L’ergastolo ostativo e il sovranismo giudiziario di Caselli di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 aprile 2021 Sull’ergastolo ostativo scatta il solito tic nazionalista contro la Cedu. In attesa del pronunciamento della Corte costituzionale, che ha prolungato la discussione sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, sui media è partita la grancassa di chi tenta di condizionare i giudici paventando il rischio di un cedimento alla criminalità organizzata. Anzi, di un vero e proprio favore ai mafiosi. Per fortuna non siamo in presenza, o quantomeno nessuno è a conoscenza, di minacce sui giudici supremi, altrimenti saremmo già in zona “trattativa”. Ma uno degli argomenti più utilizzati dai sostenitori dell’ergastolo ostativo, è quello espresso da Gian Carlo Caselli sul Corriere della Sera: chi l’ha detto che l’Italia deve rispettare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo? “Il pronostico si basa sul fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo l’ergastolo ostativo lo ha già demolito con una sentenza del 2019” - scrive Caselli. Ma siamo sicuri che la suprema istanza della giurisdizione italiana debba, sempre e comunque, prestare incondizionato e pedissequo ossequio alla Giustizia europea?”. Caselli aveva usato lo stesso argomento per la sentenza a favore di Bruno Contrada: “Non credo che la Cassazione possa accucciarsi pedissequamente su una sentenza straniera, sia pure della Cedu”. Il vocabolario, da difesa del Piave giudiziario, è lo stesso. E si basa sull’idea di un eccezionalismo italiano che, in nome del contrasto alla mafia, relativizza alcuni princìpi e diritti universali sanciti nella Cedu. Ma la Corte di Strasburgo non è un tribunale “straniero” formato da giudici ignoranti del fenomeno mafioso, è una corte a cui l’Italia aderisce e che si pronuncia sul rispetto di princìpi e valori che sono gli stessi della nostra Costituzione. Il sovranismo evocato da Caselli è solo la declinazione giudiziaria di una forma di pensiero reazionario. Per fare la lotta alla mafia non è necessario violare i diritti dell’uomo (e quindi costituzionali). Carcere e Covid, aumentano i focolai: “Rischio per la salute pubblica” di David Allegranti La Nazione, 7 aprile 2021 Il caso della sezione femminile di Rebibbia: 56 casi di contagio. Salgono a 54 le detenute positive nel carcere di Rebibbia, a Roma. La scorsa settimana erano 40. Anche sei agenti sono stati contagiati, dice il sindacato di polizia penitenziaria SPP. “Vista l’entità del numero dei contagi - dice il segretario Aldo Di Giacomo - potrebbero seriamente iniziare a mancare i posti in isolamento sanitario. Pare opportuno, così come è avvenuto ed avviene in altri istituti penitenziari, valutare la possibilità di uno sfollamento. L’obiettivo si sostanzierebbe nell’evitare il rischio che in caso di mancato contenimento, per le dimensioni ed il numero di persone che ruotano intorno al carcere di Rebibbia che ricordiamo essere il carcere femminile più grande d’Europa, il focolaio possa diventare un rischio anche per la salute pubblica ed esterna alle mura del carcere, in primis per le famiglie del Personale”. Appare inoltre indispensabile, aggiunge Di Giacomo, “monitorare costantemente l’andamento dei contagi mediante esecuzione di tamponi molecolari, ripetuti a distanza di tempo, sia per il personale che per la popolazione ristretta. Va assolutamente velocizzata la somministrazione dei vaccini nelle carceri di tutto il territorio nazionale cosicché, al pari di quanto accaduto nelle Rsa, possa essere ridotto e arginato il pericolo di ulteriori focolai”. I dati in carcere insomma continuano a essere pessimi. Lo dice anche il il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci, che sottolinea: “Dai dati in nostro possesso circa il 9 per cento della popolazione detenuta in carcere, risulta avere attenuto la prima dose delle vaccinazioni a fronte di circa il 30 per cento del personale di Polizia Penitenziaria mentre, focolai di notevole gravita? sono in questo momento in atto negli istituti penitenziari di Asti, Pesaro, Saluzzo, Roma Rebibbia, Milano Bollate, Cuneo, Melfi, Volterra, Padova, Napoli Secondigliano e Lecce. Vi sono addirittura regioni quale il Lazio dove non sono state effettuate vaccinazioni ne? per il personale ne? per l’utenza penitenziaria”. D’altro canto, spiega ancora Beneduci, “non risulta siano state sospese sul territorio quelle attività? che portano da un lato al costante contatto diretto con il carcere di soggetti provenienti dall’esterno e d’altro canto ai quotidiani spostamenti di detenuti da una sede all’altra con ciò? incrementando ulteriormente il rischio del diffondersi della pandemia”. Più custodia cautelare in carcere per gli stranieri nonostante i reati meno gravi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 aprile 2021 Al 31 marzo 2021, su un totale di 53.509 detenuti 17.131 sono stranieri e molti subiscono maggiormente la custodia cautelare in carcere. Gli stranieri subiscono maggiormente la custodia cautelare in carcere, nonostante siano autori di reati meno gravi. Al 31 marzo 2021, su un totale di 53.509 detenuti 17.131 sono stranieri. Dall’ultimo rapporto di Antigone “Oltre il virus” si evince che, al 31 gennaio 2021, il 18,1% si trovava in carcere in attesa di primo giudizio. A parità di condizione, i detenuti italiani in attesa di primo giudizio rappresentavano il 15,4% dei reclusi (italiani). Il 16,1% degli stranieri si trova in carcere con una condanna non ancora definitiva. Gli italiani nella stessa condizione sono il 14,7%. I condannati definitivi sono il 69,1% italiani e il 65,3% stranieri. Per quanto riguarda le pene inflitte, al 31 dicembre 2020 i detenuti stranieri che sono ristretti per scontare da 1 mese a 1 anno rappresentano il 45,9% sul totale dei detenuti con la stessa pena. Mentre il 30,3% dei detenuti che scontano tra 5 e 10 anni sono di nazionalità diversa dall’italiana, il 12,4% dei detenuti che scontano oltre 20 anni sono stranieri e solo il 6,3% degli ergastolani ha una nazionalità diversa dall’italiana. Sempre a fine anno, i reati per cui principalmente i detenuti stranieri si trovavano reclusi sono: i reati contro il patrimonio, i reati contro la persona, la violazione delle norme sugli stupefacenti. Mentre è assolutamente bassissima la quantità di reclusioni per associazione di stampo mafioso (250 detenuti stranieri si trovavano ristretti per questa ragione a fronte di oltre 7024 detenuti italiani), e per violazione delle leggi sulle armi (769 gli stranieri e 8628 gli italiani). Questo è un dato importante che può dire molto in un’ottica di contro narrazione relativa alla pericolosità sociale della popolazione non italiana. Paradigmatico, nel considerare questa riduzione di presenza degli stranieri, è il caso dei romeni. Al 28 febbraio 2021 erano 2.049, pari al 3,81% del totale dei detenuti presenti. Nel 2009 erano ben 2.966, pari al 4,57% del totale. Un calo enorme, sia in termini percentuali che assoluti. Al 31 dicembre 2020 il continente più rappresentato tra la popolazione detenuta straniera in Italia era l’Africa, con 9.261 ristretti, la maggior parte dei quali proveniente dal Nord Africa, e in particolare da Marocco (3.308) e Tunisia (1.775), con la Nigeria unico stato dell’Africa Subsahariana a rilevare, con i suoi 1.451 detenuti. Alla stessa data, dall’area Ue provengono 2.691 detenuti. L’Albania, con 1.956 detenuti, è lo stato balcanico extra Ue con il più alto numero di detenuti in Italia. Vi sono però istituti con una presenza percentuale di detenuti stranieri elevatissima. È questo il caso delle due case di reclusione sarde di Arbus Is Arenas e Lodè-Mamone, rispettivamente con il 78,5% e il 78,2%. Secondo Antigone, ciò appare un vero e proprio confino. Senza parlare del fatto che dei 67 mediatori culturali previsti in pianta organica, in servizio in tutta Italia ce ne sono solo 3. Giustizia, il M5S non la spunta sul Trojan “pigliatutto” di Liana Milella La Repubblica, 7 aprile 2021 Ci vorrà un decreto di perquisizione per copiare rubrica, foto e contatti. Duro scontro nella maggioranza, nonostante la mediazione della ministra Cartabia. Il Pd accetta la richiesta di Azione, Forza Italia, Lega e Italia viva. La regia di Giulia Bongiorno. Sui poteri del Trojan tre ore di scontro nella commissione Giustizia della Camera. Alla fine il risultato è questo: la microspia inoculata nel cellulare potrà prendersi dal telefono controllato una foto che viene inviata. Ma per “rubare” anche tutte le foto, i contatti, i video preesistenti sarà necessario invece un decreto di perquisizione chiesto dal pm. Il governo regge. Vota contro solo Fratelli d’Italia. Ma si tratta di un parto difficilissimo che ha rasentato la rottura. Perché M5S è contro tutto il resto della maggioranza sull’uso del Trojan “pigliatutto”. Nonostante la mediazione della ministra Marta Cartabia favorevole a una disciplina più garantista, quella che alla fine passa, e che prevede un decreto di perquisizione e non un’acquisizione automatica di tutto quello che sta intorno al Trojan. D’accordo su questo il centrodestra, con i deputati della Lega in stretto contatto con la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno. Alla fine anche il Pd dice sì. E M5S accetta l’ultima versione del testo. Dopo la “scoperta” - fatta da Enrico Costa di Azione - di un box malandrino nel decreto sui costi delle intercettazioni dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Testo che, nella sua versione originale, avrebbe consentito al Trojan “pigliatutto” di copiare anche la rubrica dei contratti, le foto, i video, le password, nonché tutte le comunicazioni avvenute su Whatsapp, Signal, Skype, Messenger, Facebook, Instagram, Twitter. Una riunione fiume, più volte interrotta. In contatto con la Guardasigilli Cartabia. Mentre in commissione Giustizia alla Camera c’è il sottosegretario Francesco Paolo Sisto di Forza Italia. Ma anche la sottosegretaria grillina Anna Macina segue i lavori da via Arenula. Sul tavolo il decreto di Bonafede, con il riquadro contestato tre settimane fa da Costa, e poi da Forza Italia, Lega, Italia viva. Contro ovviamente anche Fratelli d’Italia. Quel box dice che il Trojan può anche procedere automaticamente “all’acquisizione della rubrica dei contatti, della galleria fotografica e dei video realizzati e comunque presenti, delle password con funzione di keylogger, nonché di tutte le ulteriori comunicazioni operate attraverso applicazioni di messaggistica quali Whatsapp, Signal, Skype, MSN, Facebook, instagram, twitter”. È, appunto, il Trojan “pigliatutto” che secondo M5S non avrebbe bisogno di ulteriori autorizzazioni. Ma il centrodestra non ci sta. Segue Costa nella battaglia cominciata a metà marzo. Giulia Bongiorno, da avvocato, stabilisce una linea invalicabile con i suoi deputati. Idem Forza Italia con Pierantonio Zanettin e Giusi Bartolozzi. Vogliono che, per questa “acquisizione” invece sia obbligatorio un decreto di perquisizione, come prevede l’articolo 247 del codice di procedura penale. Quindi il Trojan non può automaticamente pigliarsi tutto quello che trova, può solo prendersi una foto o un contatto o un video che viene inviato in quel momento, ma serve invece un passo ulteriore del pubblico ministero che chiede uno specifico decreto di perquisizione per impossessarsi della rubrica dei contatti, delle foto e dei video. Ma la battaglia è lunghissima. Comincia alle 18 e trenta, s’interrompe dalle 19 alle 20, riprende, si ferma ancora. Mentre il sottosegretario Sisto, in contatto con Cartabia, propone una serie di piccole modifiche. Ma M5S non ci sta. Protesta la sottosegretaria Macina. E neppure Giulia Sarti, relatrice del provvedimento, grillina della prima ora e fedelissima di Bonafede, ex presidente della commissione Giustizia, autosospesa da M5S due anni fa per un’intricata storia di mancati rimborsi, accetta la soluzione. Mentre il Pd, con Alfredo Bazoli, che fino a ieri faceva squadra con M5S, passa sul fronte opposto, soprattutto per la posizione assunta da Cartabia. M5S chiede di cambiare un verbo laddove è scritto che “l’acquisizione sia intesa come attività d’indagine sottoposta alle condizioni degli articoli 247 e seguenti del codice di procedura penale”, quelle che prevedono appunto il decreto di perquisizione. Chiede che il “sia intesa” diventi un “può essere” intesa. Che però, giuridicamente, non avrebbe nessun senso. O può o non può. Tant’è che gli altri si oppongono. Arriva un’altra ipotesi, “sia previsto nell’ambito di un’attività d’indagine...”. Niente da fare, alle 21 e venti il testo cambia ancora perché M5S s’impunta. E dice così: il Trojan potrà fare le acquisizioni “quando non rientri nei flussi di comunicazione, sia previsto nell’ambito dell’attività di indagine sottoposta alle condizioni dell’articolo 247 del codice di procedura penale”, cioè quello che impone il decreto di perquisizione. Secondo M5S, come dice la sottosegretaria Anna Macina, “si tratta di modiche che hanno un effetto placebo, ma la chiusura della trattativa dimostra che è fallito l’ennesimo blitz per depotenziare l’utilizzo del Trojan”. Le altre condizioni bloccano la possibilità di effettuare le registrazioni fuori dagli uffici della procura e della polizia giudiziaria. Nonché le garanzie sulla conservazione e sulla gestione dei dati raccolti. Intercettazioni. Cartabia manda gli ispettori a Trapani. Fnsi: “Adesso interventi legislativi” di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 aprile 2021 Ieri pomeriggio manifestazione virtuale a difesa della libertà di stampa. I sindacati chiedono di rendere pubblico l’elenco completo dei giornalisti intercettati. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha inviato all’ispettorato generale una richiesta formale di “svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari” sull’inchiesta di Trapani. Nei giorni scorsi Andrea Palladino aveva rivelato sul quotidiano Domani che nelle 29mila pagine di accusa contro le Ong Iuventa, Medici senza frontiere e Save the Children ci sono anche intercettazioni di giornalisti che negli anni scorsi hanno raccontato, sul campo, il soccorso umanitario nel Mediterraneo centrale e la difficile situazione libica. La notizia è stata diffusa ieri dal ministero di via Arenula mentre si apriva un’iniziativa a difesa della libertà di stampa organizzata da Articolo 21 e Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi). Tra gli ospiti avvocati e giornalisti intercettati e i rappresentati del sindacato. Durante la “manifestazione virtuale” sono emersi elementi inquietanti relativi alle registrazioni delle conversazioni telefoniche e alla loro trascrizione e conservazione nelle carte dell’inchiesta. “Le intercettazioni che mi riguardano sono state disposte ai sensi dell’articolo 266 comma 2 del codice penale che consente di intercettare persone non indagate. Ogni 15 giorni il Pm chiedeva al Gip di rinnovare l’autorizzazione. Sono andati avanti per mesi, ma poi nell’informativa finale non è rimasta neanche una riga. Se le informazioni raccolte non erano rilevanti perché continuavano a intercettarmi?”, ha detto Nancy Porsia. La reporter freelance si era trasferita in Libia nel 2013 ed è stata tra i pochissimi giornalisti a livello internazionale a lavorare sul campo negli anni più difficili per il paese nordafricano. “Di ciò di cui ho discusso con le mie fonti libiche non c’è nulla nelle carte. Temo che quelle registrazioni siano finite altrove”, ha detto Porsia, puntando il dito contro il Servizio centrale operativo della polizia, che ha condotto le indagini al servizio del Viminale guidato da Marco Minniti (Pd). Nello Scavo, del quotidiano Avvenire, ha parlato di un modus operandi che “getta scandalo” sulle indagini e ha sottolineato gli effetti che l’inchiesta sta già producendo. “Le fonti sono preoccupate. Avremo ancora testimoni disposti a farsi intercettare per passare informazioni ai giornalisti?”, ha chiesto. Il cronista di Radio Radicale Sergio Scandura ha inserito il procedimento di Trapani nel contesto del “buco nero” del Mediterraneo centrale. “A essere colpito è il diritto alla conoscenza”, ha affermato Scandura. Il giornalista ha messo in fila alcune delle modalità utilizzate per far calare il silenzio su ciò che accade in mare: dai porti di sbarco interdetti alla stampa ai centralini della guardia costiera che non rispondono più al telefono. Raffaele Lorusso e Beppe Giulietti, rispettivamente segretario generale e presidente Fnsi, chiedono di intervenire a livello legislativo a protezione della libertà di stampa sbloccando le norme ferme in parlamento: dal tema delle querele bavaglio alla tutela del segreto professionale. Intanto il numero dei giornalisti intercettati nell’inchiesta di Trapani, e in quella di Siracusa contro Mediterranea, potrebbe essere più ampio, includendo reporter stranieri e altri giornalisti Rai. “Sia reso noto l’elenco completo”, hanno scritto in una nota congiunta Usigrai e Fnsi. I cronisti intercettati? La legge è uguale per tutti di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2021 In questi giorni ci sono state ulteriori polemiche sulle intercettazioni. Per poterne discutere è opportuno avere chiari alcuni termini del problema. Secondo la Costituzione della Repubblica Italiana (art. 15) la limitazione della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione si applica “soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge”. Questo primo dato spazza via i confronti numerici fra le intercettazioni fatte in Italia e quelle fatte all’estero. Mentre in altri Stati l’esecutivo può disporre intercettazioni, in Italia tutte le intercettazioni devono essere disposte o autorizzate dall’autorità giudiziaria: persino quelle effettuate dai servizi di sicurezza per ragioni diverse da quelle collegate a processi penali devono essere autorizzate da un magistrato (nella specie il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma). Quando si afferma che negli Stati Uniti d’America si fanno meno intercettazioni che in Italia si dice una cosa non vera. Certo che negli Usa ci sono meno autorizzazioni giudiziarie, ma, per esempio, la National Security Agency effettua centinaia di milioni di intercettazioni (fra l’altro intercettò anche i vertici politici europei) senza alcun bisogno di autorizzazioni giudiziarie. Quanto alle garanzie previste dalla legge, in ambito processuale, le intercettazioni devono essere autorizzate dal giudice. In casi di urgenza il pubblico ministero può disporle direttamente, ma immediatamente e comunque entro 24 ore deve chiedere la convalida al giudice e se questa non interviene nelle successive 24 ore, le intercettazioni non possono proseguire e i risultati non sono utilizzabili. Le intercettazioni possono essere disposte solo per determinati reati (quelli puniti con pena superiore nel massimo a cinque anni di reclusione e altri specificati) e l’autorizzazione può essere data solo se è assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini. Ottenuta l’autorizzazione, il pubblico ministero può disporre le operazioni per non oltre 15 giorni, salvo proroghe del giudice per periodi di pari durata massima (i termini sono maggiori per la criminalità organizzata). Per disporre le intercettazioni è necessario che sussistano gravi indizi di reato (sufficienti anziché gravi per la criminalità organizzata): attenzione non gravi indizi colpevolezza a carico di qualcuno, ma che un reato sia stato commesso. Questo significa che non deve essere intercettato solo chi è raggiunto da gravi indizi di colpevolezza, ma può esserlo chi è estraneo al reato o ne è vittima. Ad esempio nei sequestri di persona a scopo di estorsione vengono intercettati parenti e amici del sequestrato nella speranza di individuare i sequestratori che chiamano per chiedere il riscatto. Quindi non ha senso lamentare che una persona è stata intercettata anche se estranea al reato. Ci sono alcuni limiti, ma essendo eccezioni non sono estensibili: così non possono essere intercettate le conversazioni fra imputato (o persona sottoposta a indagini) e il suo difensore. Tale divieto non esiste rispetto ad altri detentori di segreti professionali (un commercialista un medico). I giornalisti possono opporre il segreto sulla identità delle loro fonti, ma non esiste un divieto di scoprire tali fonti. Rimane il fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che i giornalisti, in un sistema democratico, svolgono una funzione essenziale: quella di informare l’opinione pubblica, sicché indagini troppo invasive su di loro non sono lecite se possono compromettere questa funzione, ma solo per la funzione non per la persona. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani, secondo le agenzie di stampa, ha dichiarato: “La giornalista Nancy Porsia è stata intercettata per alcuni mesi nella seconda metà del 2017, perché alcuni soggetti indagati facevano riferimento a lei che sí trovava a bordo di una delle navi oggetto di investigazioni. Nessun altro giornalista è stato oggetto di intercettazioni. In ogni caso, voglio sottolineare subito che nella informativa riepilogativa dell’intera indagine depositata nello scorso mese di giugno, non c’è alcuna traccia delle trascrizioni delle intercettazioni della giornalista”. Non sembra che in questo caso ricorrano situazioni fra quelle che possono incidere sul diritto-dovere di informare. Purtroppo le leggi ad personam hanno fatto venire a tanti in Italia la voglia di avere uno status speciale, cioè di non essere chiamati a rispondere indeterminate ipotesi o per particolari reati, o di non poter essere destinatari di atti di indagine. Bisognerebbe, però, ogni tanto ricordare che l’art. 3 della Costituzione dice che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Garanzie e libertà non possono essere la Cenerentola del diritto di Catello Vitiello Il Riformista, 7 aprile 2021 La perenne contrapposizione dialettica fra politica e magistratura non può impedire che si discuta dei problemi concreti della quotidianità giudiziaria che vanno affrontati e risolti all’insegna della buona amministrazione. Sono anni che il palese malfunzionamento della macchina impedisce il rispetto dei diritti e dei doveri sacramentati dalla Carta Costituzionale. Eppure si fanno riforme che puntano agli effetti e non alle cause. Esempio lampante è la prescrizione: non si adottano misure per accelerare il processo penale, ma si decide di celebrarlo in eterno. Con buona pace del giusto processo, della ragionevole durata, della presunzione di innocenza e della rieducazione della pena. Ed è proprio quest’ultima a tenere banco nel Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Da decenni. A nulla sono servite le doglianze della classe forense che, non solo oggi, denuncia tempi lunghissimi per la registrazione delle istanze provenienti dai detenuti e dai loro difensori, continui rinvii delle udienze dovuti a carenza o assenza di istruttorie, intempestività dei provvedimenti rispetto al fine pena o alle esigenze degli istanti, ritardi nella decisione delle richieste di detenzione domiciliare per motivi di salute e ulteriori criticità e disfunzioni. A nulla sono servite le segnalazioni dell’ormai ex presidente Adriana Pangia, da poco in pensione, a Ministero della Giustizia, Dap, Regione Campania e Comune di Napoli per denunciare la carenza di personale amministrativo nel Tribunale di Sorveglianza. Segnalazioni rivolte non oggi, ma dal 2016 e per tutta la durata del suo mandato. E la recente querelle nata a seguito del dossier inviato al Csm dall’attuale presidente Angelica Di Giovanni, allo stato facente funzioni, sembra più un grido di dolore che uno scontro fra posizioni antagoniste. La Camera penale di Napoli ha doverosamente puntualizzato che la carenza di mezzi e risorse provoca la sistematica violazione dei principi costituzionali e dei diritti dei detenuti, mortificando il lavoro e i sacrifici di tutti gli operatori coinvolti. È arrivato il momento che la politica faccia la sua parte, non per discutere dei massimi sistemi del processo penale né tanto meno per domandarsi se Montesquieu avrebbe ancora ragione oggi, ma per amministrare adeguatamente la cosa pubblica (in pratica, rispettando i fondamentali delle proprie prerogative) e risolvere tutte quelle disfunzioni che mortificano l’esecuzione penale. Avvocatura e magistratura, da tempo, chiedono all’unisono che la Sorveglianza non sia la Cenerentola della Giustizia e che il principio costituzionale della rieducazione della pena non resti lettera morta a Napoli. E non c’è spazio per una lotta di classe. Non v’è e non ci deve essere contrapposizione in una battaglia di civiltà giuridica che vede un’unica responsabilità, quella della politica: ci sono circa 52mila procedimenti arretrati, come lamentato dal presidente della Corte d’Appello di Napoli, nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, con una scopertura della pianta organica del personale di quasi il 50%. Ci vogliono risorse e ci vogliono subito, affinché le decisioni in tema di garanzie e libertà dei detenuti siano tempestive, i reclusi non perdano la speranza di essere ascoltati e il carcere non perda umanità. L’interrogazione del collega Riccardo Magi va condivisa: è solo l’inizio di una battaglia che continueremo in Commissione Giustizia alla Camera. Decine di avvocati spiati con i loro assistiti: “Così si viola il diritto di difesa” di Simona Musco Il Dubbio, 7 aprile 2021 Dal caso di Pier Giorgio Manca all’inchiesta sulle Ong della Procura di Trapani: così le intercettazioni violano il patto tra legale e assistito. E la ministra Cartabia invia gli ispettori in Sicilia. Contro le intercettazioni selvagge la ministra della Giustizia Marta Cartabia “sguinzaglia” gli ispettori. A via Arenula è stato infatti formalmente aperto un fascicolo sull’inchiesta della Procura di Trapani sulle Ong, nell’ambito della quale diversi giornalisti e avvocati sono stati intercettati. All’ispettorato generale è stata dunque data disposizione di “svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari, formulando all’esito valutazioni e proposte”. Un vero e proprio faro acceso, dopo la denuncia dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione nazionale della Stampa italiana, mentre tutto tace sulle intercettazioni che coinvolgono i penalisti. “Intercettiamone uno, intimidiamo tutti gli altri”, aveva sintetizzato, poco più di un mese fa, la Camera penale di Roma. All’epoca il caso riguardava Pier Giorgio Manca, avvocato 75enne del foro capitolino, indagato dalla Procura di Roma con l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Il suo nome è finito in un’inchiesta relativa ad un traffico di droga proveniente dalla Colombia, gestito da un’organizzazione di tredici persone, ai cui vertici ci sarebbero tre militari e il penalista romano, accusato di aver consentito la circolazione d’informazioni tra i componenti dell’organizzazione criminale e di aver fornito assistenza morale e materiale ai detenuti del clan. Ciò sulla base di due anni di intercettazioni video e audio all’interno del suo studio legale e sul suo cellulare. Ma il suo non è un caso isolato. Poco prima era capitato a Roberta Boccadamo, anche lei del foro di Roma, che leggendo l’ordinanza del Gip di Genova con le motivazioni della misura cautelare nei confronti dei vertici di Atlantia, tra cui Giovanni Castellucci, e della controllata nell’ambito di un’indagine avviata sulla base della documentazione acquisita nell’inchiesta legata al crollo del Ponte Morandi, si è imbattuta nell’intercettazione di una conversazione tra lei e Antonino Galatà, ex Ad di Spea, incaricata da Aspi della sorveglianza e manutenzione della rete autostradale in concessione, suo assistito. Conversazione non solo registrata, dunque, ma anche trascritta e utilizzata dal gip. Una intromissione giustificata con una circostanza non veritiera: Boccadamo venne indicata come compagna del suo assistito. Nicola Canestrini, del foro di Rovereto, ha portato il suo caso davanti alla Cedu, denunciando una lesione del diritto di difesa. Canestrini, infatti, ha ritrovato nei brogliacci allegati alle informative contenute nei fascicoli di un’indagine alcune intercettazioni intrattenute con il proprio cliente, in quel momento detenuto a 200 chilometri dal suo ufficio. Prima di loro era toccato a Francesco Mazza, avvocato del foro di Roma, che nel 2019 si è ritrovato citato in un’informativa di cui era entrato in possesso dopo la notifica della chiusura delle indagini preliminari a carico di tre suoi assistiti, indagati nell’ambito della vasta operazione anti usura condotta dai carabinieri di Roma Eur e denominata “Under Pressure”. Per ben due volte la polizia giudiziaria ha appuntato dettagli di conversazioni tra lui e uno dei tre clienti, il cui telefono era sotto controllo da un po’. Ad Asti, sempre nel 2019, l’intera classe forense si era mobilitata quando Roberto Caranzano, avvocato astigiano, si ritrovò allegato al fascicolo di un processo per spaccio di droga il “foglio notizie” con le spese del procedimento penale, 27 pagine composte prevalentemente dal report delle intercettazioni con dentro i nomi di decine di colleghi di Asti, Torino e Cuneo, consulenti e giudici onorari. Un grosso malinteso, si affrettò a spiegare la procura di Asti, che parlò di “errore del sistema informatico”. Gli ultimi casi riguardano quattro avvocati, finiti nelle quasi 30mila pagine di un’indagine avviata dalla procura di Trapani nel 2016, con lo scopo di fare luce sull’attività delle ong attive in mare per soccorrere i naufraghi che cercavano di raggiungere le coste europee. Si tratta di Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, intercettata al telefono con la giornalista d’inchiesta Nancy Porsia, Michele Calantropo, Fulvio Vassallo e Serena Romano. E quale fosse il loro ruolo era noto anche alla polizia giudiziaria, che nell’appuntare i loro nomi li ha definiti avvocati per i diritti umani. Una violazione dell’articolo 103 del codice di procedura penale, che al quinto comma stabilisce che “non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, consulenti tecnici e loro ausiliari né quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite”. Il colloquio tra difensore e assistito, dunque, è inviolabile, principio sancito anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui tale diritto rientra tra le “esigenze elementari del processo equo in una società democratica”. Ma questa regola, troppo spesso, viene bypassata. Se dietro le Br c’erano i Servizi, perché Moretti dopo 40 anni sta ancora in galera? di Frank Cimini Il Riformista, 7 aprile 2021 Mario Moretti fu arrestato il 4 aprile del 1981. Quindi sono 40 anni precisi che dorme in galera da molto tempo semilibero ma comunque detenuto notturno. L’anniversario di quelle manette è l’ennesima occasione che il festival della dietrologia non si lascia scappare. Basta sentire le parole che Gennaro Acquaviva all’epoca del sequestro Moro capo della segreteria di Bettino Craxi ha consegnato in questi giorni a Walter Veltroni che sul Corriere della Sera ci prova sempre a rievocare “i misteri”. “Non so chi, non so come, ma sono certo che le Brigate Rosse sono state manovrate presentemente dal Kgb. L’infiltrazione sovietica nell’area della protesta violenta era evidente. Nel gruppo romano non lo so non credo, ma nelle Br in genere penso di sì. Bisognerebbe chiedere a Moretti”. Eccoci, un esponente del partito della trattativa insieme a un erede del partito della fermezza per ribadire quello di cui negli atti processuali non si trova traccia. Ma a Mario Moretti tutti o quasi continuano a chiedere la verità quella che lui ha sempre detto a cominciare con il libro intervista a Rossana Rossanda e Carla Mosca che gli chiedevano in che modo lui reagisse al sospetto di ambiguità e trasversalità. “Ah con molta serenità e molta tranquillità nel senso che io mi rendo conto che attraverso questa accusa si vuole colpire l’idea dell’autenticità delle Brigate Rosse. La tesi che siano state manovrate dall’esterno è una tesi cara a chi non può sopportare l’idea che in questo paese si siano svolti dei fatti, delle iniziative, si siano giocati dei progetti politici esterni ai giochi di palazzo. Queste illazioni non meritano alcuna considerazione” è la posizione di Moretti che finora nessuno è stato in grado di scalfire concretamente. Anche se la dietrologia non vuole demordere. Ci sono carriere politiche e giornalistiche costruite sui falsi misteri del caso Moro. Sempre in questi giorni il figlio del capo della scorta di Moro, Domenico Ricci, intervistato da Adnkronos è tornato a intimare a Moretti di “dire la verità”. Non resta che stare ai fatti. Nel caso Moretti avesse intrallazzato con servizi segreti e potenze straniere non dormirebbe ancora dopo 40 anni in una cella del carcere di Opera. Il paese anche dopo così tanto tempo rifiuta di fare i conti con quello che fu un fenomeno squisitamente politico perché evidentemente ha paura della propria storia. Al punto da non voler prendere atto che Moretti condannato a sei ergastoli ha pagato per le sue responsabilità e dovrebbe dopo quarant’anni essere scarcerato. Avrebbe pieno diritto alla liberazione condizionata che lui non chiede perché non vuole evidentemente relazionarsi con chi in pratica con la dietrologia gli nega identità politica. Sentirsi rivolgere sempre lo stesso sospetto per uno che sta dentro dal 1981 è se possibile peggio dei sei ergastoli che gli hanno dato i giudici. In libreria da pochi giorni c’è un saggio “Brigate Rosse: un diario politico” curato dalla ricercatrice Silvia De Bernardinis. Un rendiconto critico e autocritico della storia delle Br a opera di alcuni dirigenti e militanti. Ribadisce il saggio, che dietro le Br c’erano solo le Br. Campania. Carceri, tra sovraffollamento e Covid la situazione è critica di Giuliana Covella magazinepragma.com, 7 aprile 2021 Un universo fatto di 6.570 reclusi, di cui 149 semiliberi, a fronte di una capienza regolamentare di 6.156. Dove il 5% sono donne e 851 originari di altri Paesi a fronte dei 1.001 recensiti a fine 2019. Sono i dati relativi alla popolazione detenuta in Campania, aggiornati al 28 febbraio, nei 15 istituti penitenziari per maggiorenni e nell’istituto militare di Santa Maria Capua Vetere. Una situazione che - nonostante i cambiamenti adottati per migliorare le condizioni igienico-sanitarie a causa dell’emergenza sanitaria da Coronavirus e il 19% dei penitenziari sia stato dedicato alla realizzazione di reparti Covid - nel 22% delle strutture detentive non presenta docce e nel 37% non prevede il bidet in cella. Si riscontrano inoltre problemi nell’erogazione di acqua calda nel 16% dei casi. Durante la pandemia la tutela del diritto alla salute della popolazione detenuta negli istituti penitenziari e nei servizi della giustizia minorile ha richiesto dunque uno sforzo ancora maggiore da parte delle istituzioni sanitarie. Infatti, se in Campania la diffusione del contagio nei primi mesi ha registrato numeri ridotti, nella seconda fase è cresciuta a tal punto che ad oggi i contagiati sono stati 1644: 862 agenti, 724 detenuti, 58 operatori penitenziari. Da qui l’avvio di una campagna di screening, che nel 2020 ha portato nelle carceri campane a effettuare tamponi pari a 10.769 per i detenuti e 4.670 per il personale che opera all’interno. “Anche in Campania per i setting a rischio quali istituti penitenziari e luoghi di comunità partirà la campagna vaccinale - spiega il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, relazione annuale sulle carceri campane alla mano - La particolare condizione a cui sono sottoposte le persone ristrette richiede una valutazione equa della vulnerabilità a cui sono esposte. Sul tema della sanità penitenziaria regionale occorre però arrivare al più presto alla “stabilizzazione” degli operatori sanitari. Il carcere è tutt’altro che un luogo immune al virus”. Una comunità dolente che accomuna agenti e ristretti - Attraverso la sinergia con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, gli uffici di esecuzione penale esterna, i dirigenti e i responsabili della sanità penitenziaria e della salute mentale e dell’ambito della giustizia per adulti e minori anche quest’anno l’intento della relazione, elaborata in collaborazione con l’Osservatorio regionale sulla vita detentiva, è stato fornire il quadro della situazione delle persone che nella nostra regione si trovano a vivere, anche se in maniera temporanea, la condizione di detenuti o di persone private della propria libertà personale. Ne esce fuori un mondo molto spesso dimenticato, a volte rimosso, a volte considerato marginale. Una comunità dolente che accomuna agenti e ristretti. “Un luogo di comunità”, dove nell’ultimo anno a causa del Covid sono morti: 5 agenti, 4 detenuti e 1 medico. In questo scenario l’emergenza sanitaria ha rappresentato un momento di crisi del percorso di trattamento in termini di diminuzione di visite, permessi e opportunità di istruzione, formazione e inserimento lavorativo ma, nel contempo, si è caratterizzata come un momento di cambiamento che ha “costretto” a mettere in campo un nuovo modello di gestione in termini di organizzazione e innovazione interna, con la possibilità di effettuare colloqui a distanza mediante le apparecchiature in dotazione agli istituti penitenziari. Carceri: Covid, colloqui e visite - In quest’anno l’Ufficio del garante, nonostante le restrizioni, ha continuato a operare attraverso una serie di azioni quali colloqui, visite e numerosi interventi a seguito delle richieste che provengono dai detenuti, dai loro familiari, ma anche dagli operatori penitenziari e dagli educatori. Basti pensare che nel periodo tra gennaio e dicembre 2020 sono stati effettuati 1.292 colloqui, numero di poco inferiore a quello svolto nell’anno precedente. In totale sono pervenute 1.252 richieste di intervento, di cui 720 giunte attraverso la segnalazione della direzione degli istituti di pena, 453 lettere spedite dai detenuti, 42 e-mail ricevute dai familiari e 37 ricevute da parte di avvocati, associazioni e cooperative. “Per quanto limitate non mancano denunce di abusi e maltrattamenti, rispetto alle quali mi sono attivato presso la direzione dell’istituto segnalandole, ove circostanziate, alla Procura della Repubblica”, conclude Ciambriello. Belluno. Nicola, 28 anni, si uccide alla vigilia del processo per tentato omicidio di Davide Piol Il Gazzettino, 7 aprile 2021 Ascoltando le parole di chi gli è stato accanto, nell’ultimo periodo, emerge la figura di un ragazzo fragile. Si potrebbe quasi dire vicino al punto di rottura, a causa di un’inquietudine che si portava dentro - alimentata da paure, dolori, offese continue sui social - che, alla fine, l’ha sopraffatto. Tra poco più di un mese, il 22 maggio, Nicola Mina avrebbe compiuto 29 anni. Invece pochi giorni prima di Pasqua, e a ridosso della prima udienza del processo che lo vedeva alla sbarra per tentato omicidio nei confronti di un venditore ambulante, si è tolto la vita lasciando un intero paese, San Pietro di Cadore, sotto choc. Gesto premeditato - “Ci ha lasciato un ragazzo di 28 anni che doveva essere aiutato - commenta il suo avvocato Danilo Riponti - Non voglio dire capito. Il gesto lo aveva fatto ma bisognava capire cosa c’era dietro”. Una tragedia che ha lasciato senza parole la sorella, i genitori e i nonni. Un gesto premeditato. Da quanto riportano fonti investigative sembra che, a inizio marzo, Nicola Mina si fosse pagato il funerale, avvenuto proprio in questi giorni. Una decisione che ha scavato nella sua anima per quasi un mese. Poteva essere salvato? È una domanda che, al momento, perde senso e significato. Il suo malessere era cominciato molto prima quando, spiega l’avvocato Riponti, “abbiamo voluto guardarlo senza umanità”. Venne arrestato - Era l’8 agosto del 2020. San Pietro di Cadore. Verso le 17, in piazza, nacque una discussione tra Nicola Mina e un venditore ambulante, M.S.W., 47enne di origini senegalesi e residente a Cavaso del Tomba (Treviso). Dalle parole, insulti urlati a gran voce, si passò ai fatti. Il giovane impugnò un coltello che nascondeva nelle tasche e lo conficcò per ben due volte nell’addome dell’uomo che cadde a terra in una pozza di sangue. M.S.W. fu trasportato d’urgenza all’ospedale e ricoverato in Chirurgia. Mentre Nicola Mina fu arrestato e poi messo agli arresti domiciliari. Fu indagato per tentato omicidio, aggravato dall’odio razziale, e poi rinviato a giudizio. Il perdono della vittima - “Sono musulmano - aveva spiegato M.S.W. dopo esser uscito dall’ospedale - La mia religione mi invita a perdonare e lo perdono. La giustizia farà ciò che deve ma non voglio vendetta né gli auguro di finire in prigione per la violenza che mi ha fatto. Perché la prigione rende peggiori e io penso che quel ragazzo deve migliorare stando fuori e pentendosi del suo comportamento”. Nel frattempo, sui social, scoppiò il finimondo. E Nicola, davanti a quelle dita che Io indicavano e a quelle bocche che lo insultavano, cominciò a soffocare. Più volte inviò al suo legale alcuni dei commenti che trovava sui social chiedendo il motivo di quel accanimento costante e feroce. È stato lapidato - “Se le persone avessero cercato di capire un po’ di più l’uomo invece che lapidarlo - continua l’avvocato Riponti - forse lo avrebbero aiutato a superare quel momento difficile. Non dimentichiamoci mai che dall’altra parte ci sono persone, esseri umani che da una parola o da un commento riportano delle cicatrici gravissime”. Il legale ammette di essere rimasto “profondamente turbato” da quanto accaduto. Sfogliando i messaggi del cellulare c’è ancora quello di Nicola, inviato poco prima di Pasqua, in cui faceva gli auguri a lui e alla sua famiglia. Una verità diversa - Questa mattina ci sarà la prima e ultima udienza del processo: “Ci serva di monito - conclude il legale - Io stesso mi sono interrogato negli ultimi giorni. Era un processo che volevo affrontare per dare una verità diversa da quella emersa. Non c’era l’odio razziale. C’erano invece delle problematiche da affrontare e da capire per un giusto giudizio. Nicola non è stato in grado di gestire il meccanismo terribile che si è avviato intorno a lui”. Reggio Emilia. “Ospedale da campo dentro il carcere ed esercito al di fuori” di Martina Riccò Gazzetta di Reggio, 7 aprile 2021 La Polizia penitenziaria lancia l’allarme: “Situazione ormai incontrollabile”. Il numero di detenuti positivi sale a 119, più di un terzo della popolazione. “Un ospedale da campo nella zona dell’area sportiva all’interno dell’istituto penitenziario di via Settembrini”. Lo chiedono a gran voce i sindacati della polizia penitenziaria reggiana (Fp Cgil, Fns Cisl e Uilpa) che da settimane combattono insieme la stessa battaglia: richiamare l’attenzione su quello che sta succedendo in carcere, dove il Covid è riuscito a entrare e i positivi continuano ad aumentare esponenzialmente. Dopo l’allarme lanciato alla fine di marzo, quando i detenuti positivi erano 21 e 12 gli agenti, la situazione non ha fatto altro che peggiorare: ieri i detenuti positivi al Covid erano 119 su circa 400 (di cui cinque ricoverati in ospedale), più di un terzo della popolazione carceraria. A preoccupare, però, non è solo l’aspetto sanitario. Nel tentativo di bloccare il contagio, infatti, è stato applicato un rigoroso protocollo che prevede di tenere i detenuti sempre in cella. Ma quello che era stato pensato per un’emergenza temporanea si è trasformato in abitudine e così, dopo quasi un mese di convivenza forzata dei detenuti in celle progettate per una sola persona, interruzione delle attività normalmente previste e difficoltà comunicativa (il 65 per cento dei detenuti è di origine straniera) il clima all’interno della Pulce è diventato esplosivo. Nelle scorse settimane i sindacati avevano chiesto al sindaco Luca Vecchi e al prefetto Iolanda Rolli di interessarsi alla situazione del carcere, facendo pressioni per accelerare la campagna di vaccinazione sul personale e, anche, iniziare a vaccinare la popolazione detenuta. L’appello non era caduto nel vuoto, con il prefetto che si era detta pronta a portare questa richiesta in Regione. Ma ora, con un focolaio che non accenna ad esaurirsi e difficoltà sempre più grandi nel reperire sostituti per gli agenti malati o in isolamento domiciliare, a queste richieste ne viene aggiunta un’altra: “Al di là delle carenze organizzative denunciate in questo ultimo periodo - affermano i sindacati - crediamo che oggi, in queste condizioni strutturali, sia pressoché impossibile intervenire efficacemente per bloccare la diffusione del Covid. Per questo riteniamo necessario intervenire valutando l’installazione di un ospedale da campo all’interno dell’istituto penitenziario, nell’area adibita a campo sportivo. Solo in questo modo si potrebbero isolare efficacemente i positivi dal resto della popolazione detenuta, curarli in maniera adeguata permettendo al contempo l’adeguata sanificazione delle sezioni ove vi sono registrati focolai”. Infatti, al momento è impossibile mantenere il distanziamento così importante per evitare il contagio e, allo stesso tempo, igienizzare e sanificare tutti gli ambienti più volte al giorno. “Nelle ultime due settimane - riferiscono i sindacati - i casi di positività all’interno del carcere hanno superato i cento tra i detenuti e sono arrivati circa a venti tra gli agenti. Questo probabilmente è dovuto alla elevata contagiosità delle nuove varianti, ma sicuramente c’entrano anche le condizioni strutturali e la difficoltà, conseguente, di isolare i detenuti positivi dal resto della popolazione”. Considerando il livello di tensione e di intolleranza raggiunto, confermato anche da alcuni episodi di violenza, i sindacati chiedono alle autorità competenti di intervenire, e di farlo in fretta. Non solo: “Vista l’esiguità della presenza della polizia penitenziaria e la doverosa assicurazione dell’attività di controllo e sorveglianza della struttura carceraria, si suggerisce il controllo esterno al muro di cinta a cura di altre forze di polizia o valutando l’utilizzo dell’esercito”. Catanzaro. La direttrice del carcere: “Focolaio alto, tre detenuti in ospedale” calabrianews.it, 7 aprile 2021 Sempre alto ma sotto controllo il focolaio Covid all’interno del carcere di Catanzaro. Secondo quanto riferito dalla direttrice Angela Paravati, nella casa circondariale del capoluogo di regione calabrese vi sono 18 agenti di polizia penitenziaria e ben 70 detenuti positivi. “I soggetti interessati sono quasi tutti asintomatici - afferma il massimo dirigente della struttura Ugo Caridi - ma tra i detenuti tre sono in ospedale, di cui uno in terapia intensiva e due nel reparto di malattie infettive. Nei prossimi giorni speriamo di avere i primi negativizzati - continua la Paravati - perché dopo l’evoluzione del focolaio abbiamo operato ulteriori strette ai protocolli con apprezzabile condivisione da parte dei reclusi”. Ogni giorno nel carcere di Catanzaro si fanno tamponi a tappeto mentre l’organico della polizia penitenziaria, messo a dura prova dall’improvviso contagio evitato per lunghi mesi, aumenta con l’innesto di unità provenienti da altre strutture carcerarie. “Una mano decisiva ce l’ha data lo stop a nuovi ingressi - aggiunge la direttrice - i nuovi arrestati in questo vanno a Vibo, Locri o Paola. In tutto questo devo apprezzare anche l’affiancamento ottimale del personale Asp”. Vasto (Ch). Apre birrificio presso la Casa Lavoro, ampliata offerta lavorativa dei detenuti vastoweb.com, 7 aprile 2021 Dopo le attività di Sartoria e Azienda agricola, in cui sono tuttora impegnati molti ospiti della Casa Lavoro di Vasto, con l’apertura del Birrificio si completa l’offerta lavorativa a favore dei detenuti. Sarà firmata nella mattinata del 7 aprile, presso la Direzione nella Casa Lavoro con annessa Sez. Circondariale di Vasto, una significativa convenzione tra quest’ultima, l’Associazione “Rindertimi”, il birrificio agricolo Golden Rose e la Pmi Services finalizzata alla gestione del Birrificio “Casa di lavoro Vasto”. Si tratta di un birrificio che si trova all’interno del carcere vastese e che la Direzione dell’Istituto penitenziario concede in comodato ai suddetti partner, i quali sono impegnati a far funzionare la struttura con l’impiego di almeno due detenuti. Si comprende che lo scopo di questa attività è legata al reinserimento lavorativo, con relativa formazione e produttività. Per questo è stata costituita dai tre predetti Soggetti una Associazione temporanea di Scopo(Ats), nella quale ciascuno apporterà le proprie esperienze e conoscenze da trasferire ai lavoratori - detenuti. In pratica, l’Associazione “Rindertimi” (specializzata nel reinserimento lavorativo di persone svantaggiate) avrà il compito di gestire il Birrificio e di svolgere un’azione di controllo e tutoraggio dei detenuti impiegati nelle attività; mentre il birrificio agricolo Golden Rose (nato a Pianella nel 2003 come azienda agricola, poi ampliatosi, raggiungendo la sua attuale estensione di oltre 8 ettari di terreno, che nel 2012 ha iniziato a produrre birra) si occuperà di svolgere tutto il processo di trasformazione: cottura, fermentazione, imbottigliamento/infustamento ed etichettatura. Infine l’Organismo accreditato in Regione Abruzzo Pmi Servizi (autorizzato alle attività di orientamento, formazione continua, obbligo formativo e d’istruzione, percorsi Ifts, alta formazione) si occuperà di formare quell’ utenza speciale rappresentata da detenuti ed ex-detenuti, individuati dalla normativa regionale e comunitaria come “soggetti svantaggiati”. La scommessa che la Direzione della Casa Lavoro con annessa Sez.ne Circondariale di Vasto, nella persona del Direttore Dott.ssa Giuseppina Ruggero e della Responsabile del progetto Dott.ssa Arcangela Mazzariello, ha voluto fare non è relativa solo alla mera gestione di un’attività ordinaria, ma è in linea con il dettato costituzionale che all’art. 27 espressamente prevede la rieducazione del condannato e il suo reinserimento sociale. L’auspicabile funzionamento di questa iniziativa sarà dunque buona pratica per l’intero territorio, perché una società civile e moderna dà sempre una seconda opportunità a chi vuole tornare a lavorare e vivere nel rispetto della comunità. Busto Arsizio. La seconda chance di Max: da detenuto a una nuova vita di Sara Pasino malpensa24.it, 7 aprile 2021 Max fa scorrere le dita su una vecchia fotografia di sua moglie e dei suoi figli, ancora bambini. Gli occhi lucidi scrutano i loro volti nella consapevolezza che ormai quei bambini sono degli adolescenti, se non adulti. Sono ormai quasi 5 anni che Max non vede la sua famiglia a Santo Domingo. Sono ormai quasi 5 anni che Max è stato arrestato a Malpensa perché trasportava degli ovuli di cocaina. Ma ora la sua vita sta prendendo un’altra piega, grazie all’associazione di Busto Arsizio Casaringhio che gli ha dato una seconda opportunità. Max vive a Gallarate, ma la sua residenza è ancora il carcere di Busto Arsizio, nonostante sia uscito da circa un anno. È stato condannato per aver trasportato della cocaina che aveva ingoiato a Malpensa, dove è stato scoperto proprio perché due di quegli ovuli si erano aperti nella bocca del suo stomaco. “Sentivo che qualcosa non andava, non riuscivo a distinguere i colori, avevo le allucinazioni. Ecco perché mi hanno subito portato in ospedale dove sono stato operato allo stomaco e da lì è iniziato il mio periodo di prigionia per scontare una pena originaria di 4 anni”. L’uomo di origini italiane da anni viveva a Santo Domingo dove lavorava come pescatore, ma tornava spesso in patria per degli impieghi da muratore che gli permettevano di mantenere la moglie e i 5 figli. “Ma il mare aveva iniziato a ribellarsi, poco pesce, tanta plastica. Fiumi di rifiuti che rendevano il nostro lavoro impossibile”, racconta Max spiegando come mai si è fatto coinvolgere nel traffico illecito di droga. “Giravano voci che era un modo facile per fare soldi e ho pensato alla mia famiglia e come mantenerla, quindi ho accettato. Ma ovviamente è stato un grande errore”. Uno sbaglio che gli è costato caro, perché, oltre alla pena di 4 anni, che è poi stata ridotta per buona condotta, Max deve pagare una multa da 15 mila euro: è questo il vero ostacolo che gli impedisce di tornare a Santo Domingo. “Sono passato dalle sbarre di un carcere a una galera più grande perché sono bloccato qui. E quando sono uscito di prigione non avevo né un’occupazione, né soldi, né una casa. Dormivo all’ospedale di Gallarate. Trovare lavoro è stato assolutamente impossibile tra la crisi da Covid e i pregiudizi che le persone hanno nei confronti degli ex detenuti”. Ma c’è qualcuno che ha abbattuto le barriere degli stereotipi e ha dato a Max una seconda chance. È stata l’associazione Casaringhio di Busto Arsizio che lo ha subito coinvolto con delle azioni di volontariato, gli ha fatto fare servizi socialmente utili, aiutandolo a scrivere un curriculum professionale. “Tutti si meritano una seconda opportunità e noi abbiamo subito capito che Max era una persona onesta che aveva solo fatto un errore nella sua vita. Abbiamo chiesto a tutte le persone che conoscevamo se potevano dargli un lavoro, e dopo innumerevoli rifiuti finalmente Gabriele Ohannassian, il proprietario della A & G Group gli ha permesso di fare un colloquio”, raccontano i volontari Sara Vega e Federico Riva. Un primo incontro che è subito andato in porto, tanto che da circa un mese Max ha un contratto a tempo determinato come magazziniere a Cassano Magnago e vede finalmente una luce in fondo al tunnel. “I soldi che mi mancano per tornare dai miei figli sono tanti, ma ora ho una speranza. Il lavoro mi ha restituito la dignità di rimettere in piedi ciò che avevo perso. L’unica cosa che voglio è riabbracciare la mia famiglia”, conclude Max ringraziando di cuore i giovani bustocchi che per primi hanno creduto in lui. E che ora vogliono continuare ad aiutare chi è in difficoltà, soprattutto tramite il lavoro. “Non ci interessa l’assistenzialismo. Noi vogliamo dare occasioni di rinascita. Per questo vorremmo far partire dei progetti con le piccole e medie imprese del territorio che potrebbero beneficiare dall’assumere persone che hanno difficoltà o un passato burrascoso e allo stesso tempo dal loro una seconda chance”. Palermo. Un libro sospeso con dedica per le persone detenute di Serena Termini redattoresociale.it, 7 aprile 2021 L’iniziativa è promossa dalle Paoline e dall’Azione Cattolica in collaborazione con i tre cappellani degli istituti di pena Pagliarelli, Ucciardone e Termini Imerese. Un modo per avvicinare il mondo carcerario alla società esterna, provando ad allontanare i pregiudizi. Mettersi in collegamento immaginario con una persona detenuta, che prenderà in mano il libro comprato da un cittadino e ne leggerà anche la dedica. Un modo per avvicinare il mondo carcerario alla società esterna provando ad allontanare anche tutti i pregiudizi e i forti stigmi che ci sono nei loro confronti, È l’obiettivo dell’iniziativa “Libro sospeso. Dona anche tu un momento di evasione”, che si concluderà il prossimo 27 aprile. Dopo il successo a Brescia, a Napoli, Udine, Lodi e Novara, arriva anche a Palermo l’iniziativa “Libro sospeso” promossa dalle due librerie Paoline insieme all’Azione Cattolica dell’arcidiocesi di Palermo e ai cappellani delle carceri Ucciardone, Pagliarelli e Termini Imerese: fra’ Loris d’Alessandro, don Massimiliano Scalici, fra’ Carmelo Saia e all’associazione Comunicazione e Cultura Paoline Onlus. “La pandemia ha scosso tutti ma ancora di più le persone in carcere - afferma fra’ Carmelo Saia, frate cappuccino cappellano da 10 anni del carcere Ucciardone che conta circa 500 detenuti con pene definitive - a causa del ridimensionamento delle modalità dei colloqui con i propri cari, che non possono più abbracciare. I detenuti stanno soffrendo tanto e mi chiedono sempre quando mai finirà questo stato di emergenza. Con lo stop all’ingresso dei volontari, sono cresciuti anche i bisogni di molti di loro. Ci sono persone senza famiglia: stranieri ma anche italiani a cui mancano i beni di prima necessità. Grazie alla Caritas qualche risposta è stata data ma il bisogno è sempre alto. Chiaramente questa bellissima iniziativa, che ci auguriamo proseguirà nel tempo, assume una valenza importante. Il fatto che la società inizi a pensare anche a livello culturale ai detenuti significa dare loro una possibilità di riscatto sociale. Significa pure fare percepire a queste persone, attraverso la dedica di un cittadino, il sentirsi accolti con un dono che è anche un modo per allontanare i molti pregiudizi che ci sono nei confronti di chi sta scontando la propria pena”. “La gente sta rispondendo molto bene perché rimane colpita da questa proposta di attenzione al prossimo - sottolinea la giornalista paolina suor Fernanda Di Monte - rivolta alle persone detenute che, in questo momento, vivono maggiori difficoltà a causa della pandemia. Chi acquisterà il libro, potrà anche aggiungere una dedica che al termine della campagna sarà donato ai reclusi tramite i cappellani. Da anni lavoriamo con i minori dell’istituto di pena di Caltanissetta e sappiamo quanto bene può fare una iniziativa del genere”. “Considerato che è da circa quattro anni che facciamo volontariato dentro il carcere Pagliarelli - afferma la volontaria dell’Azione Cattolica, Stefania Sposito - ci è sembrato significativo realizzare questa iniziativa insieme alle paoline. Purtroppo a causa dell’emergenza sanitaria è un anno che non possiamo entrare in carcere. Speriamo che la situazione al più presto possa ritornare alla normalità. Sappiamo dalle lettere che ci arrivano, infatti, che tanti di loro soffrono molto la solitudine. Il libro, allora, sapendo soprattutto che è stato donato da una persona sensibile, può essere la maniera più semplice di dire a queste persone ‘ti vogliamo bene e ci siamo’”. Napoli. Ciclo di seminari su carcere, diritti e cambiamento culturale unina.it, 7 aprile 2021 Un carcere sovraffollato si traduce in spazi ristretti e insalubri, nella mancanza di privacy, nella riduzione delle attività fuori cella, nel sovraccarico dei servizi di assistenza sanitaria, questo porta spersonalizzazione, tensione crescente, violenza. La privazione della libertà personale non comporta la cessazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione europea e dalla nostra Costituzione; al contrario, essi assumono peculiare rilevanza proprio a causa della situazione di vulnerabilità in cui si trova la persona sottoposta al controllo esclusivo degli agenti dello Stato. Verrà affrontato in un seminario interdipartimentale a cura di Clelia Iasevoli, professoressa di Diritto Processuale Penale del Dipartimento di Giurisprudenza e Marella Santangelo, professoressa di Composizione architettonica e urbana del Dipartimento di Architettura, il delicato e complesso tema dei diritti e dello spazio nelle carceri. Quattro gli incontri in programma su piattaforma Teams. Si parte il 9 aprile 2021 alle 9.30. Dopo i saluti del Rettore della Federico II Matteo Lorito e dei Direttori del Dipartimento di Architettura, Michelangelo Russo e del Dipartimento di Giurisprudenza Sandro Staiano, l’introduzione delle curatrici e gli interventi di Cosima Buccoliero, Direttrice dell’istituto penale per minorenni Milano-Beccaria e vicedirettrice della Casa di reclusione Milano-Opera; Giulia Russo, Direttice del Centro penitenziario di Napoli-Secondigliano e Silvana Sergi, Direttrice della casa circondariale di Roma Regina Coeli. Conclude l’incontro Antonio Fullone, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Campania. Ad ogni individuo detenuto vanno assicurate condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. Recentemente le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione (n. 6551 del 2021) hanno affermato che “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve aver riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”. A otto anni dalla sentenza Torreggiani può ritenersi una ‘conquista’ il riconoscimento giuridico dello spazio vitale? In un contesto di emergenzialismo si tende a giustificare una politica criminale proiettata al raggiungimento di risultati di tipo repressivo, oscurando l’opera del giudice delle leggi di disvelamento del volto costituzionale della pena: il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della sanzione. Ne consegue che nessuna pena può essere indifferente all’evoluzione psicologica e comportamentale del soggetto che la subisce. Al contempo, nessuna pena che preveda la privazione della libertà personale può essere indifferente ai luoghi in cui le persone vengono rinchiuse, lo spazio in carcere ha un ruolo determinante per la protezione della dignità personale dei reclusi. Ed è qui che ritorna l’eco delle parole di Aldo Moro secondo cui “l’ergastolo, che privo com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento ed al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte (...). Ci si può, anzi, domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. Quando si dice pena perpetua si dice una cosa estremamente pesante, estremamente grave, umanamente non accettabile”. Anche gli individui che si siano resi responsabili dei crimini più odiosi conservano la loro umanità e, dunque, la possibilità di cambiare e di reinserirsi nella società. La compassione resta uno strumento conoscitivo della realtà. Ed in questa direzione ci guida l’ordine assiologico della nostra Costituzione: il carattere rieducativo della pena (art. 27 comma 3 Cost.) è fine non dissociabile dal senso di umanità. Coniugare spazi e diritti, significa porre le premesse per il cambiamento culturale che parte dallo spazio vitale, perseguendo l’obiettivo del riconoscimento degli spazi necessari all’azione trasformativa del trattamento individualizzante. Da qui il ruolo fondamentale dell’architettura penitenziaria, che va oltre le misure e lo spazio minimo pro capite, che con il progetto può sperimentare la configurazione dello spazio della pena, per uscire dalla concezione del contenitore e immaginare spazi e articolazioni che tengano al centro l’uomo recluso, i suoi bisogni e la sua dignità. Gli incontri successivi si svolgeranno il 23 aprile, il 7 e il 14 maggio. Il complottismo di stato di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 7 aprile 2021 È accettabile che un giudice in servizio concorra a concepire e un procuratore famoso si presti ad avallare un testo che ha la pretesa di dare per vere tesi “deliranti”? Su Giorgianni e Gratteri il Csm non può tacere. Prendo spunto da Leonardo Sciascia, di cui condividerei queste parole: “Ci vorrebbe un corpo di magistrati d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia; non solo, ma anche, e soprattutto, di eccezionale sensibilità e di netta e intemerata coscienza”. Quanti sono i magistrati, in particolare tra quelli assegnati al penale, che si avvicinano a un simile modello? Si potrà obiettare che si tratta di un modello ideale troppo pretenzioso. Ma come non replicare, con lo stesso Sciascia, che la macchina punitiva può purtroppo funzionare anche come un potere “terrificante” che “azzanna” o, per dirla con Luigi Pirandello, come un “congegno indiavolato”? Si tenterà, forse, ancora di ribattere: preconcetta preoccupazione e diffidenza dei grandi scrittori siciliani, malati di pessimismo! Come sappiamo, però, la letteratura di ogni paese in realtà abbonda di opere che testimoniano o denunciano gravi episodi malagiustizia. D’altra parte, pure oggi sono non pochi i casi che fanno quantomeno dubitare che il corredo di doti o caratteristiche (intellettuali prima che morali), che dovrebbe connotare il “buon” magistrato, sia di fatto diffuso in una misura rassicurante. Per limitarci a possibili esemplificazioni recenti, sembra anche a me emblematico il caso Giorgianni-Gratteri, ormai abbastanza noto ai lettori di questo giornale grazie ai ripetuti articoli di prima di Luciano Capone, e poi anche di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa. In sintesi, ricordo che il casus belli nasce dalla pubblicazione del libro “Strage di Stato. Le verità nascoste della Covid-19” scritto dal giudice messinese Angelo Giorgianni e dal medico Pasquale Bacco, e accreditato dalla prefazione di un procuratore di grido come Nicola Gratteri. Orbene, che dire di due magistrati, uno co-autore e l’altro prefatore consenziente - o comunque non esplicitamente dissenziente! - di un libro che prospetta tesi complottiste sulla pandemia da coronavirus, ipotizza strategie globali del terrore e combutte criminali tra lobby economiche e lobby farmaceutiche e boccia i vaccini come schifezze che avvelenano (per una analisi dettagliata dei contenuti del libro cfr., in particolare, l’ampio articolo di Capone sul Foglio del 30 marzo scorso)? Trattandosi di magistrati, vale a dire di soggetti che la gente comune tende in partenza a considerare meritevoli di credibilità, il minimo che si possa paventare è un grave effetto fuorviante e disorientante. Dei due, di gran lunga più conosciuto è il procuratore di Catanzaro, e peraltro lo è non solo come grande star mediatica della lotta alla `ndrangheta, ma anche come personaggio che si è ormai più volte contraddistinto per atteggiamenti o comportamenti a vario titolo discutibili o singolari. Che hanno, non a caso, suscitato polemiche sulla stampa cosiddetta garantista, e persino critiche da parte di qualche illustre collega o ex collega (tra i quali, mi piace menzionare Edmondo Bruti Liberati e Armando Spataro). In sintesi, atteggiamenti o comportamenti del tipo: sovraesposizione nei media con pretesa tuttologica di discettare quasi su ogni tema e problema; obliquo adombramento di inquietanti sospetti sui giudici che bocciano sue indagini; enfatizzazione spettacolare di grandi retate tramite conferenze stampa o filmati televisivi che veicolano come colpevolezze accertate ipotesi accusatorie ancora tutte da provare; lamentele relative alla insufficiente attenzione pubblica su qualche indagine della procura di Catanzaro di presunta importanza straordinaria et similia. So bene che, specie agli occhi di quanti sono sensibili alla questione mafiosa, contegni o esternazioni anche molto discutibili rappresentano tutt’al più peccatucci da perdonare a giudici coraggiosi che mettono a repentaglio la vita per combattere le mafie, come sono consapevole che la reazione tollerante può derivare dalla preoccupazione che censure esplicite potrebbero delegittimarli con conseguente aumento della loro esposizione a pericolo. Ma ciò non toglie che sono in gioco principi e regole fondamentali dello Stato di diritto, che forse non vengono tenuti nella dovuta considerazione da chi antepone a tutto la venerazione dei santoni antimafia. E poi critiche e censure non vanno in ogni caso formulate in forma imprudentemente aggressiva o troppo personalizzata, tanto più che si tratta di modalità improprie di comportamento che sono andate nel tempo assumendo i tratti di un fenomeno tutt’altro che isolato. Già più di venti anni fa Gaetano Silvestri, da valente studioso poi divenuto presidente della Corte costituzionale, definì “la tendenza irrefrenabile all’esternazione pubblica” di molti importanti magistrati italiani” una “vera e propria emergenza costituzionale”, e in senso analogo in anni più vicini a noi si è ad esempio pronunciato un altro ex presidente della Consulta come Giovanni Maria Flick. Che esito hanno finora avuto questi ripetuti richiami ad un maggiore rispetto di quei doveri di riserbo, sobrietà e continenza cui in linea di principio dovrebbe conformarsi il contegno di ogni magistrato? Qualcuno forse obietterà che occorre, comunque, distinguere tra le prese di posizione extragiudiziarie e l’esercizio strettamente inteso delle funzioni inquirenti o giudicanti. A ben vedere, questa obiezione non è decisiva. Infatti, anche i contegni extraprocessuali possono far emergere quel che un magistrato ha in testa, come ragiona (o non ragiona) e possono svelare i pregiudizi, i sentimenti e i vari fattori di condizionamento che ne influenzano il modo di pensare, agire e reagire. Se è così, come si potrà essere sicuri che stili di pensiero o inclinazioni preoccupanti, che affiorano fuori dall’esercizio delle funzioni, non riemergano anche al momento di vagliare i fatti penalmente rilevanti? In effetti, il rischio di questa riemersione esiste davvero, e ciò per il semplice fatto che la complessiva personalità di ciascuno si manifesta un po’ in tutte le attività in cui siamo coinvolti. È per queste ragioni che appare non privo di rilevanza pubblico-istituzionale il contenuto sia del libro di Giorgianni e Bacco sia della prefazione di Gratteri. È normale ed accettabile che un giudice in servizio concorra a concepire e un procuratore famoso si presti ad avallare un testo che ha la pretesa di dare per vere tesi “deliranti”? Entrambi si collocano all’interno o fuori dai limiti di quella libertà costituzionale di manifestazione del pensiero, che va garantita anche a ogni appartenente all’ordine giudiziario? Come sappiamo, il Csm è riluttante a sindacare con rigore i limiti di legittimo esercizio di tale libertà, perché la sua componente maggioritaria di togati non ha un concreto interesse anche per corrività corporativa a innescare marce indietro una volta che, nella costituzione materiale del nostro paese, il diritto di parola di ogni magistrato ha finito col poter essere esercitato pressoché senza limiti. In linea di costituzionalismo “teorico” sarebbe certamente sempre necessario, invece, un equilibrato bilanciamento tra la libertà di espressione e il rispetto di quei basilari doveri di etica professionale, la cui violazione compromette la credibilità del ruolo rivestito in tutte le sedi (anche extragiudiziarie) in cui questo viene pubblicamente esplicato: com’è intuibile, tra questi doveri che hanno la loro fonte ultima nella Costituzione, rientra appunto quello di adottare sempre un habitus mentale improntato a criteri razionali di giudizio, a loro volta ancorati a dati empirici comprovabili e conoscenze dotate di basi scientifiche; rifuggendo, di conseguenza, dalla tentazione di procedere per arrischiati teoremi astratti o - peggio - di cedere alla suggestione di scenari criminali frutto di sbrigliata immaginazione piuttosto che di puntuali ricostruzioni fattuali. A questo punto, vi è da chiedersi perché mai il “complotto” affascini i magistrati, specie inquirenti. In proposito, si può tentare più di una risposta. Ad esempio Guido Vitiello, in un breve commento sul Foglio del caso Giorgianni-Gratteri, è arrivato a sostenere che “la forma mentis dell’inquisitore inclina da secoli alla paranoia”. A dire il vero, la spiegazione in chiave psichiatrica rientra tra i possibili modelli esplicativi dell’attrazione per i complotti: secondo Richard Hofstadter, mentre il tipico paranoico psichiatrico sospetta che il mondo intero congiuri contro di lui, il paranoico sociale si convince che certi eventi drammatici o infausti siano orditi da poteri occulti che attaccano il proprio gruppo o la propria nazione. Ma, senza scomodare la psichiatria, la sindrome del complotto e la teoria cospirativa della società possono psicologicamente derivare dal fatto - come suggerisce Umberto Eco nella scia di Karl Popper - che “le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male accettarle”. Dal canto mio, avanzerei ipotesi complementari di spiegazione riferibili più specificamente alla logica del processo penale e alla sua potenziale risonanza mediatica. Come ho rilevato a proposito della controversa vicenda della presunta trattativa Stato-mafia, l’interpretazione di drammatici eventi o di gravi fenomeni dalla genesi complessa secondo il paradigma semplificatore del complotto si profila come l’unica, ancorché poco probabile, via per tentare di ipotizzare colpe individuali da attribuire a singoli colpevoli, senza le quali una indagine e un processo penale non potrebbero mai essere attivati: la responsabilità penale per esplicito principio costituzionale è infatti “personale”, per cui non potendosi accusare entità collettive indeterminate, il magistrato inquirente deve giocoforza andare alla ricerca di Signori del Male in combutta criminosa ai danni dei cittadini, da individuare e processare - a dispetto di ogni oggettiva difficoltà - con nome e cognome. Nel contempo, la ricostruzione in chiave di complotti o congiure criminose, da un lato, avvalora il ruolo decisivo del potere giudiziario esaltandone la funzione salvifica e, dall’altro, assicura alle indagini un grande appeal mediatico (la tesi di una cospirazione tra registi di trame oscure e malefiche avvicina la narrazione giudiziaria a un romanzo d’appendice fatto apposta per attrarre il grande pubblico). Poiché però i requisiti intellettuali del buon magistrato non coincidono con quelli dello scrittore di gialli intriganti o di romanzi popolari avvincenti, penso che abbiano senz’altro ragione Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa a rivolgere appelli sia alla grande stampa rimasta finora per lo più “omertosa” (tranne piccoli accenni di taglio ironico su Repubblica e Corriere della sera), sia al Csm e al ministro della Giustizia affinché non vengano sottovalutati gli aspetti e i riflessi preoccupanti del caso in questione. Senonché dubito che in particolare il Csm abbia oggi la capacità e la forza di riuscire a orientare davvero la condotta (latamente intesa) dei magistrati, e ciò per un insieme di ragioni connesse anche alla grande confusione e all’incertezza valoriale della fase storica che stiamo vivendo. Volendo nonostante tutto confidare nella possibile reversibilità di questa crisi profonda, e se non fossimo ormai fuori tempo massimo, inviterei i componenti dell’organo di autogoverno ad adottare come bussola le “nove massime di deontologia giudiziaria” che un accreditato giusfilosofo come Luigi Ferrajoli, non certo nemico della magistratura, ha additato pochi anni fa per disegnare l’identikit del magistrato degno di questo nome (le massime sono leggibili in Questione giustizia, n. 672012, 74 ss.). Ancora una volta, un modello troppo teorico per essere calato nella nostra realtà? Complottismo e antisemitismo di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 7 aprile 2021 Il caso di un libro negazionista sulla pandemia, degli autori che lanciano accuse razziste e del procuratore Gratteri che ne ha firmato la prefazione. Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, l’ha combinata grossa. Si possono fare prefazioni ai libri (con quel titolo poi! Strage di Stato) senza averli letti? E sdoganare nel pieno di una pandemia in corso che ha fatto quasi tre milioni di morti tesi complottiste? Leggete questa: “La pandemia è stata gestita da una scientocrazia che (...) vuole addomesticarci a insondabili verità dogmatiche, contro le quali la logica e l’esercizio del dubbio non possono e non devono essere praticati, pena la scomunica sociale e scientifica”. Ma più ancora è accettabile dare credito a chi da mesi (bastava fare una ricerca sul web...) spara come Pasquale Bacco (autore del libro con Angelo Giorgianni) parole indecorose? Che le file notturne di camion coi morti a Bergamo erano “una sceneggiata” (a La Zanzara su Radio24), che “nel vaccino c’è acqua di fogna!” (a una manifestazione No Mask), che “il vaccino avvelena la gente: c’è tutto lo schifo possibile e immaginabile” (ancora a La Zanzara), fino all’affermazione più ributtante, sempre a Radio24: “Vogliamo dire chi comanda nel mondo? Comandano gli ebrei! Sta tutto in mano a loro! Tutte le lobby economiche e le lobby farmaceutiche, hanno tutta in mano loro la grande finanza!”. Razzismo puro. Che ha sollevato ondate di indignazione. Giusta. A partire da quella di Giuliano Ferrara (“testi in cui si dicono bestiali e deliranti castronerie sulla pandemia, la responsabilità degli ebrei e dei governi nella truffa criminosa di combatterla”), fondatore del Foglio che con Luciano Capone ha pubblicato la prima denuncia del libro complottista e “antisemita”. Denuncia rilanciata con durezza, tra gli altri, da Guido Neppi Modona, a lungo giudice della Corte Costituzionale, che avvalora la ricostruzione: “In Strage di Stato si leggono frasi di questo tenore: “Vogliamo dire chi comanda nel mondo? Comandano gli ebrei!”. Indignazione comprensibile. Ma c’è davvero, quella frase oscena e antisemita, nel libro “antisemita”? No. E non ci sono mai, tra i deliri, le parole “ebrei”, “ebraico”, “giudei”, “giudaico”, “lobby”. Per carità, le battaglie contro il complottismo e il razzismo, soprattutto di questi tempi, sono tutte sacrosante. Però… I diritti dei migranti e dei minori vengono ancora violati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 aprile 2021 La denuncia arriva dalle associazioni del Network porti adriatici che ha ricevuto moltissime segnalazioni da parte dei migranti. Continuano le violazioni dei diritti delle persone migranti e dei minori, nonostante la condanna nel 2014 da parte della Corte Europea di Strasburgo. Eppure, a seguito della sentenza, è stata avviata una procedura di supervisione di fronte al Comitato dei ministri del Consiglio di Europa, finalizzata ad accertare le misure intraprese per evitare il ripetersi delle medesime violazioni. A denunciarlo sono le associazioni del Network porti adriatici. “Esprimiamo preoccupazione - si legge nella loro nota - per la politica dei respingimenti e delle riammissioni che prosegue senza alcuna valutazione delle situazioni individuali e delle cause di inespellibilità dei cittadini stranieri, provenienti dalla Grecia e dai paesi balcanici, anche nei confronti di richiedenti asilo e minori non accompagnati”. Il network, composto dall’Ambasciata dei diritti delle Marche, dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), dall’associazione Lungo la Rotta Balcanica e da S.O.S. Diritti di Venezia, prosegue nell’attività di monitoraggio dei valichi di frontiera adriatici. Dal 2017 procede con un’azione di monitoraggio di quanto avviene ai porti e garantisce informativa e tutela legale ai cittadini stranieri migranti in arrivo in Italia da Grecia e da altri paesi dell’area balcanica, come Albania, Croazia e Montenegro. Ebbene, nel corso del 2020 e in questi primi mesi del 2021, il Network ha ricevuto moltissime segnalazioni da parte di richiedenti asilo, anche minori, cui veniva impedita la tutela e la protezione garantita dalla legislazione vigente, spesso senza la presenza di un mediatore e senza aver ricevuto alcuna informativa legale. Solo a seguito dell’intervento delle associazioni, è stato possibile contrastare le prassi illegittime e garantire l’accesso al territorio, alla richiesta di asilo e alla protezione. Le testimonianze raccolte riferiscono episodi di violenze e trattamenti degradanti, sia ai porti nella fase del rintraccio e dell’arrivo, sia durante il viaggio. Inoltre, i migranti richiedenti asilo e minori respinti hanno raccontato di essere stati “affidati” in custodia ai comandanti dei traghetti e delle navi e riaccompagnati al porto da cui erano partiti. Il Network Porti Adriatici, nel 2020 ha effettuato diverse richieste di accesso civico agli atti dei dati relativi alle riammissioni e ai respingimenti dai porti adriatici, alcune rimaste senza riscontro. Secondo i dati - formali e informali - e le testimonianze raccolte, le prassi illegittime si riscontrano, oltre verso coloro che arrivano dai porti della Grecia, anche per chi giunge da paesi quali Croazia ed Albania. La Grecia continua a respingere in Turchia, Paese che si contraddistingue per violazione sistematica dei diritti umani anche nei confronti dei propri cittadini ed in particolare della popolazione curda. La Turchia è il Paese con il più alto numero di giornalisti in carcere per aver espresso le proprie opinioni ed è anche il Paese che da qualche giorno, con un decreto firmato dal presidente Erdogan, ha revocato la propria partecipazione alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul). Com’è detto, già nell’ottobre 2014 l’Italia è stata condannata dalla Cedu (caso Sharifi e altri contro Italia e Grecia) per violazione del divieto di espulsioni collettive, divieto di trattamenti inumani o degradanti e il diritto a un ricorso effettivo contro l’espulsione collettiva e l’esposizione a trattamenti inumani e degradanti. Ma nulla pare che sia cambiato da allora. Il Network sottolinea “l’inefficacia dei servizi di accoglienza ed assistenza degli enti in convenzione con le prefetture, previsti ai valichi di frontiera” e la segnalazione di “diffuse situazioni di violenza e altri prassi aventi profili di illegittimità quali la detenzione a bordo delle navi, il sequestro di beni mobili e di ogni documentazione”. Una situazione che non può più essere tollerata. “Rimarchiamo la necessità - conclude - di interrompere le riammissioni verso la Grecia e dei respingimenti verso Albania e Croazia, nonché di garantire il pieno rispetto del diritto d’asilo e tutti gli altri diritti e le garanzie fondamentali”. I migranti riportati in Libia non sono stati salvati ma condannati alle torture di Giovanni Tizian Il Domani, 7 aprile 2021 Draghi ringrazia i libici per il salvataggio di vite in mare. È un messaggio all’Ue di continuità sui respingimenti mascherati. Ma nuovi documenti rivelano gli abusi. “Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi”. Tripoli, 6 aprile 2021, primo viaggio all’estero del presidente del Consiglio Mario Draghi, poche righe per dare un messaggio chiaro all’Europa: la continuità con le politiche di esternalizzazione delle frontiere, la delega cioè alla Guardia costiera libica del controllo dei confini europei. Lo fa al fianco del primo ministro Abdelhamid Dbeibah a capo del governo libico di transizione, che ha l’ambizione di riportare la stabilità nel paese. Nel discorso di Draghi, tuttavia, la questione umanitaria non è preminente rispetto al blocco degli sbarchi. Al pari dei predecessori, a partire da chi ha permesso l’attuazione del Piano europeo di sostegno e finanziamento della Guardia costiera libica: il governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni con Marco Minniti ministro dell’Interno. Il perno del sistema di controllo e respingimenti appaltato ai libici è la super agenzia europea Frontex, che poggia su una rete di comunicazione costata centinaia di milioni per garantire alla Guardia costiera il flusso di informazioni necessario a intercettare le barche cariche di migranti, che così vengono riportati in uno stato non sicuro, come denunciano le Nazioni Unite e le più autorevoli organizzazioni umanitarie. Possibile che né la Commissione europea né il governo italiano siano al corrente delle violenze e della sospensione dello stato di diritto all’interno dei perimetri delle prigioni disseminate tra Tripoli e Zawyia? Amnesty International nel suo ultimo rapporto sui diritti umani nel mondo scrive: “La Guardia costiera libica ha intercettato 11.891 migranti. Migliaia di coloro che sono stati riportati in Libia sono stati detenuti a tempo indefinito nei centri amministrati dalla direzione per la lotta all’immigrazione illegale gestita dal ministero dell’Interno. Altri sono stati sottoposti a sparizione forzata dopo essere stati trasferiti in luoghi di detenzione non ufficiali, compresa la “Fabbrica del tabacco” di Tripoli, sotto il comando di una milizia affiliata al governo nazionale. Di loro non si è saputo più nulla”. Le prove degli abusi - In un documento agli atti di un’inchiesta sui trafficanti di uomini condotta dal magistrato di Palermo, Calogero Ferrara, c’è una testimonianza finora inedita sul sistema di corruzione, sbarchi e respingimenti. Il periodo a cui fa riferimento il testimone, interrogato una volta arrivato in Sicilia, si colloca tra il 2018 e il 2019. Cioè quando l’accordo Gentiloni-Minniti tra Italia e Libia era in vigore e il progetto europeo di esternalizzazione delle frontiere ormai rodato. “La Guardia costiera libica salva le vite dai naufraghi riportando donne, bambini e uomini al punto di partenza”. A questa narrazione istituzionale però si contrappone il vissuto delle vittime, che raccontano un’altra storia fatta di respingimenti e ricollocamenti in centri di detenzione infernali, lager dei nostri tempi. Ecco cosa dice Rashid al magistrato: “La sera del 4 luglio 2018 riuscivo a imbarcarmi, insieme ad altri migranti, su una grande nave. Purtroppo venivamo subito intercettati dalla polizia libica che ci conduceva nuovamente a terra per poi imprigionarci a Zawyia, dove sono rimasto richiuso per 3 mesi e 2 settimane”. Zawyia è un famigerato penitenziario per immigrati. La sede è in una ex base militare ed è gestito da tale Ossama, legato al più noto “Bija”, figura sconosciuta finché un’inchiesta del giornalista di Avvenire, Nello Scavo, non ha svelato il suo viaggio in Italia e la presenza a un tavolo istituzionale con il ministero dell’Interno per parlare di migrazioni. Bija aveva partecipato in qualità di agente della Guardia costiera di Zawyia, nonostante fosse sospettato da anni di complicità con i trafficanti di esseri umani, ben felici di riportare i migranti alla base per torturarli e ricattarli una seconda volta. Dalle testimonianze lette emerge che nel centro di Zawyia, dove sono stati spesso riportati i migranti intercettati dalla Guardia costiera libica, sono avvenute torture di ogni tipo: “Per bere utilizzavamo l’acqua dei bagni. Tutti noi migranti venivamo spesso picchiati, anche duramente. Un carceriere una volta ha sparato e colpito alle gambe di un nigeriano, colpevole di aver preso un pezzo di pane. Le donne venivano prelevate dai carcerieri per essere violentate. Da questa prigione si usciva solamente se si pagava il riscatto. Chi non pagava veniva ripetutamente picchiato e torturato”. Un altro migrante ha raccontato: “Eravamo sempre vigilati da diversi uomini armati, dalla stanza in cui ero rinchiuso sentivo, giornalmente, colpi d’arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata”. Altri reclusi, poi arrivati in Sicilia, hanno rivelato ulteriori dettagli di torture medievali: appesi a testa in giù e picchiati con tubi e fucili. Bianca Benvenuti è la responsabile affari umanitari di Medici senza frontiere, tornata di recente da una missione a Tripoli. “Nei primi mesi del 2021 la maggior parte dei migranti intercettati, 4mila (tra gennaio e oggi), dalle motovedette libiche sono stati rinchiusi nei centri di detenzione dell’area di Tripoli, controllati dal governo”. Centri governativi, dunque sicuri? “Le storie raccolte sul campo confermano che anche nelle prigioni ufficiali la violenza è usata come strumento di gestione dell’ordine, e in concomitanza di tentativi di fuga ci sono picchi di abusi”. Tra i luoghi in cui ha operato Medici senza frontiere c’è il centro di Al Mabani, zona Tripoli, “c’erano cinquecento persone a fronte di una capienza massima di cento”. Questi luoghi gestiti da generali che fanno capo al ministero dell’Interno libico sono inaccessibili: “È una negoziazione quotidiana, e non sempre otteniamo il via libera per accedervi”. Frontex è il volto scuro dell’Unione europea che respinge i migranti di Pietro Bartolo* Il Domani, 7 aprile 2021 Io li ho visti gli aerei di Frontex sorvolare quel tratto di mare vicino le coste della Libia. Il 24 febbraio, a bordo di un Colibrì dei Pilotes Volontaires, li ho visti all’opera mentre perlustravano la zona “a caccia dei barconi”. C’è poco da nascondere: l’Agenzia europea sembra svolgere il suo compito al contrario. Non controlla solo le frontiere, ma a quanto pare si adopera per favorire i respingimenti illegali dei migranti verso la Libia che non è, secondo le norme internazionali, un porto sicuro. Dobbiamo essere grati all’inchiesta di Domani che apporta un grande contributo alla ricerca della verità sul fenomeno della migrazione; e non ci sarà, di certo, alcuna inchiesta giudiziaria che possa mettere a tacere, con intercettazioni illegittime, chi racconta quel che accade in quel tratto di mare. Osservata dall’oblò di un minuscolo velivolo la realtà è perfino peggio. Perché quei barconi e quelle persone che stanno rischiando la vita per sfuggire anche alle prigioni libiche ti lasciano un senso di insostenibile impotenza. Soprattutto se pensi che l’Unione europea si mostra, in questo caso, non con la faccia della solidarietà e del soccorso ma con il volto scuro della fortezza che respinge e che sovvenziona la cosiddetta “guardia costiera” libica, comandata da un caporione che in passato è stato accolto con tutti gli onori nel nostro paese. Non giriamoci attorno: qui stiamo parlando di atti precisi che attribuiscono responsabilità pesanti a organizzazioni dell’Ue e agli stati membri che le assecondano, attività che devono essere denunciate e alle quali va posto termine. La pratica dei respingimenti che, lo ripeto, sono illegali da ogni punto di vista, l’ho riscontrata anche sulla cosiddetta “rotta balcanica” quando, con altri colleghi della delegazione Pd (Benifei, Majorino, Moretti e Smeriglio), siamo andati, lo scorso gennaio, a visitare il campo di Lipa, in Bosnia. Avremmo voluto ispezionare il tratto di confine tra Croazia e Bosnia che passa per un fitto bosco. È lì, ancora una volta, che si vìola il principio di “non-refoulement”, una regola fondamentale del diritto internazionale fissata nell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra. Si tratta di pratiche che, sul fronte orientale, risultano applicate anche dal nostro paese. La polizia croata non ci ha fatto passare. Fisicamente hanno impedito il nostro lavoro di parlamentari ed erano militari inviati, come Domani ha accertato, da Zoran Niceno, il capo della guardia di frontiera che, guarda caso, siede nel consiglio di amministrazione di Frontex. Un cambiamento radicale - Questa situazione è al centro della nostra iniziativa in seno al Parlamento europeo. L’attività del direttore di Frontex, il francese Fabrice Leggeri, è oggetto di particolare attenzione da parte della commissione Libertà civili, giustizia e affari interni. Il gruppo S&D ne ha chiesto ripetutamente le dimissioni mentre l’Olaf, l’organismo di sorveglianza finanziaria, ha aperto un’inchiesta interna che potrebbe portare a esiti clamorosi. In qualità di vicepresidente della commissione, da tempo ho chiesto maggiore trasparenza a Frontex e il pieno rispetto dell’articolo 46 del Regolamento che istituisce e regola i compiti dell’Agenzia, e che prevede la sospensione o il ritiro delle attività in caso di violazioni di diritti umani. Di fronte a un muro di gomma la commissione ha costituito un “gruppo di scrutinio” che dovrà redigere un rapporto dettagliato entro i prossimi quattro mesi. Quel che serve è un cambiamento radicale nella condotta dell’Agenzia e una riforma strutturale delle politiche europee. Dobbiamo dire basta all’esternalizzazione delle responsabilità e ai respingimenti. Serve un approccio basato sul rispetto del diritto, dei diritti e su una solida solidarietà interna. Questo è il lavoro che sto facendo come “relatore ombra” del nuovo Regolamento per la gestione di migrazione e asilo, che sostanzialmente riforma e sostituisce il famigerato sistema di Dublino. In mare, nell’immediato, serve una missione europea che torni a garantire, come è avvenuto per una fase anche in passato, che non ci siano più morti nel Mediterraneo. E nel lungo periodo se davvero vogliamo sconfiggere i trafficanti, non dobbiamo più fare accordi con le milizie libiche, ma stabilire vie legali e sicure. Voglio sperare che la visita, molto opportuna, del presidente Draghi stia su questo crinale. Nel giorno di Pasqua, l’immancabile papa Francesco ha ricordato a chi di dovere che nei confronti dei migranti in “fuga da guerra e miseria non manchino segni concreti di solidarietà e di fraternità umana”. La politica non può sottrarsi più a questo compito. *Eurodeputato Pd Droghe, finalmente la Conferenza? La destra insorge di Stefano Vecchio Il Manifesto, 7 aprile 2021 Per la prima volta in epoca di pandemia, un rappresentante del governo, la Ministra alle Politiche giovanili Fabiana Dadone, dopo aver avuto la delega delle politiche antidroga, invia un segnale positivo impegnandosi, subito dopo la fase dell’emergenza, ad avviare le procedure necessarie alla convocazione di quella conferenza nazionale sulle droghe prevista dalla legge, con un ritardo di vent’anni. L’aggressione da parte di “Fratelli d’Italia” vuol dire che siamo sulla buona strada. A febbraio dello scorso anno, viste le inadempienze politiche, avevamo deciso di promuovere a Milano una Conferenza Autoconvocata sulle droghe come rete di organizzazioni della società civile, con il titolo suggestivo: “Droghe. Dopo la guerra dei trent’anni costruiamo la pace. Prove generali per un governo alternativo” che abbiamo, poi, dovuto rimandare a causa della pandemia da Sars Cov19. L’emergenza sanitaria non ha modificato il quadro delle problematiche critiche, anzi ha acuito tutte le contraddizioni del sistema evidenziando l’esigenza di introdurre elementi di cambio strutturale come strategia per andare oltre la pandemia. I servizi di Riduzione del Danno e dei Rischi diffusi in modo disomogeneo nel Paese, nonostante una legge dello Stato li abbia dal 2017 inseriti nei LEA, hanno sostenuto in modo efficace e favorito le competenze e le pratiche autoregolazione delle persone che usano droghe e adottato strategie di ulteriore protezione della salute. Gli stessi SerD, anche se stretti in un modello organizzativo asfittico, hanno scelto di facilitare pratiche di affidamento dei farmaci seguendo una logica analoga, e nella stragrande maggioranza dei casi, hanno evitato rischi e esposizioni ulteriori al mercato dell’illegalità. Sulla scorta di questi elementi, per nulla considerati nella narrazione ufficiale, è necessario che una nuova Conferenza Nazionale sulle Droghe sia preparata recuperando e focalizzando tutte le esperienze, i dati e le elaborazioni che si sono accumulate nel corso di questi anni e aggravate dalla pandemia. E per contribuire a questo processo che abbiamo condiviso l’esigenza di rilanciare la conferenza autoconvocata predisponendo un percorso di cui indico le tappe più significative: 1. Il confronto per la riforma. Il Dpr 309/90 ha favorito l’illegalità del mercato e la criminalizzazione dei consumatori e dopo una guerra durata trenta anni è indispensabile un cambio di modello e che preveda una innovazione strutturale anche nel sistema degli interventi. In questo stesso orizzonte si colloca il rilancio della legge sulla legalizzazione della cannabis. 2. Nel primo evento online realizzato il 30 marzo si è posta la questione dell’intreccio tra la riforma delle convenzioni internazionali e le leggi nazionali che possono anticiparne i contenuti come già avvenuto in molti Stati degli USA, in Canada e Uruguay. 3. Intendiamo attivare un confronto con il mondo dei media con l’obiettivo di condividere un orientamento alternativo e critico che ponga al centro la “responsabilità etica” del mondo dell’informazione libera da pregiudizi. 4. Rilanciamo la proposta di elaborare un Atto di Indirizzo nazionale per attuare i nuovi LEA della Riduzione del danno, introdotti dalla legge dal 2017, con l’istituzione di una commissione mista tra Conferenza Stato-Regioni, Ministero della Salute e rappresentanti della società civile e dei consumatori. 5. Chiediamo di abolire il fallimentare Dipartimento delle Politiche Antidroga istituendo una nuova Agenzia per le politiche sulle droghe partecipata e “pacificata”. 6. Il prossimo 26 giugno presenteremo il dodicesimo Libro Bianco sulle droghe che sarà una occasione per un confronto con il mondo della politica e dei rappresentanti del governo fidando anche su un ruolo attento della Ministra Dadone. Droghe. Tutti gli effetti sull’Italia del proibizionismo della cannabis di Francesca Santolini Il Domani, 7 aprile 2021 Mentre si polemizza sull’affidamento della delega per la politica antidroga alla ministra Fabiana Dadone, c’è un nodo che rimane irrisolto e che risente dell’influenza delle lobby. La decisione del premier Mario Draghi di affidare la delega per le politiche antidroga alla ministra Fabiana Dadone ha scatenato una forte polemica da parte delle forze di centrodestra. Da Fratelli d’Italia a Forza Italia alla Lega, gli oppositori giudicano inopportuno far gestire la materia a un esponente politico dichiaratamente antiproibizionista come il ministro per le Politiche giovanili. A dimostrazione di come, la canapa, o cannabis, sia ancora oggi una pianta circondata da pregiudizi, che si ripercuotono anche sul piano legislativo, con riflessi negativi sui cittadini e l’economia. “Cannabis”, “canapa”, “cannabis light”, “canapa industriale”, “canapa terapeutica” sono tante le definizioni attribuite a questa pianta, come tante sono le sue destinazioni d’uso. La canapa terapeutica, o cannabis terapeutica, viene utilizzata per il trattamento di persone affette da varie patologie come cancro, sclerosi, glaucoma: riduce il dolore causato dagli spasmi dei malati di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica), stimola l’appetito di chi è sottoposto a chemioterapia, fino ad essere utilizzata come antiepilettico nei casi di epilessia farmaco-resistente. In questo caso le varietà contengono un principio attivo benefico: il Thc (tetraidrocanbinolo), la molecola antidolorifica ma anche psicotropa che talvolta viene utilizzata come sostanza d’abuso. Nel caso della cannabis terapeutica il Thc è al di sopra dello 0,2 per cento (limite previsto per la cannabis light o canapa industriale), ed è proprio per questo che in Italia la coltivazione e la produzione sono consentite solo allo stato e non ai privati. Con delle conseguenze paradossali sia dal punto di vista medico sia economico. In Italia l’unico ente autorizzato dal ministero della Sanità a produrre cannabis terapeutica è l’Istituto farmaceutico militare di Firenze. Pur essendo un centro di eccellenza, l’Istituto non riesce a soddisfare con la sua produzione il fabbisogno dei malati del nostro sistema sanitario nazionale. Diventa dunque inevitabile acquistare cannabis medica da compagnie estere a prezzi esorbitanti. Un caso clamoroso risale al 13 giugno 2019 con la pubblicazione da parte del ministero della Difesa di un bando il cui titolo recitava: “Gara procedura aperta accelerata per la fornitura di 400 kg di cannabis per le esigenze dello stabilimento chimico farmaceutico di Firenze”. Una gara a cui nessun produttore italiano avrebbe mai potuto partecipare, perché in Italia la cannabis terapeutica, medica e ludica non può essere coltivata da privati. A leggere il verbale, redatto il 3 luglio 2019, non solo nessuna società è riuscita ad aggiudicarsi la gara, ma tutte le società che hanno partecipato al bando erano straniere: Tilray Portugal, Medical organic cannabis Australia, Aurora Deutschland e Canopy growht Germany. Perché prevedere ingenti spese di fondi pubblici (nel caso specifico un milione e 520mila euro al netto di iva) per ottenere dall’estero quanto si potrebbe produrre facilmente nel nostro paese sotto la guida dell’Istituto chimico farmaceutico? Domanda e offerta - L’International narcotic control board (che monitora la movimentazione della sostanza nei vari paesi) stima che il fabbisogno di cannabis terapeutica dell’Italia sia di circa due tonnellate l’anno, a fronte di una capacità produttiva di circa 150 chili da parte dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. La crescente domanda viene soddisfatta con cannabis acquistata in larga parte dall’Olanda e da Israele. Secondo l’avvocato Giacomo Bulleri, uno dei massimi esperti legali sulla cannabis industriale e terapeutica in Italia, “la soluzione non può che arrivare da una scelta politica chiara che sinora è mancata. Da un lato c’è un difetto nella catena di comunicazione dei dati circa il fabbisogno della cannabis, il che porta il ministero a sottostimare le quantità. Dall’altro occorre aprire a partnership con aziende private che ben potrebbero produrre per conto e in favore dello stato, tra l’altro condividendo un consolidato know-how in materia”. La canapa industriale - Diverso invece è il caso della canapa industriale, le cui varietà contengono una dose estremamente bassa di Thc, e quindi teoricamente potrebbero essere utilizzate senza sollevare alcun problema giuridico. E invece anche qui le regole sono di difficile interpretazione. A normare la materia in questo caso è la legge numero 242 del 2016 che consente a tutti la coltivazione della canapa industriale. Il problema è che la legge non è stata di fatto coordinata con le relative normative di settore, né tanto meno con la normativa europea. Ad esempio, nel codex alimentarius si prevede che si possa utilizzare soltanto il seme della canapa industriale e non le altre parti della pianta. Un vero peccato, perché probabilmente pochi sanno che una delle caratteristiche più interessanti della canapa è che non si butta via nulla. Le possibilità di utilizzo sono molteplici: dal fusto si possono produrre fibra, materiali edili o biocarburanti; dalle infiorescenze, oli essenziali, tisane, farmaci e cosmetici; dai semi, farina ed olio di semi. La versatilità della canapa è la base del suo basso impatto ambientale. Una questione di lobby - E allora perché non creare una filiera agricola legale e trasparente che possa essere valorizzata nell’economia agraria italiana? “Numerose lobby temono la canapa per ragioni diverse: il suo utilizzo come biomassa per la produzione di carta o energia rinnovabile, ma soprattutto il suo impiego in medicina. Dal punto di vista farmacologico la canapa ha moltissime proprietà conosciute e meno conosciute che potrebbero essere sfruttate. La ricerca viene però spesso rallentata dalle amministrazioni e trova scarsi finanziamenti nel privato, all’apparenza per un pregiudizio duro a morire, ma in verità per le attente mosse del settore farmaceutico”, racconta Marco Martinelli, ricercatore in biotecnologie vegetali alla scuola Sant’Anna di Pisa e autore del saggio “Io sono la cannabis” (Lupetti Editore). Un recente studio pubblicato dall’Università di Catanzaro insieme all’Università di Rotterdam e all’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, ha correlato la diffusione della cannabis light all’interno delle città italiane tra il 2017 e il 2018 con i dati relativi al consumo di farmaci nelle farmacie dei medesimi centri urbani. Il numero di vendite di farmaci è diminuito in media dell’1,6 per cento ma con dei settori specifici. Le scatole di ansiolitici prescritte dai medici e vendute dalle farmacie sono diminuite significativamente dell’11,4 per cento, mentre il numero di antipsicotici è diminuito del 4,8 per cento. “Considerando che il business degli ansiolitici in Italia porta nelle tasche delle case farmaceutiche circa 350 milioni di euro, un calo del 10 per cento delle vendite a causa della cannabis, sarebbe probabilmente una perdita troppo consistente”, dice Martinelli. La vicenda paradossale della canapa - una vicenda, sinora, di miopia e di occasioni perdute - è un simbolo, quasi una metafora. Ci racconta di un paese incapace di affrontare le sfide della complessità, senza lasciarsi condizionare da lobby, da tenaci condizionamenti culturali, da pregiudizi ideologici. Droghe. Ma perché la destra idolatra il proibizionismo? di Dimitri Buffa L’Opinione, 7 aprile 2021 A New York hanno legalizzato la cannabis per uso ricreativo. Cioè quella che, volgarmente parlando, usano coloro che “si fanno le canne”. Sono quindi sedici gli Stati, di quella che un giorno era stata la patria della guerra alla droga, ad avere cambiato verso. Almeno altrettanti Stati americani consentono di usare la marijuana per scopo terapeutico, cioè per “farsi le canne con ricetta”, e questo sempre nella patria del proibizionismo più duro. In Italia invece? Idolatria del proibizionismo e nostalgia di San Patrignano. Oltre al discorso sulla libertà personale, questa scelta ha molto a che vedere con l’economia: in Paesi stravolti dalla depressione economica conseguente alla pandemia, che senso ha rinunciare a un “income” statale in termini di imposte dirette, che in certi casi può calcolarsi in miliardi di dollari? Che senso ha negare tanti posti di lavoro nell’agricoltura come nella distribuzione? E, soprattutto, che senso ha lasciare alla criminalità organizzata queste entrate miliardarie, che comunque ci sono, ci sarebbero e ci saranno visto che la domanda è di massa? Questi ragionamenti, insieme all’evidenza scientifica della quasi irrilevanza tossica dell’erba, hanno portato pure l’Onu a togliere almeno la canapa indiana dall’elenco delle droghe pericolose, dove inopinatamente era finita nel 1961, anno in cui questa guerra al consumo di droghe ebbe la sua consacrazione. In America, anche nella destra repubblicana è sempre più numerosa l’ala dei “libertarian”, cioè coloro che considerano il proprio essere di “destra” come una questione di liberismo e non di proibizionismo su alcunché. Insomma, vivi e lascia vivere o perlomeno lascia morire. E, se del caso, combatti le mafie transnazionali colpendole nel portafoglio, non distruggendo lo Stato di diritto come abbiamo fatto in Italia. In tutto questo c’è però una domanda che salta agli occhi: come mai in Italia le destre, post-fasciste o meno che siano, si comportano con la marijuana con la stessa logica con cui alcuni soldati giapponesi si ostinavano a non riconoscere che la Seconda guerra mondiale fosse finita, rifugiandosi nella giungla? Lo si vede anche per episodi insignificanti, come la contestazione della nomina di un ex ministra grillina, Fabiana Dadone, al dipartimento Antidroga. E la contestazione non è al fatto che si tratti di una grillina - cosa che avrebbe un senso - ma alla circostanza che si sia dichiarata antiproibizionista almeno sulla marijuana. Cioè forse all’unica cosa intelligente che abbia detto nella sua vita politica. Perché la destra italiana continua a rimpiangere un’epoca - come quella finita assai ingloriosamente - della propaganda politica da comunità terapeutica? Qualcuno parla di “call of the wild”, cioè di richiamo della foresta. A bene vedere però sembra più il “rutto liberatorio” di tanti Fantozzi che corrono nella foresta, per sfogare un riflesso psicologico ormai inspiegabile e che aliena tantissimi voti - forse milioni - ai partiti del centrodestra italiano. Tantissima gente che, ragionando dal lato del portafogli, voterebbe a destra ma che poi si trova costretta ad abbozzare a una pseudo-ideologia come il proibizionismo - che oltretutto è complice, oggettivamente, delle mafie che si ostina a combattere, distruggendo il diritto - cui invece non ha alcuna voglia di abbozzare. Pseudo-ideologia che anzi - non volendo questi potenziali elettori di destra supinamente subire - costringe molti milioni di persone a fare altre scelte politiche? “Usque tandem - per citare Cicerone - abutere patientia nostra?”. Turchia. “Il Kanal Istanbul è pericoloso”: incarcerati gli oppositori del progetto di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 aprile 2021 A mezzanotte del 3 aprile è stata resa pubblica una lettera aperta di critica al mega progetto governativo del Canale di Istanbul. Ieri, con un’inchiesta lampo, dieci ex ammiragli turchi sono stati arrestati per averla firmata. Facciamo un passo indietro: il presidente Erdogan ha un pallino fisso, aprire un canale a sinistra del Bosforo per incrementare il flusso commerciale dal Mar Marmara a sud di Istanbul e il Mar Nero a nord. Ci pensa dal 2011. Non è solo un pensiero, è già in parte realtà: a fine marzo il governo ha approvato il piano. Il “folle progetto”, così definito dallo stesso Erdogan che lo considera uno tra i più strategici dei suoi mega piani infrastrutturali, sta per partire, almeno a sentire il ministro dei trasporti Karaismailoglu: “Poco tempo e la costruzione comincerà”. Il Kanal Istanbul, in stile Suez e Panama, avrebbe una lunghezza di 45 km e un costo stimato di 9,2 miliardi di dollari. Permetterebbe il transito di 160 navi al giorno, alleggerendo il Bosforo, tra i più affollati del mondo (53mila navi l’anno, contro le 19mila di Suez). La lista dei dubbiosi è lunga, quasi quanto quella delle criticità. Ingegneri, ambientalisti, attivisti, alti funzionari militari in pensione, lo stesso sindaco Imamoglu non lo vogliono e protestano da un bel po’. Per tanti motivi diversi. La costruzione del canale e il piano urbanistico - decisi violando le regole, senza consultare ong, associazioni, comitati di quartiere che temono già un boom di bustarelle - avrebbe effetti significati su una città da 15 milioni di abitanti. Provocherebbe un decremento notevole nell’approvvigionamento di acqua potabile e ridurrebbe al minimo l’ultima area verde di Istanbul, i 350 ettari della foresta della promessa del sultano Mehmet II, una volta presa Costantinopoli: “A chiunque taglierà un ramo della mia foresta, taglierò la testa”. Un ecocidio, lo definì al National Geographic tre anni fa Cihan Basyal, accademico e membro del Northern Forests Defense, a cui si aggiungerebbe il trasferimento forzato di decine di migliaia di residenti di Istanbul e la perdita di sostentamento per contadini e pescatori. Al loro posto grattacieli e residenze di lusso, che hanno già fatto impennare i prezzi delle abitazioni (da 25 dollari al metro quadro a 800). Già nel 2013 i residenti denunciarono il governo per gli espropri subiti e i risarcimenti troppo bassi, senza successo. Infine, ed è qui che risiede la preoccupazione dei 104 ex vertici della Marina, violerebbe la Convenzione di Montreux. O meglio, la bypasserebbe perché quel trattato copre solo lo stretto dei Dardanelli e il Bosforo. Lo ha detto Erdogan lo scorso gennaio: “Non preoccupatevi, (il canale di Istanbul) è del tutto fuori da Montreux”. Firmata nel 1936, la Convenzione garantisce il transito di navi civili nei due passaggi di mare sia in tempo di pace che di guerra e limita l’accesso delle navi militari di paesi terzi. Secondo i firmatari della lettera aperta, Montreux ha permesso alla Turchia di restare neutrale durante la Seconda guerra mondiale, evitando da un conflitto devastante per una nazione appena nata. Ma il Kanal Istanbul apre nuovi scenari. A preoccupare gli ex ammiragli, è la riduzione della sovranità turca e la possibile militarizzazione del Mar Nero con tutto quel che ne consegue in termini di tensioni internazionali, soprattutto con la Russia che su quel lago si affaccia e che con Ankara mantiene un rapporto di alleanza-rivalità sempre sul punto di collassare. La presa di posizione (che è seguita a una lettera simile firmata il 2 aprile da ben 126 ex ambasciatori turchi) non è piaciuta al governo né a una magistratura sempre più erdoganizzata: il procuratore capo di Ankara ha subito aperto un fascicolo e un giorno dopo 10 ammiragli in pensione finivano in manette e altri quattro venivano convocati per essere interrogati. Sono accusati di aver minato alla sicurezza dello Stato e all’ordine costituzionale. Hanno immediatamente perso la pensione, annullata ieri. Esponenti del governo e lo stesso presidente si sono spesi in condanne aspre dell’iniziativa: “È un golpe politico”, ha detto Erdogan. Eppure tra gli arrestati ci sono nazionalisti di ferro, come Cem Gurdeniz, il teorico della Patria Blu, ovvero della dottrina - resa pratica da Erdogan - di ampliamento delle acque territoriali turche nell’Egeo a scapito di Cipro e della Grecia. Egitto. Zaki, altri 45 giorni di cella per Patrick. Niente cambio di giudici di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 aprile 2021 Rinnovata la custodia cautelare dello studente dell’Università di Bologna. Rifiutata la richiesta di deferire il caso ad un altro tribunale. Amnesty: governo convochi ambasciatore egiziano. La Corte d’assise del Cairo ha rinnovato di altri 45 giorni la detenzione del ricercatore egiziano all’Università Bologna Patrik Zaki. Lo riferisce Ansa la sua legale, Hoda Nasrallah, sottolineando che è stata inoltre respinta la richiesta, presentata ieri dalla difesa, di un cambio dei giudici che seguono il caso. L’udienza si era svolta ieri ma l’esito si è appreso solo oggi. Ieri sempre la sua legale si era detta preoccupata delle condizioni psico-fisiche dello studente 29enne e ha spiegato di non aver nemmeno potuto parlare con il suo assistito. Inoltre gli attivisti della campagna a sostegno della liberazione di Patrick hanno confermato come ai rappresentanti diplomatici generalmente presenti durante l’udienza non sia stato permesso di raggiungere l’aula. “Quello che la difesa aveva dichiarato ieri, che c’era un accanimento giudiziario nei confronti di Patrick è confermato dalla decisione di oggi che è crudele, dolorosa. Vorremmo che il Governo italiano facesse subito una cosa, perché può farla subito: convocare l’ambasciatore egiziano a Roma per esprimere tutto lo sconcerto per questo accanimento e chiedere che sia rilasciato”, ha spiegato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia. “Il prosieguo della detenzione di Patrick Zaki è un intollerabile abuso. Patrick, però, non è solo e vogliamo dimostrarglielo. Il 7 maggio prossimo, a quindici mesi dall’inizio della sua detenzione, in tutta Italia, terremo accesa Una luce per Patrick”. Lo dicono la deputata Lia Quartapelle, responsabile Esteri Pd, il deputato Dem Filippo Sensi e il presidente Ali e sindaco di Pesaro Matteo Ricci. “È un’iniziativa a cui parteciperanno tutti i comuni aderenti ad Ali, le Autonomie Locali Italiane, che terranno le luci dei municipi accese e tutte le cittadine e i cittadini che vorranno manifestare la propria vicinanza allo studente di Bologna, accendendo una candela alle finestre”, proseguono. “Respinta la richiesta del cambio dei giudici per #PatrickZaki, altri 45 giorni di detenzione, di tortura. Non è più tollerabile. Non è sopportabile. Il governo corra sulla cittadinanza italiana, la pressione sull’Egitto sia forte, chiara. Così non si va avanti”, ha aggiunto Sensi su Twitter. “All’ennesimo rinvio di 45 giorni, è difficile trovare le parole per chiedere all’Egitto di liberare un ragazzo di 20 anni, innocente. Il triste calvario di Patrick si allunga ancora. La mobilitazione per la sua liberazione deve cambiare passo e coinvolgere le istituzioni ad ogni livello”, è il commento di Erasmo Palazzotto deputato LeU. “Persegue il martirio di Zaki. Con la decisione di oggi continua la vergogna di una detenzione senza senso. Altri 45 giorni di supplizio che non sono solo disumani per Patrick, ma un’autentica provocazione nei confronti dell’Italia e dell’Europa che con forza hanno chiesto la scarcerazione”, dichiara in una nota l’eurodeputato Giuliano Pisapia. Lo studente egiziano dell’università di Bologna è accusato della pubblicazione di post critici verso il governo del suo Paese sulla base di una serie di post Facebook pubblicati da un account che la difesa definisce non legale. La detenzione di Zaki, che ha 29 anni, dura dall’8 febbraio dell’anno scorso ed era stata prorogata per ulteriori 45 giorni il primo marzo scorso. Nigeria. Più di 1.800 detenuti sono evasi da una prigione nel sudest del Paese ilpost.it, 7 aprile 2021 Lunedì alcuni uomini armati hanno distrutto con degli esplosivi una parte di una prigione nella città di Owerri, nel sudest della Nigeria, facendo evadere 1.844 persone che erano detenute nella struttura. 35 detenuti non sono voluti evadere, mentre almeno 6 sono tornati dopo essere inizialmente fuggiti. Un agente di polizia è stato ferito da un colpo di arma da fuoco. Secondo le autorità, la responsabilità dell’attacco sarebbe da attribuire alla Rete per la sicurezza orientale, l’ala paramilitare del movimento secessionista Indigeni del Biafra, che invece ha negato ogni coinvolgimento. Il presidente Muhammadu Buhari ha definito l’azione “un atto di terrorismo”. La Repubblica del Biafra fu uno stato secessionista del sudest della Nigeria, nella zona che si affaccia appunto sul golfo del Biafra e dove esistono i maggiori giacimenti di petrolio del paese. La sua indipendenza durò dal 1967 al 1970 e provocò in quegli anni la guerra civile nigeriana, al termine della quale il Biafra venne reincorporato nella Nigeria. Il conflitto causò la morte di milioni di persone, anche per la fame dovuta al blocco sull’accesso di beni di prima necessità messo in atto dal governo centrale nella regione. Negli ultimi anni i movimenti secessionisti si sono in parte riattivati e le forze di sicurezza nigeriane hanno sempre represso le proteste con la forza, uccidendo in alcuni casi i protestanti pacifici pro-Biafra. Negli ultimi mesi nella regione sudorientale della Nigeria ci sono stati diversi attacchi a stazioni di polizia e altre strutture, che sono stati spesso attribuiti agli Indigeni del Biafra. Il gruppo però ha sempre negato le responsabilità. Niger, il crocevia dei traffici d’Africa nel pugno dei jihadisti di Tanguy Berthemet* La Repubblica, 7 aprile 2021 Il nuovo presidente Mohamed Bazoum, da poco insediatosi come capo di uno degli Stati più poveri del mondo, dovrà prepararsi a numerose sfide; oltre alle contestazioni politiche dovrà confrontarsi con l’aggressiva penetrazione dei gruppi terroristici spesso n lotta tra loro. Mohamed Bazoum, presidente del Niger eletto lo scorso febbraio, non si è insediato fino al 2 aprile, eppure nei mesi intercorsi tra elezione e giuramento è stato vittima di un tentativo di colpo di Stato. Un episodio più simile a una sommossa bloccata in tempo che a un vero e proprio colpo di mano, ma ciò la dice lunga sulle difficoltà politiche e i problemi di sicurezza che attendono il nuovo capo dello Stato. Questo fatto si somma alle manifestazioni dell’opposizione, che non accetta i risultati delle urne e grida al broglio, e anche alla riapparizione delle violenze islamiste che, dopo un periodo di tregua, hanno causato parecchie decine di morti nelle ultime settimane. Il tentato colpo di Stato - “Il colpo di Stato” ha preso il via davanti alle cancellate della vasta tenuta presidenziale, a Niamey, nella notte tra il martedì e il mercoledì precedenti l’insediamento. Poco prima delle delle tre di notte, una serie di colpi di arma da fuoco rimbombavano nell’aria. “Per mezz’ora la sparatoria è stata intensa, con armi pesanti e leggere”, ha dichiarato a France Presse un abitante del quartiere Plateau, dove si trova la residenza del presidente. Gli assaltanti non sono riusciti a entrare nel palazzo e la situazione, il giovedì, era di calma. Il governo ha immediatamente denunciato “un tentativo di colpo di Stato”, “un atto vile”, senza precisare altro. Secondo fonti ufficiali, all’origine di questo sommovimento ci sarebbero dei militari e sarebbero stati effettuati “numerosi arresti”, mentre prosegue la “frenetica ricerca” di altri golpisti. Il ruolo dell’esercito - Un ufficiale dell’aeronautica è sospettato di esserne l’organizzatore, insieme a uomini delle Forze speciali d’informazione e sicurezza, un corpo d’élite. “Hanno tra loro vincoli stretti e non accettano la sconfitta”, afferma un responsabile nigerino. Il potere accusa una parte dell’esercito di essere vicino all’opposizione, di avere addirittura istigato le violente manifestazioni seguite all’annuncio dei risultati delle elezioni presidenziali. A fine febbraio, con queste accuse è quindi finito in carcere Moumouni Boureima, ex Capo di Stato Maggiore, insieme a Hama Amadou, uno dei principali oppositori. “Sono note le tensioni che pervadono il tessuto dell’esercito e questo colpo di mano non è del tutto una sorpresa. Lo è invece che siano riusciti a organizzarsi, perché quella frangia inquieta di militari è tenuta sotto attenta osservazione, in questo periodo”, afferma uno specialista in sicurezza del Sahel. Inquietudine non priva di fondamento. L’arrivo al potere di Mohamed Bazoum, che succede a Mahamadou Issoufou e a cui è molto vicino, rappresenta la prima transizione pacifica del potere nella storia del Niger. Un debutto, in un paese segnato dai colpi di Stato; ne ha vissuti infatti quattro - il primo, nel 1974, ebbe come bersaglio Hamani Diori e l’ultimo, nel 2010, rovesciò Hamani Diori - oltre a un numero notevole di tentativi. L’islamismo armato - Eppure l’agitazione dei militari e le pressioni dell’opposizione non sono le sfide più difficili che il nuovo presidente dovrà affrontare. L’influsso dell’islamismo armato non smette di estendersi nel Niger e sulle sue popolazioni, complici le fragilità di uno degli Stati più poveri del mondo. La prova più evidente la si è avuta il 21 marzo: proprio lo stesso giorno in cui la Corte costituzionale confermava la vittoria di Mohamed Bazoum, almeno 137 persone venivano assassinate in tre villaggi nei dintorni di Tilia, una città a nord di Niamey, vicina alla frontiera con il Mali. In un comunicato il governo ha dichiarato che “banditi armati” hanno assalito i borghi di “Intazayene, Bokorate e degli accampamenti nella zona di Akifakif”. Tuareg e, in minor numero, Djerma, ne sarebbero rimasti vittime. Quando si sono verificati quegli attacchi mortali sono anche avvenuti saccheggi e furti di bestiame nel vicino Mali. Sei giorni prima c’era stato un massacro nella regione delle tre frontiere, una zona a cavallo tra Niger, Mali e Burkina Faso; quasi 60 civili uccisi e, oltretutto, le vittime erano state scelte. “Gruppi di individui armati non ancora identificati hanno scorto quattro veicoli che trasportavano passeggeri di ritorno dal mercato settimanale di Bani Bangou (...). Questi individui hanno vigliaccamente e crudelmente giustiziato i passeggeri, bersagli mirati”, spiegava un comunicato del governo. A gennaio, nella stessa zona, un centinaio di persone erano state assassinate. Tali massacri non sono stati rivendicati ma sono avvenuti in luoghi in cui la presenza dello Stato Islamico del Grande Sahara (SIGS) è forte, soprattutto nella regione di Tahoua. In quest’area estesissima, dove lo Stato è praticamente assente, le popolazioni locali si sono organizzate in milizie. Secondo una fonte che interviene nelle mediazioni locali, nei due mesi precedenti le milizie avevano intensificato i raid contro le comunità di lingua fula e i Daoussak (entrambe popolazioni di lingua ovest-atlantica, particolarmente numerose in Nigeria, Niger, Mali, Guinea, Camerun e Senegal. Sono soprattutto pastori e agricoltori. N.d.T.). “I massacri sono quindi, almeno in parte, una specie di vendetta dopo quei raid oppure un richiamo all’ordine da parte dello SIGS”, spiega la nostra fonte. Uno snodo importante per i traffici - Da mesi il SIGS accresce la pressione in questa zona del Niger e sulla città di Tassara, che è controllata da gruppi armati arabi e rappresenta uno snodo importante per il controllo delle vie del commercio e di vari traffici, molto redditizi, tra il nord -verso l’Algeria, la Libia o il Marocco - e la città di Gao, a sud. Un interesse di tipo strategico, dunque. Gli osservatori temono che se Niamey non interviene le milizie locali, per proteggersi, ricorrano al grande rivale del Sigs, e cioè il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Gsim), legato ad Al Qaeda e, per il momento, ancora poco attivo nel Niger. Una prospettiva che di certo non facilita l’incarico, già molto arduo, di Mohamed Bazoum. *Traduzione di Monica Rita Bedana)