione del conflitto e di riconciliazione a beneficio di tutti”. Non è clemenza - La ministra ha sottolineato che la giustizia riparativa non è uno “strumento di clemenza”. La giustizia riparativa “è una giustizia che aiuta il trasgressore ad assumersi la sua responsabilità nei confronti della vittima e nei confronti della comunità, attraverso l’incontro e il dialogo. Verità, responsabilità, incontro, dialogo, e ancora: percorso, cammino, mediazione sono le parole che fanno parte della cultura della giustizia riparativa”. Il programma dei lavori prevede tre sessioni: una sulla “giustizia riparativa e giovani”, una su “giustizia riparativa come complemento di quella penale” e infine una sulla “formazione specifica”. Durante la conferenza portano la loro testimonianza sul percorso di giustizia riparativa vissuto nel Sud Africa dell’Apartheid Albie Sachs, ex giudice della Corte costituzionale, e Pumla Gobodo Madikizela, professoressa e docente dell’Università di Stellenbosch. I guardasigilli europei: più giustizia riparativa per frenare l’odio (Avvenire) La giustizia riparativa in Italia è già una realtà, con - 80 progetti attivi (41 per minori, gli altri per adulti) e 6mila persone coinvolte nel 2019. Il più importante riguarda a Firenze 100 persone sottoposte a misure alternative alla detenzione. Una spinta ulteriore arriverà dalla riforma del processo penale, diventata legge a settembre. Ma anche l’Europa potrebbe valorizzare ancor di più questo strumento. Ne stanno discutendo a Venezia, ieri e oggi, i ministri della Giustizia dei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa. Di fronte alle 40 delegazioni presenti, la presidenza italiana conta di concludere in giornata i lavori con l’approvazione di una “Dichiarazione” che spinga gli Stati membri a una più estesa applicazione dell’istituto della giustizia riparativa: “Non è un atto di clemenza”, sottolineala ministra della Giustizia Marta Cartabia, ma “aiuta il trasgressore ad assumersi la propria responsabilità nei confronti della vittima e della comunità, attraverso l’incontro e il dialogo”. Non solo: nelle nostre società conflittuali, considera la Guardasigilli, aiuta a “domare la rabbia della violenza”, a fermare “l’inasprimento dell’odio” e a ricostruire “legami tra i cittadini”. L’esperienza più significativa arriva dal Sudafrica, con la Commissione Verità e riconciliazione (istituita nel 1996 dopo la fine dell’apartheid) per ricostruire crimini e violazioni dei diritti umani. Toccante la testimonianza di Albie Sachs, ex giudice della Corte costituzionale, che ha perso un braccio e un occhio per un’autobomba. Sachs ha rievocato l’incontro con l’attentatore e di come sia riuscito a stringergli la mano, dopo che questi aveva ammesso le sue responsabilità. La riforma della magistratura: dalle toghe in politica alla legge elettorale del Csm di Giulia Merlo Il Domani, 14 dicembre 2021 Il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario contiene una serie di previsioni che modificano profondamente la magistratura, fissando regole per le nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari e regolando in modo nuovo il metodo di elezione dei consiglieri del Csm. Ma il testo non è ancora pronto, manca il maxi emendamento del ministero della Giustizia che verrà presentato nei prossimi giorni ma è stato anticipato alla maggioranza. Il momento della riforma dell’ordinamento giudiziario è arrivato. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha incontrato giovedi 9 dicembre la maggioranza per anticipare i contenuti dell’emendamento ministeriale Il testo non è ancora stato mostrato per iscritto, ma il dibattito ora è aperto sia con le forze politiche che con i vertici della magistratura per limarlo in versione definitiva. Poi, secondo il metodo già utilizzato con il ddl penale e civile, iil maxiemendamento governativo dovrebbe esaurire il dibattito e portare al testo che verrà presentato e votato in aula. La riforma contiene una serie di modifiche significative al metodo di selezione dei magistrati e dei loro rappresentanti al Csm. La riforma del Csm - Si introducono delle incompatibilità, in particolare tra i membri della sezione disciplinare e le commissioni che decidono su incarichi direttivi, trasferimenti d’ufficio e valutazioni di professionalità. Nell’ufficio studi, invece, potranno entrare anche componenti esterni come avvocati, professori e dirigenti, previo superamento di un concorso. Valutazioni di professionalità: anche avvocati e professori faranno parte dei consigli giudiziari; il giudizio positivo, che prima non era articolato, avrà tre giudizi (discreto, buono e ottimo). Nomine per gli incarichi direttivi: gli atti saranno pubblici, l’assegnazione degli incarichi avverrà in base all’ordine temporale di vacanza (salvo deroghe per motivi giustificati) e questo dovrebbe evitare le cosiddette “nomine a pacchetto” che hanno favorito la spartizione correntizia. I candidati verranno scelti sulla base del curriculum, con audizione obbligatoria. Verranno individuati i criteri di valutazione, tra i quali l’anzianità, per valutare le capacità anche organizzative dei candidati. Magistrati in politica e fuori ruolo - Non sarà più possibile per i magistrati avere incarichi elettivi e politici (come nella polemica della settimana, sul caso di Catello Maresca a Napoli). I magistrati non potranno candidarsi nel collegio in cui è compreso in tutto o in parte l’ufficio giudiziario in cui hanno prestato servizio negli ultimi tre anni. All’atto dell’accettazione della candidatura dovranno essere posti in aspettativa senza assegni. Chi si candida in Parlamento potrà tornare a indossare la toga, anche se solo a certe condizioni. Modifiche anche per i magistrati fuori ruolo, che quindi svolgono incarichi presso ministeri e altre sedi di governo e che vengono distaccati dalla magistratura. Si va verso un taglio del loro numero massimo consentito (oggi 200), sia della durata di questa esperienza (non più di 10 anni in tutta la carriera). La legge elettorale del Csm - L’argomento più controverso del ddl, però, è il sistema elettorale del Csm. Secondo la proposta presentata dalla ministra ai gruppi parlamentari, infatti, l’ipotesi è di andare in una direzione diversa rispetto a quella prospettata dalla commissione di esperti che hanno lavorato sul testo, guidati dal costituzionalista Massimo Luciani. La proposta Luciani, di cui le correnti hanno fino ad oggi dibattuto, prevedeva infatti il sistema proporzionale del singolo voto trasferibile. L’ipotesi della ministra, invece, è quella di un sistema maggioritario con alcuni correttivi per dare rappresentanza ai gruppi minoritari e favorire la parità di genere nelle candidature. Quindi: collegi binominali, turno unico, unica preferenza; almeno 6 candidature; sorteggio nel caso in cui non sia assicurata parità di genere. Incerto è anche l’aumento del numero dei consiglieri togati e questo incide sui collegi. Le ipotesi su cui si ragiona sono due, diverse a seconda che sia previsto o meno l’aumento del numero di consiglieri del Csm togati eletti dai circa diecimila magistrati italiani. Nel caso in cui il numero non aumenti: collegio unico nazionale per i 2 componenti della giurisdizione di legittimità; 2 collegi per la designazione dei 4 magistrati requirenti; 4 collegi per la designazione dei magistrati giudicanti. 2 seggi assegnati ai migliori terzi classificati. Con il correttivo maggioritario 2 seggi da assegnare ai migliori terzi. Tutti i magistrati votano per tutti. Nel caso in cui i consiglieri aumentino: collegio unico nazionale per i 2 componenti della giurisdizione di legittimità; 2 collegi per la designazione dei 5 magistrati requirenti, con recupero del migliore terzo classificato; 4 o 5 collegi per la designazione dei magistrati giudicanti, con integrazione dei tre migliori terzi classificati. Correttivo del maggioritario, 6 o 4 seggi da assegnare ai migliori terzi. Insomma, il sistema si preannuncia meno innovativo di come si pensava. Non a caso, sono già arrivare le prime critiche sia dai magistrati che dai politici. La critica maggiore è che il sistema maggioritario privilegi i due gruppi associativi più grandi - Area e Magistratura indipendente - penalizzando invece quelli più piccoli. In ogni caso, non sarebbe un sistema che neutralizza il cosiddetto “correntismo” che, dal caso Palamara in poi, è considerato una delle cause della crisi della magistratura. Giustizia, Cartabia: in Italia momento fruttuoso per riforme Askanews, 14 dicembre 2021 “Il mio Paese ha deciso di richiamare l’attenzione dei Ministri della Giustizia degli Stati membri sulla giustizia riparativa in quello che è un momento cruciale e particolarmente fruttuoso per l’Italia in termini di riforme del sistema della giustizia penale”. Così il ministro della Giustizia, Marta Cartabia che a Venezia ha introdotto la Conferenza dei ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa. A tema del vertice, che continuerà fino a domani, la giustizia riparativa. La riforma in materia di giustizia penale, approvata a settembre, è, per Cartabia, “un’attestazione del rinnovato impegno dell’Italia a dare piena attuazione alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2018, con la quale si incoraggiano gli Stati membri ad adottare i principi della giustizia riparativa e a promuovere i programmi di giustizia riparativa nei rispettivi ordinamenti interni relativi alla giustizia penale”. Il ministro ha poi sottolineato che “le nostre società stanno crescendo in modo polarizzato e conflittuale”, per cui - ha aggiunto - “riteniamo che sia nostra responsabilità contribuire ad imprimere una battuta di arresto all’inasprimento del conflitto, dell’odio e della violenza per preservare il bene comune”. “È nostra intenzione, inoltre, prevenire la radicalizzazione e promuovere la desistenza dal crimine riducendo la recidiva. Reputiamo poi necessario liberare le vittime dal peso del trauma subito a causa del reato, di qualunque reato si tratti”. A questo riguardo Cartabia ha ricordato che “le istituzioni pubbliche hanno il dovere di prevedere ed offrire ai condannati, soprattutto ai giovani condannati, una seconda possibilità per poi provvedere al loro reinserimento sociale. Attuando infine le nostre politiche in materia di giustizia riparativa - ha sottolineato la ministra - siamo convinti di contribuire alla diffusione di una cultura di risoluzione del conflitto e di riconciliazione a beneficio di tutti”. Correnti e carrierismo: Cartabia peggiora il Csm di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2021 All’interno dell’Associazione nazionale magistrati sono sorti molti anni fa dei gruppi organizzati, essenzialmente in ragione di diverse visioni culturali della funzione giudiziaria e dei valori che la ispirano. Negli anni ci sono state scissioni e aggregazioni che hanno movimentato la vita associativa. Attualmente i gruppi rappresentati nel Comitato direttivo centrale dell’Anm sono cinque: Area (che raggruppa Magistratura democratica e Articolo 3) con 11 eletti Magistratura indipendente, con 10 eletti, Unità per la Costituzione con 7 eletti, Autonomia e indipendenza, con 4 eletti e Articolo 101 con 4 eletti (i riferimenti degli articoli sono alla Costituzione della Repubblica). Nel corso del tempo i gruppi si sono organizzati in modo più o meno stabile ed efficiente e tuttora quelli più organizzati (come è ovvio che sia) ottengono un maggior numero di eletti. L’organizzazione ha talora innescato fenomeni volti a premiare più l’appartenenza e la fedeltà al gruppo che il merito, come del resto accade in qualunque forma di vita associativa. In contrapposizione a questo fenomeno erano sorte Autonomia e indipendenza e da ultimo Articolo 101 che, disperando di poter eliminare queste degenerazioni, propone il sorteggio, se non dei componenti, almeno dei candidati al Consiglio superiore della magistratura. La prevalenza dell’appartenenza sul merito è una grave degenerazione, posto che i magistrati sono reclutati per concorso e quindi per merito, mentre la loro progressione economica e nelle funzioni viene poi talora influenzata da ragioni diverse dalla capacità professionale e dall’impegno. Più volte sono state approvate leggi elettorali per il Csm con il dichiarato scopo di indebolire le correnti, che hanno però sempre ottenuto il risultato contrario. Nel predisporre una nuova legge elettorale dopo le vicende che hanno colpito l’attuale Csm, secondo notizie di stampa, il ministro della Giustizia professoressa Cartabia ha annunciato un sistema maggioritario con collegi binominali, a turno unico, con un’unica preferenza e con un correttivo volto a garantire la rappresentanza delle minoranze. È probabile che anche questa riforma otterrà il risultato contrario a quello che si dichiara di voler perseguire. Un sistema maggioritario potrebbe assegnare la maggioranza dei seggi al Csm a una sola corrente e comunque consentirà una rappresentanza maggiore alle due correnti più forti, relegando a posizioni di minoranza le altre. Nella prima ipotesi la corrente di maggioranza tenderà a creare alleanze con i componenti laici (quelli eletti dal Parlamento) che riterrà più vicini alle proprie posizioni, così accentuando la “politicizzazione” della magistratura. Nella seconda ipotesi saranno probabili accordi fra i due gruppi più rappresentati con il reiterarsi di fenomeni quali quelli delle nomine “a pacchetto” (uno a me e uno a te), che è un’illusione sperare di impedire solo con il vincolo di procedere a nomine in ordine cronologico di scopertura dei posti direttivi o semidirettivi da coprire. Salvo che quel che resta del gruppo di Unità per la Costituzione (prima dello scandalo che ha investito l’attuale Csm era il gruppo maggioritario ed è stato ridimensionato dalle ultime elezioni per il Comitato direttivo centrale) non cancelli ogni rappresentanza dei due gruppi più piccoli (cioè proprio quelli che contestano le degenerazioni) ottenendo tutti i seggi di rappresentanza delle minoranze, i magistrati candidati dai gruppi minori non saranno in grado di contrastare eventuali accordi e saranno perciò destinati a ottenere sempre meno voti alle elezioni successive fino a diventare irrilevanti. I rimedi radicali proposti da alcuni, come vietare le correnti o introdurre il sorteggio, sono incostituzionali, dal momento che la Costituzione consente libertà di associazione e prevede l’elettorato attivo e passivo in capo a tutti i magistrati. In ogni caso non sarebbero efficaci: anche senza denominazioni o statuti formali rimarrebbero rapporti di fatto tra le persone, mentre candidati o componenti sorteggiati non potrebbero comunque che subirne l’influenza. La malattia è stata aggravata dalla riforma di ordinamento giudiziario del 2006 che ha scatenato una forte spinta carrieristica in magistratura, in contrasto alla previsione costituzionale secondo la quale i magistrati si distinguono tra di loro solo per diversità di funzioni (art. 107 comma 3 della Costituzione). Si tratta di ripensare quella riforma perché se non si individua la causa della malattia non è possibile adottare rimedi adeguati a curarla. Muoversi nell’illusione che la sola riforma del sistema elettorale possa evitare le degenerazioni che si sono verificate è, a tutto concedere, una buona intenzione, ma si sa che le vie per l’inferno sono lastricate di buone intenzioni. La presunzione d’innocenza è legge “Ora non svilitela sul campo” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 dicembre 2021 Da oggi cambia il rapporto tra Procure e informazione. L’esultanza del deputato di Azione Enrico Costa: “Questo è un provvedimento di portata storica”. Da oggi cambia il rapporto tra Procure e informazione: entra finalmente in vigore la norma di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Per celebrare l’evento il deputato di Azione Enrico Costa ha convocato ieri una conferenza stampa alla Camera: si tratta di “un provvedimento di portata storica”, ha detto il parlamentare, tra i maggiori sostenitori della nuova norma che ora “non vorremmo venisse svilita sul campo”. Per questo occorrerà vigilare, in quanto “il pericolo più grande è l’elusione del provvedimento”. Sarà fondamentale l’apporto che tutti gli avvocati potranno dare per verificare il rispetto della legge. E su questo il presidente dell’Unione Camere Penali Gian Domenico Caiazza, tra gli intervenuti alla conferenza, ha assicurato che l’Osservatorio Informazione Giudiziaria farà la sua parte. Costa ha presentato ai giornalisti un modulo, scaricabile dal sito presuntoinnocente.com, con cui qualsiasi cittadino potrà segnalare al ministero della Giustizia eventuali violazioni della norma. Insomma, massima volontà affinché la nuova legge non venga aggirata, come già successo in passato per altre disposizioni che pure limitavamo la comunicazione delle Procure. Certo, le perplessità non mancano. David Ermini due giorni fa, ad un evento organizzato da Unicost, ha infatti detto: “Parlando a titolo personale e di avvocato, non da vicepresidente del Csm, sono un po’ scettico. Se esce la notizia che un personaggio noto è indagato, il danno è già fatto”. Abbiamo chiesto un commento al presidente Caiazza alla fine della conferenza: “Che un evento dannoso possa comunque causarsi è fuori discussione; però aver fissato un divieto di rappresentare una indagine in termini pregiudizievoli per l’indagato è un dato assolutamente importante perché si è rafforzato un principio di civiltà contro una deriva tipica del nostro Paese”. Presente alla conferenza anche il professor Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma, che ha rilanciato chiedendo la modifica di due articoli della Costituzione, il 27 e il 13: “Per mantenere viva la fiammella di questo cambiamento culturale che investe tutti, i politici devono assumere una iniziativa di modifica costituzionale perché due punti sono assolutamente inadeguati: trasformare la presunzione di non colpevolezza in “considerazione di innocenza” e sostituire la carcerazione preventiva in “misure cautelari”. La semantica è importante. Dico questo perché la ministra della Giustizia Cartabia è una costituzionalista e non credo che si troveranno ostacoli in Parlamento”. Invece, per il deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri, “questo è solo un primo passo, il secondo saranno i referendum, verso il traguardo di un ritorno alla civiltà e della fine della cultura del sospetto, del torbido, agitata da una piccola parte di magistrati che hanno danneggiato la sacralità della funzione giudiziaria”. L’onorevole Roberto Giachetti di Italia Viva ha proseguito: “Questa norma è un aiuto al Paese per recuperare le radici di una civiltà giuridica e una sponda anche all’interno della magistratura per chi si sentiva isolato e che ora ha uno spunto legislativo cui agganciarsi”. Ma un cambiamento deve interessare anche la stampa, che non è direttamente coinvolta dalla nuova norma, come ha sottolineato il giornalista Alessandro Barbano: “Questo è un provvedimento storico, il cui valore è una semina a futura memoria. È evidente però che l’altro corno del problema è la deontologia del giornalismo. La più grande riforma garantista deve essere quella che punti alla qualità del giornalismo pubblico televisivo, perché è il mezzo con cui si forma l’opinione pubblica. Volendo concepire una nuova responsabilità per i giornalisti. Credo che sia indifferibile nella prospettiva di revisione costituzionale qualificare la mediazione giornalistica e attribuirle valore costituzionale, che significa ovviamente anche un impegno a regolare la formazione, il livello di controllo deontologico, senza violare ovviamente la libertà di pensiero”. “Non è un bavaglio e i magistrati non sono i tutori della morale” di Simona Musco Il Dubbio, 14 dicembre 2021 Alessandra Maddalena (Anm): “Nessun magistrato dovrebbe mai ricoprire il ruolo di moralizzatore, non gli compete assolutamente. Ha un ruolo diverso: ricerca le prove, la verità, accerta i fatti e rende giustizia nell’interesse dei cittadini. Non è compito del magistrato esprimere giudizi morali”. A dirlo al Dubbio è Alessandra Maddalena, vicepresidente dell’Anm ed esponente della corrente Unicost, secondo cui “il sistema giudiziario deve parlare all’esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico: la giustizia è credibile anche in relazione all’immagine che di sé dà all’esterno”. Oggi entra in vigore il decreto legislativo che disciplina la diffusione di informazioni sulle indagini giudiziarie. Come interpreta questa novità? Lo spirito di fondo è assolutamente condivisibile. L’informazione giudiziaria è necessaria, in quanto è uno strumento di controllo democratico del modo in cui viene esercitata la giustizia. E sicuramente è importante anche informare sui successi investigativi, perché serve a rafforzare la fiducia dei cittadini e la loro voglia di collaborare. In questo modo, in certi territori, si combatte l’omertà e non lasciamo soli i magistrati di trincea, che rischiano la vita. Ma l’altro aspetto del discorso è la tutela della dignità dell’indagato e dell’imputato fino a sentenza definitiva. Il sistema giudiziario deve parlare all’esterno, ma deve anche saper resistere ai richiami del protagonismo mediatico, al sensazionalismo. Che produce l’effetto contrario: abbassare la fiducia nella giurisdizione, perché può creare l’impressione che si vada in cerca di popolarità attraverso l’indagine e che la stessa sia uno strumento per costruire carriere. La giustizia è credibile anche in relazione all’immagine che di sé dà all’esterno. Cosa bisogna fare per scongiurare abusi e strumentalizzazioni? È necessario che l’informazione sia resa sempre in maniera chiara, continente, sobria, evitando anche giudizi morali, che talvolta leggiamo anche in atti giudiziari e che poi vengono portati all’esterno. Bisognerebbe anche intervenire sulla formazione, a partire dalla Scuola superiore della magistratura. Il primo dovere del magistrato è rendere un’informazione corretta, perché un’informazione impropria può essere resa ancora più scorretta da un’eventuale alterazione ed enfatizzazione, producendo una visione totalmente distorta della giustizia e creando nel pubblico la certezza di colpevolezza di chi è indagato, con la lesione della presunzione d’innocenza. Quando nella fase delle indagini si utilizza questo tipo di comunicazione potrebbero rimanerne vittima anche i giudici e si potrebbe dare l’immagine di una giurisdizione arbitraria, perché di fronte ad una aspettativa di condanna, un’assoluzione fa nascere un sentimento di diffidenza. E il problema è talmente serio che anche il Csm, nel 2018, aveva dettato delle linee guida proprio sulla corretta comunicazione istituzionale, segnalando la necessità di una comunicazione essenziale e oggettiva. Alcuni magistrati hanno interpretato questa direttiva come un bavaglio, sia per le toghe sia per la stampa. Cosa risponde ai suoi colleghi? Non mi sento di parlare di bavaglio e non immagino che l’intento del legislatore fosse quello di imbavagliare qualcuno, ma di attuare una direttiva che voleva un rafforzamento della tutela della dignità dell’indagato e dell’imputato. Se poi mi chiede se questo strumento possa realizzare questo obiettivo o non possa produrre addirittura effetti pregiudizievoli allora le dico che qualche dubbio lo nutro. Perché? La modalità di comunicazione è stata ristretta al comunicato ufficiale, limitando la conferenza stampa a casi particolari. La cosa di per sé è comprensibile e anche giustificata, perché assicura la comunicazione mettendo gli organi di stampa in parità di condizioni ed evitando la precostituzione di canali riservati con organi di informazione. Ma non lo è in questa forma così assoluta. Neanche la direttiva europea prevedeva questo tipo di restrizione e potrebbero porsi dei problemi quando ci sono situazioni di tale urgenza e rilevanza pubblica per cui da una parte potrebbero non esserci i tempi minimi per organizzare una conferenza stampa e dall’altro potrebbe risultare non efficace un comunicato scritto. Sarebbe stato opportuno quantomeno prevedere un’eccezione nel caso di particolari urgenze. Il dubbio è anche che mettendo paletti troppo stretti in qualche modo le notizie continuino a circolare in maniera poco trasparente, aggirando il problema. Quello della comunicazione è un problema innanzitutto culturale, deontologico. I rimedi che sono stati introdotti da un lato potrebbero non essere effettivamente risolutivi, perché una volta che una comunicazione errata è stata resa non sarà la rettifica a risolvere il problema e dall’altra parte la stessa rettifica, con la possibilità di ricorrere al giudice con la procedura d’urgenza, probabilmente si traduce in un appesantimento complessivo della macchina giudiziaria, che potrebbe non essere risolutivo davvero. Inoltre la previsione generica di un obbligo di risarcimento del danno potrebbe in qualche modo indurre il magistrato ad ammorbidire sempre la propria posizione per evitare azioni risarcitorie in caso di dichiarazioni extrafunzionali, ma anche nei provvedimenti cautelari: si potrebbe essere indotti ad evitare delle espressioni più decise, anche se funzionali alla motivazioni sulla gravità indiziaria, per non incorrere nella violazione di quella regola non chiarissima introdotta nel decreto e quindi evitare richieste strumentali di correzione di passaggi semplicemente sgraditi all’indagato. Il procuratore de Raho, in un’intervista, sostiene che i magistrati devono stare fuori dai circoli mediatici. Eppure ci sono magistrati molto esposti mediaticamente... Condivido le dichiarazioni del procuratore e il giudizio negativo sulla spettacolarizzazione e l’eccessiva presenza dei magistrati nei talk show televisivi, che non credo assolutamente serva a rafforzare la credibilità della giustizia o a recuperare il prestigio dell’ordine giudiziario. Sensazionalismo e protagonismo sono da respingere. E penso alle parole di Livatino, che parlava del magistrato che lavora nelle sue stanze senza preoccuparsi di apparire. Il magistrato deve dare l’immagine di chi è alla ricerca della giustizia, in un senso o nell’altro, né colpevolista né innocentista, ma in maniera oggettiva, nella sostanza e nella comunicazione. Bruti Liberati: “Il protagonismo dei pm-star non si combatte ingessando l’informazione” di Davide Varì Il Dubbio, 14 dicembre 2021 L’ex procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati sulla legge che tutela la presunzione di innocenza: aver impedito le conferenze stampa è privo di senso. Nell’attuazione pratica della legge sulla tutela della presunzione di innocenza “si dovrà ricercare un punto di equilibrio rispetto ad altri valori come, da un lato, il dovere di comunicare e di rendere conto accountability da parte del sistema di giustizia e, dall’altro, il diritto di informazione, di cronaca e di critica”. Lo dice all’Adnkronos l’ex procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati a ridosso dell’entrata in vigore della normativa che disciplina la diffusione di informazioni sulle indagini giudiziari e che già divide la magistratura. “Già la direttiva Ue adottava formulazioni molto restrittive, limitando la possibilità da parte delle autorità pubbliche di “divulgare informazioni sui procedimenti penali”, ai soli casi in cui “ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico”. In democrazia l’interesse pubblico comporta un rovesciamento di prospettiva: l’informazione sui procedimenti penali, deve essere la più ampia possibile, salva la tutela delle esigenze di segretezza dell’indagine, che a sua volta deve essere ricondotta allo stretto necessario”. Il dibattito si è concentrato sulla comunicazione delle procure. “Le esternazioni lesive del principio di innocenza e in contrasto con i criteri dell’equilibrio e della misura di alcuni magistrati, soprattutto pubblici ministeri danneggiano la credibilità della giustizia. Ma l’indebito protagonismo di magistrati e anche la cattiva informazione si contrastano con la buona e corretta informazione e non certo con la pretesa ingessare le modalità di comunicazione. Avere privilegiato per l’informazione delle procure i comunicati stampa, cercando di porre limiti più stringenti alle conferenze stampa è privo di senso ed ignora la realtà”, sottolinea l’ex procuratore. “Basta una rapida esplorazione sul web per trovare comunicati stampa improvvidi e non rispettosi della presunzione di innocenza e, all’opposto, conferenze stampa ben gestite e rispettose del principio. Il comunicato stampa - spiega Edmondo Bruti Liberati - è di per sé informazione a senso unico, mentre la conferenza stampa è l’occasione nella quale la stampa, con domande e contestazioni, può esercitare il ruolo di “cane da guardia della democrazia”“ per usare l’espressione presente nelle sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo riguardo all’informazione sui casi giudiziari. “Qualunque normativa si adotti, rimane essenziale l’assunzione di responsabilità e la deontologia degli operatori di giustizia e degli operatori dell’informazione. Ma oltre le norme vi è il principio del rispetto nei diritti e nella dignità, della persona sottoposta ad indagini e processo ed anche definitivamente condannata”, conclude l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. Record di bocciati allo scritto del concorso di magistratura di Marco Ricucci* Corriere della Sera, 14 dicembre 2021 Il flop dell’italiano a scuola ormai è un’emergenza democratica. Su 1.532 compiti consegnati, finora è passato soltanto il 6% dei candidati. La questione della lingua italiana e l’urgenza di cambiare il modo di fare didattica della lingua a scuola. Il Codice di Hammurabi, databile intorno al 1750 prima della nascita di Cristo, è una raccolta di leggi scritte per i sudditi dell’Impero babilonese, ma probabilmente agli aspiranti magistrati, che hanno svolto, nel 2021, l’ultimo concorsone per accedere ai tribunali della Repubblica italiana, sarà poco famigliare, a vantaggio del diritto romano. Passando dunque dai libri di storia antica - si tenga bene conto del motto historia magistra vitae - alla cronaca nostrana, da più parti è stata ripresa la notizia che la maggioranza degli aspiranti giudici non è riuscita a superare la prova scritta per gli eccessivi errori di grammatica di lingua italiana. Nel dettaglio, in base all’ultimo aggiornamento sul concorso da 310 posti che si è tenuto dal 12 al 16 luglio, i candidati erano precisamente 5.827; e di loro soltanto in 3.797 hanno consegnato la busta con la prova. Ma, paradossalmente, il reale problema si presenta proprio con la correzione degli elaborati: sui 1.532 compiti esaminati finora dalla Commissione, è passato soltanto, a stento, il 6% dei candidati, ovvero 88 aspiranti. Incredibile ma vero: qual è la ragione? Gli aspiranti magistrati non sanno scrivere nella lingua italiana e, per riprendere le parole dolenti della Commissione in un analogo concorso del 2008 prima di questo, gli errori grammaticali sono troppi. Ecco che si ripropone, in tutta la sua concretezza, quella che da qualche tempo ho battezzato “la neo-questione della lingua italiana”, che finora ha avuto solo una denuncia di stampo pedagogico-didattico, ma che in realtà consiste anche in una vera emergenza di tenuta democratica. Negli ultimi anni, i docenti di lettere hanno avvertito un decadimento di una delle quattro abilità ritenute fondamentali dalla civiltà occidentale fin dall’antichità classica, la scrittura, e su tutti i mass-media ebbe vasta eco, nel 2017, l’appello di 600 accademici italiani rivolto alla classe politica al fine di denunciare la scarsa conoscenza e competenza della lingua italiana da parte delle nuove generazioni. Questo complesso fenomeno, ancora da ben contestualizzare, andrebbe interpretato anche alla luce di concetti più generali ed epocali come quello di società liquida (Bauman), di villaggio globale (Ong), di oralità e scrittura (MacLuhan), di nativi digitali (Prensky). Nella scuola italiana, che spesso ha fatto della tradizione la giustificazione del proprio immobilismo pedagogico, la didattica della scrittura esplicita, permanente, graduata e inclusiva, scientificamente fondata, è purtroppo limitata: se al biennio si privilegia la lettura di brani antologizzati con un focus sulla lettura “decifrativa” del capolavoro manzoniano, al triennio, oltre alla storia della letteratura italiana basata su un impianto diacronico e spesso nozionistico, rimane - sulla carta- centrale la lettura esegetica delle cantiche dantesche. Allora, con un atto di onestà intellettuale, nell’attuale monte ore di lingua e letteratura italiana formato da appena 4 ore settimanali (prima della Riforma Gelmini ce ne erano cinque!), quanto spazio è realisticamente possibile dedicare alla didattica della scrittura? Nel nostro Paese, che pare “una nave senza nocchiere in gran tempesta”, si deve arrivare al paradosso di “ammazzare” i Padri della lingua italiana, con la provocatoria proposta di abolire non solo Manzoni ma persino Dante, per poter concedere maggiore spazio e tempo all’educazione linguistica, che tuttavia è una priorità contingente e sostanziale? Secondo il Professor Serianni, noto linguista e sempre attento al mondo della scuola, “quel che pregiudica il successo scolastico nell’italiano scritto è un insieme più complesso e meno facilmente rimediabile: scarsa capacità di organizzazione e gerarchizzazione delle idee, tecniche di argomentazione di volta in volta elementari o fallaci, modesta padronanza del lessico astratto o comunque di quello che esula dal patrimonio abitualmente impiegato nell’oralità quotidiana”. Si delinea sempre più nitida la neo-questione della lingua italiana, anche a partire dalla constatazione dei risultati del concorso a magistrato: si deve, dunque, partire dalla scuola per migliorare le abilità e le competenze di alunne e alunni, che saranno cittadini di domani. Non tutti, ovviamente, fra loro diventeranno magistrati, ma chi lo diventa, previo superamento del concorso, è chiamato a svolgere un ruolo importante nella società democratica: davvero incarna uno dei tre poteri costituzionali, ovvero quello giudiziario, ma con la sua sentenza può disporre della vita dei cittadini, talora privandolo della sua libertà. Il poeta Esiodo, vissuto nel VII a.C., intentò un processo al fratello Perse che non voleva dargli la sua parte di eredità paterna, tuttavia lo esorta così: “ma via, dirimiamo ora la nostra contesa secondo retta giustizia che, provenendo da Zeus, è la migliore”. Quando correggo un tema di un mio alunno, in un certo senso, ristabilisco la “giustizia” della lingua italiana con la penna rossa, trasmettendo il “valore” intrinseco della correttezza morfologica, sintattica, lessicale. Se mai l’alunno diventerà giudice, potrà meglio scrivere una sentenza e - lavorando anche sulla comprensione a scuola - capire le leggi. Alla luce di queste brevi considerazioni, è auspicabile che il Ministro Bianchi, pandemia permettendo, dia un chiaro segnale “politico” e scelga in modo chiaro di far svolgere la prima prova all’Esame di Stato nel 2022. Per il resto, continua la mia “battaglia” per la lingua italiana, come quella di tantissimi colleghi, nelle aule di scuola e università. *Professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano Magistrati onorari, stabilizzazione con stipendio e pensione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2021 Ce lo chiede l’Europa. Non fa misteri l’emendamento alla legge di bilancio messo a punto dal ministero della Giustizia sulla magistratura onoraria: si tratta di un intervento per rispondere all’apertura formale di una procedura di infrazione, formalizzata nella lettera di costituzione in mora dello scorso15 luglio, a contestazione della disciplina italiana del rapporto di lavoro dei magistrati onorari. Si tratta di oltre 6mila precari dell’amministrazione della giustizia, in buona parte avvocati, ai quali è ormai affidato quasi il 40% dei procedimenti civili e più del 50% di quelli penali. E non si tratta solo dei giudici di pace, istituiti nel 1998, e remunerati a cottimo con 56 euro lordi a sentenza, ma anche dei Vpo (vice procuratori onorari), che sostituiscono in udienza il pm ormai nell’80% dei giudizi (98 euro a udienza) e dei Got (giudici onorari di tribunale), inseriti in pianta stabile nei moli dei tribunali. Ora la parola d’ordine è stabilizzazione. Con l’emendamento il ministero della Giustizia punta a confermare a tempo indeterminato i magistrati onorari in servizio, sino al compimento dei 7o anni di età. Analogamente a quanto previsto per i togati. Per ottenere la conferma il Csm dovrà istituire tre verifiche da svolgere nel triennio 2022-2024 che riguarderanno rispettivamente i magistrati onorari con oltre 16 anni di servizio, quelli con anni di servizio tra12 e 16 e quelli con meno di 12 anni. Le procedure valutative consisteranno in un colloquio orale, della durata massima di 30 minuti su un caso pratico di diritto civile sostanziale e processuale oppure sul diritto penale sostanziale e processuale, in base al settore in cui i candidati hanno esercitato, invia esclusiva o comunque prevalente, le funzioni giurisdizionali onorarie. La commissione di valutazione è composta dal Presidente del tribunale o da un suo delegato, da un magistrato che abbia conseguito almeno la seconda valutazione di professionalità designato dal Consiglio giudiziario e da un avvocato iscritto all’albo speciale dei patrocinanti davanti alle magistrature superiori designato dal Consiglio dell’Ordine. Per chi non supererà le verifiche oppure non riterrà di sottoporvisi (la bozza di emendamento prevede che i magistrati onorari in servizio che non presentano domanda di partecipazione al “concorso” decadono dal servizio) è prevista una sorta di liquidazione parametrata al numero di anni di servizio e comunque non oltre 50mila euro lordi. Sia la percezione della liquidazione sia la partecipazione alla procedura di valutazione ha come conseguenza la rinuncia a qualsiasi pretesa relativa al rapporto di lavoro onorario precedente. Chi invece avrà superato le valutazioni si troverà davanti a un bivio, dove a fare la differenza sarà la previsione di un’esclusiva. Nel caso di prestazione in esclusiva il trattamento economico comprenderà una remunerazione fissa, comprensiva di tredicesima, equivalente a quella di un funzionario - non di un dirigente - dell’amministrazione della giustizia con inserimento in una posizione economica (F1, F2 o F3) diversa a seconda del numero di anni di servizio, a cui aggiungere un’indennità giudiziaria, che andrà a coprire anche gli eventuali straordinari, in misura pari al doppio dell’indennità spettante al personale giudiziario di riferimento. Il tutto per dire che in caso di esclusiva il netto dovrebbe aggirarsi intorno ai 2mila euro al mese. Per chi invece rinuncia all’esclusiva, lasciandosi quindi aperta la strada per continuare altre esperienze di lavoro, l’indennità non è prevista e il netto dovrebbe attestarsi sui 1.500 euro al mese. In entrambi i casi sarà prevista la copertura previdenziale e assistenziale. Ai magistrati onorari sarà inoltre riconosciuto il buono pasto per ogni udienza oltre le 6 ore. Per quanto riguarda l’impegno economico richiesto dall’attuazione dell’intervento, nell’emendamento si sottolinea come per il 2023 la spesa sarà di quasi 20 milioni, per salire l’anno successivo a 54,5 milioni e nel 2025 a 78,6 milioni. Sulla mafia sapevamo già tutto ma abbiamo fatto finta di nulla di Attilio Bolzoni Il Domani, 14 dicembre 2021 Basterebbe sostituire le date, mettere dicembre 2021 al posto di novembre 1898. Così potremmo scoprire, semmai ce ne fosse bisogno, che la mafia non cambia mai. La città di Palermo, più di 120 anni fa, era divisa in otto zone criminali ciascuna delle quali aveva una famiglia e ciascuna famiglia aveva un capo. Sono otto, anche oggi, i mandamenti di Cosa nostra nella capitale siciliana. E pure i nomi sono sempre quelli, gli stessi citati più di un secolo fa dal questore Ermanno Sangiorgi al procuratore del re. Nella borgata di Mezzomonreale c’erano i Di Trapani e i Vitale. Ai Pagliarelli c’erano i Motisi, a Santa Maria del Gesù i Bontà, nel quartiere dell’Olivella c’erano i Noto, fra gli orti di Brancaccio i Pennino. Una trentina di informative custodite nell’archivio generale dello stato fanno il ritratto di una Palermo mafiosa ferma, immutabile. Ecco perché un generale di divisione dell’Arma dei carabinieri si domanda se avessimo davvero bisogno di Tommaso Buscetta, il famoso pentito che nel 1984 si è confessato con il giudice Giovanni Falcone, per avere consapevolezza dell’esistenza di un’organizzazione segreta dedita al delitto e all’arricchimento illegale. Sapevamo già tutto. Ed è proprio questo, Sapevamo già tutto, il titolo del libro firmato da Giuseppe Governale, ex capo del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri (il famoso Ros) ed ex direttore della Direzione investigativa antimafia (la famosa Dia) che per la Solferino editore ha ricostruito la vicenda mafiosa in più di 300 pagine che si incrociano fra storia e attualità, un’analisi di ciò che lo stato ha fatto e di ciò che non ha fatto, della perversa relazione che si è irrobustita nel tempo fra mafia e istituzioni, di una guerra che non è ancora finita nonostante la struttura militare di Cosa nostra si sia estremamente indebolita dopo le stragi del 1992. La malapianta che si rigenera - Ma è una partita che si gioca ancora, la malapianta si rigenera all’infinito. Anche perché, la mafia, abbiamo cominciato a contrastarla tardi, tardissimo. Riferimenti ai Borboni o ai moti dell’Ottocento e ricordi familiari, la strage di Portella della Ginestra e quel giorno dell’agosto 1977 “quando apprendemmo in tv dell’agguato al tenente colonnello Giuseppe Russo al bosco della Ficuzza e vidi gli occhi di mio padre, un appuntato dell’Arma appena andato in pensione, gonfi di lacrime e di rabbia”. È un libro scritto da un siciliano e che da siciliano coglie anche il non detto di una parlata, che decifra il mistero o l’inquietudine che si può nascondere dietro un’occhiata o un silenzio troppo prolungato. È un libro scritto da un generale che conosce quell’altra Sicilia per averla affrontata sul campo di battaglia, prima come comandante dei carabinieri a Catania e poi nei reparti antimafia d’eccellenza. È un avanti e indietro continuo dentro i cicli di questi conflitti e di queste tregue fra mafia e stato, dal delitto del marchese Emanuele Notarbartolo del febbraio 1893 all’assassinio del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella avvenuto il giorno dell’Epifania del 1980, quasi un secolo di processi celebrati fuori dall’isola “per legittima suspicione” (legittimo sospetto), di spettacolari operazioni come quelle del prefetto Cesare Mori durante il fascismo, di mandanti eccellenti assolti con folle plaudenti per le clementi decisioni dei giudici. In mezzo, fra i dossier del questore Sangiorgi - per la prima volta rivelati dagli storici Salvatore Lupo e John Dickie - e l’entrata in scena dei Corleonesi con la loro strategia stragista, c’è la seconda vita da carabiniere di Carlo Alberto dalla Chiesa, seconda in quanto era già stato inviato sull’isola per nove mesi nell’immediato dopoguerra a capo di una delle squadriglie del “Cfrb”, le forze repressione banditismo. Dalla Chiesa - “Dalla Chiesa era un po’ come Mori o Sangiorgi, era un comandante atipico”, scrive il generale Governale raccontando come l’ufficiale - nell’arma il più amato di ogni tempo dalle truppe ma non dagli alti comandi - avesse imposto “il suo ritmo” nell’elaborazione del cosiddetto rapporto sui “114”. Tutti affiliati alla mafia palermitana a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, l’epoca di una Palermo felicissima dove i boss passavano solo per sbaglio dal carcere dell’Ucciardone. Nomi famigerati - Buscetta, Bontate, Alberti, Greco, Citarda, Albanese - che ritroveremo anche negli atti del maxi processo istruito successivamente dal giudice Giovanni Falcone. E quel “sapevamo già tutto” che torna sempre, implacabilmente. C’erano tutti gli indizi che annunciavano il grande traffico internazionale di stupefacenti di Cosa nostra nel rapporto dei “114”, c’erano anche tracce di una mafia che si era radicata a Milano, a Genova, a Roma e a Torino anche se a Palermo “non esisteva” e quella parola non veniva più citata nelle relazioni dei procuratori generali alle solenni inaugurazioni degli anni giudiziari. Ma era un’altra Sicilia ed era un’altra Palermo. Il generale Governale la rievoca attraverso la sua adolescenza, la vita quotidiana in una città di mafia. L’imprenditore amico di quei galantuomini che, per l’acquisto di un garage troppo caro, dice con bonomia a suo padre “non si preoccupi, quando ce li ha me li dà”. L’esercito di muratori e carpentieri che innalza i palazzi del “sacco” edilizio nel quartiere del Don Orione, in via Libertà intanto saltavano in aria con la dinamite le ville patrizie e i palmeti. Un certo Salvo Lima - Quanti sussurri e quanti misteri: “Avevo dieci, dodici anni e nei discorsi sentivo parlare di un certo Salvo Lima; dicevano che era mafioso, ma all’epoca non capivo esattamente cosa significasse. A Palermo si viveva così, più o meno nell’indifferenza generale, le cose non si dicono mai apertamente”. Pagina dopo pagina si arriva a Totò Riina “la cui figura non va banalizzata” per la sua ossessione di conquistare Cosa nostra, conquistare Palermo, conquistare la Sicilia. Il libro del generale cambia passo nelle ultime cento pagine. Cosa ci riserva il futuro? “Nei prossimi anni la prospettiva è di doversi confrontare nel nord con mafie che tenderanno a ibridarsi fra loro. Mafie che potrebbero nuovamente mutare, generando nuovi ceppi criminali in grado di adattarsi allo sviluppo della società e rendersi così ancora meno riconoscibili”. Ma forse più della mafia il pericolo viene dalla cultura mafiosa. E, non a caso, un capitolo, è intitolato “Il maledetto problema del vivaio, linfa vitale delle mafie”. Governale riferisce che, durante la sua esperienza da direttore della Dia, ha girato l’Italia per incontrare gli studenti da Marsala ad Aosta. Il tema era sempre uno: la mafia teme più la scuola o la giustizia? Tornano ancora una volta i ricordi personali. L’incontro con alcuni studenti dello Zen, acronimo di Zona espansione nord, disvela la realtà dei quartieri più sventurati. “Sei mai stato al teatro Massimo?”, ha chiesto a un ragazzo. No, mai. “Sai dov’è il porto?”. No, non lo so. La cultura delle borgate - Come se provenissero da un altro luogo, due Palermo diverse, in comune solo la “vicinanza”, la prossimità con il mondo mafioso. Il generale entra nel profondo della mentalità palermitana raccogliendo gli umori delle borgate, dei cortili, delle feste del patrono di quartiere con i neomelodici che cantano contro “gli infami” e inneggiano ai latitanti. E cita Ciccio Mira, il fantastico personaggio dei film di Franco Maresco, impresario di spettacoli di piazza che organizzava i suoi concerti montando il palco proprio accanto all’abitazione del capoclan della zona. Il dialogo fra il regista Maresco e Ciccio Mira spiega quella mentalità più di cento saggi: “Ma se tuo figlio un giorno ti dicesse “Papà voglio fare il carabiniere”, sinceramente cosa gli diresti?. “Sincero? Lo caccerei di casa”. La mafiosità più rovinosa della mafia, più insinuante, più difficile da abbattere. Le ultime pagine analizzano l’emergenza Covid e i piani delle mafie. Per il momento sono in attesa, è una prima fase di studio: “Ma nella seconda fase, che si prospetta possa avere un’evoluzione temporale di cinque, dieci anni, scenderanno definitivamente in campo..e si butteranno a capofitto su un tavolo ben imbandito, ricco di pietanze ottime e abbondanti, quelle delle risorse del Pnrr”. Il finale riannoda i fili e ci riporta all’inizio del libro e a un senso di smarrimento. Come se lo stato avesse paura di vincere contro la mafia. Campania. La proposta di Ciambriello: “Per ogni giorno di Covid uno di libertà ai detenuti” di Nadia Cozzolino agenziadire.com, 14 dicembre 2021 Il Garante dei detenuti della Campania dopo il focolaio scoppiato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). “Questo virus è insidioso per noi che siamo liberi, figuriamoci per i reclusi. Abbiamo ascoltato belle frasi dal governo, dalla ministra della Giustizia Cartabia, ma tra il dire e il fare ci deve essere il coraggio. Credo sia giunto il momento di mettere in campo risarcimenti, ristori per i detenuti. La mia proposta è questa: assicurare un giorno di libertà per ogni giorno di positività al Covid per ciascuno dei detenuti. E faccio questo discorso anche gli agenti penitenziari, che svolgono un lavoro a rischio”. È la proposta formulata dal garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, interpellato dall’agenzia Dire dopo il focolaio scoppiato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). “La Campania ha fatto segnare un record negativo in termini di diffusione del Covid in carcere. Soprattutto, sei detenuti sono morti per Covid, sei agenti sono morti per Covid, è deceduto anche il medico sanitario del carcere di Secondigliano. Eppure, nessuno si è indignato. A Santa Maria Caputa Vetere registriamo piccoli e graduali miglioramenti, ma l’attenzione deve essere alta. Il carcere - prosegue il garante - merita risposte dalla politica, servono provvedimenti efficaci e immediati. Mancano educatori, agenti, psicologi, mediatori culturali e linguistici, e il 31% dei detenuti è in attesa di giudizio”. Ciambriello ha anche risposto alla proposta di alcuni sindacati della polizia penitenziaria, i quali ritengono necessario introdurre l’obbligo vaccinale per i detenuti. “Ritengo paradossale - ha spiegato - che in queste ore alcune associazioni facciano appelli a me e, complessivamente, ai garanti tutti per introdurre un obbligo vaccinale per i detenuti. Questo mi sembra eccessivo. Quando avevamo detto che dopo le Rsa e le Rems bisognava portare il vaccino nelle carceri ci fu una levata di scudi da parte di un cospicuo numero di esponenti politici”. Lazio. Carceri, pubblicato bando per le attività trattamentali nel digitale garantedetenutilazio.it, 14 dicembre 2021 Finanziamenti finalizzati all’acquisizione di nuove competenze nel campo dell’informatica. Nel Bollettino ufficiale della Regione Lazio n. 112 del 7/12/2021 (pagina 532) è stato pubblicato l’avviso pubblico relativo al finanziamento della legge regionale 7/2007, “Interventi a sostegno dei diritti della popolazione detenuta della Regione Lazio”, per la concessione di finanziamenti, per 170 mila euro, finalizzati alla promozione del miglioramento della vita detentiva e del reinserimento sociale delle persone private della libertà personale, mediante azioni di parte corrente connesse alla digitalizzazione. Le domande di partecipazione dovranno essere presentate entro il 16 dicembre 2021 alle ore 14,30. Il bando è frutto della proposta, acquisita al registro ufficiale della Regione Lazio al n. 817495 del 12/10/2021, condivisa tra il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise e il Direttore del centro per la giustizia minorile per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise. Gli obiettivi che si intendono perseguire sono i seguenti: fornire strumenti idonei al miglioramento della vita detentiva e garantire l’adozione di misure idonee ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale. Gli interventi riguardano progetti finalizzati alla realizzazione di attività trattamentali, da effettuarsi presso gli istituti penitenziari del Lazio con priorità nelle seguenti tematiche: interventi finalizzati alla digitalizzazione dei percorsi trattamentali, tesi al recupero e al reinserimento sociale dei soggetti beneficiari; azioni tese a far acquisire ai soggetti beneficiari nuove competenze digitali anche a supporto dei percorsi trattamentali. A pena di inammissibilità, ciascun soggetto potrà presentare una sola proposta progettuale da realizzare presso gli Istituti Penitenziari del Lazio per la durata massima di dieci mesi dall’accettazione del finanziamento. Possono presentare domanda di ammissione a contributo organizzazioni (associazioni, cooperative ed altre forme legali equivalenti) no profit, aventi sede legale nel Lazio e che abbiano nel proprio statuto uno scopo attinente alle tematiche in questione. In particolare, le proposte progettuali dovranno contenere, a pena di esclusione, una disponibilità scritta alla realizzazione della proposta progettuale, rilasciata, a seconda dei destinatari dell’intervento, dalla direzione degli istituti penitenziari della Regione Lazio, dal responsabile delle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), dal responsabile degli uffici di servizio sociale minorenni o dell’ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna competenti territorialmente nel Lazio per i minori o adulti in esecuzione penale esterna. Per ciascuna attività proposta ritenuta meritevole è previsto un sostegno economico fino ad un massimo di 25 mila euro al lordo degli oneri fiscali dovuti e fino ad esaurimento delle risorse economiche disponibili. Beneficiari delle iniziative sono i detenuti adulti e minori ristretti negli istituti penitenziari del Lazio; le persone sottoposte a misure di sicurezza in esecuzione nelle Rems della Regione Lazio; le persone adulte o minori in esecuzione penale esterna in carico all’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna o agli uffici di servizio sociale minorenni, competenti per il territorio della Regione Lazio. Santa Maria Capua Vetere. Boom di contagi in carcere: “Manca il personale per i vaccini” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 dicembre 2021 Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ci sono 61 detenuti positivi al Covid 19, tra cui un malato di Aids. “La situazione è preoccupante - dice Emanuela Belcuore, garante dei detenuti della provincia di Caserta - da giorni è in crescita il focolaio tra i detenuti, che vengono spostati da un reparto all’altro senza una visione logica, con quelli contagiati messi spesso in celle fredde. Manca un raccordo tra la struttura sanitaria del carcere e quella di sorveglianza”. La Garante Belcuore, inoltre, si chiede perché avvocati e familiari dei detenuti possono entrare in carcere senza esibire il green pass o aver fatto un tampone: provenendo dall’esterno potrebbero effettivamente essere veicolo di contagio. La Belcuore spiega che l’alto numero di detenuti non vaccinati - probabilmente tra il 30 e 40% - dipende dal fatto “che mancano gli operatori sanitari per somministrare i vaccini ai detenuti, dovrebbe essere organizzata una giornata con il camper dell’Asl, da sistemare magari nel cortile del carcere. Sono pochi i detenuti che non vogliono vaccinarsi”. Per Ciro Auricchio, segretario regionale campano dell’Uspp (Unione sindacati polizia penitenziaria), “è necessario introdurre immediatamente l’obbligo vaccinale anche per i detenuti, per la loro incolumità e perché vivono a stretto contatto con il personale della Polizia Penitenziaria”. Il sindacalista auspica poi che “presto si individui un Covid Center del Casertano in cui portare i detenuti, magari al Covid Hospital di Maddaloni o a Caserta; attualmente i poliziotti penitenziari, quando devono ricoverare un detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere ammalato di Covid, devono portarlo all’ospedale Cardarelli, dove sono costretti a ore e ore di attesa”. Il focolaio ha riacceso i riflettori sulla casa circondariale sammaritana, balzata agli onori delle cronache per le torture subite dai detenuti il 6 aprile dell’anno scorso, anche per la questione vaccini. Da giorni la garante provinciale dei detenuti Emanuela Belcuore sta invocando un open day per i vaccini. A questo si aggiunge il fatto che pesa il sovraffollamento e le malattie pregresse. Nel carcere - come d’altronde il resto delle patrie galere - ci sono anche persone malate di tumore che si sottopongono a chemioterapia. Se anche queste persone dovessero contrarre il virus, la questione potrebbe diventare molto più seria. C’è, di fatto, una situazione che mette seriamente a rischio la salute di tanti. “Possiamo mettere in campo misure alternative al carcere o deve prima succedere qualcosa di grave? Questo virus è insidioso e infido per noi che siamo liberi, figuriamoci per chi è diversamente libero. E intanto l’unica risposta dalla politica riguarda solo maggiore sicurezza con la costruzione di reparti nuovi. Solo a Santa Maria è prevista la costruzione di un nuovo padiglione che ospiterà altri 350 detenuti. Il carcere merita risposte dalla politica”, si era sfogato il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Viterbo. Detenuto egiziano suicida in carcere, riaperta l’inchiesta di Alessio Campana La Repubblica, 14 dicembre 2021 La procura generale chiede nuove indagini. Hassan Sharaf, 21 anni, si impiccò nella sua cella di isolamento. L’anno dopo, la procura di Viterbo che aprì un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio, avanzò la richiesta di archiviazione. Ci saranno indagini nuove e ulteriori per il caso di Hassan Sharaf, il detenuto egiziano di 21 anni che il 23 luglio del 2018 si impiccò nella sua cella di isolamento e morì sette giorni dopo all’ospedale Belcolle di Viterbo. Lo ha disposto il 10 dicembre, con l’avocazione, la Procura generale presso la Corte di Appello di Roma. La Procura di Viterbo, che aprì un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio, nel 2019 avanzò la richiesta di archiviazione. L’avvocato Giacomo Barelli, che rappresenta l’Ambasciata d’Egitto e il cugino della vittima, si era opposto alla richiesta e il prossimo 27 gennaio, di fronte al gip Autizi, si sarebbe dovuta discutere l’istanza del legale viterbese, ma la Procura generale ha disposto anche la revoca della richiesta di archiviazione. L’avocazione del procedimento era stata auspicata dall’avvocato Michele Andreano - legale della mamma e della sorella di Hassan Sharaf e rappresentante nel processo della Ong Moltaquael Hevar - che lo scorso 9 agosto ha presentato una denuncia-querela presso il comando dei carabinieri di Roma San Lorenzo riportando una descrizione dei fatti antecedenti alla morte del ventunenne. Secondo la Procura generale appaiono necessarie nuove indagini. Hassan Sharaf, trasferito da Roma a Viterbo per scontare un residuo di pena, sarebbe uscito dal carcere meno di sessanta giorni dopo il suicidio, ossia il 9 settembre del 2018. Michele Andreano, questa mattina, uscendo dall’aula 5 del tribunale penale di Viterbo ha affermato che “in una telefonata la vittima aveva confidato alla madre di essere felice della vicina scarcerazione”. Poi, nella cella di isolamento dove era stato condotto, si è tolto la vita. La vittima, come ha raccontato il Garante dei detenuti del Lazio, aveva dichiarato di aver paura di morire. L’inchiesta era arrivata anche in parlamento grazie a una interrogazione del deputato di +Europa Riccardo Magi. Adesso il fascicolo passa nelle mani della magistratura romana. E il caso della morte di Hassan Sharaf si riapre definitivamente. Napoli. Processo penale ostacolato da ritardi e prescrizioni di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 14 dicembre 2021 I dati sulla prescrizione si confermano alti, con il 56,1 per cento dei casi in cui il reato viene dichiarato estinto. Ma a dare un’idea dei problemi del processo penale a Napoli sono anche, per esempio, quelli relativi ai ritardi delle udienze: solo nel 3,3 per cento dei casi l’orario di chiamata coincide con l’orario di fissazione del procedimento, mentre nel 96,7 dei casi il processo viene chiamato in ritardo. È l’Eurispes a pubblicare sul suo sito l’ultimo report sullo stato di salute della giustizia penale in Italia, frutto della collaborazione con l’Unione delle Camere penali. La verifica risale al 2019 e, per quanto riguarda Napoli, i processi presi in esame sono stati 739. Di sesso maschile, italiano, in stato di libertà e assente in aula: la stragrande maggioranza degli imputati ha queste caratteristiche. Al contrario di quanto pensano in molti, solo l’8,1 per cento degli imputati è straniero, mentre il rimanente 91,9 per cento è di nazionalità italiana. Un altro dato che colpisce è quello sul numero degli imputati: nella città dove i maxi blitz sono frequenti a causa della diffusione della criminalità organizzata e delle frequenza dei cosiddetti reati associativi, la stragrande maggioranza dei procedimenti (80,9 per cento) vede imputata una sola persona. Napoli però si conferma una città con un alto tasso di reati predatori: tra le imputazioni prevalgono nettamente quelle relative ai reati contro il patrimonio, che da soli rappresentano circa un terzo del totale di quelli monitorati (32,6 per cento); seguono i reati contro la persona (15 per cento), quelli contro lo Stato, le altre istituzioni sociali e l’ordine pubblico (9,3 per cento) e i reati contro la famiglia, la moralità pubblica ed il buon costume (6,2 per cento). A sorpresa, sono ancora meno frequenti i reati tributari (2 per cento), quelli riferibili alle violazioni del Codice della strada (1,5 per cento) e in materia di stupefacenti (1,8 per cento appena). Cuneo. I Radicali vanno dietro le sbarre: “Difficoltà immani per detenuti e personale” cuneodice.it, 14 dicembre 2021 Gli attivisti hanno visitato le quattro carceri della provincia di Cuneo. L’analisi per ogni istituto visitato. Si è concluso domenica il fine settimana di mobilitazione provinciale “dietro le sbarre”, organizzato dall’Associazione Radicali Cuneo - Gianfranco Donadei. I radicali hanno visitato le quattro carceri della Provincia di Cuneo: le case di reclusione di Fossano e Saluzzo e le case circondariali di Cuneo e Alba. La delegazione era composta da Filippo Blengino, Alessia Lubèe, Alexandra Casu e Sabatino Tarquini ai quali si è aggiunta, per Alba e Cuneo, Alice Depetro e, per Saluzzo, Claudio Marengo (Partito Radicale Transnazionale) e Martina Maero. “Un weekend molto intenso e toccante - dichiarano gli attivisti - Se la pandemia al di fuori delle mura ha creato problemi, dentro le carceri le difficoltà sono state immani, sia per detenuti che per il personale. La nostra, ci teniamo a precisarlo, è stata una visita a tutta la comunità penitenziaria, troppo spesso dimenticata dalla politica, anche locale. Le carceri sono città all’interno delle città ed è focale pensare a progetti ed iniziative che le coinvolgano nel tessuto cittadino. I problemi che abbiamo riscontrato, pressoché ovunque, sono la carenza di personale, specie educatori e agenti di polizia penitenziaria, mancanza di materiale, spazi, di una rete di trasporti pubblici per arrivare agli istituti e di iniziative rieducative. Su quest’ultimo punto, in particolare, il personale fa molto per colmare le mancanze che, evidentemente, non dipendono dalle singole amministrazioni penitenziarie. Molto buona la percentuale di detenuti vaccinati, più alta rispetto all’esterno. La pandemia ha fatto riemergere vecchi disagi, ed in particolare ha isolato ulteriormente la popolazione carceraria; i colloqui fisici sono ripartiti da poco, i volontari sono al lavoro solo da qualche settimana e le difficoltà di gestione dei detenuti positivi al Covid non è stata semplice”. Di seguito una breve analisi per ciascun istituto visitato. Casa di reclusione di Saluzzo - “A Saluzzo - dichiarano i radicali - siamo stati accolti dal comandante, che ringraziamo per la disponibilità. L’istituto, difficilmente raggiungibile con mezzi pubblici, è composto da un padiglione nuovo, rispettoso di tutte le norme, e di due padiglioni più vecchi. Nella nuova struttura a breve dovrebbe entrare in funzione una sezione dedicata agli studenti universitari, con celle dotate di scrivanie. Nei padiglioni vecchi i problemi non sono pochi: celle strette, mancanza di docce nelle stanze e strutture obsolete. Importanti pure le iniziative rieducative per i detenuti, come quelle del biscottificio, che andrebbero indubbiamente incrementate. Carenze di personale, in primis educatori e agenti penitenziari, rendono più difficoltosa la gestione dell’istituto. Fondamentale incrementare la presenza dello psichiatra. I detenuti sono 396, gli agenti 193 e gli educatori soltanto 4”. Casa circondariale di Cuneo - “Presso la Casa Circondariale di Cuneo - proseguono gli attivisti - siamo stati accolti con estrema disponibilità dall’Ispettore Francesco Mandaglio e dal Dott. Gaetano Pressolano, che ci hanno guidato presso le varie aree della struttura. L’istituto si presenta composto da più edifici: la caserma, gli spazi per i detenuti in art. 21 ed i padiglioni per quelli comuni e in regime di reclusione 41 bis. Infine, ma di notevole importanza, il panificio, dove tre detenuti producono pane e pizze per l’istituto stesso e li fornisco ai ristoranti. Le celle si presentano dotate di doccia e servizi, sono preseti più aree ludiche e la biblioteca. Rilevanti sono i numerosi laboratori, uno di carpenteria edile e uno di indirizzo alberghiero, con tutta l’attrezzatura necessaria. La casa circondariale presenta alcune problematiche relative alla mancanza di personale e alla difficile gestione di alcuni utenti con problemi psichiatrici, che andrebbero ricollocati in strutture più adatte. Inoltre, a differenza di altri istituti, le celle sono aperte per non più di otto ore al giorno. Urge riattivare le serre, che dovrebbero tornare in funzione a breve ed é importante istituire una fermata per i mezzi pubblici. Ad oggi gli agenti in servizio sono 164, gli educatori 5 e i detenuti 260”. Casa di reclusione di Alba - “Ad Alba siamo stati accolti dalla Comandante Ramona Orlandi con estrema disponibilità. - continuano i radicali - Negli spazi esterni sono presenti il vigneto, curato dai detenuti che utilizzano l’uva per produrre vino, il campo sportivo e l’area bimbi destinata alle visite dei famigliari. Quest’ultima al momento è chiusa a causa di un muro pericolante, che peraltro circonda anche il padiglione attualmente funzionante. Le celle restano aperte per più di otto ore al giorno, ognuna di esse è dotata di doccia. La parte dedicata ai semiliberi e art. 21 risulta in buono stato con servizi igienici ristrutturati. Il problema principale è costituito dalla parte inagibile del carcere, che comprende la caserma e buona parte delle celle, attualmente vuote. Gli uffici del personale sono sprovvisti di riscaldamento e si segnalano macchie di umidità in diverse parti della struttura. Le palestre sono piccole e con attrezzi usurati, alcuni quasi inutilizzabili. Importante inoltre sottolineare che la situazione del carcere crea precarietà, per cui molto agenti assegnati non sanno se e per quanto tempo rimarranno ad Alba. I detenuti sono 38, gli agenti 110 e gli educatori 2”. Casa di reclusione di Fossano - “A Fossano - conclude la delegazione - accolti con molta gentilezza e disponibilità dall’Ispettore superiore Marino Spinardi e dalla educatrice Michela Manzone, scopriamo una realtà inserita pienamente in ambiente cittadino, quindi facilmente raggiungibile dai parenti dei reclusi. L’educatrice, sempre presente, coinvolge tutti in attività interessanti e partecipate, l’ambiente è tranquillo, il comandante presente e sensibile alle esigenze dei reclusi. Non per nulla il carcere di Fossano è ambito da molti. Ai detenuti di altri istituti, che durante la detenzione si siano comportati con estrema correttezza, il carcere di Fossano può addirittura essere offerto come premio. Numerosi laboratori in funzione tra cui quello di carpenteria e di trasformazione della frutta, verdura e prodotti agricoli provenienti dal progetto di Cascina Pensolato, che peraltro occupa detenuti ammessi al lavoro esterno. Giudizio quindi positivo e carcere da considerare come modello. I detenuti sono 91, gli agenti 66 e gli educatori 2”. Massa Marittima (Gr). Incontro con la Regione per il progetto “Orti in carcere” ilgiunco.net, 14 dicembre 2021 Mercoledì 15 dicembre l’assessore regionale Stefania Saccardi sarà a Massa Marittima per partecipare al convegno sul progetto “Orti in carcere”, in programma alle 11 e 30 nella sala dell’Abbondanza. Il progetto “Orti in carcere” ha preso il via lo scorso febbraio nella casa circondariale di Massa Marittima, con la messa a dimora di 20 piante di olivo e la realizzazione di orti in cassone con l’obiettivo di creare per i detenuti occasioni di formazione professionale così da facilitarne l’inserimento lavorativo una volta terminato il periodo di detenzione. Il progetto è stato presentato dalla Regione Toscana in partenariato con il Provveditorato regionale per l’Amministrazione penitenziaria della Toscana e dell’Umbria, ed è cofinanziato dalla Cassa Ammende, il Comune di Massa Marittima ha ottenuto il finanziamento di 30mila euro per realizzare le attività nella struttura penitenziaria cittadina. In questi mesi sono state fatte le prime esperienze di cui si parlerà nel corso del convegno. La logistica del progetto, dalla creazione delle superfici ortive alla formazione dei detenuti, sono curate dalla Cooperativa Melograno. “Orti in carcere” ha ottenuto anche l’interessamento e l’attenzione di Amnesty International che parteciperà alla giornata di presentazione. Il convegno sarà preceduto alle ore 11 dalla benedizione dell’olivo centenario che è stato donato da Terre dell’Etruria e Boscaglia e messo a dimora all’ingresso del carcere. Sarà il vescovo di Massa Marittima e Piombino, monsignor Carlo Ciattini ad impartire la benedizione. Ai piedi dell’olivo sarà posizionata una targa che ricorda i 60 anni di attività di Amnesty International per la difesa dei diritti umani. Il convegno apre con il saluto del sindaco di Massa Marittima, Marcello Giuntini a cui segue l’intervento della direttrice della Casa circondariale di Massa Marittima, Maria Cristina Morrone, sul tema “Il carcere di Massa Marittima, finalità rieducativa della pena”. Marilena Rinaldi, responsabile area trattamentale della casa circondariale di Massa Marittima, parlerà di “Formazione e l’inserimento lavorativo dei detenuti”. Seguiranno gli interventi di un ex detenuto e un detenuto della casa circondariale. Massimo Iacci, presidente della cooperativa Melograno racconta l’esperienza del progetto “Orti Sociali: la sua genesi, le sue applicazioni”. Subito dopo verrà proiettato un video con le immagini fotografiche sul progetto, realizzate da Giulio Garosi, fotoreporter. Interverrà Riccardo Cappelli, responsabile finanziario e controllo di gestione della Cooperativa Terre dell’Etruria su “Il ruolo delle Terre dell’Etruria e Boscaglia come supporto per l’ambiente, il territorio, il paesaggio, con una funzione di salvaguardia e valorizzazione dei territori e un’importante azione sull’inclusione lavorativa”. Monica Sanna, responsabile circoscrizionale Toscana di Amnesty International parlerà di “Amnesty International: da 60 anni facciamo crescere i diritti”. Prenderanno poi la parola Stefania Saccardi, vice presidente della Regione Toscana e a seguire Simone Sabatini e Roberto Bocchieri coordinatori del progetto regionale. Modera Grazia Gucci, assessore alle Politiche sociali del Comune di Massa Marittima. Firenze. Convegno “L’osservazione della personalità di fronte alla complessità dei reati ostativi” agenziaimpress.it, 14 dicembre 2021 La sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il divieto di concessione di permessi premio agli autori di reati ostativi che non abbiano, per scelta, collaborato con la giustizia (sent. 253/2019) impone l’apertura di un dialogo interdisciplinare sugli strumenti e i criteri per l’osservazione scientifica della personalità, in grado di diventare patrimonio condiviso tra tecnici del trattamento (psicologi, educatori e assistenti sociali) e magistratura di sorveglianza. E’ quanto emerso dal convegno “L’osservazione della personalità di fronte alla complessità dei reati ostativi - appartenenza mafiosa e valutazione della pericolosità in assenza di collaborazione con la giustizia” ospitato dal Comune di Firenze, al Fuligno, e che ha visto la collaborazione fra l’Ordine degli psicologi della Toscana, l’Università di Ferrara e Macrocrimes con il patrocinio del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi, di Avviso Pubblico e dell’Ordine degli Assistenti Sociali. Secondo quanto emerso dalla giornata di confronto interdisciplinare fra psicologi, assistenti sociali, giuristi e avvocati, a cui hanno preso parte, tra gli altri anche l’assessore del Comune di Firenze Sara Funaro e, in collegamento, il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi David Lazzari, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato, la complessità della valutazione di detenuti con reati ostativi impone il dotarsi di criteri e linee guida per uscire dalla soggettività e come garanzia di sicurezza; necessario, inoltre costruire un linguaggio condiviso fra il mondo giuridico e quello psichico. In particolare, le decisioni giudiziali sull’accesso a percorsi di progressiva risocializzazione all’esterno del carcere, sinora impedite dalla legge per i condannati per mafia, terrorismo e altri reati di criminalità organizzata, sono oggi possibili a condizione che venga effettuato un penetrante vaglio sulla pericolosità del detenuto, in grado di escludere l’attualità dei legami con il gruppo criminale di appartenenza e il rischio del loro ripristino. “Il convegno - sottolinea la presidente dell’Ordine degli psicologi Maria Antonietta Gulino - ha avuto l’obiettivo di muovere dai punti deboli della cornice giuridica di riferimento per poi soffermarsi sui profili teorici e metodologici che coinvolgono più propriamente la categoria professionale degli psicologi, chiamati a fornire un soddisfacente patrimonio conoscitivo alla magistratura di sorveglianza. Il dibattito potrebbe rappresentare la base di partenza per tracciare eventuali linee guida per l’osservazione della personalità prevista dall’ordinamento penitenziario, che tengano conto dei modelli di risk assessment sul rischio di recidiva. Gli spunti che verranno offerti potrebbero fornire altresì un rilevante apporto tecnico per le riforme legislative in cantiere, con particolare riguardo alla valutazione della pericolosità dei condannati per mafia e all’individuazione di parametri alternativi alla collaborazione con la giustizia sintomatici della rottura con l’ambiente criminale di provenienza”. La magistratura di sorveglianza, per compiere valutazioni così delicate, necessita del contributo delle categorie professionali coinvolte (educatori, psicologi, criminologi), investite del difficile compito di esplorare un terreno poco battuto proprio in ragione delle preclusioni normative sinora vigenti. La questione è divenuta ancora più urgente a seguito dell’annunciata pronuncia costituzionale sull’”ergastolo senza speranza” per i condannati per reati di mafia non collaboranti, imminente se il legislatore non rimette mano all’attuale disciplina (ord. 97/2021). È quindi tempo che giuristi e tecnici del trattamento (psicologi, educatori e assistenti sociali) si confrontino su una materia così complessa e controversa, anche in vista di possibili contributi al dibattito parlamentare in corso. Trento. Il carcere come luogo di riabilitazione. Dibattito con Savoia, Giunta e Manca Corriere Trentino, 14 dicembre 2021 Ultimi appuntamenti 2021 per la libreria- laboratorio Duepunti di Trento nell’ambito del nuovo piano editoriale de Il Margine, marchio di saggistica e narrativa dell’editrice trentina Erickson. I temi sono sociali - carcere e cittadinanza - urgenze spesso dimenticate. Questa sera alle 18 alla Fondazione Franco Demarchi in piazza Santa Maria Maggiore, Claudio Giunta e Veronica Manca dialogheranno con Amedeo Savoia, autore di “Se li guardi”. L’invito di Savoia è a non considerare il carcere come luogo di punizione, ma di riabilitazione: incontro organizzato assieme all’associazione Liberi da dentro. Mercoledì 15 alle 21 al Teatro Portland (quartiere Piedicastello) Sara Hejazi autrice de “Il senso della specie”, dialogherà con Barbara Poggio. Rimini. A Santarcangelo un presepe creato dai detenuti di Opera altarimini.it, 14 dicembre 2021 Realizzato con il legno delle imbarcazioni dei migranti affondate a Lampedusa. Sabato scorso (11 dicembre) la sindaca Alice Parma, la vice Pamela Fussi e l’assessore Zangoli hanno visitato il carcere di Opera, in Provincia di Milano, per ricevere in dono un presepe creato dai detenuti con il legno delle imbarcazioni affondate nei pressi di Lampedusa, nell’ambito del laboratorio condotto dal falegname Francesco Tuccio con il sostegno della fondazione “Casa dello spirito e delle arti”. Accompagnati dal presidente della fondazione, Arnoldo Mosca Mondadori, gli amministratori hanno visitato il laboratorio di liuteria - rilanciato nel 2013 con il sostegno dalla Regione Lombardia - dove i detenuti creano violini pregiati sotto la guida del maestro liutaio Enrico Allorto dell’Istituto Stradivari di Cremona. A partire da quest’anno, il laboratorio ha ampliato la propria attività con la creazione dei presepi, il primo dei quali è stato donato nelle scorse settimane a Papa Francesco. “Accanto alla liuteria nasce la falegnameria sotto la guida di Francesco Tuccio, il falegname che ha realizzato la Croce di Lampedusa con i legni dei barconi affondati” si legge sul sito della fondazione. “Un’unione ideale tra persone migranti e persone detenute che insieme costruiscono un segno di speranza e di rinascita non solo per i credenti ma per tutti. Dal carcere dunque escono messaggi di ripresa e di speranza in un tempo così difficile come quello della pandemia che ha costretto all’isolamento e alla chiusura”. Nel ricevere in dono il presepe, l’Amministrazione comunale ha voluto contraccambiare con una piccola donazione per sostenere l’attività della fondazione “Casa dello spirito e delle arti”. Il presepe, nel frattempo, è visibile al pubblico presso il Municipio. “Incontrare i detenuti, conoscere le loro storie, vedere l’impegno con il quale si cimentano nel laboratorio di liuteria e creazione dei presepi è stato per noi un momento davvero emozionante” dichiarano Parma, Fussi e Zangoli. “Il nostro plauso va al carcere di Opera e alla fondazione ‘Casa dello spirito e delle arti’, protagoniste di un’iniziativa dal profondo valore etico in grado di dare piena concretezza al concetto di funzione rieducativa della pena. Abbiamo voluto portare a Santarcangelo una testimonianza di questa straordinaria esperienza - concludono - perché è in grado di far riflettere sia sulla tragedia delle migrazioni sia sulla necessità che la detenzione abbia sempre più una finalità riabilitativa”. Torino. Le Pigotte realizzate nel carcere concorrono alla campagna Covax torinoggi.it, 14 dicembre 2021 Le detenute della sezione femminile da anni partecipano all’attività del laboratorio delle Pigotte, le bambole di pezza dell’Unicef. La Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, sezione femminile, ha avviato da alcuni anni, l’attività del laboratorio delle Pigotte, le bambole di pezza dell’UNICEF che salvano la vita dei bambini. Quest’anno il ricavato per l’adozione della Pigotta è destinato alla campagna COVAX per l’acquisto di vaccini anti covid19 destinati ai Paesi poveri del Pianeta. Preceduta da un’attività di informazione sul significato della Pigotta collegata alla missione dell’UNICEF, e da una formazione operativa per mostrare i vari passi necessari al suo confezionamento creativo, l’iniziativa dall’alto valore sociale, ha riscosso un vero e proprio successo. Si tratta, infatti, di una importante attività di socializzazione che consente alle detenute di uscire dalle celle e lavorare in gruppo e contribuire, grazie al proprio impegno, a salvare la vita di tantissimi bambini lontani. Il Laboratorio, promosso nell’ambito del progetto “Lavoro, Emancipazione e Inclusione” (LEI), è formato da gran parte delle detenute della sezione femminile della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino seguite dalle educatrici Jessica Filardo e Damaris Paolone di EssereUmani onlus di Torino e per l’UNICEF dalla Sig.ra Annamaria Pansera Referente dei laboratori “Pigotte” dell’UNICEF. La nostra presenza, dichiara Antonio Sgroi Presidente Provinciale per l’UNICEF di Torino, ha portato una ventata di ottimismo, consentendo alle detenute di impegnarsi, diventando protagoniste nelle campagne umanitarie dell’UNICEF, tese alla difesa dei diritti dell’infanzia ed all’accoglienza dei bambini migranti. La realizzazione delle “Pigotte” rientra nel progetto “Lavoro, Emancipazione e Inclusione” (LEI) che si pone gli obiettivi di consentire alle donne detenute di apprendere o affinare le competenze nella prospettiva dell’uscita dal carcere favorendone un reinserimento socio-lavorativo volto alla prevenzione della recidiva. Le “Pigotte” realizzate presso i laboratori del Carcere, dell’UNITRE e dell’UNICEF possono essere adottate presso: la sede dell’UNICEF in Corso Orbassano 215 dove è possibile acquistare anche prodotti ecosolidali; la postazione UNICEF allestita in Piazza San Carlo nei giorni 18 e 19 dicembre; InGenio Via Montebello, 28. Progetto realizzato con il contributo finanziario di Compagnia di San Paolo, la partecipazione dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo nell’ambito del Progetto Logos, il co-finanziamento di Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, EssereUmani onlus, Cooperativa sociale Extraliberi, Cooperativa Sociale Patchanka, Cooperativa Sociale ImpattoZero,, e infine il contributo in kind di Intesa Sanpaolo S.p.A., in qualità di ente titolare del Museo del Risparmio, e di PerMicro S.p.A. Dal carcere alla società grazie al teatro di Luca Cereda Vita, 14 dicembre 2021 La storia di Ibrahima Kandji che è uscito dal carcere grazie al progetto teatrale “Per Aspera ad Astra”, sostenuto economicamente da 11 Fondazioni di origine bancaria. “Parlavo pochissimo l’italiano, ma grazie all’esperienza teatrale in carcere ho iniziato a frequentare i corsi di italiano per poter capire cosa c’era scritto sul copione e comprendere quelle prime battute che all’inizio imparavo a memoria”, racconta Ibrahima Kandji, originario del Senegal, che è stato per alcuni anni detenuto nel carcere di Volterra e dietro le sbarre ha scoperto il teatro. L’incontra tra Ibrahima e la recitazione è stato possibile grazie al progetto “Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” che dal 2018 in 14 carceri italiane realizza percorsi di formazione teatrale che coinvolgono 250 detenuti. Per Aspera è un progetto sostenuto economicamente da 11 Fondazioni di origine bancaria e ha “affondato le sue prime radici” in carcere proprio a Volterra con l’esperienza della Compagnia della Fortezza: “Guidato dal regista Armando Punzo mi sono avvicinato alla recitazione - testimonia Ibrahima Kandji -, ed è così che ho scoperto di sentirmi bene sul palco, libero, anche di esplorare nuove passioni: così imparato a scrivere e così che ho preso la maturità da geometra”. Per Aspera ad Astra, ovvero dalle asperità alle stelle. È grazie al teatro che l’aria ‘ferma’ che aleggia spesso dietro le sbarre nelle carceri italiane prende vita sul palco con i detenuti che diventano attori. Tra le innovazioni di questo progetto c’è l’idea che in carcere a fare il teatro non entrino solo attori e drammaturghi, ma anche scenografi, costumisti e addetti alle luci: Ibrahima è sempre in contatto con la compagnia della Fortezza e con i detenuti di Volterra e “quando posso recito con loro. Prima di questa esperienza, quando mi trovavo in altre carceri stavo sempre in cella, avevo provato a frequentare una scuola, avevo provato a seguire i corsi di italiano, ma non trovavo uno scopo per seguirli. Grazie quello che ho imparato con la recitazione, ho sviluppato alcuni interessi che prima non avevo: oltre allo studio ho iniziato ad andare nella palestra del carcere, e ho pure imparato a cucire grazie al corso di sartoria”. Tutto questo, nato degli stimoli del prefetto Per Aspera ad Astra, ha aiutato - in carcere - Ibrahima Kandji e molti altri detenuti ad uscire dall’istituto di pena. E a farlo come cittadini più consapevoli dei loro diritti e dei loro stessi doveri nei confronti della collettività. Questo percorso teatrale ha irrorato il cammino rieducativo della reclusione di Ibrahima Kandji che conclude: “Alla fine di uno spettacolo in cui recitavo anche in lingua inglese, oltre che in italiano, il proprietario di un ristorante di Volterra ha chiesto di me, perché sapevo parlare più lingue, che a parte il francese avevo studiato in carcere. Appena uscito per 5 anni ho lavorato come cameriere nel suo ristorante frequentato dai turisti”. Una proposta semplice e concreta per l’umanità (firmata da 50 Premi Nobel) di Carlo Rovelli Corriere della Sera, 14 dicembre 2021 Cinquanta Premi Nobel, e diversi Presidenti di Accademie della Scienza Nazionali hanno firmato un appello con una proposta semplice e concreta rivolta all’umanità intera. Fra i sostenitori della proposta anche il Dalai Lama, Nobel per la Pace. L’osservazione alla radice della proposta è che vi è consenso che l’umanità debba affrontare gravi sfide comuni come epidemie, riscaldamento globale e povertà estrema, ma per affrontarle servono risorse, difficili da reperire. Nell’ultimo congresso mondiale sul riscaldamento climatico questo è apparso evidente: tutti d’accordo sull’urgenza, ma come finanziare i passi necessari? La proposta dei cinquanta Nobel indica una direzione per reperire una vasta quantità di risorse, basata su un’idea semplice di collaborazione. La spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000, è in forte aumento in quasi tutti i paesi del mondo, e si sta avvicinando a 2 trilioni di dollari Usa all’anno. I singoli governi sono obbligati ad aumentare le proprie spese militari perché altri, percepiti come avversari, aumentano le loro. Il meccanismo di feedback alimenta una corsa agli armamenti, con un costo immenso. Nello scenario peggiore, è un percorso che porta a conflitti devastanti. Nello scenario migliore, è un colossale spreco di risorse che possono essere usate più saggiamente. La proposta dei 50 Nobel invita semplicemente i governi a negoziare un accordo globale per una riduzione bilanciata delle spese militari del 2% all’anno per cinque anni. Dal punto di vista di ciascun paese, la sicurezza non solo non diminuisce, ma infatti aumenta, perché i paesi percepiti come avversari riducono la loro capacità militare. Deterrenza e equilibrio sono mantenuti. Un simile accordo contribuirebbe a ridurre l’animosità, diminuendo ulteriormente il rischio di guerra. La storia mostra che accordi per limitare gli armamenti sono realizzabili. Ad esempio, i trattati Salt e Start fra Stati Uniti e Unione Sovietica, hanno ridotto il numero delle testate atomiche ben del 90%. Simili negoziati possono avere successo perché sono razionali: ogni attore beneficia della riduzione degli armamenti dei suoi avversari. E così fa l’umanità nel suo insieme. La collaborazione paga. Data l’enorme mole delle spese militari globali, le risorse liberate da una pur piccola riduzione del 2% libera risorse molto vaste. Queste rappresentano un “dividendo di pace” che raggiungerebbe 1.000 miliardi di dollari entro il 2030. Si tratta di una cifra molto superiore alla cifra totale che i paesi destinano attualmente a tutti i programmi di cooperazione, comprese le Nazione Unite e tutte le sue agenzie. La proposta dei 50 Nobel è che metà delle risorse liberate da questo accordo siano destinate a un fondo globale, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, da utilizzare per affrontare i problemi comuni urgenti del pianeta: pandemie, cambiamenti climatici, povertà estrema. Un “Fondo Globale” di questo tipo, più piccolo, esiste già, e funziona egregiamente nella lotta contro le malattie. L’altra metà delle ingenti risorse liberate dall’accordo resterebbe a disposizione dei singoli governi. Tutti i paesi disporrebbero quindi di nuove risorse. Una parte di queste può essere utilizzata per convertire verso applicazioni pacifiche le capacità di ricerca e produttive delle industrie militari. La ricerca scientifica militare ha prodotto ricadute importanti per la vita pacifica: questa stessa ricerca sarebbe ovviamente ancora più efficace se riorientata direttamente verso applicazioni pacifiche. Evidentemente esistono complicazioni tecniche, politiche e ideologiche che si frappongono come ostacoli a un accordo di questo genere. Ma gli ostacoli si possono superare, quando il vantaggio comune è così grande. I firmatari della proposta sono seriamente preoccupati per la crescente bellicosità nel pianeta, per la crescente demonizzazione reciproca degli antagonisti, e ritengono che sia essenziale rimettere al centro dibattito politico l’urgenza dei problemi comuni dell’umanità, e sopratutto la razionalità, oltre alla moralità, di lavorare per la pace e la collaborazione. Il pianeta è piccolo, l’umanità è fragile, e va incontro a rischi seri. Possiamo affrontarli solo lavorando insieme, nonostante le nostre differenze. Tutto ciò che è stato realizzato nei secoli dall’umanità, è stato ottenuto grazie alla collaborazione. Le città italiane sono circondate da mura perché per secoli si sono fatte la guerra. Da quando non sono più in armi una contro l’altra, la vita nel paese è migliore. È il momento per l’umanità di cercare di fare lo stesso nel pianeta. La crescita recente della globalizzazione può avere costi, e creare problemi, ma apre anche un’opportunità straordinaria: la collaborazione globale. È tempo che il dibattito pubblico si sposti dal tema della competizione di noi contro gli altri, al tema degli immensi vantaggi che possono venire solo dalla collaborazione. Ci auguriamo che la politica sappia ascoltare, e prendere iniziative che ci portino in questa direzione. Suicidio assistito, l’”evento” va in onda nell’Aula deserta di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 dicembre 2021 Approda per la prima volta in plenaria, alla Camera, il pdl atteso da almeno 15 anni. Una manciata di deputati, i cuori sono altrove. Fine discussione, l’iter riprende a febbraio. “Ricordo quel giorno, io ero in pieno stress psicofisico, perché ero presidente di una Regione di centrodestra che stava facendo una cosa che non era esattamente condivisa da tutti, ed ero soggetto a molte critiche. Chiamai Beppino Englaro e gli dissi: Beppino, portiamola in Svizzera, questa ragazza. E Beppino mi dette una lezione. Mi disse: guarda, se avessi voluto portarla in Svizzera, l’avrei già fatto. Io sto facendo questo come battaglia per tutti voi, per tutti quelli che verranno, perché non ci siano altre Eluana Englaro. Io questo voglio testimoniarlo qui, è per questo che ho chiesto di intervenire ed è per questo che credo che questa legge si inserisca in quel percorso di civiltà che abbiamo il dovere di approvare”. Il deputato Renzo Tondo, di Noi con l’Italia Ac, interviene a metà mattinata nell’Aula semideserta di Montecitorio. Ed è l’unico che spiazza, scarta dagli ordini di scuderia. Era presidente del Friuli Venezia Giulia, Tondo, nel febbraio 2019, quando il governo Berlusconi ricorse perfino ad un decreto legge (che Napolitano non firmò) per fermare la sentenza definitiva con la quale si ordinava di staccare il sondino nasogastrico dal corpo di una ragazza in stato vegetativo da 11 anni. “Vi assicuro - ricorda Tondo - che quella persona non poteva stare assolutamente a questo mondo, perché, se era un vegetale come l’ho vista, non esisteva. E se avesse avuto il cervello all’interno di quel corpo, sarebbe stata una cosa devastante”. Al tempo però Berlusconi, “il patriota” che oggi ambisce alla più alta carica dello Stato, affermò che Eluana poteva ancora fare figli. Quindi anni di dibattito nella società reale (il 20 dicembre 2006 moriva Piergiorgio Welby) si esauriscono in quattro ore di discussione generale in Aula alla Camera dove, con un pungo di deputati presenti, per la prima volta approda un progetto di legge sul suicidio medicalmente assistito. “Un evento storico”, lo definisce giustamente la M5S Francesca Ruggero che si commuove mentre ricorda il dovere dello Stato italiano di “dotarsi di norme certe per andare incontro ai malati senza speranza”, e con la voce rotta dedica l’intervento a suo padre. Riccardo Magi (+Europa), tra i promotori del referendum sull’eutanasia legale che non viene superato dalla legge in esame, coglie la portata di un “evento” atteso dalla prima pdl sull’eutanasia presentata da Loris Fortuna nel 1984, ma mette in guardia il Parlamento sul rischio di approvare un testo che non corrisponde neppure “ai paletti messi dalla sentenza della Corte costituzionale” del 2019. Giorgio Trizzino, del gruppo Misto, da medico racconta di un suo paziente, un “ragazzo che aveva una neoplasia nella zona testa-collo, e che, a causa della deturpazione del proprio viso, non riusciva più a guardarsi allo specchio, perché non riusciva più a riconoscere quella mostruosità”, e “quella lingua, che era costretto a tenere sempre fuori, perché non riusciva più a essere contenuta nella bocca: una sofferenza indicibile”. Parla di “oscurantismo medievale” e, rispondendo indirettamente a chi sostiene che basti la legge sulle cure palliative, ricorda che “non tutti i dolori possono essere sedati, neanche con dosi altissime di oppiacei”. Ma c’è anche chi, come Martina Parisse di Coraggio Italia, parla di pratiche eutanasiche che a suo dire in Belgio e in Olanda sono andate fuori controllo al punto che oggi “tanti anziani olandesi si stabiliscono in Francia e sperano che in questo Paese non verranno uccisi altrettanto facilmente”. Ma al netto di certi eccessi, la discussione generale è stata sicuramente pacata e con toni all’altezza della situazione, come chiedevano i relatori del testo messo a punto in tre anni nelle commissioni Giustizia e Affari sociali, il dem Bazoli e il 5S Provenza. Ma è una discussione che non appassiona più di tanto i parlamentari, perché non sposta voti, in questo momento. Sembra passato un secolo da quando la notizia della morte di Eluana esplose come una bomba nella plenaria del Senato riunita per far varare in tempi record un ddl che fermasse la sentenza della Cassazione che dava ragione a Beppino Englaro. I cuori oggi sono rivolti al Quirinale. La discussione si chiude con la rinuncia ad una replica da parte dei relatori e perfino del governo. Termine per la presentazione degli emendamenti e nuova calendarizzazione: da stabilire. Molto probabilmente, dopo l’elezione del capo dello Stato. Fine vita, Flick: “Lo dico da cattolico: non si arretri sulla legge” di Liana Milella La Repubblica, 14 dicembre 2021 Intervista all’ex presidente della Consulta. “È tempo di trasformare in norme le indicazioni della sentenza della Corte Costituzionale”. L’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick parla con Repubblica e promuove la legge sul “suicidio medicalmente assistito”, che da ieri è tra quelle che l’aula della Camera dovrà approvare, “perché rende più concreti i quattro paletti attraverso una formulazione più generale e non legata al caso specifico di cui la Corte si era occupata”. Nel 2019 i giudici della Consulta, sul caso Cappato-Dj Fabo, avevano posto quattro condizioni, l’esistenza di una patologia irreversibile, causa di sofferenze fisiche o psicologiche assolutamente intollerabili, per un malato che può vivere solo attraverso trattamenti di sostegno vitale, però capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Secondo Flick adesso la legge dà “maggiore concretezza e specificità a quei paletti”. Ma proprio per questo viene considerata dal fronte radicale e dall’Associazione Luca Coscioni “burocratica e fonte di lungaggini per chi chiede di morire”. “Meglio una legge che nessuna legge” ha detto a Repubblica il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni di M5S. Anche lei la vede così? “Senz’altro. E mi lascia perplesso la singolare convergenza tra i fautori di una libertà totale da un lato e gli oppositori altrettanto radicali dall’altro nel voler demolire la legge, faticosamente costruita alla Camera. Un obiettivo comune per finalità diametralmente opposte”. Il suo sì, invece, è convinto... “Ci lamentiamo tutti, e giustamente, perché da anni si stava lavorando inutilmente per arrivare a una legge sul fine vita. Adesso che c’è la proposta ciascuno la tira per la giacca chiedendo o paletti più rigidi che la rendano, di fatto, inapplicabile, oppure all’opposto, la demolizione totale dei paletti che già ci sono”. Mi scusi Flick, lei è un cattolico praticante, va a Messa ogni domenica, il Papa l’ha scelta come avvocato per i danni derivanti dalla compravendita del palazzo di Sloane Square a Londra. Non teme una scomunica nel dire sì a questa legge? “È vero, sono cattolico praticante, ma sono anche laico costituzionalmente (quindi non laicista). Credo che in una società pluralista, una soluzione come quella elaborata faticosamente dalla Consulta nella vicenda di Dj Fabo sia non un compromesso, ma un risultato accettabile, anche se tuttora nutro delle perplessità sul passo che la Corte ha compiuto”. Forse vede valicato il confine tra giudice delle leggi e autori delle medesime? “Sì, ma la Corte lo ha fatto con delle buone ragioni in una società pluralista. Ha ritenuto, ferma restando la necessità di tutelare il soggetto debole per ragioni di solidarietà umana, che si potesse escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio. Ma solo quando la sofferenza è irreversibile, intollerabile, e la vita dipende da un presidio medico, senza il quale quella persona non può neppure sopravvivere”. Lei sta elencando le famose quattro condizioni poste dalla Consulta nel 2019? “Sì, certo. Proprio quelle. La Corte ha ritenuto che in questi casi non sia punibile l’accelerazione della morte considerandola sostanzialmente eguale a quanto già prevedeva la legge del 2017 sul fine vita, e cioè la sedazione senza un accanimento terapeutico per contrastare la morte che sta per arrivare. Per Eluana Englaro sono state staccate le macchine che la facevano sopravvivere, poiché proprio questa, secondo la testimonianza del padre Beppino, era la sua volontà già prima dell’incidente”. Eppure la Chiesa continua a insistere sulle sole cure palliative... “Nel caso Englaro si sono sommate la volontà della persona di rifiutare un intervento medico, in nome della sua libertà, e la necessità di evitare la sofferenza. Adesso viene proposta una soluzione di fatto uguale che invece di non impedire l’arrivo inevitabile della morte, la accelera. Certo, vi è una contraddizione con il credo della Chiesa, ma ormai, dopo la decisione della Consulta, si tratta di una situazione acquisita nella laicità e nel pluralismo del nostro ordinamento costituzionale. E io non posso che prenderne atto, come cattolico laico, al di là delle mie convinzioni personali”. Allora perché alla Camera i partiti di centrodestra nelle commissioni non hanno votato la legge? “La prima risposta che mi viene in mente è che questo atteggiamento sia dettato solo da valutazioni di carattere politico. Secondo me, invece, non si può più tornare indietro di fronte a un risultato acquisito dall’ordinamento”. Vuole dire che non si può più far finta che la sentenza della Consulta non esista? “No, si deve e si può invece dare maggiore concretezza e specificità a quei paletti che la Consulta ha mutuato dalla legge precedente per evitare che lungaggini burocratiche o strumentalizzazioni la rendano inapplicabile nel caso concreto”. La legge che oggi approda in aula a Montecitorio rispetta il dettato della Consulta? “Direi di sì, perché rende più concreti i quattro paletti attraverso una formulazione più generale e non legata al caso specifico di cui la Consulta si era occupata”. Ma l’Associazione Luca Coscioni dice invece che la legge non va ancora bene, perché discrimina i malati privi di autonomia fisica, perché impone le cure palliative, perché si declina in almeno dieci passaggi burocratici, infine perché consente l’obiezione di coscienza dei medici... “Mi pare che riconoscere l’obiezione di coscienza sia fondamentale per il rispetto dell’autodeterminazione di un medico chiamato a partecipare a quel processo, e non a fare solo lo spettatore. Per il resto ho la sensazione che chi critica i paletti in realtà voglia eliminarli del tutto per affermare la totale libertà ed autodeterminazione”. Dica la verità, pensa che vogliano bloccare la legge così gli italiani votano per il referendum che ha già raccolto migliaia di firme? “Io non so cosa faranno gli italiani, ma il quesito referendario mira proprio a questo, eliminare del tutto i paletti relativi alla situazione medica della persona per concentrare tutto, e soltanto, nel consenso, purché esso sia valido. Come non mi sembra corretto cavillare sui paletti per rendere inapplicabile la legge, così sono contrario a cancellare i paletti per rendere totalmente libera l’autodeterminazione della persona che vuole la morte attraverso l’intervento di un altro”. Mettiamoci nei panni di chi ha perso del tutto la possibilità di muoversi. Quelli dell’attuale legge non le sembrano troppi passaggi, comprese pure le cure palliative? “Di fronte a una scelta irrevocabile e definitiva, la cautela, e quindi le procedure, sono necessarie. Semmai si tratta di semplificarle al massimo, ma non di rimuoverle in blocco limitandosi al solo consenso alla morte”. In Germania però hanno appena deciso che basta la volontà individuale di morire... “Secondo me non si può, per rendere più facile il percorso, eliminare del tutto i paletti”. Ma perché? “Una legge senza paletti diventa la chiave per qualsiasi soluzione, anche quella di una persona giovane e sana, che per una delusione amorosa, dice all’amico “premi tu il grilletto perché io non ho il coraggio di farlo”. Gli stessi fautori del quesito referendario sostengono che i paletti potranno comunque essere introdotti da una nuova legge o da una interpretazione del giudice. Dimostrando che il quesito è fatto apposta per liberalizzare in toto l’eutanasia e non, come dicono, per alleviare la sofferenza di un infelice”. Il fantasma della legge Zan e della sua caduta al Senato incombe comunque su questa legge. Lei farebbe un appello per votarla? “Il mio mestiere non è quello di fare appelli. Però, come cittadino, ritengo che il Parlamento abbia cercato di trovare per la prima volta un equilibrio tra esigenze entrambe fondate, ma tra loro opposte. È il modo migliore per riconoscere la necessità di una legge e per incoraggiare il Parlamento a svolgere il suo ruolo. E comunque non dimentichiamoci che la legge Zan è saltata proprio per la mancanza di una maggiore disponibilità a cercare un punto d’incontro”. Caporalato, la proposta del centrosinistra: programma di protezione a chi denuncia di Marco Patucchi La Repubblica, 14 dicembre 2021 Oggi al Cnel verrà presentato il disegno di legge: il programma di protezione, che comprende la tutela giudiziaria e sanitaria, riguarderà anche i familiari e i colleghi del lavoratore che ha il coraggio di ribellarsi alla schiavitù. In attesa del reinserimento lavorativo riconosciuta la cifra massima (circa 1300 euro al mese) della Naspi Un programma di protezione. Un progetto dettagliato e concreto che riconosca sostegno economico, abitativo, reinserimento nella società, nel lavoro e, appunto, tutela fisica e legale, a chi ha il coraggio di denunciare il caporalato. Il ‘campo largo’ che va da Leu a Pd e ad Azione, mentre litiga sulla definizione del perimetro in vista della partita del Quirinale e delle successive elezioni politiche, scende in pista compatto su un’emergenza che affligge da sempre il Paese. E lo fa con un disegno di legge (primi firmatari Tommaso Nannicini, senatore Pd, e Sandro Ruotolo, Leu) che viene presentato domani al Cnel (diretta tv sul sito di Repubblica) davanti al ministro del Lavoro, Andrea Orlando. “Il numero di invisibili nel nostro mercato del lavoro - spiega Nannicini - è difficilmente quantificabile anche se, secondo gli ultimi dati Istat, prima dell’avvento della pandemia i lavoratori in nero in Italia erano 3,2 milioni. Lavoratrici e lavoratori che producono un valore aggiunto di 77,8 miliardi di euro”. Nei giorni scorsi Repubblica ha anticipato i dati eclatanti dell’Ispettorato nazionale del lavoro che, aumentando in tre anni del 400% i controlli, ha rilevato un’irregolarità media del 78% nelle aziende del centronord e del 68% nel Meridione. A conferma di come il caporalato non sia solo quello, entrato nell’immaginario degli italiani, dei raccoglitori di pomodori schiavizzati nei campi del Sud, ma anche quello dell’edilizia e della logistica nei territori più ricchi del Settentrione. Sfruttamento “ottocentesco” della forza lavoro, dunque, con tutto quello che ne consegue soprattutto per i migranti che raggiungono il nostro Paese inseguendo il sogno di una vita migliore. Dignitosa. “A queste persone - dice Nannicini - vengono negati i diritti umani fondamentali e le più elementari tutele in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, trovandosi in situazioni estreme, di schiavitù. Dove dilaga l’economia sommersa, peraltro, il numero di infortuni e morti sul lavoro è molto più elevato. E le persone che si infortunano non denunciano, o quando sono costrette a farlo, dichiarano il falso per non danneggiare i caporali o chi li ha ingaggiati irregolarmente”. Il ddl cerca di incentivare e sostenere il coraggio dei lavoratori sfruttati, che vogliano sottrarsi al ricatto dei caporali. Il primo articolo del provvedimento regola, peraltro, un aspetto che può sembrare di dettaglio ma in realtà non lo è: le vittime dei reati che presentano denunce o identificate come persone informate sui fatti, stabilisce la norma, “sono rese edotte nella lingua loro comprensibile dall’autorità giudiziaria, dagli organi di polizia, dagli organi di vigilanza”. Un decreto del Presidente del Consiglio dovrà incaricare i prefetti, in collaborazione con l’Ispettorato nazionale del lavoro, di appositi uffici “per la protezione, assistenza e tutela delle persone” che coordineranno gli interventi pubblici e privati (enti locali, sindacati, volontariato) in una rete di “assistenza sanitaria, abitativa e lavorativa”. Da lì prenderanno le mosse in concreto i programmi per la “protezione, assistenza e tutela” di “singole persone o nuclei familiari, gruppi, categorie di persone, ambiti sociali o lavorativi”, attraverso intese e convenzioni con autorità giudiziaria, organi di polizia, sindacati, associazioni e Terzo settore. La protezione è estesa a congiunti e parenti convienti fino al secondo grado e ai colleghi di chi denuncia. Nell’immediato verranno garantite “assistenza sanitaria e legale, ospitalità abitativa transitoria e tutela sindacale”. Poi si provvederà all’inserimento sociale e lavorativo che contemplerà anche “percorsi di regolarizzazione e di formazione”. Nell’attesa del nuovo lavoro e, comunque, per non oltre due anni, il ddl prevede un sostegno economico mensile pari a quello massimo della Naspi, dunque circa 1300 euro che rappresentano, evidentemente, un incentivo importante per chi viene normalmente sfruttato in cambio di cifre davvero irrisorie. L’ultimo articolo del ddl chiarisce che sono fatte salve le norme sull’immigrazione, relative al riconoscimento del permesso di soggiorno alle vittime di violenza fisica, psicologica e economica e a chi denuncia. Migranti. Cpr, il caso di Abdel apre il conflitto con la Tunisia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 dicembre 2021 In Tunisia, il caso di Wissan Ben Abdel - morto in circostanze misteriose all’ospedale San Camillo di Roma dopo essere stato trasferito dal Cpr di Ponte Galeria - sta diventando un caso politico. La stampa di Tunisi continua a dedicare approfondimenti al dramma del giovane originario del piccolo paese di Ghebli. Con toni molto duri i commentatori sui media e sui social chiedono alle loro autorità di “fare pressione su Roma per individuare i responsabili della morte di Wissam e di dare giustizia ai suoi genitori”. Numerose sono le testimonianze di giovani tunisini rimpatriati dall’Italia trasmesse dalle radio tunisine. Riadh, un giovane del Sud della Tunisia, 24 anni, racconta: “Il centro di detenzione di Ponte Galeria era stracolmo, non c’erano posti letto, dormivamo nei corridoi. Ci negavamo l’acqua e se parlavamo tra di noi venivamo malmenati. Ci hanno sequestrato anche i telefonini”. Nel frattempo sono spuntati due video del giovane tunisino stesso dove denunciava le condizioni in cui viveva lui e i suoi connazionali nel centro di permanenza. Oggi viene assegnato l’incarico per un “supplemento d’indagine autoptica”, come si dice in gergo tecnico, sul corpo di Wissem. Una circostanza necessaria visto che l’autopsia è stata eseguita senza che fosse possibile per la famiglia nominare un consulente medico di fiducia, come denunciato dall’avvocato di parte Francesco Romeo. L’indagine sul corpo del 26enne tunisino, sbarcato in Italia e finito nel Cpr di Ponte Galeria in attesa di essere rimpatriato, è stata ordinata dalla Procura dopo l’apertura di un fascicolo d’indagine. Se non fossero intervenuti la famiglia, il Garante dei Detenuti Stefano Anastasia e il consigliere regionale Alessandro Capriccioli, le associazioni che si occupano di diritti umani e di monitorare quello che avviene nei Cpr come LasciateCIEntrare, la morte di Wissem sarebbe stata derubricata a decesso per “cause naturali”. La campagna LasciateCIEntrare, assieme a numerose associazioni che si occupano dei diritti umani, hanno lanciato un appello esprimendo il loro incondizionato sostegno alla famiglia del defunto e invitando le autorità italiane a rimuovere ogni opacità sulle circostanze che hanno portato alla morte di Wissem ben Abdellatif, al fine di garantire l’accesso alla giustizia per la sua famiglia. Invitano, inoltre, lo Stato tunisino a rivelare la verità sulla morte di Wissem, e ad accompagnare la sua famiglia nella ricerca di giustizia e nella revisione degli accordi bilaterali tra la Tunisia e l’Italia contrari al diritto fondamentale di asilo garantito dalle convenzioni internazionali ratificate dai due Paesi. Ricordiamo che il 28 novembre 2021, Wissem ben Abdellatif, il giovane tunisino di 26 anni di Kebili, è morto all’ospedale San Camillo di Roma dopo essere stato trasferito dal Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) di Ponte Galeria a Roma. L’attacco cardiaco che ha causato la sua morte potrebbe essere stato provocato dall’impiego di misure di contenzione durante il suo ricovero. Un’indagine è stata aperta dalla Procura di Roma e un’autopsia è in corso per determinare la causa della morte. Wissem è arrivato in Sicilia ad inizio di ottobre e, dopo un periodo di isolamento in nave quarantena ad Augusta, è stato trasferito al CPR, la fase precedente al rimpatrio, e quindi considerato idoneo alla vita in detenzione. Delle preoccupazioni sullo stato psicologico di Wissem sono state osservate dalle autorità del centro, il che ha portato al suo primo ricovero il 23 novembre 2021 all’ospedale Grassi di Ostia e poi al reparto psichiatrico dell’ospedale San Camillo di Roma. Il 28 novembre, Wissem è morto per arresto cardiaco durante il ricovero, ma i suoi genitori hanno affermato che il figlio era uno sportivo e non aveva nessun problema né fisico né psichico. Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio, e Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà della regione Lazio, hanno effettuato un’ispezione al CPR il 4 dicembre, dove hanno potuto consultare la cartella clinica di Wissem e osservare le misure di contenzione utilizzate durante il suo ricovero. Resta da chiarire se la sofferenza mentale di Wissem fosse precedente alla sua detenzione o se si fosse piuttosto sviluppata durante la stessa. Inoltre, Mauro Palma, presidente dell’Autorità per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà, ha dichiarato alla stampa italiana che gli esami del sangue erano regolari, non sembrava ci fossero problemi di salute. Migranti. Ecco perché difendo il modello Riace di Mimmo Lucano di Roberto Saviano Corriere della Sera, 14 dicembre 2021 Quell’esperienza si è dimostrata determinante per creare più posti di lavoro, per riqualificare il territorio e per frenare lo spopolamento e il degrado urbano. Una volta Ada Colau, la sindaca di Barcellona, disse che la scelta non è tra accogliere e non accogliere. L’unica scelta che abbiamo è tra accogliere bene ed accogliere male. Quando si alzano i muri si costringono le persone a percorrere rotte più pericolose. Quando si nega la libertà di movimento si incoraggia l’industria del traffico di esseri umani. Infine, quando si nega una buona accoglienza a chi rischiando la vita e a qualsiasi costo prova ad avere una nuova vita, si ingrossano le fila degli schiavi alla mercé dell’industria dello sfruttamento: nei campi, nella prostituzione, nella manodopera a nero di ogni forma e specie. Riace ha fatto il contrario, il modello Riace ci ha insegnato che l’accoglienza fa bene non solo a chi è accolto ma anche a chi accoglie. Ha rappresentato per anni l’alternativa ai casermoni, alle palestre, agli hotel affittati in cui disperati vengono stipati speculando sul cibo che poi risulta riso e acqua. Riace ha dimostrato che è possibile accogliere là dove noi emigranti abbiamo lasciato terra abbandonata, qualche volta anche bruciata. Insomma è la prova provata che accogliere può significare rinascita sociale, economica e anche politica. Aprendo le porte ne guadagniamo tutti, ecco solo qualche esempio. Nella regione Calabria, in cui da decenni lo spopolamento è inarrestabile e il futuro è un deserto demografico (l’Istat prevede che dei circa 1.900.000 abitanti di oggi ne resteranno 1.000.000 nel 2050, in maggioranza over 65), con il modello Riace “a pieno regime” la popolazione del borgo è raddoppiata: da circa 500 abitanti con una media di età altissima a quasi mille abitanti di 26 nazionalità diverse. Tutti riacesi davanti ai diritti. Nella Calabria della disoccupazione al 20%, con il modello Riace sono state create due cooperative per la differenziata, un asilo nido, i progetti d’accoglienza, il turismo solidale e un bene confiscato sulla Marina (che non si è avuto il tempo di avviare). Le conseguenze sociali di un approccio nuovo - Quando il modello Riace accoglieva “a pieno regime”, in paese lavoravano circa 100 persone, almeno 80 riacesi di nascita: praticamente l’impatto occupazionale della Fiat, in un paese di circa 1.700 abitanti. Nella Riace di Lucano non si pagava l’Irpef comunale e nemmeno l’occupazione del suolo pubblico per le attività commerciali. Lo scuolabus nelle contrade era gratis. La carta d’identità non si pagava (di questo Lucano è stato accusato per danno erariale). I riacesi pagavano solo la tassa dei rifiuti, l’Imu sulle seconde case e l’acqua in misura ridottissima visto che l’autonomia della sorgente aveva sottratto il Comune dai prezzi della Sorical (l’azienda pubblico-privata sanitaria su cui non basterebbero centinaia di pagine per raccontarne le contraddizioni e ambiguità). Ancora un esempio. Nella Calabria del disastro sanitario, il modello Riace ha portato fin li un ambulatorio medico (Jimuel) al servizio non solo dei beneficiari dei progetti ma di tutto l’hinterland scoperto da qualunque servizio pubblico sanitario. Un modello diverso di cittadinanza - Per tutto questo il modello Riace non lo definirei un modello per migranti; è assai più calzante parlare di “modello di cittadinanza” e non solo quindi di accoglienza. Un modello efficace con cui lo Stato risparmia. Risparmia quando non si pagano affitti esorbitanti per megastrutture in cui depositare la gente, come ville e hotel. Risparmia quando non si ricorre alle banche pagando gli interessi per i ritardi ministeriali. Non solo, i “bonus” adottati a Riace per sopperire ai ritardi del ministero, venivano consegnati direttamente ai beneficiari che erano così liberi di fare la spesa loro stessi sul territorio, eliminando l’orribile meccanismo di dipendenza delle buste della spesa che abitualmente gli operatori consegnano ai rifugiati. I famosi 35 euro al giorno (quelli su cui la destra ha costruito tanta propaganda) a Riace non venivano usati in modo assistenziale e parassitario, ma investiti per creare posti di lavoro, istituire borse di lavoro. E questo ha portato una ricaduta sul territorio. Verrebbe da dire, assecondando un luogo comune che vede il Sud sempre ultimo e sempre inefficiente, che se tutto questo è stato possibile a Riace, nell’entroterra calabrese, è possibile ovunque. L’utopia della normalità - Questo rendeva il miracolo di Riace così potentemente simbolico, perché riproducibile in moltissime realtà mediterranee. Le case diroccate degli emigranti andati via da Riace hanno trovato nuova vita con l’accoglienza diffusa. Chi ormai vive da decenni dall’altra parte del mondo, o ci è addirittura nato, ha dato ad altre persone la possibilità di trovare un rifugio, un tetto. Le case abbandonate grazie all’accoglienza, quindi, hanno ripreso vivere e a respirare. È tutto qui il punto: in quella “ricaduta sul territorio” che ha portato la Regione Calabria ad approvare quel modello con la legge n. 18 del 2009, un tentativo di estendere ad altri borghi della regione questo modello di rinascita. Riace ha individuato soluzioni che colmavano i vuoti istituzionali (per esempio davanti ai ritardi ministeriali o alla condizione dei lungo permanenti), smantellavano il business dell’accoglienza in un sistema che mette la burocrazia davanti alle persone, la regola scritta davanti alla logica evidente. E lo ha fatto lì, dove regna la ‘ndrangheta. “L’”utopia della normalità”, se la fai in Calabria, deve confrontarsi con la criminalità organizzata”, ha scritto Tiziana Barillà in “Mimí Capatosta. Mimmo Lucano e il modello Riace” (Fandango, 2017). E oggi l’accusa ha puntato il dito proprio contro la gestione di questo modello. Le accuse di peculato - Chiariamo subito un equivoco insopportabile: Mimmo Lucano è accusato (anche) di “peculato” ma non si è messo in tasca un euro, è trascritto nei verbali del processo: Mimmo Lucano non è accusato di avere rubato per sé, ma di avere “mal gestito” i fondi dell’accoglienza. Per quanto mi riguarda di averli usati troppo bene! Ma questo il nuovo grado di giudizio spero lo chiarirà. Da virtuoso a criminale, in poco più di dieci anni. Oggi Riace è il luogo della distanza tra legalità e giustizia, ricorda al paese che “legale” non basta, bisogna che sia anche “giusto”. Dopo l’assedio e la chiusura, tornando a Riace non salta agli occhi solo l’assenza di qualche decina di rifugiati, manca proprio il tessuto sociale, il tessuto di vita. È tornato a essere uno dei tanti paesi dell’entroterra calabrese, del meridione. Mimmo Lucano è stato condannato in primo grado a 13 anni e due mesi. “Rompere il presente può costare caro”, ma sono certo che il tempo darà ragione a Riace. Del resto, lo scorso aprile 2019 la Corte di Cassazione, ha espressamente dichiarato che l’impianto accusatorio non sta in piedi: mancano i “comportamenti” fraudolenti di Domenico Lucano. Quella sentenza non ha a che vedere con il processo in corso a Locri, ma ci parla dello stesso incriminato. Una voce che non può rimanere inascoltata. Gran Bretagna. Italiano detenuto da mesi nel centro per stranieri: “Voglio tornare a casa” di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 dicembre 2021 L’odissea della detenzione amministrativa. Arrestato nel 2019 per frode, il connazionale è diventato un “clandestino” dietro le sbarre. La sua vicenda potrebbe essere arrivata a un punto di svolta ieri: tre mesi e mezzo dopo la prima richiesta di rimpatrio volontario sarebbe stato finalmente firmato l’ordine di deportazione dagli uffici del ministero degli Interni britannico. Detenuto da mesi come straniero irregolare vuole tornare a casa ma non può. Sembrerebbe la storia di un migrante trattenuto in Italia in un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), invece è quella di un italiano finito dietro le sbarre nel Regno Unito. Giuseppe Missaghi è stato arrestato a Londra nel novembre 2019 per un giro di francobolli contraffatti. Non ha più riavuto la libertà, nonostante abbia finito di pagare il suo conto con la giustizia sei mesi fa. Il 21 agosto scorso, infatti, è stato condannato a 3 anni e 3 mesi per frode. La legge del Regno Unito prevede che in casi come questo si sconti in carcere la metà del tempo e sul resto valga la pena sospesa. A Missaghi, dunque, toccavano 19 mesi e 2 settimane. Erano scaduti a fine giugno, ma non è bastato a fargli ottenere il rilascio. Terminata la vicenda penale è iniziata l’odissea della detenzione amministrativa. Mentre era in carcere, infatti, il Regno Unito è uscito dall’Ue. Nonostante avesse vissuto a Londra per 10 anni, lavorando regolarmente, il cittadino italiano si è ritrovato senza permesso di soggiorno e con passaporto e carta d’identità scaduti. Un clandestino. Per questo l’1 settembre, dopo un colloquio con una funzionaria dell’ufficio immigrazione, ha firmato una richiesta di rimpatrio volontario. In quel momento si trovava nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, a sud-est della capitale britannica, dove lo avevano trasferito a giugno 2020 e dove i detenuti sono chiusi in celle singole per 23 ore e mezzo al giorno. A differenza dell’Italia, in Uk la detenzione amministrativa può svolgersi in una prigione comune se segue una condanna penale. Il sistema ha anche un’altra peculiarità: non prevede limiti di tempo. Così a fine settembre Missaghi inizia ad allarmarsi e tenta di contattare l’ufficio immigrazione. Il 30 una guardia penitenziaria gli fa firmare per la seconda volta lo stesso foglio per il rimpatrio. Nei giorni seguenti cerca un funzionario che stia seguendo il suo caso. Non lo trova. Il 12 ottobre viene trasferito a Yarl’s Wood, centro di espulsione per stranieri della città di Bedford. Missaghi è nella stessa condizione dei migranti irregolari che in Italia e negli altri paesi Ue finiscono nei Cpr. Ma c’è una differenza: vuole tornare a casa e ha chiesto il rimpatrio volontario. Nei giorni seguenti lo contatta un funzionario del ministero degli Interni britannico. Risponde alle stesse domande che tempo prima gli aveva posto la donna dell’ufficio immigrazione. Alla terza richiesta di firmare il foglio per il rimpatrio inizia a perdere la pazienza. Successivamente rifiuta il trasferimento in un altro centro per migranti. “Ho detto che mi sarei spostato solo per rientrare in Italia. Ho scontato la mia condanna, ma sono intrappolato qui. E non capisco perché”, racconta Missaghi al manifesto. Invece di tornare a casa, però, finisce in isolamento. Dal telefono della cella, intanto, prova ripetutamente a chiamare il consolato italiano a Londra. Senza ricevere risposta. Attraverso un’associazione che fornisce sostegno ai migranti reclusi riesce a nominare un’avvocata e dopo una telefonata al nostro ministero degli Esteri viene finalmente contattato dal consolato. Sentito dal manifesto il ministero afferma di “seguire sin dall’inizio e con la massima attenzione” il caso e che il consolato “ha dato piena disponibilità all’emissione del documento necessario a consentire il rientro in Italia del connazionale, non appena questi deciderà di farlo”. Missaghi, però, ribadisce di aver firmato la richiesta di rimpatrio tre volte, la prima tre mesi e mezzo fa. Lo stallo potrebbe essere dipeso da errori burocratici delle autorità britanniche. Ieri la legale che lo difende gli ha fatto sapere che l’ordine di deportazione è stato finalmente firmato dagli uffici del ministero degli Interni di Londra. Sembrerebbe il tassello che mancava, ma al momento non ci sono certezze sulla data del rientro. “Chiederò il risarcimento per l’ingiusta detenzione, ma ora voglio solo tornare a casa”, dice Missaghi. Da inizio dicembre il caso è seguito anche dalla Coalizione italiana libertà civili e immigrazione (Cild) che ha chiesto spiegazioni a consolato e ministero degli Esteri senza però ottenere risposta. Secondo l’avvocato Gennaro Santoro (Cild): “La vicenda del nostro connazionale è lo specchio di ciò che accade ogni giorno in Italia ai cittadini stranieri privi di documenti. Il sistema della detenzione amministrativa deve essere ripensato a livello europeo. Non funziona”. Ucraina. Omicidio Rocchelli: distorsioni ucraine e passività italiana di Luigi De Biase Il Manifesto, 14 dicembre 2021 Un anno fa la Corte di Appello ha confermato praticamente per intero le conclusioni raggiunte dalle procure di Pavia e di Milano, stabilendo al tempo stesso l’innocenza di Markiv sulla base di quello che si può definire un errore nelle procedure: gli inquirenti avevano sentito in qualità di testimoni otto fra superiori e commilitoni dell’imputato, ma avrebbero dovuto considerarli possibili complici del crimine. È tecnica della giustizia. La giustizia ancora si attende. C’è una questione che rimane aperta dopo la sentenza con cui la Cassazione ha assolto in via definitiva Vitaly Markiv dalle accuse sul ruolo nel duplice omicidio del fotografo italiano Andrea Rocchelli e dell’attivista russo Andrey Mironov, accuse che gli erano costate una condanna a 24 anni in primo grado. La questione è chiara a tutti: dato che Markiv non ha commesso il fatto, chi sono i colpevoli? Rocchelli e Mironov li hanno uccisi a colpi di mortaio il 24 maggio del 2014 a pochi chilometri dalla città di Slovyansk, lungo il fronte dei combattimenti nel Donbass. In quelle campagne, fra quelle case colpite dai bombardamenti, erano arrivati per raccontare le conseguenze della guerra sulla gente comune. I colpi secondo le indagini dei carabinieri del Ros sono partiti da una collina chiamata Karachun che era sotto il controllo della Guardia nazionale e dell’esercito ucraino. Un anno fa la Corte di Appello ha confermato praticamente per intero le conclusioni raggiunte dalle procure di Pavia e di Milano, stabilendo al tempo stesso l’innocenza di Markiv sulla base di quello che si può definire un errore nelle procedure: gli inquirenti avevano sentito in qualità di testimoni otto fra superiori e commilitoni dell’imputato, ma avrebbero dovuto considerarli possibili complici del crimine. È tecnica della giustizia. La giustizia ancora si attende. L’impressione è che i corpi martoriati di Andrea Rocchelli e di Andrey Mironov siano lentamente divenuti un fatto secondario, e che altri eventi abbiano preso il centro della discussione. Questo è accaduto per due motivi. Il primo motivo sta nella strategia usata dallo stato ucraino. L’ex ministro dell’Interno Arsen Avakov, lo stesso uomo che ha organizzato la Guardia nazionale includendo battaglioni paramilitari di estrema destra, ha parlato più volte del processo come di un episodio nella “guerra ibrida” che il suo paese combatte contro la Russia. La tesi è stata recepita rapidamente da una parte della stampa e dell’opinione pubblica ucraina, nonostante gli elementi per dimostrarla fossero pochi e malfermi: un video acquisito fra le prove a carico che “andava escluso” per il semplice fatto di essere stato trasmesso da network russi, a prescindere dalle valutazioni sul materiale in sé; e i resoconti di media italiani sulle indagini e sulle fasi del dibattimento, resoconti “influenzati dalla propaganda russa”, questa è la teoria, per il principio ricurvo secondo il quale il giornalismo “indipendente” deve comunque appoggiare l’Ucraina. La versione di Avakov, irragionevole prima ancora che illiberale, ha trovato sostegno ben oltre i confini dell’Ucraina, anche nel mondo politico italiano, in particolare in ambienti radicali. Il secondo motivo sta nella risposta, ma sarebbe meglio dire nella totale assenza di una risposta, delle istituzioni italiane ed europee alle pressioni osservate in questi sette anni. Agli inquirenti ucraini è stato permesso di ignorare le rogatorie avanzate dai nostri magistrati. Agli esponenti del governo di pretendere la censura dei nostri tribunali. Ad Avakov di portare nelle nostre aule di giustizia le sue allarmanti teorie. Distorsioni, forzature e depistaggi usati per riscrivere le circostanze intorno alla morte di Andrea Rocchelli e di Andrey Mironov di fronte ai quali l’Italia si è mostrata passiva, forse anche alla luce di considerazioni di carattere politico, e che oggi rappresentano un oscuro patrimonio per l’Ucraina: è così che si gestiscono i rapporti con l’Europa. Francia. Carcere e multe salate contro il bullismo scolastico di Monica Coviello vanityfair.it, 14 dicembre 2021 Il disegno di legge presentato dal deputato MoDem Erwan Balanant prevede l’istituzione di un vero e proprio reato penale per punire i responsabili delle molestie in classe. Carcere e multe salatissime per punire i bulli. La Francia promette un giro di vite contro il bullismo scolastico: il disegno di legge presentato dal deputato MoDem Erwan Balanant prevede l’istituzione di un vero e proprio reato penale per punire i responsabili delle molestie in classe. “Se tolleriamo la violenza a scuola, la ancoriamo allo sviluppo dei bambini e quindi la installiamo nella società dei prossimi decenni”, ha spiegato il parlamentare. In Francia, un bambino su dieci è vittima di bullismo e, dall’inizio dell’anno, una ventina di studenti si sono suicidati perché presi di mira dai compagni, secondo una stima dell’associazione Hugo. Il principio che ha spinto Balanant a pensare a una legge contro il bullismo scolastico è che “un giovane impiegato in un’azienda ora è più tutelato di uno studente in un liceo. Dobbiamo definire un divieto. E, insieme, ci deve essere una componente di prevenzione essenziale in tema di bullismo”. Le molestie a scuola saranno punite con la reclusione da tre a 10 anni (quando la vittima sia indotta al suicidio o al tentativo di suicidio) e con una multa da 45 a 150 mila euro. Come misura alternativa alla detenzione è previsto un percorso di “empowerment nella vita scolastica”. La proposta di legge prevede anche una formazione specifica per medici, infermieri e psicologi. E riconosce “il fatto che il bullismo scolastico non è solo tra studenti”, ma può anche essere, più raramente, responsabilità di un adulto, come ha osservato Balanant. Secondo gli esperti, prevedere un reato specifico potrebbe facilitare la presentazione delle denunce. A condizione, però, anche, di una migliore formazione della polizia, “che oggi a volte tende a minimizzare i fatti denunciati loro dalle vittime”, precisa l’avvocato Gauthier Lecocq, intervistato da la-croix.com. “E anche a condizione di velocizzare il termine delle indagini. La trattazione di un caso richiede talvolta sei o otto mesi, periodo durante il quale il minore o il giovane continuano a subire vessazioni, talvolta con drammatiche conseguenze.