Il mondo fuori è cambiato, cambiamo anche il carcere di Alessio Scandurra* Il Riformista, 11 dicembre 2021 Non si può ripartire da modelli concepiti in altre stagioni: l’emergenza terrorismo e quella mafiosa sono ricordi del passato, dietro le sbarre oggi c’è l’emergenza sociale. Meno isolamento, più sorveglianza dinamica, spazio alle nuove tecnologie per lavorare, studiare e tenere viva una rete di relazioni affettive. Non è un momento facile per le carceri italiane. La pandemia, com’era prevedibile, ha comportato una chiusura immediata e netta del sistema penitenziario. La chiusura è infatti la reazione tipica del carcere a qualunque stagione di crisi, e in questo caso la chiusura era più comprensibile e giustificata che mai. Ma mentre fuori lentamente si sperimenta un traballante ritorno alla normalità, in carcere questo processo appare lento e difficile. Le visite che Antigone ha svolto nel corso dell’ultimo anno svelano un carcere dove ad esempio la formazione professionale è ferma praticamente ovunque da ormai due anni, dove la scuola procede a scartamento ridotto, così come molte attività trattamentali e la presenza del volontariato. Di conseguenza si passa più tempo chiusi in cella, o nel corridoio della sezione, e le sezioni a celle aperte, che si erano affermate come la nonna prima della pandemia, in ottemperanza della sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo, sono diminuite rispetto ad allora. È in questo complicato contesto che sono maturati fatti drammatici come i pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, o il quotidiano e silenzioso abbandono che abbiamo trovato nel reparto di osservazione psichiatrica del carcere di Torino. Eppure, come in ogni momento difficile, bisogna saper guardare avanti per individuare una via d’uscita. Ieri nella Giornata mondiale dei diritti umani, Antigone ha presentato a Roma le sue proposte di modifica del regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario. Sono passati più di vent’anni dal regolamento del Duemila, parti della legge penitenziaria sono nel frattempo cambiate, ma è cambiato anche il carcere e chi ci vive e ci lavora. Da ultimo anche a causa della pandemia. La nostra proposta parte dall’idea che non sia affatto necessario che, nella ricerca della sua nuova traballante normalità, il carcere debba ripartire da modelli concepiti in altre stagioni. L’emergenza terrorismo, e poi quella mafiosa, sono ricordi del passato. Oggi il carcere italiano è quello dell’emergenza sociale, della povertà e dell’esclusione. Ma come dicevamo anche la società fuori è cambiata. È cambiato il nostro rapporto con le nuove tecnologie, che sono ormai mia risorsa essenziale per le nostre interazioni sociali e la nostra vita professionale. Ma che in carcere non sono mai entrate se non con l’arrivo della pandemia, in risposta all’emergenza e per restare in contatto con i familiari. È un fatto positivo ma che va consolidato ed allargato al resto della vita penitenziaria. Il lavoro a distanza, la telemedicina, la formazione da remoto e l’accesso libero all’informazione sono una risorsa straordinaria per tutti, ed è tempo che anche il carcere ne prenda atto. Ma è il momento anche di dare più spazio, e più tempo, ai colloqui in presenza o alle telefonate. Perché senza una rete familiare e relazionale vitale e pronta quando si esce dal carcere si va inevitabilmente a sbattere contro un muro. Perché i contatti con l’esterno sono il miglior strumento di reintegrazione e di prevenzione del rischio suicidario. Vecchie e nuove tecnologie si sono dimostrate inoltre preziose anche per la prevenzione della violenza e dei maltrattamenti. Se Santa Maria Capua Vetere diventerà un momento di svolta per la storia della violenza in carcere in Italia, come tutti ci auguriamo, sarà anche grazie a sistemi di videosorveglianza e archiviazione delle immagini che spesso non ci sono o non funzionano. Anche su questo fronte ci vuole un cambio di passo. Ma le nostre proposte promuovono anche un sistema disciplinare orientato al rispetto della dignità della persona, una riduzione dell’uso dell’isolamento, forme di prevenzione degli abusi, mi rafforzamento della sorveglianza dinamica e molto altro. C’è infine da prendere atto della riforma della sanità penitenziaria avvenuta nel 2008, e che il regolamento penitenziario deve fare propria, contribuendo a garantire quel principio della parità di cura tra pazienti liberi e detenuti che vediamo troppo spesso smentito dai fatti. Si tratta di grandi e piccole riforme che potrebbero essere messe in campo dalla Ministra Cartabia senza che siano necessari passaggi parlamentari. Riforme che ci auguriamo che, almeno in parte, vengono fatte proprie anche dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario istituita ancora dalla Cartabia, e presieduta dal Prof. Marco Ruotolo. Riforme che potrebbero dare finalmente sostanza a questa auspicata stagione di riforma e mandare un segnale netto a chi vorrebbe, uscendo dalla pandemia, anziché andare avanti tornare indietro. Perché, e anche questo è caratteristico del carcere, al suo interno c’è sempre una larga componente che non vede l’ora di tornare indietro. *Associazione Antigone Verso una cultura dell’anti-carcere di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 11 dicembre 2021 A colloquio con Bernardo Petralia, capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria italiana. Nel mondo c’è “troppo carcere” e fin quando la situazione rimarrà questa, sarà impossibile ogni discorso di rieducazione, recupero e reinserimento. L’attuale difficile situazione di emergenza, dovuta anche alla pandemia, ha negli istituti di pena, nel contesto detentivo delle relazioni interpersonali, uno dei nodi più problematici e drammatici. Alcune carceri spesso diventano fonte di squilibri più che di accoglienza. Dalla qualità della vita nelle case circondariali, oppure dal suo progressivo degrado si decidono le sorti non solo di tante famiglie, ma addirittura morali del tessuto sociale. Si impongono, dunque, revisioni ampie ed organiche, risposte in termini penali, compito non facile perché l’illegalità è purtroppo a livelli elevati e le normative impongono risposte adeguate. È possibile una via d’uscita e pensare ad una cultura dell’anti-carcere? Per Bernardo Petralia, capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, “si tratta di una cultura che può prestarsi ad interpretazioni che spaziano da una individuazione dell’istituto come forma da abolire, oppure come luogo da trasformare. Personalmente sono su questa seconda direttrice. Ritengo che si debba fare in modo che l’esperienza detentiva diventi un passaggio rieducativo in grado di restituire alla società un individuo sano. E in questo una grossa mano può darcela la Cultura (con la c maiuscola) che, con il suo enorme potenziale, è utile non solo ad evitare il carcere, ma è fondamentale anche per uscirne bene in caso si commettano errori”. I più grandi studiosi di diritto penale ci hanno insegnato che il sistema deve essere impermeabile agli umori dell’opinione pubblica. Come riuscire a centrare a questo obiettivo? “Oggi la detenzione è al centro di un dibattito serrato. Tanti vedono nel carcere una esclusiva forma di restrizione della libertà, ma l’istituto di pena è un luogo cittadino, proprio come ce ne sono altri. Penso soprattutto agli ospedali. Ebbene, bisogna calarsi in queste singole realtà per affrontare adeguatamente i problemi e trovare le soluzioni. Per quel che riguarda il carcere, è auspicabile non solo liberare il detenuto, ma liberarlo bene per evitare che rientri”. E se cominciassimo a parlare di carcere senza però parlare di carcere? “La trasformazione lessicale del contesto trasforma anche il contenuto e la sostanza. Oggi non si parla più carcerati, ma di ristretti, non più di celle, ma di camere di pernottamento. Questo serve ad ammorbidire e ad avvicinare la società a qualcosa che l’uomo stesso ignora o tiene a distanza. Tutti abbiamo paura del carcere, ma fa parte del mondo e ne dobbiamo prendere atto”. Solo un paio di anni fa il problema del sovraffollamento dava l’assoluta maglia nera al sistema detentivo italiano... “Il sovraffollamento è un concetto che dipende da varianti complesse, dalla carenza e dalla funzionalità degli istituti, dall’intensificazione degli arresti e delle misure cautelari. Una cosa possiamo dire: agli inizi del 2020 in Italia gli ospiti erano quasi 61.000, oggi sono 54.000. E non dipende soltanto dalla pandemia, ma anche da una politica che guarda ad un carcere come estrema ratio anche se ancora molta strada da percorrere”. Secondo lei si può avere libertà interiore quando non si ha la libertà fisica? “La libertà del corpo viene sacrificata con la detenzione e su questo non c’è dubbio, ma c’è un’altra libertà, che è quella dell’anima e su quella bisogna concentrare tutti gli sforzi perché possa essere la più espressiva e, perdoni il bisticcio di parole, la più libera. Il pensiero, il sentimento, l’idea, il sogno non hanno confini, non hanno spazi, non hanno tempo, ma non hanno neanche sbarre, né grate. Sotto questo aspetto teatro, musica e arte possono essere determinanti. Si immagini tutte le forze negative contenute all’interno dell’animo di un ristretto: il disagio, la sofferenza, il rimpianto, la rabbia. Tutto questo va trasformato in modo propositivo attraverso il palcoscenico, la scrittura, il canto o lo strumento musicale”. In sostanza qual è l’alternativa alla cultura della pena? “È la cultura dell’inclusione. Senza alcun dubbio”. Un istituto europeo nel rispetto dell’uomo di Annalisa Antonucci L’Osservatore Romano, 11 dicembre 2021 A colloquio con Enrico Sbriglia. Un carcere modello per tutta l’Europa, il cui faro sia la rieducazione e il rispetto della dignità del condannato. Un luogo in cui gli spazi verdi non siano occupati, come accade sempre più spesso, da nuovi padiglioni e posti letto supplementari; dove le celle, o “stanze di pernottamento” che dir si voglia, prevedano bagni separati e angoli cottura dove il detenuto possa, se vuole, cucinare il proprio cibo. Dove il momento dei colloqui con i familiari sia sacro, perché è questo appuntamento che scandisce la vita dei detenuti. Un carcere, dunque, che rispetti le norme stabilite dalla Corte di Giustizia europea, da realizzare nella stessa città che ha vissuto la rivoluzione Basaglia per l’abolizione dei manicomi: Gorizia. Ad immaginare questo progetto visionario di un “carcere europeo”, inserito in un più vasto Centro di ricerca europeo per la sicurezza e la giustizia, è Enrico Sbriglia, già dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria, e per anni direttore di varie carceri italiane. La sua originale idea, fatta propria dal comune di Gorizia che gli ha affidato la realizzazione del progetto di un istituto penitenziario che potrebbe occupare gli enormi spazi abbandonati dell’ex ospedale civile in città, è all’attenzione del ministero dello Sviluppo economico, sperando nei fondi europei. “Oggi in Italia - spiega Sbriglia - le carceri non rispettano l’articolo 27 della nostra Costituzione secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il carcere è un luogo dove l’esigenza giudiziaria è prevalente. Quello penitenziario è un mondo governato esclusivamente dalla magistratura, ed è questo che probabilmente ne ha determinato la costante involuzione. Dunque, è necessario tornare al principio costituzionale del trattamento e del recupero della persona e per fare ciò è bene ispirarsi a un modello che superi le nostre frontiere”. “Come esiste la Corte di Giustizia europea e, dal giugno scorso, la Procura europea, credo - prosegue Sbriglia - che si debba prevedere anche un luogo ad hoc per 1’ esecuzione delle pene per reati transfrontalieri. Penso dunque ad una sorta di cittadella penitenziaria europea, che dovrebbe ospitare le persone detenute che hanno commesso reati di natura transnazionale, la cui competenza sarà dell’Eppo (European Public Prosecutor’s Office) e cioè quelli di frode, corruzione e riciclaggio, frode nelle procedure di appalto, appropriazione indebita di fondi europei, da parte di un pubblico ufficiale, nonché la figura della corruzione passiva, estesa anche ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio di Stati non appartenenti all’Unione europea. A questi si aggiungerebbero, poi, quelli relativi alle frodi Iva, quando l’importo dovesse superare i io milioni di curo e la frode sia transnazionale, cioè che riguardi almeno due paesi dell’Unione (come nel caso delle cosiddette “frodi carosello”). Tutto questo, tanto per iniziare, ma in futuro la competenza potrebbe allargarsi ai reati di terrorismo, al traffico di esseri umani o di armi, tutti delitti che valicano le frontiere”. Anche gli spazi del carcere dovranno rispondere ai requisiti dettati dalle norme europee: la quantità di ricambio dell’aria all’interno delle celle, i lux, artificiali e naturali, i colori delle pareti, la tipologia degli infissi e degli arredi, i servizi igienicosanitari, così come la qualità dei servizi di ristorazione, di quelli medici e la cura del disagio psichico. E ancora: come dovranno effettuarsi i colloqui e le telefonate, gli incontri con i familiari, per assicurarne l’intimità e riservatezza, gli spazi per l’esercizio delle confessioni di fede ed i servizi destinati allo studio ed alla formazione professionale. “Dunque - dice ancora Sbriglia - penso ad un “carcere europeo” come prototipo di altri che potranno realizzarsi nell’Ue. Lo scopo è quello di omogeneizzare le regole penitenziarie europee e le norme della Mandela Rules, cioè la condotta minima standard per il trattamento dei detenuti, adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 2015”. Per i tempi di realizzazione del suo progetto, Briglia ha un obiettivo: il 2025, quando il Comune di Gorizia, assieme con quello sloveno di Nova Gorica, saranno Città della Cultura europea. “La speranza - conclude - è che per quella data siano entrambe anche Città della nuova cultura giuridica penitenziaria condivisa”. Ripensare i luoghi della detenzione anche sotto l’aspetto della psicologia ambientale di Silvia Camisasca L’Osservatore Romano, 11 dicembre 2021 Non ha ragione dividersi attorno all’ennesimo dibattito sulle condizioni di vita, se tale si può definire, nelle strutture carcerarie, se non per ribadire l’urgenza di umanizzare gli spazi detentivi, se davvero intendiamo creare i presupposti di un reale percorso riabilitativo. In questo processo, grazie agli sviluppi nello studio delle neuroscienze e della psicologia ambientale, disponiamo di un’ampia e solida casistica sulle risposte pre-riflessive ed implicite delle persone confinati in questi spazi, che suggeriscono un radicale ripensamento della forma del carcere, in modo che possa incidere positivamente sulle sfere affettive e relazionali, non solo dei detenuti, ma di tutti coloro che operano in quell’ambiente. Una concezione afflittivi dei luoghi di detenzione, non solo punisce in modo incostituzionale le persone condannate, o in attesa di sentenza definitiva, ma anche coloro che sono incaricati della gestione degli istituti, il corpo di guardia, i responsabili della presa a carico dei minorenni, i volontari quotidianamente impegnati. “Lo spazio, in quanto estensione della mente, ha la facoltà di modulare le emozioni di chi avvolge, come un guanto con la mano. La forma plastica dell’architettura mitiga o altera la percezione della rabbia, come di tutta una gamma di stati emotivi, che si manifestano nelle espressioni facciali, vocali o motorie, condizionando le relazioni e il benessere psico-fisico”, spiega Davide Ruzzon, tra i massimi esperti internazionali di neuroscienze applicate all’architettura e direttore di Naad (Neuroscience Applied to Architectural Design) dell’Università Iuav Venezia. Intervenire sul contesto circostante influirebbe sui livelli di aggressività e sulla sensazione di affollamento, riducendo tensioni ed incidenti: “Progettare ex novo lo spazio carcerario, tenendo conto della fase post-detentiva, non significa concedere, in modo indiscriminato, generiche attenuanti o sconti: al contrario, la cura dell’ambiente è rivolta a prevenire l’ulteriore compromissione delle capacità psico-fisiologiche e sociali dei detenuti”, puntualizza Ruzzon. Lo spettro di disturbi cui sono soggetti le persone, in ingresso in una struttura di detenzione, è vario ed esteso, ma ne escono in condizioni molto più gravi: la privazione improvvisa della libertà, l’accumulo di stress, la pressione della carica emotiva, deteriorano repentinamente l’equilibrio mentale. Oltre allo spazio, nel definire il quadro clinico pesano, più di altri, specifici elementi architettonici. Basti pensare alle cosiddette “celle di custodia”, il cui stesso nome, oltre alle dimensioni, rimandano ai favi claustrofobici dell’alveare, non certo a luoghi da abitare; o alla luce naturale, scarsa e bieca, filtrata attraverso strettoie su scarni recinti, che desincronizza il ritmo veglia/sonno; o, ancora, alla misofonia e alla pessima acustica, che acutizza senso di spaesamento e incapacità di socializzare, e induce reazioni aggressive e crisi di panico: un combinato disposto che accentua la percezione di affollamento, causa conclamata di violenza e suicidi. “Coloro che progettano e gestiscono devono essere consapevoli che spazio e architettura sono indicatori, per chi privato delle libertà, della reale possibilità o meno di ricominciare una nuova vita: un periodo di detenzione umanamente svilente risuona nel sistema sensoriale come una condanna all’ergastolo, indipendentemente dalla durata della pena effettiva” sottolinea l’esperto. La neuroscienziata siro-americana Huda Akil, professoressa di Neuroscienze presso l’Università del Michigan e direttore del Molecular and Behavioral Neuroscience Institute, ha messo in luce gli effetti sul sistema nervoso centrale attribuibili a lunghi periodi di confinamento in strutture carcerarie, conducendo anni di ricerche a fianco di singoli detenuti, approfondendo storie personali e circostanze a latere. “Il cervello è un organo di funzione sociale, che vive in interazione e in relazione agli altri - spiega Ruzzon - quando tale osmosi si interrompe, subentrano conseguenze strutturali così profonde, da stravolgere drammaticamente forma, dimensione e persino fisicità e genetica dell’ippocampo e dell’intera area custodita nella porzione limbica sotto la corteccia cerebrale, deputata al controllo delle percezioni e al loro trasferimento alla memoria a lungo termine”. In uno spazio umiliante e degradante, al nostro cervello viene a mancare il mondo esterno e interrompe l’attività di mappatura. Una cesura drammatica: le cellule neuronali, come foglie morte, si perdono e il volume celebrale si riduce. Ma l’ippocampo è anche sede della neurogenesi, che costantemente rinnova il patrimonio di neuroni, dunque, la segregazione prolungata in uno spazio confinato agisce come una lenta inesorabile tortura con ricadute a cascata sull’intero organismo. Un luogo che alimenta una forma così subdola di atrofia relazionale agisce in direzione esattamente opposta rispetto a qualsiasi finalità riabilitativa. “Legalità, lavoro e sostegno del merito. Così reinseriamo i detenuti in società” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 11 dicembre 2021 La Fondazione dell’ex ministra Severino: la vita può cambiare. L’idea le venne quando un detenuto di Poggioreale che insisteva per essere trasferito nell’isola-penitenziario di Gorgona le spiegò il perché, mostrandole la foto del nipotino: “Voglio che sappia che ho un lavoro e lì fanno corsi per cuochi”. Da allora Paola Severino, giurista e vicepresidente dell’Università Luiss, iniziò a industriarsi per offrire ai detenuti una speranza per il futuro che per lei significa educazione alla legalità e sostegno del merito e del talento. E così, due anni fa, ha creato una fondazione che, oltre ad offrire patrocinio gratuito a detenuti e detenute in difficoltà, cerca il modo concreto di reinserirli nella società. Come? Enumera progetti di ogni genere l’ex ministra della Giustizia, alla presentazione-evento dei risultati della Fondazione. Si va dai corsi di sommelier per i detenuti di Rebibbia all’Hotel Hilton, a quelli per operatore cinofilo, dai corsi di teatro a quelli di scrittura, a quello di analista finanziario. E mentre li snocciola si illumina d’orgoglio per essere riuscita a coinvolgere in questo intento tutto il suo mondo. Dagli studenti Luiss che in go ormai aderiscono al suo progetto “Legalità e merito”, andando a discutere di questi temi in scuole di quartieri disagiati e nelle carceri (esperienza divenuta il docu-film Rebibbia Lockdown presentato al Festival di Venezia e ieri proposto in Luiss assieme a una pièce teatrale di detenute), al vicino di casa, presidente dei sommelier. Dall’autore del logo con le farfalle della Rai, alla figlia Eleonora, avvocata, che ora si occupa a tempo pieno della Fondazione e invita tutti a offrire sinergie: “E incredibile come con un piccolo sforzo si riesca a cambiare la vita di persone che hanno sbagliato ma hanno diritto a un’altra chance”. Fino ai detenuti stessi. “Come dice la professoressa Paola c’è da sporcarsi le mani”, spiega Davide, in carcere per io anni per reati associativi gravi e ora laureato Luiss con no e lode. “La legalità è una straordinaria opportunità di inclusione sociale e l’educazione è una leva fondamentale per combattere la piaga della corruzione, tradizionale antagonista del merito. Per questo ho voluto creare questa Fondazione, a supporto dei soggetti svantaggiati e delle persone detenute, nella convinzione che offrire percorsi di formazione, prospettive lavorative e opportunità di inserimento possa costituire un primo passo per trovare la forza di reagire e guardare con più fiducia al proprio futuro”, spiega la neopresidente della Sna. E sottolinea come il momento dell’uscita dal carcere sia così difficile che c’è chi non presenta istanza di scarcerazione. “Le istituzioni fanno il possibile per il reinserimento ma i mezzi sono limitati, ogni iniziativa può portare benefici”, aggiunge. Trasversali gli applausi in sala. Parlamentari, magistrati, studenti, rappresentanti delle istituzioni. Tra questi la capo del Dis, Elisabetta Belloni, il pg della Cassazione Giovanni Salvi e la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese che plaude: “Quello che sta facendo Severino con il mondo dei detenuti è importantissimo”. Quella strana “prevenzione” che esiste solo in Italia di Vincenzo Vitale Il Riformista, 11 dicembre 2021 Il verbo “prevenire” indica qualcuno o qualcosa che giunge prima del tempo previsto, allo scopo di evitare che un esito negativo si possa verificare. Un esempio. Siamo in un momento storico in cui la medicina “preventiva” mostra le sue prerogative positive rispetto a quella “terapeutica”. Qui davvero prevenire è meglio di curare, dal momento che la prevenzione praticata attraverso una alimentazione sana ed equilibrata, l’esercizio fisico, regolari ore di sonno ecc. garantisce comportamenti tali da scongiurare un esito patologico, il quale, se avverato, si presenterebbe poi di difficile soluzione. In questo caso prevenire è meglio che curare. Che dire allora delle misure di prevenzione disciplinate nell’ordinamento giuridico italiano? Prevengono? E che cosa prevengono? E come prevengono? In realtà, va subito denunciato un caso emblematico di autentica ipocrisia semantica a sfondo sociale, consumata proprio dalle istituzioni. Prova ne sia la circostanza che vede la Cassazione inciampare su una questione lessicale, la quale invece travalica i confini del lessico per farsi cogliere quale questione eminentemente giuridica. È la Cassazione infatti a dirci che le misure di prevenzione non sono “sanzioni”, rivelandoci tuttavia come esse abbiano comunque una natura “afflittiva”. Avete mai visto misure di carattere afflittivo che non siano sanzioni? Io mai. Infatti, la caratteristica propria della afflittività sta nel suo carattere sanzionatorio, sicché se certamente esistono sanzioni non afflittive (per esempio, quelle dei verbali dei vigili urbani), ogni afflittività non può non avere carattere sanzionatorio. In questo strano e singolare gioco di parole - quello per cui la Cassazione ci dice più volte che le misure di prevenzione sono afflittive, ma non sono sanzioni - si manifesta l’ipocrisia semantica sopra accennata, destinata evidentemente a far sì che l’opinione pubblica possa accettare ciò che invece è inaccettabile: che cioè vere e proprie sanzioni afflittive vengano irrogate senza un processo penale. Per questo, l’intero sistema delle misure di prevenzione rimane inaccettabile, in quanto contrario ai principi fondamentali dello Stato di diritto. Al di là di ogni ipocrisia, le misure di prevenzione si lasciano cogliere come auto-contraddittorie. Infatti, se esse vanno applicate prima della commissione del reato - proprio in quanto sono destinate a prevenirne la consumazione - allora non debbono e non possono essere afflittive, come invece di fatto sono e come sono riconosciute essere dalla stessa Cassazione; se invece sono afflittive - come in effetti sono - allora andrebbero applicate, come sanzioni, dopo la consumazione del reato: ma in tal modo finirebbero col sovrapporsi alle misure di sicurezza, dissolvendosi in queste ultime. Non se ne esce: tali misure non possono sussistere così come sono e, se sussistono, sono chiaramente assurde, contrarie alla logica e ai più elementari principi giuridici. A riprova della insostenibilità di tale assurda situazione e dei suoi effetti, basti leggere alcune sentenze della Corte di Cassazione - non solo una - ove si afferma, in relazione al giudizio di pericolosità, che delle misure rappresenta il presupposto giuridico, che Tizio nel 2006 divenne pericoloso, cessò di esserlo nel 2010, ma lo diventò di nuovo nel 2015 e così via di questo passo. E ciò si annota in tutta serietà, come nulla fosse, senza avvertire come si sia in tal modo già superata la soglia del ridicolo, configurando un soggetto che diventa pericoloso - tanto da esigere l’applicazione di una misura di sicurezza - “a intermittenza”, a volte sì e a volte no, a seconda del sospetto che gravi su di lui per aver frequentato una certa persona o aver consumato una birra presso un certo esercizio commerciale. Il tanto celebrato requisito della pericolosità non può ridursi a una sorta di soprabito che sia possibile indossare o riporre nell’armadio quando occorra, il che fa soltanto sorridere; la pericolosità di un soggetto delinea invece un tratto caratteriale indefettibile, il quale, proprio per questo, o c’è o non c’è, non potendosi ravvisare in alcun modo pause o intermezzi di inspiegabile assenza fra due momenti reputati invece come contrassegnati dalla pericolosità della persona. Il fatto è che questo tanto favoleggiato giudizio di pericolosità è null’altro che un giudizio impossibile se funzionalizzato all’applicazione delle misure di prevenzione, in quanto si riduce necessariamente a un giudizio sul modo d’essere dell’uomo, sulla sua natura profonda, precluso a ogni giudice umano e riservato a un giudice che abita altri e più nobili luoghi. Sulla scorta soltanto di queste osservazioni critiche, la sola possibilità di dare un senso giuridico alle misure di prevenzione non sta in una riforma: sta nel procedere alla loro totale abrogazione. Infatti, a differenza della vera ed efficace prevenzione cui ho accennato al principio di queste righe - quella medica - le misure di prevenzione non solo non prevengono per endemica impossibilità di farlo, ma vanno viste come misure di “autocontraddizione” (dell’ordinamento giuridico con se stesso). Non a caso, esse esistono in Europa soltanto in Italia: nel resto d’Europa e nell’intero mondo occidentale, non ne conoscono neppure il nome. E tanto basti. “Come facciamo a diminuire i processi?”. Negare la giustizia non è una soluzione di Riccardo Fratini Il Domani, 11 dicembre 2021 È sbagliata la domanda di fondo: “come facciamo a diminuire i processi?”. Nella nostra costituzione nessuna menzione al valore “minimo” per cui si può ricorrere alla giustizia. Basta con il dire che la denegata giustizia è auspicabile. Avevamo abbandonato questa idea secoli fa, quando iniziavamo a considerare illecito il giudizio di non liquet. Sul Dubbio di martedì 7 dicembre è apparso in prima pagina un articolo del Presidente Uncc, Antonio de Notaristefani, che poneva la domanda, immaginariamente rivolta ai giudici della Cassazione, “se non si stiano confondendo le cause con gli effetti: si fa poca nomofilachia perché ci sono troppi processi, o ci sono troppi processi perché si fa poca nomofilachia? Da tempo i giudici della Corte dedicano una parte considerevole delle loro energie a risolvere conflitti di giurisprudenza che loro stessi hanno creato: come si può pretendere che un soccombente non tenti la sorte, se ha una ragionevole speranza di vedersi dare ragione da un collegio che la pensa diversamente da quello precedente?”. La domanda è ben posta, ma parte dal problema sbagliato. La domanda di fondo è sbagliata. Perché la domanda di fondo è: “come facciamo a diminuire i processi?”. Il Presidente ha indicato qualche precedente criterio che gli era sembrato ragionevole (il danno bagatellare non lo risarciamo, come avevano detto le Sezioni Unite del 2008) e qualche altro che gli era sembrato invece irragionevole (l’autosufficienza in Cassazione). Dovremmo chiederci prima, però, se il problema a cui stiamo cercando una soluzione sia giusto porselo oppure no. La Costituzione, fino a prova contraria, sembra deporre in senso contrario, nella misura in cui, almeno per ora, garantisce all’art. 24 che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” e che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. Nessuna distinzione di valore, quindi, come fanno invece altre costituzioni democratiche. Quella americana, ad esempio, con il settimo emendamento, garantisce il processo con giuria solo per le cause civili di valore superiore a venti dollari. Invece da noi niente, nessuna menzione al valore “minimo” per cui si può ricorrere alla giustizia. L’organizzazione - Il problema dei troppi processi, semmai, è un problema di organizzazione: forse mancano le risorse, i giudici sono pochi, forse si potrebbero devolvere più risorse o forse in qualche caso di chiedersi anche, come faceva ben sperare il titolo del pezzo già citato, “e se il problema fossero i giudici?”, ma in un senso diverso da quello esposto nell’articolo. Comunque, non importa, qualsiasi sia la causa, la soluzione non può più essere la denegata giustizia. Basta con il dire che la denegata giustizia è auspicabile. Avevamo abbandonato questa idea secoli fa, quando iniziavamo a considerare illecito il giudizio di non liquet (cioè che il giudice si rifiutasse di decidere), e la consideravamo giustamente un’idea barbara e deprecabile. Ora, invece, chissà perché questa idea torna a piacerci. Torna a piacere l’idea che il giudice non debba decidere solo di accogliere o rigettare, ma anche se sia opportuna oppure inopportuna dal punto di vista economico la domanda. Questo è e resta solo un errore terribile. Il numero dei processi non c’entra - In un paese dove c’è giustizia i cittadini dovrebbero poter adire un giudice anche se è stato sottratto loro un solo euro o una matita. Mentre dire il contrario è disprezzo per il popolo, per i poveri e per gli “affamati e assetati di giustizia”, che, invece, come al solito, vedranno la loro beatitudine solo un giorno nel regno dei cieli. Se poi si vuole dire che una maggiore coerenza negli orientamenti giurisprudenziali sarebbe comunque auspicabile, questo va bene ed è un giudizio condivisibile. Anzi, si potrebbe anche dire che ormai si potrebbe andare persino verso un più sensato sistema di stare decisis, così da ridurre le incoerenze. Il numero dei processi però non c’entra nulla. Se il meccanico ha troppi clienti, deve prendere un’officina più grande, non tentare di dissuaderli a riparare la macchina. Un Csm autorevole è possibile? di Claudio Cerasa Il Foglio, 11 dicembre 2021 Una doppia riforma complessa e la partita decisiva sul sistema elettorale È iniziato con una serie di incontri della Guardasigilli con i rappresentanti dei partiti di maggioranza l’iter per la riforma del Consiglio superiore della magistratura. In realtà si tratta di due riforme parallele, visto che il nuovo sistema elettorale sarà contenuto in una legge separata da quella sulle norme di funzionamento. L’obiettivo dichiarato è quello di rendere i magistrati indipendenti anche dalle correnti che dominano il settore, mercanteggiando incarichi, promozioni e sanzioni disciplinari. La politicizzazione della giustizia risiede in questo intreccio di poteri, più che nei casi di magistrati che assumono incarichi politici, che comunque saranno normati in modo più rigido. Rendere incompatibile la presenza nelle commissioni del Csm per gli incarichi e nella disciplinare è una idea giusta, come il divieto delle nomine “a pacchetti” sulle quali si esercitava la lottizzazione, insieme al rispetto dei calendari naturali delle nomine, in modo da evitare che si determinino i tradizionali scambi di favore tra le correnti. Il punto critico però resta il sistema elettorale, perché è nell’elezione dei membri togati del Csm che le correnti esercitano e dimostrano il loro potere. Marta Cartabia punta a sostituire il collegio unico nazionale con sette piccoli collegi binominali, per ciascuno dei quali debbono esserci almeno sei candidati, nella convinzione che in questo modo l’autorevolezza dei singoli magistrati, conosciuti dai colleghi che lavorano nella stessa zona, possa superare i vincoli di fedeltà correntizia. Naturalmente si tratta di un esperimento, la cui adeguatezza si potrà verificare solo con l’esperienza. Qualche magistrato - peraltro già impegnato nelle correnti (come Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo consiglieri della corrente di Autonomia e Indipendenza) - però, già si straccia le vesti sostenendo che questo sistema premia le correnti. Come se quello attuale, quello del metodo Palamara, garantisca invece l’indipendenza dei magistrati. Da Mani pulite a Maresca, quelle porte troppo aperte tra magistratura e politica di Stefano Cappellini La Repubblica, 11 dicembre 2021 Quando Catello Maresca dice che non ci sta, che non vuole fare il capro espiatorio, che così fan tutti e che sono decine i casi di magistrati in servizio che occupano anche incarichi elettivi in politica - consiglieri comunali o sindaci di piccoli comuni - confonde, come minimo, liceità e opportunità. Da anni il problema, più ancora che i casi di doppio ruolo, è l’eccezionalità del caso Italia, unica democrazia al mondo nella quale esiste questo intenso traffico di toghe che si lanciano in politica, appena diminuito negli ultimi anni dopo picchi di decine di eletti in Parlamento e molti casi di aspiranti sindaci o governatori. Anche quando i magistrati tornano indietro senza conservare ruoli politici resta la spericolatezza di un sistema che, con l’aggravante di un intervallo di tempo nullo, consente a chi esercita un potere giudiziario di passare a quello legislativo o esecutivo e quindi riprendere le funzioni di partenza. Perché Maresca dovrebbe sentirsi in imbarazzo in un Paese dove un ex pm che ha inquisito mezzo Paese è poi diventato ministro e leader di partito (Antonio Di Pietro)? E dove un altro che ha istruito un processo sulla trattativa Stato-mafia si è poi candidato alla presidenza del Consiglio (Antonio Ingroia)? E sono solo i casi più eclatanti. Da Luciano Violante a Felice Casson, da Michele Emiliano a Luigi de Magistris, Gerardo D’Ambrosio, Pietro Grasso fino a nomi meno noti, la seconda carriera in politica è stata una tendenza consolidata: erano nove i magistrati in Parlamento nella legislatura 2013-2018, addirittura il doppio in quella precedente. La Costituzione e le leggi, ovviamente, consentono l’elettorato passivo ai magistrati. Ma non consentirebbero, invece, le storture che grazie al lassismo del legislatore hanno creato una ferita sempre più grande nel nostro Stato di diritto: le inchieste usate più o meno consapevolmente per acquisire un consenso da spendere in politica, i media utilizzati per costruire protagonismo, il collateralismo tra pezzi della magistratura e forze politiche, invasioni nel campo del potere legislativo. Sono queste le ragioni per cui ciò che è eccezionale altrove, la discesa in campo di magistrati, è diventata una degenerazione nel nostro Paese. Questa storia ha un punto di partenza, la vicinanza tra alcuni pm e il Partito comunista ai tempi della guerra del terrorismo di sinistra, e un grande detonatore, la stagione di Mani pulite. Ad accomunare i due momenti c’è l’idea che la magistratura sia investita non della missione di perseguire i singoli reati ma di combattere fenomeni, supplendo alle carenze della politica, prima dall’esterno e poi, nel caso, anche dall’interno. Il grande alibi, che ha contribuito a traviare un pezzo di opinione pubblica progressista spingendolo sulle rive di un giustizialismo sempre più rozzo, è appunto la lotta emergenziale in nome del Bene (prima contro il terrorismo, poi la mafia, poi la corruzione, quindi la cattiva politica tout court), alibi che è servito anche a rintuzzare ogni critica e perplessità spacciandole per collusione con i malfattori. Critichi i metodi di un pm? Sei amico dei corrotti. Contesti la fondatezza di un’inchiesta? Sei un favoreggiatore o addirittura un complice. I metodi usati dai pm di Mani pulite - l’abuso della carcerazione preventiva, il cambio in corsa delle imputazioni, la limitazione dei diritti di difesa - hanno rappresentato un punto di non ritorno. Il sostegno a queste forzature in nome del forte consenso popolare, sciaguratamente cavalcato anche da un pezzo rilevante della sinistra, ha mandato in tilt la convivenza tra i poteri, anche perché va da sé che quando un magistrato si sente guidato da una missione salvifica e generale anziché dall’applicazione dei codici sta già facendo politica anche se non si candida. Ecco perché il partito dei giudici ha avuto esponenti passati dall’altra parte della barricata e altri che non hanno fatto il salto ma è come se: Piercamillo Davigo, teorico della funzione supplente della magistratura, Gherardo Colombo, teorico della “società del ricatto che trova la sua forza su ciò che non è stato scoperto” (che di fatto postula l’esistenza del reato proprio in virtù dell’invisibilità del reato, pilastro ideologico della lettura complottista del reale), Roberto Scarpinato, teorico della magistratura “variabile non coerente con il sistema consociativo che per questo infastidisce, preoccupa, inquieta”, visione che presuppone non la separazione dei poteri ma il loro scontro. La presenza delle toghe in politica non è servita neanche a garantire l’aiuto tecnico necessario a varare regole più stringenti per il passaggio o riforme di sistema. Anzi, spesso il proposito dichiarato era inibirle, e non solo quando si trattava delle scandalose leggi ad personam cercate da Silvio Berlusconi. Si capisce che, dopo decenni di questo andazzo, Maresca si senta in diritto di dire: perché devo pagare io? Bruti Liberati: “Magistrati meno credibili? Vero, ma far fuori chi si candida è incostituzionale” di Liana Milella La Repubblica, 11 dicembre 2021 Intervista all’ex procuratore di Milano: “La politica, nessun partito escluso, prima induce in tentazione i magistrati offrendo candidature e poi piange lacrime di coccodrillo”. Tutti contro Catello Maresca? “Lacrime di coccodrillo della politica”. Fuori chi si candida? “Ha ragione Marta Cartabia, sarebbe incostituzionale”. Esiste la legge contro la “correntopoli”? “Il Csm non è il Parlamento, non ci devono essere né maggioranze stabili, né blocchi contrapposti”. Luca Palamara boccia Cartabia? “Pensare che lui possa salire in cattedra e dare lezioni alla scolaretta Cartabia indica la confusione dei tempi in cui viviamo”. Parole dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. È il caso della settimana. Maresca consigliere comunale a Napoli e giudice a Campobasso lei come lo vede? “La politica, e nel tempo nessun partito si è sottratto, dapprima induce in tentazione i magistrati offrendo candidature e poi piange lacrime di coccodrillo. E allora si propongono lacci e lacciuoli così stretti da rasentare l’incostituzionalità”. Con Repubblica lui si lagna, “così hanno fatto tutti” dice, e la legge lo consente... “Così fan tutte non mi sembra un buon criterio. La magistratura chiede da anni limiti stringenti. Ricordo un’audizione alla commissione Giustizia della Camera nel 2001, giusto venti anni fa, quale presidente all’epoca dell’Anm...”. Eh già, la politica ha preso tempo... la soluzione Cartabia - aspettativa ma poi rientro - la convince? “Dico sì a limiti in ingresso e in uscita per gli incarichi di sindaco e anche di consigliere comunale e assessore. Le proposte della commissione Luciani sono rigorose ed equilibrate. Candidatura solo in luogo diverso e lontano da quello in cui si sono svolte le funzioni negli ultimi anni. Aspettativa obbligatoria per l’intero mandato onde evitare di essere contemporaneamente amministratore e magistrato”. Detta così non si candida più nessuna toga... “Dico di più, chi lascia la politica deve rientrare in ruolo in un luogo diverso e lontano da quello in cui uno era stato magistrato prima dell’incarico”. Bonafede non ci sta, se la toga si candida se ne deve andare altrove... “Già questi paletti ridurrebbero di molto il fenomeno, perché fuori del luogo dove sono conosciuto come magistrato ho poche chances di essere eletto e il rientro in luogo distante è duro perché lo stivale è lungo anche senza arrivare al caso limite di Aosta per il siciliano Ingroia”. Quindi lei sta con Cartabia che considera il blocco incostituzionale? “Il problema principale sono gli incarichi locali e non il mandato parlamentare, per il quale si possono dettare regole più stringenti, ma il rientro non può essere escluso, pena l’incostituzionalità”. Dica un po’, ma strategicamente non sarebbe meglio se un giudice non si candidasse proprio? Perché, guardi, che il farlo appanna pure le sue decisioni passate... “In questi anni di democrazia sono stati eletti in Parlamento, in diversi schieramenti, magistrati noti per il loro impegno professionale e non per i singoli casi trattati. Oggi con un Parlamento di nominati grazie a questo sistema elettorale il rapporto con la dirigenza del partito è troppo stretto, ma in passato magistrati parlamentari meno legati a filo doppio con le segreterie di partito hanno dato importanti contributi alla legislazione”. La vostra credibilità complessiva è in nettissimo calo... “Vi sono buone ragioni per questo calo di credibilità. Oggi la sfida è garantire insieme il recupero di una solida deontologia e un impegno straordinario per far funzionare le riforme, approvate o in corso di approvazione, per assicurare un servizio giustizia più celere ed efficace”. Davvero può bastare una nuova legge elettorale a salvarvi la faccia? “Il sistema elettorale non risolve i problemi del Csm e della magistratura, ma un cattivo sistema produce il peggio. Le sgradevoli vicende che hanno investito questo Csm sono figlie del pessimo sistema elettorale che nel proposito di distruggere le correnti ha prodotto consiglieri che hanno giocato in proprio e nei modi che sappiamo insieme ad esponenti politici”. Maggioritario con collegi binominali, a turno unico, con un’unica preferenza, e garanzia della parità di genere... “Nelle elezioni politiche ai sistemi maggioritari si attribuiscono i seguenti pregi: un netto distacco tra maggioranza e opposizione, una maggioranza stabile che assicuri la governabilità. Questo è esattamente ciò che per il Csm si deve cercare di evitare: non vi deve essere una maggioranza stabile, né due blocchi contrapposti, come rischierebbe di produrre un binominale, ma una rappresentanza che rispecchi il pluralismo di opinioni che esiste nella magistratura”. Cartabia ha studiato a lungo, ma Palamara la boccia subito e dice che le correnti restano... “Pensare che Palamara possa salire in cattedra e dare lezioni alla scolaretta Cartabia indica la confusione dei tempi in cui viviamo. Conosciamo le degenerazioni del sistema correntizio e tutti i magistrati devono recuperare l’orgoglio del confronto ideale. Ma in una qualunque elezione, foss’anche per il direttivo di una bocciofila, vi sono diverse opinioni che si aggregano”. Non esiste una legge anti-correnti? “Alle ultime elezioni dell’Anm a Palermo il gruppo anti-corrente si è presentato alle elezioni costituendo una non-corrente, ma è sempre un’aggregazione del consenso. Si possono chiamare correnti o scegliere qualunque altro nome, ma ignorarne l’esistenza porta solo a soluzioni peggiori”. Perché? “Il sistema maggioritario uninominale e comunque anche quello binominale inducono alla concentrazione dei voti sul candidato che si ritiene abbia maggiori chances. A creare di fatto liste bloccate sono da un lato i capi corrente, dall’altro il voto utile del singolo elettore. Il sistema, invece, deve restituire a chi vota la possibilità di scegliere”. Bonafede, Bongiorno e tutto il centrodestra vogliono il sorteggio... “Il sorteggio per il Csm è irrazionale, umiliante per i sorteggiandi e i sorteggiati e, in qualunque declinazione, incostituzionale. Evocarlo serve solo a fare confusione e francamente mi sorprende che qualcuno si adoperi per cercare di aggirare il dettato costituzionale”. E sorteggiare pure le commissioni del Csm? “Nella proposta Bonafede sembrava quasi che vi fosse stata la scelta di gettare random nell’articolato la parola magica sorteggio. Le donne e gli uomini, togati e laici, provengono da esperienze professionali diverse nell’avvocatura, nell’università e nella magistratura, hanno idee diverse sui problemi della giustizia. In un’equilibrata composizione delle commissioni è necessario tenere conto delle diverse sensibilità e delle diverse professionalità e non limitarsi a gettare i dati. E le incompatibilità tra disciplinare e altre commissioni? “Ragionevoli quelle con le commissioni che esprimono valutazioni sui magistrati, eccessiva con quella che attribuisce gli incarichi direttivi. Per rendere praticabili queste incompatibilità occorre aumentare il numero dei componenti del Csm”. Come se lo immagina il futuro Csm? Le nuove regole eviteranno un’altra correntopoli? “I magistrati hanno consapevolezza della necessità di voltare pagina. Una rappresentanza pluralistica, l’inesistenza di maggioranze bloccate e di logiche localistiche insieme alla valorizzazione del ruolo dei laici, avvocati e professori, sono la premessa per ridare prestigio e autorevolezza al futuro Csm. Ministero e Csm in collaborazione tra loro hanno di fronte grandi sfide per l’attuazione delle riforme in cantiere”. Concorso in magistratura, verso la riforma: valorizzati tirocinanti e Ufficio del processo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2021 Prevista l’attribuzione alla Scuola Superiore della Magistratura dell’organizzazione di corsi di preparazione per i tirocinanti e per chi abbia svolto funzioni nell’ufficio per il processo. Per quanto riguarda l’esame, l’idea è quella di prevedere tre elaborati scritti ed una riduzione delle materie orali. Le scoperture di organico - su 10.751 posti in pianta, i magistrati effettivamente in servizio sono solo 9.131 - ma anche i risultati deludenti dell’ultimo concorso in magistratura per 310 posti - 88 idonei su 1.532 buste esaminate - spingono per una rapida riforma dell’accesso. Dopo l’allarme del Csm che a causa della “grave scopertura” ha chiesto, con una delibera approvata all’unanimità, di riaprire i bandi ai neo-laureati in giurisprudenza e ripristinare la prova scritta tradizionale sin dal prossimo concorso, arrivano i primi dettagli delle ipotesi di lavoro messe a punto dalla Ministra Marta Cartabia e contenuti nella riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. A brevissimo, del resto, si attende la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del nuovo bando per il maxi-concorso da 500 posti. Ad occuparsi della riforma dell’accesso in magistratura è l’articolo 4 della bozza di riforma. Via Arenula, proprio guardando ai dati del concorso di luglio, riconosce che la selezione costituisce un grave problema che va affrontato sia sul versante della formazione che dell’esame vero e proprio. Si sta dunque lavorando ad una proposta articolata su tre livelli. La prima innovazione sarebbe quella di prevedere l’accessibilità al concorso direttamente dopo la laurea, superando il sistema precedente: dottorato, esame di avvocato, scuole di specializzazione. Il secondo punto che potrebbe avere un grosso impatto vista la platea dei soggetti coinvolti è la “valorizzazione” dei tirocini formativi (18 mesi di stage presso gli uffici giudiziari per i laureati più meritevoli) e dell’esperienza nell’ufficio per il processo (che in due tranche coinvolgerà oltre 16mila neolaureati). Intanto, a fine novembre si è concluso il primo concorso per oltre 8mila posti presso gli Upp, gli idonei in questo caso sfiorano i diecimila. La centralità dell’Ufficio del processo è uno dei passaggi chiave voluti dalla Ministra Cartabia per la riduzione dei tempi della giustizia e lo smaltimento dell’arretrato. A più riprese la Ministra ha affermato che non sarà una “meteora” e che, sia pure con numeri diversi, in futuro si procederà ad una stabilizzazione dell’Ufficio, mentre la relativa esperienza potrà essere “valorizzata” nei futuri concorsi. Ebbene nelle bozze di riforma per la prima volta compare nero su bianco una sorta di “corsia preferenziale” per chi ha già lavorato, sia a pure a tempo determinato e in funzione di supporto, fianco a fianco con un magistrato. Inoltre, sul piano della formazione, viene prevista l’attribuzione alla Scuola Superiore della Magistratura dell’organizzazione di corsi di preparazione al concorso per i tirocinanti e per chi abbia svolto funzioni nell’ufficio per il processo. Ancora di recente Cartabia aveva sottolineato: “Troppe volte i concorsi non riescono a selezionare neppure un numero di candidati sufficienti, un dato che segnala un problema che deve essere affrontato”. E questo percorso: tirocinio e/o ufficio del processo più Scuola superiore della Magistratura potrebbe essere una prima risposta. Infine, l’esame vero e proprio: l’idea è quella di prevedere tre elaborati scritti ed una riduzione delle materie orali. Padova. La cooperativa “AltraCittà” vittima di un processo mediatico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 dicembre 2021 Un socio della cooperativa “AltraCittà” che lavora nel carcere Due palazzi di Padova è indagato, ma per la stampa locale è già colpevole. In questi giorni i giornali locali di Padova hanno parlato della cooperativa Sociale “AltraCittà” e di un loro socio e dipendente ex detenuto, Altin Sulo, in modo che ha prodotto grosso sgomento ai rappresentanti di una cooperativa, fiore all’occhiello del carcere Due Palazzi di Padova. Il socio lavoratore della cooperativa “AltraCittà” è solo indagato - “Allo stato attuale, Altin Sulo è indagato. Non c’è al momento né una richiesta di rinvio a giudizio, né un rinvio a giudizio, né tantomeno una condanna. Mentre chi legge ha l’impressione che Sulo sia colpevole”, si legge nel comunicato della cooperativa sottoscritto dal legale rappresentate e dal consiglio di amministrazione Rossella Favero, Giovanni Todesco, Valentina Michelotto, Valentina Franceschini, Stefano Carnoli e Sabina Riolfo. I soci della cooperativa “AltraCittà” lamentano il trattamento ricevuto dai media - I rappresentanti di “AltraCittà”, sottolineano che l’informazione su questi temi non faccia chiarezza in chi legge circa le differenze esistenti tra indagine/indagato, richiesta di rinvio a giudizio, rinvio a giudizio, condanna/condannato. “E invece - prosegue il comunicato - la sua vita viene messa in piazza senza alcun rispetto: si parla della precedente condanna per la quale ha pagato per intero il suo debito con la giustizia e la società; inoltre del suo stipendio, del suo ruolo nel nostro negozio (ma perché nessuno ci ha chiesto conferma di queste notizie, davvero imprecise? quali sono le fonti di queste informazioni?)”. Il 14 dicembre entrerà in vigore il Decreto legislativo che recepisce la normativa europea sulla presunzione di innocenza - I rappresentanti della cooperativa “AltraCittà” sottolineano che non sta a loro giudicare dell’innocenza o della colpevolezza di Altin Sulo, ma nel contempo sono convinti che abbia diritto come ogni persona al rispetto e che la presunzione d’innocenza sia un pilastro della democrazia e valga per tutti, indipendentemente dalle storie personali. Ricordano che in giorni recentissimi è stato approvato il Decreto legislativo che recepisce la normativa europea sulla presunzione di innocenza. Entrerà in vigore il 14 dicembre. Proprio in questi giorni sul quotidiano Il Foglio la ministra Cartabia rispondeva a chi la intervistava sul “processo mediatico” come male del nostro Paese: “… il solo fatto di una notizia di indagini, oppure che siano stati aperti determinati filoni di inchiesta, se viene immediatamente proposto sulla stampa come se si fosse già individuato l’esito di quel processo, può pregiudicare nei fatti quel principio che noi vogliamo garantire, cioè il fatto che la persona non è considerata colpevole fino alla fine della sentenza di condanna. Se posto male dal punto di vista mediatico, il processo può arrecare un danno alla reputazione - e quindi anche a tutta la vita professionale, alla vita di una persona o alle sue attività economiche - pressoché irreversibile”. Ed è esattamente questo, secondo cooperativa, sta accadendo. Scrivono nel comunicato che si sta attuando “un danno alla persona, alla sua storia, alla sua professionalità, e un danno alla nostra cooperativa, al nostro impegno di decenni ispirato all’art. 27 della Costituzione; in una fase in cui la persona è nella condizione di indagato, e non di colpevole”. Infine concludono: “A chi sono utili notizie così confuse e imprecise? Ma davvero si può definire fare informazione parlare di una persona sottoposta a una indagine in questo modo?”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Comincia il processo per le violenze nel carcere di Chiara Cecchini L’Essenziale, 11 dicembre 2021 Secondo l’accusa ci sarebbero stati anche depistaggi per scagionare gli agenti Prende il via mercoledì 15 dicembre, nell’aula bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), il processo per le violenze avvenute nel penitenziario campano nell’aprile 2020, quando trecento agenti intervennero in una “perquisizione straordinaria” picchiando e torturando i detenuti. Nel processo sono coinvolti 108 tra agenti e funzionari dell’amministrazione, tra cui Pasquale Colucci, comandante del Gruppo di supporto agli interventi (Gsi), l’ex capo delle carceri campane Antonio Fullone, Anna Rita Costanzo, commissario responsabile del. reparto Nilo, e l’ex comandante della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, Gaetano Manganelli. I reati contestati sono tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo di un detenuto algerino, Lakimi Hamine, deceduto dopo essere stato tenuto in isolamento dal giorno delle violenze. Inoltre, sempre secondo l’accusa, ci sarebbe stata una consistente attività di depistaggio da parte di agenti e funzionari con certificati medici falsificati per dimostrare che gli agenti avevano subìto violenze compiute dai detenuti, e diversi tentativi di manomissione delle telecamere. Dei trecento poliziotti intervenuti nell’azione, tuttavia, oltre un terzo non è identificabile perché indossava casco e mascherina. Le rivolte dei 2020 Per capire meglio cos’è successo a Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020 è utile fare un passo indietro al marzo dello stesso anno quando, in pieno lockdown, i detenuti protestarono in decine di carceri italiane contro la gestione della pandemia da parte delle istituzioni penitenziarie. L’assenza di dispositivi di protezione, l’ambiguità nella comunicazione dei casi di contagio, la scarsa prontezza nell’isolamento degli ammalati, nessun provvedimento preso sul sovraffollamento e, infine, la notizia del blocco dei colloqui scatenarono la reazione dei detenuti. La repressione delle rivolte da parte della polizia fu durissima, e in tutta Italia si contarono tredici morti, ufficialmente deceduti per overdose di medicinali. Su quelle morti sono state aperte delle indagini, ma nessun procedimento è mai arrivato a processo. Nel solco degli eventi di marzo si collocano quelli avvenuti tra il 5 e il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Tra di essi ci sono punti di contatto, ma ci sono anche delle differenze. I protagonisti, innanzitutto. Gli agenti che entrarono nel reparto Nilo del carcere campano appartenevano infatti al Gsi, istituito ad hoc durante le rivolte di marzo dal provveditorato regionale. Si trattava di agenti reclutati senza addestramento specifico e alle dipendenze del provveditore. In cento furono inviati a Santa Maria Capua Vetere per una protesta di detenuti, informati soltanto da un servizio del telegiornale dell’avvenuto contagio di uno di loro. Per ore i detenuti protestarono pacificamente, rifiutandosi di entrare nelle celle. Dalle riprese delle telecamere di sorveglianza non emerge nessun atto violento, e la protesta rientrò in serata senza conseguenze e senza che quindi si rendesse necessario l’intervento del Gsi. Stando alle intercettazioni telefoniche e ai messaggi che gli agenti si scambiarono quella notte, la fine della protesta e proprio il mancato intervento del Gsi generarono insofferenza tra gli stessi agenti. Nonostante la calma fosse tornata, una perquisizione straordinaria fu pianificata per le 15 del 6 aprile. “Secondo quanto emerso dalle investigazioni”, spiega Luigi Romano, presidente di Antigone Campania e autore del libro La settimana santa (Monitor Edizioni), “il reparto Nilo veniva considerato ingestibile. Così, nonostante la protesta del 5 fosse rientrata, la polizia penitenziaria premeva per ristabilire l’ordine a modo proprio”. Rappresaglia a freddo - La perquisizione straordinaria del 6 aprile si trasformò così in un pomeriggio di violenza in cui pestaggi, umiliazioni fisiche e psicologiche, sevizie e torture vengono compiute per quattro ore da trecento agenti, contro uomini inermi. Stando alle testimonianze, nel trattamento sono compresi numerosi regolamenti di conti verso i soggetti considerati più insubordinati. “Tu saresti il capo della sezione? Sei inutile, non comandi nemmeno a casa tua, sei il cazzo mio”. E giù calci sulla schiena, sputi e manganellate. “Lo stato siamo noi, tu e i tuoi compagni dovete morire”, e ancora pugni e manganelli. Sono alcune delle frasi riportate dai detenuti, accompagnate dalle sconvolgenti immagini delle telecamere di sorveglianza che la scorsa estate hanno fatto il giro del mondo. Quello che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere, tuttavia, non è un episodio isolato. “Anche durante la pandemia”, dice ancora Romano, “abbiamo avuto casi eclatanti di violenza da parte della polizia, in vari penitenziari. C’è però una differenza. In quei casi era in atto un conflitto tra le parti che vivono il penitenziario, a cui è seguito un esercizio brutale della forza, l’unica arma che la polizia ha scelto di esercitare. A Santa Maria Capua Vetere invece è stata una rappresaglia a freddo, con l’intento di punire i più coinvolti e riportare l’ordine nel reparto”. Udine. Carcere più duro a causa del Covid. Il Garante dei detenuti: “Si intervenga” di Alessandra Ceschia Messaggero Veneto, 11 dicembre 2021 In carcere a Udine ci sono sempre alcuni detenuti positivi (erano una ventina venerdì 10 dicembre) e la loro presenza rende ancora più duro il carcere per tutti gli altri che non possono uscire dalle celle - o quasi, adesso c’è stata un’apertura in questo senso e sono previste delle uscite a turno - non possono seguire programmi formativi, né avere colloqui con i familiari. “L’emergenza Covid - ha spiegato il garante dei detenuti Franco Corleone - si somma al grave problema del sovraffollamento. A Udine la capienza è di 86 persone, ma in questo periodo ce ne sono circa 130. Ci sono anche quattro o sei persone per cella che hanno a disposizione un unico servizio. E adesso il periodo di quarantena sta per superare il mese. La situazione si sta facendo critica, se si considera anche che ci sono pochi educatori e quindi risultano difficoltosi anche i colloqui con questi ultimi. Insomma, è una questione di diritti fondamentali, di dignità. E il nodo è, come ho detto, il sovraffollamento. Ora, visto che il Covid non se ne andrà tanto velocemente come avevamo sperato, bisognerà pensare a qualche soluzione”. Un grande passo in avanti, secondo Corleone, si potrebbe fare ricorrendo alle misure alternative al carcere: dagli arresti domiciliari alla semilibertà, fino all’affidamento in prova e ai permessi premio. “Per quanto riguarda queste misure alternative - precisa il garante - viene sempre sollevata un’obiezione: possono essere adottate solo nell’ambito di progetti che garantiscano il successo. Ma ora il nemico da battere, e in tempi brevi, è il sovraffollamento. Bisogna alleggerire la pressione. Come? I servizi psichiatrici del territorio devono fare una ricognizione per capire quanti detenuti con problemi mentali potrebbero essere adeguatamente seguiti al di fuori del carcere. Va in questa direzione una recente sentenza della Corte costituzionale che equipara la malattia mentale a quella fisica. Oltretutto, queste persone sono quello che più soffrono tutte le costrizioni legate non solo alla detenzione, ma anche all’emergenza Covid. Se il Dipartimento di salute mentale potesse accogliere alcuni di questi detenuti di certo la gestione del carcere ne beneficerebbe”. Altra questione: i tossicodipendenti. “Anche in questo caso - prosegue Corleone - bisogna capire quanti sono (in media si tratta del 30 per cento della popolazione carceraria) e vedere che tipo di trattamenti seguono. Poi vanno messi a punto dei programmi territoriali di affidamento terapeutico”. In sostanza, a parere del garante, “la carcerazione ai tempi del Covid è più dura e non sono previste misure di ristoro”. “Con il virus - sottolinea Corleone - ai detenuti è stato tolto quasi tutto e, in quelle condizioni, è quasi un miracolo che non succedano cose gravi, ma come ho già ribadito, così, visto che siamo già alla quarta settimana di quarantena, si vanno a ledere i diritti fondamentali della persona. Molti detenuti potrebbero trovare una collocazione adeguata al di fuori della cella. Ma vanno trovate strutture e strategie alternative. O, per fare un altro esempio, potrebbero essere aumentati i giorni di liberazione anticipata. Sono tante le cose che si possono fare. Per fortuna - conclude - a Udine è stata ristrutturata l’infermeria ed è stata fatta la palestra. Adesso però vorremmo avviare una raccolta fondi perché mancano ancora gli attrezzi per fare ginnastica e poi si potrebbe anche acquistare un abbonamento tv in modo che i detenuti possano vedere le partite”. Roma. Trattenuto nel Cpr e poi morto in ospedale, al centro dell’inchiesta sanitari e agenti di Fulvio Fiano e Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 11 dicembre 2021 Ben Abdel Latif Wissem, 26 anni, tunisino, secondo i familiari sarebbe stato picchiato nel Centro di permanenza di Ponte Galeria e poi sarebbe stato legato al letto due giorni e mezzo nel reparto psichiatrico del San Camillo. Diagnosi discordanti, cure estremizzate forse oltre il necessario, il sospetto di un pestaggio e un’autopsia disposta troppo in fretta, che lunedì verrà integrata da un supplemento di analisi. Diventa un caso la morte di Ben Abdel Latif Wissem, il tunisino di 26 anni deceduto il 28 novembre nel reparto psichiatrico del San Camillo dopo due giorni e mezzo di “contenzione” a letto. Il pm Luigia Spinelli indaga al momento contro ignoti per omicidio colposo e dall’esame sul cadavere, già effettuato, punta a risalire a eventuali responsabilità del personale sanitario o degli agenti che l’hanno avuto in custodia nel Centro di permanenza per il rimpatrio di immigrati di Ponte Galeria. Il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, segue la vicenda che in Tunisia sta avendo ampio spazio sui media. Almeno due i punti poco chiari nella ricostruzione dei due mesi trascorsi da Wissem in Italia. Sbarcato a Lampedusa il 2 ottobre, il 13 è stato trasferito nel centro di detenzione provvisoria in base a una valutazione dell’ufficio dislocato del ministero della Salute in Sicilia che ne attestava “l’idoneità alla vita ristretta”. A Ponte Galeria Wissem viene giudicato in buone condizioni ma dopo 10 giorni, davanti alla commissione territoriale competente per il rilascio del permesso di soggiorno (la procedura viene sospesa) manifesta uno stato di “sofferenza mentale” tale da rendere necessaria una valutazione psicologica e poi psichiatrica, in base alla quale gli vengono prescritti dei calmanti. La diagnosi è “disagio schizo-affettivo”. Altri 10 giorni e il paziente a chiede di essere rivalutato perché i farmaci gli causano incontinenza e tremori. Il 23 novembre ne viene disposto il ricovero in ospedale, con un accesso al pronto soccorso del Grassi. Poi, dopo due giorni, il trasferimento al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura del San Camillo e il decesso in meno di 72 ore. Gli interrogativi riguardano il trattamento nel centro di Ponte Galeria, dove secondo alcuni compagni di detenzione Wissem sarebbe stato picchiato dagli agenti. E poi la gestione della sua condizione medica, dato che i familiari escludono che in passato il 26enne avesse mai manifestato disagi psichici e che lo stesso primo referto sembra escluderli. Agli atti ci sono anche dei video girati da Wissem col suo cellulare, prima sul barcone e poi nel Cpr, in cui non mostra squilibri. E d’altronde, si chiede l’avvocato Francesco Romeo che assiste la famiglia, se avesse avuto un disagio, questo si sarebbe manifestato nello stress della nave quarantena. Che cosa è cambiato allora nei giorni successivi? Quale evento ha innescato le sue difficoltà? E se è stata una messinscena per uscire dal Cpr, su che basi è stata creduta? Quanto allo stato di contenzione, le procedure impongono di tenere un registro dettagliato su tempi e modi in cui il paziente viene legato, ma nella cartella clinica niente c’è al riguardo. Le risposte del medico legale saranno un primo passo per l’accertamento della verità, alla quale però solo nell’appendice di lunedì è stata chiamata a partecipare la parte civile. Milano. I problemi più urgenti del carcere di San Vittore milanotoday.it, 11 dicembre 2021 La visita alle celle della senatrice del Movimento 5 Stelle, Simona Nocerino. Stranieri non seguiti una volta scarcerati, le lunghe attese per le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza per gli autori di reato affetti da fragilità mentale. Sono questi alcuni dei problemi che emergono dalla visita al carcere di San Vittore di Milano della senatrice del Movimento 5 Stelle, Simona Nocerino. Accompagnata dal direttore della struttura Giacinto Siciliano, dal Garante dei detenuti della Regione Lombardia, Alberico De Vecchi e dal comandante della polizia penitenziaria, Manuela Federico, la senatrice venerdì ha visitato il penitenziario. “Fra i problemi più spinosi che mi sono stati evidenziati - ha spiegato in una nota - uno riguarda la presenza di molti stranieri che, una volta usciti dal carcere dopo brevi periodi di detenzione, tornano a delinquere perché per lo Stato non esistono dal punto di vista anagrafico e, quindi, non viene attivato un vero e percorso di riabilitazione e reinserimento sociale per queste persone”. “Inoltre, all’interno della casa circondariale, si registrano problemi dovuti alla carenza di medici, specie per quanto riguarda la cura dei detenuti con problemi psichici. A questo si lega la questione relativa alle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza per gli autori di reato affetti da fragilità mentale. Ci sono, infatti, liste di attesa lunghissime per accedere a queste particolari strutture sanitarie che accolgono questi soggetti, i quali necessitano di un percorso molto particolare e che, purtroppo, nelle more rimangono collocate in carcere, aggravando così anche i problemi connessi al sovraffollamento”, spiega. “Ringrazio la polizia penitenziaria e tutto il personale penitenziario per il grande lavoro che quotidianamente portano avanti con grande umanità e che è stato ulteriormente complicato dalla pandemia, supplendo anche a delle mancanze che possono esserci nella struttura. Mi farò portavoce delle problematiche e delle criticità che mi sono state evidenziate - promette Nocerino - e a breve presenterò una interrogazione al ministero della Giustizia, per porre l’attenzione, in particolare, sulla carenza di medici e sulle Rems”. Torino. Ancora sei detenuti al reparto psichiatrico “Sestante” Corriere Torino, 11 dicembre 2021 “Al Sestante ci sono ancora sei detenuti che aspettano di uscire o essere riassegnati. Queste persone hanno diritto a un percorso detentivo che sia davvero rieducativo e capace di garantire un pieno reinserimento nella società attraverso il lavoro, formazione e, ogni volta che si può, misure alternative al carcere. Quella struttura è un problema nel problema: la ristrutturazione, che dovrebbe porre fine alla vergogna dei bagni a vista, è un passaggio necessario, ma non risolverà l’ingiustizia di tenere rinchiuse persone che avrebbero bisogno di una diversa gestione del loro disagio psichico”. A parlare è Marco Grimaldi, capogruppo di Liberi Uguali Verdi che da anni visita le carceri piemontesi nell’ambito del percorso che ha chiamato “codice a sbarre” e che ieri mattina è stato all’interno delle sezioni 7 e 8 (psichiatriche) del carcere Lorusso e Cutugno. “Come tutte e tutti noi, i detenuti hanno diritto a ogni cura sanitaria, psichiatrica e di assistenza, oltre a mantenere i legami con il mondo fuori grazie a percorsi d’inserimento a fine pena”. (s.d.c.) Milano. Panettoni di Natale prodotti al Beccaria: il riscatto dei giovani detenuti di Zita Dazzi La Repubblica, 11 dicembre 2021 Prima spacciavano, rubavano, alcuni si sono macchiati anche di delitti molto gravi. Oggi stanno imparando a fare i panettieri e i pasticceri, e i panettoni che producono dentro al carcere minorile Beccaria vengono venduti in un negozio normale per finanziare altri progetti di reinserimento sociale dei giovani detenuti. È questa la filosofia del progetto “Buoni Dentro” nato nel 2011 in via sperimentale all’interno dell’Istituto Penale Minorile Beccaria in via dei Calchi Taeggi, a Milano. Fra i tanti volontari che entravano in carcere a insegnare un mestiere per salvarsi la vita, c’erano anche artigiani della panificazione e dal 2014 in collaborazione con la Società Agricola Cooperativa Sociale - Cascina Nibai, nasce proprio un laboratorio interno con un mastro fornaio che ha formato con la decine di ragazzi e avviato una produzione in grande stile. L’anno dopo in piazza Bettini (vicino a Bande Nere) nasce anche il forno di quartiere dei Buoni Dentro, con ragazzi dell’Ipm ammessi al lavoro esterno che stanno dietro al bancone. Il laboratorio interno all’IPM è portato avanti quotidianamente da Lorenzo Belverato, che a gennaio compie 76 anni, socio fondatore e mastro panificatore in pensione e da Paride (70 anni, pasticcere in pensione che ogni giorno viene da Brescia, a titolo gratuito. Anche quest’anno la magia si ripete e i panettoni sono pronti alla vendita in piazza Bettini, con quattro ospiti del Beccaria che si occupano di tutte le fasi della produzione e della vendita. Dopo lo stop fra il 2020 e il 2021, l’anno peggiore della pandemia, ora si riparte con l’ampliamento dell’offerta commerciale (in particolare con la pasticceria da forno e la biscotteria). “Non assumiamo persone per produrre pane, produciamo pane per creare occupazione” non è solo il nostro motto, è il principio che ha ispirato la costituzione della cooperativa sociale perché sostenere i giovani adulti vuol dire anche e soprattutto cercare di dar loro un’opportunità concreta di reinserimento sociale che non può avvenire se non si ha un lavoro, spiega Lorenzo Belverato, che ogni giorno entra al Beccaria per coordinare le attività produttive. “Lavoriamo tutti insieme con l’obiettivo di contribuire, anche in piccolissima parte, alla costruzione di una società più giusta e più inclusiva. Crediamo profondamente nella solidarietà e nella necessità di aiutare gli altri, senza giudicare, sapendo anche che il riscatto passa dalla consapevolezza”, aggiunge. Marco Fiorencis, socio fondatore e presidente dei Buoni Dentro. Fra tanti panettoni, sicuramente questi sono più “buoni” di altri. Roma. Intervista a Oscar La Rosa, fondatore di “Economia Carceraria” di Rosalba Teodosio agenfood.it, 11 dicembre 2021 Oscar La Rosa, proprietario del locale “Vale la pena”, è dottore in Scienze Politiche dal 2017, con una tesi dal titolo “La rieducazione del detenuto attraverso il lavoro in carcere”. Un’informazione, questa, che non solo è indispensabile per capire il percorso dell’imprenditore 34enne, ma è la prima che si riceve entrando nel locale di via Eurialo 22, a Roma, tra l’Appia e la Tuscolana. La prima informazione, insieme ad altre mille scritte ovunque sulle pareti di gesso. “Ogni cosa prodotta in carcere ha un valore aggiunto, quello del riscatto sociale e della scommessa su se stessi, è un prodotto di qualità e valori”. “Chi sconta la pena in carcere ci torna 70 volte su 100. Chi è inserito in progetti lavorativi ci torna solo 2 volte su 100”. “Carcere è l’anagramma di cercare”. “Nun ve fate beve, ve famo beve noi”. “I prodotti dell’Economia Carceraria sono buoni e di qualità, perché fatti con orgoglio da persone che con essi correggono traiettorie di vita diminuendo recidiva e reati”. “Birre ad alto contenuto di valori”. La storia di “Vale la pena” è la storia di uno studente che si iscrive tardi all’università, dopo aver lavorato per anni come manager nel settore culturale, ancora giovanissimo. E che all’improvviso, a 25 anni, sente il bisogno di riappropriarsi del suo tempo, investendo su se stesso e sullo studio. Si iscrive all’università e per cinque anni, pur essendo romano, vive insieme ai fuorisede la vita studentesca, notte e giorno. È proprio alla Luiss, grazie a una casuale esperienza di volontariato presso l’associazione “Semi di libertà”, che conosce il sistema carcere e le persone “dietro le sbarre”. Oscar, come nasce “Vale la pena”? Nasce da un progetto avviato dall’Associazione “Semi di libertà” nel 2014, con l’obiettivo di contrastare la recidiva, ovvero evitare che, quando escono dal carcere, le persone tornino a commettere reati. Esistono vari strumenti, uno dei principali è il lavoro: professionalizzare le persone. “Semi di libertà” decide quindi di dar vita a un micro birrificio all’interno dell’istituto agrario Sereni in zona Bufalotta, dove coinvolgere i ragazzi di Rebibbia. Nasce così la birra “Vale la pena”, che dà il nome anche al pub aperto l’11 ottobre nel 2018. Il birrificio purtroppo chiuderà dopo poco, ma il pub è rimasto in piedi e si è rinnovato dopo essere stato acquisito da “Economia Carceraria”, che ho fondato insieme a Paolo Strano e che ha come mission la valorizzazione, la vendita e la diffusione di prodotti artigianali realizzati in carcere. “Vale la pena” oggi dà voce a tutto questo. Di quali prodotti parliamo? Non solo di birra, parliamo di una serie di produzioni gastronomiche ma anche tessili che vengono realizzate da cooperative sparse su tutto il territorio nazionale, in varie carceri dal Piemonte alla Sicilia alla Puglia. I prodotti sono strettamente connessi al territorio: taralli pugliesi, pasta siciliana, caffè, frutta secca, confetture, miele… Oggi rappresentiamo circa 25 cooperative legate a questo mondo. Era importante per noi avere un luogo fisico dove le persone potessero degustare questi prodotti e “Vale la pena” è questo, anche se con l’avvento del covid abbiamo investito nel commercio elettronico, dando così la possibilità di acquistare attraverso il nostro sito (www.economicarceraria.com). Diamo la possibilità di comporre confezioni regalo con prodotti a scelta. Come ti sei finanziato inizialmente? Ho iniziato con il microcredito, Unicredit infatti ci ha concesso un prestito di ventimila euro. In quanti lavorate a “Vale la pena”? Siamo in 4, e con noi c’è un ragazzo che si trova in esecuzione penale esterna, che ci è stato “affidato”. Siamo riusciti a fargli ottenere un corso di due mesi da bar-tender offerto gratuitamente da Bacardi, che abitualmente seleziona ragazzi con difficoltà economica o con disagio sociale e li forma. Un importante passo verso il mondo del lavoro. Cosa vuol dire per te lavoro? Sono convinto che il lavoro debba avere due requisiti fondamentali: deve avere una retribuzione e, come insegna la Costituzione, deve partecipare al progresso materiale o spirituale della società. Se intendi il lavoro come servizio alla società e se sei capace di trasmettere questo concetto anche, per esempio, a un tossicodipendente, allora gli dai il via per una riflessione profonda su come lui si pone nei confronti della società. Prima di questa esperienza, io ero certo che il lavoro fosse l’unico strumento di reinserimento, l’unica possibilità di abbattere tutti i mali sociali. In questi anni ho incontrato però ragazzi per i quali il lavoro, inteso come lo intendiamo noi e cioè essenzialmente retribuito, non è la scelta migliore in quel particolare momento della loro vita. Queste però sono riflessioni che riesci a fare solo dopo quattro anni di lotta giornaliera sul campo. Cosa ti dà questo lavoro? Mi dà la storia delle persone, mi dà la possibilità di aiutare gli altri e di lavorare al servizio della società. Cosa dai tu alla società? Do pochissimo. Quello che vorrei dare e che sto provando a dare è una seconda possibilità alle persone che si trovano in carcere, una società più sicura, con meno reati, un progresso nel sistema della pena, un incentivo alle imprese ad aprire gli occhi nei luoghi dove pensiamo che non ci sia potenziale. In carcere c’è potenziale. Io sono una sola persona, sono pochissimo, ma aiutando 25 cooperative a vendere prodotti consentirò a loro di aumentare il fatturato e quindi di assumere altri detenuti. Ci sono progetti in fase di realizzazione? Stiamo per dare vita a un bollino di certificazione: PEC, Prodotto in Economia Carceraria. Vuol dire che in quel prodotto c’è il lavoro di persone che si trovano in esecuzione penale, che stanno affrontando una pena, dentro o fuori dal carcere. Quello che fai oggi è quello che hai sempre sognato di fare? No, non avevo dei progetti particolari. Ma se oggi mi guardo indietro riesco a mettere insieme tutti i puntini e a tracciare un disegno, tutte le casualità, tutte le persone, gli incontri che mi hanno portato fin qui. La tesi lì all’ingresso non è messa per vanità, ma per mostrare che davvero si può realizzare ciò in cui si crede, fare ciò per cui si studia. Frosinone. Il teatro per educare e scardinare il “codice d’onore” teleuniverso.it, 11 dicembre 2021 ‘Che fine ha fatto cappuccetto rosso?’ è lo spettacolo teatrale portato in scena nel carcere di Frosinone nei giorni scorsi e che ha visto come protagonisti i detenuti. Un evento pieno di umanità e di significato quello fortemente voluto dalla Compagnia Errare Persona e dall’Associazione Korinem. La conduzione, direzione artistica, regia e drammaturgia è stata a cura di Damiana Leone con la conduzione e co-regia Anna Mingarelli. I detenuti, ospiti delle sezioni alta sicurezza e precauzionali, che hanno aderito al progetto si sono ritrovati ad interpretare in due distinti laboratori tutti i personaggi di storie riscritte dai detenuti, in maniera empatica e solidale: dal lupo che divora Cappuccetto stessa, al soldato, al Clowns, fino al teatro delle Ombre con La favola del soldatino di Stagno. Questo tipo di lavoro è stato sviluppato per lavorare sull’immedesimazione nei confronti della vittima, sull’entrare a contatto con le proprie emozioni e per sviluppare anche una maggiore consapevolezza corporea e una migliore affettività con l’altro. Lo spettacolo dedicato alla favola di ‘Cappuccetto Rosso’ è stato presentato il 25 novembre, proprio nella giornata dedicata alla donna vittima di violenza. Un laboratorio teatrale, quello riservato ai detenuti della sezione alta sicurezza, che ruota intorno a dei temi principali: il potere, la lotta, la libertà e il riscatto. Un lavoro incentrato sul potere in particolare attraverso le opere di Shakespeare, dando particolare risalto al tema del padre. Si lavorerà su Macbeth ma sempre in forma aperta e di studio proprio per sottolineare come una discussione sul potere possa avere continui sviluppi. Avendo un tipo di utenza formata quasi esclusivamente da Mafie, la riflessione sul potere cerca di scardinare in modo simbolico e catartico il mito del codice d’onore, attraverso training fisico (lavoro sugli animali, sui sentimenti, sull’immedesimazione nell’altro e nella vittima, lavoro di teatro danza, giochi di gruppo per creare un senso di comunità basata sul rispetto e la cooperazione senza giudizio e giochi di potere) Ai progetti hanno partecipato anche il Conservatorio e l’Accademia di belle Arti di Frosinone. Vigevano (Pv). Dal carcere al palcoscenico: al teatro Verdi la storia di “Benedetta” di Annalisa Vella informatorevigevanese.it, 11 dicembre 2021 In scena una detenuta della Casa di reclusione di Vigevano e l’attrice Sonia Barbic. “Benedetta” è stato rappresentato al Festival di Castrovillari, al teatro Palladium di Roma, a Verona, Pavia, Torino e al teatro Elfo Puccini di Milano. Il direttore artistico dell’Elfo, Elio De Capitani, aveva previsto una lunga durata nel 2021, ma la pandemia ha bloccato il progetto. Progetto che poi è stato sostenuto da Next-Regione Lombardia e ora, dopo l’interpretazione di Donatella Finocchiaro, viene ripreso con nuove attrici. Il regista e drammaturgo Mimmo Sorrentino - “Dopo due anni di fermo abbiamo pensato di rivederlo e proporlo con una formula nuova”, dicono da Teatroincontro. “Benedetta” racconta la storia di una ragazza sposata giovanissima con un camorrista. A 17 anni vede il suo primo morto ammazzato, un parente di suo marito. La notte vede il suo fantasma. Il soprannaturale entra nella sua esistenza e ci si aggrappa nel tentativo di salvare sé stessa e la sua famiglia. Ma il tentativo fallisce. Benedetta resta incastrata nell’attività del marito e non per un difetto di onestà, di intelligenza, di responsabilità, ma per un deficit culturale. Per Benedetta la natura della donna è di essere madre, moglie e figlia. Altro non può essere perché altro non conosce. Per uscire dalla palude in cui è affondata necessiterebbe di risorse che non ha. In carcere inizia il suo processo di emancipazione. S’innamora della sua compagna di cella. Difende il suo amore dalla cultura dominante all’interno della sezione di alta sicurezza in cui è reclusa, che giustificano l’omosessualità solo se finalizzato a sopportare la privazione erotica. In carcere i fantasmi spariscono. Non le appaiono più. Ma dal carcere si esce. La sua compagna viene scarcerata. Benedetta resta sola. Viene abbandonata dalla sua amante. Nel frattempo il figlio maschio inizia a seguire le orme del padre. Sua figlia è allo sbando totale. Ed entrambi i figli l’accusano della loro tragica condizione. Benedetta si ammala. Invoca i fantasmi. È da loro, dal soprannaturale, che si aspetta di essere salvata. Ed è a loro che urla il suo disperato “Io voglio vivere”. “Benedetta” è l’ultimo spettacolo della rassegna “L’arte dell’inclusione. Vigevano città del teatro partecipato. Educarsi alla libertà”. “Fare dodici spettacoli in un mese è stato uno sforzo non indifferente. Le repliche proposte il venerdì sera sono andate molto bene, meno quelle del giovedì - dice Luca Cavalieri, presidente di Teatroincontro. Ma un po’ tutti i teatri stanno pagando il costo della ripresa della pandemia. Se in estate le persone, dopo mesi di chiusura, non vedevano l’ora di uscire di casa, a novembre la pioggia, la nebbia e la ripresa dei contagi le sta frenando. Abbiamo anche pagato lo scotto di dover riadattare tutti gli spettacoli ad uno spazio non preventivato e questo ha sottratto energie alla comunicazione. Ma di certo non possiamo lamentarci. Siamo ritornati a teatro. Abbiamo portato per la prima volta in un teatro pubblico medici ed ex pazienti del Cra. Realizzato uno spettacolo su Piazza Ducale, i primi a rappresentarla e speriamo di riportarlo anche a Vigevano, la sua sede naturale”. “Tutti gli spettacoli sono stati molto apprezzati e hanno consolidato i rapporti tra la parte artistica e quella proveniente dal mondo sociale che animano la nostra compagnia”. In inverno, pandemia permettendo, riprenderanno gli spettacoli in carcere. “Lo speriamo veramente. Stiamo lavorando a un nuovo progetto di cui siamo molto convinti”. Non dimenticatevi anche l’ultima lettura del libro “Che tutto sia bene” domenica 12 dicembre al Bacaro. Porto Azzurro (Li). Detenuti e studenti insieme sul palco del carcere De Santis di Luca Centini Il Tirreno, 11 dicembre 2021 “Pur tra tante difficoltà, in un periodo così problematico a causa dell’emergenza sanitaria, con la chiusura di ogni spazio di libertà faticosamente vissuto specie in carcere, il laboratorio teatrale “Il carro di Tespi” ce l’ha fatta a presentare il suo spettacolo, preparato con l’impegno di un anno e mezzo”. Così Licia Baldi, presidente dell’associazione Dialogo “volontariato” carcere, commenta lo spettacolo teatrale in scena sabato scorso nella Casa di reclusione “De Santis” di Porto Azzurro. Sul palco 13 detenuti attori e cinque studenti della seconda A dell’indirizzo Mat. dell’istituto professionale piombinese che hanno presentato una rilettura della storia di Caino e Abele preparata sia on- line e in parte in presenza. “Pochi gli spettatori, ma ne è valsa la pena e speriamo in una replica - commenta Baldi -. Sul palco, tutti bravi e impegnati a rendersi utili e a collaborare per comunicare sentimenti, emozioni, riflessioni profonde. Alla domanda del Dio biblico: “Caino, dov’è tuo fratello?”. Caino risponde: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Ebbene oggi Dio potrebbe chiedere: “Dov’è tuo fratello Omar che hai lasciato morire annegato nel Mediterraneo?”. Questa riflessione, questa domanda è il filo conduttore della rilettura del brano biblico, alla luce della paura, che oggi respinge i migranti e li lascia morire in mare o di fame e di freddo ai confini d’Europa”. “In una lettera aperta di Bruno Pistocchi, letta prima dell’inizio dello spettacolo, si auspicano ponti e non muri - prosegue la professoressa -. Un ponte invisibile ma incrollabile la nostra Associazione di volontariato, anche e specialmente attraverso il Progetto Teatro, ha sempre cercato di costruire per unire il dentro al fuori e per non permettere che trionfi la mentalità dello scarto, ma piuttosto la volontà di recuperare chi ha sbagliato, anche gravemente, in nome di quella fraternità che ci dovrebbe accomunare e di quella pagina di autentica civiltà scritta nella nostra costituzione”. “Un plauso - conclude Baldi - alla professoressa Manola Scali, alla sua collaboratrice Valentina Parrini, a Daniele Pistocchi e Valentina Cantini per gli intermezzi musicali e agli studenti Lorenzo Laudisio e Alessia Carli. E un applauso meritato ai giovani studenti, a tutti gli attori, lettori e aiutanti di scena, al professor Lorenzo Favilli, alla dirigente scolastica, Sabrina Zottola e a Gabriella Raimo”. Milano. Shopping nel carcere di Bollate, ritorna il mercatino di Natale Il Giorno, 11 dicembre 2021 In vendita i prodotti realizzati dai detenuti che lavorano nelle cooperative sociali. Uno stand della Penitenziaria. Dopo lo stop dello scorso anno, a causa della pandemia, torna oggi il tradizionale appuntamento con il mercatino di Natale all’interno del carcere, che quest’anno è arrivato alla decima edizione. In vendita prodotti realizzati dai detenuti che lavorano nelle cooperative sociali. Si potranno acquistare le piante e i fiori coltivati dalla coop Cascina Bollate, che si occupa della manutenzione delle aree verdi e delle serre. Capi e accessori realizzati nel laboratorio di sartoria della cooperativa sociale Alice, “attraverso questi lavori si punta a restituire centralità alla persona e sostegno allo sviluppo sostenibile attraverso l’artigianalità del made in Italy”, spiegano gli organizzatori. Ci sono anche i prodotti di Zerografica, cooperativa sociale onlus, che realizza stampe di ogni genere (biglietti da visita, carta intestata, calendari, volantini, litografia, stampa magliette personalizzate, cuscini). Panettoni, torroni e cioccolato del Consorzio Viale dei Mille. Saranno presenti con i loro stand anche la redazione di Carte Bollate e Salute ingrata, le riviste realizzate dai detenuti del carcere con collaboratori esterni. Per la prima volta quest’anno ci sarà anche uno stand creato dalla polizia penitenziaria. Tre gli orari d’ingresso: 14.30, 16.30 e 18.30. È necessario presentarsi mezz’ora prima con carta d’identità e green pass alla mano. Liliana Segre: “Devo far passare fino al mio ultimo giorno il messaggio sul rispetto della vita” di Maurizio Molinari La Repubblica, 11 dicembre 2021 “Come testimone della Shoah vedo che i valori più importanti sono ancora in pericolo, e io devo far passare, fino al mio ultimo giorno, il messaggio sul rispetto della vita. Per far fiorire ogni tanto un albero della vita” Senatrice Segre, il pubblico di D l’ha scelta. È un punto di riferimento per chi ci legge. Che sensazione le fa? “Sono molto onorata e mi domando come mai mi succede questo, me lo chiedo continuamente quando la gente mi ferma per strada, me lo chiedo quando ottengo premi e riconoscimenti, me lo chiedo ora. Perché sono una nonna, non merito tutta questa attenzione”. L’attenzione nasce dal riconoscimento per i valori che rappresenta: l’importanza delle memoria, la repulsione dell’odio, il rispetto per il prossimo… “Sono valori da trasmettere al pubblico e ai posteri, sono talmente tanti e troppo spesso dimenticati. Al punto da apparire ormai obsoleti, quasi ridicoli. E questo mi ferisce poiché ho passato trent’anni della mia vita a parlare di storia avendola sempre ritenuta cruciale. Sono la portatrice di qualche cosa di speciale, la memoria della Shoah, perché io purtroppo l’ho vissuta in prima persona la storia di cui ho raccontato e la scelta di tramandare la mia testimonianza senza odio mi è sembrata un dovere morale per chi era sopravvissuto all’odio. Oggi però vivo un tempo della mia vita in cui la domanda che mi pongo tutti i giorni, quando mi alzo la mattina, è se ne è valsa la pena”. Da dove nasce questo interrogativo? “Dall’odio che vedo adesso, l’odio che traspira dalle parole di tutti: dagli scontri politici, fino a quelli di due persone che litigano per una sciocchezza per strada. Tutto ciò mi fa pensare che i valori più importanti sono ancora in pericolo e io devo far passare, fino al mio ultimo giorno, il messaggio sul rispetto della vita, degli uomini come delle donne. Per far fiorire ogni tanto un albero della vita”. Nella società in cui viviamo ci sono gli opposti che lei descrive. C’è un’anima che esprime grande attenzione per il ricordo della Storia e delle immani sofferenze che la sua generazione ha subito. E c’è n’è un’altra, molto aggressiva, che con linguaggi e azioni aberranti nega e offende la memoria della Shoah. In mezzo c’è il più profondo degli abissi... “È un abisso colmo di risentimento: lo si tocca quando si sceglie un obiettivo da odiare e questo obiettivo, vecchio o giovane, simpatico o antipatico, meritevole o no, finisce per attirare intolleranza. Se ti vaccini vieni additato come azionista delle case farmaceutiche, se difendi i migranti che muoiono in mare, sei una donna che deve essere stuprata e violentata. A volte sono stata direttamente colpita da questa ondata di odio: mi augurano la morte dimostrando di non avere pazienza, visto che ho 91 anni”. Per questo vive sotto scorta... “Questa situazione ha avuto un risvolto umanamente molto importante. All’inizio, essendo una donna così assolutamente indipendente, ho reagito in modo molto negativo. E invece poi la scorta si è rivelata la sorpresa più bella di questi ultimi anni perché mi ha permesso di incontrare i meravigliosi carabinieri che mi seguono ovunque e con i quali ho formato una seconda famiglia. Non certo perché abbia abbandonato la mia prima famiglia, ma perché sono diventata anche la loro nonna e ne ho avuto e ricevo tutti i giorni una grande ricchezza di affetto e di orgoglio attraverso mille attenzioni. Quindi, benvenuta la scorta”. Le devo confessare che quando ho sentito l’assessore leghista di Lissone, Fabio Meroni, No Vax, riferirsi a lei usando, al posto del nome, il numero tatuato sul suo braccio sinistro ad Auschwitz, ho provato un brivido. Pur avendo studiato a lungo l’antisemitismo e l’intolleranza, non avevo mai ascoltato niente di simile. E sinceramente non avevo mai immaginato che potesse accadere. Mi sono chiesto da dove nasce tutto ciò. È solamente la brama politica di conquistare un titolo di giornale, oppure è la cancellazione totale della conoscenza? “È la cancellazione totale della conoscenza. Ecco dove siamo arrivati. All’espressione di una generazione di ignoranti, figli di ignoranti. È iniziato con il 18 politico e ora siamo a chi ritiene che basti guardare sul telefonino per sapere tutto. Grande ignoranza e profonda ignoranza. In famiglia mi hanno chiesto di rispondere a un’aberrazione del genere, ma io ho troppo rispetto per le parole, per i concetti, per i ricordi e per il mio numero e allora una risposta non l’ho trovata. Ho detto che c’era solo il silenzio, quel silenzio profondo e importante che non si conosce più. Silenzio”. Se la genesi dell’odio è la carenza di conoscenza la risposta non può essere che lo studio... “Sono una lettrice attenta, da sempre, e ho letto che un gruppo di studenti proprio in queste ultime settimane chiedeva al ministro dell’Istruzione di eliminare quello che una volta si chiamava il tema a scuola. Sarebbe il più grave degli errori, perché i ragazzi non sanno più scrivere. L’ignoranza nasce dall’idea che non ci sia più bisogno di studiare perché schiacciando un tasto ci sono tutte le risposte. Ma lo studio è un’altra cosa: imparare a memoria, ricordarsi a novant’anni un pezzo della Divina Commedia o di Foscolo. Io sono contenta che mi abbiano obbligato a studiare a memoria, anche se si tratta di un sistema di insegnamento che poi è stato contestato e oggi è considerato ridicolo. Si tratta in realtà di piccoli squarci di ricchezza nella propria mini cultura, che rafforzano, consolidano”. Perché, quando la cultura genera conoscenza, si formano gli anticorpi necessari per arginare l’intolleranza? “Perché conosciamo noi stessi e gli altri. Dopo aver letto tanto, dopo essere stati giudicati e aver giudicato, si sviluppano le difese dall’odio”. Una parte non indifferente delle persone che attacca lei e più in generale la memoria della Shoah, contesta anche la scienza sul tema dei vaccini. Che spiegazione dà a questa coincidenza? “Non riesco a capire, sarà che sono stata abituata fin da piccola a pensare che sia naturale vaccinarsi. Ho fatto vaccinare i miei figli, i miei nipoti, ho fatto abitualmente anche il vaccino antinfluenzale perché sono vecchia e mi sembra che sia un aiuto, un riparo. Troppo difficile pensare che i No Vax possano essere paragonati ai perseguitati. Come ho detto alla Commissione contro l’istigazione all’odio, di cui vado fiera come ultimo atto della mia vita, la mascherata di Novara delle finte divise dei No Vax per compararsi a come eravamo noi nei lager, è grave quanto quella dei tifosi della curva che si misero indosso il sacro viso di Anna Frank per odiare quelli dell’altra curva. Fu un modo per oltraggiare la memoria di Anna Frank e di tutti i milioni di uccisi per la sola colpa di essere nati. Per odiare l’altro”. Qualche settimana fa c’è stata una manifestazione No Vax al Circo Massimo, a Roma. Alcune persone hanno innalzato uno striscione dove c’era scritto che i “Protocolli dei Savi di Sion” dicevano “la verità” e che “c’è una lobby ashkenazita che vuole controllare il mondo”. E adesso grazie ai vaccini “ci riuscirà”. Perché dei cittadini italiani nel 2021 affermano di credere al più noto dei libelli antisemiti del secolo scorso? “Per lo stesso motivo per cui c’è qualcuno che dice a una donna di 91 anni “Sei un maiale, hai una cotenna così grossa che Hitler non è riuscito a toglierti, speriamo che ci riesca il Covid”. Ricevo altri simili insulti, non mi voglio sporcare la bocca nel ripeterli, ne ho parlato con il presidente Mattarella. Non avevo mai denunciato gli autori ma questa volta l’ho fatto, la polizia lo ha trovato in 24 ore e sa cosa ha fatto costui? Ha chiesto al suo avvocato di telefonare a mio figlio, che è anche avvocato, dicendo che il suo cliente era “terrorizzato per quello che aveva scritto”. E voleva farsi perdonare” C’è però anche un’altra Italia, un’altra Europa, quella delle scolaresche che vanno in visita nei campi di sterminio, che studiano quello che è avvenuto durante la Shoah... “È una minoranza delle minoranze quella che facendo il viaggio ad Auschwitz, poi ne riporta qualche cosa. Molti mangiano un gelato e basta, come ho visto alla televisione. Se i ragazzi non sono preparati è meglio che non ci vadano perché può essere un’esperienza inutile. C’è una parola che ho fortemente voluto al Memoriale della Shoah a Milano, che in fondo è la risposta a tutto questo. La parola è “Indifferenza” perché è questa indifferenza il nemico peggiore del ricordo, della conoscenza. Quella scritta a caratteri cubitali è un monito per chi la legge. Perché ciò che più ci aggredisce è il fatto che a nessuno importi più niente di niente. C’è una terribile indifferenza generale”. Non crede che sul piano storico uno dei vulnus dell’Italia sia non aver fatto i conti fino in fondo con la collaborazione di molti cittadini nelle persecuzioni naziste? “Sono completamente d’accordo con lei in questo. Perché ogni tanto si dice che l’armadio della vergogna sia stato aperto, ma è vero solo in parte. Si cominci ad aprire qualche cassetto, qualche sportello. A me non risulta che ci sia stato un esame vero di quanti hanno tradito e hanno collaborato con i nazisti. Io questi collaboratori li ho visti con i miei occhi”. Come li ricorda? “Li conoscevo e non ho mai dimenticato nulla di quegli anni e di quei giorni. Non per niente, anche se sono così vecchia, resto una dei pochi sopravvissuti che esattamente si ricordano l’ora, il giorno, dove e chi. Questi collaboratori italiani dei nazisti li ho visti quando siamo stati caricati sui treni merci. Quanti fascistoni c’erano che aiutavano le SS a caricarci. Certo, non erano tutti tedeschi. C’erano degli zelanti servi dei nazisti, molto zelanti. Poi hanno cambiato casacca e questo si è visto anche in personaggi molto noti. Io ne ho seguiti tanti che, da fascisti che erano, poi sono diventati altro. Mi ricordo che le adunate non erano obbligatorie, ma c’erano italiani molto volonterosi. Quando veniva a parlare Mussolini a Milano c’era la piazza piena, come è successo per la dichiarazione di guerra. Ero una bambina attenta e appartenevo a una famiglia che già temeva. Anche se non abbastanza, come si è visto poi. Qualcuno di questi collaboratori però mi ha chiesto scusa”. E lei cosa gli ha risposto? “Che è troppo tardi. Ho perso una famiglia. Non c’è scusa possibile”. Un Paese che non esamina fino in fondo le proprie responsabilità nella Shoah crea una ferita nella memoria, indebolisce le difese rispetto all’odio... “Stiamo vivendo un’ondata di estremismo, intolleranza. Non so se si possa chiamare fascismo, se si possa chiamare una destra spinta. Ancora non si è rivelata, però la tendenza è quella. Io sono stata respinta alla frontiera, so che cosa è un muro e lo rivedo quando viene impedito di entrare a chi cerca una via di salvezza, di sopravvivenza. Per questo sono così profondamente scomoda per gli odiatori”. Grazie Senatrice, ha un messaggio particolare per le lettrici e i lettori di D che l’hanno scelta? “Molto volentieri, ma non solo per le lettrici e i lettori di D. Sono molto fiera di essere una donna e guardo con preoccupazione a ciò che avviene alle donne, penso in particolare ai femminicidi, a chi vuole che le donne stiano solo a casa a fare la calza, all’invidia nei confronti di una donna che si afferma. Per non parlare del resto del mondo, di quei Paesi che rimandano le donne a casa e non le fanno studiare. Io nelle donne ho molta fiducia, riconosco che ci sono stati dei tempi della mia esistenza in cui abbiamo camminato una gamba davanti all’altra per la sopravvivenza. Sono dei ricordi che mi dicono quanto è importante la marcia per la vita, proprio perché noi avevamo fatto la marcia per la morte. È questo il messaggio che vorrei che tutti condividessero con me”. Nel nome di Giulio: va in scena a teatro la lotta per la verità di genitori e amici di Regeni di Niccolò Zancan La Stampa, 11 dicembre 2021 La serata al Duse di Genova che chiama a raccolta cittadini, istituzioni e mondo dell’arte. La madre è qui. La madre si fa carico del suo “dolore immenso”. La madre ha un’altra afflizione da testimoniare: “Il blocco del processo per la morte di Giulio è stato un trauma. Avevamo bisogno degli indirizzi dei quattro egiziani accusati per notificare gli atti per la morte di nostro figlio, il dottor Giulio Regeni. Ma non è stato possibile trovarli”. La signora Paola Regeni non ha mai smesso di lottare. Adesso è al teatro Duse di Genova, accanto al marito Claudio, per ripetere le parole che hanno ispirato ogni gesto in questi sei anni di battaglie e di attese: “Verità e giustizia”. È una serata organizzata dall’avvocatessa Alessandra Ballerini, che chiama a raccolta cittadini, istituzioni, mondo dell’arte: “Dopo l’udienza del 14 ottobre siamo rimasti tramortiti. La gente ci diceva: “E adesso?”. E noi rilanciavamo: “Facciamo qualcosa insieme”. Ecco perché siamo qui, questa è la nostra risposta. La data non è stata scelta a caso, oggi è il giorno della dichiarazione universale dei diritti umani”. È una serata contro il silenzio. E dal palco del teatro Duse, per la prima volta, la madre di Giulio Regeni commenta la scarcerazione di Patrick Zaki: “Siamo immensamente felici. Mi emoziona moltissimo saperlo libero. Ma ci resta una tristezza di fondo per i tre egiziani che ogni giorno scompaiono in quelle galere, così come è successo a Giulio. Chiedete a quelli che si vantano per la liberazione di Patrick Zaki come mai non è stato possibile salvare Giulio? Chiedetegli come mai non è stato possibile avere quattro indirizzi?”. Il presidente della Camera, Roberto Fico, è sul palco a fianco dei genitori: “Sono qui per dire che il governo andrà avanti nella ricerca della verità. Dobbiamo fare un passo in più. È vero, finora non siamo riusciti a ottenere quegli indirizzi. Ma intendiamo mettere in campo una nuova azione per ottenerli. Non ci fermeremo”. Eppure i fatti, per come sono stati ricostruiti dalla procura di Roma, adesso sono noti. Giulio Regeni è stato torturato e ucciso nella stanza numero 13 di un villino in uso alla National Security egiziana al Cairo. Era scomparso il 25 gennaio 2016, poco dopo essere uscito da casa. È stato trovato il 3 febbraio lungo l’autostrada, in condizioni tali da essere riconoscibile “solo dalla punta del naso”. Dopo cinque anni di indagini, ecco i nomi degli accusati: il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono scritte per loro le ipotesi di reato: sequestro di persona pluriaggravato, lesioni personali aggravate, concorso in omicidio. C’è, insomma, una strada tracciata per cercare di ottenere giustizia per Giulio Regeni. Che era uno studente e faceva il ricercatore, questo non va mai dimenticato: parlava con le persone, ascoltava e scriveva per l’Università di Cambridge. Ma il processo iniziato il 14 ottobre 2021 a Roma si è subito fermato: non può andare avanti. Servono gli indirizzi dei quattro agenti della National Security egiziana sotto accusa, perché solo così la Corte d’Assise può notificare gli atti e garantire il loro diritto alla difesa. È un passaggio formale, ma anche sostanziale. Non si può procedere diversamente. Senza notifica degli atti un processo non può essere celebrato. Dal Cairo: niente. Dal Cairo ostacoli, depistaggi e silenzio. Toccherebbe al nuovo ambasciatore italiano in Egitto, Michele Quaroni, fare pressione per ottenere gli indirizzi dei quattro accusati. Ma finora non c’è stato alcun segnale in tale senso, e nemmeno ha preso contatti con i genitori di Giulio Regeni. È silenzio che si aggiunge. È altro tempo che passa. È altra dolore per Paola Regeni. Quello che nessuno dice apertamente, ma che a molti appare più di una supposizione, è che la liberazione giustissima di Patrick Zaki possa essere un modo con cui il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi voglia tentare di ripulire la sua immagine internazionale. E forse, anche, un modo, per far calare un silenzio definitivo sul caso Regeni. Tutte le persone che ieri sera animavano il teatro Duse di Genova si oppongono a quel silenzio. Sono voci per Giulio Regeni. Ascanio Celestini. “Sappiamo che la giustizia, come la studiavamo da ragazzi, probabilmente non l’avremo mai. Conosciamo gran parte della verità, ma dobbiamo fare in modo che venga accertata. Il governo potrebbe fare molto di più. Quantomeno potrebbe riequilibrare il rapporto fra capitale e esseri umani”. Luca Bizzarri: “Sì, banalmente questa mi sembra una questione commerciale. Di soldi. L’Italia fa affari con l’Egitto, anche affari di armamenti. Ma è molto pericoloso quando l’economia sovrasta così la politica, bisogna cercare la verità per restituire onore al Paese intero. Questo non è solo un affronto alla famiglia Regeni”. Gherardo Colombo: “La dignità di un cittadino dovrebbe essere difesa sempre, anche a scapito di altri interessi in gioco”. Reddito di cittadinanza: “Basta narrazioni tossiche, la povertà non è un crimine” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 11 dicembre 2021 L’appello. L’Alleanza contro le povertà ai politici che discuteranno il reddito di cittadinanza e nella legge di bilancio introdurranno nuovi limiti e condizioni contro i poveri. La proposta di otto modifiche. Il rischio di trasformare la misura in una dura politica di Workfare già pensata in questi termini dai Cinque Stelle e dalla Lega tre anni fa. E Landini polemizza con Bonomi di Confindustria che vuole abolire il “reddito”. “Mentre l’attenzione mediatica si focalizza su furbetti e truffatori, la politica pensa soltanto a mettere qualche risorsa in più e ad annunciare controlli sul reddito di cittadinanza. Perché? Perché è più facile! Perché il tornaconto elettorale si misura meglio con bonus immediati, non importa se ingiusti, che con una riforma”. La politica sociale al tempo del “governo dei migliori” in Italia, un paese chiamato Draghistan, è stata riassunta da Gianmario Gazzi, presidente dell’Ordine Assistenti Sociali Consiglio Nazionale (Cnoas) durante una conferenza stampa dell’Alleanza contro la povertà alla stampa estera. “Il “governo dei migliori” è riuscito a scontentare tutti: persone, professionisti, terzo settore, mondo del lavoro, volontariato. Noi che siamo quotidianamente con i più vulnerabili diciamo chiaro che i poveri sono usati e non aiutati”. “Il reddito di cittadinanza ha dimostrato di avere un ruolo decisivo per contrastare le povertà - ha detto Domenico Proietti, segretario confederale Uil - Metterlo in discussione sarebbe una tragedia per milioni di persone e per la tenuta sociale del paese. Solo chi è in profondissima malafede può disconoscere questi risultati, proponendone l’abolizione”. Ancora ieri, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi si è unito al coro degli “abolizionisti”. Maurizio Landini, presente all’incontro dell’Alleanza contro la povertà di cui anche la Cgil fa parte, lo ha criticato. “Bonomi ha trovato il modo di unirsi al coro di chi vuole cancellare il reddito di cittadinanza e che credo sia inaccettabile: la povertà non è una colpa ma è frutto di un modello sociale ingiusto da cambiare”. “Basta con le narrazioni tossiche”, “la povertà non è un crimine”. Questo è l’appello dell’Alleanza contro la povertà, una rete composta da 38 associazioni, che ieri si è rivolta alla maxi-maggioranza del governo Draghi che, nella legge di bilancio, introdurrà nuovi paletti, limiti e penalità contro i beneficiari del “reddito”. “Noi riteniamo che questa misura così sia insufficiente - ha detto Roberto Rossini, il portavoce della rete - è erogata a poco più di 3,5 milioni di persone mentre per l’Istat i poveri assoluti sono 5,5 milioni. Il dibattito sulla povertà non può essere ridotto a un difetto della legge, in particolare al tema dei “furbetti”. Torniamo al contenuto delle questioni”. Le proposte dell’Alleanza mirano a rimuovere il vincolo che esclude gli stranieri extracomunitari residente in Italia da meno di 10 anni. “Non esiste in nessun paese” ha detto Antonio Russo (Acli). Si chiede ai politici di cambiare la scala di equivalenza del reddito Isee che penalizza le famiglie numerose, allentare il vincolo aggiuntivo sul patrimonio mobiliare che esclude dall’accesso e rendere volontari, e non obbligatori, i Progetti utili alla collettività (Puc) che possono trasformarsi in lavori servili. Diseguaglianze invisibili. Le inchieste sul caporalato di Luca Ricolfi La Repubblica, 11 dicembre 2021 Così ispettori del lavoro e carabinieri hanno scoperchiato il vaso di Pandora del caporalato e dello sfruttamento. Verifiche quadruplicate in tre anni, irregolarità riscontrate fino all’86% delle aziende controllate. Aziende che possono essere piccole ma anche medie e grandi, situate in zone depresse ma anche in zone ricche, al Nord come al Sud. Caporalato non significa semplicemente reclutamento giornaliero di manodopera mediante l’odiosa figura del “caporale”. Dietro al caporalato si nasconde, nella maggior parte dei casi, un’intera fenomenologia di sopraffazione: assenza di contratti, precarietà dell’impiego, bassissimi salari, condizioni di lavoro durissime o degradate, e qualche volta condizioni di vita paraschiavistiche, come quelle degli accampamenti e delle baraccopoli al servizio della raccolta stagionale di frutta e ortaggi. Sono fenomeni noti, descritti in innumerevoli servizi giornalistici, ma colpevolmente, e da sempre, dimenticati dalla politica. Perché? Credo che i motivi principali siano tre. Il primo è che, se la politica se ne occupasse, le scoppierebbe in mano il problema dell’immigrazione irregolare. Un problema che la sinistra non vuol vedere, e la destra non è capace di affrontare (ricordate la promessa di Salvini di rispedire a casa mezzo milione di immigrati irregolari?). Il secondo motivo è che, su questo punto, la politica non ha il sostegno attivo dei sindacati, attentissimi a proteggere gli interessi dei già garantiti (pensionati, pubblico impiego, dipendenti delle grandi aziende), ma alquanto distratti di fronte ai fenomeni di emarginazione e sfruttamento più estremi. Il terzo motivo è che, più o meno consapevolmente, i politici intuiscono che precarietà e bassi salari, pur essendo sempre frutto di spregiudicatezza e rapacità, in non pochi casi sono anche condizioni di sopravvivenza di attività economiche che, ove rispettassero i contratti nazionali e non evadessero le tasse, dovrebbero chiudere (che io ricordi, l’unico politico ad aver messo in evidenza questo punto è Stefano Fassina, con il concetto di “evasione di necessità”). Dietro certe forme di sfruttamento, in altre parole, oltre alla mancanza di scrupoli c’è il combinato disposto della bassa produttività e della concorrenza internazionale, che spinge verso il basso i prezzi (tipicamente per i prodotti agricoli). Che oggi esista ancora il caporalato può destare sorpresa, abituati come siamo a pensare che certi fenomeni siano retaggio del passato, e con il passare del tempo siano destinati a evaporare. Ma è un errore di prospettiva. A ben guardare, la società in cui viviamo non è fondata solo sul benessere dei più e sul duro lavoro di una minoranza (abbiamo il tasso di occupazione, giovanile e adulta, più basso dell’Occidente). La nostra società è anche basata sui “servigi” di una robusta infrastruttura paraschiavistica, che non è affatto in via di assorbimento, ed è strettamente necessaria per perpetuare il nostro modo di vita, consumistico e non di rado parassitario. Quando, nella mia ricostruzione dei meccanismi della “società signorile di massa”, ho provato a misurare le dimensioni di questa infrastruttura paraschiavistica, di segmenti sociali in cui si presentano condizioni di subordinazione estreme, ne ho contati ben 7, per un totale di circa 3 milioni e mezzo di occupati (oltre il 15% della forza lavoro). Fra di loro, non solo gli stagionali concentrati nei ghetti per la raccolta della frutta e degli ortaggi, ma anche: i lavoratori in nero di agricoltura, edilizia, trasporto e magazzinaggio; i dipendenti delle cooperative che erogano servizi alle grandi aziende, alle ferrovie, alle scuole, alle università, agli ospedali; colf e badanti assunte senza contratto e senza contributi; lavoratori della cosiddetta gig economy (o economia dei lavoretti), per lo più addetti alle consegne a domicilio; per non parlare dei settori completamente illegali, dove a operare in condizioni paraschiavistiche troviamo la bassa manovalanza della distribuzione delle droghe, o la prostituzione di strada gestita da organizzazioni criminali. Viene da domandarsi se la nostra spasmodica attenzione anche ai più minuscoli e irrilevanti interventi della Legge di bilancio non sia sproporzionata rispetto alle vere diseguaglianze che affliggono il nostro Paese. Perché le diseguaglianze più ingiuste, e più crudeli, non sono quelle di cui tutti parlano, ma quelle che nessuno vede. Migranti, i rischi e i dubbi del riconoscimento facciale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 dicembre 2021 Il report di Hermes Center for Transparency and Digital Human Rights “Tecnologie per il controllo delle frontiere in Italia” documenta le insidie dell’utilizzo di questa tecnologia. L’intelligenza artificiale, dal 2018, è già realtà in Italia e viene impiegata soprattutto per i migranti. La polizia italiana utilizza un sistema di riconoscimento facciale chiamato SARI (Sistema Automatico di Riconoscimento Immagini) per identificare, durante le indagini, un soggetto ignoto confrontando la foto del suo volto con quelle collezionate nella banca dati Afis (acronimo di Automated Fingerprint Identification System). La composizione di questo database, la mancanza di informazioni e analisi sull’accuratezza degli algoritmi utilizzati e l’assenza di risposte da parte delle forze dell’ordine sollevano necessarie preoccupazioni sui rischi che il sistema SARI può introdurre quando utilizzato su migranti e persone straniere presenti in Italia. Ciò apre un tema preoccupante per tutti ma che certamente assume caratteristiche ancor più pericolose quando interessa gruppi o individui particolarmente vulnerabili come migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Le procedure di identificazione facciale rischiano di essere un’arma a doppio taglio - A documentare le insidie di questo utilizzo tecnologico è il report realizzato da Hermes Center for Transparency and Digital Human Rights dal titolo “Tecnologie per il controllo delle frontiere in Italia”. Secondo questa ricerca, ciò comporta un grande rischio per queste persone poiché le procedure di identificazione al loro arrivo in Italia, effettuate all’interno degli hotspot, rischiano di essere un’arma a doppio taglio per la loro permanenza nel nostro Paese (o in Europa), determinando uno stato di sorveglianza continuativa a causa della loro condizione. Da questa ricerca emerge che le procedure di identificazione e categorizzazione dei migranti, rifugiati o richiedenti asilo fanno ampio utilizzo di dati biometrici - la polizia italiana raccoglie sia le impronte digitali che la foto del loro volto - ma non è sempre facile comprendere in che modo vengano applicate. Nel momento in cui viene effettuata l’identificazione - evidenza il report di Hermes Center for Transparency and Digital Human Rights -, i migranti hanno ben poche possibilità di conoscere appieno il percorso che faranno i loro dati personali e biometrici, nonché di opporsi al peso che poi questo flusso di informazioni avrà sulla loro condizione in Italia e in tutta l’Unione Europea. La Ue promuove da anni la necessità di favorire l’identificazione dei migranti, con un massiccio utilizzo di tecnologie - Quest’ultima, infatti, promuove da alcuni anni la necessità di favorire l’identificazione dei migranti, stranieri e richiedenti asilo attraverso un massiccio utilizzo di tecnologie: a partire dal mare, pattugliato con navi e velivoli a pilotaggio remoto che “scannerizzano” i migranti in arrivo; fino all’approdo sulla terraferma, dove oltre all’imposizione dell’identificazione e del fotosegnalamento i migranti hanno rischiato di vedersi puntata addosso una videocamera “intelligente”. Manca la trasparenza degli algoritmi del riconoscimento facciale - Ampio spazio è lasciato alla trattazione di come lo Stato italiano utilizzi la tecnologia del riconoscimento facciale già da alcuni anni, senza che organizzazioni indipendenti o professionisti possano controllare il suo operato. Oltre alla mancata trasparenza degli algoritmi che lo fanno funzionare, infatti, non sono disponibili informazioni chiare sul numero di persone effettivamente comprese all’interno del database che viene utilizzato proprio per realizzare le corrispondenze tra volti, Afis. I dubbi del Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti Umani Digitali sulla neutralità della tecnologia - Il Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti Umani Digitali, dal 2011 di interroga sul funzionamento e sullo scopo delle innovazioni in campo tecnologico, analizzandole non solo da un punto di vista tecnico ma anche attraverso la lente dei diritti umani digitali. Negli ultimi anni la datificazione della società attraverso la raccolta indiscriminata di dati personali e l’estrazione di informazioni (e di valore) relative al comportamento e alle attività svolte da ognuno di noi sono il tema centrale di ricerca, analisi e advocacy dell’associazione. L’associazione è convinta, infatti, che vada messa in dubbio non solo la tecnologia digitale creata al presunto scopo di favorire il progresso o di dare una risposta oggettiva a fenomeni sociali complessi, ma anche il concetto di tecnologia come neutra e con pressoché simili ripercussioni su tutti gli individui della società. Ultimi in Europa per le politiche sull’immigrazione di Pino Ippolito Armino Il Manifesto, 11 dicembre 2021 Di meno e più vecchi. Bisogna avere il coraggio di agire per ripopolare il Mezzogiorno e le aree interne, salvare l’Italia da morte annunciata e contribuire alla salvezza del pianeta minacciato dalla crisi climatica. L’Istat ci informa che l’età media degli italiani si è innalzata a 45,4 anni e che, dal 2019 al 2020, l’Italia ha perso oltre 400 mila residenti per effetto dell’elevato numero di decessi. Non compensato dalle nascite; queste ultime, anzi, hanno raggiunto il nuovo minimo storico. Le morti per Covid, precisa l’Istat, hanno soltanto accentuato una dinamica già in corso. Infatti tra gli Stati membri della Ue le percentuali più alte di giovani rispetto alla popolazione totale si trovano in Irlanda (20,5%) e in Francia (18%) mentre l’Italia presenta la più bassa (13,2%). Il numero di anziani (persone di età pari o superiore ai 65 anni) con il 22,8% sul totale, dice che l’Italia registra la percentuale più alta (Eurostat 2019). Il Bel Paese si spopola e invecchia. Anche male. Il calo demografico non può trovare spiegazione nelle migrazioni perché il saldo netto fra emigrazione e immigrazione è responsabile al più del 10% del totale del decremento complessivo. Neppure la carenza, endemica nel Mezzogiorno, di strutture al servizio delle famiglie, come gli asili nido, può spiegare da sola il fenomeno perché la demografia decrescente interessa tutta la penisola anche se è particolarmente accentuata nel Sud e nelle Isole. C’è, dunque, qualcosa di più profondo che ha a che fare con l’anima di un paese che non crede più in se stesso. Secondo Eurostat al primo gennaio 2020 i nati all’estero erano oltre 15 milioni in Germania (il 18,1% della popolazione), 8 milioni e mezzo in Francia (12,7%) e quasi 7 milioni in Spagna (14,8%). In Italia erano poco più che 6 milioni, pari al 10,3% della popolazione totale, meno anche rispetto a Grecia (12,6%), Cipro (21,6%) e Malta (23,1%), paesi, come il nostro, di prima frontiera per gli immigrati. L’Istat ora ci dice che 5,2 milioni di immigrati sono ancora stranieri, non hanno cioè ancora la cittadinanza. Sono distribuiti per genere più o meno come gli italiani (le donne immigrate sono il 51,2% mentre le italiane sono il 51,3%) ma hanno un’età media assai più bassa (34,8 anni). Un milione di loro sono minori. Ce n’è abbastanza per trarre alcune semplici conclusioni. La prima è che riconoscere il diritto alla cittadinanza servirebbe anche a farci ringiovanire. La seconda è che noi dobbiamo accogliere più immigrati, non tanto per allinearci statisticamente agli altri paesi europei o per salvare le nostre pensioni ma per una ragione ancora più elementare: non estinguerci. Le previsioni dicono che nel 2065 gli italiani potrebbero essere 46 milioni contro i 60 che siamo oggi. Ma non basta. Negli stessi anni vi sarebbe anche uno spostamento del peso della popolazione dal Mezzogiorno al Centro-Nord. L’area più settentrionale del Paese ospiterebbe il 71% della popolazione contro l’attuale 66%. Il Mezzogiorno muore, dunque, anche più velocemente. Le previsioni, però, si possono capovolgere; a questo serve la politica. Ci sono 3,5 milioni di ettari incolti, molti dei quali nel Mezzogiorno, soprattutto in collina e in montagna. Secondo la Coldiretti siamo primi in Europa per numero di giovani addetti all’agricoltura. Evidentemente non basta. Bisogna avere il coraggio di agire per ripopolare il Mezzogiorno e le aree interne, salvare l’Italia da morte annunciata e contribuire alla salvezza del pianeta minacciato dalla crisi climatica. Nel corso del Settecento e poi nella prima metà dell’Ottocento, gli illuministi si spesero per abbattere il latifondo e la manomorta ecclesiastica che su quello gravava; alla fine dell’ultima guerra la riforma agraria ebbe per obiettivo, attraverso l’imposizione di un limite all’estensione della proprietà privata, quello di affrancare milioni di contadini dal bracciantato per trasformarli in piccoli proprietari. Oggi si tratta di prendersi cura del territorio per ripopolarlo e renderlo produttivo in senso lato. Come per la riforma agraria viene in soccorso l’art. 44 della Costituzione che assegna alla legge il compito di imporre obblighi, vincoli e anche limiti alla proprietà privata quando questo serva a conseguire il “razionale sfruttamento del suolo” ovvero a stabilire “equi rapporti sociali”. Ecco un compito per la sinistra del XXI secolo. Sottrarre alle manomorte odierne i terreni incolti per riparare l’Italia e rinsanguarla di nuova linfa vitale. Il sistema degli affidi che toglie i bimbi alle famiglie straniere di Stefania Albanese e Cecilia Ferrara Il Domani, 11 dicembre 2021 In meno di quattro anni la Nigerian Union Italy ha raccolto le storie di oltre cento bambini ingiustamente sottratti alle loro famiglie. Se il caso emiliano sugli affidamenti è ormai un fatto di cronaca conosciuto da tutti, quello che sta succedendo nel mondo dei figli dei migranti presenti in Italia non fa clamore. Da Torino all’Ecuador, passando per la Nigeria. Vincent Iyen Idele è presidente della Nigerian Union Italy. Non sembra stupito di fronte all’indagine che si è aperta a Torino relativa a presunte irregolarità in un processo per l’adottabilità di due bambini nigeriani, in affido da otto anni a una coppia di due mamme italiane, un caso che i carabinieri stessi definiscono dalle “preoccupanti analogie” con le note vicende di Bibbiano. “La prima volta è successo nel 2017. Mi chiamano dei connazionali durante uno sfratto, hanno due bambini e i servizi sociali glieli vogliono portare via. Io dico: “No, casomai trovate una casa alla famiglia o alla mamma e ai bambini”. Alla fine li hanno sistemati in albergo”, racconta e aggiunge: “Dopo qualche giorno il problema si ripresenta. Solo con la nostra mediazione e la promessa di trovare una casa e un alloggio siamo riusciti a evitare che a quella madre togliessero i figli”. Di segnalazioni di bambini portati via senza giusta causa, lui, ne ha a decine. Mamme nigeriane - “Qualche tempo dopo mi ha chiamato una donna dall’ospedale di Padova: aveva appena partorito e non la facevano uscire con la bambina perché senza documenti. Le ho detto di lasciare la piccola in ospedale e andare in ambasciata a fare i documenti. Così è stato: l’ospedale ha fatto viaggiare fino a Roma, di notte - per fare i documenti e tornare - una donna che aveva appena partorito”. Idele è in Italia dal 2005 e ha un negozio da parrucchiere in provincia di Venezia. “È sempre stato un continuo: casi su casi. Siamo riusciti a fermarne alcuni. Su altri stiamo provando a fare pressione”. L’associazione ha scritto al ministero degli Affari esteri nigeriano, all’ambasciata in Italia, al Garante per la difesa dei diritti personali della regione Veneto. Le risposte però, finora, sono sempre state negative. Nel frattempo molte persone hanno cominciato a contattare Idele direttamente dalla Nigeria: genitori che dopo aver perso i figli sono stati espulsi mentre i bambini e le bambine sono rimasti in Italia, altri che sono scappati in Nigeria dopo aver perso un figlio, per la paura di vedersi portare via anche gli altri. “È stata come un’esplosione”, prosegue Idele. In meno di quattro anni ha raccolto le storie di oltre cento bambini nigeriani che gli sono stati segnalati come ingiustamente sottratti alle loro famiglie. Tanti casi raccontati dall’attivista cominciano in ospedale, oppure con la richiesta di aiuto al comune. “Abbiamo sentito parlare di Bibbiano. E quando un ministro italiano ha detto che si doveva indagare sul sistema degli affidi abbiamo capito che non capitava solo a noi. E abbiamo iniziato a sperare”. L’inchiesta di Domani e Lost in Europe dello scorso maggio, Bambini strappati, ha per la prima volta raccontato di alcune storie che vedono protagoniste famiglie straniere in difficoltà: l’adozione e l’allontanamento dei minori avverrebbero spesso senza che vi siano abusi o maltrattamenti da parte dei genitori, ma piuttosto situazioni di povertà o fragilità. Casi che hanno portato anche a una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per la vicenda di una donna nigeriana, vittima di tratta, a cui sono state tolte le figlie. Casi che racconterebbero la difficoltà, da parte del sistema italiano, di comprendere senza giudicare un tipo di maternità e genitorialità diverso dal modello occidentale. Da nord a sud - La donna protagonista della vicenda torinese, vivendo un momento di difficoltà, non si era opposta all’affido. Allo stesso tempo, però, non le erano nemmeno state date delle alternative, come le case famiglia madre-bambino. Il caso è stato accostato alle vicende di Bibbiano perché la psicoterapeuta che stava lavorando con la famiglia nigeriana è Nadia Bolognini, l’ex moglie di Claudio Foti, guru del centro Hansel&Gretel, appena condannato per i fatti della Val D’Enza. Bolognini avrebbe interpretato un disegno di uno dei bambini come descrizione di un abuso da parte del padre. Se Bibbiano è ormai un fatto di cronaca conosciuto da tutti, il lavoro silenzioso di decine di persone, che raccoglie storie e numeri di quello che sta succedendo, non fa clamore. “C’è un problema in Italia: a Torino, Roma, in Emilia Romagna. C’è una percentuale abbastanza elevata di allontanamenti di minori dalle proprie famiglie di origine straniera che presentano diverse problematiche”, racconta Erminia Sabrina Rizzi, ex giudice onoraria del tribunale dei minori di Bari. Oggi lavora per gruppo Lavoro rifugiati, onlus che ha contribuito a fondare, ed è socia di Asgi. “Le donne e le famiglie straniere non conoscono il sistema italiano e non vengono aiutate nella comprensione: mancano interpreti, mediatori e mediatrici. Senza contare che il sistema complessivo di giustizia, magistratura ordinaria e minorile, servizi sociali e consultori molto spesso non hanno competenze specifiche per avere a che fare con famiglie o donne che hanno dei bisogni peculiari e provengono da sistemi giuridici e culturali diversi”, spiega. Mancano gli strumenti e non c’è investimento sulla formazione. E gli esempi, ancora una volta, non mancano. “Leggere su una relazione frasi come “è una madre poco attenta perché non rispetta gli orari dei pasti” vuol dire che non si tiene conto del paese di provenienza del genitore e, nel caso specifico, del fatto “che in Africa si mangia quando si ha fame, non ci sono gli occidentali “orari dei pasti”“, aggiunge. Quali competenze hanno operatori e operatrici per osservare e giudicare la relazione madre-figlio magari in una comunità? Rizzi ha raccolto decine di casi, cercando di sistematizzare e di capire quali sono i tribunali con più carenze e quali le nazionalità più colpite. “Molte donne sono nigeriane vittime di tratta: su di loro pesano anche il pregiudizio e lo stigma della prostituzione”. Tante donne, racconta, le confessano che preferiscono vivere ai margini piuttosto che rivolgersi ai servizi sociali per la paura di vedersi tolti i bambini. “Vivono peggio, ma tutelano la loro maternità”, spiega Rizzi. E c’è anche il risvolto dell’evoluzione patologica. “Tante donne non riescono a comprendere il perché vengano private dei loro figli e sviluppano disagio psichiatrico e psicologico”. “Non è rarissimo che proprio quando si ha a che fare con madri vittime di tratta e sfruttamento o vittime di violenza e maltrattamenti in ambito domestico ci si ritrovi dentro a procedimenti che tendono a giudicarne l’idoneità alla genitorialità, senza tenere adeguatamente in conto delle violenze subite e dell’impatto che hanno sulla relazione genitoriale”, conferma Antonella Inverno, responsabile Politiche infanzia e adolescenza per l’Italia e l’Europa di Save The Children. Nei primi 8 mesi del 2021, con 15 sportelli di orientamento legale, l’ong ha seguito quasi 500 casi in tutta Italia: il 19,4 per cento ha riguardato questioni connesse al diritto di famiglia e il 2,7 per cento di violenza domestica. “Il sistema di protezione minorile italiano sembra mancare di strumenti di supporto specifici e soprattutto di recupero di una genitorialità compromessa da vissuti di violenza. Se questo è vero per le donne italiane, è ancor più lampante per le madri straniere, soprattutto vittime di tratta, spesso nigeriane, per cui sarebbe necessario prevedere anche strumenti di mediazione linguistica e culturale in tutte le fasi del procedimento, compresi gli incontri protetti negli spazi neutri”. Non solo Bibbiano - “Per tre anni sono stato consulente per l’ambasciata dell’Ecuador in Italia per i casi di allontanamento dei figli. La comunità ecuadoriana è una delle più numerose in Italia e all’ambasciata arrivavano segnalazioni di figli portati via”. Francesco Miraglia è uno dei più famosi avvocati che si è occupato del caso di Bibbiano. Specializzato in diritto di famiglia, recentemente è stato radiato dall’ordine degli avvocati per una vicenda non legata agli affidi: tutta una mossa per fermarlo, sostiene. Rafael Correa, presidente dell’Ecuador dal 2007 al 2017, “ha dato mandato all’ambasciata di chiedere a un professionista esperto di occuparsene”, spiega ancora. “Sono orgoglioso se mi definiscono grande accusatore di Bibbiano. Ma io seguo questi casi dal 2001. Con le famiglie straniere c’è proprio un gap culturale”. Anche l’ambasciata del Senegal ha ora chiesto una consulenza. “Evidentemente anche a loro sono arrivate segnalazioni”. E la storia continua. Se il femminismo globale ignora le donne in prigione di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 11 dicembre 2021 Il Generation Equality Forum stanzia 40 miliardi per la parità, ma nulla per le detenute. L’avvocata Sabrina Mathani accusa le associazioni pro-woman: “Non danno fondi perché chi è in carcere non è “commerciabile”. Nel corso dell’ultimo Generation Equality Forum, l’iniziativa globale delle United Nation Woman (Un- Woman) più di 40 miliardi di dollari sono stati messi in programma per sostenere gli sforzi per ridurre le disparità di genere e promuovere l’uguaglianza. Ma all’interno di questa edificante narrazione mancano alcuni attori: le donne che si trovano in stato di detenzione in tutto il mondo. Il carcere dunque continua a costituire un marchio, qualcosa di cui vergognarsi, per le donne poi diviene una condizione ancora più difficile da sostenere per la mancanza di veri e propri progetti di reinserimento e di programmi ben finanziati tesi a questo scopo. Una realtà messa in evidenza dall’avvocata zambiana-britannica Sabrina Mathani, direttrice dell’organizzazione Women Beyond Walls, che ha lanciato un’accusa rivolta non solo alle istituzioni ma in particolare al movimento femminista del pianeta. Secondo quanto emerge da alcuni studi della WBW le organizzazioni che lavorano con le donne nelle carceri di tutto il mondo (che svolgono una funzione molto spesso vitale in aiuto ai soggetti più emarginati come le detenute) non stanno ricevendo il sostegno che meritano, perché anche le femministe evitano di aiutare le persone con narrazioni cosiddette ‘complicate’. Eppure sostiene la legale: ‘Queste sono alcune delle donne più emarginate e, in realtà, non dovremmo guardare ai numeri; dovremmo guardare a chi sono le donne che hanno più bisogno di sostegno e aiuto e in realtà questo è un principio fondamentale del finanziamento femminista, finanziare coloro che sono più soggette all’oppressione di genere’. Le affermazioni della Mathani sono suffragate dai dati raccolti e da un sondaggio realizzato interpellando proprio chi dovrebbe ricevere aiuto economico (Forgotten By Funders, presenta le risposte di 34 organizzazioni in 24 paesi, tra cui Nigeria, Sud Africa, Regno Unito, Australia e India). Oltre il 60% delle organizzazioni che lavorano con le donne in carcere infatti ha risposto di trovarsi in una situazione finanziaria precaria e più di un quarto ha dichiarato che potrebbero non essere in grado di operare l’anno prossimo a causa della mancanza di fondi. Andando in profondità si vede come il 70% ha denunciato di non aver ricevuto denaro dai gruppi che lavorano per i diritti delle donne o dalle fondazioni femministe. Sembra generalmente persistere una percezione negativa delle donne in prigione che rende difficile sostenerle. Il mondo delle persone che hanno commesso reati non è semplicemente un interesse per la maggior parte dei donatori o dei finanziatori e molti scelgono di non associarsi a una causa che riguarda le carceri. Ciò è ancora più evidente se si parla di detenute ritenute in un numero troppo piccolo rispetto ai maschi. Sebbene manchino dati precisi, Penal Reform International (Ong che opera a livello globale per promuovere sistemi di giustizia penale che sostengano i diritti umani) ha calcolato la popolazione carceraria femminile complessiva in circa 740mila unità, poco meno del 7% del totale globale. Può dunque essere il numero non elevatissimo la causa di un mancato impegno? Non la pensa così Sabrina Mathani la quale, se possibile, è ancora più dura: ‘Ci piace sostenere le donne se si adattano allo stereotipo di ciò che è commerciabile’. Suggerendo che i gruppi che si occupano di prigioniere lavorano spesso con donne che non si adattavano a un profilo pulito o segnato dal vittimismo. Nessuna storia edificante da raccontare dunque e da vendere ai media mainstream, nessun esempio di riscatto, solo la cruda realtà e la sofferenza. ‘Forse c’è una donna che è stata sottoposta a violenza domestica e un giorno reagisce e uccide suo marito per autodifesa. È tutto molto più complicato, giusto? È più difficile vendere ai tuoi donatori, al tuo consiglio di amministrazione’ argomenta amaramente l’avvocata. La prigione delle lacrime. Oltre 26.000 i minori detenuti nel mondo di Guglielmo Gallone L’Osservatore Romano, 11 dicembre 2021 Reina non può asciugarsi le lacrime al funerale di sua figlia. Non può farlo perché è ammanettata. Rinchiusa nel carcere di Manila, spogliata della sua dignità, privata del suo ruolo di madre. Reina non strilla né si dispera. Nell’unica foto che la ritrae in quel momento, tiene lo sguardo basso. Forse, guardando quelle manette, Reina sta ripensando alla sua storia. È stata arrestata nel 2019 con l’accusa di detenzione di armi da fuoco. Dopo tre mesi di prigionia, ha scoperto di essere al terzo mese di gravidanza. Sua figlia, River, è nata il primo luglio del 2020. Nelle Filippine la legge prevede che, se la madre è in carcere, il figlio le sia portato via dopo un solo mese dalla nascita. Nonostante le richieste dei medici di tenere uniti Reina e River per più tempo, le autorità carcerarie le hanno separate ad agosto. Con il divampare della pandemia nel Paese, l’accesso alle prigioni è stato ulteriormente limitato e, per Reina, le possibilità d’incontrare sua figlia sono del tutto sfumate. Dopo il ricovero in ospedale, River è morta all’età di quattro mesi non compiuti a causa di una polmonite. Questa storia è stata raccontata lo scorso anno dalla “Bbc”. Purtroppo, non è un caso isolato. Il “Washington Post”, ad aprile, ha raccontato quella di Rosemarie. Accusata di uso e spaccio di droga, al quarto mese di gravidanza Rosemarie entra nel carcere di Manila. Un anno più tardi, torna ad essere una cittadina libera, ma una madre oppressa: fino a quel momento ha potuto trascorrere un solo giorno con suo figlio. Il Bureau of Jail Management and ciò si aggiunge il Covid che, prosegue il direttore, “ha profondamente colpito la giustizia minorile, attraverso la chiusura dei tribunali e la limitazione dell’accesso ai servizi sociali e giudiziari essenziali”. Tuttavia, dal mondo non emergono solo notizie negative. L’Unicef rivela che, durante la pandemia, 45.000 minori in 84 Paesi sono usciti dalle carceri. “Questi giovani sono stati sottratti a situazioni che avrebbero potuto esporli a gravi malattie. I Paesi sono stati in grado di superare la resistenza pubblica e innescare soluzioni di giustizia innovative e adeguate all’età. Questo ha dimostrato qualcosa che già sapevamo: le soluzioni di giustizia a misura di minore sono più che possibili”. In Nuova Zelanda circa 23.000 minori vivono in prigione. Nel carcere femminile di Arohata è nato “Bedtime Stories”. Il programma coinvolge alcuni volontari che, una volta al mese, portano in prigione una serie di libri con storie per bambini. Ad ogni genitore viene chiesto di scegliere un racconto e leggerlo ad alta voce. L’audio viene registrato, messo su cd e poi inviato ai rispettivi figli. In Nuova Zelanda ci sono poche carceri femminili. Molto spesso i bambini potrebbero essere dall’altra parte del Paese e le visite non avvengono regolarmente. Così, ecco che entra in campo un’iniziativa “a misura di minore”. Piccola, ma efficace. In grado di stabilire un contatto tra volti lontani, attraverso una voce vicina. Una connessione dal mondo e col mondo. In grado di bucare le pareti del carcere. Ma basterà ad asciugare le lacrime dei rimpianti, quando le mani sono legate dalle manette? Riflettori sui più deboli. Le carceri nel sudest asiatico di Cosimo Graziani L’Osservatore Romano, 11 dicembre 2021 La dignità della persona dovrebbe essere uno dei capisaldi dei sistemi carcerari in tutto il mondo. Purtroppo, non tutti i Paesi riescono a garantire che durante il periodo di detenzione ci sia un adeguato rispetto dell’essere umano. Ma ci sono alcuni Stati in cui il problema è particolarmente acuto e i Paesi del sudest asiatico spiccano tra questi. Le carceri sovraffollate sono il problema di Filippine, Cambogia e Tailandia: il tasso di sovraffollamento in ciascuno di questi paesi supera il 200% e può raggiungere anche il 400%. In questi Paesi ci sono delle cause comuni alla radice del problema. La prima è la droga. I reati connessi alla droga (produzione, traffico, o anche il solo consumo) nei paesi elencati sopra sono puniti con molta severità. Basti pensare alla campagna fatta dal presidente Duterte degli scorsi anni per combattere il fenomeno, che ha portato un’ondata di violenza, molte volte ingiustificata, e di arresti. Non a caso la situazione nelle carceri dell’arcipelago è drasticamente peggiorata in concomitanza con questo tipo di politiche. Come se non bastasse, a peggiorare la situazione va presa in considerazione la lentezza della giustizia, che ingolfandosi per l’aumento indiscriminato di arresti delle politiche antidroga, ha fatto arrivare la percentuale di detenuti in regime di custodia cautelare fino al 6o% del totale. Secondo gli ultimi dati del World Prison Brief, in Cambogia il dato che risalta di più è il tasso di minori nelle prigioni: dei 39.000 detenuti del Paese (quattro volte tanto la capacità dei ventinove istituti penitenziari) il 5% (circa 1.800) è composto da minori. Questo perché nel Paese non è mai stato istituito un sistema giudiziario minorile. Ciò implica che gli adolescenti fino ai diciotto anni condividano le celle con decine di adulti, rischiando di diventare vittime di atti di violenza. Ci sono però anche i casi di bambini che vivono con le loro madri: in questo caso non si tratta di criminalità minorile, ma solo di figli di detenute per le quali non esistono strutture specifiche. Nonostante nel 2017 sia stata approvata una norma per la creazione di carceri minorili, fino ad oggi si è fatto ben poco per risolvere la questione, tanto che il governo continua a ricevere pressioni da parte di Ong locali e internazionali perché agisca. Le donne compongono oltre l’H% dei detenuti in Tailandia. Anche in questo caso, la maggior parte di loro sono in prigione per condanne legate allo spaccio di droga. La Tailandia settentrionale fa parte insieme al Myammar orientale e il Laos occidentale del cosiddetto “triangolo d’oro”, uno dei centri di produzione di eroina e oppio più importanti al mondo, seconda solo all’Afghanistan. Essendo alle porte dell’Indo-Pacifico, la produzione di questa fertile zona è destinata al Nord America. Le donne che finiscono in carcere non lo fanno che per un’unica scelta: quella di sfuggire ad una profonda povertà. Spesso però si ritrovano in una situazione peggiore: le condizioni igieniche delle carceri a loro dedicate sono disumane e le strutture messe creata appositamente per questa porzione di detenuti sono poche tanto che in alcuni casi si raggiunge un tasso di sovrappopolamento pari al 650%. Anche in questo caso a rimetterci sono i bimbi: molte detenute entrano in carcere alla fine della gravidanza e partoriscono dietro le sbarre. La pandemia ha riacceso i riflettori sulle condizioni delle carceri nel mondo sin dalle prime settimane di lockdown; il sovraffollamento delle celle ha creato focolai ovunque nella regione, aumentando la pressione sui governi. In aiuto a questi paesi è intervenuto il United Nations Office on Drugs and Crime (Unodoc) che ha suggerito ai Paesi di applicare delle specifiche politiche per diminuire il rischio di contagi. L’unico Paese ad applicare una misura effettiva è stato il Myammar che nell’aprile 2o2o ha concesso un indulto. Negli altri Paesi le uniche misure concrete sono state la distribuzione di mascherine e altro materiale sanitario nelle carceri. Le azioni future dell’ufficio dell’Onu saranno concentrate sulla creazione di base normativa comune a tutti questi stati. I progetti di coordinamento per il Covid sono un primo passo, ma la strada da fare resta ancora lunga. Gran Bretagna. Assange può essere estradato Un altro attacco al giornalismo di Philip Di Salvo Il Domani, 11 dicembre 2021 Il fondatore di WikiLeaks ha perso la sua battaglia legale. La decisione è l’ultimo capitolo di una vicenda che indica la gravità degli attacchi alla libertà di stampa lanciati anche nelle democrazie. Julian Assange può essere estradato negli Stati Uniti. Il fondatore di WikiLeaks ha perso la sua battaglia legale contro gli Stati Uniti per la sua estradizione in seguito alla decisione della giustizia britannica di accettare le argomentazioni in favore di un suo trasferimento oltreoceano. Si tratta di una sconfitta pesantissima per Assange - che ricorrerà comunque ancora in appello - e di una sentenza dai significati particolarmente gravi per il giornalismo e le sue libertà. Le conseguenze - La sentenza legittima ancora una volta la linea dell’accusa: quanto pubblicato da WikiLeaks tra il 2010 e il 2011 con la divulgazione dei documenti sulle guerre in Afghanistan, Iraq e con il Cablegate, non è giornalismo nell’interesse pubblico, ma spionaggio e hacking: è questa infatti, la sostanza dei 17 capi di accusa che Assange si vede imputare negli Stati Uniti. Assange potrà essere estradato negli Stati Uniti per affrontare un processo e, qualora fosse condannato, potrebbe scontare una pena fino a 175 anni di detenzione. Da anni tutte le più importati organizzazioni che si occupano di diritti umani e libertà di stampa denunciano, inascoltate, le possibili ricadute sui diritti dell’imputato e su casi simili futuri, oltre che per il giornalismo nel suo complesso. Un precedente - Non esiste, nelle democrazie, un caso più estremo di quello di Assange: un editore di fatto privato delle sue libertà da oltre un decennio: Assange è stato tenuto prima in condizione di “detenzione arbitraria” per sette anni in una ambasciata, per essere poi incarcerato in isolamento, nonostante i richiami delle Nazioni unite, e si trova ora vicino a essere processato e potenzialmente incarcerato per le pubblicazioni della sua organizzazione. E per ragioni che pongono una minaccia esistenziale alle libertà dell’informazione. Ogni elemento di questo caso rappresenta un precedente preoccupante, destinato a gettare un’ombra sul futuro dell’informazione. Il ruolo della Casa Bianca - L’inchiesta contro Assange e WikiLeaks è passata per le mani di tre diverse presidenze statunitensi, diventando progressivamente sempre più severa. È iniziata negli anni di Barack Obama ed è stata portata avanti in segreto fino al momento dell’effettivo arresto di Assange, avvenuto nel 2019 a Londra, quando alla Casa Bianca sedeva Donald Trump, ed è proseguita fino ad oggi, con Joe Biden. Con Obama, gli Stati Uniti non avevano mai portato avanti l’indagine fino in fondo, proprio per i timori delle conseguenze che la formulazione ufficiale di accuse contro un giornalista avrebbe potuto causare. Trump, invece, ha accelerato in quella direzione, seguito dall’Amministrazione Biden, decisa a sfruttare ogni canale disponibile, nonostante la pressione della società civile e della stampa internazionale. Nessun cambio di marcia è avvenuto nemmeno in seguito alla pubblicazione dell’inchiesta di Yahoo News! che aveva rivelato l’esistenza di un piano statunitense per un eventuale rapimento o assassinio di Assange nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra. Nemmeno questo è servito a persuadere la giustizia britannica che, al contrario, si è detta soddisfatta delle “rassicurazioni” ricevute dagli Stati Uniti in merito alle eventuali condizioni detentive di Assange. Le condizioni di Assange - A gennaio la giustizia britannica aveva bloccato l’estradizione di Assange su basi puramente mediche: la salute mentale di Assange, persona ad alto rischio di suicidio, è stata allora giudicata troppo compromessa per una eventuale incarcerazione negli Stati Uniti in una struttura di massima sicurezza. Le udienze di appello, tenute a Londra ad agosto e ottobre, hanno interessato puramente questi punti, con le autorità americane decise a ribaltare il giudizio di primo grado, puntando in particolare a smontare le perizie psichiatriche che lo avevano ispirato e fornendo “rassicurazioni” sulle eventuali condizioni detentive di Assange. Riassicurazioni che non hanno convinto nessuno, tranne la giustizia britannica. I due anni e mezzo trascorsi dall’arresto nell’ambasciata a oggi, sono stati trascorsi da Assange nel carcere di Belmarsh, a 20 chilometri da Londra. I legali di Assange e la sua compagna Stella Moris hanno denunciato più volte il precipitare delle condizioni di salute mentale e fisica di Assange. In attesa dei prossimi passi, Assange resterà ancora in carcere ed esistono preoccupazioni concrete per la sua vita. Si tratta, di fatto, di una persecuzione destinata a proseguire. Segnali per il futuro - La decisione odierna è l’ultimo capitolo in ordine di tempo di una vicenda che prosegue da 11 anni e che è un termometro degli attacchi alla libertà del giornalismo lanciati anche nelle democrazie, perfino nell’anno in cui sono stati proprio due giornalisti a ricevere il Premio Nobel per la pace. Il messaggio, avvalorato da tutti i governi coinvolti nel caso Assange, è chiaro: svelare, tramite pubblicazione e tramite il whistleblowing, gli abusi delle più alte sfere del potere non è giornalismo, è spionaggio. Una equazione che stride con i principi democratici e con il senso stesso di giustizia. Una giustizia che dovrebbe valere per Assange e per chiunque decida di servire l’interesse pubblico. Gran Bretagna. Assange, sentenza contro diritti umani e democrazia di Vincenzo Vita Il Manifesto, 11 dicembre 2021 Una sentenza che ci riguarda. Se perde WikiLeaks, esce sconfitta completamente la libertà di informazione. Sarebbe un precedente gravissimo: la verità sulle guerre, d’ora in poi, sarà solo quella del potere. Talvolta capita che un accidente dia l’idea della sostanza. Un episodio, come una sineddoche, disegna i colori del quadro. È il caso della ormai annosa “serie” di Julian Assange, nella quale il cattivo a giudizio è ben più buono dei suoi inquirenti multiformi. Venuti dalla Svezia o dalla Gran Bretagna o dagli States. I veri cattivi. I colpevoli a piede libero. Purtroppo, siamo di fronte ad una sequenza drammatica, che ricorda da vicino l’affare Dreyfus o le iniziative repressive tipiche degli universi autoritari: dall’Egitto, all’Arabia Saudita, alla Polonia, all’Ungheria. Per citare luoghi di avvenimenti tristi e recenti. L’Alta corte di Londra si è rimangiata la decisione dello scorso gennaio sulla vicenda di Julian Assange. Sul giornalista fondatore di WikiLeaks pende la condanna annunciata per la violazione di una legge del 1917 contro lo spionaggio. Ad Assange non viene riconosciuto la status di giornalista, mentre lo è di diritto e di fatto. A causa di simile cinica astuzia, non si ritiene applicabile alle divulgazioni di tante criminali malefatte delle guerre in Iraq e in Afghanistan il primo emendamento della Costituzione degli Stati uniti. Vale a dire la tutela sacrale del diritto di cronaca. La garanzia venne applicata, invece, ai Pentagon Papers, che in 7000 pagine svelavano vicende e retroscena della guerra del Vietnam. Tant’è che i dossier vennero pubblicati dal New York Times e dal Washington Post senza conseguenze giudiziarie, in cui non incappò la stessa fonte Daniel Ellsberg. La novità di ieri risiede nel cambiamento di atteggiamento della giustizia britannica, che nell’ultima udienza ha deciso di accedere alla richiesta di estradizione rivolta al tribunale inglese dagli Usa. In precedenza fu risposto di no, date le condizioni assai preoccupanti della condizione psichica e fisica di Assange. Del resto, Nils Melze, il relatore delle Nazioni unite contro la tortura, già nel 2019 aveva sottolineato quanto alto fosse il rischio per la vita dell’imputato, persino di suicidio. Ora, dopo qualche rassicurazione sulle condizioni carcerarie statunitensi, l’Alta Corte ci ha ripensato, concedendo il disco verde ai voleri imperiali. Sotto il profilo procedurale, le carte dovranno passare ad un tribunale tecnicamente inferiore (era un appello) per il via libera. Ma, purtroppo, il dado sembra tratto. Salvo miracoli laici. La moglie e avvocata di Assange, Stella Morris ha preannunciato ricorsi e battaglie legali. Speriamo. Mai arrendersi. La federazione della stampa italiana e l’associazione Articolo21 hanno giustamente ribadito la volontà di continuare una lotta che riguarda sì una persona, capro espiatorio di un potere che da accusato è diventato accusatore. Tocca, però, tutte e tutti coloro che lavorano nell’informazione. Assange va condannato, secondo quella perversa logica. Altrimenti, sono i governi implicati a correre il rischio di rispondere di eccidi e azioni cruente contro militari e civili. Non solo. Se perde WikiLeaks, esce sconfitta completamente la libertà di informazione. Sarebbe un precedente gravissimo, i cui effetti diretti e collaterali sono inimmaginabili. A tingere di surreale la scena tragica sta la convocazione da parte del presidente Joe Biden in questi giorni - 9 e 10 dicembre - di un cosiddetto “Summit per la democrazia”, con invito rivolto a ben 111 paesi. Quale democrazia? In verità, la storia di Assange è la negazione di ogni statuto civile e liberale. È la pura affermazione della legge del più forte. Si tratta di un esempio di ciò che la sociologia politica chiama post-democrazia. Le istituzioni italiane ed europee non possono chinare la testa. Se si accetta supinamente un simile verdetto, la prossima volta a chi toccherà? Travolto un principio basilare, la ferita è per sempre. E le Nazioni unite tacciono? Regole e consuetudini sono buttate nella spazzatura? È auspicabile che tra i democratici americani si apra una discussione seria, perché -a dire il vero- sembra che sia ancora al Campidoglio Donald Trump. Il parlamento italiano, a sua volta, ha perso un’occasione, respingendo nei giorni scorsi una mozione presentata dal deputato Pino Cabras, che meritava giudizi aperti e costruttivi. Niente vieta, in verità, che alla luce degli eventi si possa tornare sulle decisioni. Non è azzardato, in considerazione delle conclamate sensibilità, chiedere al presidente Mattarella di muovere un passo diplomatico verso la potenza d’oltre oceano. Che rischia di vedere presto il mappamondo girare da un’altra parte. Se non si richiama alle sue vantate origini democratiche, che ne resta dell’Occidente? Altro paradosso: ieri si celebrava la giornata mondiale dei diritti umani. Myanmar. La popolazione sfida i generali golpisti con lo sciopero del silenzio di Theo Guzman Il Manifesto, 11 dicembre 2021 Oggi manifestazione della diaspora in Italia. La sciopero di ieri ha coinciso anche con un’altra notizia che riguarda il Paese governato dai militari: il Myanmar Accountability Project (Map), organizzazione non governativa con sede a Londra, ha presentato un dossier al Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aja in cui si accusa di crimini contro l’umanità l’uomo che ha guidato il golpe del 1° febbraio scorso, il generale Min Aung Hlaing. “Giovedì le forze di sicurezza della giunta militare birmana avevano detto alle persone di non partecipare allo sciopero proclamato per venerdì, promettendo di fornire sicurezza sufficiente a coloro che avrebbero voluto tener aperte le loro attività. Ma la gente - scriveva ieri il quotidiano online Irrawaddy - le ha sfidate e si è unita comunque allo sciopero”. Uno sciopero davvero particolare e una nuova invenzione della più creativa resistenza popolare di questi anni: ieri infatti, Giornata mondiali dei diritti umani, i birmani hanno deciso uno sciopero del “silenzio”. In una parola una serrata totale di ogni attività pur senza cortei né manifestazioni: strade vuote, centri commerciali e negozi chiusi, macchine ferme, usci delle case sbarrati. E così, in un’ennesima prova di forza tra resistenza e golpisti - che da oltre dieci mesi occupano le istituzioni e reprimono le proteste - lo sciopero generale del silenzio è riuscito in pieno: da Yangon al più piccolo villaggio del Myanmar. Le immagini rimbalzano sui principali siti delle agenzie di stampa che confermano la riuscita di uno sciopero cui non hanno partecipato nemmeno gli ambulanti e che si è concluso verso le 4 del pomeriggio, un paio d’ore prima del buio. Come in altre occasioni la giornata birmana si espande anche dove vivono le comunità della diaspora. In Italia, per esempio, oggi si terrà una manifestazione per il sostegno al popolo birmano a Roma in Piazza della Repubblica dalle 14 alle 15. “Una manifestazione globale che la comunità birmana - spiegano i membri di quella italiana - terrà in ogni parte del mondo per chiedere la fine alle atrocità commesse dai militari. I nostri amici e famigliari in Birmania stanno soffrendo. Stanno affrontando atrocità così crudeli che non devono più ripetersi”. La sciopero di ieri ha coinciso anche con un’altra notizia che riguarda il Paese governato dai militari: il Myanmar Accountability Project (Map), organizzazione non governativa con sede a Londra, ha presentato un dossier al Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aja in cui si accusa di crimini contro l’umanità l’uomo che ha guidato il golpe del 1° febbraio scorso, il generale Min Aung Hlaing. Nella nota diffusa ieri dall’organizzazione, il Map chiede al Tribunale internazionale di aprire un’indagine penale sull’uso diffuso e sistematico della tortura come parte della violenta repressione contro il movimento di protesta in Myanmar, repressione che le Nazioni Unite hanno definito una “campagna del terrore”. Il Tpi aveva già tentato di aprire un’inchiesta sulle violenze contro i Rohingya ma il Myanmar - che non aderisce al Tpi - gli aveva sbarrato la strada. Farà lo stesso ma resta il dossier con prove evidenti di tortura - secondo l’Ong - accompagnate da un’analisi legale per dimostrare che l’uso di questa pratica nel Paese è diffusa e sistematica ed è il risultato di politiche statali, dunque preordinate con l’avvallo dei vertici. Tutti elementi che portano al reato di crimini contro l’umanità, sostiene l’organizzazione del Regno Unito.