La svolta delle carceri. Chi sconta la pena all’esterno supera il numero dei reclusi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 dicembre 2021 Tra i sette provvedimenti di clemenza firmati nei giorni scorsi dal presidente della Repubblica - probabilmente gli ultimi del suo settennato - ci sono tre grazie parziali che hanno ridotto le pene di circa un anno ad altrettanti detenuti, i quali potranno così finire di scontare le rispettive condanne fuori dal carcere. Entrando nel sistema della “esecuzione penale esterna”, i cui numeri hanno superato quelli della popolazione penitenziaria. A fronte di 54.593 reclusi (dati aggiornati al 30 novembre) di cui il 30 per cento in attesa di giudizio definitivo, ci sono (rilevazione del 31 ottobre) 67.792 persone che usufruiscono di misure alternative o sostitutive della pena detentiva, o della “messa alla prova” che sospende il processo. In sostanza, ci sono più imputati e condannati fuori che dentro le prigioni; un modo per allentare la morsa del sovraffollamento carcerario ma - soprattutto - per applicare la Costituzione che, ricorda spesso la ministra della Giustizia Marta Cartabia, “non parla di carcere ma di valenza rieducativa della pena”. E aprire le porte dei penitenziari favorisce il recupero delle persone più che tenerle chiuse. Lo dimostrano non solo i numeri dell’esecuzione esterna, ma anche delle revoche per violazione delle prescrizioni o altri motivi: poche e in costante diminuzione. I dati - All’interno della popolazione non detenuta, la quota maggiore (30.591 persone, poco meno della metà) è quella di chi sconta la pena con misure alternative: affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà. Si tratta per lo più di affidamenti in prova (18.612) che per due terzi (11.731) hanno evitato il carcere. Sono condannati a pene inferiori ai quattro anni (limite previsto dalla legge per accedere a questa misura); gli altri (6.881) hanno invece trascorso la prima parte in cella o ai domiciliari e, giunti sulla soglia residua dei quattro anni sono potuti uscire. La maggior parte delle sentenze scontate in questo modo riguarda reati contro il patrimonio (29 per cento) e contro l’incolumità pubblica (16,3 per cento); solo l’8,3 per cento è relativo a delitti contro la persona, e ancor meno (3,8 per cento) contro la famiglia, la pubblica morale e il buon costume. Il dieci per cento di questa categoria comprende le donne: una quota molto più alta della percentuale di detenute rispetto ai maschi, ferma al 4 per cento. Facendo una distinzione per nazionalità si scopre che il 16 per cento sono cittadini stranieri, che invece rappresentano più del 30 per cento della popolazione detenuta. Ciò significa che per i non italiani c’è una maggiore oggettiva difficoltà a evitare il carcere. La seconda grande fetta dell’esecuzione esterna è quella della “messa alla prova”, composta da 23.888 persone. Si tratta di un percorso riparatorio e risarcitorio consentito a imputati di reati di scarsa entità che sospende il processo e, se va a buon fine, estingue il reato. In questo modo le persone possono ricominciare a vivere senza passare da una condanna, quindi senza ipoteche penali. Si tratta di provvedimenti che hanno visto una crescita esponenziale negli ultimi anni, passando dai 511 del 2014 ai 23.492 nel 2017 fino al picco di 34.931 nel 2020, e che per la metà riguardano persone con meno di quarant’anni. È dunque ai più giovani che si cerca di evitare di entrare nel circuito penale, e fra loro il reato più frequente nel quale sono incorsi riguarda violazioni del codice della strada. Quanto alle tipologie di lavoro svolte, per il 74 per cento sono impieghi “in attività socio-assistenziali e socio-sanitarie”, e l’analisi dei dati fa ritenere agli esperti del ministero della Giustizia che “la messa alla prova può effettivamente svolgere una funzione di prevenzione della devianza”. Le convenzioni - Anche per questo la Guardasigilli Cartabia sta dando ulteriore impulso ad accordi e convenzioni con tutti gli enti disponibili per incrementare questa misura; da ultimo quello con il ministero della Cultura per cento posti distribuiti in tutta Italia tra musei, parchi archeologici e biblioteche. Tra chi invece è passato da processi e condanne, ci sono 8.685 persone ammesse a sanzioni sostitutive della pena accordate dal giudice al momento del verdetto (quasi tutte per violazioni del codice della strada, e una minima quota per droga). Quella più importante comprende i “lavori socialmente utili”, prestazioni gratuite solitamente presso enti pubblici o associazioni di volontariato. Infine, nella popolazione dei condannati non detenuti vanno conteggiati anche i 4.516 in libertà vigilata, e i 112 che usufruiscono della semidetenzione o della libertà controllata. Riforma del Csm, l’attesa è finita? di Giulia Merlo Il Domani, 12 dicembre 2021 L’attesa sembra essere finita: gli emendamenti ministeriali al ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario sembrano essere in arrivo. In attesa di vedere le implicazioni politiche, io ho analizzato le ragioni del ritardo. Il momento della riforma dell’ordinamento giudiziario è arrivato. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha incontrato giovedì 9 dicembre la maggioranza, per anticipare i contenuti dell’emendamento ministeriale. Il testo non è ancora stato mostrato per iscritto, ma il dibattito ora è aperto sia con le forze politiche che con i vertici della magistratura. Csm: si introducono delle incompatibilità, in particolare tra i membri della sezione disciplinare e le commissioni che decidono su incarichi direttivi, trasferimenti d’ufficio e valutazioni di professionalità. Nell’ufficio studi, invece, potranno entrare anche componenti esterni come avvocati, professori e dirigenti, previo superamento di un concorso. Incarichi direttivi: gli atti saranno pubblici, l’assegnazione degli incarichi avverrà in base all’ordine temporale di vacanza (salvo deroghe per motivi giustificati) e questo dovrebbe evitare le cosiddette “nomine a pacchetto” che hanno favorito la spartizione correntizia. I candidati verranno scelti sulla base del curriculum, con audizione obbligatoria. Verranno individuati i criteri di valutazione, tra i quali l’anzianità, per valutare le capacità anche organizzative dei candidati. Valutazioni di professionalità: anche avvocati e professori faranno parte dei consigli giudiziari; il giudizio positivo, che prima non era articolato, avrà tre giudizi (discreto, buono e ottimo). Politica: non sarà più possibile per i magistrati avere incarichi elettivi e politici (come nella polemica della settimana, sul caso di Catello Maresca a Napoli). I magistrati non potranno candidarsi nel collegio in cui è compreso in tutto o in parte l’ufficio giudiziario in cui hanno prestato servizio negli ultimi tre anni. All’atto dell’accettazione della candidatura dovranno essere posti in aspettativa senza assegni. Chi si candida in Parlamento potrà tornare a indossare la toga, anche se solo a certe condizioni. Fuori ruolo: si va verso un taglio del loro numero massimo consentito (oggi 200), sia della durata di questa esperienza (non piu’ di 10 anni in tutta la carriera). L’ipotesi del maggioritario L’argomento più controverso del ddl, però, è il sistema elettorale del Csm. Sulla newsletter abbiamo ospitato il parere di buona parte dei gruppi associativi e proseguiremo nelle prossime settimane (qui i pareri dei segretari di Magistratura indipendente; Magistratura democratica e Unicost). La proposta della ministra Cartabia, però, sembra meno innovativa rispetto a quella contenuta nella relazione della commissione Luciani, che prevedeva il sistema del voto unico trasferibile. L’ipotesi della ministra è la seguente: sistema maggioritario con alcuni correttivi per dare rappresentanza ai gruppi minoritari e favorire la parità di genere nelle candidature. Quindi: collegi binominali, turno unico, unica preferenza; almeno 6 candidature; sorteggio nel caso in cui non sia assicurata parità di genere. Incerto è anche l’aumento del numero dei consiglieri togati e questo incide sui collegi. Nel caso in cui il numero non aumenti: collegio unico nazionale per i 2 componenti della giurisdizione di legittimità; 2 collegi per la designazione dei 4 magistrati requirenti; 4 collegi per la designazione dei magistrati giudicanti. 2 seggi assegnati ai migliori terzi classificati. Con il correttivo maggioritario 2 seggi da assegnare ai migliori terzi. Tutti i magistrati votano per tutti. Nel caso in cui i consiglieri aumentino: collegio unico nazionale per i 2 componenti della giurisdizione di legittimità; 2 collegi per la designazione dei 5 magistrati requirenti, con recupero del migliore terzo classificato; 4 o 5 collegi per la designazione dei magistrati giudicanti, con integrazione dei tre migliori terzi classificati. Correttivo del maggioritario, 6 o 4 seggi da assegnare ai migliori terzi. Insomma, il sistema si preannuncia meno innovativo di come si pensava e già sono arrivate le prime critiche. I togati del Csm Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita, di Autonomia e Indipendenza, parlano di “trionfo del correntismo”. Il caso Maresca - A margine del dibattito sulla riforma del Csm, un’altra polemica è sorta. L’ex candidato sindaco di Napoli per il centrodestra, il magistrato Catello Maresca, è tornato a vestire la toga pur rimanendo leader dell’opposizione in comune. Il via libera è arrivato dal Csm, che si è spaccato a metà (11 a favore, 10 astenuti) e rientrerà in servizio lavorando presso la corte d’appello di Campobasso. “È inaccettabile che un magistrato in servizio sia leader dell’opposizione al governo della città in cui vive”, è stato il commento del togato di Area Giuseppe Cascini, parlando di “colpevole inerzia del legislatore”. Maresca ha risposto alle critiche, dicendo che “Non comprendo francamente questo accanimento nei miei confronti. E non sono disponibile a diventare il capro espiatorio di contese altre, che non accetto vengano compiute sul mio nome e sulla mia onorabilità personale e professionale”. Ha poi elencato gli altri casi in cui è successo: Gennaro Marasca, assessore nella giunta regionale di Bassolino, Nicola Marrone sindaco di Portici, Nicola Graziano consigliere ad Aversa e Mariano Brianda consigliere a Sassari, “tra i più recenti identici casi a me noti”. “Non si può parlare di indipendenza della magistratura a senso unico - conclude - o solo quando conviene ad una certa parte politica”. Il crimine informatico e il brutto 2022 che ci aspetta di Arturo Di Corinto La Repubblica, 12 dicembre 2021 Secondo le maggiori aziende mondiali di cybersecurity dobbiamo aspettarci attacchi ai pagamenti digitali, a vaccini e telemedicina, agli apparati industriali e agli sport online. Dove ci sono dati, ci sono violazioni dei dati, poiché con più persone online, nascono nuove vulnerabilità: questa tesi, ripetuta più volte all’Internet governance Forum di Katowice (in Polonia), può apparire banale, ma non lo è se si tiene conto del fatto che anche se 3 miliardi di persone non hanno ancora accesso alla Rete, durante la pandemia il numero di utenti connessi online è aumentato di 800 milioni. E questo è solo uno dei motivi per cui si prevede che il costo delle violazioni dei dati aumenterà ogni anno dell’11%, da 3 trilioni di dollari del 2019 agli oltre 6 stimati per il 2024. L’allarme venuto dal convegno 2021 dell’Igf ha avuto eco nelle dichiarazioni di Christine Lagarde alla conferenza annuale del Comitato europeo per il Rischio sistemico: secondo la presidente della Banca centrale Europea, “durante la pandemia le istituzioni finanziarie hanno dovuto adattare la loro infrastruttura tecnologica a un improvviso aumento del telelavoro e delle relazioni remote con i clienti, il che aumenta l’efficienza, ma anche la vulnerabilità”. Tra il 2019 e il 2020, il numero di incidenti informatici segnalati alla Bce è aumentato del 54% e molti erano di origine dolosa: secondo Lagarde, gli attacchi e i problemi informatici sono diventati più frequenti e pericolosi e quindi un problema informatico può trasformarsi rapidamente da un’interruzione operativa a un problema per il sistema finanziario. Ci sono circa 22mila istituzioni finanziarie nell’Unione europea e la digitalizzazione ha reso più stretti i legami tra loro e i fornitori di servizi IT. Le tendenze emergenti - Proprio su queste tendenze si sono incentrate le previsioni delle maggiori aziende di cybersecurity mondiali: secondo Check Point Software, i cyber-attacchi saranno sempre più utilizzati come atti per destabilizzare le attività a livello globale. Non solo: secondo l’azienda israeliana, nel 2022 i criminali continueranno a sfruttare l’effetto Covid per diffondere fake news e realizzare truffe attraverso il phishing, usando il ransomware e attaccando i portafogli e le transazioni digitali. “Nel 2021, i criminali informatici hanno adattato la loro strategia di attacco per sfruttare gli obblighi dei vaccini, delle elezioni e del passaggio al lavoro ibrido, per prendere di mira le supply chain e le reti delle organizzazioni con l’obiettivo di colpire in modo mirato”, ha spiegato la vicepresidente Maya Horowitz. L’azienda americana Fortinet è andata più nel dettaglio, denunciando in maniera puntuale i prossimi rischi: 1) Il ransomware diventerà più distruttivo: insieme a queste tecnica basata di sequestro dei dati è stato osservato come i criminali informatici usino il Distributed denial-of-service (DDoS), per ingannare chi si difende e creare pressione da parte del pubblico e dei clienti. 2) I criminali informatici utilizzeranno l’intelligenza artificiale per perfezionare gli attacchi di social engineering con l’impersonificazione in tempo reale di manager e decisori grazie ai deepfake audio e video. 3) Aumenteranno gli attacchi alla supply chain, ai sistemi informatici di back-end, ai dispositivi di Operation Technology e alle supply chain in generale che girano su piattaforme Gnu/Linux. 4) Il crimine informatico prenderà di mira la connettività satellitare che serve alla fornitura di servizi critici a sedi lontane, uffici delocalizzati, oleodotti, gasdotti, e compagnie aeree. 5) Attacchi ai portafogli digitali: i wallet individuali saranno un bersaglio per le aziende che li usano come strumento di pagamento. È probabile che i malware saranno progettati specificamente per prosciugare i conti e prendere di mira le credenziali che vi sono memorizzate. 6) Gli sport digitali saranno un bersaglio per attacchi DDoS, ransomware e furti finanziari, poiché richiedono una connettività costante e sono spesso giocati da reti domestiche poco protette o col wifi aperto. 7) I cybercriminali proveranno a incrementare i ricavi affittando malware. Tenere in ostaggio sistemi e infrastrutture critiche per un riscatto sarà sempre più remunerativo per loro, con conseguenze sulla vita e sulla sicurezza degli individui se prenderanno di mira le tecnologie su cui si basano le utilities, come acqua, energia e rifiuti Attacco alla sanità - Secondo la russa Kaspersky, che ha evidenziato i rischi degli attacchi ai sistemi industriali e IoT, la digitalizzazione del settore sanitario comporterà maggiori violazioni dei dati. Se finora i cybercriminali hanno cercato di trarre profitto dal vaccino e gli ospedali sono stati attaccati da ransomware, mettendo in pericolo la vita dei pazienti, il prossimo anno “questa tendenza aumenterà, poiché una quantità sempre maggiore di dati dei pazienti si sta spostando online e gli operatori sanitari continuano ad adottare servizi sanitari digitali come la telemedicina”. Il target saranno i dispositivi indossabili e le applicazioni mediche in fase di sviluppo, insieme ad app fraudolente. Infine, con l’entrata in vigore di regole più stringenti per viaggiare e socializzare in molti Paesi, il mercato dei Green Pass e dei certificati di vaccinazione falsi continuerà a crescere. Lo scenario è preoccupante e con l’evoluzione della natura degli attacchi informatici, la sicurezza informatica deve adattarsi di conseguenza. Nonostante le differenze di focus, sono 4 i punti convergenti nelle diverse analisi condotte dagli esperti presenti all’Internet United di Katowice: il primo è che gli sviluppatori di sistemi devono inventare dispositivi più sicuri; il secondo che gli operatori devono sfruttare le IA per sviluppare nuove tecniche di sicurezza per proteggere reti e piattaforme da truffatori e aggressori; il terzo è che i servizi devono essere progettati per funzionare con il minimo di informazioni sull’utente; infine, che i governi devono lavorare di concerto verso misure comunemente accettate, per proteggere la sfera informatica senza frammentarla. Nessun colpevole per la strage del Trivulzio, quel trasferimento nella Rsa che provocò 103 morti di Andrea Tornago L’Espresso, 12 dicembre 2021 Chiesta l’archiviazione dell’inchiesta sulla scelta di spostare i pazienti dall’ospedale di Sesto San Giovanni alla casa di riposo per anziani, a marzo del 2020. Il medico che denunciò i rischi di propagare il contagio è stato licenziato. I familiari delle vittime: i nostri cari in balia del virus. Il 13 marzo 2020 decine di ambulanze attraversano Milano dalla periferia nord fino all’elegante quartiere Washington. Destinazione Pio Albergo Trivulzio, la storica casa di riposo milanese. Trasportano una ventina pazienti dimessi dall’ospedale di Sesto San Giovanni, ormai pieno di malati Covid come tutti i nosocomi lombardi. Nessuno ha fatto loro un tampone, merce rara in quei giorni. Ma occorre comunque liberare posti letto nei reparti al più presto. E una delibera della giunta regionale ha appena reso possibili i trasferimenti di pazienti dagli ospedali verso altre strutture assistenziali tra cui le Rsa: la scelta più criticata della giunta lombarda, i malati e gli anziani uniti in un abbraccio spesso mortale. L’Italia è da poco entrata in lockdown. Dieci giorni dopo, nella casa di cura milanese partono i contagi culminati in una strage: almeno 103 morti considerati “correlati al Covid-19” dai periti della Procura di Milano, nel periodo che va da gennaio a metà aprile del 2020. La vicenda è ricostruita nel dettaglio dall’inchiesta milanese per epidemia e omicidio colposo al Pio Albergo Trivulzio di cui i pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi hanno chiesto l’archiviazione lo scorso ottobre: impossibile, secondo i magistrati, provare il nesso causale tra le condotte dei vertici dell’istituto e le morti degli anziani. Ma nelle carte emerge anche la storia un medico che a tutto questo si oppose, pagando un conto salato: il dottor Carlo Montaperto, direttore medico di presidio dell’ospedale di Sesto, all’epoca presidente dei primari lombardi. L’unico dottore che si mise di traverso per cercare di fermare i trasferimenti, come racconta lui stesso agli investigatori della Guardia di finanza il 5 ottobre 2020, ricostruendo quei momenti drammatici: “Da mie disposizioni nessuno doveva uscire dall’ospedale - dichiara il direttore medico nel verbale - poiché nessun paziente era stato testato e quindi non c’era alcuna evidenza della loro negatività al tampone”. Ma le dimissioni di massa furono avviate ugualmente, ordinate “con un messaggio Whatsapp” da un altro dirigente ospedaliero. “Non avrei mai potuto autorizzare quei trasferimenti perché si trattava di pazienti non stabilizzati, che non potevano essere trasportati - spiega a L’Espresso il dottor Montaperto -. In seguito mi è stato riferito che la maggior parte di loro, nel giro di una settimana o dieci giorni, sarebbe morta”. Un paio di mesi dopo quel “no”, per il primario di Sesto cominciano i guai. Il 20 maggio scopre che è stato aperto un procedimento disciplinare contro di lui in seguito a un sopralluogo effettuato nei reparti il giorno dopo i trasferimenti dei pazienti al Trivulzio: l’azienda per cui lavora lo accusa di una serie di omissioni in relazione all’emergenza Covid. Contestazioni che gli costeranno il licenziamento, da lui ritenuto ingiusto e contro cui si sta opponendo in tutte le sedi. Ora, da presidente lombardo dell’associazione nazionale primari ospedalieri, è diventato medico di famiglia in un paesino dell’hinterland milanese in attesa del verdetto dei giudici. “Sono stato raggiunto da una serie di accuse false e pretestuose - prosegue Montaperto - come sono convinto riuscirò a dimostrare nei giudizi. Ma era giusto opporsi a quelle dimissioni, e i medici che avevano in cura quei malati erano d’accordo con me: sulle cartelle cliniche dei loro pazienti hanno scritto ‘Trasferito contro parere medico su ordine del primario’. Fu un episodio drammatico”. L’arrivo dei pazienti da Sesto San Giovanni è considerata dai pm di Milano, che hanno cercato di ricostruire l’ingresso del contagio nel Pio Albergo Trivulzio, una “circostanza suggestiva”. Nella Rsa milanese infatti l’epidemia non è partita all’inizio di marzo, come nel resto della Lombardia, ma verso la fine del mese. “Si può osservare uno sfasamento di circa 15 giorni tra l’inizio dell’incremento di mortalità nella popolazione milanese generale - scrivono i periti dei pm - e l’incremento dei decessi Covid correlati entro la struttura”. Gli esperti sottolineano pertanto che “si deve tener conto del trasferimento nella seconda settimana di marzo di 17 pazienti provenienti dall’ospedale di Sesto San Giovanni dichiarati non Covid (sembra senza aver eseguito il tampone) tre dei quali sono tuttavia risultati successivamente positivi”. Tuttavia le cause dello sfasamento temporale non sono identificabili “con sufficiente precisione e ragionevole certezza”. Per questa ed altre ragioni il fascicolo, che vede indagato l’allora direttore generale Giuseppe Calicchio, secondo gli inquirenti va archiviato. Sul suo conto, nonostante la iniziale “sottovalutazione del rischio” e l’ottica volta “a occultare più che a risolvere le difficoltà”, non è emersa “alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari” in relazione ai decessi. Non ci stanno i legali dei famigliari delle vittime, secondo i quali “buona parte degli elementi che dimostrano la necessità di celebrare un processo emergono già dalla richiesta di archiviazione: dalla ritardata chiusura delle visite esterne alla ritardata, omessa, incompleta fornitura di dispositivi di protezione, tracciamento dei contagi e isolamento dei positivi, formazione dei dipendenti”. Secondo gli avvocati Luca Santa Maria e Luigi Santangelo meriterebbero un approfondimento processuale anche “il divieto, pare inizialmente impartito dalla dirigenza del Pat sotto minaccia di sanzioni disciplinari, di utilizzo di Dpi autonomamente procurati dai dipendenti” e la prescrizione “di utilizzare la stessa mascherina per più giorni”. Condotte che però, secondo i pubblici ministeri, si inseriscono in un più ampio contesto di impreparazione nazionale, e nella generale mancanza di procedure e di mezzi per affrontare la pandemia. I famigliari delle vittime, che si sono costituti nel comitato Felicita, chiedono di accertare la verità sulle morti al Trivulzio e di non dimenticare “un’umanità perduta nella maniera più straziante, nella più totale solitudine, senza comprendere quanto stava accadendo, senza affetti e senza un ultimo saluto”. Piazza Fontana e quella verità nascosta per troppo tempo di Enrico Deaglio Il Domani, 12 dicembre 2021 Cinquantadue anni dopo. La bomba esplosa a Milano il 12 dicembre 1969, all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura, ha colpito il nostro paese per decenni. Oggi di quella strage sappiamo tutto. Ma l’Italia del fascismo che comandava il Viminale e dei servizi segreti di cui tutti avevano molta paura è morta e sepolta? Vive solo nella nostra nostalgia? Potrebbe ripetersi? “Il passato non è morto e sepolto. In realtà non è neppure passato”, la famosa citazione di William Faulkner, che si riferiva al suo sud, alla nostalgia per un passato travolto dalla guerra civile, che il suo sud aveva perso, si presta al 52esimo anniversario che ci apprestiamo a ricordare, quello della ormai mitica “strage di piazza Fontana”. Quella bomba - ai tempi inaudita - ma lo sarebbe anche oggi? - che picchiò l’Italia come un martello per decenni, trasformandola in peggio. Erano tempi di un’Italia feroce che si inventò i ballerini anarchici affetti da zoppia, i ferrovieri anarchici che si suicidano gettandosi dai piani alti della questura di Milano mentre gli onesti questurini cercano di salvarli. Era l’Italia che accusava un editore comunista di finanziare una rivoluzione filo cubana, e nello stesso tempo andava ad Atene a farsi spiegare come si organizza un colpo di stato. Quell’Italia del fascismo mai morto che comandava il Viminale e i servizi segreti e di cui tutti, governanti democristiani per primi, avevano molta paura. Tutto questo non è morto e sepolto. Vive solo, alla Faulkner, nel nostro ricordo imperfetto, nella nostra nostalgia? Potrebbe ripetersi? Suvvia, andiamo. No, siamo ormai vaccinati. Ma “vaccinati” è però diventata una parola “divisiva”, di questi tempi. Il generale - Per raccontare quel passato, mi viene in aiuto una notizia di pochi mesi fa, la morte di un vetusto generale italiano, giustamente trattata dai media come la fine della “carcassa polverosa” del cane Bendicò, testimone della grandezza e decadenza del principe di Salina, ovvero una cosa inutile. Mi riferisco alla morte, a quasi cent’anni, di uno degli ultimi protagonisti di quel passato feroce, che risponde al nome di Gian Adelio Maletti, generale dell’esercito ed ex direttore del reparto D del Sid, il nostro controspionaggio, che dal 1980 viveva in una sorta d’esilio dorato in Sud Africa, dopo aver subito una (mite) condanna legata appunto alla strage di piazza Fontana. Per che cosa era stato condannato? Per avere protetto i veri autori della strage - persone dei servizi e membri di un gruppo nazifascista - fornendo loro documenti falsi, la loro sistemazione all’estero, e naturalmente garantendo loro lo stipendio. Maletti era stato un uomo dall’enorme potere, e non era una figura banale: piemontese, laureato all’accademia militare di Modena, figlio di un generale dell’esercito che aveva fatto carriera con le guerre di Benito Mussolini - e ancora legato a quel mondo e a quel modo di pensare - divenne un alto dirigente dei nostri servizi segreti, a cui faceva riferimento una parte importante della nostra industria, in particolare la Montedison (l’Eni, invece, faceva riferimento al generale Vito Miceli, anche lui simpatizzante fascista, che di Maletti era il concorrente). Maletti non era una spia, era una super spia: alto, biondo, occhi azzurri, glaciale, dinamico, lo troviamo, per esempio, ad Atene nel 1967, a fare da chaperon a un gruppo di nazifascisti italiani venuti ad apprendere le tecniche di un colpo di stato. C’era una certa simpatia all’idea del colpo di stato, in quegli anni, in Italia, specie dopo che, prima un movimento di studenti, poi un colossale movimento di operai (“l’autunno caldo”) rischiavano di rendere l’Italia quel paese moderno, laico e progressista; cosa che allora molta Italia certo non era. Occorre anche dire che, se questo fosse avvenuto, non sarebbe stato chissà poi quale sorpresa. A quel tempo mezza Europa era fascista: dal Portogallo alla Spagna alla Grecia, e pure la Francia di Charles de Gaulle aveva tentennato, spaventata dalle conseguenze della sconfitta in Algeria e poi dal maggio del ‘68. La bomba - In questo clima scoppiò la bomba. Un evento mostruoso: nel centro di Milano, a pochi giorni dal Natale, vittime designate agricoltori, sensali di granaglie e di bestiame che, come da tradizione si trovavano alla Banca nazionale dell’agricoltura (terzo istituto di credito nazionale, con un management e dei clienti di orientamento nettamente fascista) il venerdì pomeriggio per fare i loro affari. Il generale Maletti, nel corso dei decenni, fu considerato il depositario principale dei segreti di quell’epoca, ma non parlò mai. E la giustizia presto si stancò di lui, lasciandolo indisturbato nel suo “esilio” a Johannesburg. Aveva però una sorpresa, il generale, che conto di servirvi alla fine di questo articolo. Ma prima, un breve riassunto di come andarono le cose, che si dividono in due - due passati, direbbe Faulkner, nessuno dei due morto e sepolto, e nemmeno passato. La prima “narrazione” - Il primo è semplice, è la “storia ufficiale”: la bomba l’hanno messa gli anarchici, lo annuncia il questore di Milano in una conferenza stampa. È opera di un gruppo finanziato dall’editore Giangiacomo Feltrinelli. Segue vasta retata. Dopo 48 ore spunta un supertestimone, il taxista Cornelio Rolandi che riconosce in tale Pietro Valpreda, anarchico, di professione ballerino, l’uomo che lui stesso ha trasportato sulla sua Fiat 600 multipla, per 110 metri (avete capito bene: 110 metri) da una parte all’altra di piazza Fontana. Aveva con sé una borsa. Il taxista lo ha riconosciuto in una foto che gli ha mostrato il questore. Tanto basta: Valpreda viene catturato addirittura dentro il palazzo di giustizia di Milano. Invece di fuggire, si era premurato di recarsi a parlare con un giudice che lo aveva convocato per chiedergli conto di un volantino contro i preti, “vilipendio alla religione”. Valpreda, che era sì anarchico, ma anche timoroso della legge, era partito da Roma dove abitava, con la sua Fiat 500, aveva dormito in macchina, si era beccato l’influenza (mezza Italia era a letto per l’asiatica) pur di essere presente dal giudice. E lì, davanti al suo ufficio, lo fermano. Mica la polizia, gente in borghese venuta da Roma. Lui e il taxista vengono portati in fretta e furia a Roma per un confronto. E perché non farlo a Milano? Boh. Una brillante operazione di polizia, di cui gli italiani dovrebbero essere grati. La notte del 16 dicembre - Nella notte del 16 dicembre, succede però un fatto strano. Un uomo viene trovato agonizzante nel cortile della questura di Milano. Si chiama Giuseppe Pinelli, 40 anni, ferroviere, sindacalista, animatore di circoli anarchici, sposato con due figlie piccole. Il questore di Milano, Marcello Guida, convoca i giornalisti nella notte e dichiara: “Si è suicidato. Era fortemente indiziato, ed aveva appreso della confessione di Valpreda”. Per il questore il suicidio di Pinelli è la prova della bontà delle indagini che hanno portato a Valpreda. Poco prima, in diretta televisiva Rai, allora a canale unico, intervistato da un giovanissimo Bruno Vespa, il questore Parlato aveva annunciato che il “mostro” che aveva messo la bomba era Valpreda. La telecamera aveva indugiato su una squadra di funzionari, “una fruttuosa collaborazione tra polizia e carabinieri”. A Roma, in un “drammatico confronto” il taxista ha dunque riconosciuto Valpreda. Se non si fosse “suicidato” Pinelli sarebbe stato arrestato pure lui. Peccato che si sia sottratto alla giustizia. Praticamente nessuno mise in dubbio questa versione dei fatti. Il caso era chiuso. Il novanta per cento dell’Italia (ma forse qui esagero: c’era anche allora un’Italia profonda e buona) era convinto che quella fosse la verità; era contento di avere una polizia efficiente; era assolutamente certo che, se un pericolo corresse la nostra democrazia, questo veniva dall’estrema sinistra, dall’anarchia, dai liberi costumi che si erano instaurati, da quell’assurdo alzare la testa delle classi subalterne. Era l’Italia che un giovane cantautore romano, Paolo Pietrangeli, aveva messo in berlina in una canzone che i ragazzi cantavano. Era l’Italia delle Contesse, scandalizzate che “l’operaio vuole il figlio dottore”. E siccome la dicevano, in coro, governo, magistratura, Rai tv e Corriere della Sera, non poteva che essere la verità. Di altro non c’era molto, tranne le scritte sui muri. Gli arresti del 1972 - Così passò il 1969, e poi il 1970, e poi il 1971, e poi il 1972, quando per la bomba di Milano vennero arrestati (non da parte della procura di Milano, né da parte di quella di Roma a cui il processo era stato incredibilmente trasferito) due apparentemente sconosciuti appartenenti a Ordine nuovo, tali Franco Freda e Giovanni Ventura, figli del profondo Veneto democristiano e aggressivamente nazifascisti. Beh, che c’è di strano? Spiegò la magistratura che erano colpevoli tutti due, gli anarchici e i nazifascisti, che Valpreda pensava di mettere una bomba per finta, mentre gli altri mettevano quella vera; o che c’erano state due bombe, o che i nazi e gli anarchici erano in realtà la stessa cosa. Insomma, una serie di panzane che ancora oggi si fa fatica a credere come potessero essere credute. La lentissima scoperta di un’altra verità - L’altra storia si venne a sapere nel tempo, superando ipocrisie e non pochi pericoli. È la storia di un lungo piano, volto a riportare l’Italia al regime che le era più consono: il fascismo. È animato da una vasta nomenclatura dello stato, nelle stesse forze armate e nei corpi di polizia e dei carabinieri, che alligna dentro il partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, ed è sostenuto da una parte dell’industria italiana, purtroppo numerosa. Degli agrari, manco a parlarne, quelli sono rimasti gli stessi del 1922. L’”evento” di Milano era stato lungamente preparato, allo scopo di creare un clima di paura su cui instaurare un governo autoritario. Allo scopo erano stati finanziati due gruppi di tendenza nazifascista, Ordine nuovo, fondato da Pino Rauti, e Avanguardia nazionale diretto da Stefano Delle Chiaie. Il loro compito era di preparare il terreno per un colpo di stato. Ordine nuovo, nella sua filiale veneta - la più tragicamente feroce e motivata nel razzismo e nell’antisemitismo - fu il gruppo più svelto a passare all’azione. Il 12 dicembre si accollarono il compito della bomba più grande, quella di Milano, mentre ad An lasciarono le tre bombe di Roma. Il loro finanziatore aveva un nome: divisione Affari riservati del ministero dell’Interno, una sorta di “super-polizia” e di servizio segreto civile, dotato di considerevoli somme per azioni di intelligence che si incaricò di gestire l’operazione. Valpreda e Pinelli, come si verrà a sapere trent’anni dopo, erano stati individuati già all’inizio del 1969, come i colpevoli designati. Le prove generali dell’operazione furono gli attentati alla Fiera di Milano il 25 aprile 1969 e le bombe ai treni nell’agosto dello stesso anno. Per ambedue gli attacchi, portati a termine personalmente dai dirigenti di Ordine nuovo Franco Freda e Giovanni Ventura, gli Affari riservati e la questura di Milano “scannerizzarono” un gruppo di anarchici (che vennero arrestati) e il ferroviere Pinelli, il cui telefono venne messo sotto controllo. Come spesso succede nei grandi attentati, qualcosa andò storto. Una seconda bomba, alla banca Commerciale di Milano, venne scoperta prima che esplodesse. E soprattutto, alla questura di Milano, il colpevole numero due gli morì tra le mani. Ma i servizi erano efficienti. La borsa della seconda bomba fu fatta brillare, distruggendo così le prove che conteneva; e per quanto riguarda Pinelli, era suicidio. Negli stessi giorni una commessa di un negozio di Padova dove erano state acquistate le borse dei due attentati di Milano, andò dalla polizia, che non le diede retta. E a Treviso, un giovane professore di francese, Guido Lorenzon, andò, piuttosto sconvolto, da un avvocato per dirgli che Giovanni Ventura (Ordine nuovo) gli aveva rivelato particolari e dettagli degli attentati, che lui stesso aveva organizzato. Non venne creduto, per buoni due anni e mezzo. La procura di Milano ben volentieri accettò di spogliarsi dell’indagine. La questura, per la morte di Pinelli, si dichiarò completamente innocente; e venne creduta. La stessa questura, poi, sospettata di avere avuto a che fare con la morte di Pinelli, divenne martire quando venne ucciso il commissario Luigi Calabresi (1972) che era stato messo sotto processo per omicidio dalla stessa procura di Milano, in un suo breve momento di integrità. E a provare che ci fosse davvero una pista anarchica provvidero di nuovo gli Affari riservati, armando la mano di uno psicopatico, l’anarchico Gianfranco Bertoli, che gettò una bomba proprio dentro la questura (1973) mancando, di non molto, il suo obiettivo, il ministro dell’Interno Mariano Rumor, e comunque lasciando sul terreno quattro morti e 52 feriti. L’anno dopo, bontà del ministro degli interni dell’epoca, Paolo Emilio Taviani, gli Affari riservati vennero sciolti; ma dovevano passare ancora vent’anni prima che il loro ruolo nella strage di Milano si delineasse meglio. Riaprire i fascicoli - Successe che, dopo una generazione di giudici molto compiacenti, qualcuno più giovane, riprendesse interesse alla bomba e al caso Pinelli; sulla bomba la procura era stata straordinariamente inetta; su Pinelli il caso era stato chiuso nel 1975 quando il giudice Gerardo D’Ambrosio - un giudice comunista, poi diventato un eroe di Mani Pulite - aveva sentenziato che la sua morte era stata dovuta a un “malore attivo”. E però avvenne che giudici più giovani vollero riaprire i fascicoli. E interrogarono (giudice Grazia Pradella) le persone rimaste nell’ombra, ovvero quei misteriosi Affari riservati, scoprendo che avevano un capo, tale Federico Umberto D’Amato, all’epoca molto potente e un vicecapo operativo, tale Silvano Russomanno, un ex militare nazista diventato potentissimo manipolatore della stagione del terrore in Italia. Russomanno venne convocato da Pradella. Seccato di essere interrogato da una donna, in uno scatto di arroganza, raccontò di essere stato presente alla morte di Pinelli. E aggiunse che il suo Ufficio era arrivato subito dopo la bomba a Milano - in aereo da Roma, forte di 34 membri - per prendere in mano la situazione. Fisicamente, nella stanza del capo dell’ufficio politico della questura, il dottor Antonino Allegra, con la scrivania di fronte alla sua. Strano: nessuno, di tutti i poliziotti interrogati nel corso degli anni, ne aveva mai parlato. In trent’anni, nessuno aveva visto quei 34 uomini. Tutti ciechi? Tutti distratti? O tutti complici? Nessuno se ne occupò, D’Ambrosio, ormai procuratore, men che meno. E neanche quelli che vennero dopo. Ma visto che siamo alla fine del racconto, è giusto tornare al vecchio generale Maletti. Che non disse mai niente a legioni di magistrati che lo interrogarono, ma che si aprì, avvicinandosi al centenario, a due giovani e bravissimi giornalisti investigativi, Alberto Nerazzini e Andrea Sceresini, che andarono a sentirlo a Johannesburg. Il generale parlò loro per due giorni, qualcosa ammise. Poi, ritornarono da lui e gli chiesero se volesse dare la sua versione, per telefono questa volta, sulla morte di Pinelli. E qui il generale Maletti rispose: “Pinelli si rifiuta di rispondere alle domande. Gli interroganti ricorrono quindi a mezzi più forti e minacciano di buttarlo dalla finestra. Lo strattonano e lo costringono a sedere sul davanzale. A ogni risposta negativa, Pinelli viene spinto un po’ più verso il vuoto. Infine perde l’equilibrio e cade. La morte dell’anarchico non era voluta, tutti i presenti furono colti da sgomento e apprensione. La verità non li avrebbe sottratti da gravi sanzioni penali. Perciò si impegnarono ad avallare, per il bene proprio e delle istituzioni, la tesi del suicidio”. Il generale aggiunse che questa ricostruzione era nota a tutti i vertici dei servizi segreti. Mi hanno raccontato, Nerazzini e Sceresini, che il generale centenario era assolutamente composto quando rivelò ai due giovani il succo del mistero di piazza Fontana, ma che loro - sbobinando il testo registrato si accorsero che il risultato era scadente: disturbi sulla linea; per cui decisero di chiamarlo di nuovo, su Skype. Il generale non fece nessuna difficoltà e ripeté parola per parola quanto aveva già loro detto. E così oggi la sua voce - tranquilla, nitida - la potete ascoltare su YouTube. Fa un certo effetto, credetemi. Fu, in sostanza, il suo testamento; non privo, a mio parere, di una certa nobiltà. Mi sono ricordato di una storia che ho sentito raccontare da Marek Edelman; lui, un ragazzo, era l’unico sopravvissuto dell’insurrezione del ghetto di Varsavia; dopo la guerra, testimoniò al processo contro il generale tedesco Jurgen Stroop, che per vincere sulla rivolta aveva ordinato di radere al suolo il ghetto. Ebbene, quando Edelman entrò in aula, Stroop si alzò, chinò la testa e batte i tacchi in segno di rispetto. E questo, al ragazzo Marek, non dispiacque. Se fossimo stati un paese diverso, Freda, Ventura, D’Amato, Russomanno sarebbero stati arrestati nel giro di 48 ore: ma il governo di allora era molto fragile, se non colluso. Aveva paura di loro. Aldo Moro, che allora era ministro degli Esteri, lo spiegò nei dettagli ai suoi carcerieri. Se avessimo avuto una magistratura coraggiosa e indipendente, lo scempio di giustizia cui abbiamo assistito per mezzo secolo, non sarebbe stato possibile: davvero, bastava poco. E invece si dimostrò inetta, paurosa, incapace. Se avessimo avuto una polizia leale e non mendace “per difendere il bene proprio e delle istituzioni”, idem. E invece andò avanti così. E quindi - visto che si poteva fare - dopo Milano ci fu Brescia e poi ci fu Bologna e poi cominciò la Sicilia e sempre quel fiume continuò a rispondere alla sorgente. Di piazza Fontana ormai si sa tutto: chi, come, perché. C’è persino una pietra d’inciampo, in piazza Fontana, che fa il nome di Ordine nuovo. Il sindaco di Milano ha finalmente dichiarato Pinelli un innocente perseguitato, e il presidente Sergio Mattarella, nel cinquantenario, ha detto parole forti, non solo consolatorie. E questo è un bene, una vittoria dell’opinione pubblica. Di quelli che “non ci hanno mai creduto”; della Milano che col suo “silenzio monumentale” ai funerali in piazza Duomo sventò le tentazioni di golpe; di due generazioni di studenti che per chiedere verità hanno marciato (a partire da quando era pericoloso, e forse non lo sapeva lo studente fuorisede Saverio Saltarelli, ucciso dalla polizia a Milano nel 1970); di alcuni magistrati coraggiosi, isolati e che non hanno fatto carriera; di alcuni giornalisti che non hanno mai smesso di indagare. Dovrebbe essere finita, dunque. Non ci sono più materiali segreti da scoprire. Si sa tutto e si rimane attoniti per come sia stato possibile che tutto questo sia successo, senza che nessuno dei responsabili abbia mai, nemmeno, chiesto scusa. È solo un grande vuoto, il nostro passato faulkneriano. Se fossi il nuovo presidente della Repubblica, nominerei senatrice a vita Licia Pinelli, perché senza di lei non si sarebbe mai raggiunta la verità. La confisca allargata è una misura di sicurezza che non dipende dalla pertinenzialità al reato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2021 Non è illegittima se colpisce beni che non rappresentano il profitto o il prodotto del delitto. La confisca cosiddetta allargata è di fatto misura di sicurezza contro la commissione di reati che esprimono particolare allarme sociale. Perciò essa non è giustificata - e quindi limitata -dall’individuazione puntuale del profitto o al prodotto del reato, bensì dalla rilevata sproporzione tra patrimonio e redditi leciti. La Corte di cassazione ribadisce con la sentenza n. 45554/2021 l’orientamento escplicito delle sezioni Unite che ha escluso che la confisca in “casi particolari”, prevista dall’articolo 240 bis del Codice penale, debba essere necessariamente fondata sulla connessione tra oggetto della confisca e reato-spia. La pertinenzialità al reato non è richiesta dalla norma. Sufficiente è la mancata puntuale prova della provenienza lecita di un patrimonio pur se formatosi in parte anche molti anni prima del processo. Per tale motivo la cassazione ha respinto il ricorso dell’imputato, che era stato riconosciuto colpevole per la commissione di diversi fatti di usura e per l’appartenenza alla criminalità organizzata. Il ricorrente affermava che l’ablazione dei titoli e dei saldi attivi presenti sul proprio conto corrente sarebbe stata illegittima in quanto, in massima parte, si trattava di valori derivanti da attività lecite risalenti a decine di anni prima della commissione dei reati contestati. Spiega, invece, la Cassazione che la confisca allargata che mira a prevenire la commissione futura di reati della stessa indole può ben colpire anche beni di provenienza lecita se rientra nelle ipotesi previste dall’articolo 240 bi del Codice. In quanto la misura non si limita a escludere dalla disponibilità del reo solo il prodotto o il profitto del reato, ma proprio la disponibilità del proprio patrimonio di cui non riesca puntualmente a dimostrarne la lecita acquisizione. Caltagirone (Ct). Tre detenuti morti in un anno: due strangolati e uno caduto dal letto a castello di Antonio Giordano livesicilia.it, 12 dicembre 2021 Episodi inquietanti accadono nel carcere di Caltagirone. In poco meno di un anno Giuseppe Calcagno è stato strangolato dal suo compagno di cella, Angelo Minnì è caduto dal letto e ha passato un mese in coma prima di morire, e la morte di Paolo Costarelli è stata scoperta dopo 48 ore dal suo strangolamento da parte, anche questa volta, del suo compagno di cella. Le storie di tre celle troppo chiuse, tre casi che hanno in comune il fatto di svolgersi nello stesso luogo. Le lunghe indagini - Il primo morto tra le sbarre a Caltagirone è stato Giuseppe Calcagno, che stava scontando una pena per una vecchia tentata estorsione. Il 31 gennaio il Calcagno esce senza vita dal carcere e la sua morte viene attribuita a cause naturali, ma quasi dieci mesi dopo, il 9 novembre, arriva la notizia della conclusione dell’indagine aperta dai Carabinieri di Caltagirone. Secondo gli accertamenti legali condotti dalla Procura di Caltagirone, Calcagno sarebbe stato strangolato nel sonno da Giuseppe Taccetta, 59 anni di Grammichele. Non è chiaro il movente del delitto, attribuito dalla stessa Procura a futili motivi causati dalla convivenza in cella tra Calcagno e Taccetta. Il presunto omicida, che al momento dell’arresto era stato spostato agli arresti domiciliari e che ora è tornato in carcere, era stato già indagato anni fa per un tentato omicidio avvenuto a Grammichele. La notte del 16 ottobre scorso Angelo Minnì, 63 anni, muore all’ospedale Cannizzaro di Catania, dove ha trascorso un mese in stato di coma. È l’epilogo di una storia iniziata con una caduta: Minnì era detenuto al carcere di Caltagirone, e nel settembre di quest’anno sarebbe caduto dal letto a castello nella sua cella, battendo la testa. A causa della caduta, Minnì è stato prima spostato all’ospedale di Caltagirone e poi al Cannizzaro, dove ha subito un intervento alla testa che ha provato ad arginare l’emorragia cerebrale. Da quell’intervento non si è risvegliato più. Sull’onda di quello che era successo a Calcagno, la cui morte in un primo momento era stata attribuita a cause naturali, la famiglia di Minnì fa un esposto alla Procura di Caltagirone, che apre un fascicolo. La stessa famiglia sostiene, secondo delle dichiarazioni rilasciate alla stampa, di essere stata informata con ritardo della caduta del proprio familiare. Per il momento le indagini sono in corso: sul corpo di Minnì non è stata effettuata l’autopsia. Un altro strangolamento - Tra il momento della morte di Paolo Costarelli e quello della sua scoperta sono passate 48 ore, in cui il corpo della vittima è rimasto sotto le lenzuola, al riparo da sguardi indiscreti. A ucciderlo con dei lacci intorno al collo e a nasconderlo è stato il compagno di cella Salvatore Moio, 44 anni, che si auto-proclama ‘ndranghetista e che è in carcere per scontare una condanna a venti anni per avere assassinato il suocero. È il terzo caso per morte in carcere su cui indaga la piccola procura di Caltagirone in meno di un anno, ed è proprio durante l’interrogatorio di garanzia che emergono i particolari. Durante una lite, l’ennesima, con Costarelli, Moio si sente aggredito e diventa a sua volta violento, buttando sul letto il compagno di stanza e strangolandolo con dei lacci che poi getta via dalla finestra. A quel punto nasconde il corpo con il lenzuolo e per due giorni interi vive come se niente fosse, mangiando e dormendo con un cadavere nella sua stessa cella. Solo due giorni dopo i fatti le guardie carcerarie si accorgono di quello che è successo. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Contagiati dal Covid, in isolamento a zero gradi senza finestre” edizionecaserta.net, 12 dicembre 2021 La disperazione dei familiari detenuti nel carcere-focolaio. Quel termine usato, anzi quasi abusato quando si parla di contagio, “focolaio”, stride in maniera tristemente beffarda con la situazione che stanno vivendo molti detenuti della casa circondariale Uccella di Santa Maria Capua Vetere. Tra i 41 casi attualmente riscontrati all’interno del penitenziario c’è anche Luca Affinita, 39 anni, sanfeliciano della zona Ponti Rossi. “Lucariell”, soprannome emerso anche nelle carte di una delle ultime inchieste sullo spaccio nella Valle di Suessola, è ritenuto il braccio destro di Alessio Biondillo e con questa accusa è in carcere da luglio in attesa di giudizio (la prima udienza è fissata per l’11 gennaio). Un blitz avvenuto mentre si completava la campagna vaccinale per la fascia d’età 30-40 e proprio qui le vicende giudiziarie si intersecano con quelle relative alla pandemia. Affinita infatti non è vaccinato e cinque giorni fa ha contratto il Covid19 in quello che ormai è diventato un focolaio interno al carcere e partito dal reparto Nilo, quello dove Affinita era recluso. Le testimonianze delle famiglie - Le sue condizioni preoccupano però i familiari non tanto per la gravità dei sintomi quanto per la difficoltà di assicurare una degenza dignitosa a lui come ad altri reclusi come conferma la moglie del 39enne, che ha testimoniato il disagio subito fin dalla comunicazione del contagio: “Mio marito è risultato positivo al Covid-19 lunedì 6 dicembre. Non è vaccinato, e gli avevano detto che era negativo ma l’ASL di Maddaloni mi ha contattata di mattina personalmente e mi ha riferito l’esito positivo”. La consorte ha saputo dunque in tempo reale del contagio e delle ulteriori restrizioni fermo restando già la sospensione dei colloqui a favore delle videochiamate: “Quando mi ha chiamata nel pomeriggio non sapeva ancora nulla; alle 21:30 di sera lo hanno messo nelle celle del piano inferiore al Danubio con sintomi non gravissimi, ma senza medicina, finestre rotte, acqua a terra, freddo e in condizioni disumane.” La preoccupazione è dunque che in queste condizioni, con la temperatura che di notte sfiora lo zero, la situazione possa precipitare. “Un malato Covid non può essere curato in celle del genere perché ha bisogno di un posto più decente. A mio marito manca tutto: da Antibiotico e Vitamine ad un riscaldamento. Al freddo così non resisterà a lungo”. Altri casi: dal Nilo al Danubio - Il disagio peraltro riguarda la quasi totalità dei reclusi che si sono infettati nel reparto Nilo: in simili condizioni c’è anche Francesco Tessitore, 25 anni, di Frignano, finito nei guai dopo aver provato a speronare alcune vetture durante un inseguimento. Anche lui è stato trasferito al Danubio come Affinita ed è nelle stesse condizioni come evidenzia la moglie di Tessitore: “Mio marito è in isolamento in condizioni disumane, senza riscaldamento e senza medicine. Non mangia ed ha dolori. Ho chiesto a tutti, anche ai garanti. Spero di poter incontrare la direttrice”. La madre di Ciro Riviercio, anche lui recluso e contagiato, è pronta ad andare a denunciare il tutto ai carabinieri: “Sono in celle con finestre rotte senza medicinali. Non vogliono farmaci da noi, per portare anche un plaid devo aspettare lunedì. Sono pronta ad andare in caserma a denunciare questa situazione”. Disperazione anche nelle parole della moglie di Massimiliano Muto, originario di Dugenta e poi trasferitosi a Qualiano: “La situazione è critica, molto critica. Sono esposti al contagio e c’è grande rischio di infettarsi. Peraltro le cure non sono adeguate”. La Garante dei Detenuti provinciale Emanuela Belcuore che sta seguendo la vicenda aveva da tempo chiesto maggiore incisività nella campagna vaccinale. Nell’inferno del focolaio, detenuto contagiato rischia la gamba: “Deve essere curato” Tra i casi più difficili c’è quello di un detenuto positivo che ha bisogno di cure specifiche per le vene varicose e - secondo la consorte - rischia di perdere la gamba che sta andando quasi in cancrena. “Lo hanno trasferito al piano inferiore dopo la positività: ha le vane varicose e problemi seri alle gambe. Dovrebbe essere curato adeguatamente ed invece lì non avviene.” dichiara la moglie del recluso Maurizio Volsi, originario di Scauri. “In queste celle con le finestre rotte anche col virus sono in pericolo. Mio marito deve scontare ancora 13 mesi ma con la sua patologia la gamba rischia di andare in cancrena molto prima”. Preoccupata anche la penitenziaria - “Il focolaio Covid nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non si attenua, anzi al contrario cresce. Apprendiamo che sono diventati 40 i detenuti positivi nel penitenziario casertano dove si va avanti solo con giri di tampone a campione e non si raccoglie la nostra sollecitazione per l’Open Day vaccinazione, come avviene ‘fuori’, anche per accelerare la somministrazione della terza dose” ad affermarlo è il segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo per il quale “l’esperienza della prima ondata di diffusione della pandemia non ha insegnato nulla se non ad accrescere la ‘campagna buonista’ di ampi settori della politica e dell’informazione per il ‘liberi tutti’ come unico metodo di prevenzione dal Covid” “Siamo di fronte ad un film già visto: senza un piano di intervento straordinario e di emergenza - aggiunge Di Giacomo - si esaspera la tensione interna ai penitenziari riproponendo lo stesso clima che abbiamo conosciuto nella primavera dello scorso anno con le numerose rivolte. I due tentativi di rivolta nel carcere di Taranto, in pochi giorni - continua il segretario del Sindacato Polizia Penitenziaria - dovrebbe essere invece interpretato come campanello d’allarme”. E “si sottovaluta un altro aspetto: dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere con tutto il personale penitenziario dato in pasto all’opinione pubblica come violento e crudele la delegittimazione potrebbe produrre non pochi problemi per contenere le rivolte”. Viterbo. Detenuto suicida, due agenti a processo per averlo picchiato Corriere di Viterbo, 12 dicembre 2021 Morte di Hassan Sharaf, a processo due poliziotti della penitenziaria che lo avrebbero picchiato poco prima il suicidio in cella a Mammagialla. Si tratta del 21enne trovato impiccato in carcere il 23 luglio 2018 e morto dopo una settimana di agonia a Belcolle. Il processo partirà domani davanti al giudice Elisabetta Massini. Alla sbarra due agenti: un 49enne di origine campana e un 51enne della provincia di Viterbo che, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbero schiaffeggiato il detenuto egiziano. Per quei fatti nel giugno del 2019 il pm Franco Pacifici ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio per abuso di mezzi di correzione e abuso di potere. Sul caso è stato aperto anche un fascicolo contro ignori per istigazione al suicidio per il quale è stata chiesta l’archiviazione. Esito contro il quale si è opposta la famiglia del detenuto. Sono pronti a costituirsi parte civile, per conto della famiglia, gli avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano. Rimini. Detenuti all’ex convento, la protesta non si ferma: lanciata una raccolta firme Il Resto del Carlino, 12 dicembre 2021 Non si fermano le proteste contro l’istituzione di un centro CEC (Comunità Educante con Carcerati) nell’ex convento delle suore di Montefiore. L’associazione Papa Giovanni XXIII è in trattativa per ottenere la locazione dell’immobile, ma l’amministrazione comunale e un comitato cittadino hanno già fatto sentire la loro contrarietà. Nel frattempo è partita anche una raccolta firme. A lanciare la petizione è il gruppo ‘Montefiore Libero’. Obiettivo è quello di salvaguardare la destinazione dell’ex convento. “Nel 1890 questo edificio - spiega il gruppo - fu oggetto di una importante donazione da parte di suor Maria Gentile Cavalli, grande benefattrice di Montefiore, all’Istituto delle Mestre Pie dell’Addolorata, affinché fosse destinato alla educazione delle giovani fanciulle montefioresi. Da allora, per oltre 130 anni, è stato sempre destinato a servizi per la comunità, diventando successivamente, asilo, scuola e poi, negli ultimi anni, fino al 2019, casa di accoglienza per le donne anziane di Montefiore. Questa lunga storia, fa di questo edificio un riferimento importante per i cittadini di Montefiore e oggi, anche per la sua posizione unica e centrale rispetto al Borgo, deve continuare a essere destinato principalmente a servizi per la comunità, o eventualmente per il suo sviluppo turistico e culturale di Montefiore. Sulla base di queste considerazioni, il Comitato Paese Libero intende impegnarsi affinché non vengano stravolte le sue finalità di servizio che dovranno continuare a essere orientate ai cittadini di Montefiore e ai bisogni del suo sviluppo sociale, turistico e culturale”. Milano. Don Virginio Colmegna: “Io, prete felice, cerco Dio in mezzo ai poveri” di Dario Cresto-Dina La Repubblica, 12 dicembre 2021 Il presidente della Casa della cartà di Milano parla del Natale, del Papa, della politica e di Martini: “L’arcivescovo mi chiamò e con lui alla guida di una Fiat Panda andammo in un monastero. Poi mi disse: ti mando a Sesto San Giovanni”. E di Mattarella: “L’applauso della Scala mi ha commosso, abbiamo bisogno di altri testimoni forti come lui”. Abbiamo bisogno di profezie, dice don Virginio Colmegna, 76 anni, da diciassette presidente della Casa della carità di Milano. Davanti ai suoi occhi sono passate migliaia di vite dolenti. Eppure il suo sarà un Natale di speranza. “Dobbiamo essere sognatori, coltivare l’utopia nella pratica di ogni giorno. Non riesco proprio a essere pessimista. Nelle persone umili, anche tra chi grida per il dolore o l’ingiustizia, c’è una carica positiva che va riscoperta. Ma ci serve il coraggio della radicalità, come ci ha insegnato il cardinale Martini. Al di là della fede per me il Natale è sempre stato un tempo di rinascita, una data dalla quale ricominciare riconoscendo come valori sociali anche l’innocenza e l’ingenuità”. A che cosa pensa quando parla di radicalità? “Decidere, fare scelte scomode. Purtroppo abbondano invece i fotografi della realtà. Mi riferisco a coloro che denunciano le urgenze ma poi le lasciano immutate. La politica è vergognosamente timida nell’adeguarsi alle trasformazioni della società che invece andrebbero anticipate e gestite”. Qual è il Paese che immagina? “Un Paese che riparta dalle fragilità per ricostruire una giustizia sociale e che dia veri segnali di coesione. Lo sguardo dovrebbe essere quello che papa Francesco ci mostra con Fratelli tutti e nella Laudato sì’, cioè la capacità di riallacciare i legami. Martini la definiva l’amicizia civica”. È un concetto che il presidente Mattarella ha raccomandato più volte. “L’applauso della Scala mi ha commosso. Abbiamo bisogno di altri testimoni forti come lui, abbiamo bisogno delle istituzioni per inseguire insieme l’utopia che Ernesto Balducci chiama con i piedi per terra”. La pandemia segna una cesura storica: ci sarà per sempre un tempo prima del virus e un tempo dopo il virus. Non crede che la priorità adesso sia fare ripartire l’economia? “C’è stata e in parte c’è ancora la stagione della resistenza. Ora servirebbe una pausa per capire che davvero nulla può restare come prima. La grande riforma del Pnrr non può limitarsi all’economia, ci vuole una rivoluzione etica. Dobbiamo guardarci in faccia in modo diverso. Francesco parla di conversione ecologica. Vuol dire cambiamo stili di vita, comportamenti, insomma, il nostro modo di agire. Io sento tutto questo, ho voglia di cominciare qualcosa di nuovo. Anche se sono un vecchietto”. Lei ha incrociato migliaia di disperazioni. Che cosa le hanno lasciato? “La certezza che gli ultimi della terra, quelli che papa Francesco chiama i resti, sono un dono. Rappresentano la gioia di essere prete. Il dolore unisce gli uomini più di qualsiasi altra cosa. Penso, per esempio, alle madri di figli autistici e ai disabili. Io sono partito da Sesto San Giovanni in una casetta piena di rose in cui ho accolto i disabili, molti dei quali tolti al manicomio. Ho passato undici anni con loro. Mi chiamano prete di strada, sono invece un prete di comunità: relazioni, fraternità, centralità della persona”. Che cosa è oggi la Casa della carità di Crescenzago? “Una struttura pubblica che ospita un centinaio di persone e una trentina di famiglie di profughi afghani. Donne, uomini, bambini. Per me è un luogo teologico che cerca di tenere assieme tre energie: spirituale, culturale e politica. Con dentro l’inventiva per il cambiamento, come ci ha insegnato Giorgio La Pira. Mai come in questo periodo frequento il posto a me più caro: la cappella. Mi inginocchio e penso, cerco di farmi venire qualche idea”. Quali sono le nuove povertà? “Le solitudini dei senza famiglia, quella degli anziani, le fragilità psichiche e quella nascosta dei tantissimi che si vergognano della povertà. Non lo dicono ma la soffrono. Anche mio padre e mia madre rientravano in questa categoria di poveri. Papà era invalido, mamma operaia alla Lazzaroni di Saronno. Quando le arrivava lo stipendio la prima cosa che faceva era mettere da parte i soldi dell’affitto. Fatto quello, rimaneva poco. Io vedevo la loro fatica quotidiana. Avevamo solo un piccolo bagno all’aperto sul ballatoio, ma in casa dovevamo girare con le pattine perché mamma non rinunciava alla cera. Questa è la dignità dei poveri”. Rinascesse, farebbe ancora il prete? “Non mi dispiace la politica, ma sì farei ancora il prete, senza alcuna esitazione. Lo sono diventato a ventiquattro anni e mi hanno spedito tra i poveretti della Bovisa, in mezzo alle grandi fabbriche, tra i primi immigrati dal Sud, soprattutto dalla Puglia e dalla Calabria. Era il 1969, sono rimasto fino al 1976”. Poi a Milano arrivò il cardinale Martini. Come fu il vostro primo incontro? “Gli scrissi una lettera con la quale gli dicevo che avrei voluto fare un’esperienza forte. Mi chiamò in arcivescovado, vi rimasi tre giorni, poi con lui alla guida di una Fiat Panda andammo al monastero delle benedettine di Viboldone dove restammo a lungo in una stanza, in silenzio. Alla fine mi disse: ti mando a Sesto San Giovanni”. Che cosa crede di avere imparato dai poveri? “A non accontentarmi di una carità annacquata, che puzza di buonismo. Uno di quegli operai mi insegnò un proverbio che spiega quanto sia tortuosa la strada per raggiungere la verità o più semplicemente il modo di fare la cosa giusta: sappi che in un sacco di noci ci sta un sacco di miglio. Nella vita bisogna rovistare”. Martini, nell’affidarle la guida della Casa di Crescenzago, le chiese di renderlo un luogo dove la parola carità fosse riempita di giustizia. Pensa di esserci riuscito? “Non lo so, ci ho provato, ma dubito sempre. So che ho reimparato a leggere tantissimo. Simone Weil, Eugenio Borgna, Benedetto Saraceno, Edgar Morin. Serve l’umiltà della lettura per essere capaci di ascoltare e intuire i sentimenti del nostro prossimo. I profughi, per esempio, mi parlano con il silenzio, con le loro facce immobili, tanto sono chiusi in se stessi”. L’immigrazione è l’emergenza più grande? “Non è più una emergenza. È una urgenza. Ma ha ragione Francesco quando dice lasciateci piangere contro la globalizzazione dell’indifferenza. La questione è decisiva per il futuro del mondo e noi non riusciamo neppure ad affrontare lo Ius soli. L’accoglienza è una scelta di civiltà verso un fenomeno strutturale e non provvisorio. Non si possono trasformare in reietti tutti i migranti, devono essere protagonisti del loro futuro. Se non si lasciano fasce di marginalità si possono limitare anche i problemi di sicurezza sociale”. Milano ha sempre il cuore in mano? “In parte sì, ma dovrebbe rallentare la corsa imprenditoriale e pensare di più al suo capitale umano, che è un patrimonio immenso. E la politica deve tornare a una visione metropolitana”. Nel 2022 scade il suo mandato. Che cosa farà? “Vorrei continuare così, ma non sta a me decidere”. Non ha mai cedimenti sulla propria fede? “Per credere bisogna anche dubitare, far parlare il non credente che è in noi. Ogni volta che mi trovo davanti a un crocifisso gli faccio una sola domanda: Dio, dove sei?”. Napoli. “Prima del carcere, mai avrei pensato di fare la guida turistica” di Mario Messina tvsvizzera.it, 12 dicembre 2021 Puteoli Sacra è un progetto messo in piedi a Pozzuoli con l’intento di dare una concreta chance di reinserimento nella società ai giovani che hanno conosciuto la realtà della prigione. Era un lunedì di inizio marzo quando agli abitanti del Rione Terra, il più antico agglomerato urbano di Pozzuoli, furono costretti ad abbandonare le proprie case per non farci mai più ritorno. Il 2 marzo del 1970 il prefetto di Napoli, d’accordo con l’Osservatorio Vesuviano, decise di evacuare il più antico, popolare e degradato quartiere di Pozzuoli per il pericolo di una imminente crisi bradisismica. L’addio alle proprie case - Il bradisismo è quel fenomeno geologico che consiste in periodici abbassamenti e innalzamenti del terreno (spesso accompagnati da terremoti) con cui Pozzuoli fa i conti da millenni. Ma la crisi bradisismica annunciata quel lunedì di marzo di mezzo secolo fa significò qualcosa di ben diverso da ciò che gli abitanti del Rione Terra di Pozzuoli avevano conosciuto fino a quel momento. Significò abbandonare le proprie case, trasferirsi chissà dove, cambiare vita. Insomma, significò la fine di un’epoca. Ma anche l’inizio del riscatto. Un inizio assai lento, quello legato ai lavori di ristrutturazione e riqualificazione che iniziarono dopo un altro evento sismico che coinvolse - seppur marginalmente - il Rione: il terremoto dell’Irpinia del 1980. Nonostante gli oltre 100 chilometri in linea d’aria che separano Pozzuoli dall’epicentro del sisma, gli edifici del Rione Terra, già compromessi da anni di incuria e reduci da un decennio di abbandono totale, ne risentirono strutturalmente. L’arrivo di nuovi abitanti e nuova speranza - Così, dopo 20 anni dall’evacuazione, nel 1990 iniziò l’opera di riqualificazione dello storico Rione Terra. Sebbene i lavori non siano ancora del tutto terminati e il Rione sia ancora inaccessibile (se non per visite guidate organizzate), la gran parte degli edifici è stata ristrutturata e riqualificata e i primi ‘abitanti’ del Rione sono già arrivati. Si tratta dei giovani del progetto Puteoli Sacra. Arte sacra del Rione Terra di Pozzuoli. “Il progetto è importante perché è una spinta per i ragazzi verso un futuro, verso l’autonomia, ma soprattutto verso la libertà”. È un progetto assai ambizioso, perché intende creare qui al Rione Terra il più grande sito turistico d’Europa interamente gestito da ragazzi e ragazze provenienti da istituti penali. “Non è un caso che questo progetto abbia trovato spazio proprio all’interno del Rione Terra”, spiega Don Gennaro Pagano, direttore della Fondazione Regina Pacis e Cappellano dell’Istituto Penale Minorile di Nisida. “Così come questo Rione sta rinascendo dopo anni di abbandono - continua don Gennaro - allo stesso modo i ragazzi del carcere minorile di Nisida e le ragazze dell’istituto femminile di Pozzuoli qui cercano di trovare una nuova vita, di rinascere dopo un periodo difficile”. Spezzare le catene, letteralmente - Il progetto è cominciato ufficialmente il 25 giugno scorso quando, in occasione dell’inaugurazione del complesso turistico, è stato deciso di sostituire il tipico taglio del nastro con un gesto assai più simbolico. Il presidente della Camera dei deputati Roberto Fico insieme ad alcuni giovani delle carceri di Nisida e Pozzuoli hanno spezzato la “catena dell’indifferenza”. Un’attenzione assai forte quella delle istituzioni italiane nei confronti del progetto. Tanto che anche il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella a inizio settembre volle incontrare i ragazzi di Nisida e Pozzuoli. E in quell’occasione disse loro: “Curate le vostre cicatrici. La detenzione non deve essere una macchia indelebile”. Nel futuro, anche una ventina di assunzioni - Dopo un periodo di formazione e un successivo tirocinio, 24 ragazzi e ragazze saranno scelti per essere assunti con regolare contratto di lavoro nel sito turistico di Puteoli Sacra. “Quello che sta succedendo qui al Rione Terra - spiega a tvsvizzera Don Gennaro - è ciò che dovrebbe fare ogni comunità: non lasciare indietro nessuno e dare una nuova possibilità a tutti. Io insisto sulla analogia tra il Rione Terra e i ragazzi di questo progetto. Perché in entrambi i casi la vita ha offerto loro una nuova possibilità”. Questa seconda possibilità molti di loro la stanno già sfruttando a pieno. Al di là della formazione ancora in corso, i giovani del progetto stanno già accogliendo i primi visitatori del Rione Terra. Trovare la strada tra le vie dell’antica Puteoli - In un mix di storia del rione e storie personali, le giovani guide turistiche accompagnano i visitatori in un percorso a metà tra archeologia e arte sacra. In primis, il percorso nell’antica Puteoli, la città Romana con ancora visibili le vecchie strade, i forni con le macine quasi intatte, le botteghe e i criptoportici. Poi, l’esplorazione degli ipogei diocesani, il Museo Diocesano che è tra le esposizioni cristiane più importanti del sud Italia e, fiore all’occhiello dell’intero percorso, il Tempio-Duomo: anch’esso con una storia di crisi e rinascita alle spalle. De Simone: “Da un incendio che devasta una cattedrale è venuta fuori una bellezza unica nel suo genere” - “Nella notte tra il 16 e il 17 maggio del 1964 - racconta Cristian De Simone, vicedirettore della Fondazione Regina Pacis - questa Cattedrale (intitolata a San Procolo martire) fu devastata da un incendio che distrusse una buona parte del Duomo. Ma quest’incendio portò alla luce le colonne del Tempio di Augusto sul quale la chiesa fu costruita”. I lavori di restauro che hanno interessato tutto il Rione, qui hanno creato un luogo straordinario in cui la stessa struttura presenta evidenti sia i segni della chiesa cristiana che quelli del tempio pagano. “Quindi - continua De Simone - da un incendio che devasta una cattedrale è venuta fuori una bellezza unica nel suo genere. È quello che stiamo provando a fare qui con questi ragazzi”. Roma. Il teatro per volare oltre le mura del carcere di Francesca Romana Preziosi interris.it, 12 dicembre 2021 Non solo un’attività culturale, ma un’iniziativa che può permettere a chi si trova in carcere di esprimere sentimenti ed emozioni. La maggior parte delle volte si sottovaluta, o addirittura ci dimentichiamo, che nel nostro ordinamento giuridico il carcere è una misura che serve a scopo riabilitativo, le cui finalità sono quelle di far comprendere a colui che commette un reato che è possibile anche tornare alla vita senza commettere lo stesso errore. E questo lo dice chiaramente l’articolo 27 della nostra Costituzione quando spiega che le pene devono “tendere alla rieducazione del condannato”. Nulla deve farci dimenticare, infatti, che i carcerati sono persone che vivono di sentimenti e di passioni, e che la pena deve aiutare loro a tirare fuori la propria voglia di crescere e di migliorarsi. Il teatro in carcere - La professoressa Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro all’università Roma Tre, da diversi anni ha avuto la brillante idea di portare la sua passione per il teatro tra i carcerati. Proprio il teatro, infatti, è la miglior attività che permette di sperimentare una nuova dimensione personale e sociale, liberando le energie anche di coloro che si trovano ancora nella condizione di reclusi. Il teatro può aiutare chi è in carcere a realizzare che esiste la vita al di fuori degli istituti di detenzione e che proprio l’attività teatrale può contribuire a costruire un ponte immaginario tra la comunità penitenziaria e la società esterna. Molto più di un’attività culturale - L’iniziativa della professoressa romana non è quindi soltanto una bella attività culturale. Ma può alimentare creatività e gioia di vivere nelle comunità carcerarie in modo da “riconnetterli” a loro stessi e al resto del mondo, provando empatia, che di certo in un carcere è difficile provare. Insomma un’iniziativa che si spera possa svilupparsi sempre di più nel tempo per permettere a più persone possibili di avere un percorso di riabilitazione e tornare ad essere felici e gioire della vita in maniera corretta. Grosseto. Mercatino coi lavori dei detenuti della Casa circondariale maremmanews.it, 12 dicembre 2021 Un mercatino con oggetti realizzati a mano per arricchire l’albero di Natale o decorare spazi della casa e biglietti per fare gli auguri per le imminenti festività. Sono i lavori dei detenuti della casa circondariale di Grosseto, che saranno messi in vendita, domenica 12 dicembre, grazie ad un piccolo mercatino organizzato dalla casa circondariale e che verrà allestito nell’atrio del palazzo vescovile, in corso Carducci 11, a Grosseto. Un’iniziativa che ritorna: già in occasione dell’Avvento 2019, infatti, fu allestito questo mercatino, che lo scorso anno, a causa della grave situazione legata alla pandemia, non fu possibile ripetere. Quest’anno ritorna ed è un segno molto importante di dialogo e relazione fra la città e la struttura di via Saffi, posta nel cuore del centro storico, ma spesso vissuta come luogo quasi estraneo. È per questo che il vescovo Giovanni, in occasione del suo ingresso in diocesi il 9 agosto scorso, volle inserire anche la visita alla casa circondariale fra le tappe di avvicinamento alla cattedrale. Il mercatino sarà aperto dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19. Giovedi 16 dicembre, infine, il vescovo Giovanni, accompagnato dal cappellano don Enzo Capitani, si recherà nella casa circondariale di via Saffi per celebrare la Messa, occasione con cui farà gli auguri di Natale. Mille giuste condanne non potranno mai far dimenticare una sola condanna di un innocente di Gaetano Pecorella Il Giornale, 12 dicembre 2021 “Libro nero delle ingiuste detenzioni”, di Stefano Zurlo (Baldini e Castoldi, 192 pp, 17,10 euro). Tra il 1991 e il 2020 sono finite in cella, ma poi sono state assolte o prosciolte, circa 30.000 persone, mille l’anno, due o tre al giorno. Il sottotitolo di questo bel libro è: “perché in Italia migliaia di innocenti finiscono in galera: le storie, le cause e le colpe”. È una domanda a cui non è semplice dare una risposta perché è vero che è ben individuabile quale sia stato l’errore, ma è assai più problematico perché si è verificato l’errore, proprio quello specifico errore. Forse, seguendo il tracciato dei casi analizzati da Stefano Zurlo nel “Libro nero delle ingiuste detenzioni” (Baldini e Castoldi, 192 pp, 17,10 euro), sarà possibile cercare una spiegazione a quello che non esito a definire “un crimine”, perché togliere ingiustamente la libertà a un essere umano procura sofferenze a lui, a la sua famiglia, a chi gli vuole bene. Mille giuste condanne non potranno mai far dimenticare una sola condanna di un innocente. Merita di essere ricordata l’apertura della prefazione di Carlo Nordio: “la lettura di questo libro di Stefano Zurlo dovrebbe essere resa obbligatoria per l’accesso agli esami di magistratura, perché nulla quanto una sequenza di errori funesti avverte i giudici sui pericoli del potere”. Vorrei aggiungere che qualcos’altro si dovrebbe fare per selezionare i soggetti che intendono fare il giudice: forse un buon test psico-attitudinale eviterebbe di dare tanto potere a chi non è in grado di esercitarlo. Stefano Zurlo ricorda, anzitutto, a che livello è “il guasto del sistema”: tra il 1991 e il 2020 sono finite in cella, ma poi sono state assolte o prosciolte, circa 30.000 persone, mille l’anno, due o tre al giorno. Percorrendo i casi, dietro i quali - ricordiamolo - c’è una persona, un cittadino come noi, forse potremo dare una risposta alla domanda iniziale. Jonella Ligresti, arrestata, condannata dal Tribunale di Torino a 5 anni e 8 mesi. Poi si scopre di un errore del perito contabile. Mauricio Affé è incriminato per rapina. C’è un video che lo scagiona, ma il giudice delle indagini o non lo guarda, o non lo sa guardare. Affè ha una cattiva fama, un attaccabrighe, tanto basta. Il Tribunale, in base allo stesso video, poi lo assolve. Diego Olivieri viene scambiato per un narcotrafficante e messo in carcere, perché, tornando dal Canada porta con sé l’orologio di un amico e glielo consegna. C’è il sospetto che si tratti di droga. Il Pubblico ministero lo avverte: “Finché non collabori, non torni a casa”. Dopo 5 anni è assolto. Pietro Paolo Melis è arrestato per un sequestro di persona. C’è una intercettazione telefonica che gli viene attribuita. Condanna a 30 anni. Dopo più di 18 anni si accerta che la voce non è la sua. Angelo Massaro, condannato a 24 anni per omicidio, ventun anni di carcere, per una consonante, una “s” interpretata come una “t”. In realtà, nella intercettazione non si parla del “morto” (muerte), ma di una pala meccanica “pesante” (muerse, in dialetto). È l’errore di un perito, è l’errore dei giudici che travisano l’intercettazione. Scrive Zurlo: “pagina dopo pagina, scopriamo che i campanelli d’allarme avevano suonato chissà quante volte: gli squilli facevano pensare che Massaro fosse innocente, non colpevole”. Ci sono altri casi, nel libro. Tutti dimostrano che si poteva evitare il carcere a un innocente, e consentono di fare un catalogo delle cause dell’errore giudiziario: l’incompetenza del perito, il pregiudizio del giudice, le inchieste a senso unico, la negligenza del magistrato, la falsa confessione (indotta o estorta), la collaborazione ottenuta con il carcere. Ciò che è stato fatto dopo, per scoprire l’errore, si poteva fare prima: questo è il messaggio che ci viene dalle pagine del “Libro nero delle ingiuste detenzioni”. Legalizzare la cannabis? Sì, è giusto. No, fa male a cura di Antonio Carioti Corriere della Sera, 12 dicembre 2021 Conversazione tra Vinicio Albanesi e Marco Perduca. Sono state raccolte 630 mila firme per un referendum che punta a depenalizzare la coltivazione della canapa e altre condotte relative alla marijuana. Che si vada a votare o no, l’iniziativa è destinata a fare discutere. Nel 2022, in una data tra il 15 aprile e il 15 giugno, saremo probabilmente chiamati alle urne per un referendum sulla legalizzazione della cannabis. Sono state raccolte infatti 630 mila firme su un quesito che si articola in tre punti. Il primo punta a depenalizzare la coltivazione della pianta per uso personale; il secondo elimina le pene detentive per qualsiasi condotta relativa alla cannabis, a parte l’associazione finalizzata al traffico illecito; il terzo cancella la sanzione amministrativa del ritiro della patente di guida per il possesso della sostanza. Ora si attendono il verdetto della Cassazione sulla regolarità della raccolta delle firme e quello della Corte costituzionale sull’ammissibilità del quesito. Nel frattempo potrebbe intervenire il Parlamento, modificando la legge e rendendo inutile il referendum, ma le forze politiche appaiono incerte e divise sulla materia. Già adesso comunque si è aperto il dibattito e “la Lettura” ha chiamato a discutere sull’argomento don Vinicio Albanesi, sacerdote, a lungo presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza, che ha preso posizione contro il quesito; e Marco Perduca, presidente del comitato per il referendum. Nel nostro Paese è già stato introdotto l’uso della cannabis a scopo terapeutico. Non è sufficiente? MARCO PERDUCA - Un conto è adottare a scopo di cura una pianta che appartiene all’esperienza umana da 4.000 anni, un altro è poterla coltivare per qualsiasi uso. Si tratta di rendere lecito il ricorso a una sostanza psicoattiva, come avviene per tanti altri prodotti analoghi, il più importante dei quali nella nostra cultura è l’alcol. Sulla base di almeno trent’anni di evidenze circa le ricadute negative a cui porta la criminalizzazione di comportamenti che non fanno vittime né recano particolari danni alla salute individuale, abbiamo concluso che il modo migliore di gestire la presenza della cannabis nella cultura italiana è non fare entrare nel circuito penale chi la coltiva e la consuma. VINICIO ALBANESI - Il referendum a mio avviso è inadeguato e inutile. L’uso personale della cannabis è già depenalizzato, ma non bisogna sottovalutare le conseguenze della dipendenza. Se per acquistare un sonnifero occorre la ricetta medica perché si tratta di un farmaco psicoattivo, non capisco perché si debba togliere ogni vincolo all’uso della marijuana, rendendolo un diritto, visto che è comunque una sostanza dannosa per la salute. MARCO PERDUCA - Ma se noi facciamo il paragone con altre sostanze legali, constatiamo che esse provocano problemi ben più gravi. I morti non solo per l’assunzione di alcol e tabacco, ma anche per il consumo eccessivo di zucchero sono assai numerosi. E noi non teorizziamo un diritto allo spinello, ma vogliamo togliere dal circuito penale la coltivazione e l’uso personale, riducendo anche le sanzioni amministrative. Crediamo si debba superare al più presto un modello proibizionista che in tutto il mondo ha creato enormi guasti, tant’è vero che in diverse realtà è stato abbandonato. VINICIO ALBANESI - Se sostanze legali come l’alcol, il tabacco e lo zucchero provocano gravi danni, non mi sembra un buon motivo per aggiungere alla lista la cannabis, che è anch’essa indubbiamente nociva. MARCO PERDUCA - Le statistiche più accurate, quelle del centro per i problemi della salute degli Stati Uniti, ci dicono che la cannabis in quanto tale non ha mai fatto un solo morto, contrariamente a tante sostanze legali. Noi non intendiamo agevolare l’assunzione di una droga dannosa, ma togliere problemi a chi intende consumare un prodotto che di certo non è letale. VINICIO ALBANESI - Io gestisco una comunità per ragazzi tossicodipendenti, alcuni dei quali si sono assuefatti all’uso della cannabis. È vero che non rischiano di morire, ma poi ci vogliono come minimo due anni per liberarli dalla dipendenza. Se per voi questo non è un problema, fate pure. MARCO PERDUCA - Il danno più grave è quello che viene creato dalle leggi proibizioniste alle persone che decidono liberamente di coltivare o assumere sostanze che forse possono creare a loro limitati problemi di salute, ma di certo non recano agli altri alcun nocumento. VINICIO ALBANESI - Non è vero, perché sulla base della mia esperienza posso dire che un giovane dipendente dal consumo di cannabis causa scompensi alla famiglia, agli amici e a tutti coloro che lo circondano. Anche perché di solito i tossicodipendenti non assumono una sostanza sola, ma ne mescolano diverse, con effetti a volte molto gravi. MARCO PERDUCA - Giusto, ma il problema vero sono appunto le altre sostanze, che nella maggioranza dei casi - parlo di alcolici e psicofarmaci - sono peraltro perfettamente legali. Non si può continuare a imputare alla cannabis conseguenze che sono dovute ad altre cause. Questa è una grande mistificazione sostenuta dai proibizionisti, che ne ricavano spesso notevoli vantaggi, come i finanziamenti pubblici alle comunità. VINICIO ALBANESI - La mia comunità non fa altro che aiutare le famiglie disperate e i giovani in difficoltà me li mandano i Serd, servizi per le dipendenze. Non accetto che si parli in questo modo dell’attività che svolgiamo sin da quando quelle strutture pubbliche neppure esistevano. Comunque non è affatto detto che la legalizzazione migliorerebbe la situazione. Anzi potrebbe peggiorare. Come si fa a saperlo? MARCO PERDUCA - Basta studiare i documenti prodotti là dove è stata avviata la legalizzazione: alcuni Stati degli Usa (Colorado, California, Oregon, Massachusetts e altri), l’Uruguay e il Canada. In più i Paesi Bassi, anche se non hanno legalizzato l’assunzione dei derivati della cannabis, la tollerano dal 1974. Tutte le ricerche documentano che in quelle situazioni, essendo garantita la qualità del prodotto, chi lo consuma va incontro a rischi molto inferiori. Non si tratta di un mondo perfetto, ma di realtà in cui il danno viene ridotto. In Italia invece si tagliano i soldi alla sanità pubblica, i Serd vengono impoveriti e ci si rivolge a un apparato parapubblico - comprese le comunità gestite dalla Chiesa - che aiuta persone il cui problema principale non è la cannabis, ma qualche altro fattore economico e sociale. VINICIO ALBANESI - Non si può negare che esista la dipendenza da cannabis e che sia un problema per molte persone, così come lo è la dipendenza da alcol. Sono situazioni che io e molti altri operatori del settore ci troviamo quotidianamente ad affrontare, nello sforzo di aiutare i ragazzi a uscire da questa condizione, liberandoli dal rapporto patologico che intrattengono con le varie sostanze. MARCO PERDUCA - I problemi della tossicodipendenza non si risolvono solo dicendo di no, usando le catene o i rosari. Si possono adottare approcci diversi, più efficaci e più rispettosi della libertà individuale. VINICIO ALBANESI - Come? Offrendo le sostanze psicoattive in abbondanza, senza alcun limite? Il vero problema è la dipendenza, perché poi chi consuma la cannabis, quando gli spinelli non gli bastano più, passa ad altre sostanze ben più tossiche, ad esempio la cocaina. È il meccanismo perverso di cui approfitta il crimine organizzato per ricavarne lauti profitti. MARCO PERDUCA - Considero avvilente affrontare in questi termini un fenomeno che solo in Italia riguarda milioni di persone. Voi proibizionisti non avete idea di che cosa state parlando. VINICIO ALBANESI - Invece sì, perché conosco le storie personali dei tossicodipendenti, che vanno oltre i dati statistici. Lei non sa che cosa significa penare MARCO PERDUCA - Ma è accettabile allora che persone in una situazione simile rischino il carcere? VINICIO ALBANESI - No, devono essere assistite. MARCO PERDUCA - Benissimo. Allora come si fa a eliminare la prospettiva del carcere per chi coltiva o consuma la cannabis? Si tolgono le pene: la soluzione proposta dal nostro referendum. Come fate ad essere contrari? VINICIO ALBANESI - Già adesso per l’uso personale non è previsto il carcere, solo la segnalazione al prefetto e sanzioni amministrative. MARCO PERDUCA - Purtroppo non è vero, perché tuttora per la coltivazione di cannabis è prevista una pena che arriva fino a sette anni di carcere, roba da rapina a mano armata. La stessa segnalazione in Prefettura non è che il primo passo verso sanzioni più gravi. Ma queste soluzioni repressive non possono che aggravare i problemi di cui soffre il tossicodipendente, mentre i proibizionisti contisostanze nuano a credere che funzionino come un deterrente al consumo di droga. Lei, Albanesi, potrebbe essere d’accordo con la proposta di depenalizzare la coltivazione di cannabis? VINICIO ALBANESI - Sì. E per l’eliminazione della sanzione del ritiro della patente ai tossicodipendenti? VINICIO ALBANESI - Qui credo che un limite vada mantenuto. Se supero i limiti di velocità in autostrada e violo altre norme del codice stradale, mi ritirano patente. Lo stesso deve valere per il consumo di marijuana. MARCO PERDUCA - Vorrei precisare che il nostro referendum non riguarda il reato di guida in stato alterato da sostanze psicoattive, che rimane intatto. Noi diciamo che se ti trovano a coltivare o a fumare cannabis non ti possono più infliggere la sanzione del ritiro della patente fino a tre anni, come è attualmente previsto. Ma le persone fermate per guida in stato alterato per consumo di sostanze illegali sono solo il 2,6 per cento del totale, quindi stiamo ingigantendo un problema che in realtà ha dimensioni molto ridotte, soprattutto se raffrontato al numero dei consumatori di cannabis, che è di circa otto milioni, la grande maggioranza dei quali gestisce senza grandi problemi il rapporto con la sostanza, ma corre il rischio di cadere nel circuito penale con costi notevoli anche per lo Stato. Un dispendio di risorse che potrebbero essere utilizzate molto meglio sul fronte della lotta alla droga. VINICIO ALBANESI - Questo ragionamento non mi convince affatto, perché banalizza problemi complessi che non sono per nulla facili da gestire quando ci si trova di fronte a situazioni di dipendenza. Proviamo ad allargare il discorso. Perduca, per voi il referendum è il primo passo per arrivare a legalizzare anche altre sostanze, oltre la cannabis? MARCO PERDUCA - Siamo a favore di una regolamentazione legale, non necessariamente la liberalizzazione, delle potenzialmente pericolose per la salute. Toglierle dalle dinamiche dell’illegalità, quindi dalle mani del crimine organizzato, ci pare una risposta pragmaticamente più efficace di quelle che ci hanno portato ad avere milioni di persone che le consumano. Non abbiamo un modello a cui rifarci per la legalizzazione di eroina, cocaina o sostanze psichedeliche, le sperimentazioni messe in atto sono finora limitate. Ma dato che quelle droghe oggi si trovano facilmente ovunque, è molto meglio che la qualità delle sostanze in circolo sia controllata e che chi le assume in modalità problematica non sia oggetto di repressione penale, ma venga aiutato a convivere con la sostanza e a superare le difficoltà che l’hanno portato a consumarla. Lo si fa in Svizzera da trent’anni. VINICIO ALBANESI - Respingo questa logica per cui tutto diventa un diritto e l’unica strada da seguire è quella più facile: allargare le maglie all’uso della droga senza un minimo di vincoli. Per esempio c’è il problema gravissimo dei minori, che oggi cominciano a consumare sostanze psicoattive molto presto: lasciamo che lo facciano come se fosse un comportamento normale, senza intervenire, in nome di un concetto distorto di libertà? Non è meglio agire, anche adottando misure coattive? O abbiamo paura della parola punizione? Per me chi sbaglia deve pagare. MARCO PERDUCA - Chi non reca danno a nessun altro a mio avviso non deve essere punito. VINICIO ALBANESI - Ma i tossicodipendenti non vivono isolati dal mondo: scompigliano gli equilibri delle loro famiglie, avvicinano gli amici al consumo di droga. Non dobbiamo tenerne conto? E poi vogliamo domandarci che cosa fanno questi ragazzi per trovare i soldi con cui comprare la droga. È molto frequente che commettano reati quando diventano dipendenti. MARCO PERDUCA - Non si recuperano i tossicodipendenti con le maniere forti. Il modello attuale, che lei sostiene ma si è dimostrato fallimentare, non è l’unico possibile. Io rispetto il lavoro delle sue comunità di recupero, ma si tratta di un’esperienza limitata, mentre il consumo della cannabis è un fenomeno di massa, che coinvolge in Italia otto milioni di persone e va affrontato con un approccio diverso, sanamente pragmatico. A nostro avviso la libera scelta delle persone informate è il modo migliore per consentire a ciascuno di condurre la sua vita come meglio crede. VINICIO ALBANESI - Io considero un grave errore minimizzare gli effetti negativi del consumo di cannabis. È una logica sbagliata, fondata su un individualismo esasperato, un’esaltazione dell’egoismo che conduce poi a legalizzare anche altre sostanze psicoattive in nome di una falsa idea di libertà. Suicidio assistito, “tempi certi e senza discriminazioni” di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 dicembre 2021 Comitato referendario eutanasia legale. Gli emendamenti proposti dall’Associazione Luca Coscioni. La pdl sul fine vita arriverà lunedì in plenaria, dopo quasi tre anni e 13 rinvii in Aula falliti. Che arrivi o no a completare l’iter parlamentare, la legge sul suicidio medicalmente assistito attesa lunedì in plenaria alla Camera dopo quasi tre anni dalla sua prima calendarizzazione (30 gennaio 2019) e 13 rinvii in Aula naufragati, il referendum sull’eutanasia legale sarà comunque necessario. Perché, come hanno spiegato i promotori della campagna referendaria che ha raccolto 1,24 milioni di firme, la pdl licenziata dalle commissioni Giustizia e Affari sociali si limita a mettere a punto una procedura - con molte falle - per l’attuazione del diritto ad una “dolce morte” riconosciuto dalla Corte costituzionale in determinate condizioni nella sentenza 242/2019. L’associazione Luca Coscioni ieri ha presentato i punti “irrinunciabili” su cui il comitato referendario intende costruire alcune proposte di emendamenti “a beneficio di tutti i parlamentari di ogni schieramento politico”. Anche se Riccardo Magi, di +Europa, ha già detto che farà sue le proposte dei referendari. Il primo punto è la “discriminazione tra malati, che pure hanno gli stessi requisiti di base”, operata dal testo di legge che gioca al ribasso per cercare di ampliare il consenso verso destra, senza però averlo neppure ottenuto. Matteo Mainardi, coordinatore della campagna per l’eutanasia attiva, ha spiegato che la Pdl prevede solo un atto suicidario “autonomo” e perciò esclude automaticamente coloro che paradossalmente versano in una condizione più grave e hanno perso qualunque autonomia. Inoltre discrimina chi non è tenuto in vita da sostegni vitali pur avendo una prognosi infausta, come i malati terminali di cancro che sarebbero costretti ad attendere il peggioramento delle proprie condizioni. C’è poi un problema sulle cure palliative che secondo il testo base devono essere state intraprese dall’aspirante suicida e solo dopo esplicitamente rifiutate. Altro punto dolente è la completa mancanza di una tempistica certa, cosa che rende una legge assolutamente inapplicabile, Il testo infatti prevede dieci passaggi: la richiesta autenticata, il tentativo e il successivo rifiuto delle cure palliative, un primo rapporto medico, il coinvolgimento del comitato etico, una prima verifica delle condizioni del malato, la decisione del comitato etico, la messa a punto della procedura da parte della Asl, un secondo accertamento medico-psicologico e solo infine l’atto suicidario. Ma solo uno di questi dieci passaggi ha un limite temporale, mentre il paziente ha tempo sessanta giorni per fare ricorso ad una delle decisioni prese riguardo la sua richiesta. In sostanza, potrebbe ripetersi anche con questa legge ciò che è successo a “Mario”, il paziente marchigiano tetraplegico, primo in Italia ad avere tutti i requisiti richiesti dalla Consulta eppure in attesa da 15 mesi di poter mettere fine alle proprie sofferenze. Infine, l’obiezione di coscienza. “Una grande conquista ma dipende da come la si introduce”, sottolinea Mainardi. “Qui hanno fatto il copia e incolla dell’obiezione come è nella legge 194”. Eppure, “era possibile un’altra via”: per esempio mutuarla dalla norma introdotta nella legge 219 sul testamento biologico, dove “non c’è un lungo elenco di figure professionali sanitarie che possono opporre la propria obiezione di coscienza a prescindere dal caso, ma si prevede invece da parte del sanitario la possibilità di scegliere e decidere caso per caso se si è disposti a soddisfare la richiesta dell’aspirante suicida”. Filomena Gallo, la presidente del comitato promotore del referendum e Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Coscioni, hanno sottolineato poi le altre restrizioni del testo di legge rispetto alla sentenza della Consulta, come l’eliminazione della sofferenza solo psicologica tra i possibili requisiti necessari. Anche se, “dopo 37 anni dalla legge a firma di Loris Fortuna, finalmente il tema della morte volontaria approda in Aula”. Gli immigrati vengono schedati come i criminali. Con il benestare della politica di Laura Carrer, Riccardo Coluccini e Gloria Riva L’Espresso, 12 dicembre 2021 A chiunque arriva da irregolare in Italia vengono prese impronte e foto. Che finiscono nel database della polizia per il riconoscimento facciale. “Si metta di fronte”. Clic. “Ora di lato”. Youssouf non capisce. Un poliziotto mima il gesto di girarsi. Youssouf fa quello che gli viene chiesto. Clic. Anche la seconda foto è fatta. È troppo sconvolto da tre giorni trascorsi su un gommoncino, sballottato dalle onde del Mediterraneo, stretto ad altri 23 corpi alla deriva, per domandarsi come mai quegli agenti lo stiano fotografando. Del resto, quattro anni fa, quando quelle foto sono state scattate a Lampedusa, non spiccicava una parola di italiano. Youssouf oggi ha 25 anni, fa l’operaio in un’azienda cartotecnica della Brianza e l’italiano l’ha imparato alla perfezione. Era partito dalla Guinea Francese nel 2016 per sfuggire alla miseria e alla guerra civile: ha attraversato Senegal, Gambia, poi di nuovo Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger e infine la Libia, dove è stato rinchiuso in prigione, picchiato, posto ai lavori forzati, rilasciato e messo su un gommone senza scarpe e con addosso un paio di stracci per conquistarsi un futuro in Italia. Complessivamente il viaggio è durato oltre un anno. Quando la Guardia Costiera lo ha raggiunto alla deriva, ad attenderlo c’era una doccia gelata per levargli il sale dalla pelle, che lo sveglia quel tanto che basta per capire di essere in salvo. A terra, a Lampedusa, ci sono un mediatore culturale e un uomo in divisa che gli fanno un sacco di domande: nome, cognome, informazioni sui propri famigliari. “Ti chiedono se hai lasciato indietro qualcosa di importante, tipo un figlio. E poi la motivazione del viaggio. Ho risposto “la guerra”, per ottenere lo status di rifugiato politico”. E le foto? “No, non me l’hanno spiegato a cosa servissero. Più tardi, ragionando, ho capito che le avevano scattate per il rilascio del primo permesso di soggiorno, che dura sei mesi”. Non proprio. Le ragioni sono altre. L’Espresso, in collaborazione con Hermes Center, associazione per la promozione di diritti umani digitali, vi racconta a cosa servono quelle immagini. È fine settembre e due ufficiali di Polizia durante gli eventi pubblici della Notte Europea dei Ricercatori di Ancona e Macerata raccontano che ogni migrante approdato a Lampedusa - ma anche negli altri centri di prima accoglienza di Pozzallo, Taranto e Trapani - viene schedato con impronte digitali e foto del volto: “Le foto e le impronte finiscono nel database Afis, Automated Fingerprint Identification System, gestito dal ministero dell’Interno e usato per confermare l’identità di un sospetto durante le indagini o altre attività di polizia”, raccontano gli agenti, che continuano spiegando come le immagini siano poi associate ad altre informazioni anagrafiche del migrante - nome, cognome, età, provenienza, motivi del segnalamento - e a segni particolari, un tatuaggio ad esempio, fotografato e caricato nel database. Tutte queste informazioni sono poi utilizzate dalla Polizia Scientifica durante le indagini di delitti di qualsiasi tipo, dal furto all’omicidio, attraverso il potente sistema di riconoscimento facciale Sari Enterprise, in grado di confrontare i volti ripresi da telecamere a circuito chiuso con quelli presenti in Afis. Se il sistema Sari trova un volto che corrisponde a un’immagine schedata nell’archivio digitale, allora gli agenti possono risalire all’indiziato: quindi, chi è incluso in Afis è considerato un potenziale sospetto, fino a prova contraria. Ma quante sono le persone schedate? Il ministero dell’Interno spiega che a inizio 2020 “in Afis ci sono 9.882.490 individui fotosegnalati, di cui 2.090.064 italiani”. I restanti 7,8 milioni sono stranieri. Questo perché nell’archivio finisce chi è indagato, chi viene ritenuto pericoloso o sospetto dalla Polizia, chi si rifiuta di dichiarare le proprie generalità, ma soprattutto chi richiede o rinnova il permesso di soggiorno e, chiaramente, chi arriva qui illegalmente, come nel caso di Youssouf, nonostante lui sia un richiedente asilo. Lo conferma un recente arresto avvenuto a Milano, dove un uomo è stato riconosciuto dalla polizia grazie al sistema di riconoscimento facciale Sari, che avrebbe comparato l’immagine del profilo WhatsApp dell’indagato con la foto raccolta per la richiesta di asilo e inclusa in Afis. Così, i richiedenti asilo, che dovrebbero ricevere particolare protezione e assistenza legale, finiscono nello stesso calderone dei peggiori criminali del Paese. La presenza di rifugiati politici nell’archivio è confermata a L’Espresso dalla Polizia di Stato, senza tuttavia fornire cifre esatte perché: “potrebbe ingenerare un pregiudizio concreto alla tutela dell’interesse pubblico”, dicono. Anche se non è chiaro in quale misura un’azione di trasparenza possa arrecare danno ai cittadini. Da un punto di vista normativo, la Polizia non fa altro che rispettare la legge: i migranti sbarcati in Italia sono a tutti gli effetti criminali. Lo dice la Bossi-Fini che, avendo eliminato la possibilità di entrare in Italia alla ricerca di lavoro, se non vincendo alla roulette dei circa 40mila posti annui messi a disposizione dal decreto flussi (per lo più riservati agli stagionali dell’agricoltura), impone a tutti gli altri - rifugiati politici compresi - di conquistarsi il diritto a una vita dignitosa entrando illegalmente nel Paese. È poi l’Europa a imporre all’Italia di identificare gli stranieri irregolari all’interno degli hotspot. E secondo quanto previsto dal regolamento Eurodac, il database europeo delle impronte digitali che fa capo al dipartimento per le politiche europee, ci sarebbe l’obbligo di informare il migrante “sull’uso futuro dei dati personali e biometrici raccolti e quindi sull’identità del responsabile del trattamento, sullo scopo per cui i suoi dati saranno trattati all’interno del sistema Eurodac, sui destinatari dei dati, sul diritto di accesso o di modifica ai dati raccolti in merito alla sua persona e sull’obbligatorietà di tale rilevamento”, si legge nel regolamento. Nella pratica, come emerge dal report “Tecnologie per il controllo delle frontiere in Italia” del Centro Hermes, il processo di identificazione dei migranti risulta più complesso e per nulla trasparente. All’hotspot di Lampedusa, nella fase di pre-identificazione, la questura di Agrigento compila un “foglio notizie”, cioè un modulo contenente l’identità della persona e le motivazioni per cui è giunta in Italia. Il modello non è tradotto in tutte le sue parti e non sempre il mediatore culturale riesce a colmare queste lacune, come Youssef ha raccontato a L’Espresso. Sempre a Lampedusa è invece la polizia scientifica di Palermo a effettuare le procedure di fotosegnalamento: vengono usati tre diversi moduli per raccogliere le impronte delle dita, del palmo di ogni mano, i dettagli sul luogo e motivo del segnalamento, i dati anagrafici, i connotati fisici, i segni distintivi e infine la presenza nel database Eurodac. Queste azioni vengono svolte all’interno di un container dell’hotspot dove non può accedere alcun organo indipendente, neppure gli operatori delle Nazioni Unite: “Non siamo presenti durante il riconoscimento, sappiamo però che sono presenti i mediatori culturali della Polizia di Stato”, conferma Carlotta Sami, portavoce Unhcr per l’Italia. Così, in questa fase delicata, il rispetto delle procedure, così come la possibilità di rettifica dei dati o l’espressione di consenso informato da parte dei migranti, sono lasciati nelle mani della professionalità degli operatori della scientifica e di Frontex. Inoltre, la Scientifica di Palermo ha dichiarato che è la Questura di Agrigento a occuparsi di comunicare, al momento dell’intervista con il migrante, una nota informativa redatta in più lingue con i riferimenti sui diritti dell’interessato previsti dal regolamento Eurodac. Copia dell’informativa, ottenuta da L’Espresso, mostra come vengano rilasciate informazioni generali sull’inserimento all’interno del database Eurodac, ma non vi sono dettagli sull’inclusione nel database Afis. Secondo la Polizia di Stato, a fornire informazioni a tal proposito sarebbe la direzione centrale dell’immigrazione e la Polizia delle Frontiere, ma i contorni sono piuttosto sfumati. “Si sa pochissimo della fase di riconoscimento”, conferma Bianca Benvenuti di Medici senza Frontiere, che ha trascorso parecchi mesi all’hotspot di Lampedusa, e continua: “Perché non abbiamo accesso alle aree riservate alle procedure di segnalamento. Quello che osserviamo è la netta priorità dell’identificazione rispetto all’assistenza ai migranti. Prima di poter avere qualsiasi assistenza devono essere riconosciuti e, specialmente quando l’hotspot è sovraffollato, le persone sono lasciate ad attendere il proprio turno per l’identificazione anche parecchi giorni, sotto al sole, senza alcun aiuto, in un luogo fatiscente, con un solo bagno. E se chi arriva ha già ricevuto un decreto di espulsione, come nel caso di molti migranti provenienti dalla Tunisia, allora la fase di riconoscimento si allunga moltissimo, fino a un mese. Solo successivamente possono ricevere sostegno”, racconta Benvenuti. La politica sottoscrive l’uso di queste tecnologie sui migranti per rispondere alla percezione di insicurezza dei cittadini, ma senza un adeguato livello di dibattito sul tema e con il rischio di estendere ad libitum la strategia del controllo di massa. Già succede negli Stati Uniti, dove gli assalitori di Capitol Hill sono stati identificati dalla polizia sfruttando diversi database per il riconoscimento facciale. Il report del Centro Hermes fa emergere come, tra il 2014 e il 2020, lo Stato Italiano sia stato finanziato proprio dall’Unione Europea con una cifra di circa mezzo miliardo di euro per l’acquisto e il potenziamento di tecnologie di riconoscimento facciale e per accelerare il processo di identificazione e controllo alle frontiere come su territorio nazionale. Di più, nel progetto Telefi, Towards the european level exchange of facial images, cioè “Verso lo scambio europeo di immagini facciali”, c’è la conferma che, in alcuni casi specifici, la polizia può accedere a database civili, che contengono le foto delle carte d’identità e dei passaporti, per condurre le proprie indagini. “Non credo che queste tecnologie siano efficaci e legittime”, argomenta Filippo Sensi, deputato Pd, che ha presentato una moratoria per il riconoscimento facciale ad aprile di quest’anno, e continua: “Lo scenario di una possibile collaborazione internazionale tra database, non solo è possibile, ma attuale. È giusto dare alle forze dell’ordine gli strumenti utili per fare le indagini e colpire i criminali. Ma strumenti inefficaci, che violano un principio minimo di libertà personale, non sono la direzione giusta”. Sensi promette battaglia a suon di interrogazioni parlamentari, ma nel frattempo le sperimentazioni sul fotosegnalamento dei migranti continuano. Quegli immigrati in mano ai padroni. Se il caporalato nero diventa una “scoperta” di Karima Moual La Stampa, 12 dicembre 2021 Il padrone non vuole; Non posso perché la padrona ha bisogno di me tutta la settimana; quest’anno non possiamo venire per le feste perché c’è molto lavoro e il padrone non ci lascia…”. Questa figura misteriosa del padrone e della padrona, evocata dai miei genitori, mi ha seguita per lunghissimi anni. Prima quando ero ancora bambina in Marocco e loro erano emigrati in Italia a lavorare per noi, ma anche quando li raggiungemmo in Italia dove ho potuto constatare quanto i miei genitori lavorassero davvero tanto, anzi Mohamed e Khadija sgobbavano veramente come due schiavi. Anche quello era il prezzo della loro emigrazione. Orari massacranti senza giorni di pausa e pochi giorni di ferie - solo a Natale - dove per meno di 20 giorni riuscivano a venire in Marocco a trovarci. Erano gli anni ‘80, e per molti anni, senza documenti, lavorarono in nero, ma anche quando i documenti li ebbero e vennero messi in regola, “il padrone” invece di contrattualizzarli con orari precisi, ha preferito dare loro un forfait, sempre con orari massacranti dove la coppia doveva essere sempre a disposizione. I dettagli dei loro contratti non li conoscevano e nemmeno si azzardavano a chiedere. Per diversi anni, rispetto agli altri colleghi italiani, loro non avevano né tredicesima, né quattordicesima. Eppure loro, quei padroni quasi li veneravano. Credo perché si erano convinti di trovarsi in una condizione di inferiorità, perché migranti. La discriminazione retributiva erano finiti per sopportarla, che infondo loro, alla fine un lavoro in regola lo avevano, e quello sfruttamento era una condizione a cui sottostare. Non c’era altra scelta, e credevano di essere pure fortunati. Passarono davvero diversi anni prima di sentire un padre, non più giovane, discutere con mia madre perché aveva preso la decisione di iniziare una nuova vita, mettersi in proprio: Non voglio più lavorare sotto padrone - disse quasi gridando. Lo disse con una rabbia feroce e un orgoglio commovente. Ecco, penso a loro, al loro sacrificio come generazione che non sembra bastare perché nonostante siano passati ormai tanti anni, ancora il nostro paese, continua a far vivere lo sfruttamento e la schiavitù a migliaia di persone, che hanno la sola colpa di provenire da un paese straniero, e mettersi a disposizione per un lavoro, che qualcuno non vuole fare. Sull’ennesima inchiesta (“Terra Rossa”) sul caporalato non possiamo avere un sussulto di sorpresa perché c’è di mezzo la moglie di un Prefetto, ma bisognerà vergognarsi per come si finge di non vedere lo sfruttamento e la schiavitù che ormai da decenni continuano a subire i migranti in un settore, quello agricolo, dove difficilmente possono essere nascosti centinaia di corpi e baracche che si muovono a macchia d’olio nel territorio italiano. Poi, sappiamo molto bene, che lo sfruttamento è presente anche in altri settori, come quello dell’edilizia, i servizi, ma dove si mimetizza meglio rispetto a quello agricolo. Sfruttamento e lavoro nero che mettono in crisi anche il nostro sistema pensionistico. Eppure si finge di non avere gli strumenti per combatterlo quando basterebbe investire nella legalità. Quella vera però, che non chiede alla persona fragile e già sfruttata di pagare una somma di denaro per uscire dalla gabbia. Le varie sanatorie - da ultima, quella della Bellanova - sono state un flop perché regolarizzarsi era un percorso ad ostacoli tra cavilli burocratici insieme alla richiesta di un esborso di denaro davvero vergognoso per un paese civile. Non si è capito se l’intenzione fosse fare cassa, o far uscire dallo sfruttamento e dalla illegalità, migliaia di migranti già in condizioni davvero umilianti. Per affrontare l’illegalità, lo sfruttamento e la schiavitù nelle quali molti migranti sono ingabbiati non rimane che un’iniziativa politica, che non è né di sinistra o di destra ma di buon senso perché tocca una vera emergenza per il paese: regolarizzare le centinaia di migliaia di migranti sul territorio che dimostrano di avere un lavoro, in un percorso di accompagnamento e tutela. Solo in questo modo, togliamo il primo strumento ricattatorio che continuiamo di fatto a lasciare in mano ai caporali. Ci vuole un piano di legalità sullo sfruttamento dei lavoratori immigrati. I vari lavoratori sfruttati e schiavizzati, sono persone che noi stessi rendiamo fragili perché senza documenti e perfetta manovalanza per l’illegalità. Passi per i miei genitori, ma può essere accettabile ancora oggi il messaggio secondo cui la condizione di migrante porta dietro a sé quella di subalternità e inferiorità nel contesto lavorativo? Quei corpi che continuano a non ribellarsi e a sottomettersi all’ingiustizia e nel silenzio, sembrano crederlo. Ancor più che ad oggi non hanno trovato nessuno che dimostri il contrario, con una scelta politica e concreta che gli faccia uscire davvero dalla gabbia dello sfruttamento. Sul confine Italia-Francia coi volontari per i migranti. Fermare il naufragio di civiltà di Cinzia Monteverdi Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2021 “Fermiamo il naufragio di civiltà”; “Finisca il rimbalzo di responsabilità”; “Paura e cinico disinteresse uccidono. È tragico che in Europa qualcuno la consideri una questione che non lo riguardi”; “Chiusure e nazionalismi portano a conseguenze disastrose”. Sono anche parole come queste, quelle di un grande uomo che si chiama Francesco, il nostro Papa, esempio di cristianità sia per i laici sia per i cattolici, a spingerci con la Fondazione del Fatto Quotidiano ad affrontare un nuovo progetto. Siamo stati contattati dalla Croce Rossa Italiana di Val Susa perché la aiutassimo ad assistere i migranti. Dal 2017 la Valle di Susa, naturale corridoio di collegamento tra l’Italia e la Francia, vede il transito di migliaia di persone migranti che tentano di valicare le Alpi in cerca di un futuro migliore; provengono dalla rotta mediterranea o dalla via dei Balcani. Nel compiere questo viaggio si espongono a grandi rischi, specie nel periodo invernale: rischiano di morire di stenti e di freddo. Il lavoro dei volontari della Croce Rossa Italiana è fondamentale. Hanno l’obiettivo di proteggere i migranti fornendo ogni giorno e ogni notte aiuto materiale (con coperte termiche e bevande calde), informazioni, possibilità di un ricovero notturno o di un intervento in caso di emergenza. Spesso si ritrovano ad assistere intere famiglie con bambini piccoli. E anche in questo caso - come per gli altri progetti che ha in corso la Fondazione, e per i quali in poco tempo abbiamo raggiunto i risultati sperati - vogliamo sottolineare il lavoro meraviglioso dei volontari. Che anche in Valle di Susa ogni giorno, ventiquattr’ore su ventiquattro, assistono persone nel tratto più difficile del loro percorso verso una vita migliore. Al già citato “rimbalzo di responsabilità” di cui parla Papa Francesco aggiungerei l’aggettivo “schifoso”. Il pianeta Terra non è di nessuno, non abbiamo la proprietà della vita degli altri né il diritto di negare la salvezza, il sogno di scappare da ingiustizie, soprusi e stenti. Dovrebbe sorprendere, anche se ormai purtroppo non sorprende più, l’atteggiamento di certi politici che inneggiano alla vita facendo battaglie contro l’aborto o contro l’eutanasia, per poi invocare la chiusura dei porti e continuare a sostenere che queste persone devono essere aiutate “là”, “a casa loro”. Parlando di un “là” che nemmeno conoscono, e dove non resisterebbero nemmeno un giorno se ci vivessero. Mai che nessuno di loro abbia spiegato come si tradurrebbe, in concreto e nell’immediato, questo fantomatico aiuto “là”. Perché si parla di immediatezza quando l’aiuto deve salvare vite umane; non di anni di riflessioni sulle politiche internazionali. Vengono poi spesso strumentalizzati coloro che delinquono e che sono presenti, come è naturale che sia, all’interno di questi flussi migratori che non sono avulsi dalle realtà che viviamo. Ogni volta che uno straniero commette un atto di violenza, un reato, dal più piccolo al più grande, lo si esibisce, per le strategie politiche del caso, a riprova di una necessaria chiusura dei porti e delle frontiere. E si confonde così, appositamente, il caso singolo con il tutto. E non si pensa mai abbastanza al fatto che se queste persone sono disposte ad attraversare mari in tempesta con imbarcazioni di fortuna, o Alpi innevate con temperature impossibili come in Valle di Susa, significa che sono pronti alla morte pur di non rimanere in quel “là” che è così lontano da non riguardarci. Danno fastidio a tutti i violenti, così come il degrado di alcune città dove si riuniscono gruppi di persone che sempre più spesso provengono da quel “là” e che si ritrovano a vivere accatastando sporcizia o molestando chi passa. Sì, danno fastidio a tutti. È inutile trincerarsi nel falso buonismo. Però è necessario distinguere. E fissare delle priorità. La prima: salvare la vita delle persone. Non si può reputare un merito l’essere nati in una determinata parte del mondo; è solo dovuto al caso di un seme e di un ovulo che hanno determinato la nostra nascita in un luogo rispetto a un altro. Ci penso sempre a questa cosa. È stata una gran botta di culo non nascere sotto le bombe, o in Paesi torturati da ingiustizie politiche, o da dittature politiche e religiose. Con il pensiero che le persone disperate vadano aiutate tutte, che siano cittadini italiani o cittadini del mondo, abbiamo deciso di aiutare la Croce Rossa in Val Susa. La Fondazione contribuirà direttamente con una donazione. Ma, in aggiunta, partiamo proprio oggi con la raccolta fondi per la fornitura di kit di assistenza con cibo autoriscaldanti e coperte termiche. Non c’è tempo da perdere. Non si può rimanere indifferenti di fronte a famiglie intere che si tengono per mano affrontando a piedi le Alpi. L’Olanda sta chiudendo le prigioni per mancanza di detenuti di Valeria Casolaro L’Indipendente, 12 dicembre 2021 L’Olanda sta trasformando le proprie prigioni in edifici di utilità sociale, quali scuole e centri per i rifugiati. Questo è possibile grazie alla riduzione della popolazione carceraria, una tendenza costante negli ultimi anni, resa possibile dalle peculiari modalità di gestione del sistema giudiziario. Tra queste, la decriminalizzazione del lavoro sessuale e delle droghe leggere, i programmi di intervento per la gioventù e l’esistenza di specifici istituti di recupero per criminali con problemi di salute mentale. Due giorni fa la British School of Amsterdam ha vinto un prestigioso premio per aver convertito in aprile una ex prigione in una scuola per 1000 studenti tra i 3 e i 18 anni. Si tratta solamente dell’ultima di una lunga serie di riconversioni di edifici carcerari caduti in disuso in strutture di pubblica utilità. Tra il 2014 e il 2019 sono state 23 le strutture chiuse e destinate a finalità socialmente utili, soprattutto istituti per studenti e centri di accoglienza per migranti. La costante diminuzione della popolazione carceraria registrata negli ultimi anni (fatta eccezione per un leggerissimo rialzo dal 2019) è dovuta alla peculiare gestione delle vicende giudiziarie in Olanda. In primo luogo vi è la scelta di non criminalizzare il lavoro sessuale e le droghe leggere. L’attitudine del sistema di giustizia penale olandese, inoltre, è di considerare la riabilitazione come la chiave della risoluzione dei problemi sociali, piuttosto che il ricorso a un’attitudine securitaria o punitiva. Questa costituisce un vero e proprio focus nell’elaborazione di un percorso adatto al criminale, che viene chiuso in carcere solamente in ultima ratio. Le pene detentive tendono, in ogni caso, ad essere brevi. Uno tra gli aspetti chiave di questo sistema è il TBS (ter beschikking stelling, ovvero “rendere una persona disponibile per il trattamento psichiatrico”), misura che può essere imposta a soggetti che abbiano compiuto reati quali omicidio, anche colposo, aggressione, stupro, incendio doloso, produzione di pornografia infantile e così via che siano giudicati mentalmente insani o solo parzialmente responsabili. Per questi soggetti si ritiene che la detenzione non porti ad alcuna correzione della devianza: il TBS mira piuttosto a una riabilitazione psichiatrica per prevenire le recidive una volta che i soggetti vengono rilasciati. Secondo alcuni studi, la percentuale dei criminali che compie recidiva dopo il TBS è inferiore al 34%. Per quanto non si tratti di un sistema perfetto, i frutti si sono visti con il trascorrere degli anni: basti considerare che per il 2021 il tasso di incarcerazione in Olanda è di 63 detenuti ogni 100 mila persone, in Italia di 90. Quest’ultima è anche il Paese nel quale, secondo l’ultimo report pubblicato dal Consiglio d’Europa, si soffre maggiormente del problema di sovraffollamento nelle carceri. Per ovviare a tale situazione il Pnrr ha previsto di stanziare 132,9 milioni di euro per l’ammodernamento del sistema carcerario e la costruzione di nuovi edifici per la detenzione. Si tratta di un sistema che in più occasioni si è dimostrato poco funzionale e bisognoso di uno strutturale ripensamento: secondo il nostro ordinamento il carcere dovrebbe essere costituire l’ultima misura posta in essere, dopo aver vagliato una serie di alternative rieducative. La costruzione di nuove carceri appare invece come una misura di pura conservazione di un sistema penale che continuerà così a vorticare su sé stesso riproponendo le medesime problematiche. Egitto. Patrick Zaki e la colpa della libertà di Francesca Mannocchi L’Espresso, 12 dicembre 2021 La giustizia egiziana lo ha scarcerato ma non lo ha assolto. Perché il regime vuole ricordarci che può cancellare la punizione e lasciare la colpa. La giustizia egiziana ha ordinato il rilascio di Patrick Zaki, studente, ricercatore presso l’Eipr (Egyptian Initiative for Personal Rights). Viene rilasciato dopo 22 mesi di detenzione, reiterata ogni mese e mezzo. Una tortura nell’ingiustizia. Scarcerato ma non libero, Zaki. Deve tornare a processo il primo febbraio. “Non è stato assolto”, ribadisce la corte di Mansoura. A monito, pare di capire, verso questo giovane che ha la colpa di osservare, scrivere e raccontare i diritti rivendicati e quelli traditi. E monito anche verso di noi. La corte di Mansoura non sta solo dicendo a Zaki che non è finita, sta ricordando a noi, all’Europa culla dei diritti, che può aprirsi la porta della cella, può affacciarsi una folata di libertà a favore di telecamera, tweet e dichiarazioni del politico di turno, ma che la lezione non è finita nemmeno per noi. Perché a restare inalterata, anche se la punizione decade, è la colpa. Sul tempo di Zaki, come prima è stato il corpo di Giulio Regeni, si scrive la ricattabilità dell’Europa e insieme le grandi domande che questa triste vicenda ci restituisce: cos’è la punizione? E: perché puniamo? Il sociologo francese Didier Fassin, nel suo saggio “Punire: una passione contemporanea”, ci ricorda quanto negli ultimi decenni le nostre società siano diventate più repressive nonostante questo non abbia alcun legame diretto con lo sviluppo della delinquenza e della criminalità. La punizione, dice Fassin, è diventata non solo l’unico mezzo della legge, ma anche il nostro standard morale ed emotivo. Accettiamo la punizione di tutto ciò che ci spaventa, che siamo incapaci di gestire. La giustizia egiziana pare averlo capito più di noi. Ci ricorda, con la sua decisione, che si può sospendere la pena che è il carcere. Ma non la colpa, che è la libertà. Georgia. La congiura del silenzio intorno all’omicidio di Antonio Russo di Jacopo Ottenga Barattucci Il Domani, 12 dicembre 2021 Antonio Russo collaborava con Radio Radicale documentando le guerre dimenticate: Congo, Algeria, Kosovo. Luoghi dove intere minoranze etniche vengono sacrificate sull’altare degli interessi economici e delle ambizioni di potere. Dal dicembre 1999 stava seguendo il conflitto ceceno dalla Georgia. I confini russi, infatti, erano blindati, anche se aveva tentato più volte di forzarli. Quella è stata la sua ultima missione. Il 16 ottobre 2000 è stato trovato in una stradina di campagna nel circondario di Tbilisi con il torace sfondato. Il ritrovamento è avvenuto in modo del tutto casuale: un ex poliziotto ha segnalato il corpo ai colleghi di un posto di blocco stradale a 800 metri di distanza. Il mistero di questo assassinio ruota intorno a sei cassette Vhs, un cd-rom, un computer, un telefono satellitare e una macchina fotografica. Il materiale è stato preso, insieme ad Antonio, nella notte tra il 14 e il 15 ottobre dall’appartamento dove viveva a Tbilisi, lungo una strada tranquilla che taglia il centralissimo viale Rustaveli. La mattina del 15 un paio di amici, David Khoshtaria e Giorgi Mekhrishvili, ne hanno denunciato la scomparsa. L’abitazione era stata messa sottosopra ma la polizia, inspiegabilmente, ha ritardato le ricerche. Nulla di quel materiale trafugato è stato mai ritrovato. Antonio aveva raccolto ampia documentazione sulle atrocità compiute dai russi. In particolare, durante un congresso internazionale tenuto nella capitale georgiana venti giorni prima di essere ucciso, aveva denunciato l’uso di armi proibite sui civili ceceni, specificandone la tipologia: mine antiuomo, ordigni a grappolo, bombe vacuum, gas nervini. “Per i russi è una sorta di laboratorio di verifica di tutte le armi da loro prodotte” aveva riportato nelle corrispondenze per la radio. Nel corso della rogatoria internazionale del luglio 2001 il funzionario a capo delle indagini georgiane, David Minashvili, ha rivelato agli investigatori italiani, Leonardo Biagioli e Lorenzo Trauzzi, di aver recuperato l’intero materiale. Non solo, ha aggiunto che la delicata transazione avrebbe consentito di raggiungere “ulteriori importanti risultati”. Gli inquirenti italiani hanno trascurato la testimonianza di Minashvili fino al giugno 2003, quando hanno ritenuto di doverne chiedere conto alla procura georgiana. Nel frattempo Minashvili è stato rimosso e non ha lasciato indicazioni al suo successore. Quattro mesi più tardi la procura ha smentito tutto, spiegando di non essere mai rientrata in possesso del materiale rubato. Il sospetto è che possa esserci un legame tra la sostituzione di chi si occupava delle indagini e la dichiarazione ufficiale della procura. Nel luglio 2001 però, un altro fatto sembra confermare il ritrovamento di quanto trafugato. Gli inquirenti georgiani consegnano a quelli italiani due videocassette che sostengono di aver rinvenuto durante un sopralluogo in casa di Antonio, una su un tavolino in soggiorno, l’altra di fianco al televisore. Contengono prove dell’utilizzo da parte dei russi di armi non convenzionali sulla popolazione cecena. Ma non sono inedite, Antonio le aveva già mostrate in un paio di conferenze. E sicuramente non contengono le sequenze più impressionanti, ovvero quelle ricevute da fonti non accertate di cui ha parlato con la madre in una telefonata concitata all’inizio di ottobre. È a lei che aveva manifestato la ferma intenzione di consegnare tutto al tribunale dell’Aia. È impossibile che nell’abitazione di Antonio siano state rinvenute cassette contenenti immagini di guerra. Perché, come riporta il verbale del sopralluogo, indicandone la medesima collocazione, le due cassette Vhs che erano in bella vista la mattina del 15, contenevano filmati di storia e arte georgiana (una delle due reca il titolo “The treasures of Georgia”) e sono state trascurate dagli inquirenti in quanto prive di utilità per le indagini. Lo testimoniano anche Khoshtaria e Mekhrishvili che erano con Antonio al museo nazionale quando lui le ha comprate. Ma il punto è un altro. Se le due cassette con i video della guerra sono finite nelle mani degli inquirenti significa che in qualche modo sono state ritrovate. La manipolazione delle informazioni sembra evidente, perché all’appello mancano altre quattro videocassette e la documentazione più rilevante, con tutta probabilità, è stata omessa. Le cassette possono essere parte del materiale recuperato da Minashvili, oppure copie estratte dall’archivio di Surho Idiev, responsabile dell’agenzia d’informazione cecena Kibe che operava a Tbilisi in modo indipendente malgrado controlli e pressioni interne. Infatti, seppur amministrativamente autonoma, la Georgia era all’epoca ancora legata alla Federazione russa, non solo economicamente. Surho è stata sicuramente la principale fonte di Antonio, che raccoglieva notizie dirette sull’evolversi del conflitto anche da profughi e guerriglieri, recandosi abitualmente nel Pankisi, area a 100 chilometri dalla capitale. Nelle sue deposizioni Surho ha confermato di aver girato ad Antonio sei cassette e un cd-rom contenenti prove concrete dei crimini e delle responsabilità di alti ufficiali russi. Oggi ridimensiona il materiale definendolo non esclusivo né così compromettente da aver messo il giornalista italiano in pericolo, e aggiunge che anche se divulgato, i contenuti non avrebbero inferto un colpo al potere di Mosca. Le sue dichiarazioni, però, sono state sconfessate dagli amici comuni Khoshtaria e Mekhrishvili, i quali hanno detto che Surho temeva per la vita di Antonio proprio a causa di quanto gli aveva consegnato e si era raccomandato con loro di seguirlo come angeli custodi. Dunque non si tratta di documenti “standard”, come li definisce chi ne vuole ridimensionare il valore. Operazione che viene condotta con metodo tanto dagli inquirenti tanto da chi, a vario titolo, è intervenuto nella vicenda, col risultato di allontanare la verità. Sono stati formulati almeno una decina di moventi: dal sequestro a scopo di rapina finito male all’incidente stradale; fino al delitto passionale; allo sgarro a un capo clan punito per questioni di onore; alla conoscenza, tramite il rapporto con i servizi segreti, di commistioni tra la malavita e i vertici del governo; alla scoperta casuale di traffici sugli aiuti umanitari; al commercio d’organi umani addirittura prelevati da corpi vivi. A ogni movente corrisponde, ovviamente, un responsabile: i servizi russi, quelli georgiani, la delinquenza comune, il crimine organizzato, un delatore. La doppia inchiesta giudiziaria aperta in Georgia e a Roma non ha condotto a nulla. Anche se sono stati soprattutto gli inquirenti di Tbilisi a complicare con informazioni ambigue e tentativi di occultamento il percorso delle indagini. L’autopsia non ha rilevato un significativo trauma cranico che potrebbe illuminare la dinamica del sequestro, non ha stabilito l’orario della morte e ha attribuito lo schiacciamento toracico alla compressione fra due piani resistenti, come tra un veicolo e un muro. Una ricostruzione incompatibile, però, con l’assenza di lesioni alla colonna vertebrale certificata dal medico legale italiano che ha ripetuto l’esame. Mancano testimonianze ed elementi cruciali come la deposizione degli agenti in servizio al posto di blocco stradale la notte precedente al ritrovamento del cadavere, i risultati dei rilievi eseguiti in casa dalla scientifica e soprattutto i tabulati telefonici, la cui assenza preclude la conoscenza degli ultimi contatti di Antonio. Gli italiani, di fronte alle evidenti omissioni, non hanno esercitato pressioni né portato avanti particolari iniziative. L’unica è stata quella di indicare un indagato improbabile, peraltro l’unico: un documentarista olandese ospitato da Antonio nell’ultimo periodo che, ipso facto o quasi, ha dimostrato con prove inconfutabili la sua estraneità all’omicidio. Che resta una ferita aperta nella democrazia italiana. Il dramma dei genitori in Afghanistan: costretti a vendere i propri figli per sfamare la famiglia di Albert Voncina L’Espresso, 12 dicembre 2021 A causa della siccità e del congelamento degli aiuti umanitari in seguito alla presa di potere dei talebani un terzo della popolazione si è ritrovato a corto di cibo. La storia di Bibi e Mohammad. Vendere uno dei propri figli per ottenere in cambio soldi con i quali poter dare da mangiare al resto della famiglia per i prossimi sei mesi. Questa è solamente una delle drammatiche testimonianze raccolte da Save the Children in Afghanistan, Paese in cui a quattro mesi dall’addio dell’Occidente in seguito alla presa di potere da parte dei talebani un terzo della popolazione si è ritrovato a corto di cibo. Un gesto estremo, quello raccontato dall’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro. Bibi e suo marito Mohammad (i nomi sono di fantasia), rispettivamente di 40 e 45 anni, non hanno avuto nessuna alternativa se non affidare uno dei loro gemelli nati pochi mesi fa a un’altra famiglia senza bambini perché non hanno abbastanza soldi per sfamare i loro 8 figli. “Non abbiamo niente, come potrei prendermi cura di loro? È terribile dividerli, è stata una decisione molto difficile, più di quanto possiate immaginare. È stato particolarmente difficile dare via il bambino a causa della povertà”, ha raccontato Bibi che ha spiegato che avrebbe voluto dar via suo figlio senza ricevere nessun pagamento in cambio ma alla fine ha accettato una piccola somma per il bambino. “Non potevo permettermi latte, cibo o medicine. Con quei soldi posso comprare cibo per sei mesi”. La famiglia di Bibi e Mohammad è stata costretta ad abbandonare la propria fattoria circa sette mesi fa a causa della siccità prolungata che ha devastato i raccolti e spinto milioni di persone sull’orlo della carestia. Siccità che, secondo le Nazioni Unite, in Afghanistan rischia di trasformarsi da evento episodico a evento annuale entro il 2030. A ciò vanno aggiunti gli aiuti economici internazionali congelati e i combattimenti del 2021 che hanno impedito ad agricoltori e coltivatori di piantare i raccolti annuali, con il conseguente aumento del prezzo del grano del 25% per cento. Un mix di fattori che ha portato alla peggiore crisi alimentare mai registrata. Si prevede che in Afghanistan oltre il 97% della popolazione scenderà al di sotto della soglia di povertà entro la metà del prossimo anno. Save the Children sottolinea inoltre che milioni di bambini rischiano di ammalarsi o addirittura di morire perché non hanno abbastanza da mangiare e si stima che 3,2 milioni di bambini sotto i cinque anni soffriranno di malnutrizione acuta entro la fine del 2021. È stato quindi estremamente difficile per Mohammad trovare lavoro anche solo per un paio di giorni alla settimana e, anche se ha un impiego, il salario di un’intera giornata, pari a meno dell’equivalente di due euro, non copre nemmeno due giorni di spese per la famiglia. Per integrare le entrate familiari il figlio di 12 anni è costretto a lavorare nel mercato locale spingendo i carrelli che trasportano gli effetti personali delle persone. “Abbiamo bisogno di aiuto, abbiamo fame e siamo poveri”, ha detto Mohammad. “Non c’è lavoro in Afghanistan. Abbiamo dei figli e ci servono farina e olio. Servirebbe anche legna da ardere. Negli ultimi due o tre mesi non ci siamo potuti permettere di comprare la carne, abbiamo solo il pane per i bambini e anche quello non è sempre disponibile”. La storia di Bibi e Mohammad è solamente uno dei tanti drammi dell’ultimo periodo, visto che sempre più famiglie sono costrette a gesti estremi pur di sopravvivere. Save the Children ha raccolto anche la storia di Fatima (anche in questo caso il nome è di fantasia), madre single di due gemelli, che ha subìto pressioni dalla famiglia per abbandonare uno dei suoi figli. Ara e Milad (nomi di fantasia), gemelli di 18 mesi, sono entrambi malati e deboli e, visto il clima sempre più freddo e Ara che soffre di una grave malnutrizione, Fatima ha spiegato che non può permettersi di prendersi cura dei suoi bambini ma non può abbandonare la figlia. “I bambini hanno pianto tutta la notte perché avevano fame. Non abbiamo niente in casa, non abbiamo cibo, né farina, niente”, ha detto Fatima. “Mio marito non ci manda soldi, mi dice ‘lasciala morire’. Invece altri mi hanno detto ‘la compreremo’, ma io non l’ho lasciata. Spero ancora che i miei figli possano stare bene in futuro”. Ed è per evitare drammi simili che Save the Children ha lanciato un appello, l’ennesimo. L’organizzazione sta fornendo infatti alle famiglie afghane cibo, formazione sulla nutrizione per neonati e bambini piccoli, kit per l’igiene, coperte e vestiti caldi per affrontare il rigido inverno. Ma ciò non basta. Save the Children chiede ai governi di applicare deroghe urgenti alle loro attuali politiche antiterrorismo e alle sanzioni per consentire la consegna rapida e ininterrotta di aiuti umanitari salvavita e esorta i governi donatori a fornire finanziamenti immediati per aiutare i bambini vulnerabili e le loro famiglie. “Gli sforzi umanitari sono ostacolati da sanzioni e politiche antiterrorismo che impediscono agli aiuti di arrivare alle famiglie che ne hanno disperatamente bisogno. Dobbiamo agire subito per fornire ai bambini l’aiuto salvavita di cui hanno bisogno per sopravvivere all’inverno”, il grido di Nora Hassanien, direttrice di Save the Children in Afghanistan.