L’ergastolo ostativo “educa” il detenuto a morire. In carcere di Domenico Bilotti* Il Riformista, 8 aprile 2021 Quale valore positivo ha tenere in cella una persona fino al decesso? Perché cancellare il diritto ad appellarsi a un giudice o ad avere una seconda opportunità? Il 41bis nega la vita. Ho sempre avvertito una certa difficoltà a spiegare agli studenti il meccanismo dell’ostatività. È una difficoltà che avvertono direttamente loro, senza la mediazione di alcuna sovrastruttura mentale. Per afferrare la nozione di ergastolo ostativo devi dare per acquisiti quattro precedenti passaggi logici che tutto sono fuorché logici, quattro forzature che rendono l’ergastolo ostativo un vestito troppo stretto o troppo largo secondo dove lo tiri. Bisogna innanzitutto ammettere che in un sistema costituzionale come quello italiano, fondato sull’umanità della pena e sulla sua funzione rieducativa, possano esistere pene perpetue. E cosa sarebbe allora questa rieducazione? Formazione permanente e continuativa all’evento di morire? Se la mia educazione è nel rapporto con l’altro, solo in me stesso vita natural durante, a cosa mi sto educando? Alla misura di una bara. Seconda forzatura che accettiamo solo per convenzione, e non per ragione. Essere detenuti non significa, o non dovrebbe significare, finire in cella con la chiave seppellita in un fosso. Se da detenuto scompaio al tuo sguardo, non scompaio come persona: che sia colpevole o innocente. In ogni momento posso interrogare un giudice (ne ho diritto) e in ogni momento un giudice avrà da rispondermi (ne ha dovere). Potrei star male e non essere più in grado di sopportare la detenzione; potrei accedere a un sistema meno rigoroso perché sto rigando dritto e ho voglia di lavorare, anche in modo gratuito o semigratuito, per impegnarmi. Potrei dopo molto tempo pensare addirittura di meritare la scarcerazione, certo dovendo far verificare che non mi dedicherò al crimine e dovendo far ritorno in prigione se invece riprenderò a delinquere. Al detenuto ostativo non viene applicato questo elementare principio democratico: non può chiedere al giudice che dovrebbe valutare come sta eseguendo la pena di arrivare a nuove condizioni, di accedere a un diverso trattamento, di far esaminare se quel trattamento può (o deve!) cambiare. Terza stranezza: noi parliamo di “ergastolo ostativo”. Pensiamo a un “fine pena mai” per reati gravissimi, che non può essere alleggerito per ragioni né di spazio, né di tempo, né di condotta. E già ci suona illogico per tutte le considerazioni che abbiamo già fatto. Eppure ormai l’ostatività si applica per una serie di ipotesi di reato che non riguardano solo mafiosi e serial killer (in Italia gli uni e gli altri sono assai meno di quello che siamo soliti pensare). L’ostatività sta diventando una struttura della pena, un’illusione comoda: questo detenuto ostativo non potrà “chiedere” nulla. Lo mettiamo in cella: vada come vada; se uscirà, vedremo. In carcere non importa se continuerà a pianificare affari illeciti, soffrirà o vorrà davvero cambiare vita. Nessuno, chiusi i cancelli e lette le sentenze definitive, potrà mai più esaminare cosa gli stia accadendo. Tutti indistintamente tutti ingabbiati alla stessa maniera. Infine, ultima medaglia della contraddizione suprema. Noi spieghiamo alle ragazze e ai ragazzi che seguono i nostri corsi che gli ostativi non accedono ai “benefici”. Usiamo un termine equivoco. A volte qualcuno crede che i benefici siano la liberazione, l’impunità, la latitanza, i biglietti della lotteria o il pernottamento nei resort. Cose che abbiamo visto fare al più ad alcuni parlamentari della Repubblica, e nemmeno sempre. Il mondo è pieno di lavatrici che funzionano male e di rubinetti che perdono e saponi che stingono: non per questo possiamo rinunciare a lavare i vestiti... Comunque, questi famosi “benefici” non sono né scorciatoie né villaggi vacanze: sono ore di fatica mal retribuita, ritorni in carcere ad orario (guai a sbagliare!), periodi di intervallo tra pezzi di pena e pezzi di processo. L’ostativo non è qualcuno cui impediamo di giocare al lotto: è qualcuno cui impediamo di vivere e rivivere (anche quando è un ostativo che non ha ucciso nessuno). Gli studenti si sbalordiscono. Chiedono se abolire l’ergastolo ostativo o l’ergastolo in quanto tale farà tornare in vita boss di mafia sepolti da decenni - si deve insegnare di più e più approfonditamente la storia della mafia; chiedono se significa liberare qualcuno che non lo meriterebbe. E allora bisogna dire che abolire l’ergastolo, in special modo quello ostativo, non significa affatto liberare chicchessia. Significa semmai vivere in uno Stato sereno e maturo che concede la seconda opportunità non perché sia stupido, ma perché sa proteggere tutti i cittadini: quelli che dopo anni o decenni di detenzione non torneranno a guidare clan veri e presunti e potranno dimostrare di essere e fare altro; quelli che quel male hanno subito e mai più dovranno subire. Se torturi chi ha sbagliato per prima, non impedisci a nessuno di fare anche molto, molto, peggio dopo. Se tratti il peggiore, il peggiore per eccellenza, con civiltà... hai un’opportunità irripetibile. La civiltà che dici di avere, puoi metterla in campo. Gliela puoi insegnare. *Associazione Yairaiha Onlus. Docente di multiculturalismo e Storia delle religioni Università Magna Graecia Carceri, focolai attivi e contagi in aumento di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 aprile 2021 I sindacati di Polizia penitenziaria: “Molto preoccupati”. L’Unione dei sindacati chiede di accelerare ricorrendo ai vaccini monodose. Nonostante l’avvio della campagna vaccinale e le misure ulteriormente restrittive prese all’interno delle mura, aumenta il numero di contagiati e di focolai attivi nelle carceri italiane, anche a causa delle varianti del Covid-19. Nel giro di quattro giorni, dall’inizio di aprile, si è passati da 760 a 823 casi positivi su una popolazione complessiva di 52.207 reclusi; mentre tra il personale di polizia penitenziaria si contano 683 infetti di cui 44 sintomatici, su un totale di 33.082 agenti. Un detenuto di 60 anni è morto ieri a Catanzaro, in ospedale dove era ricoverato da dieci giorni, dopo essere stato contagiato all’interno del carcere di Siano dove era scoppiato un focolaio con oltre 70 detenuti e 20 agenti positivi. Difficile, infatti, tenere sotto controllo la diffusione dell’epidemia in carcere, una volta che si accende un focolaio, dato il sovraffollamento ancora illegale per le Corte europea dei diritti umani della maggior parte degli istituti italiani. Secondo le stime ufficiali del Dap, altri 17 detenuti sono ricoverati in ospedale e 13 con sintomi sono curati in carcere. Ma alcuni sindacati di polizia si dicono “molto preoccupati” dalla situazione “soprattutto se - denuncia Aldo Di Giacomo, segretario generale del S.Pp - si considera che i dati forniti dall’Amministrazione non sono completamente aggiornati, in quanto abbiamo focolai molto più estesi”. Mentre il presidente dell’Unione dei Sindacati di polizia penitenziaria, Giuseppe Moretti, chiede alla ministra Cartabia “se non sia il caso di modificare il piano nazionale di vaccinazione degli agenti scegliendone uno monodose per tutti coloro ancora a cui deve essere inoculato, così da accelerare i tempi di immunizzazione”, visto che non è possibile “mantenere il distanziamento” e che “circa il 70% del personale è ancora in attesa della prima dose del vaccino” perché, fa notare Moretti, “in assenza di un coordinamento nazionale ogni regione ha adottato diversi criteri e modalità di vaccinazione”. Per il sindacalista, che ricorda le “tre vittime di Covid tra le fila del Corpo, nel carcere di Carinola (Caserta)”, dunque “è necessario dare una sterzata all’inerzia con cui si sta procedendo, facendo inoculare agli agenti un vaccino monodose”. Ma forse il tempo per aspettare il vaccino Johnson &Johnson non c’è. Nelle carceri pugliesi (dove il tasso di sovraffollamento è del 131,72%), per esempio, sono attivi numerosi focolai e in quattro giorni si è passati da 99 a 115 contagiati: 45 detenuti, 66 poliziotti e 4 amministrativi. Con picchi nel carcere di Lecce (27 contagi), San Severo (23), Foggia (17), Bari e Taranto (16). Il principale focolaio resta comunque quello sviluppatosi nel penitenziario di Reggio Emilia, che pure non è tra i più affollati d’Italia, dove ogni giorno cresce il numero dei contagi, diventati ieri 133: 112 detenuti e 21 poliziotti. Il problema è che in carcere le regole igieniche e il distanziamento, prescritti dall’Oms, sono principi inapplicabili. In prigione per errore. Lo Stato ha pagato 46 milioni in un anno di Liana Milella La Repubblica, 8 aprile 2021 Sono tanti 46 milioni di euro. Ci si potrebbe costruire un super tecnologico palazzo di Giustizia. E invece lo Stato, nell’anno della pandemia 2020, è stato costretto a spenderli per riparare il danno che deriva dalle “ingiuste detenzioni” e dagli “errori giudiziari”. Quasi 37 milioni per chi è finito in cella e ha potuto dimostrare, sentenza alla mano, che non avrebbe dovuto andarci. E altri 9 milioni per gli evidenti sbagli commessi dalla giustizia. Repubblica anticipa i dati scoperti da Enrico Costa di Azione, elaborati dal gruppo “Errori giudiziari.com” di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. Sui quali Costa ripropone la proposta di legge, che sarà discussa già mercoledì 14 aprile nella commissione Giustizia della Camera, “per sottoporre al processo disciplinare quei magistrati, sia il pm che il giudice, che hanno sottoscritto e dato il via libera alle manette agli innocenti”. “Da11991 al 2020 lo Stato ha speso 870 milioni di euro per riparare 29.659 casi di errori giudiziari e ingiusta detenzione” documentano Lattanzi e Maimone. E Costa chiosa: “Per gli arresti di persone innocenti ha pagato, e profumatamente, solo lo Stato. I magistrati che hanno sbagliato non hanno mai subito conseguenze di carriera o disciplinari. Questo è profondamente sbagliato”. E snocciola le azioni disciplinari per ingiusta detenzione, traendole dalle relazioni dell’ex ministro Alfonso Bonafede: “Nel triennio 2017-2019, su 3mila casi di ingiusta detenzione, le azioni disciplinari sono state 53, con sole 4 censure e 9 assoluzioni, mentre 31 casi sono tuttora in itinere”. E sollecita il voto sulla legge: “Uno Stato serio deve verificare se i magistrati hanno sbagliato, come avviene per un medico che ha ucciso un paziente o un ingegnere che ha visto crollare un palazzo per colpa dei suoi calcoli errati”. Costa è un super garantista, ed è noto. Nel suo studio, appesa alla parete, c’è tuttora la lettera - datata 30 agosto1983 - che Enzo Tortora, su un foglio di carta a quadretti ormai ingiallito, mandò a suo padre Raffaele che all’epoca, per il Partito liberale, era sottosegretario all’Interno. In cui parlava “di questa spazzatura umana lasciata a fermentare, nei bidoni di ferro delle carceri, piene di disperati, di non interrogati, di sventurati, e di, come me, innocenti”. Adesso, assieme a Lattanzi e Maimone, Costa commenta le tre tabelle su errori giudiziari e ingiuste detenzioni. Ecco i 9,1 milioni di euro pagati dallo Stato dopo le sentenze che hanno riconosciuto l’esistenza di un manifesto errore giudiziario: due casi a Catania per 4 milioni, due a Catanzaro per 2,6 milioni, uno a Roma per 1,9. Poi la lunga tabella dei rimborsi per le ingiuste detenzioni. Ben 101 casi a Napoli per 3 milioni; 90 a Reggio Calabria per quasi 8 milioni, 77 a Roma per 3,5 milioni, mentre Palermo, con 46 casi, è terza nella classifica dei rimborsi con 4,4 milioni. Ma ecco ancora 77 casi di Salerno (3,5 milioni), 68 a Bari (3,2 milioni), 66 a Catanzaro (4,5 milioni). Dati che andrebbero considerati come sottostimati perché può ottenere il riconoscimento per l’ingiusta detenzione solo chi, dopo una condanna definitiva, fa domanda alla Corte di appello e in caso di bocciatura ricorre anche in Cassazione. Appena reduce dal dibattito alla Camera sulla presunzione di innocenza Costa parla di “30mila persone messe in carcere ingiustamente dal 1992, uno stadio di calcio, con 30mila famiglie in sofferenza. Queste persone sono state considerate presunte innocenti?”. Da qui la prossima battaglia sulle responsabilità dei magistrati, pm o giudici che siano. Prudenza e piccoli passi: la strategia di Cartabia doma la maggioranza di Giulia Merlo Il Domani, 8 aprile 2021 La ministra prende tempo quando serve, ma ascolta i rilievi del parlamento: su trojan, intercettazioni e presunzione di innocenza è riuscita a introdurre modifiche senza far rompere la maggioranza litigiosa. La giustizia è stata uno dei terreni più spinosi per gli ultimi governi, ma il cambio di metodo imposto dalla guardasigilli Marta Cartabia è tangibile per tutti e sta tenendo insieme la pur eterogenea maggioranza. La tecnica della ministra è quella dei piccoli passi: lasciar lavorare il parlamento, seguendo tuttavia da vicino il lavoro delle commissioni Giustizia; dare il via libera su alcune questioni di principio - la presunzione di innocenza e la modifica del decreto ministeriale sulle tariffe per le intercettazioni sono le più recenti - ma mantenere saldamente al ministero l’attuazione. Infine guadagnare tempo per approfondimenti e posticipare le scelte più divisive, come ha fatto per i disegni di legge penale e civile, per cui ha istituito commissioni di studio. Proprio questa strategia dei piccoli passi le ha permesso di guadagnare la fiducia dei parlamentari che presidiano il settore e soprattutto di depotenziare degli scontri che minacciavano di essere letali per il governo, come quello sullo stop alla prescrizione voluto dal suo predecessore, Alfonso Bonafede. Intanto, però, si sono delineati i fronti interni nella maggioranza: da un lato quello più garantista rappresentato da Azione, Più Europa, Italia Viva, Forza Italia, cui spesso si aggiunge anche la Lega; dall’altro il Movimento 5 Stelle che difende la linea del precedente governo. A fare da boa nel mezzo, invece, c’è il Partito democratico, che politicamente deve mantenere l’asse con i grillini ma culturalmente fatica a ritrovarsi in alcune delle loro battaglie. Per questo ha scelto per sè il ruolo di mediatore e sponda per il governo dentro le commissioni. I trojan - L’ultima grana in ordine di tempo si è presentata con la valutazione in commissione Giustizia alla Camera del decreto ministeriale che fissa le tariffe standard per lo svolgimento delle intercettazioni ambientali, telefoniche e telematiche (i virus spia Trojan horse che si installano negli apparecchi elettronici come cellulari e pc). Il testo, predisposto da Bonafede e di cui è relatrice la grillina Giulia Sarti, prevedeva una serie di tabelle che indicavano le prestazioni di intercettazione che devono svolgere le aziende private e il loro costo giornaliero, indicato in una forbice tra minimo e massimo. A chiederne la modifica è stato Enrico Costa, ex deputato di Forza Italia oggi in quota Azione e stratega della guerriglia d’aula sulle questioni della giustizia. Il decreto, infatti, conteneva tra le cosiddette “prestazioni funzionali” del trojan lo scaricamento sui server delle procure non solo dei flussi di comunicazione, ma anche di tutti i contenuti “statici” presenti su telefoni e pc, come la rubrica telefonica e le foto conservate nella galleria fotografica ma non scambiate via sms o chat. Una funzione, questa, che secondo Costa supera i limiti previsti dalla norma sulle intercettazioni, che prevede la captazione di ciò che avviene nel dispositivo nel lasso di tempo in cui questo viene tenuto sotto controllo. “Se una foto viene inviata via chat a un terzo è giusto che il trojan la scarichi, ma per copiare quelle già presenti nel telefono serve un decreto di perquisizione ed eventuale sequestro, è un principio di garanzia per i cittadini previsto dal codice”, spiega Costa. Alla fine di una difficile discussione durata alcune ore, coi grillini inizialmente arroccati contro, è arrivata la modifica chiesta da Costa, Forza Italia, Italia Viva e Lega e condivisa anche dal ministero attraverso il sottosegretario Francesco Paolo Sisto presente in commissione. I rilievi deliberati sono stati votati da tutti tranne che da Fratelli d’Italia. Ora spetta al governo, però, recepirli e formulare le correzioni e Cartabia ha chiesto il tempo per poterlo fare. La modalità di gestione di Cartabia, però, ormai è diventata una prassi: anche per il recepimento della direttiva europea sul principio di presunzione d’innocenza (che dovrebbe limitare le conferenze stampa dei magistrati e le esternazioni a processi in corso) all’interno di una legge di delegazione europea la tecnica è stata la stessa. Cartabia ascolta i rilievi del parlamento, ne valuta la fattibilità alla luce soprattutto dei principi costituzionali, cerca la quadra nella rissosa maggioranza e, una volta approvati, si prende il tempo per tradurli in pratica. Per ora questa linea di dialogo ha permesso di sminare il campo di battaglia, ma il vero successo arriverà una volta superato lo scoglio del ddl penale, su cui Cartabia ha chiesto (e ottenuto) tempo e fiducia da parte di tutte le forze politiche che la sostengono. Il tempo per gli emendamenti in commissione scade il 23 aprile e i garantisti sono pronti a chiedere la cancellazione del baluardo grillino dello stop alla prescrizione. Intanto la commissione istituita a via Arenula lavora per correggere il testo scritto dal precedente governo. In quella sede verrà messa alla prova la capacità della ministra, che sta imparando in fretta a gestire una maggioranza così disomogenea. Prescrizione, i 5 Stelle pronti alle barricate di Errico Novi Il Dubbio, 8 aprile 2021 Dopo il Dm sulle intercettazioni tocca agli emendamenti sulla norma cara al Movimento. Che non farà sconti. Ma a giugno il ddl penale sarà in Aula. Dai Cinque Stelle arriva di nuovo una lettura “tranquillizzante” sulla giustizia: le puntualizzazioni accolte nel parere di Montecitorio sul decreto intercettazioni non costituiscono “regole su come realizzare” l’attività investigativa, ricorda il deputato del Movimento Eugenio Saitta. Il voto di martedì sera in commissione Giustizia, arrivato al termine di una riunione piuttosto vivace, ha riguardato “una norma di tipo secondario”, aggiunge il parlamentare. Si è ricordato che le intercettazioni dovrebbero avvenire nel rispetto del codice di procedura penale, e che sarebbe meglio impedire l’acquisizione dei “dati statici” (rubrica telefonica, galleria foto, password) dai cellulari degli inquisiti. A meno che non vi sia l’autorizzazione del gip a perquisire, cosa che però pregiudicherebbe la segretezza dell’indagine. L’obiezione pentastellata non è peregrina: in teoria il governo, e in particolare la ministra Marta Cartabia potrebbe ignorare il “suggerimento” e rinnovare gli accordi con i gestori privati anche qualora le Procure continuassero a “rubare” i dati con l’uso improprio dei trojan. Eppure: visto che si l’esame del decreto ministeriale sulle tariffe per le intercettazioni non doveva produrre altro che un trascurabile parere, perché nella seduta dell’altro ieri in commissione Giustizia ci sono stati momenti di tensione? Pierantonio Zanettin di Forza Italia parla di “vittoria” per il suo partito. Enrico Costa (Azione) dice di essersi dovuto “sgolare” per ribadire la necessità delle puntualizzazioni inserite nel documento. Ma proprio il presidente della commissione Mario Perantoni, che è un deputato 5 stelle, fa notare: “La relatrice Giulia Sarti”, anche lei del Movimento, “ha operato una mediazione decisiva, ha inserito alcuni rilievi per precisare la portata delle disposizioni e scongiurato ogni possibile interpretazione contraria agli intenti, o ambiguità, sul recupero di dati statici”. Perantoni aggiunge: “Il provvedimento ha natura tecnica, è una norma secondaria, non interviene sulla disciplina delle intercettazioni”. Ci vuol poco a trarre le conclusioni: se si discute sul significato di un parere consultivo, cosa avverrà, a breve, quando si dovranno mettere ai voti gli emendamenti sulla riforma del processo penale, e soprattutto quelli sulla prescrizione di Bonafede? Domanda legittima a maggior ragione dopo che ieri la capigruppo di Montecitorio ha fissato una tappa cruciale per il nuovo percorso sulla giustizia: il ddl penale e la riforma del Csm dovranno andare in Aula a giugno. Forse era prevedibile per il primo dei due dossier, assai meno per la legge delega sui magistrati. Adesso: il 23 aprile scade il termine per gli emendamenti sul penale, dunque anche per modificare la norma sulla prescrizione cara ai 5 stelle. Tra due settimane appena. Si comincia a fare sul serio, insomma. Su materie sensibili e delicate. Dopo una decina di giorni, per i primi di maggio, il gruppo di studio istituito da Cartabia a via Arenula presenterà le proposte di modifica alla riforma del processo. Potrà tenere conto degli emendamenti parlamentari e rimodularli. Ieri il vicepresidente David Ermini ha assicurato a propria volta che a fine aprile il Csm voterà il parere sulla ddl che ridisegna l’autogoverno delle toghe. Anche qui, i risultati dell’altra “commissione agile” di via Arenula, guidata da Massimo Luciani, seguiranno a stretto giro. In poche settimane ci si gioca tutto, salirà la tensione. E se entro giugno entrambe le riforme dovranno essere pronte per l’Aula, a maggio la commissione presieduta da Perantoni dovrà votare centinaia di emendamenti. Molti soppressivi o correttivi della norma Bonafede sulla prescrizione, altri destinati a modificare l’impostazione sul processo disegnata sempre dall’ex ministro. In un quadro simile, la tensione nel Movimento è destinata a salire. Tra i 5 stelle c’è la consapevolezza di essere isolati dal resto della maggioranza, e di trovarsi costretti a subire una virata netta sulle “conquiste” ottenute nella prima parte della legislatura. “Ma io credo che debbano arrendersi di fronte alla Costituzione”, fa notare un deputato che proprio dal M5S è fuoriuscito e che ora rappresenta Italia viva in commissione Giustizia, il penalista Catello Vitiello. “Forse si sottovaluta il vero punto di svolta toccato sulla giustizia da quanto Cartabia è guardasigilli: non il lodo sulla prescrizione, non il recepimento della direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza e neppure il parere sulle intercettazioni, ma l’ordine del giorno condiviso una settimana fa alla Camera che obbliga i pm a chiedere l’autorizzazione del gip per poter acquisire i tabulati telefonici degli indagati. Una rivoluzione”, dice Vitiello, “rispetto alla libertà di cui le Procure hanno goduto finora, ma che in fondo dimostra una cosa: il codice e la Costituzione sono destinati a imporsi”. Poi però c’è la politica. Non la si può ignorare. Gli equilibri di maggioranza vanno mantenuti. Cartabia non intende mortificare nessuno. E se c’è una possibilità di mediazione, è forse nella riforma del Csm. Tutti i partiti, Movimento 5 Stelle incluso, sono favorevoli a un irrigidimento delle norme sulle nomine, già previsto nel testo firmato Bonafede, che è la base di partenza. I pentastellati sono i primi a ritenere necessarie regole più stringenti anche sull’elezione dei togati e sulla presenza degli avvocati nell’autogoverno. Proprio il ddl sulla magistratura può diventare il punto di sintesi. Bonafede, tra l’altro, è sempre stato assai più favorevole del Pd sul “sorteggio temperato” dei magistrati, invocato a gran voce dal centrodestra. Non basterà a placare i malumori del Movimento sulla prescrizione, destinati a un certo punto a trasformarsi in barricate. Ma la giustizia ha preso una strada nuova, e tornare indietro è impossibile. Trojan limitato ai dati dinamici. No a copie di foto e contatti senza “perquisizione” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2021 La Commissione giustizia della Camera ha dato parere favorevole al Dm sulle tariffe delle intercettazioni ponendo però dei paletti rispetto ai dati captabili. La Commissione giustizia della Camera, al termine di una lunga mediazione portata avanti dal Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, ieri notte, ha espresso parere favorevole al decreto sui costi delle intercettazioni, varato dall’ex ministro Bonafede, ponendo però due condizioni stringenti. La prima riguarda i requisiti di sicurezza che i fornitori del servizio devono rispettare nella conservazione dei dati che, secondo il deliberato, dovranno ora rispettare le indicazioni dell’articolo 268 del Cpp che regola dettagliatamente le modalità di esecuzione delle operazioni di intercettazione. In modo che “l’intero articolo 4” del Dm, relativo appunto alle garanzie nella gestione dei dati da parte dei fornitori, venga “inteso come diretto ad imporre che, nel tempo necessario e indispensabile nel quale i fornitori che raccolgono il dato lo trasferiscono all’archivio riservato presso la Procura della Repubblica, siano assicurati, sotto ogni profilo tecnico, l’obbligo di riservatezza del processo di gestione e trasmissione dello stesso, tale che nessun soggetto estraneo all’autorità giudiziaria possa in ogni caso accederne al contenuto”. Il secondo punto, invece, limita l’acquisizione di informazioni da parte del Trojan ai soli dati “dinamici” del dispositivo e non anche a quelli “statici”. Tra le prestazioni funzionali alle operazioni di intercettazioni, si legge infatti nel testo approvato, compaiono anche prestazioni che attengono al “recupero della rubrica dei contatti, della galleria fotografica e dei video realizzati o comunque presenti presso lo smartphone o presso il personal computer o il tablet o altro apparato mobile o fisso, anche tramite captatore informatico (cosiddetto trojan), la cui acquisizione però presuppone, quando non rientri tra i flussi di comunicazione, il decreto di perquisizione ed eventuale sequestro ai sensi dell’articolo 247 e seguenti del codice di procedura penale”. La Commissione ha dunque valutato favorevolmente che alla tabella allegata, alla categoria “intercettazioni delle comunicazioni di tipo informatico o telematico (attiva attraverso captatore elettronico) “ il riferimento all’acquisizione “della rubrica dei contatti, della galleria fotografica e dei video realizzati o comunque presenti, delle password, con funzione di keylogger “, quando non rientri nei flussi di comunicazione, sia previsto nell’ambito dell’attività di indagine sottoposta alle condizioni di cui agli articolo 247 e seguenti del codice di procedura penale. Esulta il deputato e capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia a Montecitorio Pierantonio Zanettin: “Ieri è stato votato a larghissima maggioranza un parere che individua le prestazioni funzionali alle operazioni di intercettazione e relative tariffe secondo il quale dovrà essere rispettato rigorosamente il disposto dell’articolo 268 del Cpp che stabilisce limiti e garanzie in ordine alla genuinità della prova acquisita”. “È stato stabilito - ha aggiunto anche che i c.d. “dati statici”, galleria fotografica, chat, video comunque presenti nel telefono, possano essere acquisiti dal trojan solo previa perquisizione e sequestro dello smartphone”. “È un principio sacrosanto che evita abusi e fissa paletti precisi sull’utilizzabilità delle c.d. prove atipiche”. Soddisfazione è stata espressa anche da Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione: “Il parere reso pochi minuti fa dalla Commissione - ha detto - vede accolta in toto la nostra richiesta di scongiurare il rischio che il trojan possa essere utilizzato per “rubare” files contenuti negli smartphone, nei tablet e nei computer. La Commissione pone infatti una condizione al Governo in base alla quale i dati “statici” della rubrica telefonica, delle gallerie foto e video, oltre che le password, possano essere captate esclusivamente attraverso una perquisizione e non attraverso il trojan (che può intercettarle solo se trasferite a terzi)”. Sarà comunque il Legislatore a dover eventualmente definire i paletti ai quali dovranno attenersi le procure. Una sede potrebbe essere la riforma del processo penale dove la presentazione degli emendamenti è prevista per il 23 aprile. “Così i testi dell’accusa “spiavano” le mie telefonate” di Simona Musco Il Dubbio, 8 aprile 2021 Giornalisti intercettati. Michele Calantropo, penalista di Palermo, registrato al telefono con Nancy Porsia, consulente della difesa. “Lo Sco era testimone d’accusa al processo di cui parlavamo, ma lo stesso ufficio poteva ascoltare quale fosse la mia strategia difensiva”. “Lo stesso ufficio i cui uomini erano testi dell’accusa in un processo che seguivo come avvocato ha registrato la mia telefonata in cui discutevo della strategia difensiva di quel processo con una consulente. Com’è possibile questa cosa?”. Nell’indagine di Trapani sulla nave Juventa, finita nella bufera per le intercettazioni a carico di giornalisti e avvocati scovate dal quotidiano Domani, il nome di Michele Calantropo, penalista di Palermo, compare al progressivo 1877. Al telefono con lui, il 15 novembre del 2017, c’è Nancy Porsia, giornalista freelance, il cui telefono è stato messo sotto controllo dal Servizio centrale operativo con lo scopo di scoprire i legami tra ong e trafficanti di uomini sulla rotta Libia-Italia. Per Calantropo, impegnato nella difesa di Medhanie Tesfamariam Behre, il giovane eritreo rimasto in carcere per tre anni per uno scambio di persona, quella con la giornalista è una telefonata di lavoro. L’intento è quello di chiedere a Porsia di testimoniare al processo che vede imputato il giovane, con lo scopo di ricostruire le reali dinamiche migratorie della Libia, diverse, secondo il difensore, da quelle ricostruite dalla polizia giudiziaria attraverso le sole intercettazioni telefoniche. Ad ascoltare la telefonata, all’insaputa dei due interlocutori, ci sono però anche gli uomini dello Sco. Gli stessi che al processo a carico di Behre verranno interpellati dall’accusa come testimoni della sua colpevolezza. Un vero e proprio corto circuito, secondo Calantropo, tra i quattro avvocati finiti nella rete della procura nello svolgimento della propria professione. Conversazioni irrilevanti per l’indagine sulla Juventa, la nave della Ong tedesca Jugend Rettet, accusata di concordare i soccorsi con i trafficanti, ma comunque ascoltate, trascritte e depositate con l’avviso di conclusione delle indagini a carico delle 21 persone coinvolte nell’inchiesta. “Com’è possibile che questi atti risultino depositati? - si chiede Calantropo - Al di là del fatto che le intercettazioni andavano interrotte, quello che non comprendo è perché questa informativa sia stata depositata. Non ha alcuna rilevanza nel procedimento specifico e, per altro, sono intercettazioni che si muovono in un ambito assolutamente fuori legge”. Il procuratore Maurizio Agnello ha già assicurato la distruzione delle conversazioni, ma per Calantropo non basta. “Non solo non sono rilevanti, sono lesive di ogni garanzia costituzionale e violano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il codice di procedura penale - sottolinea -. La mia domanda è: sotto un profilo giuridico, chi ha controllato quali fossero le carte da depositare in questo fascicolo?”. Dalle carte si evince un fatto: la polizia giudiziaria era consapevole che al telefono ci fosse un avvocato. Lo si evince dalle annotazioni che precedono la trascrizione del dialogo, riproposto quasi per esteso. “C’è una grande mistificazione su come funziona il traffico dei migranti”, appunta la pg trascrivendo le parole di Calantropo, che dunque chiede a Porsia di poter raccontare quello che ha visto con i suoi occhi in Libia. L’avvocato spiega al telefono la propria strategia: a fronte del deposito, da parte della Procura, di un’attività integrativa d’indagine, prospetta una possibile richiesta istruttoria ulteriore rispetto a quanto già fatto. “Il Servizio centrale operativo, in quel periodo, era impegnato in quel processo davanti alla Corte d’Assise di Palermo - spiega -. Lo stesso ufficio, insomma, che nello stesso momento stava registrando una conversazione perfettamente inerente a quel procedimento”. A fianco a quell’intercettazione c’è una nota: “Importante”. E ciò nonostante quella conversazione nulla aggiunga all’indagine sulla Juventa, chiusa qualche settimana fa. “Ma perché sarebbe stata importante? - si chiede Calantropo - Sicuramente non lo è in questa indagine. E allora per cosa lo sarebbe?”. Il processo a carico di Behre, alla fine, si risolve con una vittoria a metà: nella sentenza viene certificato “un granitico quadro probatorio in ordine all’identità dell’imputato”, acclarando “l’errore circa l’identificazione del predetto, il quale è persona fisica diversa dal trafficante ricercato (Mered Medhanie Yehdego, ndr)”. Insomma, non era lui uno dei capi di una grande organizzazione di trafficanti di esseri umani che avrebbe portato da una costa all’altra almeno 13mila persone. Behre è stato comunque condannato a cinque anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver avuto contatti con un trafficante di esseri umani, ma è stato rilasciato in quanto aveva trascorso in carcere tre anni, periodo massimo di detenzione previsto per quel reato. “Quella telefonata era quindi tutt’altro che irrilevante ai fini della mia strategia difensiva”, aggiunge Calantropo, che ricorda un precedente, nello stesso processo: “La procura di Palermo ha intercettato due miei interpreti-consulenti che parlavano di fatti processuali e ed ha perfino depositato queste intercettazioni”, spiega il legale. Che ora invoca un intervento a tutela dell’avvocatura. “Discutiamo di principi che vengono cristallizzati nell’articolo 6 e nell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che l’Italia ha sottoscritto - conclude. Discutiamo dell’articolo 24 della Costituzione, dell’articolo 103 del codice di procedura penale. Non è un problema del singolo avvocato, stiamo mettendo in discussione i principi cardine di uno Stato democratico. Il sistema è democraticamente bilanciato? Il diritto di difesa esiste ancora oppure no? Oppure si possono ascoltare tutte le conversazioni inerenti ai processi a cui è interessati e fare ciò che si vuole?”. “Ai giornalisti dico: libertà di stampa non è libertà di gogna” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 aprile 2021 Caso intercettazioni a Trapani, parla il costituzionalista Giovanni Guzzetta, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all’Università di Roma Tor Vergata. Riflettendo con il costituzionalista Giovanni Guzzetta, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università di Roma Tor Vergata, potremmo dire che la mia libertà di stampa finisce dove inizia la tua dignità di indagato. Lo spunto ci viene ancora dallo scandalo dei giornalisti intercettati dalla Procura di Trapani. Tanto scandalo, giustamente, per i giornalisti intercettati. Nulla quando ad esserlo sono gli avvocati che discutono con i loro assistiti... In Italia siamo abituati a fare discorsi molto ideologici. La questione in realtà è molto complessa e delicata in quanto non esistono diritti e pretese da tutelare in modo assoluto. Tutta la giurisprudenza, sia quella interna - Cassazione e Corte Costituzionale - che quella sovranazionale - Cedu e Corte di Giustizia - sottolinea sempre il fatto che in queste materie è necessario un bilanciamento tra interessi. Quali sono gli interessi in gioco? C’è quello del giornalista al diritto di cronaca; quello dello Stato alla repressione dei reati, soprattutto di quelli gravi da cui deriva un forte interesse pubblico al loro contrasto; poi quello soggettivo alla riservatezza sia di coloro che sono interessati dall’attività giornalistica sia degli avvocati. Pertanto stracciarci le vesti in astratto rappresenta un esercizio ideologico. In concreto, invece, cosa possiamo dire? Spero che questa vicenda, i cui dettagli non sono ancora totalmente chiariti tanto è vero che è in corso un’ispezione da parte del Ministero della Giustizia, possa costituire l’occasione per una riflessione meglio articolata più che per una reazione corporativa. Professore mi aiuti a capire: l’articolo 103 quinto comma del cpp vieta l’intercettazione tra avvocato e cliente. Non esiste una norma così chiara per i giornalisti... Per i giornalisti non esiste una disposizione in tal senso, per gli avvocati sì. Tuttavia la Cassazione ha messo in evidenza come anche nelle conversazioni tra avvocati e assistiti ciò che si tutela è il rapporto professionale con il cliente: in questo caso la registrazione dell’intercettazione andrebbe interrotta. Mentre se i due discutono di qualcosa che esce dal perimetro di quel rapporto e quindi l’avvocato non sta svolgendo più il suo ruolo l’intercettazione sarebbe lecita. La stessa cosa vale per i giornalisti: pur non essendoci una disposizione specifica, esiste però una disciplina della tutela della fonte, ribadita da una sentenza della Cedu del 6 ottobre 2020 ‘Jecker contro Svizzera’. La Corte ha ribadito la fondamentale necessità di tutelare le fonti ma ha anche precisato che persino in quel caso, se sussistono degli interessi pubblici straordinariamente importanti e purché sia motivato, il divieto posto a tutela della segretezza della fonte può essere superato. Quindi il discorso è molto articolato... Certo e riguarda più soggetti. La disciplina delle intercettazioni nel nostro Paese è estremamente invasiva ed è stata fatta oggetto di numerose modifiche. La mia sensazione è che non abbiamo ancora raggiunto un equilibrio adeguato. Ci sono poi tutta una serie di problemi connessi, come l’utilizzazione dell’intercettazione per l’individuazione di reati diversi da quelli per la quale l’intercettazione era stata autorizzata. Aggiungo un altro problema: la pubblicazione delle intercettazioni sulla stampa, spesso prive di valore probatorio, aiutano a costruire il ‘mostro’ da prima pagina... Certamente la libertà di stampa è una delle più antiche e più importanti. Nello stesso tempo però essa non è assoluta e bisogna che accettiamo questo concetto. La libertà di stampa deve essere contemperata con altri interessi: il codice di procedura penale all’articolo 114 vieta la pubblicazione degli atti coperti da segreto. C’è anche l’articolo 684 del codice penale “Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”... Esatto. Il problema è che le sanzioni sono molte blande. Non escludo che ci siano stati dei casi in cui l’ammenda sia stata pagata e la notizia comunque pubblicata. Forse dovremmo sviluppare una sensibilità maggiore nei confronti dei limiti alla libertà di stampa nel suo proprio interesse. In che senso? Se la libertà di stampa diventa libertà di gogna prima o poi la categoria dei giornalisti subirà una reazione da parte dell’opinione pubblica. Su questo sono pessimista. E mi chiedo se siamo noi ad alimentare questo circo mediatico o è l’opinione pubblica che ci chiede di rafforzare un certo voyeurismo colpevolista... Probabilmente entrambi i fattori alimentano il fenomeno. Attenzione però: non dimentichiamo un’altra componente del complicato puzzle, ossia i settori della magistratura in cerca di pubblicità. Ultimamente è stato proprio il Ministro Cartabia a porre l’accento sul riserbo delle indagini preliminari per tutelare il principio di innocenza. Quindi il problema esiste ed è serio... Il problema è talmente evidente che noi nei fatti viviamo costantemente una elusione del principio della presunzione di non colpevolezza. La sanzione penale non è l’unica che un soggetto possa subire: c’è anche quella reputazionale e sociale. L’altro giorno l’ex magistrato Nello Rossi mi ha detto “ho partecipato a conferenze stampa, che ritengo siano fondamentali in presenza di misure cautelari, per spiegare le ragioni di tali provvedimenti”... Credo che la magistratura possa spiegare la propria attività attraverso gli atti, senza una interlocuzione diretta con l’opinione pubblica. I giornalisti poi hanno tutto il diritto e dovere di dare le informazioni nei limiti dell’ordinamento, spesso superati in mancanza di adeguate sanzioni e imputazioni di responsabilità. Questo perché accade? A causa di questa ideologia assolutizzata del diritto di cronaca che dal punto di vista costituzionale non è corretta. Questo diritto, come quello di manifestare il pensiero, subisce dei limiti nell’ordinamento. Non esistono diritti assoluti se non in qualche rarissimo caso, come la libertà d’arte. I diritti incontrano dei limiti: il problema non è di stabilire questi ultimi ma di renderli cogenti nell’interesse di tutti, altrimenti si passa dall’ordinamento al far west. “Fratelli minori” di Contrada: chiamata in causa la Cedu di Valentina Stella Il Dubbio, 8 aprile 2021 E Gian Carlo Caselli sostiene che la nostra giurisdizione non debba prestare “incondizionato e pedissequo ossequio a quella europea”. “Siamo sicuri che la suprema istanza della giurisdizione italiana debba - sempre e comunque - prestare incondizionato e pedissequo ossequio alla Giustizia europea?”. Questa è la domanda che si è posto due giorni fa Gian Carlo Caselli sul Corriere della Sera nella sua moral suasion nei confronti della Corte Costituzionale chiamata a decidere a breve sull’ergastolo ostativo. Caselli aveva usato la stessa argomentazione per le sentenze a favore di Bruno Contrada sul concorso esterno in associazione mafiosa pronunciate prima dalla Cedu e poi dalla Cassazione: “Non credo che la Cassazione possa accucciarsi pedissequamente su una sentenza straniera, sia pure della Cedu”, disse sul Fatto Quotidiano. Da qui ripartiamo per darvi conto di un nuovo caso riguardante i cosiddetti “fratelli minori” di Contrada che mette in evidenza proprio il problema del rapporto tra le due giurisdizioni - italiana ed europea. È stato infatti dichiarato ammissibile il ricorso presentato alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dagli avvocati Antonella Mascia e Michele Capano nell’interesse di Stefano Genco. L’uomo fu condannato a 4 anni di reclusione perché ritenuto responsabile di concorso esterno in associazione mafiosa per un fatto che avrebbe commesso fino al febbraio 1994. Nel 2015 una sentenza emessa dalla Cedu ridiede speranza a Stefano Genco: con la pronuncia sul caso Contrada c. Italia i Giudici di Strasburgo stabilirono che la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti commessi prima del 5 ottobre 1994 doveva ritenersi in violazione dell’articolo 7 della Convenzione per essere stato disatteso il principio di legalità per mancanza di una base legale sufficientemente chiara e prevedibile. Genco decise allora di procedere a livello nazionale attivando la procedura di “revisione europea” ed evidenziando l’analogia della sua condizione. La Cassazione a Sezioni Unite ha tuttavia rigettato il suo ricorso ritenendo non vincolanti i principi fissati dalla Cedu nella sentenza Contrada. A parere del massimo consesso della Suprema Corte tali principi non possono estendersi a coloro i quali, come Stefano Genco, siano estranei allo specifico giudizio innanzi ai giudici europei. Secondo le Sezioni Unite Penali la sentenza Contrada non è una sentenza “pilota”, e dunque la giurisdizione italiana sarebbe “libera” di non adeguarvisi. Da qui l’iniziativa di ricorrere alla Cedu. L’avvocato Antonella Mascia evidenzia al Dubbio che “la vicenda di Genco solleva questioni rilevanti riguardo alla violazione degli articoli 1, 46, 6, 7 e 13 della Convezione in quanto le giurisdizioni interne nel rigettare il ricorso hanno disatteso l’effetto erga omnes delle pronunce della Cedu e gli obblighi nascenti dalla Convenzione. Le sentenze dei Giudici di Strasburgo contribuiscono a formare un patrimonio comune che permette il rispetto delle libertà e della preminenza del diritto, assicurando la garanzia collettiva dei diritti fondamentali in un regime che, attraverso il rispetto dei principi sanciti dalla giurisprudenza europea, può ritenersi effettivamente democratico”. L’avvocato conclude: “la questione dei “fratelli minori” del caso Contrada costituisce un problema strutturale dell’ordinamento interno e la Cedu è ora chiamata a pronunciarsi sulla vicenda di Stefano Genco e di tutti coloro che si trovano nella sua stessa posizione. Secondo una giurisprudenza consolidata dei Giudici di Strasburgo l’obbligo di conformarsi alle pronunce europee impone agli Stati contraenti l’adozione di tutte quelle misure a carattere generale che vadano al di là del caso specifico e che siano capaci di eliminare le cause strutturali della violazione accertata quanto questa trae origine da una mancanza sistemica nell’ordinamento interno. Solo in tal modo si potrà evitare la ripetizione di violazioni identiche come è avvenuto nel caso di Stefano Genco”. Per l’avvocato Michele Capano, consigliere generale del Partito Radicale, “il punto culturalmente drammatico della sentenza delle Sezioni Unite è rappresentato dal fatto che ancora una volta si evidenzia che di fronte ad avanzamenti sul terreno dei diritti fondamentali del cittadino in materia penale, i giudici italiani sono disposti a raccogliere le sollecitazioni del Consiglio d’Europa solo se non possono farne a meno di farlo, e dopo averle provate tutte per evitarlo. Le Sezioni Unite se la sono cavata infatti dicendo che non erano “costrette” a dare ragione alla Cedu, ma non si sognano neanche, in positivo, di raccoglierne la sollecitazione ad affrontare uno dei temi più difficili di una stagione giudiziaria buia, nella quale è stato possibile che frequentazioni “sbagliate” o deliri “anti-mafiosi” potessero essere sufficienti per istruire processi nelle aule di giustizia e, complice la voluta vaghezza dei contorni del “concorso esterno”, potessero portare a condanne per concorso in associazione mafiosa. Si tratta di un’occasione per rimediare ai misfatti di un’oscura vicenda storico - giudiziaria. Le Sezioni Unite non hanno ritenuto di coglierla, speriamo la Cedu ribadisca il valore generale delle sue pronunce”. Serve, in ogni caso, una legge che regolamenti i rapporti tra le giurisdizioni: “Mi auguro che in Parlamento se ne facciano carico - conclude Capano -. Fino ad allora, saremo esposti alle scorribande di chi continua a contrabbandare la ‘necessità’ di un “(non) diritto di guerra” in nome della “specialità” italiana connessa alla presenza della criminalità organizzata. Dopo 40 anni dall’introduzione del 41bis dell’ordinamento penitenziario e della giurisprudenza ‘creativa’ sul 416 bis (due simboli di quest’impostazione militare), è venuto il momento di accettare la realtà del fallimento di questa linea di condotta. Caselli non può dire che la “mafia è viva e vegeta”, come fa, senza ammettere anche che abbiamo perduto il bene dello Stato di Diritto senza ottenere alcun risultato concreto. Piuttosto che proporre, come fa Caselli, di “esportare” questa peste italiana in Europa, è ora di consentire all’Europa di aiutarci a ritrovare il bene perduto delle garanzie penali, processuali, penitenziarie. È quanto la Cedu può fare “rispondendo” alle Sezioni Unite sul “concorso esterno”. Campania. Ergastolo ostativo, 69 detenuti sperano nello stop della Consulta di Viviana Lanza Il Riformista, 8 aprile 2021 Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Giustizia, nelle carceri della Campania si contano 69 detenuti condannati all’ergastolo su un totale di 3.822 detenuti con almeno una condanna definitiva da scontare in cella. Negli ultimi quindici anni, non solo in Campania ma in tutto il Paese, il numero degli ergastolani è notevolmente cresciuto: nel 2005 la popolazione dei detenuti con fine pena mai era di 1.224 persone su un totale di 36.676 detenuti con condanne, nel 2020 di 1.784 su un totale di 36.676. Tra pochi giorni la Consulta dovrà pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, e, in particolare, sulla costituzionalità della norma che impedisce agli ergastolani per reati di mafia di beneficiare della liberazione condizionale senza una utile collaborazione con la giustizia. Una battaglia di diritti e di civiltà che sta sollevando reazioni opposte: da una parte ci sono una parte della magistratura, soprattutto quella composta da magistrati dell’Antimafia, i familiari delle vittime della criminalità organizzata, la politica più giustizialista, i timori e le perplessità di fronte al fenomeno delle mafie; dall’altra parte ci sono i principi della Costituzione che non si può continuare a ignorare, le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, le posizioni dei garantisti, degli storici del diritto, degli avvocati e di una parte di magistratura più sensibile alle prerogative dei detenuti. “Il quesito da dirimere è: può uno Stato di diritto, che definisce la pena non come strumento di punizione e di vendetta ma di risocializzazione, tollerare ancora l’esistenza di un fine pena mai?”, fa notare l’avvocato Sabina Coppola, consigliere del direttivo del Carcere Possibile, la Onlus della Camera penale di Napoli che da anni si occupa della tutela dei diritti dei detenuti. “Questo è il tema - aggiunge l’avvocato Coppola - Non certo, come qualcuno cerca di far credere, se i mafiosi possano tornare liberi e indisturbati nelle proprie case, ma se sia legittimo presumere che essi restino “mafiosi” per tutta la loro vita, che per loro non esista alcuno spazio di riabilitazione e risocializzazione, nessun percorso che possa consentire una rivalutazione del loro vissuto, nessuna forma di premialità se non subordinata a una collaborazione con la giustizia”. La decisione della Consulta non determinerebbe automatismi e le sfumature da considerare restano tante e varie. “Non è corretto affermare - spiega la penalista -, come se si trattasse di un teorema scientifico, che un “mafioso” si è dissociato per il solo fatto che abbia collaborato con la giustizia (perché, magari, la ragione della collaborazione è solo il desiderio di riacquistare la libertà e di beneficiare del programma di protezione) e non è possibile sostenere che sia ancora legato ad ambienti criminali chi, magari, si sia davvero dissociato ma non collabori per il timore di ritorsioni sulla famiglia”. “È arrivato - prosegue Coppola - il momento di affermare ciò che la Corte Costituzionale, seppur con timidi passi, sostiene da anni (dalla sentenza 313 del 2 luglio 1990 all’ultima, la 253 del 2019 sui permessi premio), ovvero che l’automatismo secondo il quale l’assenza di una condotta collaborativa equivarrebbe, sempre e comunque, al perdurare delle esigenze di ordine penale che precludono l’accesso ai benefici penitenziari è incostituzionale”. Quanto conta davvero la scelta di collaborare con la giustizia? “La collaborazione con la giustizia non è (e non può essere) - osserva l’avvocato Coppola - l’unico strumento attraverso il quale il reo può dimostrare l’intervenuta rottura dei legami criminali poiché ve ne sono altri forse ancora più autentici e, dunque, indicativi di un cambiamento reale e strutturale: si tratta dei percorsi di reinserimento sociale seguiti in carcere e dei programmi trattamentali ai quali mostrerà adesione se saprà che esiste per lui anche una sola possibilità di ottenere un beneficio”. “Se lo Stato - conclude - accetterà ancora di privare un detenuto del diritto alla speranza, condannandolo a un fine pena mai, legittimerà, per alcune categorie di soggetti, quel trattamento che la Corte Europea ha chiaramente definito inumano e degradante e, di fatto, disapplicherà l’articolo 27 della Costituzione” Vasto (Ch). Suicida in cella dirigente dell’Asl arrestato per una presunta corruzione chietitoday.it, 8 aprile 2021 Sabatino Trotta si è impiccato nel carcere di Vasto la notte scorsa poche ore dopo l’arresto. Il responsabile del dipartimento di Salute Mentale della Asl di Pescara era stato arrestato ieri mattina, mercoledì 7 aprile, dai militari della guardia di finanza. Trotta era finito in carcere insieme ad altre 2 persone, su disposizione del Gip Nicola Colantonio come richiesto dalla Procura della Repubblica per presunta gara pilotata per la gestione di residenze psichiatriche extra ospedaliere, del valore complessivo di oltre 11.3 milioni di euro. Con lui sono stati arrestati anche il responsabile legale e la coordinatrice della cooperativa “La Rondine” di Lanciano. Trotta aveva 55 anni ed era di Castiglione a Casauria. Era residente a Spoltore ed è morto nonostante i soccorsi della polizia penitenziaria e degli operatori del 118. Trotta si è impiccato, come riferisce Ansa Abruzzo. Alle ultime elezioni regionali si era candidato con Fratelli d’Italia. Del fatto è stata informata la Procura di Vasto. Catanzaro. Morto per Covid un detenuto di 60 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 aprile 2021 Era uno dei primi ricoverati in ospedale da quando è scoppiato il focolaio nel carcere di Catanzaro che ha coinvolto 73 reclusi e 19 agenti penitenziari. Al carcere di Catanzaro è morto per Covid-19 un detenuto di circa 60 anni con varie patologie. Era uno dei primi ricoverati urgentemente in ospedale da quando è scoppiato il focolaio che ha coinvolto, per ora, 73 reclusi e 19 agenti penitenziari. La situazione comincia a diventare preoccupante per diversi penitenziari coinvolti dal contagio. Infatti, secondo gli ultimi dati aggiornati a due giorni fa, i numeri dei positivi al Covid hanno subito un notevole balzo in avanti. Sono 823 detenuti e 727 agenti positivi. La maggior parte sono asintomatici, ma diventa comunque un problema quando i focolai mettono a serio rischio i tanti detenuti con gravi patologie e anziani. Al carcere di Parma contagiati 18 detenuti al 41bis - È il caso ad esempio del carcere di Parma dove il nuovo coronavirus ha contagiato 18 detenuti al 41bis, 5 in media sicurezza e 7 in alta sicurezza. La caratteristica di questo penitenziario è che ha un centro clinico stracolmo, tanto che diversi malati gravi non riescono a trovare posto e quindi sono reclusi nei reparti “normali”. È il caso dei 41bis, tanti sono vecchi e pieni di patologie. Da fonti de Il Dubbio risulta che alcuni di loro, quelli infetti, si stanno aggravando. Il carcere di Reggio Emilia è al collasso: 119 positivi su 400 - C’è il caso del carcere di Reggio Emilia che, secondo i sindacati di polizia penitenziaria della Cgil, Cisl e Uil, è al collasso. Sono 119 detenuti contagiati su 400, la gran parte dei quali - sempre secondo i sindacati - non è isolata, e oltre 60 agenti indisponibili. La situazione raccontata da Giovanni Trisolini, Vito Bonfiglio e Leonardo Cannizzo rispettivamente per Fp-Cgil, Fns-Cisl e Uil-pa è realmente drammatica. La sezione destinata ai positivi infatti, 34 posti, è piena da giorni, e chi si è contagiato successivamente è dovuto rimanere nella propria cella. Ed ecco che ritorna prepotentemente l’urgenza di applicare misure deflattive, oltre ovviamente nel velocizzare la campagna vaccinale. Forse è il momento adatto, visto il cambio di governo, magari più orientato a osservare i precetti costituzionali, a mettere sul tavolo quelle misure che sono state accantonate dall’ex ministro Bonafede. Ad esempio c’è la misura, frutto di un emendamento presentata dal deputato Roberto Giachetti su proposta del Partito Radicale e da Nessuno tocchi Caino, ma anche dal deputato Franco Mirabelli del Pd, che è quella già in vigore in Italia quando ci fu la sentenza Torreggiani: ovvero la liberazione anticipata speciale che porta i giorni di liberazione anticipata da 45 a 75 ogni semestre. In sintesi, c’è da valutare tutte quelle misure volte a liberare gli spazi che non ci sono per isolare i detenuti positivi o creare il distanziamento fisico come il protocollo sanitario impone. Padova. Focolaio in carcere, i contagiati sono 113. “Mancano gli spazi per l’isolamento” di Nicola Ceraro Il Mattino di Padova, 8 aprile 2021 Oltre cento i detenuti positivi al Covid-19. E poi 11 contagiati tra il personale. Sono numeri drammatici quelli che si trovano a gestire la casa di reclusione e la casa circondariale di Padova. E dal sindacato arriva l’allarme: “Mancano gli spazi per l’isolamento”. Il quadro critico della situazione per il Due Palazzi di Padova è offerto dal report diffuso ieri dal Ministero della Giustizia. Su 149 positivi negli istituti penitenziari del Triveneto, ben 113 si trovano a Padova: 96 detenuti e 8 agenti di polizia penitenziaria in casa di reclusione, 8 detenuti e 3 lavoratori in casa circondariale. Praticamente un ospite ogni cinque del Due Palazzi risulta positivo al Coronavirus. Vaccini in ritardo e spazi limitati per l’isolamento. Sono le due considerazioni che fa la Cgil Penitenziaria: “Abbiamo chiesto da subito alla Regione che le carceri venissero trattate come le case di riposo, e che dunque i detenuti fossero immunizzati già nella prima fase della campagna vaccinale” denuncia Giampietro Pegoraro della Cgil “Le prime dosi, per una parte di detenuti e per il personale, sono invece arrivate solo a marzo. Troppo tardi, visto il focolaio in atto ormai da settimane”. Il carcere oggi non accetta più detenuti, e quelli positivi sono posti in isolamento: “Ma gli spazi per la quarantena sono limitati. D’altra parte, queste strutture non nascono assolutamente con la previsione di questi scenari”. Il sindacato chiede inoltre massima attenzione per la sicurezza, fisica e mentale, del personale: “Con questi numeri, e con questi scarsi mezzi, i lavoratori operano con grande scoraggiamento. Va previsto anche un sostegno psicologico”. Don Marco Pozza, cappellano del carcere, racconta così la situazione al Due Palazzi: “Siamo rassegnati: sentiamo alla televisione nomi come AstraZeneca, Pfizer e Moderna, ma sono cose che non arrivano fino a noi. Sono nomi e numeri che qui dentro creano solo una confusione pazzesca. Il ministro Cartabia garantisce che sta sorvegliando sulla vaccinazione dentro al carcere, e questo dà speranza. Ricordiamoci che qui vive una fetta di popolazione: e non penso solo ai detenuti, ma anche ad agenti, amministrazione, volontariato, terzo settore. Realtà che, peraltro, in questa situazione non hanno accesso alla struttura”. Chiude don Marco: “La pandemia ci fa sperimentare la mancanza di libertà: in questo modo tutti possiamo capire come l’impotenza porti alla disperazione”. Reggio Emilia. Un detenuto su tre positivo al Covid di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 8 aprile 2021 L’Emilia-Romagna maglia nera per i contagi sia in cella che tra gli agenti. Il Spp (Sinappe) “Situazione ormai al collasso, è urgente vaccinare tutti”. Maglia nera sia per quanto riguarda i detenuti che gli agenti penitenziari contagiati, con l’istituto di Reggio Emilia al collasso perché un recluso su tre è positivo. Il poco lusinghiero primato tocca alle carceri dell’Emilia Romagna, nelle quali negli ultimi giorni si è registrato un massiccio aumento di malati di Covid. La denuncia arriva dal Sindacato di polizia penitenziaria Spp (affiliato al Sinappe), che parla di “un aumento sostanziale che crea molta preoccupazione, soprattutto se si considera che i dati forniti dall’Amministrazione non sono del tutto aggiornati”. Secondo il segretario nazionale Aldo Di Giacomo, tra i detenuti in regione si contano “194 casi di detenuti positivi (di cui 17 ricoverati) sul totale nazionale di 823 contagiati. In questo contesto a destare particolare preoccupazione è la situazione di Reggio Emilia dove un detenuto su tre è positivo. Spiega infatti Anna La Marca, sindacalista e agente della sezione femminile: “Oggi gli infetti sono 119, di cui 5 ricoverati all’ospedale di Santa Maria Nuova, sul totale di 360 ristretti (a fronte di una capienza regolamentare di 280)”. A questi, aggiunge La Marca, “vanno sommati oltre 70 poliziotti indisponibili tra positivi (20) e in isolamento (50). Sabato scorso i detenuti positivi erano meno di 80, oggi sono quasi 120”. Per il Sinappe a Reggio Emilia “la struttura è ormai al collasso, si respirano paura, stanchezza e tensione”. Per quanto riguarda poi i poliziotti penitenziari, la regione con più infetti - dice Di Giacomo - è sempre l’Emilia-Romagna, “con 109 positivi”, mentre gli istituti con più agenti contagiati è quello di Parma con 48 agenti fermi per aver contratto il Covid. Il sindacato nelle ultime ore ha nuovamente “sollecitato i ministeri della Salute e della Giustizia per velocizzare la somministrazione dei vaccini” e affinché “sia utilizzato il farmaco prodotto dalla Johnson and Johnson per colmare il gap, consentendo di immunizzare più detenuti possibili con una sola somministrazione”. Di Giacomo ricorda anche che “rispetto a qualche mese fa il numero di istituti con focolai estesi è cresciuto in maniera ampia”. Tra l’altro, “il piano vaccinale continua con difficoltà soprattutto tra i detenuti, con solo 6.356 vaccinati su 54.000 sul territorio nazionale, mentre i poliziotti penitenziari avviati alla prima somministrazione sono solo 15.155”. Numeri che non fanno stare tranquilli perché “se il virus dovesse accelerare troverebbe la quasi totalità dei detenuti non ancora immunizzati”. Da qui la decisione di chiedere un’accelerazione nelle somministrazioni, in quanto, conclude Di Giacomo, “se il piano vaccinale non viene portato avanti in modo più veloce, il rischio di contagio potrebbe mettere a rischio l’incolumità di detenuti e poliziotti”. Pesaro. Covid in carcere, il focolaio si allarga Il Resto del Calino, 8 aprile 2021 Un secondo detenuto ricoverato in ospedale. Si tratta di un uomo di 68 anni originario di Porto San Giorgio. In cella, aveva febbre e difficoltà respiratorie. Non è in pericolo di vita. Un altro detenuto di Villa Fastiggi ricoverato in ospedale a Pesaro con il Covid. È il secondo carcerato per il quale è stato necessario ricorrere alle cure del San Salvatore. Da giorni infatti l’istituto penitenziario della città è alle prese con un focolaio del virus. Quasi una 70ina i contagiati, 58 detenuti asintomatici e 16 agenti di polizia penitenziaria. Più i due ricoverati che hanno manifestato i sintomi più gravi della malattia. Il secondo ricovero è stato disposto l’altra notte, verso le 3. Ai sanitari del 118 è arrivata la chiamata dal carcere che chiedeva un intervento per un detenuto che accusava dolori al petto. Un sospetto infarto che ha allarmato subito gli agenti di turno. Una volta arrivati sul posto, i medici hanno sottoposto a elettrocardiogramma il detenuto. I controlli hanno però escluso l’esistenza di patologie e anche di criticità cardiache in corso. Ma il viaggio dell’ambulanza non è andato a vuoto. In quegli stessi momenti, da un’altra cella è arrivata la richiesta di aiuto da parte di un altro carcerato. Aveva febbre e accusava difficoltà respiratorie. I medici hanno subito capito di trovarsi di fronte a sintomi evidenti del coronavirus. Hanno valutato che le sue condizioni di salute fossero incompatibili con la permanenza in carcere e così hanno deciso di trasportarlo in ospedale. Arrivato al nosocomio, l’uomo, classe 1953, originario di Porto San Giorgio, è stato sottoposto a tac. L’esito dell’esame non ha lasciato spazio a dubbi: dalle lastre si è visto in modo chiaro che entrambi i polmoni sono lesionati. Anche se non in modo grave. Il tampone, effettuato nel frattempo, ha solo confermato la sua positività al Covid. Il paziente è stato sistemato in una stanza protetta, riservata proprio ai detenuti. Qui è stato trattato subito con ossigeno e altre terapie anti virus. Resterà in ospedale, sotto stretto monitoraggio, finché non sarà di nuovo negativo. Solo allora potrà essere trasferito a Villa Fastiggi, insieme agli altri detenuti. Intanto la situazione nel carcere pesarese continua a essere delicata. Il cluster ha messo in difficoltà carcerati e agenti, quest’ultimi in sofferenza a causa dei positivi che al momento sono impossibilitati a lavorare, chiusi in casa in isolamento domiciliare per la quarantena. Disagi anche per i detenuti e i loro parenti che qualche giorno fa hanno protestato per non essere stati ammessi alle visite. C’è chi non riesce a vedere i propri famigliari dietro le sbarre da mesi. Chi ha detto di essersi visto rifiutare l’ingresso anche a pacchi e buste. Nel frattempo è intervenuto il garante regionale, Giancarlo Giulianelli che ha annunciato di fare colloqui da remoto con i detenuti. Piacenza. Alle Novate nessuno dei 400 detenuti ha ancora ricevuto il vaccino anti-Covid Libertà, 8 aprile 2021 “Ad oggi, su un totale di circa 400 detenuti, nessuno ha ancora ricevuto il vaccino, né è stata intrapresa alcuna azione informativa”. È l’allarme riguardante il carcere delle Novate di Piacenza e lanciato da Sappe, Uspp, Osapp, Sinappe, Cgil, Cisl, e Uil, che parlano di “un vero e proprio fallimento della medicina penitenziaria”. I sindacati chiedendo a gran voce un intervento da parte dell’assessore regionale alla sanità. “Parliamo di persone ristrette - proseguono i sindacati - alcune anche ottantenni e con gravi patologie, e malgrado vi siano risorse a disposizione non riusciamo a capire il motivo di questa impasse. Intendiamo quindi allertare l’amministrazione penitenziaria, l’azienda sanitaria e il prefetto della situazione creatasi anche nel nostro istituto. Eventuali ulteriori ritardi - proseguono - potrebbero a nostro parere essere di grave pregiudizio per l’incolumità di chi vive o lavora in carcere, perché in caso di focolaio anche la sicurezza del territorio sarebbe minata. La nostra preoccupazione - concludono - è che questa situazione potrebbe far registrare le tensioni che nel marzo 2020 sfociarono in vere e proprie rivolte all’interno delle carceri di diverse città italiane”. Maria Capua Vetere (Ce). Dopo 25 anni dalla costruzione in carcere arriva l’acqua corrente di Viviana Lanza Il Riformista, 8 aprile 2021 Per il carcere di Santa Maria Capua Vetere si fa più concreta finalmente la speranza di una rete idrica, il che equivale alla possibilità di acqua calda e fredda che sgorga dai rubinetti. Ieri si è dato il via ai lavori e si spera che gli interventi si definiranno nei trecento giorni prefissati: ma può davvero dirsi una conquista? La notizia più che soddisfazione genera tristezza se si pensa che ci sono voluti più di quattro anni per sbloccare la procedura amministrativa per consentire i lavori e che per oltre 24 anni (il carcere fu realizzato nel 1996) i detenuti di quella struttura sono stati costretti a vivere (o meglio sarebbe dire sopravvivere) senza il diritto a un bene fondamentale come l’acqua, costretti a lavarsi con l’acqua marrone che usciva dai rubinetti andando incontro al rischio di dermatiti e infezioni varie e usare come acqua potabile la sola acqua razionata distribuita dalle autobotti. Per troppi anni il carcere di Santa Maria Capua Vetere è stato l’esempio di quanto lenta sa essere la burocrazia e orba una certa politica di edilizia penitenziaria. Una storia che per certi versi ricorda quella del carcere di Poggioreale, il più popolato della Campania, il più grande d’Italia: ci sono 12 milioni di euro stanziati per la ristrutturazione di vari padiglioni della casa circondariale napoletana e bloccati per anni al Provveditorato delle Opere pubbliche. Il caso è stato più volte segnalato dal garante regionale Samuele Ciambriello e di recente qualcosa sembra essersi mosso nella direzione di dare concretezza al progetto, ma le questioni procedurali non si sono ancora del tutto esaurite e i lavori non sono ancora cominciati. L’edilizia penitenziaria resta, quindi, uno dei nodi del sistema carcere. Con l’avvio dei lavori al carcere di Santa Maria Capua Vetere si spera in un cambio di passo. “Mi auguro che i lavori siano effettivamente rapidi - ha commentato il garante casertano dei detenuti Emanuela Belcuore - Che quel carcere sia stato costruito senza rete idrica è qualcosa di sconvolgente e inumano e al danno si è aggiunta la beffa se si considera che a ogni reparto si è scelto di dare proprio il nome di un fiume. Sembra una barzelletta, non lo è purtroppo. L’acqua potabile, che è un bene fondamentale, ai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere è stata negata per troppi anni e, con la pandemia in atto, i reclusi e gli agenti della polizia penitenziaria, si sono ritrovati ad affrontare un problema doppio”. Costruito nel 1996 e ampliato nell’ottobre del 2013, secondo l’ultimo report del garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, il carcere sammaritano ospita 944 reclusi, 61 dei quali donna e oltre cento stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 809 unità: dietro le sbarre, dunque, 135 persone “di troppo”. “Ho denunciato per anni tempi lunghi e dannosi per i diversamente liberi e per coloro che a vario titolo entrano nel carcere - commenta Samuele Ciambriello - Sono solo moderatamente contento dell’avvio dei lavori, considerati i tempi biblici: la politica ha impiegato cinque anni per far partire l’intervento, mentre il Ministero della Giustizia ha a suo tempo inaugurato un carcere lesivo dei diritti dei detenuti. Accanto alla certezza della pena - conclude il garante regionale Ciambriello - ci dev’essere la qualità della pena: alla persona che sbaglia può essere tolto il diritto alla libertà ma non il diritto alla dignità e alla tutela della salute”. Roma. Affidamento ai servizi revocato: contestò le precarie condizioni igieniche in quarantena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 aprile 2021 L’uomo aveva rifiutato il cibo insieme agli altri 40 positivi nel carcere di Rebibbia a gennaio quando era in un reparto obsoleto. Era tra i detenuti che al carcere di Rebibbia avevano rifiutato il vitto per protestare contro le precarie condizioni igieniche nelle quali vivevano in quarantena, a causa della riscontrata positività al Covid, in un reparto dismesso da mesi. Il 31 marzo gli doveva essere confermato l’affidamento ai servizi: revocato a causa di una denuncia dell’autorità giudiziaria per aver partecipato ad azioni di protesta quando era ristretto proprio nel reparto obsoleto in questione. La denuncia della Garante di Roma Gabriella Stramaccioni - A riportare questa surreale vicenda è la garante del comune di Roma delle persone private della libertà Gabriella Stramaccioni. “Risultato positivo al Covid a fine dicembre insieme ad altri 40 - racconta la garante - viene spostato in isolamento in un reparto dismesso (da mesi) del carcere. Rimangono qui alcuni giorni, in condizioni igieniche precarie, in stanze abbandonate da tempo, con materassi e lenzuola vecchie e puzzolenti, senza disinfettanti e materiale per la pulizia”. Avvisata dai familiari di questa situazione, la garante Stramaccioni decide di entrare nel reparto il 12 gennaio, accompagnata dalla direttrice del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso e dal medico della Asl. “Purtroppo - prosegue la Garante nel racconto - la situazione corrisponde a quello che mi è stato descritto ed i detenuti sono in agitazione da giorni, preoccupati ed impauriti, non ricevono informazioni. Hanno deciso di rifiutare il vitto per protesta. Cerchiamo di calmare gli animi, parlo con molti di loro (dallo spioncino e da lontano) e faccio molta fatica a controllare il disagio per quello che vedo con i miei occhi”. A quel punto la direttrice si impegna a far arrivare nuovi materassi e lenzuola, il medico si impegna a rafforzare il servizio di assistenza. “Torno dopo pochi giorni con il Garante regionale Anastasia - spiega Stramaccioni - ed effettivamente qualcosa è migliorato, anche se per le persone positive al Covid dovevano essere, a nostro avviso, adottate misure più significative e quindi inviamo una nota congiunta a tutti i soggetti coinvolti”. Il 31 marzo l’amara sorpresa: la revoca della misura alternativa - A febbraio i detenuti di Rebibbia tornati negativi rientrano nei loro reparti, dopo aver passato un mese in una situazione angosciante. Tutto è bene quel che finisce bene? No. Per uno di loro il 31 marzo si doveva confermare l’affidamento ai servizi grazie anche a una relazione positiva dell’area educativa e a causa di una sofferenza da disturbo bipolare con conseguente riconoscimento dell’invalidità all’80%. “Ma ora questa misura è stata revocata - rende noto la Garante. Il motivo: c’è una denuncia dell’autorità giudiziaria per aver partecipato ad azioni di protesta quando era ristretto nel reparto obsoleto in questione. Esattamente il giorno che sono andata in visita nel reparto dismesso per verificare le loro precarie condizioni”. La Garante denuncia quello che definisce un “cortocircuito della giustizia”. Interviene a tal proposito anche il garante regionale Stefano Anastasìa: “Il potere disciplinare andrebbe valutato con cautela dalla magistratura di sorveglianza, non ci si può affidare come fosse oro colato”. Palermo. La compagnia teatrale “Evasioni” e i detenuti-attori del carcere Pagliarelli di Veronica Femminino blogsicilia.it, 8 aprile 2021 Portare il teatro in contesti nei quali non c’è o è ancora ‘acerbo’, nelle periferie, nelle piazze, in luoghi non convenzionali. Diffondere arte e bellezza, scambiarsi emozioni e la gioia di partecipare ad un progetto condiviso. Sono questi gli obiettivi di Baccanica, un’associazione di promozione sociale nata nel maggio del 2012 a Monreale, alle porte di Palermo, grazie all’incontro umano e professionale tra Daniela Mangiacavallo, Gaia Infantino, Maurizio Maiorana, Lilly Mangiacavallo. L’eterogeneità come risorsa. L’arte che diventa libertà d’espressione e cambiamento sociale al fine di migliorare le qualità di vita. Baccanica è arrivata anche dentro al carcere Pagliarelli-Lorusso di Palermo, dove è nata la compagnia teatrale “Evasioni”. La regista Daniela Mangiacavallo racconta la genesi di questa esperienza: “Abbiamo iniziato in carcere cinque anni fa con un piccolo laboratorio teatrale. Poi, due anni dopo, abbiamo aderito al progetto “Per Aspera ad Astra”, una rete nazionale di diverse compagnie teatrali che operano nelle carceri. Questo ci ha permesso di attivare corsi di formazione professionale sui mestieri del teatro, è anche nata una sartoria di costumi teatrali, insomma, una piccola macchina teatrale che agisce dentro al carcere”. Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, vede in rete dodici compagnie teatrali italiane che operano negli istituti penitenziari, tra cui la Compagnia della Fortezza, che ne è partner capofila. Nell’ultimo anno, a causa della pandemia e della impossibilità per soggetti esterni al carcere di accedere alle case di reclusione per evitare il contagio, Baccanica ha avviato un lavoro a distanza con i detenuti. A dicembre 2020 è iniziato uno scambio epistolare. Spiega ancora la regista: “Baccanica non si ferma. Stiamo lavorando molto sulla drammaturgia scambiandoci idee e suggestioni in vista di un nuovo spettacolo che mi auguro possa essere portato in scena a settembre”. Il debutto degli spettacoli di Baccanica con i detenuti avviene solitamente in carcere, poi si valuta se portare il lavoro realizzato anche fuori. La compagnia Evasioni nell’ottobre 2019 è stata ospite del palcoscenico del teatro Biondo di Palermo, una bellissima esperienza per i detenuti. “La compagnia - dice Mangiacavallo - ci ha aspettato durante il lockdown e ci aspetta ancora. Abbiamo tanti progetti in cantiere”. Della compagnia fanno parte trenta persone tra detenuti e membri di Baccanica, un gruppo di collaboratori professionisti che aiutano la regista nel lavoro di drammaturgia e di messa in scena. Sono attori, actor coach, insegnanti di dizione. Adesso bolle in pentola il quarto spettacolo dopo gli applauditi Enigma, La Ballata dei Respiri e Transiti. Sette storie sonore che raccontano il lavoro poetico e drammaturgico della compagnia Evasioni dentro e fuori la casa circondariale, in attesa di potere riprendere l’attività in presenza. Gli attori della compagnia sono già entrati in sala d’incisione per realizzare le sette puntate sonore. Il 5 marzo scorso è stato diffuso sulle maggiori piattaforme digitali e sulla pagina Facebook dell’Associazione Baccanica il primo dei podcast prodotti e realizzati dalla compagnia Evasioni. L’appuntamento è ogni venerdì dalle ore 21. Una sorta di prosecuzione dalla fase 1 “Corrispondenze” nella quale gli attori detenuti e gli altri artisti della compagnia si sono scambiati lettere per creare un dialogo tra il carcere e il mondo fuori. La compagnia Evasioni, nel tempo, è diventata una famiglia. “La risposta dei detenuti - commenta la regista - è molto positiva. Il teatro li coinvolge appieno. All’inizio qualcuno era un po’ diffidente, poi si sono messi in gioco, cimentandosi in una esperienza che non avevano mai fatto. Sono entrati nella magia del teatro. Adesso si sentono artefici e responsabili del progetto. Tra loro c’è molta solidarietà, è nato un bel gruppo ed il senso di appartenenza alla compagnia del quale sono orgogliosi”. Rappresentazioni teatrali sì ma con autenticità. Quella dei detenuti “che scioglie la finzione e l’artefatto - conclude Mangiacavallo -. Dal punto di vista personale i detenuti mi hanno insegnato a lavorare sulla verità e sull’autenticità. Quello che amo di questa esperienza e l’umanità che loro portano in scena. Ovviamente non rappresentiamo le loro vite, ma la forza e l’energia umana che esprimono quando si trovano sul palcoscenico è la vita del teatro stesso”. Roma. Ipm di Casal del Marmo: l’arte come nuova speranza di Camilla Dionisi abitarearoma.it, 8 aprile 2021 I ragazzi dell’Istituto penale minorile creano e donano un ramo d’ulivo d’argento a Papa Francesco. L’arte all’interno del carcere si pone l’obiettivo di essere uno strumento per il recupero e il reinserimento dei ragazzi, ed è stata proposta dagli ospiti dell’IPM Casal del Marmo a Roma. Amore e speranza, un saggio di varia umanità, un progetto che si inserisce in un quadro di orientamento formativo dove il carcere non viene considerato un edificio isolato, perché ha un prima e un dopo. I giovani hanno voluto testimoniare la loro ferma intenzione di rientrare presto nei circuiti della società, pensando a chi non li ha dimenticati neanche nei momenti più bui della pandemia: Papa Francesco. Per il Pontefice hanno realizzato un ramo d’ulivo, rivestito d’argento, che arriverà nei prossimi giorni a Santa Marta. L’idea è nata dalla proposta del maestro Maurizio Lauri, fondatore dell’Accademia internazionale arti e restauro, e dal suo collaboratore Rocco Bongarzone, che segue il laboratorio di artigianato interno al carcere attivo da circa tre anni. Qui una ventina di ragazzi lavorano il metallo, restaurano gioielli e icone sacre. “Il mestiere di creare, nome che abbiamo scelto per la nostra proposta, prevede un ambito sociale che introduce nei programmi di recupero della popolazione detenuta, lo svolgimento di corsi professionalizzanti orientati all’occupabilità e autoimprenditorialità, che possano trasferire agli allievi saperi diversi e abilitino al lavoro in équipe”, spiega Lauri, chiarendo che la sua accademia adotta le modalità operative tipiche della scuola diffusa che prevede l’allestimento di unità operative e di cantieri di lavoro nei luoghi ove si presentino emergenze o bisogni culturali. Esemplari a tal riguardo, “sono stati i casi di calamità naturali che hanno determinato l’esodo delle popolazioni con conseguente dispersione scolastica dei giovani, o quelli causati dalla perdita della libertà personale, per carcerazione o per sopraggiunto trauma fisico”. Tra le realtà coinvolte, anche la Casa circondariale San Domenico di Cassino e quella di Rebibbia a Roma. Lauri si dice soddisfatto dei risultati ottenuti, definendoli “di massimo interesse” in quanto, secondo lui, “dimostrano come sia possibile qualificare professionalmente la popolazione detenuta attraverso le strade della creatività e dei mestieri dell’arte, garantendo un’offerta formativa adeguata e ricorrente, sviluppata in percorsi modulari, comprensivi di stage applicativo. Nel caso specifico - prosegue - l’aver offerto un’opportunità qualificante ha determinato nei destinatari un forte interesse, una totale partecipazione e un’attesa circa la possibilità di poter sviluppare le competenze e le abilità acquisite attraverso ulteriori esperienze formative e di poterle applicare nella fabbricazione di manufatti destinati alla vendita”. La direttrice dell’Ipm Casal del Marmo, Nadia Cersosimo, rivela: “In questo momento in cui le persone hanno per forza dovuto rinunciare alla relazione con l’altro, alla vita comunitaria, alla condivisione, ci è sembrato giusto che dall’Istituto penale minorile - carcere nel carcere, luogo in cui anche il Covid è stato vissuto nel dolore maggiore di quegli abbracci familiari, che non ci sono mai stati per questi ragazzi e che potevano esserci - dovesse partire un messaggio di ripresa, di speranza”. La direttrice aggiunge che “così come nel racconto biblico la colomba reca il ramoscello di ulivo in segno di rinnovamento della vita, di riconciliazione tra la terra e il cielo, i ragazzi hanno voluto con il ramo di ulivo, dono simbolico al Papa, rappresentare la loro volontà di essere pronti alla riconciliazione con la società”. Sono state necessarie trenta ore di lavoro per la realizzazione dell’opera, segnate da fasi lunghe e delicate: dalla posa in cera del ramo alla plasmatura che rende unico ogni pezzo trattato, poi il bagno nel rame, nell’argento e per, finire, la lucidatura. “Ciò ha reso possibile una contestuale riflessione anche sul percorso di ognuno di loro. Sul valore della pena e su quanto la vita di ogni ragazzo possa essere plasmata, bagnata nei metalli preziosi e lucidata per essere vissuta al servizio di una comunità da cui si sono allontanati per il danno causato”, precisa la direttrice. Allora il ramo di ulivo “ha rappresentato per i nostri ragazzi un dono augurale per il Santo Padre e per tutti il simbolo di Cristo che con il suo sacrificio diventa strumento di riconciliazione e pace per l’umanità e per i nostri giovani che, per la grande attenzione che Papa Francesco ha loro concesso sin dall’inizio del suo pontificato, si sono sentiti amati con il cuore di un Padre che ha rivolto loro lo stesso sguardo di tenerezza che Dio ha rivolto a Gesù attraverso san Giuseppe”. Padova. Dal carcere a Netfilx, la rinascita di Seke di Francesco Verni Corriere del Veneto, 8 aprile 2021 L’arresto e la galera prima, ora il rapper 25enne è il protagonista di “Zero”. Interpreta un supereroe con il dono dell’invisibilità che lotta per il proprio quartiere. Dal buio alla luce. Da una cella del carcere a protagonista di una serie Netflix. Quella di Giuseppe Dave Seke, 25enne di Padova, è una storia di rinascita e di riscatto. Prima lo spaccio, poi una rapina a mano armata, due anni tra carcere e domiciliari, e infine la svolta: nel penitenziario, per passare il tempo, si avvicina alla musica rap dove, tra, basi e rime, ritrova sé stesso. Una volta libero contatta il produttore Wairaki De La Cruz e, con la sua assistenza, pubblica “Rebirth”, “Rinascita”: un titolo che è salvezza e rifugio. Il trasferimento da Padova a Milano per una nuova sfida, quella della recitazione, e, ora, il primo ruolo importante, da protagonista: Seke sarà Omar in Zero, serie Netflix che sarà disponibile sulla piattaforma dal 21 aprile. Le otto puntate, liberamente ispirate al romanzo Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano, edito da Mondadori nel 2018, raccontano la storia di Omar, detto Zero, un ragazzo italiano di seconda generazione con uno straordinario superpotere, diventare invisibile. Un eroe moderno che impara a conoscere i suoi poteri quando il Barrio, il quartiere della periferia milanese da dove voleva scappare, si trova in pericolo. Zero così dovrà indossare, suo malgrado, gli scomodi panni di supereroe, e, nella sua avventura, scoprirà il valore dell’amicizia grazie a Sharif, Inno, Momo e Sara, e, forse, imparerà anche ad amare.una storia di finzione che si specchia nella biografia del protagonista. Nato a Padova da genitori congolesi, cresce a Pontevigodarzere, uno dei quartieri della città con la più alta percentuale di immigrati. La sua vita non è semplice nonostante i genitori, papà magazziniere e mamma cuoca in una mensa, fanno quello che possono per dare a lui, un ragazzone di 192 centimetri d’altezza dagli occhi scurissimi, e ai suoi tre fratelli tutto quello di cui hanno bisogno. Ma la periferia sa essere feroce e le difficoltà di integrazione sempre più evidenti, così Giuseppe Dave Seke, a 14 anni, sceglie la strada più semplice per avere tutto quello che vuole. Diventa uno spacciatore, guadagna mille euro alla settimana, fino a quando, a vent’anni, anche quello non gli basta più. Dopo una soffiata, recupera una pistola e rapina un benzinaio di Chioggia: il complice si dilegua, lui si arrende e viene arrestato. Due anni di reclusione e la scoperta del rap, con cui mette in guardia i ragazzi dai facili guadagni e chiede scusa alla madre, la pubblicazione dell’album “Rebirth”, il trasferimento a Milano e ora la carriera d’attore. Zero, creata da Menotti, è stata scritta da Antonio Dikele Distefano insieme a Stefano Voltaggio, Massimo Vavassori, Carolina Cavalli e Lisandro Monaco dando forma a una originale esplorazione delle periferie milanesi con un racconto di culture sottorappresentate a cui si aggiungeranno significativi contributi presi dalla scena rap. “Il rap sarà uno dei protagonisti della storia perché il rap è la lingua della nostra epoca - spiega Distefano - è capace di raccontare mondi che la gente non vede, come la periferia milanese in cui è ambientata la serie, ed è la mia lingua”. A scandire il ritmo della storia “di strada” ci sarà una colonna sonora costellata dai big della scena musicale, a iniziare da Marracash che, prodotto da Marz, ha scritto e cantato “Red Bull 64 Bars x Zero”. Ecco perché in Italia si muore di Covid più che negli altri Paesi europei di Marco Imarisio e Simona Ravizza Corriere della Sera, 8 aprile 2021 Forse per anziani non vaccinati e troppi spostamenti. Con 43 vittime a settimana per milione di abitanti siamo il Paese con più decessi tra i principali Stati dell’Unione europea. Come se ogni giorno cadesse un aereo. Anche l’utilizzo di questa immagine, che viene spesso usata per dare la misura di quel che sta accadendo, sta diventando ormai un luogo comune. Ma forse ha ancora una sua validità. Perché l’aereo che si abbatte sul nostro Paese è il più grande di tutti, almeno in Europa. Succede ovunque, da noi ancora di più. Il confronto - La prima ondata ci colpì in un modo così violento che ancora pesa nel bilancio complessivo dei decessi. Al culmine della seconda, nello scorso dicembre, superammo anche il Regno Unito, fino a quel momento pecora nera dell’Occidente. Adesso siamo nel pieno della terza, l’ultima si spera. Sono arrivati i vaccini, che dovrebbero essere la prima arma per abbattere il nostro abnorme numero di decessi. Ed è stato confermato il sistema a colori, zona gialla, rossa o arancione, introdotto il 3 novembre per attutire gli effetti del liberi tutti estivo. Eppure il nostro bollettino quotidiano continua a essere terribile, con una media di 400 decessi al giorno nell’ultimo mese. A febbraio avevamo registrato 38 decessi a settimana per milione di abitanti. Più o meno alla pari con Francia e Germania, rispettivamente a 39 e 37. E meglio del Regno Unito (60), alle prese con la variante inglese. Negli ultimi quattro mesi, grazie ai vaccini era infatti cominciata una storia diversa. In UK i decessi sono passati da 79 a settimana per milione di abitanti agli attuali 11. In Germania da 55 a 16. In Francia, che pure ha il tasso di saturazione dei posti in terapia intensiva più alto d’Europa, da 40 a 30. Anche l’Italia era scesa, da 60 a 43. Ma è stato l’unico Paese che in questo lasso di tempo ha registrato un aumento dei morti, passando dai 38 decessi per milione di abitanti a febbraio, un dato che comunque non ci avrebbe tolto il triste primato, ai 43 di marzo. La nostra catastrofe quotidiana. È il caso di chiedersi ancora una volta se davvero esiste una anomalia italiana. E soprattutto, perché. Le vittime - L’ultimo report dell’Istituto superiore di Sanità (30 marzo) fissa a 81 anni l’età media dei pazienti deceduti tra coloro che sono risultati positivi al Covid con il tampone. Oltre il 61% dei decessi totali è di persone over 80, il 24 per cento riguarda i 70-79enni. Il primo studio sugli effetti potenziali del vaccino contro il Coronavirus venne pubblicato già lo scorso ottobre sul New England Journal of Medicine, e aveva una sola raccomandazione: mettere in sicurezza le fasce fragili della popolazione. Dopo, gli altri. A fine dicembre abbiamo cominciato ad avere gli strumenti per farlo, i vaccini. Ma l’Italia ha fatto altre scelte. Nel primo mese e mezzo di campagna, la distanza con Germania e Francia, per tacer del Regno Unito che ormai fa corsa a sé, è stata enorme. Alla data del 19 febbraio, gli over 80 che avevano ricevuto almeno una dose erano soltanto il 6 per cento contro il 23% della Francia e il 22% della Germania. A fine marzo, la Germania raggiunge quota 72%, contro il 57% di Italia e Francia. La differenza si è accorciata. Ma il nostro recupero delle ultime settimane non basta a fare crollare la curva dei decessi. Per due motivi. La prima dose di vaccino ha effetto dopo 12-14 giorni. E poi, la storia di questa epidemia dice che l’effetto di qualunque misura di contenimento del virus sul numero di morti diventa tangibile a distanza di 4-6 settimane. Intanto, già il 24 gennaio la Gran Bretagna aveva vaccinato con una prima dose il 75 per cento degli ultraottantenni. Venerdì 2 aprile, ci sono stati soltanto dieci morti in 24 ore. Il numero più basso di vittime dal 14 settembre 2020, quando sembrava che fosse quasi finita. Il Paese più vecchio - Stava ricominciando, invece. Anche allora, in quell’autunno che ci sembra ormai lontano, molti sostennero che si muore tanto perché siamo il Paese più vecchio d’Europa. Ma la Germania ha un’età mediana di un anno appena superiore all’Italia. E anche il Regno Unito ha il 24 per cento della popolazione ultrasessantenne contro il nostro 30%. E poi c’era il fallimento della medicina di base. Il nostro sistema sanitario, modellato sul National Health Service inglese, assegna ai dottori di famiglia il ruolo di “controllori”, addetti alla gestione del flusso terapeutico che inviano allo specialista i malati seri, ma sprovvisti di mezzi adeguati come invece accade in Germania e Francia dove la medicina del territorio è organizzata su base assicurativa. Questo, insieme ai continui tagli alla Sanità avvenuti dalla crisi del 2008 in poi, poteva in parte spiegare il disastro della prima fase. Chiudere tardi - Ma c’era dell’altro, e di peggio, durante la seconda ondata. Così come in questa terza. Il nostro continuo ritardo nel rincorrere un virus che va veloce. A marzo del 2020 fummo i primi a chiudere, con una media di 54 morti al giorno, mentre la Gran Bretagna lo fece per ultima, quando già ne contava 140. Ebbe un picco terrificante, 920 morti in 24 ore, e un plateau di mortalità durato più a lungo che in ogni altro Paese. A ottobre, siamo stati invece noi a far scattare il sistema a zone quando le cose andavano molto male, con 350 morti al giorno. A Londra avevano già chiuso negozi, palestre e ristoranti da quasi due settimane, dopo aver toccato i 120 morti in 24 ore. E da allora, dopo aver fermato anche le scuole il 6 gennaio, il Regno Unito ha mantenuto restrizioni ferree. La Germania aveva preso misure simili dal 2 novembre, e dal 16 dicembre ha fatto scattare un lockdown ancora più duro. Idem per la Francia, che dal 30 ottobre ha tenuto aperte solo le scuole, fino alla recente resa, aggiungendo un coprifuoco che cominciava alle 18. Una ricerca della Columbia University intanto ha stabilito che se durante la prima ondata gli Usa e i Paesi europei avessero agito due settimane prima di quanto hanno fatto, avrebbero ridotto i decessi dell’85 per cento. Anche UK, Germania e Francia si sono mossi in ritardo. Ma a differenza nostra, da allora hanno mantenuto le loro misure di contenimento in modo costante. Restrizioni - Le loro restrizioni hanno portato a un crollo della mobilità - ossia degli spostamenti delle persone - che secondo le stime elaborate da Matteo Villa dell’Ispi, da Natale a metà febbraio in Germania è stato del 60 per cento rispetto alla normalità, attestandosi poi su una media del meno 50%. L’Italia, che ha chiuso dopo, ha avuto comunque un picco di spostamenti sotto Natale, con una riduzione della mobilità solo del 20%. Ma soprattutto, ha riaperto. Prima di tutti gli altri. Il 31 gennaio torniamo in giallo, e da allora gli spostamenti restano contenuti al meno, 30% mentre la riduzione è sempre almeno del 50% in Germania e Uk. La Francia che pure è meno incisiva, ha una discesa costante nel tempo, -40% di media. A marzo abbiamo avuto il triplo dei decessi rispetto alla Germania, e il trenta per cento in più della Francia. Per tacere del confronto con il Regno Unito. Il futuro - Un recente studio elaborato dal ministero della Salute, dall’Istituto superiore di Sanità e dalla fondazione Bruno Kessler disegna alcuni scenari possibili per il nostro Paese. Andando avanti con le attuali restrizioni, e a patto di vaccinare mezzo milione di persone al giorno per ordine di età, è ipotizzabile un ritorno alla normalità entro agosto. L’abbandono progressivo delle misure di contenimento, stimato al 25, 50 e 75 per cento, sposterebbe in avanti questo traguardo di 14, 16 e 17 mesi dall’inizio della campagna vaccinale, avvenuto lo scorso 27 dicembre. E inoltre comporterebbe la perdita di altre 50 mila vite umane nel caso peggiore. Non è questione di essere aperturisti o chiusuristi. Si può fare tutto. Basta essere consapevoli del fatto che c’è sempre un prezzo da pagare. La pandemia comprime i diritti umani, ma solo i diritti umani indicano l’uscita di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 aprile 2021 Amnesty International presenta il Report 2020-2021. 560 pagine dense, che raccolgono il lavoro della Ong a livello globale, dall’Afghanistan allo Zimbabwe. La pandemia usata dai governi per comprimere i diritti umani e i diritti umani garantiti a tutti come vettore per uscire dalla pandemia. È un po’ questo il senso del Rapporto 2020-2021 presentato ieri da Amnesty International (Ai). 560 pagine dense, che raccolgono il lavoro della Ong a livello globale, dall’Afghanistan allo Zimbabwe. Filo rosso tra situazioni molto diverse: il Covid-19 ha colpito più duramente i gruppi sociali marginalizzati già prima del virus. “Tempi senza precedenti obbligano a dare risposte senza precedenti e richiedono leadership fuori dal comune”, scrive nell’introduzione Agnès Callamard, segretaria generale di Ai. Ma subito dopo aggiunge: “Nel 2020 una leadership globale non è emersa da potere, privilegio o profitti. È arrivata invece da infermieri, dottori e operatori sanitari in prima linea per salvare vite umane. Da chi si è preso cura delle persone anziane. Da tecnici e scienziati. Da chi ha lavorato per fornire cibo a tutti noi”. E allora colpisce un numero: in 42 dei 149 paesi monitorati sono state documentate vessazioni delle autorità contro operatori sanitari e lavoratori essenziali. Abusi che comprendono arresti e licenziamenti “contro chi ha sollevato problematiche riguardanti la sicurezza o le condizioni di lavoro” e hanno colpito soprattutto le donne. Insieme ai risvolti del Covid-19 l’Ong mostra sul campo gli effetti dei fenomeni strutturali che affliggono le vite di centinaia di milioni di persone: crisi climatica, violenza di genere, tagli ai servizi pubblici, repressione del dissenso. La presentazione italiana del rapporto si è aperta citando Patrick Zaki, contro cui continua l’accanimento del regime egiziano, e Nancy Porsia, giornalista intercettata con altri colleghi nell’inchiesta contro le Ong del Mediterraneo. Emanuele Russo, presidente di Ai Italia, ha accusato i leader dei paesi più ricchi di “aver fatto scempio della cooperazione globale” nel contrasto sanitario del virus. Riccardo Noury, portavoce della Ong, ha sottolineato l’uso della pandemia per aumentare le politiche illiberali di Orbán in Ungheria, Duterte nelle Filippine e Bolsonaro in Brasile e ha ricordato le stragi in Myanmar, dove si usano anche armi italiane, e nella regione del Tigray in Etiopia. Giulia Groppi (Ai Italia) ha quantificato le disparità tra stati nelle somministrazioni dei vaccini e ribadito che solo attraverso uno “sforzo coeso che metta al centro i diritti umani” sarà possibile davvero battere il Covid-19 La Libia, i migranti e noi di Paolo Ferrero* Il Manifesto, 8 aprile 2021 Quando l’uomo della strada fa finta di non vedere un sopruso, è indifferenza. Quando un governante fa finta di non vedere un sopruso è complicità. Leggo che il Presidente del Consiglio Draghi, durante la visita in Libia, oltre ad aver variamente elogiato il governo libico per come affronta il problema dei migranti, si è addirittura complimentato per il comportamento della guardia costiera libica per quanto fa nei naufragi. Si tratta di affermazioni incredibili visto che non lontano dai luoghi in cui si è tenuto il vertice vi sono alcune delle prigioni nei quali - sono parole delle Nazioni Unite - avvengono “orrori indicibili”. Solo alcuni giorni fa Jan Kubis, inviato dell’Onu in Libia, ha riferito al Consiglio di sicurezza che “attualmente circa 3.858 migranti sono detenuti in centri di detenzione ufficiali in condizioni estreme, senza un giusto processo e con restrizioni all’accesso umanitario” ed ha espresso preoccupazione “per le gravi violazioni dei diritti umani contro migranti e richiedenti asilo da parte del personale del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale e dei gruppi armati coinvolti nella tratta di esseri umani”. Uno dei primi atti che ho fatto nel 2006, quando mi é capitato di fare il Ministro é stato di andare a Lampedusa e di denunciare le pratiche di rimpatrio verso la Libia che, notoriamente, vessava i migranti facendo il lavoro sporco per conto dei paesi europei e segnatamente dell’Italia. A Roma con d’Alema e Amato (ministri degli esteri e degli interni) si aprì una discreta “dialettica politica” ma questa presa di posizione obbligò il governo a cambiare indirizzo rispetto agli esecutivi precedenti. Adesso Draghi va in Libia a lodare il governo libico per la gestione dei migranti. Visto che la situazione per i migranti in Libia è peggiorata e non certo migliorata, questo significa una cosa sola e cioè che come il grande capitale delocalizza le produzioni, gli stati europei - e segnatamente l’Italia - delocalizzano il lavoro sporco sui migranti. Per essere razzisti non è necessario insultare i migranti come fa una parte del governo Draghi, basta lasciarli torturare da altri, come fa tutto il governo Draghi. Quando l’uomo della strada fa finta di non vedere un sopruso, è indifferenza. Quando un governante fa finta di non vedere un sopruso è complicità. Chi riduce il problema costituito da questo governo alla presenza della Lega Nord fa finta di non vedere che il problema di questo governo è la sua continuità con le politiche di Marco Minniti. *Vicepresidente del Partito della Sinistra Europea Libia. Lettera aperta a Draghi sull’equivoco “guardia costiera” di Roberto Saviano Corriere della Sera, 8 aprile 2021 Nessun migrante è stato mai “salvato” in mare. Hanno usato le proprie coste come ricatto estorsivo verso l’Europa e i migranti come bancomat. Caro Presidente Draghi, Le scrivo perché credo profondamente sia stato vittima di un equivoco. Caro Presidente, nessun migrante è stato mai “salvato” in mare dalla Guardia costiera libica (finanziata dall’Italia), semmai rapito e mai rimpatriato. I migranti “salvati” vengono portati in campi di prigionia, che sono veri e propri lager, e durante le operazioni di “salvataggio” la Guardia costiera libica - esistono filmati - ha più volte picchiato i migranti ammassati sui gommoni, non ha esitato a sparare su uomini e donne, uccidendo. Ha usato le proprie coste come ricatto estorsivo verso l’Europa e i migranti come bancomat: ha preso soldi per fermare le partenze, soldi dai trafficanti per poter agevolare le partenze, soldi dai familiari dei migranti per interrompere le torture, soldi per riscattarli e permettergli di tornare nei loro paesi. Tutto questo è stato indagato e svelato dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) e la stessa Organizzazione Internazionale per le migrazioni (OIM) ha dichiarato i porti libici come porti non sicuri. Presidente, anche sui centri di detenzione in Libia abbiamo informazioni dettagliate da fonti affidabilissime. Esistono almeno due tipi di lager: quelli ufficiali, nei quali vige il lavoro forzato, dove migranti che non hanno commesso alcun reato sono detenuti e trattati come criminali e schiavi. E poi ci sono i lager non ufficiali, veri e propri luoghi di tortura; qui i migranti vengono maltrattati a scopo estorsivo, venduti, picchiati, stuprati e uccisi. Le testimonianze sono agghiaccianti e chi ha ascoltato questi racconti non può ringraziare la Guardia costiera libica: se vuole approfondire le questioni di cui le sto parlando, le consiglio di ascoltare su Radio Radicale la trasmissione “Voci dalla Libia - speciale Fortezza Italia”, a cura di Andrea Billau e Michelangelo Severgnini. Non possiamo più sottostare al ricatto, non possiamo più fare “noi” la parte del lupo nella speranza di depotenziare i pedatori. Lo hanno già fatto i governi a trazione PD e non ha funzionato, checché ne dica l’ex ministro Marco Minniti. So bene che si trova stritolato da una parte dell’opinione pubblica spaventata dall’inesistente “invasione” dei migranti, so bene che l’Europa è del tutto inaffidabile, e oggi con la pandemia in corso lo è ancora di più, ma la Guardia costiera libica non è la soluzione: è, al contrario, il principale problema, soprattutto perché l’opinione pubblica crede che finanziarla e armarla serva a bloccare migranti, quando in realtà è un’esigenza che risponde alla necessità di salvaguardare le politiche energetiche: si paga la Guardia costiera libica perché i giacimenti Eni in Libia non subiscano ritorsioni. Fino a quando non sarà chiaro a tutti che esiste un nesso tra la sicurezza degli impianti petroliferi in Libia, la Guardia costiera libica e l’affare dei migranti, la partita tra noi non sarà leale; fino a quando non sarà chiaro a tutti che le milizie libiche coprono segmenti legali e illegali, pubblici e privati, ci muoveremo su un terreno che sembra essere quello dei flussi migratori, ma che in realtà riguarda le politiche energetiche del nostro Paese e quante vite siamo disposti a sacrificare sull’altare del profitto o, come direbbe qualche ex ministro, della ragion di stato. Perché, allora, andare in Libia e, con tutte le informazioni che abbiamo - grazie soprattutto alle Ong e ai giornalisti intercettati dalla procura di Trapani - ringraziare la Guardia costiera libica? Presidente, trovi il modo di ascoltare tutte le persone coraggiose che conoscono quello che accade in Libia, ascolti i volontari delle ONG, ascolti anche molti uomini della Guardia Costiera Italiana che hanno salvato e protetto vite, spesso in conflitto con i governi da cui dipendevano, ma in coerenza con la legge del mare. Ascolti i migranti che sono sopravvissuti ai lager. L’Europa che non trova una strada nel diritto rappresenta la contraddizione dei suoi principi. E mentre Lei, ieri, Presidente Draghi, ringraziava la Guardia costiera libica, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen era ad Ankara, insieme al Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, a rendere omaggio al Presidente turco Recep Tayyip Erdogan che tanto “aiuto” ha dato all’Europa nel proteggere i suoi confini orientali - dietro lauta ricompensa - da “pericolosissimi” migranti tra cui centinaia di migliaia di siriani (famiglie, tantissime famiglie con figli piccoli) in fuga da un dittatore sanguinario. L’immagine dell’Europa con il cappello in mano, a farsi umiliare - inaccettabile il trattamento riservato a Ursula Von Der Leyen, evidentemente colpevole di non aver preferito la cura della casa e dei figli alla politica - dal despota turco, che ha contribuito alla destabilizzazione della Libia e che non nasconde le sue mire sul Mediterraneo, che conta di spartirsi con Putin, ha senz’altro fatto rivoltare nella tomba i padri fondatori, che si citano sempre più a sproposito. E questa non è un’altra storia. Questa è la stessa storia, perché l’Italia aveva un solo compito, quello di gestire in maniera umana il dramma dell’immigrazione trasformandolo in risorsa per il Paese e per l’Europa. Da Minniti Ministro degli Interni in poi, invece, l’immigrazione è divenuta terreno di scontro politico, occasione per fare la peggiore propaganda di sempre sulla pelle dei più deboli. Conosco le dinamiche della politica, non pecco di ingenuità. Probabilmente bisognerà sempre tornare a Machiavelli “pertanto ad un Principe è necessario saper ben usare la bestia e l’uomo”. Ecco, ormai da troppo tempo l’Europa sta usando la bestia; è la bestia che agisce, non l’uomo. Caro Presidente, i migranti sono esseri umani e in Libia si violano sistematicamente, ai loro danni, i diritti umani fondamentali. Mi aspettavo, anzi no, mi auguravo un cambio di passo. E di nuovo Machiavelli “non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato”, eccomi a offrirle una sponda: il ringraziamento alla Guardia costiera libica, come l’incontro di Van del Leyen e Michel con Erdogan sono un male “necessitato”? Queste parole lei potrebbe pensare siano un lusso da anime belle, che magari pensano di poter governare l’inferno complesso della politica con la morale e con l’indignazione, e probabilmente mi ricorderà che tra il sogno della giustizia e l’inferno della realtà degli umani ci sono gli oceani della mediazione. Concordo, ma esiste un modo che la storia del miglior riformismo italiano (non quello autoproclamatosi tale) ha insegnato: ogni mediazione deve avere l’orizzonte del diritto, ogni negoziazione non deve violare i principi primi su cui si fonda il nostro essere e il senso del nostro scegliere. Anche quando siamo costretti ad agire non come vorremmo, se neghiamo ciò che siamo, non sarà una mediazione la nostra, non un accordo, ma una resa incondizionata, una sconfitta ammantata di apparente vittoria. Presidente, come è accaduto ad altri prima di Lei, può scegliere se sulla vicenda migranti far vincere la bestia o l’uomo. Droni e spese pazze: l’accordo con la Libia ha favorito industrie e Frontex di Giovanni Tizian e Gaetano De Monte Il Domani, 8 aprile 2021 Nel 2017 il governo Gentiloni, ministro dell’Interno Minniti, ha siglato un’intesa con Tripoli. Per garantire la sicurezza del Mediterraneo l’Europa e il nostro paese hanno rafforzato la sorveglianza. Questa strategia ha generato milioni di euro di fatturato per le industrie della difesa, come Finmeccanica-Leonardo che ora ha assunto proprio Minniti. Negli stessi anni il budget dell’Agenzia europea delle frontiere è aumentato raggiungendo 500 milioni, che diventeranno oltre 1 miliardo nei prossimi anni. Oltre a costi alti per la comunicazione e party per i dipendenti, a febbraio ha bandito una gara d’appalto da 112 milioni per realizzare la nuova sede a Varsavia, dopo che quell’attuale era stata ristrutturata non senza generare sospetti tra i giudici della corte dei conti, come dimostrano i documenti letti da Domani. A beneficiare di questi fondi anche le grandi multinazionali degli armamenti che hanno vinto appalti banditi da Frontex. Le istituzioni europee si sono indignate per la campagna di Donald Trump a sostegno della costruzione di un muro lungo il confine con il Messico per bloccare l’immigrazione. Eppure negli stessi anni quelle stesse istituzioni ne hanno eretto un altro, invisibile, nel Mediterraneo centrale: un sistema di sorveglianza marittima, che si nutre dei dati ricevuti dai droni, dalle perlustrazioni dei velivoli di Frontex (l’agenzia europea delle frontiere), dagli elicotteri delle forze di polizia. In questo senso l’accordo con la Libia per bloccare le partenze dei migranti ha funzionato. Da quando il governo italiano guidato da Paolo Gentiloni, con ministro dell’Interno Marco Minniti, ha firmato nel febbraio 2017 il Memorandum con il governo di Tripoli, le industrie aerospaziali e di armamenti hanno fatto affari d’oro con i ministeri degli stati membri e con Frontex. Aziende come Airbus, le israeliane Iai e Ebit e l’italiana Leonardo Finmeccanica hanno ottenuto commesse per milioni di euro. Minniti ora è entrato in Leonardo, nominato poche settimane fa a capo della fondazione MedOr, nuovo soggetto creato dalla ex Finmeccanica che si occuperà anche di Libia. Dell’accordo ha beneficiato anche l’Agenzia Frontex, diventata uno degli organismi più finanziati dell’Unione, con un budget attuale di 500 milioni e di oltre un miliardo nei prossimi sei anni. Con spese e appalti, alcuni abbastanza anomali da attirare l’attenzione dell’ufficio antifrode (Olaf) dell’Unione. Domani ha scoperto per esempio, che dopo aver ristrutturato la sede di Varsavia, non senza mettere in allerta la Corte dei conti, l’Agenzia ha pubblicato a metà febbraio un bando di gara da oltre 100 milioni per realizzare un nuovo quartier generale. Senza contare le spese per comunicazione, stampa e serate di gala. Muro invisibile - Il memorandum Italia-Libia firmato dal governo Gentiloni a febbraio 2017 ha dato il via all’esternalizzazione del controllo delle frontiere nel Mediterraneo centrale. Ha previsto la formazione della Guardia costiera libica e ha gettato le basi per l’istituzione della zona di ricerca e soccorso davanti alle coste della Libia (Sar). Tanto è bastato per fornire al governo di Tripoli, senza mai esplicitarlo, la possibilità di intercettarne le imbarcazioni cariche di migranti che, una volta fermati, vengono riportati nei centri di detenzione, violando la prescrizione dell’Onu, che considera la Liba un paese non sicuro, e le convenzioni internazionali. Per sostenere i libici l’Europa ha potenziato la sorveglianza: il business principale, in tempo di pace, per le industrie degli armamenti e dell’aerospazio come Airbus e Leonardo. La sorveglianza permette di raccogliere informazioni e trasmetterle alle centrali di ricerca e soccorso dei paesi che si trovano in quel tratto di mare: Italia, Malta e Libia. Questa triangolazione di comunicazioni protette e super veloci è il frutto di un progetto politico chiaro: trasformare la Guardia costiera libica nell’unica forza marittima in grado di intervenire per recuperare i migranti, non solo quelli in difficoltà partiti dalla costa compresa tra Tripoli e Zuara. L’obiettivo è non farli arrivare in Europa, riportarli indietro e ricacciarli nell’inferno dei centri di detenzione dove finiscono i clandestini. Numerosi articoli della stampa libica celebrano con entusiasmo le grandi operazioni della neonata Guardia costiera. In queste brevi news, consultabili per esempio su Libya Observer, compare spesso il luogo in cui vengono portati i migranti intercettati. Tra questi c’è la città di Zawiya dove si trova il centro di detenzione Al Nasser, controllato da bande di trafficanti colluse con i militati, alcuni in passato membri della Guardia costiera che, proprio da Zawiya, parte per recuperare i gommoni in viaggio verso le coste italiane. Eppure i rapporti Onu hanno più volte ribadito che la Libia non è un porto sicuro dove far sbarcare donne, bambini e uomini in fuga da guerre e miseria. Il manifesto della teoria dei respingimenti, anche se questo termine non viene mai usato, è un documento del 2017 della Commissione europea intitolato La migrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Gestire i flussi e salvare vite umane. Nel report si sottolinea la necessità di “potenziare il sostegno alla Guardia costiera libica”. Secondo la Commissione, inoltre, era urgente rendere operativa la rete Seahorse: un programma mirato a rafforzare le autorità di frontiera dei paesi nordafricani, attraverso la condivisione di risorse e tecnologie di intelligence e sorveglianza, di sistemi di segnalazioni e connessioni satellitari. “L’obiettivo generale di Seahorse è aumentare la capacità dei paesi nordafricani di contrastare la migrazione irregolare e il traffico illecito rafforzando i loro sistemi di sorveglianza delle frontiere, sviluppando la loro capacità di condividere informazioni e coordinare le azioni con le loro controparti negli stati membri dell’Ue. Per il momento la Libia è l’unico paese partner a beneficiare di questa rete”, questa la risposta di Federica Mogherini, all’epoca Alto rappresentante agli Affari esteri dell’Unione e vicepresidente della Commissione, data nel 2018 a un’interrogazione presentata da un europarlamentare. Respingimenti che affare - Seahorse è solo l’ultima appendice di Eurosur. Sigle degne di un film sulla guerra fredda che indicano il meccanismo sul quale si fonda il “controllo delle frontiere esterne dell’Unione”. Eurosur, costato finora oltre 103 milioni di euro, è stato istituito nel 2013. In pratica è la rete attraverso la quale vengono trasmesse le informazioni sensibili. Tramite Eurosur Frontex acquisisce potere attraendo risorse e finanziamenti. L’ultima evoluzione di questo grande occhio sul Mediterraneo si chiama Mas, acronimo di “Multipurpose Aerial Surveillance”, ossia sorveglianza aerea polifunzionale. In un documento del 2018 di Frontex si legge che Mas “ha contribuito al successo” di molte operazioni di soccorso, salvando più di 1.900 persone. In quell’anno la Libia era già coinvolta nelle operazioni di ricerca e soccorso. E da Mas riceveva le informazioni per far partire le motovedette. “Le operazioni vengono eseguite ogni volta che Mas rileva la presenza di una barca e le autorità competenti vengono informate”, è scritto. L’autorità competente per l’area libica Sar, creata dopo la firma del memorandum Italia-Libia, è proprio la Guardia costiera libica, che grazie a quelle informazioni intercetta e respinge i migranti. Fabrice Leggeri, il direttore di Frontex, in una lettera inviata alla Commissione e pubblicata dal quotidiano britannico The Guardian, ha ammesso che l’Agenzia avverte tutti i centri di soccorso su entrambe le sponde del Mediterraneo. Dunque anche la Libia, che dopo il 2017 fa il lavoro sporco per l’Europa. Nel 2020 e nei primi mesi del 2021 sono state riportate in Libia più di 13mila persone, riferiscono le organizzazioni dell’Onu come l’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati. La maggior parte finisce nei centri di detenzione. Solo in pochi entrano in programmi di protezione dell’Unhcr, che solo nel 2019 ha portato fuori dalle prigioni quasi duemila persone. L’accordo e i droni - Il sistema di sorveglianza Mas-Eurosur è la porta di entrata per le industrie che producono i droni. Da Airbus, multinazionale aerospaziale e della difesa, prima per produzione di areomobili civili, all’Iai (Israel Aerospace Industries), alla Elbit, altra società di armamenti israeliana, all’italiana Leonardo, ex Finmeccanica. Proprio Leonardo ha firmato a febbraio 2021 un contratto da 6,9 milioni con il ministero dell’Interno italiano per il noleggio di un aereo senza pilota da usare nella sorveglianza marittima: “Per un periodo di 12 mesi in uso presso il centro nazionale di coordinamento-Eurosur”. Un buon affare per la società partecipata dal governo italiano: quasi 7 milioni di euro per un anno di sorvolo di un modello di drone usato anche in operazioni militari di intelligence. Le risorse stanziate provengono dal Fondo sicurezza interna 2014-2020 che vale quasi mezzo milione di euro, poco più della metà stanziati dall’Unione europea. Il dettaglio delle spese dell’intero progetto rivela il vero intento del fondo: la stragrande maggioranza delle risorse è stato destinato al controllo delle frontiere, con 367 milioni di euro di cui 48 per implementare la rete Eurosur e 82 milioni alla voce generica “strumenti Frontex”. Il 29 maggio 2018, per esempio, è stato il comando generale della Guardia di finanza a usare il fondo di sicurezza interna: 250 milioni di euro che sono stati dati a Leonardo per un aereo bimotore necessario al pattugliamento marittimo. In quegli anni Leonardo ha firmato anche un contratto direttamente con Frontex: nel 2018, per 300 ore di volo di un drone, al costo di 1,6 milioni. L’altro lotto lo ha vinto l’azienda israeliana, Iai. Nel 2020 stesso meccanismo ma stavolta i contratti li hanno siglati Airbus, Iai ed Ebit: due contratti per un totale di 100 milioni. I droni forniti da Iai sono velivoli militari, usati anche dalle forze armate. Tutte queste commesse, si legge nei documenti della gara, sono destinate a Italia e Malta. Il che vuol dire che da qui voleranno per vigilare sul tratto di Mediterraneo interessato. Leonardo ha fatto ricorso sull’ultima gara vinta da Airbus: la corte europea che tratta questo tipo di contenziosi ha respinto la richiesta dell’industria italiana, scrivendo in sentenza che potrà comunque partecipare a future gare senza alcuna limitazione. Leonardo, Airbus, Iai, Ebit sono le aziende che spesso sono state ospiti di Frontex in convegni in cui hanno presentato le tecnologie prodotte. Convegni organizzati anche prima della pubblicazione delle gare europee. Conflitto di interesse? Frontex ha risposto dicendo che l’Agenzia opera con la massima trasparenza, con fornitori affidabili e rispettando i principi etici. Se la sorveglianza delle frontiere è un affare redditizio e anche merito delle politiche di esternalizzazione delle frontiere, con la Libia delegata a effettuare quei respingimenti che l’Italia non può fare perché violerebbe i diritti umani. Politiche che trovano legittimazione definitiva nel memorandum d’intesa fortemente voluto da Minniti e Gentiloni. L’obiettivo primario dell’accordo è la formazione dei guardacoste libici, la creazione di un corpo in grado di badare alle proprie frontiere, bloccare le partenze o intercettare i gommoni carichi di migranti nella parte di Mediterraneo di competenza di Tripoli: per farlo è stata prevista l’istituzione di una zona Sar, di ricerca e soccorso, libica, all’interno della quale le motovedette, fornite dal governo italiano, avrebbero potuto operare in piena libertà per riportare nei gironi carcerari chi da lì stava fuggendo. Un cambio epocale, che ha aperto anche nuovi business per il controllo delle frontiere. Più informazioni si catturano dal cielo più i libici sono in condizione di bloccare le navi in partenza. L’obiettivo è evitare l’arrivo in Europa. Un muro invisibile, appunto. “Il memorandum non aveva questa intenzione, anzi finché siamo stati noi al governo la nostra Guardia costiera andava a salvare vite fin dentro le acque internazionali libiche”, precisa una fonte vicina all’ex ministro Minniti, che aggiunge: “Dovete indagare su cosa sia accaduto dopo”. Di certo non è solo merito dell’accordo, le istituzioni europee hanno contribuito stimolando il potenziamento della Guardia costiera libica, che con il governo gialloverde, ministro dell’Interno Matteo Salvini, è diventata protagonista dei respingimenti camuffati da salvataggi. Sono trascorsi quattro anni dal patto Italia-Libia. A febbraio scorso Minniti è stato nominato nella fondazione MedOr di Leonardo. Di cosa si occupa MedOr? “Permetterà in particolare di consolidare le relazioni con gli stakeholder dei paesi di interesse, al fine di qualificare Leonardo come un partner tecnologico innovativo nei settori dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza”. Settore di investimento, quest’ultimo, che ha risentito positivamente dell’accordo Italia-Libia firmato dall’ex ministro. Minniti, contattato, esclude che si possa parlare di conflitto di interesse: “Da ministro non trattavo appalti e non ho avuto alcun ruolo nei contratti di cui parlate”. Poi ci tiene a precisare che la fondazione di Leonardo non ha scopi di business: “Ha altre finalità, costruire un punto di vista comune su aree strategiche per l’Italia, come può essere il Mediterraneo, come del resto fanno molti altri paesi da tempi lontanissimi”. Il braccio Frontex - Perno di questa strategia anti immigrazione è Frontex: il budget destinato alla struttura con sede a Varsavia è cresciuto di continuo, toccando quota mezzo miliardo nel 2021. Nel bilancio dell’Unione europea sono indicate le previsioni di spesa destinata a Frontex nei prossimi anni: per il 2027 oltre 1 miliardo. Il capitolo generale del bilancio dell’Unione chiamato “gestione delle frontiere” passerà dagli attuali 1,8 miliardi (2021) agli oltre 3,6 tra sei anni. Un terzo spetta a Frontex, dove lavorano 1.300 persone che costano 88,6 milioni di euro: una media di 70mila euro a testa. La destinazione di questa massa enorme di risorse non ha pari tra le agenzie europee. Per esempio le strutture che si occupano di asilo politico, tutte assieme, non superano un budget di 400 milioni. E tutta la voce di bilancio “migrazioni” è pari al miliardo di oggi che diventerà oltre 2 nel 2027. La scelta dell’Europa è chiara: finanziare a tutto spiano l’Agenzia del respingimento, che supervisiona le regia dell’esternalizzazione delle frontiere, al centro però di recenti scandali e inchieste che ne hanno minato la credibilità. L’antifrode di Bruxelles (Olaf) sta indagando su alcune opacità gestionali, e seppure l’Agenzia sia stata prosciolta da ogni accusa sui respingimenti illegali nel mare Egeo resta il sospetto su alcune operazioni durante le quali di sicuro ha prevalso il laisseiz faire. Se poi ci si avventura nella lettura del bilancio di Frontex stupiscono le spese rilevanti per attività non strettamente connesse al controllo delle frontiere. A colpire è soprattutto la spesa per curare l’immagine dell’Agenzia più ricca d’Europa: più di un milione di euro per ufficio stampa e comunicazione. “L’ufficio stampa si occupa delle attività del portavoce, delle notizie, delle conferenze”, hanno risposto da Varsavia. A fronte di cifre così consistenti, l’attività social di Frontex dovrebbe essere piuttosto prolifica. Invece i social manager pubblicano uno, massimo due post al giorno. Nel 2019, si legge nel bilancio, sono stati fatti 300 tweet, meno di uno al giorno. Tra le spese dell’ultimo rendiconto disponibile troviamo feste per lo staff inclusi i parenti dei dipendenti: costo complessivo più di 200mila euro. “Sono eventi interni per creare coesione che favorisce l’interazione tra i dipendenti”, hanno spiegato dall’Agenzia. Tra gli eventi organizzati ci sono i party natalizi, gli happy hour mensili, le colazioni mensili per i compleanni e le attività per la creazione di un “coro di Frontex”. Inoltre, aveva rivelato Euobserver, dal 2016 al 2019, per eventi di gala l’agenzia ha speso 2,1 milioni. A seguire ci sono i costi di rappresentanza: 100mila euro. E mezzo milione per incontri tra i membri del board. Infine 7 milioni di noleggi. “Nel complesso le spese di locazione si riferiscono all’affitto delle strutture adibite a sede dell’agenzia, Frontex non le possiede. Attualmente queste strutture ospitano circa 800 membri del personale”. La sede e i lavori - Frontex ha sede a Varsavia. Sulla gestione degli attuali uffici la Corte dei conti europea ha avuto qualche dubbio. “Gli auditor della Corte - si legge in una relazione - hanno controllato un pagamento di 2 milioni di euro effettuato per lavori di ristrutturazione svolti nella sede dell’Agenzia”. In pratica l’ufficio diretto dal francese Fabirce Leggeri aveva modificato le disposizioni contrattuali in una fase molto avanzata del progetto, introducendo la possibilità di effettuare un prefinanziamento per lavori non ancora completati. Ma secondo le originarie disposizioni contrattuali i pagamenti dovevano essere effettuati solo a lavori ultimati. “Operando questa modifica, l’Agenzia ha rinunciato a un elemento chiave del controllo. Incide poi sulla capacità delle autorità di bilancio di monitorare in modo appropriato l’esecuzione del bilancio e le attività dell’Agenzia” si legge nei documenti della Corte dei conti. Sospetti sull’operazione, dunque, ai quali Frontex ha risposto convincendo i giudici contabili europei. Il regolamento finanziario dell’Ue consente i pagamenti solo una volta che i lavori sono stati effettuati, mentre nel caso della sede di Varsavia, l’Agenzia ha autorizzato un pre finanziamento. “Frontex occupa le sue attuali strutture dal 2015 e sono stati necessari alcuni lavori di ristrutturazione, che non sono stati completati come previsto a causa di gravi difficoltà nel mercato edile polacco”, ha risposto Frontex. I documenti ottenuti mostrano che l’Agenzia ha utilizzato un pre-finanziamento, ma che l’azienda polacca deve ancora rimborsare i soldi, perché? “Il pre finanziamento è stata una soluzione che ha permesso di proseguire e completare la ricostruzione dell’edificio. È stato pagato il proprietario e non l’appaltatore. Il proprietario restituirà a Frontex i fondi inutilizzati, il tutto garantito da garanzie contrattuali” dicono dall’Agenzia. Un altro documento, tuttavia, mostra che dopo aver anticipato 2 milioni per rinnovare la sede in affitto, di proprietà di un privato, Frontex nei mesi scorsi ha pubblicato un avviso di gara per la realizzazione del nuovo quartier generale sempre a Varsavia: “Un edificio di 70mila metri quadri per una media di 2.000 membri del personale”. Duemila dipendenti a fronte di effettivi 1.300. L’appalto da 112 milioni - Il prezzo di partenza è notevole: 112 milioni di euro. Su questi appalti al momento non c’è nulla di penalmente rilevante, a differenza degli affidamenti fatti negli anni a un’azienda informatica polacca, l’ultimo del valore di 50 milioni. Su questi contratti polacchi il direttore Leggeri era stato avvertito di possibili irregolarità da funzionari interni, ma, come hanno rivelato le testate giornalistiche Der Spiegel, Libération e Lighthouse, Frontex ha continuato a stipulare accordi con la stessa società. Un affare sul quale indaga l’antifrode, che ha già passato al setaccio gli uffici dell’Agenzia europea da cui dipende parte dei profitti dei colossi degli armamenti. Turchia. Golpe, 147 condanne e nessuna verità di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 8 aprile 2021 Il maxi processo si chiude con dure pene carcerarie (tra cui 32 ergastoli) e accuse di torture e pestaggi in cella. Ma non c’è luce sulle responsabilità politiche né sui legami tra l’Akp di Erdogan e la rete Hizmet di Gulen. Il ruolo europeo si riduce al penoso siparietto della sedia negata a Von der Leyen. Si è concluso ieri il maxi-processo noto come “processo del reggimento della guardia presidenziale”, dal nome della prestigiosa unità dell’esercito turco coinvolta nel tentato golpe del 2016 e per questo successivamente disciolta. I giudici della 19a Alta Corte Penale di Ankara hanno comminato sentenze di condanna per 149 dei 497 imputati, inclusi 32 ergastoli di cui sei aggravati, provvedimento che nega ogni futura possibilità di libertà condizionale. Ad altri 106 imputati sono state inflitte condanne variabili tra i sei e i 16 anni, per gli 11 ancora latitanti non si è giunti a sentenza definitiva. Tra i condannati anche Umit Gencer, il tenente colonnello che la sera del 15 luglio 2016 obbligò la presentatrice della televisione pubblica TRT Tijen Karas a leggere in diretta nazionale il comunicato dell’autoproclamato Consiglio “Pace a Casa”, con cui si annunciava il golpe al paese. Il processo era parte del filone di azioni giudiziarie scaturito dal tentato golpe in Turchia del 2016, durante il quale 251 civili furono uccisi e oltre 2mila feriti nel tentativo riuscito di fermare le fazioni golpiste dell’esercito. Iniziato nell’ottobre 2017 per un totale di 243 udienze, il processo ha visto alla sbarra militari accusati di essere membri della rete religiosa chiamata Hizmet (o con il dispregiativo Cemaat) e guidata dall’imam Fethullah Gulen, per il governo ideatore del tentato golpe. Ankara lo accusa di essere dietro una lunga campagna per rovesciare lo Stato attraverso l’infiltrazione nelle istituzioni turche. Gulen, ex alleato di Erdogan, ha sempre negato ogni responsabilità. Mentre si avviano alla conclusione i processi a carico di militari, funzionari statali e semplici cittadini accusati di simpatizzare per le forze golpiste, non è mai stato possibile fare chiarezza sulle responsabilità politiche del tentato golpe. A nulla sono serviti i tentativi dei partiti di opposizione di istituire una commissione che fornisse al parlamento turco gli strumenti per fare luce sui legami tra mondo della politica e le formazioni golpiste. Il riferimento va in particolare, ma non esclusivamente, alla storica alleanza tra l’Akp di Erdogan e la Hizmet di Gulen, oggi argomento tabù, e dal cui collasso negli anni a cavallo tra il 2009 e il 2013 si può far risalire la catena di eventi che avrebbe poi condotto ai carri armati del 15 luglio. La composizione delle forze golpiste, le dinamiche degli eventi e le responsabilità individuali e collettive del golpe continuano a essere in Turchia oggetto di un dibattito pubblico acceso, ma appena sussurrato, reso pericoloso dal clima tossico, in cui non allinearsi alla narrativa ufficiale corrisponde, agli occhi delle autorità, a un’effettiva ammissione di solidarietà verso i golpisti e di conseguenza ad azioni giudiziarie ed extra-giudiziarie anche molto pesanti. L’auspicata verità che scaturisce dalle aule di tribunale continua a essere macchiata dalle accuse di pestaggi, violenze e torture nelle carceri, denunciate più volte da Amnesty International, dall’uso sistematico di leggi speciali che hanno reso i procedimenti giudiziari torbidi e dal progressivo restringimento del diritto di difesa nelle aule di tribunale. Vicende su cui l’Europa avrebbe potuto provare a esercitare una sua influenza regionale, in un tempo in cui la candidatura turca all’Unione era ancora credibile. Ma che oggi si rivela nel penoso siparietto della seggiola negata alla presidente della Commissione Von der Leyen durante l’incontro con Erdogan, sintomo visibile dell’impotente e alquanto cinico assistere dell’Europa al consumarsi della tragedia turca. Al di là del desiderabile fallimento dell’ennesimo golpe militare, di cui la Turchia è stata fin troppe volte periodicamente vittima nel corso del XX secolo, gli eventi del 15 luglio 2016 hanno rappresentato il culmine violento di uno scontro di potere intestino che ha prodotto una vittima: la democrazia turca. Russia. L’odissea di Lada, influencer ribelle che rischia di morire in carcere di Irene Soave Corriere della Sera, 8 aprile 2021 Lada Malova sta morendo in carcere per malattie polmonari. Il suo rilascio però è “quasi impossibile”. La durezza delle carceri russe è sotto i riflettori in questi giorni per le dure condizioni in cui è detenuto l’oppositore Aleksej Navalny, rinchiuso nella famigerata colonia penale Ik-2 e probabilmente malato di tubercolosi. In una cella più lontana dai riflettori internazionali, però, sta morendo con sintomi molto simili la 24enne Lada Malova, quasi ignota fuori dalla Russia ma celebre in patria per avere documentato a lungo sui social la sua vita di adolescente fra droga e glamour. In carcere - nel penitenziario femminile di Tosnensky, non lontano da San Pietroburgo, dove è a metà della pena che deve scontare, 7 anni e 10 mesi - ha contratto varie malattie gravi ai polmoni e rischia di morire. La madre chiede che venga rilasciata per curarla; ma una lite con una guardia del carcere, riporta l’avvocato dell’ong che segue il suo caso, ha vanificato questa speranza. La carriera da “influencer” su Dvach - Tutto è cominciato nel 2015. Lada e il fidanzato dell’epoca (ora sparito), vengono arrestati con l’accusa di produrre e vendere anfetamine. Lei, allora 19 anni, era già da tre una specie di star di 2ch.ru, detto Dvach, un canale web di video e contenuti anonimi che è tuttora il forum più frequentato in Russia: i suoi video documentavano e praticamente recensivano le sue esperienze con varie droghe: marijuana (molta) ma anche pillole, coca, grandi dosi di superalcolici. A casa o nei locali di Mosca e San Pietroburgo: era sempre in viaggio. Con lei un amico, Alexander, che sarebbe morto nel 2016 di overdose da metadone. Così la polizia incastrò Lada - Un pomeriggio la chiama un conoscente di nome Yura. Insiste moltissimo - “mi chiamò settanta volte, sembrava impazzito” - perché lei gli venda due etti di anfetamine. Lei non li ha. La raffica di chiamate, sempre a decine al giorno, dura due mesi. Yura passa presto alle minacce. Queste pillole, dice, gli servono per un amico di nome Edik. “Edik” è in realtà un agente della narcotici in borghese; al processo Yura non sarà mai nemmeno interrogato. A incastrare Lada, il giorno dell’acquisto, “Edik” (in ferie) manda una collega, che si presenta come la sua fidanzata; Lada le dà una bustina piena di polveri cosmetiche, prese dai cassetti della madre che è operaia in una fabbrica di ombretti a Mosca. I due capi d’accusa con cui è arrestata si contraddicono tra loro: spaccio di sostanze stupefacenti (che però erano cipria) e tentata frode. Nelle sue deposizioni al processo racconta di non aver mai prodotto droga, e aver dato queste polverine al finto cliente perché terrorizzata dalle centinaia di telefonate. Il giudice non si impietosisce, e Lada Malova finisce in carcere. Detenuta modello - Al penitenziario di Tosnensky diventa presto una detenuta modello, tanto che la tv di Stato la riprende in un documentario sulla riabilitazione dei detenuti mentre fabbrica piccole civette giocattolo. La madre Lyudmila, di lei, non ha altro che una di queste civette, regalatele dalla figlia: Lada non può ricevere visite. A maggio scorso, nelle telefonate alla madre, ha cominciato a lamentare fiato cortissimo, stanchezza cronica. Un test sierologico mostra che in prigione ha contratto - e superato - il Covid, ma i suoi polmoni mostrano sintomi di varie altre malattie: tubercolosi, fibrosi polmonare, e una sarcoidosi polmonare che a oggi è al terzo stadio. La sua epilessia, di cui soffre da sempre, si è aggravata, e ha sintomi schizofrenici. Dopo la diagnosi, a luglio, la madre ha chiesto che venisse ospedalizzata; ma Lada Malova è stata rimandata in cella, e da allora peggiora vistosamente. Gli appelli: “liberatela” - “Costretta a fare gli esercizi mattutini dalle guardie, senza nemmeno avere le forze per rifarsi il letto”, riporta il suo avvocato Aleksej Pryanashnikov al sito russo Meduza.io, spiegando anche che “la sarcoidosi, l’unica malattia che le è stata diagnosticata finora, non rientra tra quelle che l’ordinamento ritiene sufficienti per lasciare il carcere”. Dunque Malova resta in cella: l’ultima decisione per la scarcerazione di un malato, “anche terminale”, spetta al giudice; e la celebrità di cui Malova godeva da teenager per i suoi video glamour di sballi e vita notturna gioca sempre a suo sfavore. Nel frattempo la cura per la sarcoidosi con farmaci steroidei ha causato una tubercolosi, spiega il suo avvocato; nelle lettere alle amiche Malova scrive di biopsie in arrivo e di un imminente trasferimento in un carcere della Carelia (è invece stata trasferita in Mordovia, e la madre lo ha saputo solo il 14 marzo scorso, una settimana dopo). I suoi sintomi sono simili a quelli che lamenta Aleksej Navalny, per cui è stata ipotizzata una tubercolosi; la sorte dei due detenuti è un’incognita che il mondo sta a guardare.