“Ergastolo ostativo: requisiti troppo stringenti e non si parla di giustizia riparativa” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 dicembre 2021 Per Giovanna di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, il testo base sull’ergastolo ostativo ha il limite di mettere in secondo piano il percorso trattamentale del detenuto. Sull’accentramento delle istanze al Tribunale di sorveglianza di Roma aggiunge: “Tende a sminuire il valore e la competenza della magistratura di sorveglianza e si pone in piena distonia con l’ordinamento penitenziario”. Qual è il suo giudizio sul testo base? In attesa di conoscere gli emendamenti, possiamo affermare che il testo base rende ardua la concessione delle misure alternative per varie ragioni, la prima delle quali è la sussistenza di alcuni stringenti requisiti. Si richiede, ad esempio, che l’adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato sia “integrale” o che l’impossibilità di tale adempimento sia “assoluta”. Per quanto concerne l’allegazione in capo al detenuto? Anche in questo caso l’uso dell’aggettivazione è stringente: “congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione”. Ancora una volta si ribadisce la rigorosità dell’accertamento. Inoltre deve essere “certa” l’esclusione di collegamenti presenti e futuri con l’organizzazione criminale, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti, o mediante terzi. Si tratta di giudizi di difficile, se non impossibile, accertamento. Bisogna infatti chiedersi a tal proposito se sia possibile una esclusione certa di un pericolo. Vorrei ricordare che la Cassazione in una recentissima sentenza, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, da cui è sorta l’esigenza dell’intervento normativo in esame, ha espressamente affermato che la non ammissibilità di una prova negativa in capo al detenuto. La normativa inoltre afferma incidentalmente la rilevanza del cambiamento della personalità del detenuto come requisito rilevante per la concessione dei benefici, in quanto fa richiamo solo alla regolarità della condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo da parte del detenuto medesimo. Invece, il mutamento effettivo e pieno di personalità costituisce il dato più pregnante e adeguato per ritenere provata la rescissione dai legami con la criminalità organizzata. In merito alla attività istruttoria? Il magistrato di sorveglianza deve chiedere il parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado e in alcuni casi anche del Procuratore nazionale antimafia... È prevista l’acquisizione dei pareri del pubblico ministero e del procuratore nazionale antimafia. Il magistrato di sorveglianza, se disattende i medesimi, è tenuto a indicarne gli “specifici motivi” a fondamento della sua valutazione. Peraltro, le informazioni che provengono dalle Procure si sviluppano di fatto sulla base dei pregressi fattori di collegamento con la criminalità organizzata, legati alla commissione di reati, sempre commessi in epoca molto risalente. Sono poi richiesti controlli sulla capacità economica del detenuto attraverso indagini bancarie e presso gli intermediari finanziari. Si sarebbe, invece, potuto fare un discorso più ampio di verifica della situazione patrimoniale anche dei familiari perché, com’è noto, le associazioni mafiose, se mantenute in vita, continuano a mantenere i parenti dei carcerati. C’è anche il problema dell’aumento degli anni di detenzione a partire dai quali si può chiedere la liberazione condizionale... Si tratta di un altro dato che vuole essere di rinforzo per la disciplina: i ventisei anni sono ora diventati trenta. Si tratta di una legittima scelta legislativa, ancorché il periodo di ventisei anni in carcere è già molto ampio e allontana nel tempo il reato. Non dimentichiamo poi che molti detenuti espiano il reato associativo in regime di 41bis, il che impedisce già di per sé di mantenere contatti con il clan. È assente, infine, il riferimento a ipotesi di giustizia riparativa, rimanendo quindi ancora una volta sullo sfondo il tema del mutamento della personalità del detenuto. Quindi andiamo verso un “nuovo ergastolo ostativo”? Dal testo in esame sembra emergere una linea di tendenza volta a restringere la possibilità di accedere alla liberazione condizionale e alle misure. Lo spazio di decisione per la magistratura di sorveglianza sembra infatti ridursi a causa di aggettivi stringenti e percorsi rigidi che non valorizzano l’attuale personalità del condannato. Probabilmente la normativa è orientata a finalità di prevenzione generale, rivolta alla generalità dei consociati e ai potenziali autori di reati. Al momento nel testo base non c’è, ma ci potrebbero essere degli emendamenti, sulla scia anche delle parole del consigliere Nino Di Matteo, per accentrare tutto sul Tribunale di Sorveglianza di Roma. È giusto pensare che forse qualcuno teme una magistratura - mi passi il termine - “garantista”, che nella prossimità con il detenuto capisca che può lasciare il carcere? Questa ipotesi, che sembrava accantonata, riproduce il modello della normativa sulla competenza del Tribunale di Sorveglianza di Roma sulle impugnazioni dei decreti ministeriali che dispongono il regime di cui all’art. 41 bis. L’auspicata omogeneità delle decisioni deve fare inoltre i conti con le norme sulla valutazione del magistrato di sorveglianza. Egli deve infatti conoscere ogni detenuto sottoposto al suo giudizio. Detta ipotesi inoltre pare contrastare con l’ordinamento penitenziario che impone che le decisioni sul detenuto vengano assunte da un collegio nel quale deve essere presente il magistrato competente sulla posizione giuridica del detenuto medesimo. Del resto, è proprio alla base della sentenza 253 della Corte Costituzionale il principio di individualizzazione del trattamento. Bisogna infatti guardare al cambiamento dell’uomo nella sua specificità. Il nemico della rieducazione si chiama carcere: aboliamolo di Diego Mazzola Il Riformista, 10 dicembre 2021 Da Spinelli e Turati ad Angela Davis, c’è una grande storia abolizionista. Ridurre al minimo l’intervento punitivo del diritto penale è essenziale per ridare credibilità al sistema. Una cultura di prevenzione nonviolenta è possibile. Ne parleremo al Congresso di Nessuno tocchi Caino. Oggi, finalmente, si comincia a sentir dire che il primo e indispensabile passo per portare l’umanità fuori dalla società carceraria sia la riduzione del diritto penale fino al “minimo” della sua sfera di intervento, delle sue previsioni punitive. Questo primo passo è essenziale per ridare credibilità al Sistema Penale nel suo insieme e, quindi, consentire l’abolizione dell’istituto che più di ogni altro lo delegittima, ovvero il carcere, per come esso è e per come non può non essere. Una volta che si è compreso la mancanza di senso e la immoralità della punizione, forse, è possibile fare qualche passo avanti, non nella conferma della “certezza della pena” ma in quella della certezza del “reinserimento sociale” di chi ha compiuto un reato. È in gioco la smania di punire, anche se non si ha la benché minima idea di che cosa sia un carcere e di quanto ci si debba vergognare per quella istituzione e, soprattutto, di quanto indispensabile alla “convivenza civile” sia il precetto evangelico - non “laicamente” condiviso - del “non giudicare”. A maggior ragione, quando è ormai chiara la supponenza di chi giudica in un contesto in cui il Diritto è nelle mani di chi lo amministra in base a leggi scritte da Parlamenti che troppo spesso rappresentano gli interessi di una classe politica o di un gruppo di potere, non certo gli interessi di tutti. Non dimentichiamo Michel Foucault e il suo “Sorvegliare e punire”, saggio di formazione per molti abolizionisti che spiega la nascita della prigione, da dove viene - e dove dovrà andare a finire - “questa strana pratica, e la singolare pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni”. Non dimentichiamo gli insegnamenti di Louk Hulsman, il consigliere del ministero della giustizia olandese autore di Pene perdute che ha fondato la scuola nordeuropea dell’abolizionismo del sistema penale insieme ai norvegesi Nils Christie e Thomas Mathiesen, che ci ha lasciato pochi mesi fa. Non dimentichiamo i nostri Filippo Turati e Altiero Spinelli e, oggi, Gherardo Colombo, solo per farla breve. Esiste una grande storia dell’Abolizionismo nostrano e internazionale. Oggi si viene a sapere di Angela Davis e Ruth Gilmore, capaci di contrastare legalmente la costruzione di nuove carceri negli Stati Uniti o dell’impegno ultradecennale dell’International Conference on Penal Abolition o di ciò che si è fatto in Portogallo e nella vicina Svizzera, Paesi che - a seguito della somministrazione gratuita e sotto rigido controllo medico di cocaina ed eroina, con la ricerca e offerta di lavoro a quelli che nel nostro Paese continuano a essere chiamati “tossicodipendenti” - hanno cominciato col chiudere alcuni istituti penitenziari. E poi di che si tratta quando si sente parlare di “rieducazione del condannato” senza nulla concedere alla libertà di coscienza in ciò che si crede sia lo Stato di Diritto? Davvero si è convinti che un terrorista islamico possa “redimersi” e accettare di essere “rieducato” per ciò che non crede affatto essere un peccato? O che un sociopatico violento possa comprendere da solo, nel silenzio di una cella, l’orrore dei suoi omicidi? Purtroppo nelle carceri spesso ci “scappa il morto”, per malattie o maltrattamenti, per cosiddette “cause naturali” o tramite suicidio. Così come incalcolabili sono le condanne accertate (e non) di coloro che pure non avevano compiuto “i fatti loro ascritti”. Forse dovremmo cominciare a comprendere che con l’art. 27 della nostra Costituzione sulla Rieducazione del Condannato, si è permessa l’introduzione nell’Ordinamento della violenza, del cavallo di Troia del codice Rocco, sottoscritto da Mussolini e dal re d’Italia di allora, e della mancanza di responsabilità dello Stato nell’amministrare giustizia e comminare pene. Pena è solo ciò che si prova di fronte ad animale o essere umano per l’appunto sofferenti, ma se viene procurata a chiunque è solo “tortura”. Organizzare la richiesta di Giustizia sulla pena, ovvero sulla vendetta di Stato, è solo un fatto criminale. Davvero vogliamo che pedofili e assassini debbano marcire in carcere? Eppure pedofili e psicopatici violenti sono persone malate e si sa che il carcere non è un luogo di cura ma, appunto, di pena, che procura dolore, genera malattia. Il carcere e la (in)giustizia penale sono figlie della stessa cultura violenta e vendicativa che si dice di voler combattere. Una cultura di prevenzione nonviolenta è possibile. Ne parleremo nel Congresso di Nessuno tocchi Caino il 17 e 18 dicembre, nel carcere di Opera. Vogliamo cominciare a parlare di come introdurre mattoni di nonviolenza nella costruzione del Patto Sociale? Tra i primi Abolizionisti contestatori del modello retributivo e della visione “carcero-centrica” troviamo anche il Cardinal Martini, per il quale “Qualsiasi pena afflittiva ha la distretta della pena di morte e della tortura, e che già il pensiero di affliggere un altro essere umano è intollerabile e perverso”. E troviamo anche Thomas Mathiesen e Donald Clemmer, secondo i quali “la prigionizzazione è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento. Mattarella concede la grazia a sette detenuti. Tra loro, l’ex terrorista altoatesino Oberleiter di Mauro Rosin Il Dubbio, 10 dicembre 2021 Sette decreti di grazia firmati ieri dal Presidente della Repubblica, con parere favorevole della ministra della Giustizia Marta Cartabia, si legge nella nota diramata dal Quirinale. A beneficiare del provvedimento di clemenza c’è Michele Strano, nato nel 1968, condannato a sei anni, due mesi di reclusione per omicidio volontario commesso nel 2012, nel corso di una rapina ai suoi danni nella quale era rimasto ucciso anche suo fratello. Nel concedere la grazia di un anno di reclusione il Capo dello Stato ha tenuto conto del parere favorevole formulato dal Procuratore generale e del percorso di riconciliazione avvenuto tra i familiari delle due vittime. Atto di clemenza anche Carlo Garrone, nato nel 1941, condannato a quattordici anni di reclusione per l’omicidio della sorella, commesso, in un contesto di grave disagio, nel 2014. “A Oberleteir Heinrich Sebastian, nato nel 1941, è stata concessa la grazia relativa alla pena dell’ergastolo, irrogata per la partecipazione ad atti terroristici compiuti in Alto Adige tra il 1966 e il 1967. Nell’adottare il provvedimento il Presidente della Repubblica ha tenuto conto del fatto che i suoi atti criminosi non hanno provocato decessi e del ravvedimento del condannato”, si legge nella nota del Colle. Per Francesco Domino, nato nel 1972, condannato a tre anni e nove mesi per fatti di bancarotta fraudolenta commessi nel 2011, “la pena è stata ridotta di dieci mesi”. E poi, Giuseppe Minisgallo, condannato per delitti associativi, al quale è stata concessa la grazia in relazione alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Graziato anche Cosimo Bruno, condannato per guida in stato di ebbrezza nel 2009. E infine: “Langella Cristina, alla quale è stata concessa la grazia della pena di 450 euro di ammenda riportata per il reato di rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale. Il Capo dello Stato ha tenuto conto della modesta gravità del fatto e del parere favorevole del competente Procuratore Generale”. Alla Camera una proposta di legge per portare il teatro tra i detenuti di Simonetta Dezi ansa.it, 10 dicembre 2021 Venturini, riconoscimento per lavoro fatto da anni insieme. Il teatro li rende liberi, liberi di sperimentare una nuova dimensione personale e sociale. Il teatro li libera là dove la loro condizione è ancora quella di reclusi. Chi tra i detenuti ha provato l’esperienza di calcare il palcoscenico, grazie ai percorsi di integrazione organizzati in vari istituti penitenziari italiani, parla spesso di una trasformazione, a volte addirittura di un radicale cambiamento. Perché oltre i cancelli del carcere c’è vita, la stessa che troviamo fuori e il teatro può contribuire a costruire il famoso ponte tra comunità penitenziaria e società esterna. La professoressa Valentina Venturini, docente di Storia del teatro all’Università Roma Tre, che da diversi anni lavora per portare la cultura teatrale all’interno del carcere, ci informa con grande entusiasmo che l’importanza della recitazione per i reclusi finalmente è arrivata in parlamento. Nel novembre scorso è infatti iniziato alla Camera dei i deputati l’esame della proposta di legge per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari. “E’ un’iniziativa del deputato Raffaele Bruno - spiega Venturini - Tre sono i punti essenziali: la promozione e il sostegno delle attività teatrali nelle carceri anche nella prospettiva del reinserimento lavorativo, con valorizzazione delle conoscenze e competenze acquisite dai detenuti; l’individuazione o la creazione, negli istituti di pena che ne sono sprovvisti, di spazi dedicati al teatro; l’istituzione di un “fondo per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari”. Secondo la professoressa sarebbe una conquista preziosa e un riconoscimento per un lavoro che ormai viene fatto da molti anni insieme ai detenuti. “Non a caso, - sottolinea - tra le proposte degli Stati Generali sull’esecuzione penale (2015), vi era quella di includere il teatro tra le attività istituzionalizzate negli istituti di pena, sollecitandone l’inserimento nella trama normativa dell’ordinamento penitenziario, anche in considerazione dei dati diffusi dal Dap che testimoniavano quanto positivamente le attività teatrali incidessero sul clima degli istituti (con una percentuale del 96%)”. “I laboratori teatrali - prosegue la docente - sono presenti in tutto il territorio nazionale con una percentuale che supera il 50% degli istituti (che, ad oggi, sono 190). Nel 33% dei casi sono laboratori che vivono da più di 10 anni. I soggetti coinvolti sono nell’85% uomini e solo nel 7% donne, ma questo è un dato che semplicemente riflette la composizione della popolazione carceraria. Le esperienze teatrali riguardano per lo più i normali detenuti, mentre molto più rare sono quelle con reclusi nel circuito di alta sicurezza. Le attività teatrali sono condotte da educatori, volontari, insegnanti, talvolta dagli stessi detenuti riuniti in compagni”. Sullo stretto legame tra teatro e processo di risocializzazione è intervenuto nei giorni scorsi anche Marco Ruotolo, Professore ordinario di Diritto Costituzionale all’Università Roma Tre Presidente della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario per il Ministero della Giustizia, partecipando alla tavola rotonda “Il teatro in carcere: tra buone prassi e iniziative legislative”, organizzata nell’ambito del Festival Destini incrociati. Ruotolo ha invitato a “non considerare il teatro in carcere nella dimensione del mero intrattenimento, ma strumento che consente al detenuto di riappropriarsi della vita” e ha ricordato i dati nazionali dell’Istituto Superiore di Studi Penitenziari. “Sebbene non siano aggiornati - ha detto - risalgono a circa sette anni fa, i dati ci dicono che il tasso di recidiva, ossia la ricaduta nel reato di una persona già destinataria di condanna penale, è circa del 65% nella media italiana, ma scende al 6% per coloro che in carcere svolgono attività artistiche e culturali, in particolare teatrali”. Un equilibrio da ricostruire tra politica e magistratura di Massimo Franco Corriere della Sera, 10 dicembre 2021 Ma le proposte della Guardasigilli devono fare i conti con i tempi e con le divisioni del Parlamento. La decisione di bloccare la “porta girevole” tra magistratura e politica è una novità positiva: sia per i giudici, sia per gli eletti. Ma lo è soprattutto per un’opinione pubblica che in questi anni ha vissuto con disagio il passaggio dalle aule di tribunale alle campagne elettorali di esponenti del mondo giudiziario. E ha assistito ancora più sconcertata e impotente al ritorno nelle file della magistratura di quanti si erano presentati con una casacca di partito. Il divieto è stato proposto dalla Guardasigilli, Marta Cartabia. Dovrebbe arrivare il Consiglio dei ministri entro un paio di settimane. E, con l’approvazione, mettere il governo al riparo dai distinguo delle forze politiche una volta che approderà in Parlamento: almeno in teoria. L’aspetto interessante è che si stia delineando un’unanimità di posizioni. Il problema è capire se questa concordia sia destinata a durare, o se sia solo di facciata. Dal Movimento Cinque Stelle a Forza Italia, oggi sembrano tutti convinti che occorra dare un segnale netto in questo senso. Ma le modifiche profonde alla riforma del precedente governo, firmata dal grillino Alfonso Bonafede, riguardano anche i criteri per scegliere i membri del Consiglio superiore della magistratura: un organo delegittimato dalle faide torrentizie che lo hanno investito nei mesi scorsi. Su questo punto le posizioni appaiono meno omogenee, comunque meno scontate; e a giugno il Csm dovrà essere rinnovato. Sono girate voci velenose sui tempi dell’approvazione. L’iniziativa del ministero della Giustizia è stata collegata quasi per forza di inerzia ai giochi per il Quirinale: il tema che sovrasta e condiziona ogni atto del governo e dei suoi esponenti, spesso anche in modo strumentale. L’incognita è se l’attuale Parlamento vorrà e potrà trasformare queste norme in legge prima che si vada alle elezioni; dunque al massimo entro la fine del prossimo anno. Si tratta di materia incandescente. Lo si è visto quando è stato modificato il processo penale, approvato solo col ricorso alla fiducia e un intervento deciso di Palazzo Chigì. La previsione è che anche nel caso degli emendamenti discussi ieri dalla ministra Cartabia con le forze di maggioranza, la disponibilità di principio dovrà fare i conti con le aule parlamentari. Ma il segnale è chiaro. Risponde all’esigenza di restituire alla magistratura non tanto l’imparzialità quanto un’immagine imparziale e di autonomia. Il tentativo è di spezzare dinamiche di andata e ritorno in politica, che ultimamente hanno acuito le tensioni. E hanno mostrato un certo rifiuto dello stesso elettorato a premiare candidati pescati nel mondo della giustizia. Toghe e politica, ecco la riforma del Csm targata Cartabia di Valentina Stella Il Dubbio, 10 dicembre 2021 Il piano della guardasigilli: sistema elettorale maggioritario, stretta alle porte girevoli tra toghe e politica e presenza (soft) degli avvocati nei consigli giudiziari. “Coinvolgimento di avvocati e professori nei Consigli giudiziari”: è questa per ora la generica posizione ufficiale del Governo che si vorrebbe introdurre nella riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La Ministra Cartabia ieri ha incontrato separatamente tutti i partiti di maggioranza. Da quanto ci raccontano i parlamentari la Guardasigilli non ha espresso una posizione sulla possibilità di aprire al diritto di voto per gli avvocati in merito alle valutazioni di professionalità. Eppure lo chiedono tutti i partiti, o almeno come i Cinque Stelle non si opporrebbero. L’intenzione è di coinvolgere gli avvocati ma sul come, ci dice il sottosegretario Sisto, “siamo in una fase di working in progress”. La delegazione del Pd, composta da Anna Rossomando, Alfredo Bazoli e Walter Verini, ha suggerito per esempio alla Ministra una proposta che ha accolto con interesse: per evitare possibili conflitti di interesse tra l’avvocato del Consiglio giudiziario e il magistrato che si va a valutare, i dem suggeriscono che l’avvocato voti sulla base di un parere che formalmente ha elaborato il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di quel distretto, andando così a spersonalizzare il voto del singolo avvocato che diviene in pratica un delegato del Coa. Tornando agli altri elementi di riforma, va detto che per il sistema di voto del Csm è stata accantonata la proposta Luciani del voto singolo trasferibile. Si mira ad un sistema maggioritario con collegi binominali con correttivi per rappresentare i gruppi minoritari. Prevista altresì la parità di genere sulle candidature. Non si abbandona del tutto l’ipotesi del sorteggio: se non arrivano spontaneamente il triplo delle candidature rispetto ai posti da assegnare per ogni collegio, si integrano per sorteggio tra i magistrati che non hanno negato la loro disponibilità. E scatta il sorteggio anche nel caso in cui non sia assicurata la parità di genere. Diverse le novità sulle toghe in politica: i magistrati non potranno candidarsi nel collegio in cui è compreso in tutto o in parte l’ufficio giudiziario in cui hanno prestato servizio negli ultimi tre anni. E all’atto dell’accettazione della candidatura dovranno essere posti in aspettativa senza assegni. Non c’è però lo stop alle porte girevoli, previsto dal ddl Bonafede e che i 5s hanno chiesto di mantenere, perché chi si candida - eletto o non eletto - potrà tornare a indossare la toga, anche se solo a certe condizioni, e comunque per un periodo di tempo potrebbe stare lontano dalle funzioni giudiziarie. È prevista una riduzione dei magistrati fuori ruolo: il numero sarà definito in fase di delega. Per gli incarichi semidirettivi e direttivi si vuole individuare un contenuto minimo di criteri di valutazione, tra cui l’anzianità, per verificare tra l’altro anche le capacità organizzative. Per le valutazioni di professionalità si va verso una articolazione del giudizio positivo in: discreto, buono o ottimo. La riforma questa volta non sarà blindata come per il penale. La timeline dovrebbe essere questa: entro la prossima settimana, la Ministra formalizzerà la sua proposta che i partiti hanno chiesto di rivedere prima che la porti in Consiglio dei Ministri. Poi sarà dato spazio al lavoro sub emendativo al quale seguirà un altro incontro con i partiti. Quest’ultimi sono prudenti nell’esprimere un giudizio definitivo, aspettano di vedere il testo ultimo della proposta governativa. Comunque i presupposti per una buona riforma sembrano esserci. Per Lucia Annibali di Italia Viva: “Noi non abbiamo preclusioni particolare sul sistema elettorale del Csm. Sicuramente si fa un passo avanti rispetto alla proposta Luciani, che in diversi punti è apparsa blanda. È importante che vengano affrontati adeguatamente gli altri nodi cruciali, come le porte girevoli, i fuori ruolo e le valutazioni di professionalità: e sembra che la strada è quella giusta se verranno confermati i paletti illustrati dalla Ministra, senza dimenticare il diritto di voto per gli avvocati nei Consigli giudiziari”. Anche per Federico Conte (Leu) “si va sicuramente nella direzione giusta, potenziando l’impianto del ddl Bonafede. Io ho insistito molto per il diritto di voto per gli avvocati. La Ministra valuterà. Per noi è anche necessario rafforzare i percorsi formativi per i magistrati che ricoprono incarichi direttivi, non solo in merito ai modelli organizzativi ma anche per le competenze digitali”. Per Walter Verini, relatore del provvedimento insieme al pentastellato Saitta, “una legge elettorale può aiutare a frenare le degenerazioni correntizie ma è evidente che nella magistratura ci vuole un grandissimo sforzo di autorinnovamento. Ho fiducia che le riforme del penale, del civile e dell’ordinamento nel loro insieme siano dei passi nella direzione giusta per una giustizia moderna e in linea con la Costituzione e col fatto che siamo un Paese europeo”. Più critico Pierantonio Zanettin, capogruppo di FI in Commissione Giustizia: “la soluzione proposta favorisce bipolarismo e mortifica i gruppi minori. Noi abbiamo riproposto il sorteggio temperato come unica soluzione per togliere potere alle correnti. Tra le nostre priorità lo stop alle porte girevoli. I magistrati eletti in politica non devono più poter rientrare a fare né il pm, né il giudice. Indispensabile anche una stretta sui magistrati fuori ruolo. E va riconosciuto il diritto di voto agli avvocati nei consigli giudiziari sulle valutazioni di professionalità dei magistrati”. Fermare le porte girevoli fra politica e magistratura è anche “la priorità” del Cinque Stelle “insieme alla restituzione alla categoria della propria piena dignità dopo gli scandali degli ultimi anni”. Questi i punti principali portati al tavolo con la Guardasigilli dalla delegazione dei pentastellati- composta da Eugenio Saitta e Alfonso Bonafede. “È stato un colloquio cordiale e molto costruttivo - affermano deputate e deputati M5S della commissione giustizia -. Siamo contenti di constatare che l’impianto è quello della legge Bonafede già depositata alla Camera”. Non si sbilancia Enrico Costa di Azione: “prima di qualsiasi valutazione aspetto di vedere il testo ufficiale. Posso dire che per il sistema di voto del Csm, per quel che concerne i giudici sono previsti 4 collegi nazionali e vengono eletti i primi due, con un recupero dei migliori terzi, che io ho ribattezzato ‘modello Champions League’. La cosa importante è che per la legge elettorale del Csm non ci sarà la delega. Per quanto riguarda le porte girevoli, ho proposto di distaccare i non eletti al settore civile”. Anche Manuela Gagliardi di Coraggio Italia conferma “il nostro interesse a valutare e sostenere quanto la Guardasigilli presenterà”. Per la Lega ha partecipato all’incontro l’onorevole Roberto Turri: “per noi solo il sorteggio, seppur temperato, può mettere un freno al correntismo. Valuteremo la proposta formale che presenteranno. Sulle porte girevoli: per noi uno che entra in politica non deve fare più il magistrato, non deve ricoprire più funzioni giudiziarie. Con la situazione attuale c’è bisogno di decisioni forti, non di palliativi. Dopo Palamara tutti dobbiamo assumerci la responsabilità di fare norme chiare e che mettano fine al sistema clientelare”. Ecco il nuovo Csm. Cartabia: per Natale l’ok del governo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 10 dicembre 2021 Ieri la ministra ha presentato le sue proposte di riforma ai partiti della maggioranza. Il sistema elettorale della componente togata resta maggioritario, ma la guardasigilli non si illude: da solo non basterà a fermare le correnti. Anche la tanto attesa e invocata - a cominciare dal capo dello Stato - riforma del Consiglio superiore della magistratura deve fare i conti con le risorse economiche. Ed è soprattutto per questo motivo che la ministra della giustizia ha frenato sul ventilato allargamento del Consiglio da 27 a 33 componenti, di cui 20 (da 16) magistrati eletti. Cartabia ha spiegato ieri ai rappresentanti della maggioranza che punta a far approvare entro natale il suo maxi emendamento al vecchio disegno di legge Bonafede dal Consiglio dei ministri. E ha incassato un sostanziale via libera alla sua proposta di nuova legge elettorale per la componente togata, malgrado non si tratti della rivoluzione invocata. Resta il sistema maggioritario, ma in luogo degli attuali tre collegi divisi per funzione ci saranno sette collegi “binominali”, in cui vengono eletti cioè i primi due. Nel collegio della Cassazione non cambierà nulla. Per i giudici i collegi da uno passano a quattro e per i pm da uno a due. Oltre ai primi due di ogni collegio, risulteranno eletti i due migliori terzi, calcolati in proporzione ai voti validi e dunque difficilmente prevedibili dalle correnti. Ma se il totale delle toghe del Consiglio, una volta reperite le risorse necessarie, dovesse salire da 16 a 20 rispettando le attese, a quel punto tutti i migliori terzi sarebbero eletti e il sistema cambierebbe assai. Del resto non è dal sistema elettorale del Csm che ci si può attendere quel freno all’influenza delle correnti che tutti auspicano, anche la ministra ne è consapevole e lo ha ammesso con i suoi interlocutori, ricevuti ieri dal mattino presto una delegazione di partito alla volta. Le altre novità della legge elettorale sono che se non ci saranno almeno sei candidati per collegio, o se un genere sarà sotto rappresentato, le liste saranno integrate con sorteggio. La parità nelle candidature non garantisce affatto parità negli eletti, dunque il Pd ha chiesto di prevedere un meccanismo per il quale se non c’è alternanza di genere tra i vincitori di un collegio il secondo viene sostituito scorrendo le liste. Leu ha invece chiesto di aumentare il numero dei collegi per i giudici da quattro a cinque. Altre correzioni nel funzionamento del Csm riguardano le nomine per gli incarichi direttivi e semi direttivi che si cercherà di ancorare ancor di più a criteri oggettivi (raccogliendo anche il parere degli avvocati che siedono nei consigli giudiziari) e le commissioni. In particolare i componenti del collegio disciplinare non potranno più far parte delle commissioni più importanti del Consiglio (accesso in magistratura e mobilità, conferimento incarichi direttivi, incompatibilità e valutazioni di professionalità). Le novità nell’ordinamento giudiziario incidono su alcuni problemi aperti, per esempio quello delle cosiddette “porte girevoli” tra politica e uffici giudiziari. Le indicazioni sono quelle della commissione Luciani, che ha previsto l’incompatibilità anche per le cariche elettive minori (mai più casi Maresca) e la necessità che i magistrati si fermino per un periodo lungo - 3 o 5 anni - prima di tornare nei ruoli al termine di un mandato elettorale. Prevista una stretta anche sui fuori ruolo, abbassando l’attuale tetto di 200 magistrati impegnati nei ministeri e negli altri organi costituzionali e prevedendo un limite di 10 anni per gli incarichi extra giudiziali (ai quali un magistrato potrà accedere dopo almeno 10 anni di servizio). Infine tra le proposte della ministra c’è il ritorno della laurea abilitante: gli aspiranti magistrati non dovranno più svolgere un dottorato o frequentare una scuola di specializzazione prima di tentare il concorso. Dove però dovranno affrontare più prove scritte, proprio quelle che hanno fatto cadere il 94% dei partecipanti all’ultimo concorso. Csm, la riforma elettorale Cartabia favorisce le correnti e spacca le toghe di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2021 “Col nuovo sistema sottomessi i magistrati liberi”. Il governo vorrebbe modificare l’attuale sistema elettorale per Palazzo dei Marescialli in questo modo: al posto di un unico collegio nazionale ci sarebbero sette collegi più piccoli, che eleggerebbero i due candidati più votati. I consiglieri Ardita e Di Matteo: “Sarebbe il trionfo del correntismo e del bipolarismo che provocherà ulteriori spaccature e conflitti”. Articolo 101: “Improbabile che si possa ottenere l’elezione di un candidato indipendente, fuori da certe dinamiche”. Al momento non c’è alcun testo definitivo, ma solo i retroscena dei giornali e bozze di documenti che hanno fatto irritare pure l’Associazione nazionale magistrati. Come era già successo per la giustizia penale, infatti, anche per la riforma del Consiglio superiore della magistratura bastano le anticipazioni per scatenare le polemiche. Ieri la guardasigilli, Marta Cartabia, era intervenuta ad Atreju alla festa di Fratelli d’Italia per spiegato che quello del Csm “è il prossimo imminente appuntamento di riforme”. Non potrebbe essere altrimenti visto che la riforma di Palazzo dei Marescialli è stata chiesta a più riprese pure direttamente da Sergio Mattarella. Ecco perché già in mattinata la ministra ha visto le forze di maggioranza. La guardasigilli si è confrontata sulle principali novità che il governo intende inserire in un emendamento al disegno di legge in discussione alla Camera. Proposte già anticipate negli incontri con l’Associazione nazionale magistrati, che hanno fatto infuriare alcune componenti delle toghe. Il motivo? La nuova legge elettorale per Palazzo dei Marescialli, secondo alcuni addetti ai lavori, ha come effetto quello di rafforzare le correnti. Un risultato completamente opposto a quello che in teoria dovrebbe essere raggiunto con la riforma. Già ieri Cartabia aveva messo le mani avanti: “È ovvio che i sistemi elettorali possono incidere, ma l’abbiamo visto sul campo politico: non è lì che cambi gli attori che poi giocano la partita”. Ecco perché nelle ultime ore si ragiona di correttivi per tutelare la rappresentanza di “gruppi minoritari”. Ma andiamo con ordine. Secondo quanto trapelato nelle ultime ore il governo vorrebbe modificare l’attuale sistema elettorale per il Csm in questo modo: al posto di un unico collegio nazionale ci sarebbero sette collegi più piccoli. Uno sarebbe riservato ai giudici di legittimità, due per i pubblici ministeri, quattro per i giudici. Il numero dei consiglieri togati sarebbe invariato: quindi per coprire 16 seggi ogni collegio elegge i due candidati più votati con preferenza unica. Gli altri due posti vengono scelti tra i migliori terzi classificati. Un meccanismo che ha provocato la reazione di Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, consiglieri togati eletti con Autonomia e Indipendenza a Palazzo dei Marescialli. “La nuova legge elettorale per la elezione del Csm prevedrebbe un sistema binominale con piccoli collegi. Questo farà sparire ogni possibile opposizione allo strapotere delle correnti che sottometteranno definitivamente i magistrati liberi che sono la maggioranza. Sarebbe il trionfo del correntismo e del bipolarismo che provocherà ulteriori spaccature e conflitti”, dicono i due magistrati. Secondo Ardita e Di Matteo, infatti, la creazione di collegi più piccoli agevola le correnti che hanno più potere elettorale nei territori e dunque possono facilmente spingere i loro candidati tra i primi due posti. Ecco perché parlano di bipolarismo. “La governabilità - continuano i due consiglieri del Csm - che si basa su maggioranze stabili è il peggior nemico dell’autogoverno dei magistrati. Perché sacrifica il merito e premia chi milita nei gruppi che hanno più numeri al Csm. Esattamente l’opposto di ciò che aveva pensato il Costituente nell’interesse dei cittadini che meritano una giustizia serena ed indipendente: i magistrati sottomessi ad un potere interno e non previsto dalla Costituzione”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche i magistrati di Articolo 101, il gruppo nato in polemica con le correnti della magistratura. “Se dovesse essere confermato questo meccanismo di designazione è improbabile che si possa ottenere l’elezione di candidati non designati da correnti e dunque fuori da certe dinamiche”, dice Andrea Reale, componente dell’Anm di Articolo 101. Come altri componenti del sindacato delle toghe, neanche Reale ha ricevuto dei testi definitivi sulla riforma. “Però - aggiunge- posso dire che se con una norma simile non solo non si debella il correntismo ma anzi si mortificano le istanze di tutti i magistrati che non vogliono appartenere ad alcun gruppo”. Anche secondo Reale questo tipo di norma crea una sorta di bipolarismo in toga, “avvantaggiando di fatto le correnti più forti”. Unico piccolo elemento positivo, per il magistrato di Articolo 101, è il sorteggio, che la nuova legge introduce in caso di candidature insufficienti e per eventualmente assicurare la parità di genere. “Almeno viene sdoganato un meccanismo che noi vorremmo fosse utilizzato per individuare tutti i candidabili. In questo modo, però, il sorteggio è residuale per le corazzate: servirà a trovare i riempilista che però non prenderanno più di qualche decina di preferenza. Così la ragion d’essere del sorteggio è totalmente frustrata e la sua previsione è inutile”. Una irritazione sotterranea si registra anche nelle altre componenti dell’Anm: un malumore legato anche al fatto che la ministra non ha fornito testi scritti. “Senza carte in mano è più difficile ragionare”, dicono fonti del sindacato delle toghe al fattoquotidiano.it. Fastidio trapela persino Area, una delle correnti che potrebbe essere avvantaggiata dalla nuova norma elettorale. Già in passato dalla corrente progressista della magistratura avevano criticato la creazione di collegi troppo piccoli perché “non garantiscono trasparenza dei meccanismi di aggregazione e favoriscono gli accordi e i patti di desistenza tra le correnti organizzate, rendendo estremamente difficile, se non impossibile, la affermazione di candidati indipendenti”. Insomma: la riforma che doveva ridimensionare il potere delle correnti rischia di rafforzarle. Lazio. Carceri: “Mai più bambini dietro le sbarre”, approvata mozione in Consiglio regionale radicali.it, 10 dicembre 2021 “Il Consiglio regionale del Lazio ha approvato questa mattina una nostra mozione che chiede di intervenire presso il Governo affinché i provvedimenti legislativi a oggi sospesi, che consentirebbero ai bambini di non entrare più in carcere insieme alle loro madri, vengano al più presto approvati”. Così in una nota Alessandro Capriccioli, capogruppo di +Europa Radicali, e Marta Bonafoni, capogruppo della Lista civica Zingaretti, presso il consiglio regionale del Lazio. “I punti cardine della mozione sono due: il primo chiede al Presidente di intervenire presso gli organi competenti affinché venga discussa e approvata la modifica della legge 62/2011, attualmente ferma in commissione giustizia alla Camera, che individua le case famiglia protette come destinazione prioritaria per le donne con bambini; la mozione chiede poi che sia emanato il decreto ministeriale per ripartire tra le regioni il fondo destinato dalla legge di bilancio 2021 proprio alle case famiglia protette, consentendo così che possa essere effettivamente utilizzato. In Italia, attualmente, le case famiglia protette sono solo due, di cui una sul territorio della nostra regione (la casa di Leda, che oggi ospita 6 donne con 8 bambini): ma la questione dei bambini in carcere, che torna ciclicamente all’attenzione dell’opinione pubblica e del legislatore, richiederebbe un potenziamento è un incremento di queste strutture. Per questo riteniamo che l’approvazione di questa mozione sia particolarmente importante, e ci auguriamo che altri consigli regionali insistano sul punto affinché governo e parlamento affrontino definitivamente la questione: nessun bambino dovrebbe più varcare la soglia di un istituto penitenziario”. Ascoli Piceno. Si è impiccato in cella, lo aveva annunciato nelle lettere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 dicembre 2021 Aveva detto di non farcela più. Alla fine, mercoledì, è stato ritrovato impiccato nel carcere di Ascoli Piceno dai compagni di cella dopo l’ora d’aria. Aveva comunicato di essere ridotto a 50 kg di peso, di vomitare ogni giorno oltre a essere sofferente delle patologie psichiche documentate agli atti. Aveva detto di non farcela più. Alla fine, mercoledì, è stato ritrovato impiccato nel carcere di Ascoli Piceno. A trovare senza vita Roberto Franzè nella sezione “alta sicurezza” del carcere, attorno alle 11, sono stati i suoi compagni di cella, rientrati dall’ora d’aria. Gli agenti penitenziari non hanno potuto fare nulla per salvare l’uomo che si sarebbe suicidato utilizzando un lenzuolo.Un suicidio annunciato quello di Ascoli Piceno, come accade non di rado nelle carceri italiane. Sulla morte di Franzè si sono espressi i legali dell’uomo, Giambattista Scalvi e Anna Marinelli del foro di Bergamo: “È stato un suicidio annunciato da lettere quotidiane ai magistrati dei procedimenti nei quali era indagato”. Gli avvocati di Franzè, proseguono sottolineando che due giorni prima del tragico evento, “il proposito suicidario era stato di nuovo comunicato da parte dei difensori alle istituzioni competenti. Franzè aveva comunicato di essere ridotto a 50 kg di peso, di vomitare ogni giorno oltre ad essere sofferente delle patologie psichiche documentate agli atti. Aveva detto di non farcela più e di non poter attendere la sciatteria degli enti pubblici nel ritrovare una comunità che potesse ospitarlo per le proprie patologie”. Roberto Franzè, 45 anni, d’origini calabresi, in passato era residente in Valtrompia, attualmente a Pumenengo, nella Bergamasca. Era invalido e anche per questo chiedeva di potersi difendere dalle accuse mosse nei suoi confronti, in un contesto diverso da quello di un istituto di pena. A quanto si è appreso, gli avvocati di Franzè avrebbero trovato comprensione per il loro assistito nel magistrato di sorveglianza competente, ma tra questo e il trasferimento in una comunità ci si sarebbe messa di mezzo la burocrazia. L’uomo, ristretto nella casa circondariale di Ascoli Piceno già da tempo, era finito al centro di un’altra inchiesta, l’operazione “Atto finale”, conclusasi con 67 indagati in tutto di cui 14 finiti in carcere, condotta da carabinieri, polizia e Guardia di finanza e coordinata dalla Dda di Brescia, che ha fatto emergere una serie di reati tra cui, usura, estorsione e riciclaggio oltre a un presunto giro di fatture false, con l’aggravante del metodo mafioso. In ottobre, Franzè era stato condannato a tre anni in abbreviato per una tentata estorsione da 100 mila euro, aggravata dal metodo mafioso, ai danni di una coppia di imprenditori della Bassa, minacciati dal 45enne dopo il licenziamento della moglie, all’epoca incinta. La difesa aveva annunciato il ricorso in appello. Aveva cercato di dimostrare la propria innocenza per le accuse delle quali era indagato o imputato e aveva chiesto di poterlo fare da persona libera o con una misura cautelare che gli consentisse di stare con la propria moglie e la propria famiglia anche per le proprie gravi condizioni di salute. Ma alla fine, non ce l’ha fatta più. Con la sua morte, siamo a 52 suicidi dall’inizio dell’anno. Appare sempre di più, una mattanza senza fine. Caltagirone (Ct). Strangola il compagno di cella, nel carcere secondo omicidio da inizio anno Il Giorno, 10 dicembre 2021 Messo alle strette il detenuto ha confessato l’omicidio. Strangola e uccide il compagno di cella. Nuovo caso di omicidio nel carcere di Caltagirone. È stata la scoperta di un uomo senza vita, avvenuta due giorni fa, a fare scattare le indagini della Polizia penitenziaria, affiancata dai carabinieri della Compagnia di Caltagirone. Messo alle strette, il compagno di cella della vittima, ha confessato le proprie responsabilità. La procura di Caltagirone ha subito disposto l’intervento del medico legale e da una prima ispezione cadaverica è emerso che il decesso provocato da una “forma di asfissia meccanica violenta da strangolamento”, sarebbe avvenuto almeno 48 ore prima del rinvenimento del corpo. Il procuratore Giuseppe Verzera e il sostituto procuratore Natalia Carrozzo, hanno chiesto e ottenuto la convalida dell’arresto e l’applicazione della misura cautelare della custodia cautelare in carcere, “sussistendo a suo carico gravi indizi di colpevolezza”. Un mese fa nel carcere di Caltagirone fu scoperto un altro caso di omicidio, quello di Giuseppe Calcagno, avvenuto il 2 gennaio, inizialmente valutato come morte naturale: dalle indagini emerse che fu il compagno di cella a strangolarlo. Roma. Morto legato al letto nel reparto psichiatrico del San Camillo: l’ultima vergogna di Giulio Cavalli Il Riformista, 10 dicembre 2021 Autopsia eseguita all’insaputa dei familiari. L’autopsia sul corpo di Abdel Latif, il 26enne tunisino morto il 28 novembre scorso nel reparto psichiatrico del San Camillo dopo essere stato legato al letto per giorni, è stata eseguita all’insaputa dei suoi familiari. Ad accertarlo è l’avvocato della famiglia, Francesco Romeo, che definisce la condotta “una grave superficialità”. Il legale del 26enne ha raccontato a Repubblica di aver “appreso oggi che è già stata svolta l’autopsia sul corpo di Wissem Ben Abdel Latif. I familiari non sono stati avvisati e non hanno potuto nominare un proprio medico legale per partecipare all’autopsia: si tratta di una grave superficialità”. L’avvocato è pronto quindi per nominare “un consulente che potrà svolgere solo l’esame esterno della salma, mentre alla Procura indicheremo anche i nominativi di altri ragazzi che con Wissem hanno condiviso il viaggio, la quarantena e la restrizione presso il Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria. I familiari vogliono conoscere la verità sulla morte di Wissem”, dice il legale della famiglia. Il legale della famiglia vuole quindi fare valere le testimonianze di tre ragazzi che hanno condiviso la camerata con il migrante tunisino nel Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria, alle porte di Roma, secondo cui Abdel sarebbe stata vittima di aggressioni verbali e fisiche nel Cpr. “Cercheremo di fare chiarezza, con ogni mezzo disponibile, sulle vicende che hanno condotto alla morte Wissem Ben Abdel Latif”, è l’auspicio dell’avvocato. Abdel è approdato al porto di Augusta in Sicilia il 2 ottobre su un barcone con altri migranti e, dopo 14 giorni di quarantena su una motonave, è stato trasferito al Centro per il rimpatrio di Ponte Galeria. Nel Cpr capitolino, secondo i testimoni, inizia il calvario del 26enne. Il giovane nel centro ha subito aggressioni verbali e fisiche, tanto da vivere in uno stato di ansia e paura. Il giovane tunisino, dopo una breve permanenza al Cpr, era stato trasferito in ospedale per presunti disturbi psichiatrici, dove è morto il 28 novembre su un lettino di contenzione. A denunciare la vicenda è la campagna LasciateCIEntrare, su segnalazione del deputato tunisino Majdi Kerbai. La denuncia è stata poi rilanciata dal garante nazionale per i detenuti Mauro Palma, su mobilitazione del garante laziale, Stefano Anastasia, e di Alessandro Capriccioli, consigliere regionale di Radicali/+Europa. La procura di Roma ha aperto un fascicolo e disposto l’autopsia per fare luce sul decesso del giovane 26enne. Isernia. Detenuto morto, compagno di cella assolto dall’accusa di omicidio di Antonio Mangione internapoli.it, 10 dicembre 2021 È stato assolto per non aver commesso il fatto Aniello Sequino, finito sotto processo con l’accusa di omicidio del detenuto Fabio De Luca. Il gup di Isernia, Dott. Sicuranza, ha emanato poco fa la sentenza a carico di Sequino (difeso dall’avvocato Salvatore Cacciapuoti). Anche l’accusa, vista l’assenza degli elementi probatori a carico dell’imputato, aveva chiesto l’assoluzione. Ed in effetti all’esito del processo Sequino è stato assolto da ogni accusa riguardo l’omicidio avvenuto nel 2014. La vicenda giudiziaria - De Luca fu ritrovato senza vita nelle celle del penitenziario, in circostanze poco chiare. Aveva 45 anni quando, nel novembre del 2015, fu portato d’urgenza in ospedale in gravi condizioni. Era recluso per rapina ai danni della madre residente. Il reato ipotizzato inizialmente era quello di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto. Le gravi condizioni in cui versava - grave trauma cranico e conseguenti lesioni cerebrali all’altezza della nuca - ne determinarono il trasferimento a Campobasso per essere sottoposto a intervento chirurgico alla testa. L’11 novembre, dopo circa una settimana di agonia in rianimazione, De Luca muore al Cardarelli a seguito dei traumi riportati. A seguito dell’autopsia si ipotizzò che ad ammazzare De Luca non fu una caduta accidentale, così come si era ipotizzato inizialmente, ma un “trauma cranico multifocale”. Dunque si fece strada l’ipotesi di un pestaggio in cella. Tre ex compagni di detenzione della vittima furono accusati di omicidio dalla procura di Isernia. Tra questi c’è anche Aniello Sequino di Giugliano. Oggi la sua vicenda giudiziaria ha avuto fine con la completa assoluzione. Napoli. “A Secondigliano Mario rischia di suicidarsi. Fatelo uscire dal carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 dicembre 2021 Il caso è seguito dal garante campano Ciambriello. Lo psichiatra consiglia la terapia farmacologica e il ricovero in ambiente idoneo. Il suo difensore ha presentato due istanza di differimento della pena rimaste inevase. Si dice che i suicidi sono imprevedibili, ma non è sempre vero. Soprattutto per quanto riguarda le patrie galere, accade che i segnali dei detenuti ci sono tutti e si possono, quindi, prevenire. Nel carcere di Secondigliano, a Napoli, è recluso un ragazzo di nome Mario Argenio, persona psicologicamente fragile che ha dimostrato, anche poco prima della propria incarcerazione per fatti commessi 13 anni prima, tutta la propria fragilità con gesti autolesionistici. Deve scontrare tre anni di pena, ma la sua situazione è peggiorata. Per lo psichiatra il detenuto Argenio è affetto da Sindrome Depressivo - Ansiosa con sintomi protratti post- Covid - L’avvocato difensore Danilo Iacobacci ha inviato una istanza urgente alla magistratura di sorveglianza per chiedere un differimento pena. Ma tuttora è rimasta inevasa. La preoccupazione trova fondamento anche dall’ultima visita effettuata dallo psichiatra. Nel certificato si legge che il medico ha trovato il detenuto Argenio, affetto da “Sindrome Depressivo - Ansiosa con sintomi protratti post-covid (astenia, abulia, inappetenza) in soggetto con disturbo di personalità fobico- ansiosa e storia di ritardo nell’apprendimento e nel linguaggio con attuale ideazione suicidaria”. Per questo, lo psichiatra consiglia una terapia farmacologica e, soprattutto, un ricovero in ambiente idoneo. Per “idoneo” si sottintende che non può essere il carcere. Dopo la prima istanza rimasta inevasa, l’avvocato tenta nuovamente con la richiesta urgente di differimento dell’esecuzione della pena, in subordine la richiesta della detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, stante la manifesta incompatibilità delle condizioni di salute mentale del ragazzo con la detenzione carceraria. L’istanza è stata integrata allegando diverse certificazioni mediche attestanti i gravissimi problemi psichiatrici e le tendenze suicidarie di Mario Argenio. Secondo il suo avvocato “per come constatato dai familiari, è soggetto incapace di intendere e di volere” - “A tal fine - scrive l’avvocato Iacobacci nell’istanza urgente - si rappresenta che la situazione è allarmante ed i familiari ancora ignorano diagnosi e cure effettuate in carcere, non essendo mai stata consegnata allo scrivente la chiesta documentazione/relazione sanitaria, né mai comunicati i farmaci che si stanno somministrando all’Argenio; il quale, allo stato, per come constatato dai familiari, è soggetto incapace di intendere e di volere, non presente a sé stesso ed in preda ad allucinazioni visive ed uditive”. L’avvocato e la famiglia non conoscono neppure quali diagnosi e cure siano state predisposte in carcere - Com’è detto, il ragazzo è un soggetto psicologicamente fragile, che ha dimostrato, anche poco prima della propria incarcerazione, tutta la propria fragilità con gesti autolesionistici che hanno condotto alle cure del caso negli appositi reparti della sanità pubblica locale. Una condizione patologica che attualmente è giunta ad un punto limite, essendo stato constatato dai familiari che il ragazzo si trova letteralmente fuori di senno, non ragiona ed ha allucinazioni. “Parallelamente - si legge sempre nell’istanza - non è stata ancora consegnata al difensore la documentazione sanitaria richiesta per iscritto al Direttore della Casa di Reclusione, e quindi l’istante difesa e la famiglia del detenuto si trovano nella drammatica condizione di non conoscere neppure quali diagnosi e cure siano state predisposte in carcere, anche perché il Mario è soggetto che francamente, per come constatato dai familiari, non è in condizione di prestare il consenso a trattamenti sanitari”. Il garante della Campania, Samuele Ciambriello, sta seguendo il caso - Il ragazzo però è seguito dal Garante regionale Samuele Ciambriello che subito si è attivato, a seguito della segnalazione dei famigliari. Con non poca difficoltà, visto che Argenio ha fortissimi problemi cognitivi, è stato convinto nel farsi aiutare e trasferito nell’articolazione psichiatrica del carcere di Secondigliano dove può essere seguito meglio. Il problema è che risulta singolare la condanna alla pena carceraria, mentre - come è stato certificato - ha evidenti problemi di ritardo mentale e il carcere gli ha peggiorato lo stato di confusione mentale. Nel frattempo, almeno ad oggi, le istanze per il differimento pena o, in subordine, la detenzione domiciliare, risultano ancora inevase dalla magistratura di sorveglianza. Udine. Covid, in carcere diciotto detenuti contagiati Messaggero Veneto, 10 dicembre 2021 Sono saliti a diciotto i detenuti del carcere di via Spalato positivi al coronavirus. Una situazione che ha costretto già nelle scorse settimane la direzione del carcere e l’Azienda sanitaria ad assumere decisioni drastiche, con la quarantena per tutti i detenuti nella casa circondariale (attualmente sono 128). I positivi sono stati sistemati al piano terra dell’istituto di pena: anche per questo nelle scorse ore la direzione del carcere, in accordo con AsuFc, ha alleviato alcune misure per i detenuti che si trovano ai piani superiori. “Oggi sarà effettuato un nuovo screening”, conferma la direttrice del carcere, Tiziana Paolini, con tamponi molecolari che dovrebbero tra la serata di oggi e la mattinata di domani permettere di capire se e quanti detenuti si sono negativizzati. Il garante Franco Corleone chiede alle autorità di adoperarsi per garantire la dignità dei detenuti, “costretti a stare tutto il giorno con indosso le mascherine Ffp2 e a dover rinunciare ai colloqui con i familiari”. Secondo Corleone “Servirebbe una struttura per le quarantene che sia esterna al carcere. E, più in generale, sarebbe corretto destinare a comunità terapeutiche i detenuti con disagio mentale, oltre a operare una riflessione su quelli in scadenza di pena, con l’obiettivo di alleggerire la situazione di sovraffollamento di una struttura che potrebbe ospitare al massimo 90 persone”. Lecce. “Detenuti al freddo e in celle sovraffollate” di Valentina Murrieri lecceprima.it, 10 dicembre 2021 Un lettore denuncia le condizioni in cui versano i cittadini reclusi a Borgo San Nicola, dove intanto sono iniziati però i lavori in una delle sezioni. Il 16 dicembre la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale incontrerà la dirigenza del carcere e l’associazione Antigone. “Vi scrivo per denunciare lo stato di degrado della casa circondariale di Lecce. I detenuti soffrono il freddo e spesso sono costretti a soggiornare in celle da tre”. Queste le parole che un lettore ha inoltrato alla nostra redazione, per segnalare il problema del sovraffollamento carcerario. “Nemmeno gli animali vengono trattati in questo modo inumano. Se si trovano lì hanno certamente sbagliato ed è giusto che paghino, ma ciò non toglie che si possa sempre rimediare ai propri errori e, con la buona volontà, reintegrarsi nella società”. Una denuncia tutt’altro che priva di fondamento e che trova corrispondenza nelle parole di Maria Mancarella, garante dei diritti delle persone private della libertà personale, interpellata dal nostro giornale. “I termosifoni restano accesi soltanto un paio di ore nel pomeriggio: va da sé che è un tempo insufficiente per riscaldare regolarmente un edificio tanto grande. Il punto è che al mattino, a Borgo San Nicola, i detenuti sono quasi tutti fuori dalle celle: chi per motivi di lavoro, chi di studio. Nel pomeriggio è poi il momento dei video-colloqui via Skype. Senza contare che a Lecce abbiamo un sistema di sorveglianza dinamica pertanto, dalle prime ore del giorno e fino al momento del rientro, tutti i cittadini reclusi sono lontani dalle proprie celle. Tra riscaldamento attivato tardi, infissi datati e problemi di umidità dell’edificio, i detenuti finiscono per restare al freddo. Quando i problemi strutturali sono seri e le dimensioni della spesa particolarmente ingenti, non è semplice trovare soluzioni immediate”, spiega la garante, nominata dall’amministrazione comunale nel 2018. Il problema del freddo avvertito dai detenuti è strettamente legato allo stato dei locali di Borgo San Nicola, con muri che si presentano ormai da anni ricoperti anche da muffa. Complessa e delicata la situazione in cui versa un carcere vecchio, che si è mantenuto tramite una amministrazione ordinaria fatta in economia, tramite il gruppo della manutenzione interna (alla quale collaborano gli stessi detenuti). Finalmente, però, un piano della sezione R (quella in cui sono reclusi i cittadini con sentenze passate in giudicato), è stata svuotata per consentire degli interventi di restauro. “La manutenzione ha comportato inevitabili trasferimenti: alcuni sono stati spostati in un altro edificio, più recente e nuovo, ma un paio di piani non possono essere occupati perchè a disposizione per eventuali quarantene dei detenuti in ingresso e in uscita. Ecco perché, in alcuni casi, si possono trovare tre detenuti nella stessa cella”, continua Mancarella. Tre cittadini reclusi all’interno della stessa stanza prima costituivano una eccezione. Ma, al netto della contingenza dei lavori in corso nel carcere leccese persiste il fenomeno, endemico, del sovraffollamento. “Una certezza relativa a tutte le carceri italiane. Un problema grave e serio che non sembra essere preso nella giusta considerazione, - prosegue - Un terzo dei reclusi ha alle spalle pene brevissime, al di sotto dei quattro anni: molti di loro potrebbero essere ristretti ai domiciliari o affidati in prova ai servizi sociali, ma ciò non accade”. Intanto, il prossimo 16 dicembre la garante incontrerà Antigone, la direttrice dell’istituto penitenziario, la responsabile dell’area sanitaria e la presidente reggente del Tribunale di sorveglianza. Ha assicurato che in occasione di quell’appuntamento chiederà ai dirigenti del carcere un sopralluogo per verificare lo stato e le fasi degli interventi in corso e accertarne i tempi. “Sarà anche l’occasione per illustrare alla cittadinanza i problemi del carcere leccese in tempo di Covid, attenuati però da una gestione che non è delle peggiori, anzi. Durante la pandemia, per esempio, la presenza costante della direttrice e del comandante della polizia penitenziaria, disponibili e preoccupati per le condizioni di salute dei detenuti, ha consentito che al momento delle rivolte in Italia, Lecce non ne restasse coinvolta. Tanto che i detenuti hanno ricevuto l’encomio per come hanno affrontato e gestito i primi, difficili momenti del lockdown”. Di certo c’è che ora il piano di restauro in atto nella casa circondariale interesserà più padiglioni. Man mano che verranno restaurate le sezioni, bisognerà spostare i detenuti nelle altre. Ma si tratta di “sacrifici a fondo perduto”, come li ha definiti Mancarella, in vista di maggiori benefici e di un carcere più nuovo successivamente. Novara. Aggiornato e firmato il protocollo d’intesa sulla Giustizia riparativa di Marco Benvenuti La Stampa, 10 dicembre 2021 Una storia che ha più di dieci anni. La “Giustizia riparativa”, a Novara, ha intrapreso il suo cammino nel 2009 su impulso dell’associazione di volontariato “La logica del cuore” di San Rocco. Nel 2014 è stato firmato un primo protocollo per la costituzione di un tavolo di concertazione e l’organizzazione di un percorso di formazione per mediatori penali, seguito da specifici incontri di formazione. Stamattina in Municipio si è dato un ulteriore impulso al percorso firmando un aggiornamento del “Protocollo di intesa per la Giustizia riparativa”, che vede coinvolti numerosi enti ed associazioni fra cui la Procura dei minori di Torino, la Procura ordinaria di Novara, l’Ufficio interdistrettuale esecuzione pene esterne di Torino e la sua sede di Novara, l’Ordine degli avvocati, cui si è aggiunto lo scorso anno l’associazione “Studi e ricerche di psicologia giuridica” presieduta da Marilinda Mineccia, ex procuratore della Repubblica, presente alla firma assieme al suo successore, Giuseppe Ferrando. “L’attività legata alla Giustizia riparativa oggi più che mai ha acquisito un significato importante per la nostra città - spiega il sindaco Alessandro Canelli. Nel gennaio di quest’anno abbiamo aderito al “Protocollo d’intesa per l’attuazione di interventi di Giustizia Riparativa e di giustizia di comunità” della Regione Piemonte, che prevede il sostegno alla realizzazione degli interventi attraverso la sensibilizzazione dei servizi socio-assistenziali, socio-culturali, delle istituzioni scolastiche e dei servizi sanitari specialistici”. Lo scorso anno il Centro di Giustizia riparativa di Novara, che ha sede in corso Cavallotti 23 presso i Servizi sociali del Comune, ha seguito una trentina di mediazioni, di cui 11 riguardanti persone minorenni. Pistoia. Carcerati-attori, un libro ripercorre il viaggio nell’anima di “Stabat Mater” di linda meoni La Nazione, 10 dicembre 2021 Una pubblicazione che “chiude il cerchio” attorno al cortometraggio che ha visto protagonisti i detenuti del Santa Caterina. Ogni vita porta con sé un lutto, dove “lutto” non è solo cessazione fisica e biologica dell’esistenza ma è anche un’idea privata di morte, quella che ti sfiora quando ti piacerebbe avere una famiglia che ti ama e non ce l’hai, quando un padre violento scarica su di te, bambino, la sua rabbia, quando alla fine le giravolte imprevedibili della vita ti confinano dietro le sbarre, in un buco di disperazione ancora più grande. Perché alla fine “la carcerazione è il vero lutto”. È un viaggio nell’anima dei detenuti quello proposto da “Senza pregiudizio-Dove il cinema si fa riscatto” (Metilene, 2021), il libro che arriva a chiudere il progetto condotto dall’associazione teatrale Electra riuscita a confezionare il cortometraggio “Stabat mater” ispirato a un’opera di Grazia Frisina che tanto successo ha riscosso dove i protagonisti sono proprio i detenuti. Oggi dunque ecco un nuovo, ultimo atto che si inserisce in quella umana catena che vuole restituire dignità al carcerato, che passa attraverso le pagine di questa pubblicazione pronta ad essere presentata venerdì 10 dicembre (ore 10) al teatro Bolognini in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani. Il volume ripercorre la genesi di questa produzione cinematografica, a partire dall’approccio con gli stessi detenuti, ai quali in prima battuta sono state sottoposte tutta una serie di domande utili a “scavare, con discrezione, un profilo privato e che in qualche modo coincideva, in prospettiva emozionale, con la storia di una Madre colta nel momento in cui pare non esserci possibilità alcuna per intervenire. Solo il dolore e solo la paura divampano, in quel tragico momento. Andavo - è il racconto del regista Tesi -per trasferimento a raccontare le loro vite, colte nella stasi più assoluta. Leggendo ancora oggi le schede che conservo gelosamente, non riesco a comprendere totalmente come non si sia riusciti, noi esterni, a non farci soffocare dall’emozioni. Oggi, ho qualche complesso di colpa. Penso di aver avuto la pesantezza di un elefante con costoro, ma penso anche che se non avessi agito con determinazione e talvolta durezza, oggi saremmo sempre a girare la prima scena. Riscoprendo, ora, la loro calligrafia confusa, l’incisione profonda della penna lasciata sul foglio, comprendo come più delle volte il destino per alcuni è segnato”. E ancora: “La detenzione fa riaffiorare, nell’ essere umano, qualcosa di fanciullesco. Imprigioni una persona, ritornerà bambino. Se certe intimità fossero state raccolte su una spiaggia, dagli stessi uomini, guardando il mare, avrebbero sortito senz’altro un effetto diverso. Era il luogo in cui venivano sussurrate le loro confidenze che le rendevano ancora più tristi. Infiniti quesiti mi ponevo all’uscita del Carcere, che ancora oggi non hanno trovato soluzione”. Alla mattinata interverranno l’avvocato Maria Brucale del direttivo Nessuno tocchi Caino, il magistrato di sorveglianza e membro della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario Fabio Gianfilippi, l’attore Giuseppe Sartori (che in Stabat mater è protagonista assieme a Melania Giglio) e il regista del corto Giuseppe Tesi. Modera il giornalista Davide Dionisi. La pubblicazione che è sostenuta da Far.com potrà essere acquistata alle farmacie comunali 1 (viale Adua 40) e 2 (via Manzoni 10) a Pistoia. Palermo. È dolce rifarsi una vita di Alessandro Gassmann La Repubblica, 10 dicembre 2021 I detenuti del carcere minorile di Palermo hanno una nuova chance. Grazie a due eroiche signore. Per tutti noi, molto spesso, un grande cambiamento nella vita equivale a una “seconda nascita”. Per molti ragazzi sfortunati questa possibilità diventa realtà, grazie a Cotti in Fragranza, e alle sue promotrici Nadia Lodato e Lucia Lauro, della cooperativa Rigenerazioni Onlus. Era il 2016 quando decisero di coinvolgere i ragazzi del carcere minorile di Palermo Malaspina in questa avventura: grazie agli insegnamenti dei maestri pasticcieri, i detenuti cominciarono a realizzare prodotti culinari di eccellenza con ingredienti bio e a chilometri zero. Un’iniziativa di altissima qualità e grande impatto sociale, che permette ai ragazzi di diventare autonomi al di fuori del percorso detentivo. Dal 2017 i manicaretti realizzati dalla cooperativa hanno varcato i confini dell’isola, sbarcando sugli scaffali delle botteghe equosolidali di tutta Italia; nel 2019 addirittura sono sbarcati in Belgio; attualmente Cotti in Fragranza vende i propri prodotti in ben sessanta punti vendita tra l’Italia e l’estero. Tre anni fa è stata avviata una collaborazione con Libera Terra: ne è nato un biscotto salato (il “Cecireddo”), con materie prime prodotte nei terreni confiscati alla mafia. Viene poi inaugurato un secondo nucleo operativo nell’ex convento di Casa San Francesco, quartiere Ballarò, per aumentare il numero dei giovani coinvolti, e affiancare alla produzione di biscotti quella di pasti per le mense cittadine. Oggi la cooperativa ha avviato in tutto 43 percorsi professionali, e ha prodotto finora 27 mila chili di ottimi biscotti; e dopo l’apertura del Bistrot Al Fresco nell’ex convento, avvenuta nel 2019, Gambero Rosso ha premiato Cotti in Fragranza come miglior Progetto sociale Food d’Italia. Il Bistrot Al Fresco nell’Alleanza Slow Food dei cuochi. Complimenti dunque a Nadia, Lucia e a tutte le persone di Cotti in Fragranza. Padova. Giotto, la pasticceria del Due Palazzi ha uno spazio in centro Corriere del Veneto, 10 dicembre 2021 Ormai da diciassette anni, la bontà dei panettoni preparati dai detenuti del carcere Due Palazzi (finora acquistabili soltanto online) è conosciuta non solo a Padova ma nel resto d’italia. Da mercoledì prossimo potrà essere maggiormente apprezzata nella nuova caffetteria-pasticceria Giotto che gli stessi detenuti, col supporto della coop sociale Work Crossing di via Forcellini, inaugureranno a due passi dal centro storico cittadino, all’angolo tra corso Milano e riviera Mussato, dove fino a pochi mesi fa c’era lo store di Bang&olufsen. Nel locale, oltre ai rinomati panettoni, sarà possibile gustare pure torte, brioche e pasticcini, sempre elaborati dalle persone attualmente recluse nel carcere di Montà. “Abbiamo deciso di aprire questo spazio in punta di piedi - ha spiegato ieri mattina, durante la pre inaugurazione, il presidente di Work Crossing, Matteo Marchetto - con rispetto per la città che ci accoglie e con la speranza di offrire un’opportunità in più ai padovani. Molti di loro, infatti, già conoscono i nostri panettoni, ma forse non sanno che, al Due Palazzi, i detenuti lavorano praticamente tutti i giorni dell’anno, preparando tanti altri prodotti di pasticceria. E proprio per questo motivo, abbiamo pensato che fosse giusto allestire questo locale e far sapere a tutti quanto succede in quello che è sicuramente un luogo di punizione, dove sono detenute persone che hanno sbagliato, ma che è anche un luogo in cui queste stesse persone - ha aggiunto Marchetto - chiedono di essere rieducate per tentare, almeno in parte, di restituire alla comunità ciò che le hanno tolto. Insomma, accompagnare al lavoro questi uomini, significa aiutarli, una volta scontata la pena, a ritornare a vivere nella legalità”. Per la cronaca, nel nuovo negozio, che sarà aperto tutti i giorni dalle 7 alle 20, verranno impiegati, a rotazione, 46 detenuti del carcere. Vicenza. “Libere golosità” dal carcere, apre il negozio monomarca vocedeiberici.it, 10 dicembre 2021 In corso Fogazzaro 171A si possono trovare panettoni, pandori, biscotteria prodotti da un gruppo di detenuti della casa circondariale “Del Papa”. Il progetto è curato dalla cooperativa M25. Atmosfera calda, bontà per gli occhi e il palato. Vicenza apre il primo negozio monomarca “Libere golosità”. Si trova in Corso Fogazzaro 171 A, poco prima della chiesa dei Carmini, dall’altra parte della strada. Un ponte tra il carcere e i vicentini attivo dall’8 dicembre (orari 9-12, 15-19), gestito dalla cooperativa M25. In vendita ci sono panettoni, pandori, biscotti, veneziane, crostate, grissini e cracker artigianali, nati dalle mani di un gruppo di 13 detenuti dalla casa circondariale di Vicenza guidati dal maestro fornaio Enzo Smiderle. Dodici ore di lievitazione, nessun conservante, utilizzo di materie prime di qualità. “La vera sfida è la rieducazione attraverso il lavoro - spiega Lorenzo Panozzo di M25, responsabile del progetto -. Dal 2019 la nostra cooperativa ha riattivato il forno all’interno del carcere che era spento da circa tre anni. Abbiamo deciso di creare opportunità di formazione e di lavoro in un settore che sa generare passioni e che può dare sbocco di lavoro al termine della detenzione”. Durante le festività natalizie in negozio si alterneranno tre ragazzi assunti dalla cooperativa, ma “c’è la volontà - spiega Luca Sinigaglia, socio volontario di M25 - di coinvolgere i detenuti anche in attività fuori dal carcere, come la nostra cooperativa è impegnata a fare da tempo. Discuteremo delle modalità dopo l’Epifania”. All’interno del negozio sono in vendita anche prodotti artigianali che provengono da altri carceri e case circondariali d’Italia: la birra da Cuneo, il caffè da Napoli, il limoncello dalla Sicilia. Si trovano anche sacche e borse di stoffa realizzate con materiale di scarto da “Made in carcere”, un gruppo di donne del carcere femminile di Lecce. Tutto è vendibile separatamente o combinato in cesti-dono. Il negozio “Libere golosità” di Vicenza va a rafforzare la rete dei prodotti da forno del carcere già disponibili in una ventina di esercizi: dai punti vendita di Latterie Vicentine ad alcune enoteche del Vicentino. I detenuti lavorano nel forno sei ore al giorno. Hanno tra i 18 ai 50 anni, tra loro c’è anche il giovane Collins, presente alla conferenza stampa di presentazione grazie ad un permesso premio. I panettoni, pandori e biscotti fanno parte anche della rete e-commerce “Economia carceraria”. “Non è ancora possibile acquistare on line i nostri prodotti, ma prendiamo ordinazioni e spediamo in tutta Italia” spiega Lorenzo. Il locale di corso Fogazzaro è di proprietà di Ibap Vicenza che l’ha dato in affitto alla cooperativa. La San Vicenzo, invece, ha messo a disposizione del progetto un Fiorino, indispensabile per la consegna dei prodotti nel Vicentino. “Ringraziamo tutte le persone che hanno reso possibile questa inaugurazione - conclude Lorenzo. Dai direttori del carcere di Vicenza che hanno creduto nel progetto, al comandante della polizia penitenziaria Testa, ai soci della cooperativa impegnati su più fronti”. “Abbiamo davvero tanti ordini e dobbiamo evaderli in tutti i sensi” scherza il responsabile. Il negozio è aperto dall’8 dicembre fino alla fine delle festività natalizie sabato e domenica compresi. Rimarrà chiuso il 25, 26 dicembre, il 27 mattina e il 31 pomeriggio. Info e ordini: 329.6364282. La cooperativa M25 ha aderito in Diocesi alle iniziative di Fondazione Esodo, di matrice Caritas, che dal 2011 mette in rete e dà valore alle diverse iniziative che si occupano di reinserimento sociale e lavorativo di persone in percorso giudiziario, siano esse detenute o in misura alternativa al carcere. M25 condivide questo percorso dal 2014 con Diakonia Onlus, Congregazione delle Orsoline di Breganze, Engim Veneto, Consorzio Prisma, Nova Terra Onlus, ed è in rete con le diocesi di Verona, Belluno, Venezia e Vittorio Veneto. Livorno. “Il tempo creativo della pena”, esposizione opere artigianato realizzate dai detenuti livornopress.it, 10 dicembre 2021 L’iniziativa si terrà sabato 11 dicembre negli spazi del Polo Associativo di via Terreni. Sabato 11 dicembre negli spazi del Polo Associativo (via Terreni, 4) saranno esposte piccole opere di artigianato realizzate dai detenuti del reparto di alta sicurezza del Carcere di Livorno. “Il tempo creativo della pena”, questo il titolo dell’esposizione organizzata dal Garante delle persone private della libertà personale insieme alla Casa Circondariale di Livorno, potrà essere visitata dalle ore 9.30 alle ore 12.30 e dalle ore 16 alle ore 19. “La creatività, la fantasia, lo sviluppo di capacità manuali come antidoto al tempo troppo spesso vuoto della pena - spiega Marco Solimano, garante dei detenuti -. Sono diversi i detenuti nei reparti di alta sicurezza, con pene medio lunghe, a dedicarsi ad attività di piccolo artigianato ma di grandissima qualità e precisione. Un tempo di applicazione sottratto all’ozio dove il raggiungimento di un obiettivo, la dedizione e l’applicazione continuata rappresentano un tempo diverso, tempo della costruzione e della riconciliazione soprattutto con se stessi”. In mostra anche due lavori pittorici dedicati alla lotta contro la violenza sulle donne, quadri che, su richiesta degli stessi detenuti autori, verranno donati ad associazioni impegnate in questa dura battaglia. Per accedere è obbligatorio esibire il green pass. Istat: la decrescita infelice dell’Italia di Flavia Amabile La Stampa, 10 dicembre 2021 La pandemia ha accentuato la recessione demografica. “Dati peggiori dal 1918”. Italia, paese di vecchi e culle vuote. Sono 59.236.213 gli italiani raccontati dall’Istat nel “Censimento della popolazione e dinamica demografica - anno 2020”. Un Paese in cui l’età media aumenta da 45 a 45,4 anni, dove al calo già in corso da anni si è aggiunto il Covid che ha provocato una diminuzione record delle nascite e un aumento delle morti, un inverno demografico, una recessione che appare inarrestabile. Al 31 dicembre del 2020 in Italia si registra, un calo dello 0,7% dei residenti. In un anno la perdita è stata di oltre 400mila persone (405.275), che è come se scomparisse la città di Bologna. Sono nati 405 mila bambine e bambini e sono morte 740mila persone. Il saldo viene definito la sostituzione naturale tra nati e morti ed è negativo, sono 335mila persone in meno. Dall’unità d’Italia per trovare un dato così allarmante bisogna tornare indietro di oltre un secolo al 1918 quando il saldo fu di 648mila persone in meno per effetto dell’epidemia di spagnola che provocò quasi la metà degli 1,3 milioni di decessi registrati in quell’anno. Il prezzo più alto, in termini di vite umane, è stato pagato dal Nord-Ovest dove le morti sono aumentate del 30,2% rispetto al 2019, il doppio della media nazionale che fa registrare un aumento comunque sostenuto del 16, 7%. L’aumento dei decessi è meno evidente nelle regioni del Mezzogiorno dove si ferma all’8,6% per effetto della minore diffusione del Covid durante la prima ondata, la più difficile e pericolosa per l’assenza di vaccini, di terapie e di strutture adeguate nella lotta contro l’epidemia mentre si sono trovate a fronteggiare per la prima volta un incremento importante di decessi solo negli ultimi mesi del 2020. È la Lombardia la regione che sperimenta, in termini di eccesso di mortalità, i dati peggiori: +35,6% rispetto al 2019. Si scoprono più vecchie dopo il 2020 quasi tutte le regioni italiane. In quei dodici mesi per ogni bambino si contano 5,1 anziani a livello nazionale, un valore che scende a 3,8 in Trentino-Alto Adige e Campania, e arriva a 7,6 in Liguria. La Campania, con un’età media di 42,8 anni (42 del 2019), continua a essere la regione più giovane, la Liguria quella più anziana (48,7 come nel 2019). Il comune più giovane è, come nel 2019, Orta di Atella, in provincia di Caserta (età media 35,7 anni), mentre il più vecchio è Ribordone, in provincia di Torino (età media 66,1 anni). Conseguenza dell’invecchiamento della popolazione e di una diversa aspettativa di vita, Italia ci sono più donne che uomini: rappresentano il 51,3% del totale. La prevalenza delle donne, dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione e alla maggiore speranza di vita, si conferma anche nel 2020. Esse rappresentano il 51,3% del totale, superando gli uomini di 1.503.761 unità. Il rapporto di mascolinità è quindi pari a 95 uomini ogni 100 donne, più equilibrato rispetto al 2011 quando si contavano 93,5 uomini ogni 100 donne. Ci sono poi più donne tra i laureati che senza titolo di studio. Il 55, 8% dei titoli terziari di I e II livello, compresi i dottorati di ricerca, è stato conseguito da donne - sottolinea l’Istat - La prevalenza femminile si ha anche per le licenze di scuola elementare (58,7% contro 41,3%) così come per gli analfabeti e gli alfabeti che non hanno completato un corso di studi (58,3% donne, 41,7% uomini). I diplomi di scuola secondaria di secondo grado o di qualifica professionale si distribuiscono equamente tra uomini e donne mentre per le licenze di scuola media si contano, come nel 2019, 53 maschi e 47 femmine. A livello regionale il gap di genere più importante si ha per coloro che non hanno conseguito un titolo di studio: in Basilicata, su 100 individui 64 sono donne, 63 in Umbria e Marche. Suicidio assistito, la legge va in Aula. “Ma è arretrata rispetto alla Consulta” di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 dicembre 2021 Il referendum eutanasia legale riceve il primo via libera. Obiezione di coscienza e limiti più stringenti: la critica del comitato referendario. Arriverà in Aula a Montecitorio lunedì prossimo, il progetto di legge sul suicidio medicalmente assistito varato ieri dalle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera con i voti contrari di Forza Italia, Lega, Coraggio Italia e Fd’I, malgrado la mediazione dei relatori Alfredo Bazoli del Pd e Nicola Provenza del M5S. Un compromesso che ha portato al risultato di un testo fortemente sbilanciato sui desiderata del centrodestra, tanto da essere bollato come “un frettoloso passo indietro rispetto alla stessa sentenza della Corte costituzionale” dai promotori del referendum “eutanasia legale” che ieri ha ottenuto il via libera della Corte di Cassazione (manca ora solo quello della Consulta). Il pdl licenziato dalle commissioni, infatti, corregge perfino la sentenza dei giudici costituzionalisti nel processo Cappato/Antoniani - “che ha già valore di legge”, come sottolinea l’associazione Luca Coscioni - laddove esclude la sofferenza solo psichica tra i requisiti necessari per poter accedere al suicidio assistito. Tra gli articoli approvati ieri, poi, c’è anche l’introduzione dell’obiezione di coscienza per i medici e per il personale sanitario ed esercente (art. 5), da comunicare “entro tre mesi dalla data di adozione del regolamento di attuazione della legge”, con il solo vincolo per “gli enti ospedalieri pubblici autorizzati” di assicurare “in ogni caso” “l’espletamento delle procedure” del suicidio medicalmente assistito, e per la Regione di controllare e garantirne “l’attuazione”. Secondo la pdl emendata nelle riunioni congiunte delle commissioni, “il decesso a seguito di morte volontaria medicalmente assistita è equiparato al decesso per cause naturali a tutti gli effetti”. Dunque, non sono punibili medici e personale sanitario e amministrativo “che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita, nonché a tutti coloro che abbiano agevolato in qualsiasi modo ad attivare le strutture per portare a termine la procedura” (art. 7). Non solo: la legge, in linea con i pronunciamenti della Consulta, prevede una sanatoria anche per i casi precedenti: “non è punibile chiunque sia stato condannato, anche con sentenza passata in giudicato, per aver agevolato in qualsiasi modo la morte volontaria medicalmente assistita di una persona prima dell’entrata in vigore della presente legge, qualora al momento del fatto ricorressero i presupposti e le condizioni” richieste per un paziente che abbia espresso la propria “volontà libera, informata e consapevole”. Così, se per i presidenti delle due commissioni Mario Perantoni e Marialucia Lorefice, entrambi 5 Stelle, quello ottenuto è “un ottimo testo”, “migliorato” rispetto al precedente, secondo il dem Bazoli, grazie ad un “lavoro accurato e costruttivo” da parte di tutte le forze politiche, per Cappato invece “il ddl è un’occasione mancata perché non prevede termini certi per evitare boicottaggi istituzionali come quello in atto contro “Mario” nelle Marche e perché conferma la discriminazione dei pazienti che non sono “tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale”, come ad esempio i malati di cancro, che sono i casi più frequenti di richiesta di aiuto a morire”. Anche per +Europa - che ha firmato il testo insieme a Pd, M5S, Leu e Iv - però il ddl, “votato sbrigativamente dopo anni di paralisi”, è “gravemente insufficiente”. È il giudizio espresso dal presidente del partito, Riccardo Magi, che in un tweet scrive: “Scopo: portare in Aula un testo quale che sia, rinviando le scelte sui nodi non sciolti. Esito prevedibile: lo stesso del Ddl Zan. I nodi non sciolti ora non lo saranno dopo”. Fine vita, ecco perché il disegno di legge finirà (male) come la legge Zan di Daniela Preziosi Il Domani, 10 dicembre 2021 Dal 13 dicembre inizia l’iter alla Camera, ma i nodi più sensibili non sono stati sciolti. E il destino è segnato: la legge sarà abbattuta in aula a voto segreto. In questa settimana si concluderà la discussione generale, sarà fissato il termine per gli emendamenti. Ma i voti arriveranno a gennaio, o più probabilmente dopo l’elezione del nuovo capo dello stato. Intanto la Cassazione ha annunciato che le firme sul referendum per l’eutanasia sono legali. Per Cappato e Magi la legge in parlamento è un arretramento rispetto alla sentenza della Consulta. “La legge sul fine vita finisce come la Zan”. A taccuini chiusi, sono molti i deputati che sono pronti a scommetterlo. Stavolta senza troppi traumi, ma con la messa in scena di molti conflitti, la legge Bazoli che da lunedì 13 dicembre inizierà il suo iter in aula a Montecitorio si avvia a essere bocciata in uno dei tanti voti segreti che è facile prevedere. Ma con calma. Non subito, e forse neanche dopo le feste, ma dopo l’elezione del capo dello stato. Dopo la discussione generale, che si concluderà probabilmente già la prossima settimana, ci sarà un primo stop. Il secondo rinvio probabilmente arriverà a gennaio. Il 9 dicembre in seduta congiunta le commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera hanno concluso il primo esame del testo sul suicidio assistito. Alfredo Bazoli, cattolico e capogruppo Pd in commissione Giustizia - e primo firmatario della legge insieme al grillino Nicola Provenza - ha ringraziato tutti, anche le destre, per “lo spirito costruttivo” in commissione e si è augurato “che lo stesso spirito di confronto e dialogo possa essere mantenuto anche in aula, per consentire al parlamento di approvare una legge in linea con i princìpi e le raccomandazioni della Corte costituzionale, su un tema delicato che ci riguarda tutti senza distinzioni”. Il riferimento è alla sentenza numero 242 del 2019, arrivata dopo anni di disobbedienza civile e battaglie legali di Marco Cappato, ex parlamentare radicale, per il caso di dj Fabo, morto in Svizzera con il suicidio assistito il 27 febbraio del 2017. Ma c’è davvero poco da stare allegri, secondo Riccardo Magi, di +Europa e fra i promotori del referendum sull’eutanasia legale: “Vedo un giubilo immotivato per l’approvazione in commissione di un testo sul fine vita che è gravemente insufficiente e stranamente sbrigativo, dopo anni di inadempienza”. Secondo il radicale italiano ci sono almeno tre motivi perché la legge possa essere considerata un “indietreggiamento” rispetto alla sentenza della Consulta: “Si richiede per il malato che voglia scegliere il suicidio assistito la presenza di sostegni sanitari vitali, e con questo si escludono alcune tipologie di malati oncologici; si prevede che i malati debbano essere coinvolti in percorsi di cure palliative, una norma assai fumosa, peraltro non si capisce il concreto significato del concetto di “coinvolgimento”; e infine l’obiezione di coscienza rischia di svuotare la legge, almeno in alcune regioni in cui aderirà la totalità dei medici, come già avviene per la legge 194 sull’interruzione di gravidanza”. Insomma la verità sarebbe che sono stati rimessi all’aula tutti i nodi sensibili, che dovevano essere affrontati in commissione. E i voti segreti faranno la loro parte per abbattere la legge. Anche secondo Magi “il testo farà la stessa fine del ddl Zan”. Ma se per la Zan si poteva concedere al Pd il beneficio della buona volontà, in questo caso traspare la scelta consapevole di portare in aula una legge pur che sia, da immolare al solo scopo di scaricare sulla destra - che il testo non lo vuole e che in commissione ha imposto emendamenti che poi non ha votato - tutta la responsabilità di un nuovo fallimento. Anche stavolta per coprire malumori interni. Raccontando, come fanno al Nazareno, un’altra storia, molto edificante, e cioè quella di “avere imparato la lezione della legge Zan” e cioè di “non aver personalizzato” la legge, e di “non aver agitato bandierine e aver cercato al massimo un percorso condiviso”. E invece le cose stanno diversamente anche secondo Marco Cappato, fra l’altro anche tesoriere dell’associazione Luca Coscioni e promotore della campagna “Eutanasia legale”, e secondo Matteo Mainardi, coordinatore della campagna. “Se approvato rappresenterebbe un passo indietro rispetto alla stessa sentenza della Corte costituzionale”, dicono in una nota congiunta, “Dopo tre anni di attesa, parlamentari stanno dedicando poche ore per approvare norme che restringono l’applicazione della legge già in vigore grazie alla sentenza della Consulta, perché introducono l’obiezione di coscienza ed escludono la sofferenza di natura solo psichica”. Il disegno di legge è “un’occasione mancata” anche perché non prevede termini certi “per evitare boicottaggi istituzionali” come quello in atto contro “Mario” (l’uomo marchigiano che da anni chiede di poter morire, ndr) e perché conferma la discriminazione dei pazienti che non sono “tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale, come i malati di cancro, che sono i casi più frequenti di richiesta di aiuto a morire”. La Corte di Cassazione ha comunicato che le oltre 500mila firme sul referendum sull’eutanasia legale sono valide. “Lo sapevamo, ma è una buona notizia”, twitta Cappato. Con un parlamento così atterrito dallo scontro, e una maggioranza di governo affaccendata in tutt’altro, la strada della legge ancora una volta è quella del referendum. Sempreché la Consulta ammetta il quesito, il termine è entro il 10 marzo. Migranti. Violenza, morte e ambiguità di Antonello d’Elia* quotidianosanita.it, 10 dicembre 2021 La morte del giovane uomo tunisino Abdel Latif avvenuta nel reparto psichiatrico dell’Ospedale San Camillo di Roma riporta drammaticamente l’attenzione su situazioni di violenza e cause di sofferenza psichica e fisica che sempre più di frequente passano inosservate. La prima riguarda le condizioni con cui uomini, donne, ragazzi e bambini affrontano un percorso migratorio rischioso, insidioso, pieno di pericoli. Che sia il mare nostrum o i boschi polacchi le migliaia di persone che tentano di varcare la soglia d’Europa incontrano respingimenti, maltrattamenti, violenza inflitta o gratuita. Non è umano viaggiare su imbarcazioni precarie né dormire nei gelidi boschi del Nord Europa, e non è umano, per coloro che a questa prova sopravvivono e riescono in qualche modo a varcare la soglia, essere rinchiusi, concentrati in luoghi di sospensione, spazi liminari in cui vengono detenuti senza titolo, ambiguamente trattenuti per un inedito reato, quello di voler vivere, sfuggire alla miseria, alla violenza inflitta da altri esseri umani. Abdel Latif aveva dovuto sopportare un’ulteriore tappa sostando per giorni su una nave quarantena, perché la pandemia da Covid-19 comporta anche questo, prima di giungere nel CPR di Ponte Galeria. Aveva problemi psichici, si è scritto. Come se, per una sorta di malinteso darwinismo, sopportare promiscuità, maltrattamento o abbandono, fosse un requisito necessario per accostarsi al territorio nazionale. Per chi dovesse patire tutto ciò e dar segni di cedimento c’è sempre una diagnosi psichiatrica per confinare una sofferenza umana in una categoria medica che ne circoscrive l’indocilità e disattiva la ribellione. Alla violenza del viaggio, a quella della limitazione forzata del CPR, si unisce allora quella della psichiatria. A morte avvenuta, si discute tra CPR e ospedali. I familiari parlano di una telefonata in cui Abdel dice di percosse, ma ci si può fidare delle famiglie? Il consulente intervenuto al CPR lo ha inviato in ospedale dove specialisti potessero esercitare la loro scientifica competenza su un giovane uomo sofferente, di sicuro insofferente per vicende che forse qualcuno avrebbe potuto ascoltare prima che ricoverare, rinchiudere, sedare farmacologicamente e legare a un letto. Da un ospedale a un altro per fare diagnosi psichiatrica: che sofisticata procedura! Fatto sta che il giovane è morto. Interrogati i medici diranno che non era chiara la diagnosi, che era violento, aggressivo e per la sua tutela andava messo in sicurezza (è così che si dice). Forse diranno che non era prevedibile che i farmaci somministrati potessero avere effetti avversi fino all’esito mortale, cose che vengono insegnate, ribadite in ottimi convegni sponsorizzati dalle stesse aziende che quei farmaci producono. Alla prima violenza istituzionale di un CPR, snodo di un sistema di accoglienza che non accoglie nessuno, non produce reimpatri, non ascolta nessuno, non tollera comportamenti meno che sottomessi, si è aggiunta quella di un ospedale che non cura e tratta la sofferenza come una trasgressione da punire. È bene che il garante si sia interessato a questa vicenda che, purtroppo, ne segue altre, troppe, che vedono protagoniste persone in difficoltà che subiscono inermi i reati contro la persona che un sistema psichiatrico loro infligge e che in queste circostanze muoiono. Ma è bene anche che questa storia non rimanga tra le aule di un tribunale e che si sollevi finalmente il velo su pratiche quotidiane che violano il codice penale, quello deontologico, e la legge morale. Un’ultima notazione riguarda il ruolo della medicina e degli psichiatri. Molti sosterranno che la contenzione meccanica, cioè legare a un letto, è un atto medico, di premura in quanto risparmia al paziente l’eccessiva somministrazione di medicinali. Non tengono conto della violenza fisica e psicologica di quegli atti, ma gli psichiatri, si dirà, non si occupano di psicologia bensì di corpi malati. Nessuno, sono sicuro, si proclama assertore della violenza e non dell’empatia, del totalitarismo e non della democrazia, del maltrattamento e non del rispetto, nemico della legge 180, forse migliorabile ma mai rinnegabile. Eppure le contenzioni messe in atto tutti i giorni in più dell’80% degli SPDC (vedi anche i dati SIEP) non appaiono coerenti con le premesse, anzi le tradiscono. Come ricorda Simona Argentieri in un prezioso piccolo saggio (Einaudi 2008), l’ambiguità sostiene comportamenti che sono il sintomo di un forte disagio sociale e psichico. E sono invasivi perché dilagano nel quotidiano, nella politica. E anche in psichiatria. Non si tratta di coerenza ma di segnali di confusione, di scissione tra istanze che, per non cozzare tra loro e procurare dolore, finiscono per essere separate, divise. Ecco allora che chi si pensa identificato con una disciplina scientifica, non rinuncia a chiedere il consenso per i suoi atti, valorizza pazienti e familiari, modula terapie farmacologiche individualizzate, sostiene di promuovere autonomia e non assistenza, dimostra con evidenze l’efficacia di tutte queste pratiche. Ma, al contempo, dimentico di tutto ciò, infantilizza i pazienti, doma i loro corpi per sottometterne le menti, li lega, li seda, affibbia loro etichette diagnostiche il cui scopo diventa giustificare l’impiego di un farmaco. Con buona pace della psicopatologia, delle buone letture fatte e dei colti insegnamenti che ha ricevuto. Ambiguità. Una dimensione clinica che diventa male morale e fenomeno sociale. Forse anche per questo è arrivato il momento di reagire, di intervenire. Non contro la psichiatria e gli psichiatri, ma per la salute di entrambi. *Presidente di Psichiatria Democratica Le missioni militari? “Servono a difendere l’industria del petrolio” di Luca Martinelli Il Manifesto, 10 dicembre 2021 La denuncia in un rapporto europeo curato da Greenpeace. Il 64 per cento della spesa italiana destinato alla protezione di fonti fossili. Le missioni militari italiane, e anche quelle di altri Paesi europei, servono a proteggere gli interessi dell’industria del petrolio e del gas. Le risorse della difesa, quindi, finiscono per aggravare la crisi climatica. È la sintesi brutale del rapporto europeo “The sirens of oil and gas in the age of climate crisis”, curato da Greenpeace Italia. Per quanto riguarda il nostro Paese, il 64 per cento della spesa italiana per le missioni militari è destinato a operazioni collegate alla difesa di fonti fossili, per un totale di quasi 800 milioni di euro spesi nel solo 2021 e ben 2,4 miliardi di euro negli ultimi quattro anni. In particolare, sono due le missioni militari - l’operazione Gabinia nel Golfo di Guinea e l’operazione Mare Sicuro al largo della costa libica - che hanno come primo compito la “sorveglianza e protezione delle piattaforme di Eni ubicate nelle acque internazionali”. Il virgolettato è tratto dall’ultima relazione sullo stato della spesa, sull’efficacia nell’allocazione delle risorse e sul grado di efficienza dell’azione amministrativa svolta dal ministero della Difesa. È il ministro Lorenzo Guerini, insomma, a collegare molte missioni militari alla tutela di fonti fossili. Oltre alla Libia ci sono anche quelle in Iraq (il cui crollo “metterebbe a repentaglio la nostra sicurezza energetica”, secondo le parole usate dal ministro) e quelle nel Mediterraneo orientale (dove è necessaria “una nostra presenza più regolare” dato che “la possibilità di sfruttamento delle risorse energetiche è fortemente condizionata dal contenzioso marittimo in corso”). Anche le operazioni militari in zone strategiche per le nostre importazioni di petrolio e gas, come il Golfo di Aden e lo Stretto di Hormuz, hanno la finalità di proteggere la “sicurezza energetica” del Paese. Nei prossimi mesi, inoltre, l’Italia dovrebbe aderire anche alla missione Ue nella provincia di Cabo Delgado (Mozambico), dove secondo il ministro gli scontri stanno causando “interruzioni dell’attività estrattiva”. Il rapporto di Greenpeace Italia ha analizzato anche le missioni militari di Nato, Unione europea, Spagna e Germania, stimando che circa due terzi delle operazioni militari dell’Ue servono a tutelare attività di ricerca, estrazione e importazione di gas e petrolio. Negli ultimi quattro anni, i tre Paesi oggetto dell’indagine (Italia, Spagna e Germania) hanno speso più di 4 miliardi di euro per la protezione militare degli interessi petroliferi e gasiferi. Per l’organizzazione ambientalista si tratta di un vero paradosso, considerando che oggi la più grave minaccia per l’umanità è rappresentata dal riscaldamento del Pianeta: anziché sprecare risorse per difendere gli interessi dell’industria del gas e del petrolio, si dovrebbero proteggere le persone dagli impatti della crisi climatica alimentata proprio dallo sfruttamento delle fonti fossili. Il Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici ha stimato per l’Italia “un aumento della probabilità del rischio meteorologico estremo di circa il 9%” negli ultimi 20 anni (1999-2018). In occasione della COP26 di Glasgow, il governo italiano ha anche firmato la “Dichiarazione sul sostegno pubblico internazionale per la transizione all’energia pulita”, che impegnerebbe il Paese a porre fine a nuovi sostegni pubblici diretti al settore energetico internazionale delle fonti fossili non abbattute entro la fine del 2022. Greenpeace Italia chiede perciò al governo Draghi lo stop immediato alla protezione militare delle fonti fossili, il cui impatto devastante sulla crisi climatica è da tempo assodato scientificamente. “La sicurezza energetica di cittadine e cittadini si tutela investendo in fonti rinnovabili, non facendo gli interessi delle compagnie dei combustibili fossili con missioni militari all’estero”, commenta Chiara Campione, portavoce di Greenpeace Italia. Il rapporto dice in fondo una cosa semplice e cioè che archiviando petrolio e gas e investendo sulle energie rinnovabili, “avremmo un triplice effetto positivo”: a una riduzione del rischio di scontri militari si accompagnerebbe anche un intervento per il miglioramento delle condizioni climatiche e un risparmio di risorse economiche che potrebbero essere destinate a misure urgenti, come una transizione ecologica più giusta, e un miglioramento delle strutture del welfare europeo. “E terremo fede - conclude Greenpeace - alla promessa di un continente, l’Europa, che si propone come elemento di pace, stabilità e cooperazione internazionale”. L’altra pandemia, l’impatto del Covid sulla malaria: 14 milioni di casi in più di Noemi Penna La Stampa, 10 dicembre 2021 I dati dell’Oms: 69mila decessi in più. Solo nel 2020 ci sono stati 241 milioni di casi e 627 mila decessi. 14 milioni di casi e 69 mila decessi in più: sono questi i numeri dell’impatto che ha avuto il Covid sulla malaria. I nuovi, tutt’altro che positivi, dati, sono stati diffusi oggi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, rivelando come la pandemia abbia interrotto i servizi essenziali contro la malaria, portando a un marcato aumento delle infezioni e dei morti. Solo nel 2020 ci sono stati 241 milioni di casi e 627 mila decessi e non ci sono motivi per credere che i dati 2021 siano molto diversi, appurato che due terzi di questi “morti aggiuntivi” sono direttamente collegati all’interruzioni nella fornitura di prevenzione, diagnosi e trattamenti nell’Africa subsahariana, assistenza che risulta esser stata ridotta anche quest’anno. L’Africa subsahariana continua a portare il carico di malaria più pesante, rappresentando circa il 95% di tutti i casi mondiali e il 96% dei decessi, l’80% dei quali sono bambini sotto i 5 anni. Tuttavia, la situazione avrebbe potuto essere ancora peggio. Nei primi giorni della pandemia, l’Oms aveva previsto che, a causa delle interruzioni del servizio, i decessi sarebbero potuti raddoppiare, ma l’adozione di misure urgenti hanno scongiurando lo scenario peggiore. “Anche prima che scoppiasse la pandemia, i progressi globali contro la malaria si erano stabilizzati”, ricorda Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, che ha stimato un ritardo del 40% rispetto a quelli che erano gli obiettivi previsti nel 2015. “Grazie al duro lavoro delle agenzie di sanità pubblica nei paesi colpiti dalla malaria, le peggiori proiezioni dell’impatto di Covid non si sono avverate ma ora dobbiamo sfruttare la stessa energia e impegno per invertire questa battuta d’arresto e intensificare il ritmo dei progressi contro la malattia”. Negli ultimi cinque anni, sono stati 24 i paesi che hanno registrato un aumento nei decessi per malaria. Per tornare in carreggiata, l’Oms e i suoi partner riconoscono “la necessità di garantire un accesso migliore e più equo a tutti i servizi sanitari, compresa la prevenzione, la diagnosi e il trattamento della malaria, rafforzando l’assistenza sanitaria di base e intensificando gli investimenti nazionali e internazionali”. Un nuovo importante strumento di prevenzione è rappresentato dal vaccino Mosquirix prodotto da GlaxoSmithKline, il primo approvato dall’Oms contro un parassita umano, raccomandato a tutti i bambini che vivono in zone dove la trasmissione è da moderata a severa. Ma secondo il World malaria report 2021 “per raggiungere gli obiettivi 2030, compresa una riduzione del 90% dell’incidenza globale della malaria e dei tassi di mortalità, serviranno nuovi approcci, strumenti e una migliore attuazione di quelli esistenti”. Inutile dire che saranno necessari robusti finanziamenti: le sovvenzioni attuali di 3,3 miliardi di dollari all’anno “dovranno più che triplicare, raggiungendo i 10,3 miliardi di dollari entro il 2030”. “Mentre i Paesi africani hanno raccolto la sfida ed evitato le peggiori previsioni di ricaduta da Covid, l’effetto a catena della pandemia si traduce ancora oggi in migliaia di vite perse”, ha spiegato Matshidiso Moeti, direttore regionale dell’Oms per l’Africa. “I governi africani e i loro partner devono intensificare i loro sforzi in modo da non perdere ulteriormente terreno a causa di questa malattia prevenibile”. Ma come mai i progressi contro questa malattia evitabile si sono arenati già prima della pandemia? Secondo il dottor Abdisalan Noor, capo dell’unità strategica dell’Oms, “le ragioni variano di Paese in Paese. In alcuni casi, può essere legato a una copertura ridotta degli interventi o ai ritardi di controllo o inefficienze di vario tipo. Altri fattori includono prestazioni scarse o in peggioramento dei sistemi sanitari e anomalie legate al clima, come piogge eccessive e inondazioni. Dal punto di vista finanziario, il livello è rimasto relativamente invariato per diversi anni, nonostante una rapida crescita popolazione e interventi sempre più costosi. Questo ha limitato le risorse disponibili per far fronte alla malattia nei paesi più a rischio”. Sulla base delle stime attuali, “il tasso di incidenza globale dei casi di malaria è di 59 casi per mille persone a rischio, a fronte di un obiettivo di 35, che lo porta fuori target del 40%. Il globale tasso di mortalità oggi è di 15,3 decessi su 100 mila persone a rischio, mentre l’obiettivo era di 8,9”. La vaccinazione ora diventa essenziale: “In Ghana, Kenya, Malawi ha raggiunto più di 830 mila bambini, con un impatto sostanziale sulla salute pubblica. Studi di modellazione hanno dimostrato che è molto efficace anche in termini di costi ma si prevede che l’offerta nel prossimo medio termine sarà limitata. Ecco perché stiamo già lavorando per ampliare le forniture”, conclude Noor. Egitto. I casi di Zaki e Regeni ci mostrano che la ricerca del sapere non è “libera” di Raffaele Romanelli Il Domani, 10 dicembre 2021 Un respiro di sollievo. Patrick Zaki può passare il Natale in famiglia. Poi ricomincerà il calvario, non sappiamo quale. Ma in questo tempo sospeso - Zaki a casa, il caso Regeni nelle paludi delle carte giudiziarie - possiamo porci degli interrogativi. Uno studente che denuncia il trattamento riservato alla minoranza copta, che è impegnato nei gender studies e difende i movimenti Lgbt - l’omosessualità in sé non è illegale in Egitto, ma è oggetto di ogni sorta di censura - come può pensare di tornare a casa per le vacanze senza correre alcun rischio? E come si può pensare che non corra rischi un dottorando che studia l’organizzazione sindacale egiziana mentre scrive su un quotidiano dell’opposizione come Il manifesto? Nessuno insinui un “se la sono voluta”, come nei casi di stupro. L’interrogativo è un altro. Una cosa le due vicende hanno in comune: l’idea che la ricerca accademica, la ricerca del sapere sia “libera”, che goda insomma di uno statuto diverso e parallelo a quello che regola il mondo. È un retropensiero umanistico privo di fondamento ma che ci impedisce di ricondurre lo studio e la ricerca entro i confini della sovranità di ciascuno stato, di affidarla ai controlli delle singole polizie. Non possiamo interrompere la circolazione della cultura, e semmai difendere i nostri ricercatori con le flotte e gli eserciti. E allora dissimuliamo, ci avvitiamo in vane indagini sugli accadimenti, appunto partendo dalle premesse liberali che sono state violate. Il caso Regeni - Si veda il caso della “Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni” che ha condotto nel Regno Unito quattro nostri parlamentari. Doveroso rito, meritevole, e del tutto pleonastico. Evidentemente ignari di quel mondo, i commissari domandavano se Regeni era stato sufficientemente protetto dalle autorità accademiche, se erano coinvolti i servizi segreti, e così via. Hanno ricevuto verbose e paterne lezioni sul gran respiro mondiale dell’accademia britannica, su cosa è una ricerca di dottorato, cos’è una supervisor e così via. E hanno potuto ascoltare testimonianze ripetute, ridondanti, di affetto e partecipazione, e anche di sconcerto per l’assoluta novità dell’accaduto. Non c’è motivo di non credervi. Perché la sorte di Regeni è in effetti senza precedenti: altre volte è accaduto che ricercatori e studenti siano stati fermati, controllati, espulsi, ma mai è successa una cosa simile. Oggi gli studenti sono sotto tiro anche soltanto per le loro ricerche, ha osservato il professor Khaled Fahmi, egiziano. Il giorno del ritrovamento del corpo, ad alcuni - come a me - parve che si fosse trattato di un attacco ad al Sisi per minare i rapporti con l’Italia, che avevano ed hanno particolare rilievo economico ed erano quel giorno rappresentati al Cairo da una ministra. Qualsiasi cosa Regeni fosse venuto a sapere, o avesse scoperto, tale da silenziarlo per sempre, nulla spiega che il suo corpo fosse stato fatto trovare, platealmente, lungo un’autostrada, e con i segni di gravi sevizie. Un segnale terribile. Rivolto da chi a chi? Non lo sappiamo e non tocca a noi italiani indagare su faide interne e rapporti tra poteri. Noi addebitiamo il turpe delitto al regime, che gode di sovranità assoluta ed è responsabile di ogni sorta di arbitrii. Centinaia di persone sono state uccise dai servizi di sicurezza, e non una ha avuto giustizia. Registriamo però ciò che da detto il professor Fahmi: il clamoroso inasprirsi della repressione e l’impunità garantita alle polizie del regime non cambia le ottime relazioni, commerciali e militari, ma anche culturali, dell’Egitto con l’Europa. Nel giorno anniversario della morte di Regeni il ministro egiziano dell’Istruzione superiore ha firmato a Londra un protocollo di intesa e cooperazione, e l’Egitto sta aprendo sedi universitarie europee nella nuova capitale amministrativa come se nulla fosse accaduto. Consideriamo i diritti, lo stato di diritto, come un valore universale, e se viene ferito protestiamo. Ma abbiamo ben pochi strumenti per intervenire: in sostanza, sanzioni economiche e pressioni diplomatiche, fino al rituale e autolesionistico ritiro degli ambasciatori. Un regime ammassa truppe ai confini, un altro alza muri e filo spinato, uno fa mercimonio di poveri migranti, un altro dirotta un aereo di linea a suo piacimento, o fa a pezzi un giornalista in un suo consolato. Mentre ci scandalizziamo, mentre organizziamo proteste e innalziamo cartelli, i regimi sotto accusa rispondono negando l’evidenza, respingendo le accuse come ingerenze intollerabili nell’ordine interno, o facendo professione di lealtà al diritto e ai diritti. Il che è paradossale, ma degno di nota. Così fa l’Egitto di al Sisi, in maniera sempre più appariscente, rinnovando codici e costruendo carceri modello. O mandando a casa per Natale Patrick Zaki dopo averlo tenuto prigioniero senza chiare imputazioni, o prove, o valida difesa per 22 mesi. Siamo felici che Zaki sia a casa per Natale, ma... Egitto. Caso Zaki. Quando aprono la porta della tua cella di Liliana Segre La Stampa, 10 dicembre 2021 Nessun giovane dovrebbe mai finire in una cella, essere privato della libertà senza aver fatto nulla di male. A me successe che avevo 13 anni e so bene cosa significa. Quando la porta di una cella si apre, si aprono in realtà speranze e angosce, possono annunciarti la libertà, oppure un’esecuzione, possono consegnarti una lettera dei tuoi cari oppure portarti nella camera delle torture. Nel caso di Patrick Zaki questa volta si è aperta una speranza e io sono davvero felice che ora questo ragazzo sia libero: nessun giovane dovrebbe mai finire in una cella, essere privato della libertà senza aver fatto nulla di male. A me successe che avevo 13 anni e so bene cosa significa. Avevo votato in Senato per la richiesta di cittadinanza di questo studente dalla faccia simpatica e rimango convinta che gliela si debba concedere. In quell’occasione mi ero autoproclamata idealmente sua “nonna” e figuriamoci quindi se non aprirò la porta a questo “nipote” che spero di riabbracciare qui in Italia quanto prima. Ho letto che a lui farebbe piacere, quindi gli dico di resistere, di tenere duro perché il primo passo verso la libertà è stato compiuto. Mi aveva molto colpito la storia di questo giovane studente universitario tornato in Egitto per incontrare i suoi e incarcerato per un reato di opinione. Storia ancor più impressionante considerando quanto era accaduto a Regeni. E mi aveva toccato un episodio di cui si era venuti a conoscenza: di quando cioè gli avevano aperto la porta della cella e invece di liberarlo lo avevano semplicemente trasferito in un altro carcere. So bene che ansia ti prende quando aprono la porta della tua cella: tu speri sia per rimetterti in libertà ma sai anche che potrebbe essere per qualcosa di tremendo. Aprire una porta ha tanti significati e possiamo sapere cosa succede dopo soltanto attraversando quella soglia. Patrick lo ha fatto e posso solo immaginare con quali timori avrà camminato tra le guardie. Ora è a casa dalla sua famiglia e questo è ciò che conta. Noi qui aspettiamo il suo ritorno fiduciosi. India. Caso Marò: la procura di Roma chiede l’archiviazione di Vincenzo Nigro La Repubblica, 10 dicembre 2021 La Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione per i marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre accusati dell’omicidio di due pescatori indiani avvenuto nel febbraio del 2012 a largo delle coste del Kerala, nell’India sud occidentale. “Ora voglio stringervi tutti e non solo virtualmente, ma fisicamente, perché non ho dimenticato quanto vi siete spesi per noi”., ha scritto su Facebook il fuciliere Latorre commentando la decisione della procura. “Sono contento di apprendere questa notizia, al momento è solo una richiesta di archiviazione. Non conosco i contenuti della richiesta attendo fiducioso e auspico in tempi brevi la conclusione del caso”, la dichiarazione a caldo di girone. Mancano poche settimane alla data del 15 febbraio 2022. Quel giorno saranno trascorsi esattamente 10 anni dal 15 febbraio del 2012, quando la petroliera italiana Enrica Lexie venne coinvolta in quello che è passato alla storia come il “caso dei marò”. La nave si allontanava dalla costa del Kerala, in India, in trasferimento dallo Sri Lanka verso Gibuti. A bordo aveva un nucleo di protezione militare formato da sei uomini del “Reggimento San Marco” della Marina militare italiana. Alle 16,30 ora dell’India la “Lexie” notò un’imbarcazione che si avvicinava come per incrociare la sua rotta. Era il peschereccio “St Anthony”, con undici uomini d’equipaggio, reduce da una intera notte di pesca: tutti dormivano a bordo, soltanto due persone erano sveglie. Il timoniere e un altro membro d’equipaggio. I “marò” del San Marco vennero avvertiti dal comandante della Lexie, e dopo pochi minuti, dopo aver lanciato segnali ottici e aver sparato alcuni colpi d’avvertimento, ritenendo di essere sotto attacco da parte di una imbarcazione di pirati: i sottufficiali Salvatore Girone e Massimiliano Latorre spararono direttamente sull’imbarcazione, costringendola in qualche modo a cambiare rotta. Trascorrono poche ore, e la capitaneria di porto indiana contatta la Lexie. Il peschereccio St Anthony è rientrato in porto con due pescatori uccisi, gli ufficiali indiani chiedono alla Lexie se siano stati coinvolti in un possibile caso di pirateria e chiedono all’armatore della nave di tornare indietro. La Lexie rientra in porto, e da quel momento inizia un’odissea politica, diplomatica e giudiziaria come mai ne ha vissute l’Italia repubblicana. L’inizio dell’odissea giudiziaria e politica - Qui il primo motivo di contrasto: per mesi si è discusso del fatto che la Marina Militare italiana non avesse predisposto le cose in maniera da evitare la possibilità che suoi uomini in servizio di protezione potessero essere sottoposti alla giurisdizione di Paesi rivieraschi attraversati dalle navi che i Nuclei erano chiamati a proteggere. I pescatori uccisi si chiamavano Ajeesh Pink, di 20 anni, e Valentine Jelastine, di 44. La Lexie viene fermata nel porto di Kochi e dopo pochi giorni, il 19 febbraio, due dei 6 fucilieri di Marina vengono arrestati. Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono trasferiti con l’accusa di omicidio nella guesthouse della Central Industrial Security Force indiana: per il momento evitano la prigione. Il 25 febbraio la polizia del Kerala sale a bordo della Lexie e sequestra tutte le armi del nucleo di protezione: i poliziotti indiani hanno in mano i due fucili da cui Girone e Latorre ammettono di aver sparato contro il St. Anthony, riferendo di averlo scambiato per una nave pirata. Nel frattempo, il governo di Mario Monti invia in India un sottosegretario agli Esteri, Staffan De Mistura, che rimarrà nel Kerala per più di 30 giorni, con la missione di avviare il negoziato politico con l’India ma soprattutto di proteggere i due sottufficiali italiani ed assicurare loro un trattamento degno di due funzionari pubblici come erano nel momento dell’indicente. L’Italia chiede che l’analisi balistica delle armi sequestrate a bordo venga condotta con la partecipazione di esperti italiani. I giudici del Kerala respingono la richiesta (comprensibilmente) ma accettano che un gruppo di esperti italiani possa presenziare agli esami balistici. I due esperti saranno il maggiore Luca Flebus e il maggiore Paolo Fratini, ammessi come solo in qualità di osservatori ed esclusivamente alle prove di sparo. Gli esami balistici condotti dalla polizia indiana accertano che a sparare contro il St. Antony sono stati due fucili Beretta in dotazione ai marò. Nella notte fra il 5 e il 6 marzo il sottosegretario De Mistura è costretto quasi ad opporsi fisicamente alla polizia indiana che ha avuto l’ordine di trasferire i 2 marò in un carcere per detenuti comuni a Trivandrum. Solo alle 3 del mattino, dopo ore di tensione, il governatore del Kerala accetterà di trasferire i 2 italiani non in uno stanzone con delinquenti comuni, ma in un alloggio nel carcere in passato riservato ad alcuni uomini politici accusati di corruzione. Quella notte rimase il punto di massima tensione fra Italia e India, con De Mistura che arrivò quasi allo scontro fisco con il capo delle guardie del carcere di Trivandrum. Da allora il “caso marò” continuerà a trascinarsi in maniera sempre delicata e controversa. L’Italia, ancora con il governo Monti (ministro della Difesa l’ammiraglio Giampaolo Di Paola) raggiunge un accordo con le famiglie dei pescatori e con il proprietario del peschereccio: vengono pagati circa 142 mila euro a testa per permettere che le famiglie e l’amatore si ritirino dal processo. La svolta nel 2020 - La scontro fra Italia e India va avanti per anni, fino a quando i 2 governi nel 2020 non troveranno conveniente ricorrere al Tribunale arbitrale dell’Aja, che deciderà in maniera salomonica. L’Aja attribuirà la giurisdizione del caso all’Italia, riconoscendo che i due sottufficiali erano agenti di governo. Ma riconoscerà invece all’India un risarcimento di 1,1 milioni di euro, un accordo che farà cadere tutti i procedimenti in corso contro i due fucilieri di Marina. Adesso la Procura della Repubblica di Roma a sua volta assume una proposta salomonica: i 2 marò hanno rispettato le “regole di ingaggio” che erano stata fissate dalla Marina Militare. Ma visto che gli esami autoptici, le prove balistiche e le altre prove effettuate dalla polizia indiana 10 fa non vengono ritenute utilizzabili, del caso si propone l’archiviazione. I due sottufficiali italiani hanno sparato sul peschereccio, i due pescatori sono morti, ma i 10 anni che hanno trascorso in questo limbo giudiziario possono essere considerati una condanna sufficiente. Congo. Caso Attanasio. Majorino (Pd): “Verità e giustizia sulle responsabilità della morte” di Luca De Vito La Repubblica, 10 dicembre 2021 Sull’attentato nella Repubblica democratica del Congo dello scorso febbraio i dubbi dell’eurodeputato dem: “Va capito il ruolo di chi doveva garantire la sicurezza del convoglio per conto delle Nazioni Unite”. Serve più chiarezza per assicurare verità e giustizia alla storia di Luca Attanasio, soprattutto da parte delle Nazioni Unite. È un intervento duro quello dell’europarlamentare Pierfrancesco Majorino (Pd) che arriva all’indomani dell’annuncio di un incontro programmato tra il sindaco Beppe Sala e la famiglia dell’ambasciatore ucciso nella Repubblica Democratica del Congo lo scorso 22 febbraio, deciso dopo la mancata candidatura di Luca Attanasio per un ambrogino alla memoria. Una lettera in cui si evidenziano lacune e rischi per l’indagine che sta cercando di far luce sull’agguato che ha portato alla morte di Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo. “Quell’accadimento, un agguato terribile ad un convoglio del Pam (il Programma Alimentare delle Nazioni Unite), va rimesso al centro dell’attenzione delle istituzioni coinvolte - tutte, senza distinzioni - scrive Majorino - Lo esige il bisogno di verità che circonda l’episodio e lo esige la necessità di non cancellare le storie delle vittime. Di Luca Attanasio, persona che esibiva poco quel che di prezioso faceva e donava alla collettività, abbiamo saputo alcune cose importanti nei giorni successivi alla morte. I racconti di molti ci hanno restituito l’immagine di un servitore dello Stato attento e sensibile”. Il sospetto è che ci siano ritardi e ostacoli nella ricostruzione della verità di cui si sta occupando la procura di Roma. “Non può infatti sfuggire a nessuno che di quel che è avvenuto nella zona di Kibumba, in quelle terre tanto instabili e pericolose, si debba ricostruire una verità totale e soddisfacente. In tal senso preoccupano non poco le difficoltà che starebbe incontrando da tempo il Ros per effettuare indagini sul posto, come allarmano alcuni silenzi che sembrerebbero arrivare proprio da settori delle Nazioni Unite. In particolare colpisce la sensazione di opacità che parrebbe trapelare rispetto alla posizione di Mansour Rwagaza, attualmente presente nel registro degli indagati e responsabile della sicurezza dello stesso convoglio per conto del Pam, un ente da cui si deve pretendere la massima collaborazione”. Per Majorino “l’opera della magistratura va aiutata e sostenuta e nessuno può permettersi il lusso di girarsi dall’altra parte, sia in Italia che in Europa o ritenere di poter scaricare incredibilmente proprio sullo stesso Attanasio eventuali responsabilità. Lo si deve alla memoria di chi ha perso la vita e a chi non ha smesso di piangerlo”. Etiopia. Assalti armati ai depositi di cibo in due città di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 dicembre 2021 Il World Food Programme (Wfp) ha sospeso la distribuzione di aiuti alimentari in due città del nord dell’Etiopia coinvolte nel conflitto in corso, Dessié e Kombolcha, dopo assalti armati ai depositi. A Kombolcha, ribelli tigrini hanno minacciato con le armi lo staff del Wfp e saccheggiato le riserve di cibo da distribuire, compreso quello destinato ai bambini malnutriti, ha denunciato l’Onu, secondo quanto riferisce la Bbc. Lo staff del Wfp ha subito “intimidazioni estreme” durante il saccheggio, ha detto un portavoce dell’Onu, che ha accusato anche le truppe del governo di aver preso il controllo di tre camion umanitari del Wfp. “Queste violenze da parte di forze armate sono inaccettabili e minano la capacità dell’Onu e dei nostri partner umanitari di garantire la consegna in una fase di massima necessità” ha detto. Iniziato un anno fa, il conflitto fra il governo centrale etiope i ribelli del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), si è ormai esteso fuori dal Tigray. La guerra civile ha provocato una grave crisi umanitaria, con tredici milioni di persone che hanno bisogno di aiuti alimentari secondo le stime Onu. Vi sono anche migliaia di morti, due milioni di sfollati e 400mila persone al limite della carestia. Dessìé e Kombolcha sono due strategiche città della regione di Amhara, lungo la strada che conduce ad Addis Abeba, conquistate poco più di un mese fa dai ribelli. Le truppe governative, ora guidate personalmente dal premier Abiy Ahmed, hanno annunciato pochi giorni fa di aver ripreso il controllo delle due città, ma i ribelli sostengono che hanno potuto riprendere solo le aree abbandonate dal Tpfl. I ribelli tigrini non hanno commentato le accuse del Wfp.