Presunzione di innocenza, la rettifica debutta a ostacoli di Giudo Camera Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2021 Domani si parte ma sarà difficile far rispettare l’obbligo a chi viola le norme. L’accusato può chiedere tutela civile con tempi e costi che si sommano al penale. Debutta domani la nuova disciplina che rafforza la presunzione di innocenza. Entra infatti in vigore il 14 dicembre il decreto legislativo 188/2021, che recepisce la direttiva Ue 2016/343 e incide sulle comunicazioni potenzialmente lesive della presunzione di innocenza. Tuttavia, la concreta efficacia dei rimedi introdotti - in testa la possibilità di ottenere una rettifica da parte dell’autorità che ha commesso la violazione - potrebbe essere vanificata da diversi fattori. Le disposizioni individuano due tipologie di comunicazioni potenzialmente lesive della presunzione di innocenza. Le prime sono quelle rese da “tutte le autorità pubbliche” fuori da contesti processuali e atti giudiziari: il decreto legislativo prevede che non potranno indicare come colpevole l’indagato o l’imputato fino a quando la sua responsabilità non sia stata accertata in via irrevocabile. Nell’ambito delle comunicazioni degli inquirenti, viene previsto che la diffusione di notizie sui procedimenti penali sia consentita al Procuratore della Repubblica, o alla polizia giudiziaria da lui autorizzata, solo in comunicati stampa o - peri fatti di particolare rilevanza pubblica - in conferenze stampa. Le informazioni diffuse potranno essere solo quelle “strettamente necessarie” alla prosecuzione delle indagini o a garantire “specifiche ragioni” di interesse pubblico; viene comunque stabilito il divieto di “assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Se queste norme vengono violate, la persona interessata potrà chiedere all’autorità pubblica che ha rilasciato la dichiarazione di procedere alla rettifica; la rettifica dovrà essere pubblicata entro 48 ore, con le medesime modalità della dichiarazione lesiva della presunzione di innocenza, o con altre idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione. Se la rettifica non viene pubblicata, o se la pubblicazione è inadeguata, l’interessato potrà chiedere al giudice civile, in base all’articolo 700 del Codice di procedura civile, di ordinare la pubblicazione nei modi prescritti dalla legge. La rettifica non esclude comunque né il diritto della vittima al risarcimento dei danni, né le responsabilità penali e disciplinari per l’autore della comunicazione lesiva della presunzione di innocenza. Il decreto legislativo introduce poi il nuovo articolo115-bis nel Codice di procedura penale (“Garanzia della presunzione di innocenza”), che contiene una stretta espressiva specifica per l’attività giudiziaria. Si stabilisce che i provvedimenti diversi dalla decisione nel merito della responsabilità penale non potranno indicare come colpevoli l’indagato o l’imputato prima del giudicato irrevocabile. Il divieto non riguarda gli atti del pubblico ministero volti a dimostrare la colpevolezza. Allo stesso tempo viene stabilito che, negli atti che presuppongono la valutazione di prove o indizi di colpevolezza, l’autorità giudiziaria - compreso il Pm - dovrà limitare i riferimenti alla colpevolezza alle indicazioni necessarie a soddisfare le condizioni previste dalla legge. In caso di violazione, l’accusato potrà chiedere entro dieci giorni la correzione al giudice; prima del processo, la competenza è del giudice per le indagini preliminari. Il decreto di correzione dovrà essere emesso entro 48 ore, e poi notificato all’interessato e alle altre parti, che avranno dieci giorni per proporre opposizione al presidente del Tribunale o della Corte d’appello, che deciderà senza formalità. Sull’opposizione contro un loro provvedimento la decisione dovrà essere presa, rispettivamente, dal presidente della Corte d’appello e della Cassazione. Ma i rimedi previsti dal decreto legislativo rischiano di non bastare. Si pensi, ad esempio, alle comunicazioni pubbliche - stampa, televisione o social media - rese da “tutte le autorità”: non solo magistratura e forze dell’ordine, ma anche ministri, parlamentari, amministratori locali o loro addetti stampa. Il decreto prevede che, nell’immediatezza, sia la stessa autorità che ha rilasciato la dichiarazione lesiva della presunzione di innocenza a valutare la fondatezza della rettifica. Poiché la pubblicazione non preclude il diritto al risarcimento dei danni, le responsabilità penali - in particolare per diffamazione - e disciplinari, non si può escludere che l’autorità che ha reso la dichiarazione contestata decida, in ottica difensiva, di non pubblicare la rettifica negando la violazione della presunzione di innocenza. A supporto di tali ipotesi, va sottolineato che l’oggetto del divieto - fuori dai casi più eclatanti - lascia spazio a indubbi margini interpretativi; ciò vale, soprattutto, in relazione ai fatti di particolare interesse sociale e agli esponenti politico-istituzionali che citino atti giudiziari all’interno di un contesto critico, tutelato dall’articolo 21 della Costituzione. Inoltre, ha spiegato il Consiglio superiore della magistratura nel parere reso al Governo prima dell’approvazione del decreto, alcuni soggetti istituzionali - come i parlamentari e gli stessi componenti del Csm - godono dell’insindacabilità delle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni. Anche il ricorso giudiziario, in caso di mancata pubblicazione della rettifica, può rivelarsi un percorso lastricato di ostacoli. Tempi e costi della giustizia civile non sono infatti un grande stimolo per un accusato che già si trova a fronteggiare il processo penale. Senza considerare che, soprattutto per chi è in stato di custodia cautelare, attivare un procedimento incidentale può non essere la priorità, mentre la nuova disciplina impone tempi stretti a pena di decadenza. Inoltre, il decreto non esclude che, in caso di dichiarazioni pubbliche lesive della presunzione di innocenza rese da un magistrato, non seguite da pubblicazione della rettifica, il giudice competente a decidere appartenga alla stessa sede giudiziaria. Per garantire l’effettiva terzietà dell’organo giurisdizionale deputato al rispetto dalla presunzione di innocenza, sarebbe stato opportuno stabilirlo. Presunzione di innocenza, le nuove regole agitano i pm: “Si rischiano effetti peggiori” di Francesco Grignetti La Stampa, 13 dicembre 2021 È arrivato il gran giorno in cui entra in vigore anche in Italia la Direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Da oggi, i magistrati potranno parlare solo con comunicati o con conferenze stampa del procuratore capo, motivate da quest’ultimo con un provvedimento scritto. I magistrati italiani sono in subbuglio. “La tutela della dignità e onorabilità delle persone coinvolte nei procedimenti penali - dice la presidente di Unicost, Rossella Marro - dovrebbe essere garantita da una serie di disposizioni che limitano le esternazioni. Il rischio è che, come sovente accade quando le modifiche legislative intervengono per correggere patologie, gli effetti prodotti potrebbero essere ancora più pregiudizievoli per gli stessi interessi che si intendono tutelare, in quanto gli interessi in gioco - tutela della dignità personale per un verso, libertà di stampa e obblighi di trasparenza per l’altro, che sono proprio di ogni sistema democratico - devono essere tutti garantiti in un giusto equilibrio”. Proprio oggi, il deputato Enrico Costa, Azione, garantista a tutto tondo, presenterà le novità assieme a molti altri parlamentari e all’Unione delle Camere penali. “È un momento storico. La legge regolerà le comunicazioni di pubblici ministeri e polizia, i nomi alle indagini, eccetera. Siccome qualcuno se ne infischierà, ho creato un format per segnalare eventuali violazioni al ministro della Giustizia”. Ci sarà cioè un modello di segnalazione che ogni cittadino potrà inoltrare al ministero. La corrente Unicost, intanto, due giorni fa ha raccolto molti magistrati da tutta Italia a ragionare sulle nuove regole. Molte le perplessità. Il procuratore capo di Foggia, Ludovico Vaccaro, si è chiesto, ad esempio, perché ci sia tanta attenzione sulle forme della comunicazione da parte della magistratura, ma nulla sulla sostanza. Ha partecipato anche il professor Franco Coppi, che ha portato il punto di vista di un grande avvocato. “Temo - ha detto, sornione - che con questa Direttiva europea si cerchi di conciliare l’inconciliabile. È praticamente impossibile far convivere il diritto alla reputazione e alla privacy, con la libera stampa. Lo disse già il grande Carnelutti negli Anni Cinquanta: ci saranno sempre i giornalisti che cercano le notizie e pubblicano gli atti dei processi. Consideriamolo un male necessario per la nostra libera vita in una comunità”. “Sorteggio del Csm per evitare interferenze. I magistrati stiano fuori dai circoli mediatici” di Francesco Grignetti La Stampa, 13 dicembre 2021 Intervista a Federico Cafiero De Raho. Il procuratore nazionale Antimafia: “Per far decollare la riforma Cartabia servono risorse e personale”. Da quattro anni è superprocuratore Antimafia e Antiterrorismo, Federico Cafiero de Raho. Magistrato napoletano di lungo corso, che nella sua carriera si è occupato di camorra e ‘ndrangheta in prima linea. Ma Cafiero de Raho è soprattutto una voce carismatica nella magistratura italiana. E c’era un silenzio assoluto, due giorni fa, nell’aula magna della Cassazione, ospite di un convegno organizzato dalla corrente Unicost, quando ha scandito davanti ai suoi giovani colleghi: “Coltivare il dubbio, deve fare parte della cultura del magistrato. Mai pensare che una persona, anche se nei suoi confronti è stata emessa una ordinanza di custodia, sia un colpevole. E ricordate che la solitudine è fisiologica nel nostro lavoro”. Procuratore, entra oggi in vigore la legge che impone regole più stringenti alla comunicazione dei magistrati. Siete tutti richiamati a tenere nella massima considerazione il principio di non colpevolezza del cittadino, salvo sentenza definitiva… “E io sono perfettamente d’accordo con i principi enunciati dalla direttiva europea. Bisogna escludere dalle nostre comunicazioni qualunque indicazione che possa far apparire come colpevoli i soggetti coinvolti in un’indagine. Personalmente, l’ho sempre fatto ad ogni conferenza stampa che ho tenuto. Ho sempre sottolineato che le responsabilità sarebbero state accertate in modo definitivo solo con le sentenze”. Eppure lei al convegno è stato severo. Cito: “Il decreto legislativo ha voluto richiamare l’attenzione di tutti sulle conseguenze di un’informazione che sia particolarmente “cattiva” nei confronti di coloro i quali vengono raggiunti da misura cautelare”. Ci spiega? “Abbiamo assistito addirittura a suicidi di persone indagate, che si ritenevano del tutto innocenti. D’altra parte, sapere è un diritto del cittadino. È necessario dare diffusione della notizia di ordinanze cautelari. Ed è necessario che tutto questo avvenga in modo da conseguire la finalità prima delle informazioni, cioè dare al cittadino un senso di sicurezza e di protezione, di efficienza del sistema giudiziario. Aggiungo che in terre di mafia, serve anche mandare il messaggio che delinquere non conviene”. Però ci sono stati eccessi, non lo pensa anche lei? “Nell’ambito della comunicazione va respinta l’immagine del magistrato quale depositario della morale collettiva. Al magistrato spetta solamente di applicare la legge; è questo il suo dovere, non fare il moralista”. Si dice: ci sono i circoli mediatico-giudiziari. E fanno danni terribili alla reputazione degli indagati… “L’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa, rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria. Probabilmente anche la stampa dovrebbe trovare un maggiore temperamento. Ed è vero che si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative, mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazione. Non è consentito al pubblico ministero, in prossimità della sentenza, sostenere una tesi che orienti il dispositivo, o che anche indirettamente lo condizioni, preparando la folla a una decisione che, se diversa da quella ipotizzata, venga interpretata come prodotto di timori del giudice o addirittura di condizionamenti”. Pensa a qualcuno? “No, dico in generale”. E che cosa pensa della riforma Cartabia che pone tempi inderogabili ai gradi del processo? “È evidente che se alla nuova disciplina, come è stato detto e come peraltro il Pnrr prevede, si accompagneranno risorse sufficienti, quindi più personale e una completa digitalizzazione, i tempi dei processi dovrebbero abbassarsi e dovrebbero essere rispettati anche da quei distretti che dimostrano le maggiori criticità”. Siamo alla vigilia della riforma del Csm. La magistratura verrà fuori dalla crisi in cui è finita con lo scandalo Palamara? “Credo che una riforma sia necessaria e su questo sono tutti d’accordo. Penso però che la modalità più lineare e più obiettiva per comporre il Consiglio sarebbe quella del sorteggio, che esclude la possibilità di interferenze da parte di chiunque. Mi è chiaro che il quadro porta in altra direzione: si vuole modificare la situazione, ma non nella direzione del sorteggio. Continuo a pensare, però, che il sorteggio corrisponda esattamente alla capacità del magistrato medio. Non mi scandalizzerei, anzi credo che sarebbe la modalità attraverso cui escludere qualunque eccessiva interferenza o condizionamento”. Una scelta radicale… “Sì. D’alto canto le valutazioni di professionalità a cui sono sottoposti i magistrati, sono tali che di per sé evidenziano una magistratura che risponde alle esigenze di specializzazione richieste anche nell’ambito del Csm”. E che dice a chi considera incostituzionale il sorteggio dei membri del Csm? “L’attuale ministra della Giustizia, in materia di conformità alla Costituzione è certamente in grado di esprimere una valutazione completa. Se anche se non fosse il mero sorteggio, almeno un sistema misto, con votazioni che portino ad un numero ampio di eletti, tra i quali poi procedere a sorteggio, ci darebbe una rosa di personalità capace comunque di limitare interferenze o condizionamenti”. Sorpresa: sul rispetto del diritto al silenzio l’Italia ne esce bene. Ma può migliorare di Michele Panzavolta* e Andrea Zampini** Il Dubbio, 13 dicembre 2021 Uno studio ne ha analizzato l’applicazione in Belgio, Italia, Irlanda e Paesi Bassi. Nel comma 1 del nuovo art. 314 del codice di procedura penale, in vigore dal prossimo 14 dicembre, si specifica che avvalersene in sede di interrogatorio “non incide sul diritto alla riparazione”. L’Europa ci osserva, anche grazie a rapporti, studi e ricerche. Si sa, non sempre il nostro Paese brilla nell’attuazione degli obblighi europei. Sulla direttiva in materia di presunzione d’innocenza l’attuazione è giunta tardiva e non senza polemiche interne. Eppure, se parliamo di diritto al silenzio nel processo penale, l’Italia non sembra sfigurare; anzi, potrebbe per certi aspetti addirittura essere l’esempio da imitare. Questo, almeno, suggeriscono i risultati raggiunti dalla ricerca finanziata dalla Commissione europea intitolata “Emprise: the right to silence and related rights in pre-trial suspects interrogations in the EU: legal and empirical study and related best practice” (www.empriseproject.org). La ricerca, condotta dalle Università di Lovanio, Maastricht, Dublino ed Anversa, ha analizzato l’applicazione del diritto al silenzio in quattro ordinamenti europei (Belgio, Italia, Irlanda e Paesi Bassi) non limitandosi ad individuare le linee direttrici delle regole codicistiche, ma privilegiando l’osservazione e l’analisi del diritto vivente. Partendo dallo studio sulla giurisprudenza, si è cercato di penetrare le dinamiche, talora sfuggenti, del silenzio dell’accusato e delle sue conseguenze con una “valutazione” empirica delle sue declinazioni procedimentali: osservazione di fascicoli, interviste con gli operatori. Solo per l’Italia il team di ricerca dell’Università di Lovanio (Michele Panzavolta, Andrea Zampini, Angelo Marletta) ha effettuato trentacinque interviste a tutti gli operatori del diritto coinvolti nell’attuazione del diritto al silenzio (12 giudici, 10 pm, 10 avvocati, 3 ufficiali di polizia giudiziaria). L’affresco disegnato dalle esperienze di chi frequenta quotidianamente i meccanismi della giustizia penale fornisce un quadro a più tinte, in cui emergono punti fermi, aspetti critici e, soprattutto, una comune cultura giuridica fra operatori delle diverse categorie, che tuttavia non riesce a trasfondersi in un pieno idem sentire che trascenda gli steccati professionali. Pur nel Paese, l’Italia appunto, che sembra più sensibile alla garanzia, rimangono comunque frizioni e punti oscuri, taluni figli di una visione unilaterale di categoria. Solo un maggior dialogo fra le professioni, fra magistrati e avvocati, può contribuire ad incrementare la tutela dei diritti. Punto fermo per tutti gli intervistati è la sacralità del diritto al silenzio. Non vi sono in Italia detrattori del diritto al silenzio, come fra i magistrati olandesi e belgi. Da noi il diritto al silenzio è una strategia processuale sempre legittima per tutti gli operatori, né si registrano violazioni sistematiche o ricorrenti, salvo forse per alcuni isolati approcci “inquisitori” che permangono in seno alla polizia. È tanto radicato il rispetto del diritto al silenzio che i magistrati partono sovente proprio dall’idea che gli indagati si asterranno dal rispondere. Così, i pm cercano di formare l’accusa senza il contributo dell’indagato/imputato. Non si può del tutto generalizzare, ma con sempre maggior frequenza l’interrogatorio diventa un atto eventuale dell’indagine. Certo, rimangono casi in cui le dichiarazioni dell’accusato rivestono un’importanza primaria e per questo si punta ad ottenerle. È soprattutto il caso delle dichiarazioni contro altri richieste ai co-indagati già raggiunti da indizi di reità, là dove sono messi in campo alcuni “incentivi” per ottenere una dichiarazione (perlopiù, la prospettiva delle attenuanti generiche o l’approdo al patteggiamento). Ma di fronte alla volontà di tacere, l’interesse strategico del magistrato cede il passo al rispetto del diritto al silenzio. La percezione degli “addetti ai lavori”, che risponde ad una visione del mondo intrisa delle scelte fondamentali su cui è incardinato l’ordinamento penale, non coincide con quella degli accusati. Tanto il silenzio è naturale per l’operatore giuridico, quanto è contro-intuitivo per l’accusato medio. La maggior parte dei sospettati vuole di primo acchito parlare, chiarire, difendersi. Fanno eccezione, a parte gli esponenti della criminalità organizzata, quelli che già “conoscono le regole del gioco”, come i pregiudicati e in generale coloro che hanno avuto precedenti esperienze con la giustizia penale. Per questi ultimi, il silenzio è una possibilità, la parola una possibile leva contrattuale. La naturale inclinazione a dichiarare degli accusati muta proprio grazie al contatto con il difensore, che di concerto con il cliente e alla luce delle circostanze del caso ricopre un ruolo determinante nella strategia del silenzio. Il fatto che l’ordinamento italiano offra un diritto all’assistenza difensiva più robusto che in altri Paesi ha un effetto benefico sullo standard di tutela del diritto al silenzio: non si registrano i tentativi, presenti invece in altri Paesi, di indurre gli indagati a rinunciare al difensore, o di ricercare le eccezioni al diritto all’assistenza del legale. Dalla ricerca emerge che diverse circostanze possono indurre il difensore a consigliare il silenzio. Prevalente è la mancata conoscenza del fascicolo, per cui spesso risulta più saggio tacere anziché fare un “salto nel buio”. Ma gli avvocati tendono a considerare molti altri elementi, come il ruolo e la personalità del cliente, la sua capacità di resistere alla pressione emotiva di un interrogatorio o di un esame, il rapporto rischi-benefici nel fornire un contributo dichiarativo, la tipologia dell’accusa, persino la disponibilità all’ascolto dell’interlocutore. Sul versante dei magistrati molti di questi fattori non sono egualmente apprezzati: condividono l’uso del diritto al silenzio finché il fascicolo è inaccessibile, ma non sempre considerano le altre circostanze. Il fatto che il diritto al silenzio sia così radicato nella cultura giuridica non significa che tutti i suoi corollari siano rispettati. Sappiamo dell’uso del silenzio come limite alla riparazione per l’ingiusta detenzione, quale “colpa grave” che concorre alla detenzione. Il tema è ora meritoriamente affrontato expressis verbis dal d.lgs. n. 188 del 2021, di recepimento della direttiva europea. Nel comma 1 del nuovo art. 314 del codice di procedura penale, in vigore dal prossimo 14 dicembre, si specifica che avvalersi del diritto al silenzio in sede di interrogatorio “non incide sul diritto alla riparazione”. L’inserimento è lodevole, ma ancor più opportuna sarebbe stata una norma che ricordasse che il silenzio non deve mai avere influenza nelle decisioni giudiziarie. Forse simbolica, sarebbe stata una norma almeno pedagogica. Anche nelle valutazioni di merito, infatti, il silenzio mantiene a tratti una carica suggestiva sul giudicante, benché nemmeno i giudici riescano sempre a razionalizzarne la portata. A volte inconsciamente, a volte meno, il peso del silenzio riaffiora nei percorsi di ragionamento giudiziali. Non è sempre il segno di una violazione, come invece è invariabilmente percepita dagli avvocati. Spesso il silenzio per il giudice è solo il sigillo finale di una ricostruzione accusatoria interamente tratta altrove: la conferma dell’assenza di ricostruzioni alternative ad una già suffragata tesi di colpevolezza. Il silenzio è utile ad escludere. Può però capitare che finisca per pesare anche di più e di certo è vero che affiora qua e là nel ragionamento decisorio. La ricerca, però, fa emergere che il confine fra un uso negativo del silenzio ed uno positivo, di corroborazione di elementi di prova, è insondabile, troppo labile per poter essere misurato. Il problema, infatti, è che il peso del silenzio - molto o poco - rimane nascosto sotto al libero convincimento. C’è di più: il libero convincimento finisce, nella sua variabilità, per sottoporre il diritto al silenzio ad alcune tensioni. Oltre alle domande, agli intervistati sono stati sottoposti anche casi fittizi, da valutare nella loro consistenza probatoria. L’esperimento doveva servire a misurare il possibile “peso” del silenzio. È emerso però un dato più netto ancora: la forte discrepanza nel modo in cui gli operatori giuridici valutano le prove. E non si tratta di una mera differenziazione “per categoria”: anche all’interno dei gruppi di intervistati si evidenziano grandi differenze nel soppesare la prova. Ad esempio, in un caso riguardante una rapina, in base agli elementi rappresentati, i pubblici ministeri erano quasi perfettamente divisi a metà nella valutazione della gravità del quadro probatorio, che solo per il 40% giustificava la richiesta di una misura cautelare. Di fronte allo stesso caso, poi, il 42% dei giudici avrebbe accolto la richiesta, mentre gli altri l’avrebbero rigettata. E, sempre sui medesimi elementi, il 38% degli avvocati avrebbe consigliato al proprio assistito di rendere dichiarazioni, perché così è conveniente fare di fronte a prove schiaccianti. Non è un tema nuovo la volatilità del libero convincimento, anche se sorprende il tasso così alto. Ma vi è di più. Quando la valutazione di gravità probatoria era ritenuta molto alta, il silenzio dell’accusato era talora interamente assente dal ragionamento decisorio dei magistrati (specie giudici); paradossalmente, affiorava a volte quando invece gli operatori concludevano per l’insufficienza del quadro probatorio. Da ciò si evince come i protagonisti del processo abbiano opinioni diverse su quando sia soddisfatto l’onere della prova. Questa discrepanza determina alcune criticità per il diritto al silenzio. Ciò accade in particolare quando l’accusa o il giudice ritengono che gli elementi a suffragio dell’addebito provvisorio o dell’imputazione siano forti: si aspettano allora che la difesa assuma un contegno più attivo, rompendo il muro del silenzio; e la difesa, che magari vede invece un quadro probatorio debole, non vede la ragione di esporsi a dichiarazioni. In tali circostanze l’avvocato percepisce una “spinta” a far parlare l’accusato. Il modo per ridurre le frizioni passa per una più intensa formazione interprofessionale, capace di mettere a contatto le diverse categorie e soprattutto di rendere i giudici più sensibili al lavoro dell’avvocato e al rischio di “assolutizzare” il proprio convincimento. Dall’analisi dei report della ricerca, sembra insomma che l’Italia possa fregiarsi di standard di tutela elevati del diritto al silenzio. Eppure, qualcosa da imparare dagli altri resta: il nostro ordinamento ignora del tutto - a differenza di tutti gli altri Paesi europei oggetto di studio - linee guida e raccomandazioni relative alle tecniche di conduzione degli interrogatori e al modo in cui devono essere poste le domande. Si tratta di una pecca cui porre rimedio, perché simili strumenti favorirebbero l’uniformità di approccio agli interrogatori, con benefici anche sulla tutela del diritto al silenzio. *Professore di diritto e procedura penale Università di Lovanio **Dottore di ricerca in procedura penale Università La Sapienza I testimoni di giustizia devono essere protetti in maniera rafforzata di Davide Mattiello Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2021 Vivere con la costante minaccia della violenza mafiosa. Vivere lontano da casa propria, senza più l’affetto dei propri cari, in località estranee, con nomi di copertura. Vivere dovendo insegnare ai propri figli a mentire, a dissimulare. Vivere senza più poter fare il lavoro che hai amato. Vivere arrabbiandoti perché non ti scambino per un collaboratore di giustizia. Vivere scontando la diffidenza e l’isolamento se anziché portarti altrove, lo Stato decide di proteggerti a casa tua. Vivere con l’angoscia dei processi che non finiscono mai. Vivere con la paura che i tuoi figli crescendo portino indelebili i segni delle tue scelte o che, peggio, non ne comprendano il valore e te le rinfaccino. Vivere pietendo l’assistenza dello Stato col quale troppo spesso bisogna litigare a suon di carte bollate, mortificando la dignità di persona libera e capace di grandi cose. Vivere chiedendoti ogni giorno se ne sia valsa la pena. Le vite dei testimoni di giustizia sono lo specchio di una Repubblica incompiuta, che sul fronte della affermazione della legalità costituzionale e del contrasto a mafie e corruzione ancora deve trovare la quadra. Perché chi sono i testimoni di giustizia? Sono cittadini per bene che avendo subito la violenza mafiosa o avendoci assistito hanno denunciato anziché subire, anziché girarsi dall’altra parte. Ma non basta questo per essere testimoni di giustizia. Il TdG non è un semplice (“semplice” si fa per dire!) denunciante, è un denunciante che in ragione della gravità delle sue accuse si è esposto ad un rischio tale per sé e per la propria famiglia da dover essere protetto in maniera rafforzata dallo Stato o attraverso le speciali misure di protezione o addirittura attraverso il programma speciale di protezione. In un Paese nel quale va ancora fin troppo di moda l’adagio: “fatti i fatti tuoi che campi cento anni”, la scelta di chi denuncia è già di per sé degna di nota, tanto più se le conseguenze sono così pesanti. La voce dei testimoni di giustizia è la voce dell’Italia che si affida allo Stato: merita di essere ascoltata ed i TdG meritano di essere valorizzati. Avanzo allora due proposte. In questo periodo Parlamento e governo si stanno occupando di molte norme che hanno a che fare direttamente o indirettamente con la lotta a mafie e corruzione: la riforma del processo penale, dell’ergastolo ostativo, delle informative interdittive, soltanto per citare quelle più dibattute. Come al solito durante le audizioni fatte dalle Commissioni parlamentari che hanno la titolarità dell’iter legislativo vengono sentiti magistrati, avvocati e docenti universitari, più raramente esponenti di associazioni, credo avrebbe senso ascoltare anche la voce dei testimoni di giustizia, non tanto perché abbiano da esprimere pareri informati sugli aspetti formali delle riforme, ma perché possano trasmettere ai decisori politici le loro esperienze. Il diritto infatti non si crea in laboratorio, non è una scienza esatta, ha piuttosto a che fare con la mediazione attuale e complicata tra interessi, bisogni, principi costituzionali. Il diritto cristallizza (temporaneamente) aspettative di vita e visioni di società. Seconda proposta: abbiamo già parlato del super-bando della ministra Carfagna che mette a disposizione ben 250 milioni del Pnrr per la valorizzazione dei beni confiscati alla mafia nelle Regioni del Sud. Molti TdG sono o sono stati imprenditori, perché non attribuire punti in più per coloro che nel rispondere al bando prevedano di coinvolgere nei lavori di ristrutturazione o di successiva gestione queste persone? Magistrati onorari: in Ddl bilancio garanzie su stabilizzazione, no assegni in bianco di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2021 La lettera di allerta alla Commissione Ue. Al centro dello scontro la richiesta di rinuncia preventiva ad ogni azione giudiziaria da parte di chi intraprende la selezione per la stabilizzazione. Cartabia: “sarà istituito un fondo, la questione deve essere sistemata entro la sessione di Bilancio”. La Consulta della Magistratura onoraria alza il tono dello scontro sulle condizioni poste dal Governo per la stabilizzazione degli oltre 4.700 precari in servizio. La categoria, insoddisfatta dell’emendamento X2 all’articolo 196 del Ddl Bilancio, si è rivolta nuovamente alla Commissione europea. In una nota indirizzata alla Presidente Ursula von der Leyen, al Vicepresidente Dombrovskis ma anche al Presidente del Parlamento Europeo Sassoli oltreché alla presidente della Commissione Petizioni Montserrat, direttamente interessata alla questione, i giudici non togati affermano che l’emendamento “è ancora lontano dalle osservazioni elaborate dalla Commissione Ue nella lettera di messa in mora” e richiamano la procedura d’infrazione in corso agitando lo spettro della perdita dei fondi del Pnrr. “Non paiono peraltro peregrine, come ripercussioni collaterali - scrivono Mariaflora Di Giovanni (Presidente Unagipa) e Anna Puliafito (Unimo) -, le ricadute sull’intero piano di ripresa e resilienza, essendo il riconoscimento delle tranche dei prossimi fondi condizionato ad una serie di virtuosi comportamenti che incidano, sensibilmente e concretamente, sull’intero sistema giustizia italiano”. Intanto due giorni fa la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ospite della kermesse Atreju, aveva detto che nella legge di bilancio “sarà istituito un fondo” per recuperare le mancate tutele dei magistrati onorari. Aggiungendo che la questione della magistratura onoraria “deve essere sistemata entro la sessione di Bilancio”. Al centro dello scontro la richiesta di rinuncia preventiva ad ogni azioni giudiziaria da parte di chi intraprende la selezione per la stabilizzazione. Il punto 5) del nuovo articolo 196, infatti, prevede che “la domanda di partecipazione alle procedure valutative … comporta rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso…”. Per la Consulta così si impone al magistrato precario “una rinuncia preventiva”. “Esso è chiamato - prosegue la nota - ad un’abiura al momento della mera domanda per accedere ad una verifica selettiva successiva, anziché al conseguimento della stabilizzazione”. Si tratta, “com’è evidente” di una previsione “assolutamente strabordante nei tempi ed anche nei modi”. E via con l’esempio di molti dei magistrati in servizio che hanno maturato anni di lavoro privi però di copertura previdenziale. “La rinuncia preventiva imposta dal legislatore a qualsivoglia interlocuzione - affermano - va ancorata ad una certezza di stabilizzazione nonché, esclusivamente, agli aspetti connessi all’abusiva reiterazione dei mandati a termine”. Se è vero, infatti, che la Corte di Giustizia ritiene la stabilizzazione idonea “ad escludere qualsiasi diritto al risarcimento pecuniario”, ciò accade sempre che la trasformazione non sia “né incerta, né imprevedibile, né aleatoria” (Cgue sent. 8.05.2019 C 494/17). Del resto, prosegue la nota, i magistrati precari sono rimasti nelle funzioni, anche per decenni, attraverso procedure “para-concorsuali” (Cassazione n. 4410/2011) e dunque “perfettamente idonee e sufficienti a rispondere al requisito di ‘blanda verificà, indicato anche dalla Corte Costituzionale nel 2016”. Inoltre, viene ricordato che gli onorari sono stati immessi nelle funzioni a seguito di “procedura concorsuale nazionale” e poi “confermati nelle funzioni anche reiteratamente, in considerazione dell’anzianità di servizio”. Insoddisfacente anche il capitolo retribuzione. I parametri di riferimento (indicati nel comma 6 dell’emendando articolo 196) sono inadeguati. La Commissione infatti ha ritenuto che “l’omologo professionale per il trattamento economico, previdenziale ed assistenziale debba essere il magistrato professionale comparabile”. Non rileva la diversa natura del concorso sostenuto. Al contrario ancorare la retribuzione al Funzionario amministrativo (fascia 1 per i più giovani), “non è rispondente né alle indicazioni della Commissione Eu, né alla esigenza di tutela della funzione magistratuale, né a garantire serenità nell’esercizio della giurisdizione all’operatore. “Scarsamente intellegibile è, poi, la rinuncia a qualsivoglia cumulo, finanche decurtato pro quota, con i redditi di pensione, anche di invalidità e inabilità”. Infine i tempi. Il comma 3 prevede tre distinte procedure nell’arco di 3 anni (dal 2022 al 2024). Nelle more, però l’attuale compenso a cottimo “rimane assolutamente invariato nel quantum”. Per tutte queste ragioni le Associazioni di Consulta chiedono alla Commissione europea “l’emissione del parere motivato, come previsto dall’iter della procedura di infrazione”. La Corte europea sui malati psichici legati a letto di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 dicembre 2021 I giudici di Strasburgo mettono sotto sorveglianza l’Italia su questa pratica e potrebbero decidere lo stop a questi metodi fuori da “situazioni straordinarie”. Magari sarà tardi per il 26enne tunisino morto il 28 novembre in un ospedale romano dopo tre giorni legato al letto. Ma il ricorso ai giudici di Strasburgo di un ragazzo milanese - che appena 19enne nel 2014 rimase legato addirittura 8 giorni al letto di un reparto psichiatrico ospedaliero, e poi vide i magistrati italiani archiviare questa vicenda 5 anni dopo la propria denuncia - sta per cambiare la pratica della contenzione fisica di persone con stati di sofferenza mentale. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, nel dichiarare ora ammissibile il ricorso presentato dagli avvocati Antonella Mascia e Antonella Calcaterra con il professor Davide Galliani, per la prima volta mette sotto sorveglianza l’Italia su questa pratica, non di rado utilizzata come scorciatoia (specie in carenza di medici e infermieri) rispetto alla fatica di un vero percorso di cura. E imponendo al governo italiano di rispondere a una serie di domande, sul fenomeno e sull’esistenza o meno di protocolli, la Corte fa già trasparire in nuce l’esito verso il quale si sta orientando: e cioè lo stop alla contenzione fisica, fuori da “situazioni straordinarie” (in fondo già abbozzate dalla Cassazione nella sentenza Mastrogiovanni nel 2018) di un “pericolo grave ed attuale” (e non solo vagamente ipotetico) di atti auto-lesivi o aggressivi che siano “non evitabili” dall’esercizio della “massima sorveglianza sul paziente”. L’ospedale, che il 30 settembre 2014 si era visto inviare l’allora 19enne affetto da uno “stato mentale a rischio”, ne segnalò la supposta “pericolosità sociale urgente” all’autorità giudiziaria, così indotta a emettere una misura di sicurezza detentiva: misura seccamente revocata appena il perito nominato dal gip escluse invece che il giovane fosse “portatore di pericolosità sociale”. Intanto il 19enne era finito sul letto di un reparto psichiatrico: legato ininterrottamente dal 7 al 15 ottobre senza poter ricevere visite dei genitori. Marche. Garante-Associazioni Volontariato, tavolo confronto costante ansa.it, 13 dicembre 2021 Un tavolo di confronto ed approfondimento da attivare costantemente per approfondire la situazione delle carceri marchigiane alla luce dei problemi noti, ma anche delle nuove emergenze. È quanto stabilito nel corso dell’incontro che si è svolto presso la sede Caritas di Ancona, tra il Garante regionale dei diritti, Giancarlo Giulianelli, e i rappresentanti delle associazioni di volontariato che operano ormai da anni nei sei istituti penitenziari marchigiani. Un lavoro, come è stato ribadito nel corso dell’iniziativa, “che le ripercussioni della pandemia ha reso ancor più complesso, ma che resta determinante sul versante del supporto alle diverse attività e va a costituire un significativo ponte verso l’esterno”. “Riteniamo che attraverso il volontariato - ha detto il Garante - sia anche possibile rendere ancor più esaustiva l’azione di monitoraggio che viene effettuata periodicamente dall’Autorità di garanzia e per questo motivo il confronto deve essere necessariamente costante e diretto a una lettura attenta delle diverse problematiche”. Giulianelli ha nuovamente evidenziato alcune criticità che persistono nelle carceri marchigiane, tra cui quella sanitaria fotografata nella sua complessità e nei giorni scorsi oggetto di un’audizione del Garante in Commissione regionale sanità e servizi sociali e di un confronto con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche, Gloria Manzelli. “L’azione di monitoraggio - ha ricordato il Garante - tocca diverse realtà del mondo carcerario e in questo momento particolarmente difficile dobbiamo tenerle tutte ben presenti. Con il supporto di chi lavora all’interno del carcere e di chi presta la sua azione continua di volontariato”. Santa Maria Capua Vetere. Covid nel carcere, la situazione si aggrava con 61 contagiati di Rossella Grasso Il Riformista, 13 dicembre 2021 La Garante dei detenuti: “Cosa aspettano a sfollare?”. In poche ore il Covid nel carcere di Santa Maria Capua Vetere continua a dilagare. Sale a 61 il numero delle persone che hanno contratto il Covid tra le mura del carcere. A far scattare l’allarme è Emanuela Belcuore, garante dei detenuti di Caserta. “La situazione peggiora di giorno in giorno - dice la Garante. Anche un detenuto con l’Hiv ha contratto il Covid e per lui la situazione è molto preoccupante. Mi chiedo: cosa stanno aspettando a sfollare il carcere?”. Belcuore racconta di essere stata in visita al carcere domenica mattina. Ha incontrato i detenuti che le hanno raccontato i numerosi disagi che stanno vivendo in questi giorni. “Il focolaio Covid si è propagato dal reparto Nilo - spiega la garante - Da lì i detenuti contagiati sono stati trasferiti in isolamento nel reparto Danubio che è quello che strutturalmente è messo peggio. Mi hanno detto che hanno molto freddo, che vorrebbero coperte in più e che mancano persino i farmaci. I familiari si sono resi disponibili a procurare tutto ciò che serve ai loro cari, anche io sono a disposizione, ma ci sono problemi a far entrare il tutto all’interno. Intanto dal carcere negano che ci siano queste necessità”. A questo si aggiungono le croniche difficoltà che vive quel carcere da tempo e che la garante ha più volte denunciato, in primis l’acqua. “Il problema dell’elettricità non c’è più - dice Belcuore - ma l’acqua è fredda e in un momento del genere non è ammissibile. I detenuti denunciano anche che dalla spesa sono stati tolti i prodotti igienizzanti come la candeggina. E non è possibile nemmeno farli arrivare dall’esterno. E in tutto questo con un focolaio Covid attivo cosa aspettano a sanificare gli ambienti?”. Intanto altri due contagi si sono verificati nel reparto Tamigi. “Da quanto mi hanno riferito i due detenuti potrebbero essersi contagiati durante i colloqui con i familiari perché i loro figli sono risultati positivi al Covid”, continua la garante. E qui l’altra nota dolente che segnala Belcuore: “Ai familiari non viene chiesto green pass e nemmeno un tampone negativo perché sono considerati come utenti di una struttura pubblica. Non lo chiedono nemmeno a me quando entro per le consuete visite. Solo gli agenti devono essere forniti di green pass”. Poi ci sono i problemi organizzativi. La garante racconta che due detenuti del reparto Volturno sono stati mandati nella cucina del Nilo per dare supporto. “I cucinieri del Nilo si sono ammalati e hanno chiesto a due del Volturno di dare una mano - racconta - Hanno poi avuto due tamponi, il primo risultato positivo, il secondo negativo. Nel mentre sono dovuti rimanere sei ore in isolamento”. Per la garante Belcuore la situazione rischia di diventare davvero esplosiva in un carcere che ne ha già passate tante. “Ora ci saranno le richieste dei permessi per Natale - dice - Visto che ci sono tutti questi positivi, dove faranno la quarantena una volta rientrati in carcere? I posti per l’isolamento sono tutti occupati dai contagiati. Senza contare che a chi sarà positivo sarà negato il permesso. Cosa aspettano a sfollare il carcere? In una situazione del genere sarebbe auspicabile che chi deve scontare ancora pochi mesi, li terminasse ai domiciliari, e che chi non ha mai avuto un permesso tornasse a casa per poi rientrare solo una volta che la situazione sia migliorata. Continuando così si andrà di certo verso il blocco dei colloqui e anche dei permessi”. “Ho chiesto più volte che fosse istituito il camper per i vaccini fuori al carcere - continua Belcuore - ma non è mai arrivato e dentro c’è anche chi deva avere ancora la prima dose. Le visite mediche avvengono sempre lo stesso giorno dei colloqui quindi sono in tanti a rimandare l’appuntamento con i dottori per vedere i propri cari”. Tutto questo pesa su una situazione già difficile. “Abbiamo anche un detenuto che tre mesi fa ha avuto per sbaglio 6 dosi di vaccino - dice la Garante - aveva chiesto di essere trasferito a Bergamo, la sua città, e sta ancora a santa Maria Capua Vetere. Poi, inspiegabilmente, stanno arrivando trasferimenti dal Lazio verso Poggioreale e Santa Maria. Molti familiari di detenuti del Lazio mi stanno chiamando per lamentarsene. Non sono già abbastanza i detenuti nelle carceri campane, sovraffollate da decenni? Il mio pensiero come sempre va anche agli agenti della penitenziaria costretti a lavorare in condizioni difficili e in una situazione di contagi da Covid davvero preoccupante”. Torino. Le criticità del Sestante: una tempesta perfetta dove la colpa è sempre altrui di Francesco Gianfrotta Corriere di Torino, 13 dicembre 2021 Il dibattito sulle cattive condizioni della sezione psichiatrica e intanto pare che nessuno voglia parlare del suo futuro. La sezione Sestante del carcere di Torino ha interessato i media. Le criticità emerse riguardano la salute dei detenuti affetti da patologie psichiatriche: è necessario discuterne, oltre che intervenire. I primi focus, però, sono stati sugli ambienti detentivi: conosciamo le condizioni igienico-sanitarie delle celle della sezione grazie a recenti, impietosi, servizi del tg regionale. Il carcere di Torino non è il solo in queste condizioni. Anche stavolta i lavori partono quando il livello di degrado è ormai intollerabile: ad anni di distanza dalla denuncia del Comitato europeo di prevenzione della tortura, oltre che di associazioni, parlamentari e dell’ufficio del Garante dei diritti dei detenuti. Meglio tardi che mai e basta così? No, perché non solo di questo si tratta. Vi è, infatti, un groviglio di problemi, aggravatisi nel tempo, sui quali è prevedibile il solito balletto: scarico di responsabilità per il passato e assenza di impegni per il futuro. L’esatto contrario di ciò che occorrerebbe. C’è una prima questione, come sottolineato da Vladimiro Zagrebelsky su La Stampa. Alcuni dei detenuti non avrebbero dovuto essere ristretti né in Sestante, né altrove, perché in lista d’attesa per entrare in una delle due REMS (strutture sanitarie di competenza regionale nate dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari). La sezione Sestante del carcere di Torino fu aperta, a marzo 2001, per un progetto della Amministrazione penitenziaria decisamente innovativo. Per la prima volta una sezione di un grande carcere era riservata ai detenuti che avevano manifestato patologie mentali, prive di relazione con il reato commesso o di cui erano accusati in Piemonte. Situazione inaccettabile, e però sintomatica di altri problemi irrisolti: il fabbisogno di posti nelle Rems; la non ancora adeguata formazione dei giudici mentre il quadro normativo è cambiato; il servizio non soddisfacente offerto dalla psichiatria territoriale. Una vera tempesta perfetta: così ciascuno potrà dire che la colpa è di altri, perché - per quanto lo riguarda - fa già miracoli con le risorse di cui dispone. Il contrario di una seria collaborazione istituzionale, unica cosa necessaria e urgente. Problema risolvibile, allora? Sì, ma c’è molto altro. Del futuro della sezione Sestante, ultimati i lavori, pare proprio che nessuno voglia parlare. È allarmante, se si considera che la sezione fu aperta, a marzo 2001, per un progetto della Amministrazione penitenziaria decisamente innovativo (per inciso, se ne occuparono un pò di torinesi: chi scrive, il direttore Buffa, il perito psichiatrico Pirfo, il capo del Dap Caselli). Per la prima volta una sezione di un grande carcere era riservata ai detenuti che avevano manifestato (o visto aggravarsi) patologie mentali, prive di relazione con il reato commesso, o di cui erano accusati: come tali, non destinabili ad un Ospedale psichiatrico giudiziario (oggi, a una Rems). Non solo. In quel modo si anticipava l’operatività della già approvata legge di riforma della sanità penitenziaria, con competenza esclusiva - per la tutela della salute dei detenuti in capo al servizio sanitario nazionale, e perciò alle Regioni. I problemi di salute mentale dei detenuti di Torino (venuti alla luce, per esempio, in tentativi di suicidio) avrebbero dovuto essere affrontati e risolti dalla Asl, che se ne sarebbe occupata con proprio personale specializzato (non solo medico), in collaborazione con la Polizia penitenziaria (da formare per nuovi compiti) e, più in generale, con la Direzione del carcere. Il trattamento avrebbe incluso anche la previsione di un programma di presa in carico dell’ex detenuto, dopo la scarcerazione, da parte del servizio psichiatrico competente in relazione al luogo in cui la persona avrebbe vissuto. Le valutazioni dell’esperienza date oggi dagli operatori, riferite ad un periodo non breve, sono positive. Le fondazioni bancarie non fecero mancare risorse. Il decreto attuativo (2008) della riforma della sanità penitenziaria (1999) non solo dedicò un capitolo specifico alla tutela della salute mentale dei detenuti, ma - nel dare le linee guida di intervento- riprodusse il modello Sestante; e la delibera della Giunta della Regione Piemonte sulla rete dei servizi sanitari in carcere (2016) incluse tutte le attività sanitarie già svolte nella sezione. E però l’attualità dimostra che più cose non hanno funzionato. Non ci si riferisce alle indagini penali su reati eventualmente commessi; valgono per questo la presunzione di innocenza degli indagati e il rispetto dell’autonomia della giustizia. È evidente che, dopo lo slancio iniziale, vi è stato un calo di tensione: nella realizzazione del progetto (da parte di chi ne aveva competenza) e nella verifica di essa. Padova. Il Garante dei detenuti otto mesi dopo la nomina, stasera un convegno Il Mattino di Padova, 13 dicembre 2021 Non era stato semplice, il percorso che aveva portato alla nomina del Garante dei diritti delle persone limitate o private della libertà personale. Ma ora, otto mesi dopo, il Comune vuole riflettere su questa figura e sul percorso seguito. Così questa sera, alle 20.30, in sala Paladin di Palazzo Moroni (e con diretta streaming sulla pagina Facebook del Comune) ci sarà un convegno sul ruolo del garante, organizzato in collaborazione con il Centro di ateneo per i diritti umani Antonio Papisca. Interverranno l’assessora ai Servizi sociali del Comune, Marta Nalin, e quella alla Pace e ai Diritti umani, Francesca Benciolini; Antonio Bincoletto, garante comunale; Marco Mascia, direttore della cattedra Unesco Diritti umani, democrazia e pace del Cenmtro di ateneo Antonio Papisca. E ancora: Stefano Anastasia, portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali e garante della Regione Lazio; Samuele Ciambriello, garante della Regione Campania che parlerà del ruolo del garante nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “È un’iniziativa preziosa per raccontare ai cittadini il lavoro di questa figura a Padova e non solo”, spiega Marta Nalin. “Per farlo conoscere, per sottolinearne l’importante ruolo di “ponte” tra città e carcere e per ribadire l’impegno sempre profuso sul tema delle relazioni tra carcere e territorio. Saranno con noi i garanti di due esperienze nazionali, note alle cronache degli scorsi mesi, per permetterci di allargare lo sguardo e costruire relazioni, nella direzione di una città che sempre più tutela i diritti di tutte e tutti”. Per l’assessora Benciolini “questa iniziativa, che cade in occasione dell’anniversario della Dichiarazione universale dei Diritti umani, è necessaria per capire meglio di cosa si tratta e conoscere l’esperienza concreta del garante”. - Roma. Senza tetto né legge. Le storie del Natale nel freddo che fa morire di Paolo Di Paolo La Repubblica, 13 dicembre 2021 Alessandro Radicchi, presidente della Onlus che gestisce Binario 95: “Ogni inverno il piano di soccorso arriva troppo tardi. E ora c’è il problema di come ospitare i non vaccinati”. La verità è che io non lo so che cosa significa dormire per strada, non posso saperlo. Non lo so che cosa significa passare una notte all’aperto con le temperature di dicembre, rannicchiati in uno scatolone, addossati alla vetrina di un negozio, di un ufficio postale, all’ingresso di una stazione come questa. A Termini, sul lato di piazza dei Cinquecento, c’è una distesa di corpi avvolti nelle coperte. Un uomo - proprio mentre gli passo accanto - non trattiene il getto di urina. Senza abbassarsi i calzoni, si libera così, a un passo da chi è in fila per i taxi e si volta per non guardare. La verità è che di questa vita non so niente. E forse è una domanda stupida, o semplicemente indiscreta, quella che faccio a Emanuele, che si è ritrovato in strada dopo la morte della moglie: come si fa a passare le notti senza un tetto sulla testa? “Non lo so”, risponde. “So solo che la testa si svuota di tutti i pensieri. Non pensi più a niente. Non vivi, sopravvivi. E l’unica preoccupazione è quella - sopravvivere - perché non sai se la mattina dopo ti svegli. Vedi solo la morte”. Lo incontro nei locali di Binario 95, il polo di accoglienza per persone senza dimora nei pressi della stazione. La prima volta è arrivato qui per una doccia. “Ma di solito mi lavavo al Verano, qualcuno mi ha detto che c’era di meglio che lavarsi al cimitero”. La crisi economica del 2008 gli ha fatto perdere il lavoro di muratore; la scomparsa improvvisa della moglie lo ha stravolto: “Non ho retto al dolore, è come se fossi morto anche io con lei. Per un pò sono stato a casa di un amico, che poi mi ha buttato fuori. Mi sono ritrovato senza niente, solo un mucchietto di cose che mi ricordavano la donna che ho amato”. Ha sessantasei anni; con l’aiuto di chi lavora a Binario 95 si è rimesso “in carreggiata”: “Da solo non ce l’avrei fatta. Ora riesco a vedere il futuro, ho fatto domanda per una casa popolare, ho ritrovato i miei interessi”. Quando vede gente sconosciuta dormire fuori, sente una stretta. “La vergogna. La diffidenza. La conosco. Vieni visto come un appestato, e quello di chi ti offre anche solo una sigaretta ti sembra un gesto enorme”. Parlo con Emanuele, e con Vlado, e con Alexandra, grazie a Giuseppe Rizzo, che ha seguito alcune di queste storie e le ha raccontate in un libro dal titolo eloquente, I fantasmi non esistono (Mondadori). Un capitolo lo dedica a Giovanni, trovato morto la mattina dell’Epifania 2021. Cinquantotto anni, di cui quaranta vissuti nei dintorni di Termini. È morto di freddo, il cuore - dopo una notte a quattro gradi di temperatura - non ha retto. Allo stesso modo è morto, nella notte di giovedì scorso, un giovane di 27 anni, arrivato dalla Guinea sei anni fa. “Capita ogni inverno che qualcuno che vive per strada muoia così, ma le amministrazioni comunali la chiamano “emergenza freddo”. Di conseguenza, usano strumenti emergenziali per affrontarla e non prevedono interventi strutturali”, scrive Rizzo. La nuova giunta capitolina è alla ricerca di nuovi spazi, ma si è sempre in ritardo, mi dice Alessandro Radicchi, il presidente della onlus che gestisce Binario 95. “Con la ripresa del flusso turistico, avere stanze d’albergo a prezzi bassi quest’inverno non sarà semplice. E il Covid, in ogni caso, rende tutto più difficile: una tensostruttura, per esempio, diventa un assembramento rischioso. E come ci comportiamo con i non vaccinati? E quanto è complicato organizzare la quarantena di una persona senza dimora?”. Anche su questo fronte la pandemia è stata una cesura violenta. Nei mesi di lockdown le vite che nessuno vede erano le uniche visibili, spiccavano nella città deserta. I senza dimora a Roma sono circa ventimila. Hanno storie che raccontiamo poco, e che spesso non hanno voglia nemmeno loro di raccontare. Vlado parla a voce bassa, alza poco lo sguardo. È croato, è arrivato in Italia alla fine degli anni Ottanta, ne aveva trenta. “Sapevo fare l’elettricista, non ho trovato lavoro”. E che hai fatto? “Mi sono messo a fare il delinquente”. Dice così. Furti nei negozi d’abbigliamento, rapine nelle tabaccherie. “I “paesani” con cui rubavo hanno fatto casino, erano ubriachi, la polizia ci ha arrestato”. Una volta uscito, ha dormito nei treni fermi in stazione per il lavaggio (“anni fa si poteva, oggi no”), e poi in strada. Ad Ancona ha conosciuto la donna polacca che è diventata sua moglie. “Quando sono stato arrestato di nuovo, ho pensato che non l’avrei più ritrovata. Invece è andata bene, ma solo quello, tutto il resto è andato male”. Ogni giorno deve prendere dieci pasticche per un problema al cuore. Ora ha trovato una stanza in zona Battistini. Vorrebbe prendere la residenza effettiva, ha solo quella fittizia, ma è un girone infernale o kafkiano. Vlado non sorride. Alexandra invece sì. Ha 46 anni, è partita dal Perù nel 2019. Ha trovato un lavoro da badante per una coppia di anziani, poi si è ammalata di tumore. Ha perso il lavoro e mentre arrivava la pandemia si è trovata nel periodo più buio della sua vita. Non vuole parlarne. Dice che ha intenzione di provarci ancora, adesso che sta meglio; che vuole provare a dare una vita migliore ai suoi figli rimasti in Perù. Ha una stanza nella casa di accoglienza di via Sabotino, che ospita donne fragili e persone transessuali. Dice che è la sua seconda famiglia. Le fa eco Emanuele. Poi tace per un istante. “Io non credo in Dio”, aggiunge. “Io credo nelle persone”. Varese. I papà detenuti riabbracciano i figli di Adriana Morlacchi La Prealpina, 13 dicembre 2021 Dopo due anni primo incontro dal vivo per sei genitori e i loro figli. È stata molto toccante la festa di Natale organizzata nello Spazio Giallo del carcere dei Miogni grazie all’impegno della cooperativa Lotta Contro l’Emarginazione. Per la prima volta dopo due anni, sei papà hanno potuto riabbracciare i propri bambini, cosa fino a ieri impedita dagli schermi anti-Covid. Certo, i papà potevano vedere i figli ai colloqui, ma attraverso un vetro. Alcuni genitori, per evitare la distanza imposta dallo schermo, nei passati due anni hanno preferito parlare con i figli a distanza, con le video chat. E se è stato toccante il momento dell’incontro, lo è stato ancora di più quello dell’arrivederci, quando i papà e i bimbi si sono salutati sapendo che si sarebbero rivisti ai colloqui, quindi in un’atmosfera più formale. Proprio per lasciare “libere” le famiglie, il personale ha dato il via alla festa, ma poi si è allontanato. Babbo Natale ha portato un carico di doni messi a disposizione dall’associazione “Casa solidale del giocattolo” e dalla parrocchia di Malnate. I bambini sono rimasti incantati dallo spettacolo di bolle di sapone di Chiara La Pettirossa. In totale, hanno preso parte a questa festa sei papà, otto bambini (di età compresa tra 8 mesi e 12 anni), e sei accompagnatori tra mogli, compagne, fratelli e nonne. Quella tutela della salute nella nostra Costituzione di Antonio Polito Corriere della Sera, 13 dicembre 2021 Forse per la fragilità di fondo dello schema del movimento no green pass, la sua frangia più sediziosa e disperata non disdegna di ricorrere alla violenza e alla minaccia. Squilibrati e stravaganti a parte, anarchici e neofascisti esclusi, nel movimento contro il green pass c’è anche un filone di matrice liberale che accusa lo Stato di aver limitato o addirittura conculcato alcuni diritti protetti dalla Costituzione, come la libertà di movimento, di riunione, di manifestazione, e così via. Molti rispondono a queste critiche segnalandone, per ridicolizzarle, le esagerazioni. E in effetti i no green pass sembrano spesso non saper distinguere - come ha scritto Donatella Di Cesare su La Stampa - un’emergenza sanitaria da un colpo di Stato. È però sempre meglio non sottovalutare i rischi che ogni limitazione delle libertà personali, per quanto piccola, contiene. È vero che da molti secoli il pensiero politico ha definito il “contratto sociale” proprio come la cessione volontaria di alcuni diritti dello stato di natura (quello di farsi giustizia da soli, per esempio) per ottenere in cambio la protezione collettiva di libertà “civili” (per esempio il diritto di proprietà). Anche nella nostra Costituzione, infatti, si prevede esplicitamente la possibilità di limitare alcuni diritti per motivi “di sanità o di sicurezza”, come è nel caso della libertà di movimento; purché a stabilirlo sia una legge. Ma è anche vero che nel mondo di oggi lo Stato dispone di mezzi così pervasivi e di tali tecnologie che è sempre meglio stare sul chi va là, per evitare che ne abusi. Ha avuto dunque ragione Angelo Panebianco, qui sul Corriere, a invocare il criterio del minor danno: “temporaneità” e “proporzionalità” dei provvedimenti sono del resto anche i parametri delle corti internazionali, quando si tratti di bilanciare diritti umani in conflitto tra loro. Ed è forse proprio questa la ragione per cui governo e parlamento italiano si sono dimostrati sinora restii a risolvere alla radice la questione, sancendo per legge ed erga omnes l’obbligatorietà delle vaccinazioni. C’è però un articolo della Costituzione che i no green pass raramente citano, se non nella sua seconda parte: l’articolo 32. Sorvolano cioè sul fatto che la Repubblica ha anche l’obbligo costituzionale di tutelare “la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e di garantire “cure gratuite agli indigenti”. Questo vuol dire che se la Repubblica in tutte le sue articolazioni, dallo Stato alle Regioni, trascurasse di mettere in atto tutte quelle pratiche di prevenzione e di cura, desunte anche dalla profilassi internazionale, che possono proteggere la mia salute e quella dell’intera collettività, si renderebbe sicuramente colpevole di tradire la Costituzione. È questo che vogliono coloro che si battono contro il green pass? E come potrebbe d’altronde lo Stato garantire cure gratis a tutti se lasciasse che corsie di ospedale e terapie intensive fossero riempite da soli malati di Covid? Mi pare che sia questo il punto debole dei critici delle misure governative. I quali preferiscono invece concentrarsi sulla seconda parte di quello stesso articolo 32, che afferma: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Ma è facile rispondere che il green pass non è un “trattamento sanitario”, e non è “obbligatorio”: richiede sì la vaccinazione come condizione per svolgere numerose attività, ma non tutte (si può ancora andare al lavoro o a scuola senza essere vaccinati, fornendo però con un tampone la prova di non essere in quel momento infetti); e in ogni caso la somministrazione del vaccino è soggetta al “consenso informato” come ogni altro trattamento sanitario. I nemici dei vaccini arrivano allora a sostenere che preferirebbero che l’obbligatorietà fosse fissata per legge, perché oggi è solo mascherata. In questo modo - dicono - potrebbero contestare la norma nelle corti di giustizia per farla dichiarare incostituzionale dalla Consulta. La Corte Costituzionale si è però già espressa sul punto dell’obbligatorietà dei vaccini in una sentenza del 2018, relatrice Marta Cartabia, con cui respinse il ricorso della Regione Veneto contro un decreto legge, voluto dall’allora ministra Lorenzin, che rendeva obbligatori numerosi vaccini per i bambini. E lo fece proprio sulla base di quell’articolo: “Questa Corte ha precisato che la legge impositiva del trattamento sanitario non è incompatibile con l’articolo 32 della Costituzione se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri”. La Consulta riconosceva dunque al legislatore “la discrezionalità nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace dalle malattie infettive, potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo”. Insomma, se i no green pass volessero vincere davanti alla Consulta dovrebbero dimostrare che la vaccinazione contro un virus che può essere letale viola i limiti del “rispetto della persona umana”, o che “incida negativamente sullo stato di salute” del vaccinato. Al momento, sembra davvero un’impresa disperata. È forse per questa fragilità di fondo dello schema approntato dagli intellettuali del movimento no green pass che la sua frangia più sediziosa e disperata non disdegna di ricorrere alla violenza e alla minaccia, come è avvenuto ieri con la rivelazione dell’indirizzo di casa del premier Draghi. Nel tentativo di aver ragione dove ha chiaramente torto. Fine vita, inizia la battaglia in Aula: rischio voti segreti e franchi tiratori di Giovanna Casadio La Repubblica, 13 dicembre 2021 La legge sul suicidio assistito oggi alla Camera dove c’è uno scarto di 25 voti per il Sì. Maggioranza più risicata al Senato. “Finalmente portiamo in aula la legge sul suicidio assistito, che arriva qui dopo il massimo del confronto e delle mediazioni”. Alfredo Bazoli, cattolico democratico, presenterà così stamani a Montecitorio gli otto articoli di una norma attesa da decenni. Conflitti, lacerazioni, casi come quello di Dj Fabo e del processo a Marco Cappato che l’ha aiutato a morire ed è stato poi processato e assolto, poi la vicenda dolorosa di “Mario”, tetraplegico a cui il Tribunale ha riconosciuto il diritto al suicidio eppure è ancora in attesa: tutto questo approderà oggi in Parlamento. È stata la Corte costituzionale inoltre, per ben due volte, a sollecitare di colmare il vuoto normativo. Ma lo spettro di un fallimento, come è stato per il ddl Zan, la legge contro l’omotransfobia, è dietro l’angolo. Ne sono consapevoli i giallo-rossi, che hanno preferito accogliere nelle commissioni alcune modifiche chieste dalla destra - obiezione di coscienza, diritto al suicidio assistito solo per chi è tenuto in vita con supporti sanitari e ha avviato le cure palliative. Cambiamenti di rilievo rispetto alla bozza originaria - che deriva da una legge di iniziativa popolare presentata ben sette anni fa. Avrebbero dovuto allargare il consenso. Non è stato così, la destra di Salvini, di Berlusconi, di Meloni e di Toti-Brugnaro ha votato contro nelle commissioni Giustizia e Affari sociali. Oggi la partita inizia davvero con l’esame in Aula. Anche se sarà solo il primo passo, quasi certamente il voto sul suicidio assistito slitterà a fine gennaio o febbraio, dopo l’elezione del presidente della Repubblica. I numeri per il centrosinistra alla Camera ci sono, con uno scarto di circa 25 voti favorevoli rispetto ai contrari. Anche se saranno tanti i voti segreti, e i franchi tiratori potrebbero essere il vero ago della bilancia. Le forze politiche poi, sono divise al loro interno. In Forza Italia c’è un gruppo di laici pro legge sull’eutanasia capitanati da Elio Vito. Ma anche nella Lega il fronte contrario è meno compatto del previsto. Italia Viva dovrebbe dare libertà di voto, anche se nelle commissioni Lucia Annibali e Lisa Noja sono state convintamente a favore. Così come i grillini e i Dem. Il Pd tuttavia ha convocato nella settimana passata una riunione tra i membri delle commissioni e il segretario Enrico Letta. Dubbi soprattutto della sinistra del partito, che non comprende la mano tesa a un centrodestra che tanto poi si mette di traverso. Michele Bordo ha definito il testo un passo indietro rispetto alla sentenza della Consulta. Giuditta Pini ha parlato di un peggioramento e di esclusione dei malati oncologici: un fatto grave. Pini sta pensando di presentare gli emendamenti chiesti dall’Associazione Coscioni, come del resto Riccardo Magi. Magi, radicale e di +Europa, denuncia: “La legge deve davvero garantire la libertà di scelta e così non lo fa”. Quindi l’Associazione Coscioni - che ha raccolto peraltro le firme per il referendum sull’eutanasia - ha inviato ai parlamentari un elenco di emendamenti su discriminazione tra malati terminali, cure palliative, tempi e obiezione di coscienza. Chi aderisce, li faccia propri. Bazoli e il grillino Nicola Provenza sono i relatori della proposta sul suicidio assistito. Entrambi si dicono cautamente ottimisti: il punto è evitare l’ennesimo scontro laici-cattolici. Per Alessandro Zan il porto delle nebbie è il Senato, dove la maggioranza del centrosinistra è risicata e dove la legge che porta il suo nome è stata affossata. Ma la senatrice dell’Udc Paola Binetti contrattacca: “Il testo sul suicidio assistito simboleggia l’arroganza dell’asse Pd-M5S. Ma quando la partita passerà al Senato, molti giochi si riapriranno”. Elio Vito twitta: “Anche per il suicidio assistito, chi può va all’estero, chi non può soffre”. Insiste Mario Perantoni, presidente grillino della commissione Giustizia: “La destra in commissione ha espresso una decisa opposizione al testo sul fine vita, ma abbiamo comunque aperto un dialogo serio, introducendo alcuni loro punti per loro molto importanti. Non credo si potrà fermare questa legge perché il Paese la aspetta”. Migranti. “Rischio la vita per mostrarvi la verità”: la denuncia di Abdel, morto nel Cpr di Davide Varì Il Dubbio, 13 dicembre 2021 Spuntano due video in cui il giovane tunisino morto a fine novembre denuncia le condizioni in cui vivono i migranti nel Cpr di Ponte Galeria: “Sto rischiando per farvi vedere la verità, ecco la mia testimonianza: siamo pronti a morire”. “Sto rischiando per farvi vedere la verità, ecco la mia testimonianza: siamo pronti a morire”. È questo l’ultimo grido di dolore lanciato da Wissem Ben Abdel Latif, il 26enne tunisino morto lo scorso 28 novembre in circostanze sospette. A due mesi dal suo arrivo in Italia, era stato trasferito nel Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria, poi ricoverato al San Camillo, al Servizio psichiatrico, dove è rimasto legato al letto per tre giorni. In due video girati con il suo telefono e inviati a un amico in Italia, il giovane denuncia le condizioni in cui si trovano i migranti nel Cpr. Una denuncia che gli sarebbe costato il pestaggio da parte degli agenti, secondo il racconto di tre testimoni a Repubblica. “Le porte delle camere non si chiudono. Ci hanno tolto tutto e dato un pantaloncino e una maglietta. E una coperta che chissà dove stava prima. E che non basta per coprirci. Qui fa freddissimo al punto che non riusciamo a dormire. Aiutateci! Aiutateci!”, racconta Abdel. Nel primo video, inviato a metà ottobre, il ragazzo lancia il primo messaggio d’allarme: “Abbiamo viaggiato con tre agenti a bordo. Solo Dio sa cosa ci hanno fatto. Ci hanno tolto i telefonini, tutto. Abbiamo fame, siamo in uno stato che solo Dio lo sa, le nostre famiglie non hanno nessuna notizia di noi. Ti supplico trovaci qualcuno. Un avvocato, qualcuno per aiutarci”. Abdel era giunto in Italia a settembre e dopo un periodo di quarantena sulla nave della compagnia Gnv, come oramai da prassi per chi proviene dalla Tunisia, non era riuscito a manifestare la volontà di richiedere protezione internazionale. La meta era vicina e sarebbe stata Augusta, in Sicilia. Ma invece di essere accolto, era stato inviato in direttissima al Cpr di Ponte Galeria, racconta la campagna LasciateCIEntrare. Una volta lì, il ragazzo lancia un secondo video appello: “Abbiamo iniziato uno sciopero della fame. Non mangiamo nulla. Non siamo stati ammanettati nel nostro Paese per esserlo qui. Dove sono i diritti dell’uomo”. “Siamo decisi a proseguire lo sciopero. Non vogliamo il rimpatrio. Siamo pronti a morire. Possono portare via i nostri cadaveri”, sono le ultime parole di Abdel. Sulla sua morte ora la procura ha aperto un’inchiesta. Ma per fare luce su tutta questa vicenda occorre andare anche a prima del trattenimento, sottolineano gli attivisti denunciando l’ennesima morte legata alla detenzione amministrativa in Italia. “Chi sono i funzionari che non hanno accettato la sua domanda di protezione internazionale? Perché si continua a non dare accoglienza? A non voler ascoltare le voci di chi è ingiustamente recluso nei Cpr, a non voler vedere quello che accade nei Cpr, a quanto viene denunciato dal Garante, dalle associazioni?”. Migranti. Nuova testimonianza video su Abdel: “È stato imbottito di medicine sbagliate” di Andrea Ossino La Repubblica, 13 dicembre 2021 Il filmato è stato girato da un ragazzo “del gruppo di Wissem”, “nel carcere di Ponte Galeria”. Abdel “è stato portato fuori dal centro per 6 giorni, i suoi compagni non sapevano nulla” e gli hanno dato “la medicina neurologica che usano per parecchi internati”. Ancora un video, una nuova testimonianza capace di rendere più fitto il mistero che ruota intorno alla morte di Wissem Ben Abdel Latif. Se i precedenti racconti collegano i fatti accaduti il 28 novembre scorso a un pestaggio, avvenuto probabilmente a causa dei video girato dal ventiseienne tunisino nel Centro per l’immigrazione di Ponte Galeria, il nuovo filmato punta il dito contro “la medicina neurologica che usano per parecchi internati”. Il video è stato girato da un ragazzo che dice di essere stato “nel gruppo di Wissem”, “nel carcere di Ponte Galeria”. Ed è stato pubblicato sulla pagina Facebook di un pizzaiolo tunisino che spesso rilancia richieste di aiuto dei suoi connazionali. Il protagonista del filmato dice di essere riuscito a scappare dal Cpr, ma di aver saputo “brutte notizie da lì”. Sarebbero state riferite da “un’avvocatessa” che “racconta che gli internati sono picchiati e violentati, persino il Corano è stato buttato per terra e calpestato, gli immigrati vengono insultati”. E ancora: “il cibo che prima era del tutto immangiabile ora è peggio, è scaduto”. “Le brutte notizie” che il ragazzo avrebbe saputo, si riferiscono a ciò che è accaduto ad Abdel, “quello che ti ha mandato un video”. La testimonianza è chiara: “Gli davano delle medicine neurologiche (…) gli ultimi sei giorni è stato portato in ospedale e ieri sera è morto. Da quello che ha detto l’avvocatessa gli avrebbero somministrato la medicina sbagliata. La medicina neurologica la usano per parecchi internati”, spiega il migrante che adesso sarebbe riuscito a raggiungere la Francia. La nuova testimonianza accende i riflettori su ciò che sarebbe accaduto dopo che Wissem ha girato il video pubblicato da Repubblica. “È stato portato fuori dal centro per 6 giorni, i suoi compagni non sapevano nulla”, dice il ragazzo. E in quei giorni sarebbe stato imbottito di medicine “sbagliate”. Il pensiero del testimone va alla vittima e alla sua famiglia: “Il ragazzo, Wissem, poverino non ha fratelli (…) ha solo una sorella e non posso immaginare lo stato di sua madre (…) che trovi la pace”. L’obiettivo è soltanto uno: “Speriamo che qualcuno riesca a fare arrivare la sua voce”. Doppia pena: il Covid-19 nelle prigioni europee a cura di Francesca Bormioli Italia Oggi, 13 dicembre 2021 Nonostante le carceri siano un terreno fertile per la diffusione dei virus le amministrazioni penitenziarie hanno comunicato poco sui casi di Covid-19, sui decessi avvenuti e sulle vaccinazioni nelle prigioni europee, a differenza del resto della società. Qual è l’impatto della pandemia nelle carceri europee? Ce lo raccontano i dati raccolti in 32 paesi dall’European Data Journalism Network. Vangelis Stathopoulos è detenuto nella prigione greca di Larissa. Fa parte dell’oltre mezzo milione di persone incarcerate in Europa durante la pandemia di Covid-19. Come tante altre carceri, quello di Larissa è un terreno fertile per la diffusione del virus: sovraffollato e con spazi ristretti e insalubri. “Ho avuto il Covid lo scorso dicembre. Circa metà dei detenuti erano malati allo stesso momento”, dice Stathopoulos. “Siamo stati spostati in un’ala del carcere con altre 60 persone, in uno spazio di circa 110 m2. Non sapevamo quanto si sarebbe aggravato il nostro stato di salute”. Durante la pandemia, ci siamo abituati a essere meticolosamente aggiornati sul Covid-19 e abbiamo sorvegliato gli ambienti in cui c’è un più alto rischio di sviluppo di focolai, come ad esempio le case di cura. Stranamente, invece sono pochi i dati pubblici sulla diffusione del virus nei penitenziari. Lo European Data Journalism Network (EDJNet), in collaborazione con altri 12 testate, ha raccolto dati in 32 paesi che mostrano quanti casi e quanti decessi sono stati riportati nelle carceri, com’è stato affrontato il piano vaccinale e quali misure sono state prese per frenare la diffusione del virus. è la prima inchiesta di questa portata in Europa. “Molte carceri sono sovraffollate e senza la possibilità di applicare le misure di distanziamento sociale”, dice Filipa Alves da Costa, consulente sanitaria del programma Health in Prisons dell’Organizzazione mondiale della sanità. “Quindi, quando il virus entra, si trasmette molto più facilmente”. Da Costa afferma che il rischio nelle carceri è simile a quello corso dalle persone che vivono in strutture residenziali, come le case di cura e i centri di accoglienza.I numerosi detenuti affetti da HIV, con antecedenti legati al tabagismo o al consumo di altre droghe sono sottoposti a un alto rischio di contrarre il Covid-19. Secondo l’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità), l’emarginazione, la povertà e il difficile accesso alle cure sanitarie spesso incidono su queste persone ben prima dell’incarcerazione, mentre le condizioni del carcere hanno poi un effetto esacerbante. “Anche se nella società al di fuori del carcere non sarebbe così, i detenuti di 50 anni li consideriamo già anziani”, dice da Costa. Nei penitenziari, la diffusione della pandemia non colpisce solo i detenuti e il personale, ma anche la comunità circostante. “Non è un ambiente del tutto isolato”, spiega Da Costa. “Le persone entrano ed escono da qui ogni giorno. Non solo il personale, ma anche i fornitori, gli avvocati e i detenuti stessi. Di conseguenza, se non si proteggono le carceri, non si protegge la comunita”‘. Negli Stati Uniti, dove nel 2020 il virus si è rapidamente diffuso, diversi studi hanno rivelato come le epidemie nelle carceri si diffondono nella popolazione circostante. Uno studio su scala nazionale ha dimostrato che i casi di Covid-19 aumentano più rapidamente nelle regioni in cui c’è un maggior numero di persone detenute; lo studio, inoltre; collega l’incarcerazione di massa a più di mezzo milione di casi aggiuntivi di Covid-19, dentro e fuori i penitenziari. L’Università di Losanna ha effettuato la più recente rilevazione di dati su scala europea grazie alla quale ha riportato il numero di casi di Covid-19 nelle carceri fino a settembre 2020. Da allora è trascorso più di un anno in cui ci sono state più di due ondate, nuove varianti e una campagna vaccinale globale. La prima risposta al Covid? Interrompere tutte le attività - Uno studio condotto da alcuni ricercatori di Barcellona ha rivelato che la maggior parte dei Paesi ha applicato il lockdown nelle carceri all’inizio della pandemia. Le visite sono state immediatamente interrotte o severamente limitate in quasi tutti i paesi. In molte carceri, anche lo sport, le attività ricreative e lavorative sono state sospese e i congedi penitenziari messi in attesa. “Persino le nostre lettere erano messe in quarantena”, ricorda Casaba Vass, detenuto in Ungheria. Paesi come la Germania, il Belgio e l’Ungheria sottoponevano alla quarantena i nuovi arrivati e i detenuti che presentavano sintomi. I dati raccolti per questa indagine mostrano che, a prima vista, queste misure sembrano aver contribuito a evitare il peggio. Le carceri, tutto sommato, non sono diventate focolai di Covid. Secondo i dati disponibili, in molti paesi il tasso di positività nelle carceri si avvicina a quello della popolazione generale. Quando la percentuale dei contagi era alta nella popolazione generale, tendeva ad aumentare anche nelle carceri. Questo si è verificato, per esempio, in paesi come la Slovenia, l’Estonia e il Belgio, dove oltre una persona su 10 è risultata positiva al tampone. In paesi come la Croazia e la Grecia, la percentuale di detenuti positivi è molto più alta rispetto alla popolazione generale. Tuttavia, secondo i dati più recenti, in molti paesi i casi segnalati nelle carceri sono rimasti sotto la percentuale dei casi di Covid della popolazione generale - anche in in Francia, dove le prigioni sono notoriamente sovraffollate. Anche nei paesi con tassi di contagio più bassi, i penitenziari possono diventare grandi focolai. Recentemente, nel carcere francese di Bèziers che attualmente confina 638 persone in uno spazio costruito per 389, più di 50 persone sono risultate positive al tampone. I casi e i decessi potrebbero essere sottostimati - Non sempre i numeri ufficiali raccontano tutta la storia. La maggior parte delle amministrazioni penitenziarie non raccoglie i dati sistematicamente, dice Adriano Martufi ricercatore all’Università di Leiden sulle condizioni delle carceri in Europa. “A mio avviso c’è un problema di stime al ribasso”, afferma Martufi. Il carcere greco di Larissa, per esempio, ha segnalato solo 200 casi ufficiali fino a luglio 2021. Stathopoulos afferma di averne contati molti di più. “Solo tra dicembre 2020 e oggi, penso di aver contato almeno 500 casi”, dice. Questa stima al ribasso potrebbe non essere intenzionale ma rappresentare, invece, un problema di organizzazione. “I servizi sanitari nelle carceri sono a corto di personale e di materiale”, dice Martufi. “Non sono nemmeno sicuro che abbiano le capacità tecniche necessarie per raccogliere e gestire tali dati”. “La tragedia che temevamo non si è verificata, ma ci sono stati enormi sacrifici per la popolazione carceraria: niente attività, insegnamenti o quel poco lavoro che c’è in prigione, e non solo”. Nonostante il numero di contagi sia considerato in scala nominale, le stesse restrizioni imposte per frenare la diffusione del coronavirus hanno effetti secondari. “La tragedia che temevamo non si è verificata, ma ci sono stati enormi sacrifici per la popolazione carceraria: niente attività, insegnamenti o quel poco lavoro che c’è in prigione, e non solo”, dice Dominique Simonnot, Contrôleur gènèral des lieux de privation de libertè (Controllore generale dei luogi di privazione di libertà) per il Governo francese. “A livello sociale, il prezzo è esorbitante”. Negli ultimi 18 mesi, molte prigioni sono state isolate più del solito. In un carcere di Malta, le cui condizioni degradanti erano già state condannate nel 2013 dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, i nuovi detenuti venivano chiusi in una cella per 23 ore al giorno durante due settimane, con un materasso appoggiato per terra e un bagno alla turca. La quarantena comporta gravi rischi per la salute - Le regole di Nelson Mandela adottate dall’Onu e le Regole minime per il trattamento dei detenuti, affermano che l’isolamento deve essere utilizzato come ultima risorsa, per il più breve tempo possibile e mai per più di 15 giorni. Tuttavia, durante la pandemia l’isolamento dei detenuti è diventato una misura standard in molti paesi. In Irlanda, dove i detenuti dai 70 anni in su o affetti da malattie croniche sono stati automaticamente messi in isolamento tra aprile e giugno 2020, questi hanno riferito di soffrire di depressione e istinti suicidi. In alcune strutture in Germania, i detenuti in attesa di giudizio sono stati isolati per 14 giorni dopo ogni udienza. In Francia, una quarantena di due settimane era obbligatoria dopo ogni congedo, visita familiare o trattamento medico eseguito in ambulatorio, dice Dominique Simonnot. “Di conseguenza, alcuni rifiutano questi spostamenti, con tutti i rischi che questo comporta per la loro salute”. Anche le persone che non erano in quarantena erano spesso isolate nelle loro celle per gran parte della giornata. Il divieto delle visite è stata una restrizione particolarmente difficile per i detenuti. “Le visite sono estremamente importanti per i detenuti”, dice Catherine Heard, direttrice del World Prison Research Programme. “è difficile sopravvalutare quanta differenza faccia per i detenuti avere la possibilità di rimanere in contatto con le loro famiglie”. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, i detenuti hanno il diritto di avere una vita familiare. A ottobre 2020, nel carcere di Rec, in Albania, i detenuti hanno fatto uno sciopero della fame per protestare contro le sospensione delle visite da quando è stata dichiarata la pandemia. Da marzo 2020 hanno potuto contattare le loro famiglie solo per telefono. In Ungheria, dice Vass, “prima della pandemia avevamo due ore e mezza di contatto fisico due volte al mese: questo divieto ha causato problemi molto seri alla nostra salute mentale”. Il carcere ha poi messo a disposizione le videochiamate per permettere almeno le visite virtuali. “Questo ha reso la situazione più sostenibile”, dice. La maggior parte dei paesi ha introdotto la possibilità di visite virtuali, anche se le connessioni Internet non all’altezza e le restrizioni imposte ai detenuti pongono ancora problemi. “In molti penitenziari europei c’è stato un grande passo avanti per sviluppare sistemi di videoconferenza”, dice Martufi. “Prima della pandemia tutto questo era assolutamente impensabile in molti Paesi Ue. C’è stato uno sviluppo positivo”. Martufi dice che il rischio di queste disposizioni è che le carceri potrebbero tentare di sostituire a lungo termine le visite di presenza con le videochiamate”. “Secondo alcune segnalazioni che abbiamo ricevuto, alcune amministrazioni penitenziarie avrebbero detto: ‘Adesso che hai Skype, puoi vivere con quello,non c’è più bisogno che ti sia permesso di incontrare la tua famiglia o i tuoi avvocati”, dice Martufi. “Non sappiamo ancora quanto sia sistematico questo cambiamento, ma temiamo che le cose non cambieranno nemmeno quando la pandemia sarà passata”. A parte le videochiamate, Catherine Heard non vede molti sforzi fatti per mitigare gli effetti delle restrizioni. “Non mi viene in mente nulla di veramente significativo che sia stato fatto”, dice. “Si è persa una grande opportunità, per esempio, di fornire materiale di lettura, informazioni registrate o l’accesso a lezioni online. C’erano tante cose che avrebbero potuto essere fatte, che avrebbero dovuto essere fatte, ma non sono state fatte”. I Paesi Bassi sono stati uno dei Paesi in grado di riavviare le attività nelle carceri in tempi relativamente brevi attraverso schemi a rotazione o gruppi più piccoli e fissi, dice Heard. Ma la maggior parte dei paesi non ha attuato tali misure. I problemi strutturali hanno aggravato la situazione - Come in tanti altri settori della società, la situazione nelle carceri è stata aggravata da problemi strutturali già presenti da molto prima della pandemia.”Nei penitenziari maggiormente sovraffollati, dove le misure di distanziamento sociale sono impossibili da attuare, sono state adottate restrizioni più severe e prolungate.”, dice Heard. La mancanza di spazio rende le misure di distanziamento sociale impossibili da attuare, e le misure alternative sono ostacolate dalla mancanza di personale. “Se non c’è personale per spostare le persone, non si può fare altro che tenerle chiuse nelle loro celle per la maggior parte del giorno e della notte”, spiega. Ricercatori, Ong e detenuti parlano ripetutamente del sovraffollamento come la chiave del problema. Un terzo dei paesi europei ha una popolazione carceraria che supera le capacità del sistema penitenziario. In molte prigioni, la situazione è molto peggiore di quanto suggerisca la media del paese. “Mi trovo in una cella destinata a cinque persone: ora siamo in otto. è impossibile mantenere la distanza di sicurezza”, ha detto una persona in sciopero della fame a una testata croata all’inizio della pandemia nel marzo 2020. “Non possiamo vedere le nostre mogli e i nostri figli, e, che Dio non voglia, forse alcuni di noi non li rivedranno mai più. Ci sentiamo come detenuti nel braccio della morte, in attesa che il coronavirus irrompa nella prigione”. Durante la prima ondata, molti paesi europei hanno liberato un numero di detenuti senza precedenti per ridurre la pressione sulle carceri. “è quello che gli esperti dicono di fare da due anni, ma era politicamente troppo spaventoso, dice Heard. “Penso che il Covid abbia dato a diversi paesi una scusa per ridurre silenziosamente il loro numero di detenuti”. Heard ha calcolato che tra marzo 2020 e giugno 2021 la popolazione carceraria è stata ridotta di ben mezzo milione di persone. Paesi come la Slovenia, il Belgio, la Francia e l’Italia, le cui popolazioni carcerarie superavano le capacità del sistema penitenziario già da prima, hanno ridotto il numero di detenuti fino al 25 percento, portandolo al livello o al di sotto della capacità ufficiale. “I paesi avranno imparato che hanno ridotto il numero di detenuti senza che il cielo crollasse”, dice Heard. Con la pandemia, la salute pubblica diventa una ragione per ridurre le popolazioni carcerarie ed è vitale che i paesi continuino a sostenere questa tendenza. La popolazione carceraria è di nuovo in aumento - Tuttavia, molti paesi sembrano invertire i progressi fatti dalla primavera 2020. Dopo un calo iniziale, la popolazione carceraria sta aumentando di nuovo in circa la metà dei paesi europei studiati, in alcuni casi superando anche le cifre iniziali. Le carceri francesi e slovene, per esempio, sono tornate ad essere sovraffollate a livello nazionale, e le singole prigioni si trovano in situazioni ancora peggiori. Con i problemi strutturali che aggravano una situazione già complicata, un “ritorno alla normalità” nelle carceri dipende dalle vaccinazioni, come nel resto della società. “Quando è stato annunciato che ci sarebbe stato un vaccino, le persone si sono calmate”, dice Vass. “Per quanto ne so, quasi tutti i detenuti si sono vaccinati. Io ho ricevuto la prima dose a maggio, la seconda a giugno e, come molti, la terza a settembre”. Non tutti hanno ricevuto la loro dose di vaccino e una delle ragioni di questo ritardo è che, nonostante l’alto rischio per i detenuti, per il personale e per la popolazione generale, la maggior parte dei paesi europei non ha incluso i detenuti nelle categorie prioritarie dei piani di vaccinazione. Molti di loro non li hanno nemmeno nominati. In Germania, per esempio, è stata esplicitamente data la priorità alle persone che vivono in strutture residenziali come le case di cura, ma i detenuti erano comunque vaccinati contemporaneamente al resto della popolazione. “Ci sono state indicazioni consistenti da parte di organizzazioni sovranazionali indipendenti che i detenuti dovrebbero avere la priorita”‘, dice Martufi. “è un buon esempio dell’assoluta discrepanza tra le indicazioni politiche da un lato e la realtà dall’altra”. Molti attribuiscono questo a una mancanza di volontà politica. In alcuni casi, dice Martufi, la politica ha addirittura ostacolato l’accesso anticipato al vaccino. “In Belgio, la priorità dei detenuti è diventata una questione politica”, dice, “e, di conseguenza, sono stati esclusi dalla campagna vaccinale fino alla fine”. In Italia, d’altra parte, dice, la decisione di dare ai detenuti l’accesso prioritario ai vaccini è stata una decisione amministrativa, presa senza suscitare un grande dibattito pubblico. Questo ha fatto sì che l’inizio delle vaccinazioni nelle carceri è stato ritardato significativmente e che alcuni paesi non hanno somministrato nemmeno una dose prima di giugno, mentre altri hanno riferito di aver iniziato già a fine marzo. Le vaccinazioni nelle carceri di diversi paesi hanno finalmente raggiunto i numeri dei vaccini somministrati nella popolazione generale e in estate la curva dei contagi si è abbassata. Questo ha permesso ai detenuti di ricevere visite e di riprendere le attività, sempre nel rispetto delle misure sanitarie. Tuttavia, con l’inverno alle porte e la prossima ondata in arrivo nella maggior parte dei paesi europei, la pandemia non è finita per nessuno, e certamente non per i detenuti. “Non riavremo presto la nostra vecchia vita e i nostri benefici”, dice Csaba Vass in Ungheria. In Italia, i dati settimanali mostrano un aumento dei casi positivi tra il personale e i detenuti. Inoltre, il Ministro della giustizia croato ha recentemente confermato che più del 20 percento dei detenuti ha avuto il coronavirus, circa 1,5 volte il tasso della popolazione in generale. Gli esperti affermano che i paesi devono ridurre drasticamente la loro popolazione carceraria per essere preparati a situazioni simili in futuro. “Non possiamo affrontare un’altra crisi sanitaria con un così alto numero di persone incarcerate in tutta Europa”, dice Martufi. “I numeri devono diminuire”. Ma gli osservatori hanno anche motivi per essere ottimisti. “Il Covid dovrebbe essere un campanello d’allarme per investire in un miglioramento delle condizioni detentive e per ridurre l’uso della misura carceraria”, dice Catherine Heard. Perché quel campanello d’allarme sia ascoltato, l’interesse pubblico e la volontà politica sono fondamentali. “è ora di ripensare la nostra percezione dei detenuti come cittadini di seconda classe”, dice Martufi. “Non possiamo permettere che qualcuno venga lasciato indietro. è peggio per tutti”. Francia. Bataclan, il processo del secolo. Tre uomini schiacciati dalla storia di Emmanuel Carrère* La Repubblica, 13 dicembre 2021 Autisti per caso o fiancheggiatori? Tra gli imputati ci sono anche Abdellah Chouaa, Hamza Attou e Ali Oulkadi, comparse di un processo più grande di loro. È sempre sera quando Abdellah Chouaa esce dal palazzo di giustizia. È da quando è a Parigi che ha in mente di andare a vedere gli Champs-Élysées, ma è lontano, non osa, ha paura di perdersi o di essere riconosciuto e per il momento si attiene strettamente a quell’unico tragitto: la linea 14 fino a Saint-Ouen, la 13 fino a Basilique-de-Saint-Denis e poi l’autobus 53 per arrivare a casa sua. Casa sua è un capanno da giardino sul retro del villino di una vecchia signora di cui è obbligato ad attraversare il salone. Dieci metri quadri, 600 euro al mese. Solo, senza conoscenze, senza busta paga e con dei problemi difficili da confessare, non avrebbe trovato niente del genere senza l’aiuto del suo avvocato e si può dire che almeno da questo punto di vista un pò di fortuna l’abbia avuta. Ma ha un altro affitto da pagare in Belgio, 700 euro, a cui bisogna aggiungere la benzina per il tragitto andata e ritorno tutti i fine settimana, il cibo (anche se fa la spesa a Bruxelles, dove costa meno) e tutte le spese di una famiglia di tre bambini. Sua madre e sua sorella lo aiutano un pò, 50 euro ciascuna al mese, ma non durerà in eterno. Prima aveva un vero mestiere, consegnava all’aeroporto i blocchi di ghiaccio che si mettono nel vano portabagagli degli aerei; oggi vende nei mercati, la domenica, vestiti scaricati dal camion. In nero, confessa alla corte, che non ha il cuore di rimproverarglielo. Il giorno della nostra conversazione aveva appena venduto la sua automobile: 3.700 euro con cui dovrà tirare avanti fino alla fine del processo, a maggio. Sempre, naturalmente, che alla fine del processo non lo rimettano in galera: sarebbe una catastrofe tale che preferisce non pensarci. Come Hamza Attou e Ali Oulkadi, Abdellah Chouaa compare al processo sotto controllo giudiziario, imputato ma non detenuto e obbligato a essere presente a tutte le udienze. Giorno dopo giorno, questi tre trentenni di Molenbeek, abbonati alla piccolissima delinquenza e soprattutto alla scalogna, se ne stanno seduti davanti alla gabbia di vetro dove si trovano i quattordici “veri” imputati. Lui, Abdellah Chouaa, non si gira mai per guardarli o parlare con loro. Non vuole avere niente in comune con loro, soprattutto con il suo ex amico Mohamed Abrini, pezzo grosso del dossier: è per colpa sua che si trova qui. Abrini, Abdellah Chouaa ha avuto la sfortuna di accompagnarlo a bordo della sua auto all’aeroporto di Bruxelles-Zaventem il 23 giugno 2015, poi di andarlo a cercare a Parigi il 16 luglio. Nell’intervallo, ha ricevuto spesso telefonate da lui, provenienti da numeri esotici in Laos, in Bhutan, in Guinea, in Russia, ma in realtà da call center in Siria. Ha giurato nel corso dell’istruttoria che non sapeva che Abrini stava partendo per la Siria, che credeva che fosse in vacanza in Turchia. Ma Abrini, invece di minimizzare il ruolo dell’amico, come avrebbe potuto facilmente fare, ha aggravato costantemente la sua situazione: come poteva Chouaa ignorare lo scopo di quel viaggio e la sua radicalizzazione, visto che lo sapevano tutti a Molenbeek? Non voglio pronunciarmi sul merito, ma se hanno rimesso Chouaa e gli altri due in libertà dopo qualche mese di detenzione, si vede che è vero che le loro malefatte sono poca roba. Sufficienti, tuttavia, per essere rinviati a giudizio e per trasformare la loro vita in un incubo. Abdellah Chouaa dice al figlio più grande, che ha dieci anni, che il motivo per cui rientra a casa solo nel weekend è che ha trovato un lavoro a Parigi, nel settore della sicurezza; ma c’è tutto il tempo perché un amichetto, a scuola, veda la sua foto sul giornale o alla televisione e riveli al piccolo, di fronte a tutti: “Ma allora il tuo papà è un terrorista?”. Forse dovrebbe fare come Ali Oulkadi, che si è fatto coraggio e ha spiegato alla sua figlia più grande, dieci anni anche lei, che certi signori hanno fatto una grossissima stupidaggine e che papà conosceva uno di quei signori e per questo adesso si trova in guai seri. Ali Oulkadi è l’uomo dell’ultimo chilometro, quello che la mattina del 14 novembre 2015 ha portato in giro per Bruxelles Salah Abdeslam, che Hamza Attou (insieme a un terzo ladrone, Mohamed Amri) aveva riportato indietro da Parigi durante la notte. Nessuno li sospetta veramente di essere dei terroristi, ma è innegabile che, per amicizia, abbiano aiutato un terrorista a fuggire. Hamza Attou e Ali Oulkadi frequentavano il famoso caffè Les Béguines gestito da Brahim Abdeslam, a Molenbeek. Passavano la maggior parte del tempo a fumare hascisc, occasionalmente a venderlo, e Abdellah Chouaa, anche se pure lui ha qualche macchia sulla fedina penale, ci tiene a distinguersi con discrezione dai suoi due compagni di sventura. Mentre tutti gli imputati coltivano lo stesso look tuta e scarpe da ginnastica, lui indossa un completo chiaro, troppo leggero per la stagione, e sotto la camicia bianca un maglioncino dolcevita, pure quello bianco: ha l’aria di un impiegato rispettabile, non di un delinquente. Ogni giorno si ritrovano tutti e tre alle undici e trenta davanti al palazzo di giustizia, dove entrano scortati dai gendarmi e seguiti da sguardi curiosi, che li spaventano. Ali Oulkadi non ha la fortuna di avere un tetto fisso come Abdellah Chouaa. Naviga da un hotel Formule 1 (da quattro soldi, ndr) all’altro, a seconda delle offerte promozionali, e qualche volta, quando non ce la fa più, Abdellah Chouaa lo ospita nel suo capanno da giardino. Riscaldano un piatto di pasta, Abdellah Chouaa si fa la sua puntura di insulina perché è diabetico e poi si coricano tutti e due nel letto e si raccontano la vita che sognano di avere quando sarà finito tutto questo: una casa, un giardino, un lavoro più o meno fisso, veder crescere i loro figli, qualche spinello solo nel fine settimana. Ne so di meno su Hamza Attou, l’unico dei tre che ha rifiutato di parlare con me, non per diffidenza, credo, quanto perché era stato preso da una di quelle terribili botte di depressione che li stendono tutti, a turno. In questo momento il processo attraversa una fase noiosa: peraltro, è proprio perché non ne potevo più di guardare i PowerPoint con voce fuoricampo degli investigatori belgi che ho cercato di saperne di più su questi tre uomini persi ai margini di una storia più grande di loro. Noiosi per noi, questi momenti rappresentano una tregua per loro, dopo cinque settimane di testimonianze delle parti civili. Trecentocinquanta vittime o parenti di vittime, uno tsunami di orrore e sofferenza. Quasi ogni giorno qualcuno, un padre o una madre in lutto, si girava verso il recinto degli imputati e li apostrofava mettendo tutti nello stesso sacco, come se loro, Abdellah Chouaa, Ali Oulkadi e Hamza Attou avessero falciato i loro figli a colpi di Kalashnikov. Dovevano reprimere la voglia di alzarsi e gridare: “Ma non sono con loro, io! Io non ho fatto nulla!”. Io e Ali Oulkadi, l’altro giorno, approfittavamo di una sospensione dell’udienza per discutere, seduti su una panca in un corridoio del palazzo di giustizia. Lo aiuta a reggere, mi spiegava, seguire il dibattimento, prendere gli appunti più minuziosi che può su un taccuino. Una signora mi si è avvicinata per dirmi che leggeva e apprezzava le mie rubriche. Era una parte civile e voleva sapere se mi ricordavo della sua testimonianza. Sfortunatamente no, forse era capitata in uno dei miei rari giorni di assenza. Sperando di rinfrescarmi la memoria, ha detto: “Sono venuta a deporre con i miei due nipoti”. Ali Oulkadi allora ha sussurrato: “Nino e Marius”. Non so se la signora l’abbia riconosciuto oppure no, ma in ogni caso gli ha sorriso e ha confermato: “Sì, Nino e Marius”. Mentre si allontanava, uno sprazzo di gioia pura ha rischiarato il viso di Ali Oulkadi, perché qualcuno gli aveva parlato normalmente, e ha ripetuto “Nino e Marius” con dolcezza, come se i nomi di questi ragazzini figli di un uomo assassinato al Bataclan fossero quelli dei suoi figli e gli fosse stato accordato, fugacemente, forse per errore ma è già qualcosa, il diritto, come tutti, di piangere per loro. *Traduzione di Fabio Galimberti Stati Uniti. La democrazia occidentale e i suoi nemici di Massimo Giannini La Stampa, 13 dicembre 2021 Fa un certo effetto leggere le cronache del “Summit per la Democrazia”, convocato online dall’Amministrazione Usa per discutere con i leader di ben 111 Paesi sullo stato di salute del mondo libero, nelle stesse ore in cui l’ex capo dello staff di Donald Trump alla Casa Bianca rivela l’esistenza di un simil-golpe per far saltare la proclamazione della vittoria di Joe Biden alle presidenziali del dicembre 2020. Di fronte a un cortocircuito logico-politico così evidente, più che il celebratissimo saggio di Karl Popper sulla “società aperta e i suoi nemici”, torna in mente un vecchissimo fumetto di Walt Kelly. Nel 1971, celebrando la Giornata mondiale della Terra e constatando i danni già allora devastanti inflitti al pianeta dalla mano dell’uomo, il cartoonist americano ci svelava con una battuta folgorante quello che troppo spesso non vogliamo vedere: “Abbiamo incontrato il nemico: siamo noi”. La Dottrina Biden è ormai nota: è in atto una “recessione globale delle democrazie” e un’aggressione sistematica delle autocrazie. La Cina e la Russia, la Turchia e l’Iran. La minaccia è ovunque. E gli eserciti nemici, come l’Impero del Male teorizzato a suo tempo da Bush, incedono su più fronti. A colpi di armamenti e/o di investimenti. Di qui l’appello quasi sturziano ai “liberi e forti”: serve una grande alleanza, per difendere i nostri valori e i nostri principi, le nostre identità e le nostre libertà. Detta così sembra bella: cosa c’è di più buono e più giusto di un fronte comune a difesa delle liberaldemocrazie, stremate dall’emergenza pandemica, logorate dalla recessione economica, destabilizzate dal Grande Disordine Mondiale? In teoria, nulla. In pratica, la questione è più complessa. Per due motivi. Il primo: le nostre nazioni allarmate non hanno le carte in regola per denunciare la “recessione democratica” altrui, se prima non si interrogano su cosa stia accadendo a loro stesse. Il secondo: al di là di un generico appello ideale, che se resta tale rischia persino di diventare ideologico, questo “Club delle democrazie” finora non ha saputo opporre granché di concreto ai suoi avversari esterni. Oggi Freedom House ritiene che solo il 20% dei Paesi del globo sia pienamente libero, contro il 39 di dieci anni fa. Di qui l’invito agli Stati: fate “ordine in casa vostra”. Vale innanzitutto per gli Stati Uniti, dove Trump resta fortissimo nonostante le prove tecniche di colpo di Stato avviate con l’assedio a Capitol Hill, la sanità pubblica resta un tabù per 40 milioni di disperati, “black lives matter” resta uno slogan da corteo e Guantanamo resta una ferita mai curata all’habeas corpus. È il nuovo paradosso americano: gli Stati Uniti sono ancora “la più grande democrazia del pianeta”, ma non sono più “un esempio di democrazia”. E non lo dice solo uno storico progressista come Luciano Canfora. Lo sostiene il 17% degli intervistati, secondo un sondaggio internazionale di Pew Reasearch. Lo confermano i giovani tra i 18 e i 29 anni, che solo nel 7% dei casi ritengono gli Usa una “democrazia in buona salute”, secondo un’indagine dell’Harvard Institute of Politics. Mettere “ordine in casa propria” è un dovere anche per l’Europa, dove le destre hanno ingrassato la tigre populista con l’ormone tossico dell’anti-politica e le sinistre non hanno fatto nulla per domarla. Il risultato è che governi e parlamenti hanno finito per delegittimare se stessi. E un numero crescente di cittadini, marginalizzati dalla globalizzazione ed esclusi dalla partecipazione, ha disconosciuto la propria cittadinanza. Convinti che votare non serva più a nulla, e che la democrazia non sia poi così importante. Perché non funziona, non decide, non risolve i problemi. Anche qui la disaffezione democratica non c’entra nulla con Xi o con Putin, ma promana direttamente dal ceto medio proletarizzato, arrabbiato e sobillato dagli impresari della paura, che ne hanno nutrito l’insicurezza sociale, l’ossessione razziale, il rancore istituzionale (lo spiega bene Tom Nichols nel suo ultimo saggio, “Il nemico dentro”, Luiss Editore). Dunque il declino delle democrazie è in buona misura auto-prodotto. E sostituito dall’ascesa delle autocrazie elettive, dove i cripto-dittatori vincono opprimendo il popolo in nome del popolo. Senza arrivare in India o in Venezuela, basta fermarsi in Ungheria e in Polonia. Qui non servono più le giunte militari e il tintinnare di sciabole: le democrazie muoiono con altri mezzi, come sostengono Steven Levitsky e Daniel Ziblatt. Se questo è il quadro, Biden che invoca la Santa Alleanza somiglia al cane che abbaia alla luna. Guarda fuori, per non guardarsi dentro. All’opposto, chi ci vede benissimo è Papa Francesco: “La democrazia è un tesoro di civiltà e va custodita, non solo da un’entità superiore ma anche negli stessi Paesi. Contro la democrazia oggi vedo il pericolo dei populismi, che stanno ricominciando a mostrare le unghie…”. Bergoglio fiuta un pericolo reale: i populismi, spiazzati dal virus due anni fa, si stanno riorganizzando. Come avverte Ivan Krastev sul Financial Times, i nuovi lockdown imposti dalla variante Omicron stanno ridando filo da tessere alle forze anti-sistema dell’Unione. Cina, Russia e potenze regionali incistate tra Asia e Medioriente speculano ovviamente sulla crisi delle democrazie occidentali. Lo fa la Cina, che cresce di una Russia all’anno e coltiva lungo le “Vie della Seta” un disegno egemonico e neo-imperiale. Con il 20% della popolazione mondiale e il 7% delle terre coltivate del pianeta, il Dragone esporta non il suo modello dittatoriale, ma la sua imponente capacità infrastrutturale, garantendola ai Paesi in via di sviluppo che possono assicurargli, insieme al posizionamento strategico, l’interscambio commerciale e alimentare. Dopo la feroce normalizzazione di Hong Kong, la tortura cinese si concentra adesso su Taiwan, il cui capo è colpito ogni giorno dalla goccia di Pechino che avverte: ricordati che devi cadere. E se lo ricordi anche Biden, firmatario dell’Aukuss con Australia e Gran Bretagna: il Pacifico non è “cosa loro”. La stessa cosa fa la Russia, che tiene in scacco l’Europa sul gas e North Stream 2 e continua ad ammassare truppe ai confini con l’Ucraina, alimentando un clima da invasione imminente. Cosa vuole davvero lo Zar di Mosca non è affatto chiaro, se non stoppare i tentativi di allargamento della Nato in quell’area. Cosa oppone il Club a tutto questo risulta purtroppo ancora meno chiaro. Sulla Cina si balbetta. Sulla Russia si nicchia (a parte qualche rituale altolà, e ora l’annuncio di sanzioni Ue in arrivo per la famigerata Brigata Wagner, accusata di violazione dei diritti umani in Ucraina, in Siria e il Libia). Eppure la tragedia del Covid offrirebbe alle democrazie una magnifica opportunità. Invece di armare le truppe, carichiamo le siringhe. Vacciniamo subito quei 3 miliardi di persone che non se lo possono permettere. Finora il 66% dei Paesi del G7 ha ricevuto due dosi, mentre in Africa la quota è ferma al 7%. Pfizer ha consegnato 2 miliardi di vaccini, di cui 740 milioni di dosi ai paesi a basso e medio reddito, con un incasso di 36 miliardi di dollari. A fine 2022 consegnerà altri 1,8 miliardi di dosi, con un introito di altri 29 miliardi (per inciso, molto più della legge di bilancio appena varata da Draghi). Il colosso Usa vende il suo vaccino alla Ue a 19,50 euro a dose, mentre lo calmiera a 6,75 dollari per i Paesi a basso reddito. È ancora troppo, per chi non ha niente. E allora, in questo momento, il più grande spot per le democrazie non è il Club di Biden e nemmeno la guerra per Kiev o per Taipei. È il vaccino gratis, per tutti i poveri del mondo. Stati Uniti. Democrazia e regole: i pericoli che corre l’America di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 13 dicembre 2021 Il timore generato dalle teorie della Grande Sostituzione (le minoranze etniche destinate a diventare maggioranza) comincia a minare nella testa di molti il principio “un cittadino, un voto”. A metà dell’Ottocento i confederati del Sud decisero la secessione che portò alla guerra civile americana, ma non contestarono mai l’elezione di Abramo Lincoln. Oggi un terzo degli americani e un’ampia maggioranza di elettori repubblicani considera Joe Biden un presidente illegittimo. Molti nel mondo hanno criticato il leader Usa per la sua pretesa di chiamare a raccolta le claudicanti democrazie del mondo intorno a una fiaccola americana che rischia di bruciare il braccio di chi la impugna. Com’è accaduto altre volte in passato con l’anziano presidente, l’intuizione è giusta - basti vedere la furiosa reazione cinese con Biden paragonato alla tenutaria di un bordello che dà lezioni di etica a delle educande - mentre l’esecuzione lascia a desiderare. Giusto cercare di tenere viva una fiamma minacciata da regimi autoritari sempre più potenti (Cina) o spregiudicati (dalla Russia alla Turchia) e dall’indifferenza di opinioni pubbliche occidentali che danno le nostre libertà per scontate, anche se la fedina democratica Usa non è immacolata e la scelta di invitati ed esclusi al summit è discutibile: la politica, come la democrazia, è inevitabilmente imperfetta. A lasciare l’amaro in bocca è soprattutto l’impotenza di Biden, emersa negli ultimi mesi e fotografata dal vertice della scorsa settimana, davanti al rischio che il fallito tentativo di sovvertire l’esito delle presidenziali del 2020, anziché una disfatta definitiva, sia stato solo una prova generale di quello che accadrà nel 2024. La destra quasi certamente riconquisterà il controllo del Congresso tra un anno e può benissimo vincere in modo legittimo le presidenziali del 2024, ma oggi l’America vive comunque un’emergenza democratica fatta di indebolimento delle sue istituzioni e di una evidente volontà di Donald Trump di non correre nemmeno il rischio di subire un’altra sconfitta elettorale. Fin qui si è discusso soprattutto della questione più facilmente comprensibile per il grande pubblico e che è stata oggetto di dispute anche in passato: le modalità del voto con la destra che cerca di limitare luoghi e finestre temporali per consegnare le schede e chiede più certezze sull’identità dell’elettore in un Paese nel quale non esiste la carta d’identità e in cui chi non guida e non ha il passaporto, non ha documenti con la sua foto. Mentre, al contrario, la sinistra considera le limitazioni votate negli ultimi mesi in diversi Stati a maggioranza conservatrice un tentativo di allontanare dalle urne i neri, i poveri e i non scolarizzati. È una discussione aperta, anche se la storia elettorale americana è costellata, soprattutto al Sud, da tentativi frequenti - a volte sistematici - di intimidire l’elettorato afroamericano. Ma dietro c’è un’altra questione ben più grave: il tentativo di alcuni Stati ma anche di tante amministrazioni locali (in certi casi già riuscito, in altri ancora in corso) di sottrarre a funzionari indipendenti e a organismi sostanzialmente tecnici la conta dei voti e la scelta dei delegati degli Stati che poi eleggeranno materialmente il presidente. Verranno trasferiti ad assemblee politiche nelle quali la maggioranza di un partito potrebbe invalidare l’elezione del candidato del partito avverso. È quello che, come risulta evidente dai molti documenti emersi negli ultimi mesi, ha tentato di fare Trump dopo il voto del novembre 2020: convincere i Parlamenti a maggioranza repubblicana degli Stati conservatori che avevano votato per Biden a sovvertire il risultato delle urne. Allora il colpo di mano (o di Stato) non riuscì per la tenuta di alcuni funzionari repubblicani che si rifiutarono di violare le regole e perché, non essendoci il tempo necessario per cambiare le norme parlamentari(o per convincere chi decide a interpretare le regole in modo “creativo”) i governatori, compresi quelli del partito di Trump, non se la sentirono di invalidare le scelte degli elettori. Oggi il quadro è diverso: stanno cambiando le norme, ma stanno cambiando anche gli uomini. Sotto l’effetto della martellante campagna Stop the Steal, fermate il furto, milioni di fan dell’ex presidente hanno preso di mira - in alcuni casi in modo estremo - i repubblicani che, avendo rispettato le regole costituzionali, passano per traditori. Insultati, minacciati a volte anche di violenze contro le loro famiglie, molti di questi funzionari e anche diversi parlamentari hanno già gettato la spugna. Verranno sostituiti da attivisti trumpiani. Andranno a occupare anche uffici fin qui per nulla ambiti perché con compiti considerati puramente notarili. Gli altri che resistono verranno comunque spazzati via: Trump ha scomunicato parlamentari e governatori non totalmente allineati sulle sue posizioni. Verranno quasi tutti sconfitti alle primarie della prossima primavera da pasdaran trumpiani. Biden è consapevole del pericolo. A luglio, in un discorso a Filadelfia, denunciò il tentativo d’intervenire “non solo su chi può votare, ma anche su chi conta i voti”. Non usò mezzi termini: definì “sovversione delle elezioni” il tentativo di sostituire “autorità elettorali indipendenti con soggetti di parte” col potere di non riconoscere l’esito delle urne. Ma poi, salvo alcuni limitati ricorsi del ministero della Giustizia, non ha preso iniziative significative. Ha le mani legate: in Congresso qualunque norma in questo campo verrebbe bloccata dal filibustering repubblicano. L’America continua così a scivolare lungo una china molto pericolosa. Il rischio non è solo che nel 2024 venga proclamato vincitore chi esce sconfitto dalle urne: Trump (o chi dovesse presentarsi al suo posto) può benissimo vincere in modo legale, ma è la stessa credibilità del sistema elettorale davanti ai cittadini che è messa a repentaglio da questa crisi. Il timore generato dalle teorie della Grande Sostituzione (le minoranze etniche destinate a diventare maggioranza) comincia a minare nella testa di molti il principio “un cittadino, un voto”. Questa debolezza che la democrazia americana rischia di trasferire al resto dell’Occidente può diventare la miglior cura ricostituente per l’efficiente autoritarismo cinese. Stati Uniti. Un’unità segreta del governo spiava i giornalisti di Anna Lombardi La Repubblica, 13 dicembre 2021 Tra le vittime dell’agenzia federale che vigila sulla sicurezza delle frontiere e dipende dall’Homeland Security anche la premio Pulitzer Martha Mendoza. Almeno 20 giornalisti spiati in America da un’unità segreta della Customs and Border Protection, l’agenzia federale che vigila sulla sicurezza delle frontiere e dipende dall’Homeland Security: il Dipartimento per la sicurezza nazionale. Lo rivela un’inchiesta condotta dell’agenzia di stampa Associated Press e da Yahoo News: che sono entrati anche in possesso di un rapporto di circa 500 pagine redatto da una unità speciale chiamata Counter Network Division. Proprio questa avrebbe usato banche dati governative finalizzate alla lotta al terrorismo per indagare su alcuni reporter che lavorano negli Stati Uniti: compreso un premio Pulitzer della stessa AP, la giornalista Martha Mendoza che con una sua celebre inchiesta aiutò a liberare 2mila pescatori costretti a lavorare in condizioni di schiavitù in Indonesia. Non solo: l’operazione chiamata Whistle Pig - maiale che fischia, sì, ma in realtà è una marca di whiskey - avrebbe preso di mira anche alcuni membri del Congresso e i loro staff. A Yahoo News lo ha svelato Jeffrey Rambo, un ex agente federale che ha ammesso di aver fatto quei controlli nel 2017. Sostenendo, però, che l’operazione è di routine: “Quando arriva un nome sulla tua scrivania devi costruire un dossier e sapere tutto quello che fa. E per farlo utilizzi tutti i sistemi cui hai accesso, senza distinzioni”. Le rivelazioni sono state accolte con estrema preoccupazione dai media americani e numerose testate stanno chiedendo spiegazioni: “Si tratta di un abuso di potere” ha detto senza troppi giri di parole Lauren Easton, direttore delle relazioni con i media di AP, affermando che “si è indagato su questi giornalisti semplicemente perché facevano il loro lavoro. Siamo di fronte a una seria violazione del Primo Emendamento”. All’Homeland Security non si sono però turbati più di tanto: “Le nostre operazioni di controllo, comprese quelle in oggetto, sono rigorosamente disciplinate da protocolli e pratiche consolidati. Non indaghiamo senza una base legittima e legale per farlo”, hanno fatto sapere attraverso una dichiarazione scritta. Secondo AP, però, si tratta dell’ennesimo tentativo da parte delle agenzie federali di scoprire le fonti dei giornalisti. Una pratica formalmente proibita all’inizio di quest’anno dal ministro della Giustizia Merrick Garland (salvo limitate eccezioni): un provvedimento che ha di fatto annullato le politiche messe in pratica da quel dipartimento. La pratica, insomma, era nota: ma l’uso dei database rivelato da Rambo è invece una novità di cui non si sapeva nulla. Libano. I giornalisti sotto attacco sono stati oltre 100 in due anni. Tra loro anche Nada Homsi di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2021 Da due anni i giornalisti libanesi sono sempre più sotto attacco da parte di attori statali e non statali. Secondo SKeyes (il Centro Samir Kassir Eyes per la libertà di stampa e di cultura), dall’ottobre 2019 sono stati registrati oltre 100 casi. L’ultimo caso è quello di Radwan Murtada, del quotidiano Al-Akhbar, che il 26 novembre è stato condannato a 13 mesi di carcere per offesa alle forze armate. Ma la storia che voglio raccontarvi questa settimana riguarda Nada Homsi, una freelance statunitense che lavora per varie testate arabe e internazionali. È stata arrestata il 16 novembre ed è tuttora in stato di detenzione. Della sua vicenda si stanno interessando Human Rigths Watch e Amnesty International. Secondo quanto riferito dall’avvocata Diala Chehade, che ha assunto la sua difesa, Nada Homsi si è vista irrompere in casa da agenti della Sicurezza generale privi di mandato giudiziario. Dopo il ritrovamento di una piccola quantità di cannabis, gli agenti hanno fatto una telefonata in procura e hanno arrestato la giornalista e il marito, sostenendo vagamente di avere prove contro di lei basate su informazioni d’intelligence. Di quali prove d’intelligence si tratti, non è dato saperlo. Ufficialmente, Nada Homsi è accusata di consumo di droga. Per i primi sei giorni dopo l’arresto, Nadia Homsi non ha potuto contattare avvocati né familiari. Quando ha insistito per essere difesa, le è stato risposto che “qui alla Sicurezza generale non funziona così”. Il 25 novembre la procura ha ordinato la scarcerazione ma la Sicurezza generale ha ignorato l’ordine emettendo un decreto di espulsione perché la giornalista non avrebbe il permesso di lavorare in Libano. Il 1° dicembre Amnesty International e Human Rights Watch hanno scritto al capo della Sicurezza generale, il generale Abbas Ibrahim, sollecitando il rilascio di Nadia Homsi e indagini sull’operato dei suoi sottoposti. Non c’è stata ancora risposta. *Portavoce di Amnesty International Italia