Covid in carcere: aumentano i positivi ma il sovraffollamento non diminuisce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 aprile 2021 Il sovraffollamento persiste e il Covid infesta le carceri. Secondo gli ultimi dati del Dap, i detenuti sono diminuiti di soli 188 unità. Nel frattempo il Covid si diffonde sempre di più e la campagna vaccinazione è ancora a rilento a causa delle regioni che non si muovono in maniera uniforme. Secondo il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, l’Abruzzo è ai primi posti per percentuale di detenuti vaccinati. A seguire la Lombardia, mentre altre realtà come Lazio, Toscana e Molise sono più indietro, anche se l’arrivo del vaccino Johnson & Johnson monodose potrebbe far compiere un balzo in avanti proprio al Lazio. Ma qualche tensione all’interno delle carceri comincia a farsi sentire. Nel carcere di Reggio Emilia risulta il focolaio più grave. Sono saliti a 115 positivi al Covid su 350 detenuti. Mentre salgono a 4 i detenuti ricoverati. I detenuti sono in isolamento da giorni e la tensione si fa sempre più forte. Anche nel reparto femminile del carcere di Rebibbia sono 54 le detenute e sei agenti positivi al Covid. Poi c’è il carcere di Asti dove la garante locale dei detenuti, Paola Ferlauto, pur sottolineando che la situazione dei positivi sta migliorando, la forte carenza di personale e l’isolamento forzato in piccole celle la preoccupa molto. “La tensione è tanta, anche perché - spiega Ferlauto raggiunta dall’Ansa - sono aumentati i positivi tra gli agenti e molti sono in malattia. La forte carenza di personale mi preoccupa molto. I detenuti non possono muoversi dalle loro piccole celle e sono venute meno tutte le loro attività. La situazione è sul punto di esplodere. Temo un’insurrezione al carcere di Asti”. Ricordiamo che, come riportato da Il Dubbio, ad Asti nei giorni scorsi è scoppiato un focolaio di Covid- 19. È stato fatto il tampone a tutti i 298 detenuti e, dei 51 detenuti positivi, 44 si sono negativizzati, ma altri 25, che hanno rifiutato la vaccinazione, sono positivi. L’altro ieri è stato inoculato il Pzifer a 18 detenuti che, per loro patologie, non avevano potuto fare AstraZeneca, ne rimangono 13 che devono essere vaccinati in zona protetta. Ricordiamo che, per quanto riguarda la regione Piemonte, oltre ad Asti, anche al carcere di Saluzzo e quello di Cuneo dove ci sono i 41bis, sono scoppiati i focolai. Ed è la regione dove, a causa di un probabile fraintendimento, ha recepito la direttiva del commissario nazionale per l’emergenza Figliuolo che avrebbe indicato di vaccinare solamente dove insorgono i focolai. È intervenuto, con una lettera, il garante nazionale Mauro Palma che ha bacchettato il presidente Alberto Cirio per i ritardi e la strategia seguita nelle vaccinazioni. I due hanno avuto uno scambio epistolare che evidentemente non è piaciuto al garante che ha rilevato alcune perplessità. Innanzitutto - dice Palma - “perché non è assolutamente condivisibile una strategia che si basi sugli interventi laddove i focolai di contagio si sono già sviluppati”. Come successo per esempio nelle carceri di Asti, Cuneo e Saluzzo citati dal governatore. “Ma anche perché tra le sue parole (di Cirio, ndr) non riesco a intravvedere date certe di avvio della fase di diffusa e capillare vaccinazione delle persone ristrette e di coloro che in carcere operano”. Il garante ha ricordato che in base al Piano Nazionale “polizia penitenziaria, personale carcerario e detenuti rappresentano categorie e setting prioritari “a prescindere dall’età e dalle condizioni patologiche”. Posizione del resto opportunamente riportata dalla stessa ministra della Giustizia, proprio per chiarire la direzione della strategia adottata”. Ma, com’è detto, in tutto questo c’è anche il discorso del sovraffollamento. Erano presenti 53.697 al 28 febbraio 2021, sono 53.509 al 31 marzo 2021. Quindi solo 188 in meno. Le madri detenute con figli al seguito sono aumentate di una unità rispetto ad un mese fa: erano 25 con 27 figli, ora sono 26 con 28 figli. A quanto un decreto che introduca almeno la liberazione anticipata speciale? Ergastolo ostativo: la differenza tra vendetta e giustizia di Alessio Ramaccioni meteoweek.com, 6 aprile 2021 Prosegue in maniera anche aspra il dibattito sull’ergastolo ostativo, in attesa della sentenza della Corte Costituzionale: ma una detenzione a vita senza la possibilità di benefici e sconti di pena è davvero giustizia? Carcere a vita, senza alcuna speranza: né di benefici, né di sconti della pena. A meno che non si diventi collaboratori di giustizia, firmando il famoso 58ter dell’O.P. Questo, in sintesi, è l’ergastolo ostativo, destinato ai condannati in via definitiva di reati di mafia o di terrorismo. Una detenzione senza speranza, che di fatto seppellisce il detenuto in prigione fino alla morte ed insieme a lui, di fatto, l’art. 27 della Costituzione Italiana. Una “punizione esemplare” che risponde perfettamente alla richiesta di “far marcire in galera” chi si macchia di reati dove è prevista la pena dell’ergastolo, come omicidio, strage, reati contro lo Stato ed altri. Una condanna che fa piacere ai tanti, sempre più numerosi, italiani che ragionano ormai quasi esclusivamente con la pancia, spinti dalla rabbia. Senza pensare che, nel corso della vita, potrebbe capitare anche a loro di trovarsi in debito con la legge e a sperare nel garantismo, che è sinonimo e caratteristica di democrazia. Al giorno d’oggi, il carcere è divenuto quasi come un ospedale: le porte potrebbero aprirsi a chiunque. Perché l’ergastolo ostativo è entrato nel dibattito sociale e politico del nostro paese? Tutto parte da una sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani del 13 giugno 2019 secondo la quale la condanna all’ergastolo ostativo inflitta dalla giustizia italiana nei confronti del boss di ‘ndrangheta Marcello Viola violava la l’articolo 3 della Convenzione Europea sui Diritti umani. Si tratta di una sentenza molto significativa per il nostro ordinamento, perché nelle condizioni dell’ergastolano Viola ci sono alcune centinaia di boss mafiosi, condannati per le stragi, per terrorismo, che non hanno mai collaborato in alcun modo con la giustizia. I giudici di Strasburgo, nell’argomentare la sentenza, affermarono che “lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena”. Riesame che, si legge nella sentenza, “permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione della pena stessa, il detenuto si sia evoluto e abbia fatto progressi tali” da non giustificare più “il suo mantenimento in detenzione”. La Corte, inoltre, “pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della “dissociazione dall’ambiente mafioso” specifica “che tale rottura può esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia” e senza l’automatismo legislativo che è attualmente in vigore. Lo Stato italiano fece ricorso a questa sentenza, perdendo. Adesso è il turno della Corte Costituzionale: la Consulta è stata attivata dopo che la Cassazione ha sollevato una eccezione di costituzionalità rispetto al caso di Salvatore Francesco Pezzino, mafioso di Partinico, in provincia di Palermo. Condannato per mafia e omicidio, ha trascorso in totale 30 anni in carcere: nel 1999 aveva anche ottenuto la semilibertà, per poi perderla un anno dopo, in quanto accusato di altri reati. Considerato un “detenuto modello”, nel 2018 Pezzino ha chiesto al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila di riconoscergli la libertà condizionale, prevista per tutti i detenuti che hanno scontato 26 anni di carcere, salvo, appunto, quelli condannati per reati di mafia che non hanno collaborato con la giustizia. Un divieto previsto dall’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, e dal decreto legge 306 del 1992: si tratta di provvedimenti approvati dopo la strage di Capaci, ispirati dall’azione del giudice Falcone come strumento per abbattere l’omertà della mafia. Una sorta di legislazione di guerra, in un momento della storia d’Italia drammatico: era la stagione delle bombe, si era nel pieno della strategia stragista di C0sa Nostra. La Consulta, tra l’altro, si è già espressa - almeno parzialmente - sull’argomento: con la sentenza 253 del 2019 la Corte Costituzionale ha infatti escluso che la collaborazione con la giustizia sia condizione indispensabile per la concessione dei permessi premi per i reati di mafia e per tutti i reati ostativi contemplati proprio dall’ articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario. Il tema è ovviamente complesso e delicato: molti dei detenuti che sono sottoposti ad ergastolo ostativo si sono certamente macchiati di delitti orribili, e non hanno mai voluto collaborare con la giustizia: ma solo questo è l’indicatore di un ravvedimento, o di un cambiamento di visione della vita? Dopo 30 anni di carcere, non si è già pagata una pena enorme per gli errori ed i reati commessi? Non scordiamoci che la Costituzione Italiana si esprime chiaramente sul tema. Nell’articolo 3, affermando che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ma soprattutto lo fa - appunto - nell’articolo 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Il 3 ed il 27 sono proprio i due articoli della Costituzione a cui i giudici della Corte di Cassazione e del Tribunale di Sorveglianza di Perugia si erano riferiti nel rinviare alla Consulta la questione che poi ha portato alla già citata sentenza 253/19. Ovviamente il principio più stringente è quello relativo alla funzione rieducativa del condannato: l’ergastolo ostativo va in direzione opposta a questo intendimento. È una punizione fine a se stessa, una pena di morte che ipocritamente evita l’omicidio del condannato. Lo Stato, la Giustizia, la Democrazia sono altro rispetto a questo, ed è proprio in nome di questa differenza che siamo altro da coloro i quali vorremmo seppellire in carcere. Anche perché questo concetto di “fine pena mai” è applicato solo a chi ha commesso quel tipo di reato. Gli autori di crimini altrettanto aberranti ma non previsti dal 4bis, dopo aver spiato la pena in carcere hanno accesso a benefici e sconti: alcuni esempi sono i protagonisti di importanti casi di “nera”, come il delitto di Cogne o quello di Novi Ligure, attualmente tutti a casa. L’atroce omicidio commesso da Vincenzo Paduano, a danno di Sara Di Giannantonio, bruciata ancora viva, è stato punito con l’ergastolo. Ma probabilmente l’uomo, un giorno, sarà libero. Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo in via definitiva il per il delitto di Sara Scazzi ad Avetrana, molto presto potranno accedere ai benefici di legge. Ma anche i casi di Garlasco, di Erba, hanno visto i protagonisti, condannati, avere accesso ad attività lavorative in carcere: è comunque un punto di contatto con la vita “fuori”. Tutti questi condannati in via definitiva, già dal primo anno di espiazione pena, hanno avuto accesso alla liberazione anticipata: beneficio di legge dell’Ordinamento Penitenziario. I condannati per reati di mafia e di terrorismo no. Se ragioniamo con la testa e non con la pancia, è impossibile non rendersi conto dello squilibrio. In attesa della sentenza della Consulta in Italia il dibattito è acceso, forte, “caldo”. Già all’indomani della sentenza della Corte Europea - era l’ottobre del 2019 - ricordiamo il commento dell’allora ministro della Giustizia Bonafede: “Non condividiamo nella maniera più assoluta questa decisione della Cedu, ne prendiamo atto e faremo valere in tutte le sedi le ragioni del governo italiano e di una scelta che lo Stato ha fatto tanti anni fa: una persona può accedere ai benefici a condizione che collabori con la giustizia”. Anche il ministro Di Maio si espresse in maniera simile, forse un pelino più retorica: “Ma stiamo scherzando? Se vai a braccetto con la mafia, se distruggi la vita di intere famiglie e persone innocenti, ti fai il carcere secondo certe regole. Nessun beneficio penitenziario, nessuna libertà condizionata. Paghi, punto. Qui piangiamo ancora i nostri eroi, le nostre vittime, e ora dovremmo pensare a tutelare i diritti dei loro carnefici? Il M5S non condivide in alcun modo la decisione presa dalla Corte”. Oltre alla politica - che ovviamente strumentalizza il tema in maniera biecamente elettoralistica, ma a questa distorsione purtroppo siamo abituati - anche la società civile si è espressa. Anche la società civile si è espressa: ad esempio oggi il giornalista Massimo Giletti ha pubblicato su Facebook un commento forte, netto: “Lentamente, nel silenzio generale, si stanno realizzando quelli che erano gli obiettivi delle stragi del 1992 e del 1994. Abolire l’ergastolo ostativo significa rivedere presto in libertà gli autori di quelle stragi. Vogliamo davvero dare un ulteriore schiaffo a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e a tutti gli uomini che hanno dato la vita credendo in questo stato?”. Posizione comprensibile, ma che non tiene conto del fatto che anche il mafioso stragista condannato all’ergastolo ha dei diritti. È lo Stato, quello per il quale sono morti i giudici Falcone e Borsellino, che lo prevede. È la nostra Costituzione. Giustizia, non Vendetta. È tutto quello che ci differenzia da loro, che lo Stato volevano sovvertirlo a suon di bombe. Perché l’ergastolo ostativo serve di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 6 aprile 2021 La mafia è viva e vegeta e non c’è motivo di smantellare quel che funziona, con un distacco dalla realtà incomprensibile. “Perinde ac cadaver”: così i Gesuiti esprimono sottomissione assoluta ai superiori. Questa formula ispira chi dà per scontato che la Corte Costituzionale ammetterà i mafiosi ergastolani che non collaborano con lo Stato al beneficio della liberazione condizionale (scelta che di fatto cancella l’ergastolo ostativo). Il pronostico si basa sul fatto che la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) l’ergastolo ostativo lo ha già demolito con una sentenza del 2019. Ma siamo sicuri che la suprema istanza della giurisdizione italiana debba - sempre e comunque - prestare incondizionato e pedissequo ossequio alla Giustizia europea? Oppure, tale ossequio (pur ammissibile in linea di principio nel quadro di una “leale collaborazione con le Corti sovranazionali”) deve essere calibrato sulla specificità dei casi concreti che la Consulta deve volta a volta esaminare? Quando si tratta di questioni legate alla mafia, questa prospettazione è semplicemente razionale e risponde ad un elementare principio di realtà. Realtà della quale il nostro Paese è purtroppo depositario quasi esclusivo, mentre oltre i nostri confini non la si conosce o la si sottovaluta. Tant’è che solo noi abbiamo il reato associativo (416 bis). Solo noi: nonostante la Convenzione Onu di Palermo del 2000 faccia obbligo agli aderenti (quasi tutti gli Stati del mondo) di inserirlo nella legislazione nazionale. Che almeno da noi (a partire dalla Consulta) si tenga conto della reale specificità della mafia. Riconoscendo innanzitutto che le mafie dominano ancora parti consistenti del territorio e della vita politico-economica del Paese. Esse sono quindi la negazione assoluta dei valori di libertà e uguaglianza che della Costituzione sono la linfa. Rimuoverle è compito che l’articolo 3 cpv affida ad ogni organo della Repubblica, nessuno escluso. Oltre al 416 bis e alla legge sui pentiti, nel nostro ordinamento penitenziario abbiamo il 4bis (ergastolo ostativo) e il 41bis. Un “pacchetto” ispirato da Falcone, definito dopo le stragi del 1992, che ha consentito imponenti risultati. Ma la mafia, pur avendo ricevuto duri colpi, è viva e vegeta e non c’è motivo di smantellare quel che funziona, con un incomprensibile distacco dalla realtà. Ecco un elenco di realtà da non “ignorare”. Primo: l’ossessione dei mafiosi per la condizione dei compagni detenuti è storica. Salvatore Riina la esprimeva dicendo che si sarebbe giocato anche i denti pur di ottenere qualcosa. Toccare l’ostatività dell’ergastolo equivale a disincentivare i pentimenti: Riina sarebbe due volte contento. Secondo: l’articolo 27 della Costituzione (la pena deve tendere alla rieducazione del condannato) ha un incontestabile valore di civiltà; ma in concreto può funzionare solo per i condannati che mostrano di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno davvero. Non è assolutamente il caso dei mafiosi “irriducibili” che non si sono pentiti. Terzo: i mafiosi infatti giurano fedeltà perpetua all’organizzazione; lo status di “uomo d’onore” è per sempre; la collaborazione con lo Stato è l’unico modo per “disertare”; lo provano l’esperienza e gli studi sull’identità mafiosa. Quarto: nessun automatismo se la Consulta “apre”, ma un bell’azzardo. A decidere caso per caso sulla persistenza della pericolosità del mafioso sarebbe pur sempre il giudice di sorveglianza; che però si troverebbe allo sbaraglio, in quanto - senza il decisivo requisito del pentimento - manca ogni fattore obiettivo cui ricollegare il distacco dal clan; le relazioni (carcere, Cosp, procure antimafia) che dovrebbero aiutare il giudice in pratica servono a poco, afflitte come sono, di solito, da formalismo burocratico. In sostanza, senza “ancoraggio” al pentimento, la decisione del giudice si riduce appunto ad un pericoloso azzardo. Quinto. Di più: agli occhi del mafioso - poco propenso ai “distinguo” - il giudice che nega un beneficio consentito dalla Consulta, automaticamente diventa un “nemico”: anche quest’automatismo dovrebbe preoccupare, in quanto foriero di possibili nefaste conseguenze di cui la storia di Cosa nostra è maestra. Infine, nella denegata ipotesi (un po’ di giuridichese...) che la Consulta assuma un orientamento diverso da quello qui auspicato, resterebbe il fatto che le sue pronunce sono molto spesso “più che il punto conclusivo di una certa vicenda, il punto intermedio di uno sviluppo normativo che trova compimento solo quando il Legislatore lo conclude” (Marta Cartabia). Ma intanto la credibilità che le vittime di mafia hanno restituito allo Stato con il loro sacrificio rischia di svanire. Non possiamo assolutamente consentirci altri Antonio Gallea: condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Livatino, di recente egli ha approfittato dei benefici penitenziari ottenuti per rientrare in posizioni di rilievo nella sua organizzazione criminale (Stidda), facendo valere proprio i suoi 25 anni di carcere senza aver mai collaborato davvero. Detenuti lavoratori: pari lavoro, pari diritti di Denise Amerini sinistrasindacale.it, 6 aprile 2021 Sintesi dell’intervento alla tavola rotonda “Carcere e lavoro. I luoghi comuni da smontare, le parole per ricostruire” organizzata da Officine Cgil Parma e Cgil Parma il 22 marzo scorso. La Costituzione non fa differenza fra lavoratori detenuti e non, tutela il lavoro in tutte le sue forme. In carcere il lavoro è strumento cardine della rieducazione, del percorso di reinserimento delle persone. Per questo deve perdere ogni carattere afflittivo, di sfruttamento, di minore riconoscimento, e stabilire pari dignità e pari diritti: orario, ferie, contributi, salario, e accesso agli ammortizzatori, cosa oggi non scontata, se pensiamo al lavoro che ci vede impegnati, insieme ad Inca Cgil ed Antigone, per garantire il diritto al riconoscimento della Naspi ai detenuti. Non può essere un obbligo, né un’opportunità, è un diritto/dovere, l’amministrazione “è tenuta a” garantirlo. E non può essere, proprio per questo, declinato come “premio” per chi si è comportato bene, ha tenuto “una buona condotta”. A questo riguardo, merita un ragionamento specifico il Lavoro di pubblica utilità: nonostante l’abrogazione del lavoro gratuito, la norma consente che i detenuti possano essere utilizzati, in attività cosiddette “volontarie”, di pubblica utilità, gratuite. Il lavoro deve essere retribuito, e tutelato, per realizzare la funzione che gli è costituzionalmente assegnata. Con il lavoro gratuito (dovrebbe essere un ossimoro) si va a sottrarre lavoro vero, spesso a quelle cooperative sociali, di tipo B, che un grande ruolo hanno giocato e giocano nell’assunzione di persone ristrette, che si trovano così espulse dal mercato del lavoro, e con il risultato di mettere in contrapposizione soggetti fragili (detenuti, ex detenuti, soggetti svantaggiati). L’utilità richiamata nella locuzione sembra esserci soprattutto per le amministrazioni che si trovano a poter utilizzare lavoro e lavoratori con minori oneri e minori obblighi, oltreché in maniera assolutamente discontinua. Il voler far passare, poi, l’adesione ai progetti di pubblica utilità come volontaria suscita quantomeno perplessità: come può essere del tutto libera di scegliere se aderire o meno ad un progetto una persona ristretta, soprattutto se non ha altre possibilità, altre occasioni? Lo stesso articolo 20ter dell’Ordinamento Penitenziario, fra l’altro, prevede che per l’inserimento nei programmi di pubblica utilità si tenga conto delle professionalità dei detenuti. Insomma, il pensiero che sostiene questa tipologia di lavoro fa sì che abbia ancora quel carattere espiatorio, risarcitorio che oggi dovrebbe invece essere definitivamente superato. E l’assenza di remunerazione e delle normali tutele contrattuali rischia di mettere in discussione il progetto inclusivo di rieducazione e reinserimento sociale, perché il carattere educativo del lavoro in carcere deriva proprio dal fatto che ripropone tutte le caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato e contrattualizzato. I Lavori di pubblica utilità, in carcere, sono attività che nascono e muoiono senza produrre effetti. “Si aggiunge alla sanzione qualcosa perché la comunità esterna possa vedere l’effettività della punizione”. Questo, soprattutto in tempi di giustizialismo imperante, in cui si invocano pene esemplari, finanche corporali, e lavori forzati, davvero può contribuire a un arretramento materiale e culturale. È recente la polemica di Nando Dalla Chiesa con il Garante Anastasia, riguardo le critiche da quest’ultimo sollevate su un protocollo di intesa fra Dap, Ater Roma e Regione Lazio, e si colloca proprio in questi confini. L’intervento del Garante era però volto ad evitare che enti pubblici ed istituzioni sfruttino le persone, non corrispondendo loro la giusta retribuzione per il lavoro svolto. Ed infatti, dopo le critiche sollevate, è stato convenuto che quel protocollo debba prevedere percorsi di tirocinio e di inserimento lavorativo retribuito. Se è positivo il coinvolgimento di detenuti in opere di manutenzione di beni pubblici, questo è il senso che gli accordi devono avere: i diritti del lavoro devono essere rispettati. In conclusione, non possiamo permettere che prevalga quel pensiero che oggi rischia di diventare dominante, per cui le persone ristrette possono e devono avere diritti inferiori, possono “marcire in carcere buttando la chiave”, private di ogni diritto. La pena è la privazione della libertà personale, i diritti costituzionali, e individuali, come il lavoro, la salute, l’affettività, devono essere garantiti a tutti, perché il carcere è, deve essere, parte della società civile, e non un corpo estraneo. L’economia giusta ricostruisce vite di Luciana Delle Donne* Corriere della Sera, 6 aprile 2021 L’esperienza di Officina Creativa e la misurazione dell’impatto sociale. I parametri messi a punto con “Made in carcere” e “2nd Chance”. Inclusione, sostenibilità, lavoro e riabilitazione per centinaia di detenuti. Risultato: recidiva quasi a zero, e ora il modello è replicato all’estero. Sostenibilità ambientale e inclusione sociale sono ormai temi di grandi interesse in diversi settori. La regolamentazione europea (n. 2088/ 2019) recentemente entrata in vigore, di cui ha parlato su questa pagina la professoressa Paola Musile Tanzi (Bn, 30 marzo), pone l’attenzione sulla necessità di accrescere la trasparenza - in ambito finanziario - sia sul fronte delle politiche di integrazione del rischio di sostenibilità sia sull’analisi degli investimenti sostenibili. In questa logica misurare l’impatto delle azioni che hanno per oggetto l’inclusione sociale diventa un tema di indagine imprescindibile anche per riuscire a fare convergere chi opera nel sociale e la distribuzione mirata di risorse economiche adeguate. La Onlus Officina Creativa con i brand sociali Made in Carcere e 2nd Chance vuole contribuire a questo processo e per farlo intende misurare l’efficacia della propria azione. Grazie anche al sostegno di Fondazione con il Sud ha attivato l’individuazione di parametri in grado di monitorare il proprio impatto sociale. Non solo per individuare le migliori dinamiche da applicare per ottimizzare le strategie di intervento in favore dei soggetti svantaggiati, ma anche per testimoniare agli stakeholders la corretta contaminazione sistemica. Per un’impostazione più scientifica dei parametri è in fase di realizzazione il Croc (Centro studi e ricerche di Officina Creativa) con un Comitato scientifico internazionale formato da esperti del settore. Impatto ambientale e inclusione sociale le nostre principali mission sin dal 2007. La nostra attività è basata sul riutilizzo di materiale. recuperato da un network di imprese sul territorio nazionale. Le Maison - i nostri laboratori in carcere - sono volutamente arredati per ricreare un ambiente familiare e fruibile a tutti, con sala riunioni, sala lettura, palestra e cucina tra colori, bellezza e comodità per migliorare lo stato di benessere fisico e mentale di chi lavora soprattutto in condizioni così particolari come la detenzione. Nella sua veste di cooperativa sociale Officina Creativa declina le cinque fasi più importanti della creazione del valore, tipiche dell’impresa, cercando di fare emergere gli elementi guida sviluppati sottotraccia. Perché se è vero (ufficialmente) che si vendono accessori ben disegnati e curati, in realtà si ricostruiscono vite. Si costruiscono capacità e valori intangibili. Nella prima fase del processo produttivo, ovvero la raccolta dei tessuti, i temi chiave sottostanti sono: l’attenzione all’ambiente, l’economia circolare e il riutilizzo di materiali di recupero, la filosofia della seconda opportunità. Nella fase della catalogazione e dello smistamento dei tessuti si pensa all’orientamento all’organizzazione del lavoro, alla riconciliazione con la comunità, al rispetto delle diversità e alla crescita personale. Nella terza fase, quella del taglio, le attività connesse sono la creazione di bellezza, di eleganza e di stile, la valorizzazione delle capacità delle detenute, ciascuna con la propria storia e con le proprie attitudini e l’attribuzione di ruoli e di responsabilità. Nella quarta fase - del confezionamento - le attività sottostanti devono invece contribuire all’indipendenza economica, al lavoro come fonte di sostegno della famiglia al di fuori del carcere, al trasferimento di principi di onestà, di dignità e di consapevolezza. Infine, nella fase finale di promozione e distribuzione dei prodotti, si vuole contribuire alla presa di coscienza di un nuovo stile di vita e allo sviluppo di nuove ritualità/abitudini. L’azione di Officina Creativa persegue un nuovo modello di economia riparativa, o meglio un “modello di economia rigenerativa”, positiva per l’individuo, la comunità e l’ambiente. Dall’inizio dell’attività, Made in Carcere ha dato lavoro a centinaia di persone in stato di detenzione e favorito la loro riabilitazione attraverso l’acquisizione di nuove competenze e la loro reintegrazione nel tessuto produttivo e sociale del Paese. La buona notizia è che la percentuale di abbattimento della recidiva nell’esperienza di Officina Creativa è ad oggi quasi del 100 per cento. Il raggio di azione di Officina Creativa non si ferma alla produzione e si propaga anche attraverso una rete di servizi che vogliono facilitare la conoscenza del modello di economia rigenerativa, per esempio attraverso la Social Academy, una vera e propria cassetta degli attrezzi per farsi copiare, creando anche piccole Sartorie Sociali di Periferia. Il progetto Social Academy nasce dall’esigenza di avviare un percorso collaudato per il trasferimento di competenze. L’interesse per questa attività è forte e va oltre le frontiere domestiche: l’Università della Repubblica Domenicana ha scelto il modello Made in Carcere per trasferire competenza ed esperienza nelle carceri di Santo Domingo e Rafey. Con l’attività della Social Academy vogliamo operare ad ampio spettro e affiancare con passione chi vuole fare un percorso di cambiamento culturale e protezione sociale, per rendere questo tipo di azioni strutturali e non più congiunturali contribuendo al Bil (Benessere interno lordo). *Founder Made in Carcere Giustizia minorile, tra carceri e comunità. Intervista a Sandro Libianchi lavocedeimedici.it, 6 aprile 2021 In Italia la detenzione minorile è un fenomeno fortunatamente marginale nei numeri, con una percentuale di presenze assolutamente trascurabile. Ma quale realtà affrontano questi ragazzi? Quali sono le maggiori problematiche e le possibili soluzioni affinché possano essere riabilitati ed integrati correttamente nella società? Ne parliamo con Sandro Libianchi, Presidente dell’Associazione “Co.N.O.S.C.I.” (Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane - www.conosci.org), già dirigente medico nel complesso polipenitenziario di Rebibbia, Roma, specialista in Medicina Interna, Endocrinologia e Patologie da Dipendenza. Che dimensioni presenta il fenomeno della devianza minorile con arresto e/o detenzione e che iter viene seguito quando a delinquere è un minore? La presenza giornaliera media nelle carceri italiane è di circa 300 ragazzi (281 al 15 gennaio), mentre molto più elevati sono le presenze e i transiti nei Centri di Prima Accoglienza - CPA (presenze al 15 gennaio: 3, periodo 1-15 gennaio: transitati 30 ragazzi). I CPA sono i luoghi dove i ragazzi arrestati per essere affidati in tempi strettissimi, proprio al fine di non creare “detenzione” o il meno possibile. La legge, infatti, prevede che entro un massimo di 96 ore il magistrato deve indicare quale misura alternativa dare al giovane, cosa che non avviene per gli adulti che possono passare anche mesi o anni prima che sia approvata loro una misura alternativa. L’intero meccanismo di gestione della giustizia minorile è basato su un modello che in Italia funziona molto bene e ci è invidiato dagli altri Paesi, soprattutto extra europei, per la sua altissima valenza socio-rieducativa. Sebbene siano trascorsi quasi 40 anni da quando ci si è dotati di un ordinamento penitenziario che valesse in parte anche per i minorenni, ma che era stato concepito solo per i maggiorenni, un decreto del 2018 ha modificato questo assetto, creando un vero e proprio ordinamento penitenziario minorile. I tempi sono stati molto lunghi, ma sulla base dell’esperienza del modello attuato di cui se ne è valutata la buona funzionalità ben sperimentata in concreto lo Stato ha prodotto una regolamentazione ad hoc (D. Lgs 2 ottobre 2018, n. 121: “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati Minorenni”). Su quali principi conta il legislatore? Intanto si considera come prioritario lo sviluppo psicofisico del minore, che comprende anche la sua educazione e responsabilizzazione alla vita sociale. L’intento è quello di prevenire la ricaduta in altri reati. Il minore ha di fronte a sé tutta una vita quindi deve essere ricondotto ad un ragionevole stile di vita il prima possibile. Viene quindi favorito il percorso della giustizia “riparativa”, della mediazione penale, che ha una corrispondenza nel settore degli adulti come i Lavori di Pubblica U (LPU). Nell’ambito della giustizia minorile l’aspetto a cui si attribuisce una grande importanza per l’opera di riabilitazione, è proprio la mediazione penale; una procedura delicata e difficile, basti pensare ad esempio alla riconciliazione di una donna anziana che ha subito un reato come uno scippo, il ragazzo e le due famiglie. Sulla base dello studio del reato del ragazzo e del suo contesto familiare, si valuto l’assetto psicologico del giovane ed il contesto familiare della vittima e in queste condizioni l’assistente sociale del Ministero della Giustizia, assieme ai difensori, spesso riesce a fare un’opera di mediazione e quindi di riconciliare il reo con la sua vittima e le famiglie di appartenenza. Il settore minorile è basato molto sulle misure alternative: può spiegarci come funziona? Il carcere viene contemplato per una stretta minoranza di giovani, autori dei reati più gravi. All’interno del carcere il minore è sottoposto ad un progetto educativo altamente personalizzato ed i bassi numeri consentono di dedicare tempo e risorse a questo delicato processo. Esiste nel sistema penitenziario una rigida separazione tra i minorenni e gli adulti: il carcere non deve diventare l’università del crimine! Con la peculiarità dei giovani-adulti, ovvero i ragazzi tra i 18 e i 24 anni, che possono rientrare in particolari categorie: coloro che hanno iniziato a scontare la pena da minori, che si trascina fino a quando sono maggiorenni; oppure quelle condanne che arrivano dopo il compimento della maggiore età ed altri casi. Anche le stesse strutture penitenziarie minorili sono generalmente diverse da quelle per gli adulti diverse e sono molto meno costrittive ed accoglienti: Il carcere minorile di Roma - Casal del Marmo è dotato di una serie di residenze all’interno di un grande parco, con ampi spazi di ricreazione (campi, palestra, ecc.). e possibilità di fare sport al suo interno. I ragazzi possono stare al di fuori dalle cosiddette “camere di pernottamento” (le “celle”, che hanno assunto questa denominazione proprio per sottolineare il fatto che devono essere usate solo per dormire, ma nel resto della giornata si riesce a coinvolgere i giovani in numerose attività. Il minore può avere un numero di colloqui di persona, più elevati rispetto agli adulti, così come di comunicazioni telefoniche, sebbene ora la pandemia abbia fatto saltare questi schemi, a favore delle videochiamate. Un’attenzione particolare viene attribuita al rispetto della territorialità: anche se il reato viene commesso in una zona distante dalla propria residenza, le limitazioni alla libertà verrebbero comune riportate in uno spazio circostante o vicino alla famiglia. Infine c’è un’attenzione particolare nel momento della dimissione dall’istituto: proprio per evitare un’interruzione tra il processo rieducativo c’è massima attenzione quando il giovane viene ricondotto all’esterno, nella società. Un’idea precisa sull’entità del fenomeno ci viene dalle cifre riferite ai ragazzi in carico agli Uffici di Servizio Sociale per Minorenni (Ussm) del Ministero della Giustizia. Al 15 gennaio 2021, sull’intero territorio italiano c’erano 13.282 soggetti in carico di cui 11.982 maschi e 1.300 femmine e di questi 925 maschi e 63 femmine in comunità private; 10.154 italiani e 3.216 stranieri. Di che numeri parliamo? Di quali reati si macchiano più facilmente i minori? La presenza media è di circa 250-300 ragazzi in tutti gli istituti penitenziari italiani. Le grandi metropoli trainano più di tutti in termini di presenze. I reati sono generalmente contro la persona (più frequente: lesioni personali volontarie) e contro il patrimonio (più frequente: furto); rari sono i reati più gravi come l’omicidio. C’è un preoccupante aumento delle violenze sessuali a carico dei minori. Questa è una realtà che sembra aumentare negli ultimi anni. La tendenza è rapportata all’aumento del consumo di alcolici, cresciuto moltissimo e spesso concausa di reato, ma anche di sostanze stupefacenti. Ad esempio quando avvengono risse collettive tra giovani, spesso e volentieri alla base c’è un consumo smisurato di alcol o di droga. Bisogna poi tenere conto della realtà di genere: le ragazze detenute, o comunque che sono state arrestate, quasi sempre sono di origine non italiana; in questo caso il reato più comune è il furto: in appartamento, sui mezzi pubblici, nei negozi ecc. Queste giovani vengono utilizzate insieme ai bambini per distrarre l’attenzione e per poter perpetrare il reato più facilmente. Spesso hanno un’educazione e una cultura molto carente. Loro stesse subiscono violenze, in una sorta di tratta interna che non consente loro di uscire da questo circolo vizioso, proprio perché sono funzionali all’approvvigionamento di denaro. Per questo un’attenzione particolare viene data alla riammissione nei campi nomadi in cui vivono. Infatti, spesso infatti i programmi di riabilitazione s’interrompono perché queste persone si spostano e questo è uno dei fenomeni alla base di una recidiva molto elevata. Ci sono minorenni donne che sono finite in prigione anche 20 volte in pochi anni. Lo psicologo e l’assistente sociale sono le due figure chiave: che ruolo svolgono? Assistono il minore detenuto o in carico ai servizi sociali e preparano il piano di misura alternativa. Fuori dal carcere il ruolo viene preso in carico dalle comunità terapeutiche o socio-riabilitative, peculiari proprio per i minorenni. Sono strutture a bassa capienza, che prevedono una presenza media di una decina di ragazzi, occupati in attività culturali, scolastiche, ludico-ricreative e terapeutiche. Purtroppo in queste strutture esiste la possibilità dell’abbandono dei programmi che assume la veste dell’evasione, che costituisce di poe sé una violazione perseguibile. In questi casi, una volta rintracciato il minore, il magistrato generalmente fa rientrare il minore in comunità. La misura può essere anche con il ricollocamento nella famiglia d’origine che purtroppo però è spesso corresponsabile dei comportamenti del minore e dunque non è sempre consigliato, rendendo necessaria una riconsiderazione della misura alternativa. I percorsi culturali sono una colonna portante del processo di riabilitazione. Come funzionano? Le maggiori difficoltà si riscontrano allorché si voglia proporre progetti culturali a culture diverse, a ragazzi stranieri, che vengono da realtà molto distanti da quella occidentale. I percorsi culturali includono la lettura di poesie, laboratori di scrittura per permettere loro di esprimersi o per imparare a farlo. Per i ragazzi detenuti vengono anche organizzate delle uscite programmate con visite ai musei o altre iniziative esterne, che è una pratica che si organizza anche con i detenuti adulti, sebbene restino iniziative confinate nei piccoli numeri. Talvolta, infine, al ragazzo viene mostrato in anticipo il luogo dove andrà a stare (es. comunità terapeutiche o di accoglienza) per portare a compimento un percorso di stabilizzazione migliore e cercare di ridurre la possibilità di fuga; in qualche modo si prepara il terreno, altrimenti la reazione di rifiuto ad una successiva coercizione dopo il carcere è quasi immancabile e questo va assolutamente evitato. Intercettazioni: il Trojan “pigliatutto” fa litigare il governo, M5S e Pd contro tutti gli altri di Liana Milella La Repubblica, 6 aprile 2021 Oggi scontro in commissione Giustizia alla Camera sul testo dell’ex ministro Bonafede che fissa le tariffe di chi intercetta, anche con un risparmio, ma rischia di legittimare un uso “ampio” del Trojan e di consentire alle ditte appaltatrici di portare all’esterno le “stazioni” di registrazione. Può il Trojan - il virus inserito in un cellulare che spia la vita del proprietario - non solo intercettare le telefonate nonché quanto avviene nell’ambiente circostante, ma anche “rapinare” automaticamente, e senza un’autorizzazione specifica, l’agenda, gli indirizzi, i dossier che quel telefono si porta dietro e ha intorno a sé? E ancora: anche se la legge stabilisce che le centrali di ascolto devono stare nei palazzi di giustizia oppure presso le forze di polizia, è possibile invece che queste “periferiche” vengano piazzate presso le ditte stesse? Tutto questo è costituzionalmente lecito oppure siamo di fronte a una palese violazione delle regole della Carta? Quando si parla di intercettazioni, da sempre, si litiga. Il film è identico: i fan degli ascolti contro i garantisti. Pronti i primi - il centrodestra e Italia viva - a piazzare mille zeppe contro regole troppo permissive. E succede anche stavolta. Proprio mentre, a Trapani, va in scena un brutto spettacolo. Quello di una decina di giornalisti intercettati dalla polizia con una procura che, in un caso, quello di Nancy Porsia, ha addirittura autorizzato ascolti per sei mesi, registrando anche le conversazioni tra la collega e l’avvocato della famiglia Regeni Alessandra Ballerini. Tutto il materiale è stato depositato. Anche se era del tutto irrilevante. Sarà distrutto, garantisce il procuratore Maurizio Agnello, ma intanto è destinato a diventare pubblico, senza alcuna ragione, e in spregio alla privacy. Un episodio che spiega le ragioni dello scontro politico. E proprio sul tema caldissimo delle intercettazioni oggi - alle 18 e trenta - si litiga in commissione Giustizia alla Camera. E di mezzo c’è l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede che l’8 febbraio, quando ormai il governo Conte era in crisi, ha inviato a Montecitorio uno schema di decreto ministeriale per stabilire le tariffe - una minima e una massima - per pagare le ditte che materialmente fanno le intercettazioni. Bonafede ha anche documentato che sugli ascolti si stava risparmiando. Dal suo punto di vista è un successo perché non si potranno più richiedere cachet salati per intercettare. Finisce soprattutto la discrezionalità. Ma il suo testo, appena ha varcato la porta della commissione, ha subito suscitato un vespaio. Come Repubblica ha già documentato il 19 marzo. Tant’è che ancora giovedì scorso è stato necessario un ennesimo rinvio. E l’appuntamento è fissato per oggi. Non mollano Enrico Costa di Azione, Pierantonio Zanettin e Giusy Bartolozzi di Forza Italia, la Lega, Lucia Annibali e Catello Vitiello di Italia viva. E ovviamente Fratelli d’Italia, unico gruppo all’opposizione. Mentre M5S, con il presidente Mario Perantoni e la ex Giulia Sarti, che è la relatrice del decreto, spingono per un immediato via libera. Nello stesso modo la pensa Alfredo Bazoli del Pd. Ma, come si può vedere, i numeri contano, e Pd e M5S da soli non hanno la maggioranza in commissione. Oggi ci sarà anche un cambio di sottosegretario alla Giustizia, perché invece della grillina Anna Macina, favorevole al testo, arriverà Francesco Paolo Sisto, l’avvocato barese di Forza Italia, da sempre nemico delle intercettazioni per professione e per posizione politica. Ma sul Trojan Costa non molla. Ed è pronto a votare contro il parere. Perché, come spiega a Repubblica, “non si può legittimare un decreto che, discutendo di tariffe più o meno favorevoli, alla fine invece legittimi ben altro, e cioè un captatore Trojan che diventa un tutto fare, può intercettare gli audio, può copiare e fare i video, può prendersi i dati che sono in movimento, può captare le conversazioni tra presenti”. Questo, secondo Costa, il Trojan già lo fa. Ma quello che invece non può fare - per soli 30 euro com’è scritto invece nel decreto - “è risucchiare file, impossessarsi di documenti, copiare integralmente la rubrica, cioè tutti gli elementi statici che si trovano nel telefono o nel computer”. E perché non potrebbe farlo? Perché, secondo Costa, per fare questo “ci vuole un decreto di perquisizione, altrimenti siamo di fronte a una perquisizione illegale permanente”. Addirittura Costa ipotizza che una simile operazione possa configurare un “danno erariale” perché “verrebbero pagate delle prestazioni che in realtà non sono consentite”. Dopo il Trojan ecco la lite sulle “periferiche”. La questione è antica. E la riporta in ballo Pierantonio Zanettin, avvocato ed ex Csm per Forza Italia e oggi deputato. Che non si sente affatto garantito da quanto è scritto nel decreto sulle “periferiche”, cioè le stazioni di registrazione: “Il codice di procedura penale stabilisce che i captatori devono stare dentro gli uffici della procura oppure della polizia giudiziaria. Non possono stare all’esterno. La nostra condizione è che le ditte, di conseguenza, non possano essere titolari di stazioni di registrazione esterne”. Una regola per cui si batte anche Giusi Bartolozzi, deputata di Forza Italia, e giudice prima a Gela, poi a Palermo e, prima di entrare in Parlamento, alla Corte di appello di Roma. Che contesta il decreto dalle fondamenta, perché “è inopportuno definire le tariffe senza aver prima analizzato il contenuto delle prestazioni fornite”. Secondo Forza Italia, il decreto di fatto legittima dei comportamenti senza fissare prima regole molto precise e dettagliate che fanno parte dei codici. Un’affermazione che la relatrice Sarti contesta perché, secondo lei, questo è solo un decreto che “fissa le tariffe”, poi il resto andrà visto sul piano normativo e delle regole. Come dicono i deputati di Italia viva Lucia Annibali e Catello Vitiello “il decreto è privo delle necessarie garanzie costituzionali e processuali”. Quindi va modificato nel senso di essere certi che queste garanzie vengano rispettate. A questo punto non resta che un compromesso per evitare la rottura della maggioranza sulle intercettazioni. Lo Stato di diritto (e di rovescio) di Giulio Cavalli Left, 6 aprile 2021 Non sta facendo il clamore che dovrebbe il fatto che in Italia la giornalista Nancy Porsia, esperta di Libia, sia stata illegalmente intercettata nell’inchiesta di Trapani sulle Ong nel 2017. Partiamo da un punto fermo: Nancy Porsia non è mai stata indagata eppure un giudice, su richiesta della polizia giudiziaria, ha deciso che si potesse scavalcare la legge: nel documento di 22 pagine - datato 27 luglio 2017, firmato Sco, squadra mobile e comando generale della Guardia costiera - ci sono fotografie, contatti sui social, rapporti personali e nomi di fonti in un’area considerata tra le più pericolose dell’Africa del nord. La notizia è stata data dal quotidiano Domani che racconta come indirettamente, oltre a Porsia, siano stati ascoltati anche il giornalista dell’Avvenire Nello Scavo, conversazioni della giornalista Francesca Mannocchi con esponenti delle Ong, il cronista di Radio Radicale Sergio Scandurra mentre chiedeva informazioni ad alcuni esponenti di organizzazioni umanitarie impegnate in quei mesi nei salvataggi dei migranti, Fausto Biloslavo de Il Giornale e Claudia Di Pasquale di Report. Primo punto fondamentale: in uno Stato di diritto che non venga rispettato il diritto per intercettare giornalisti che parlano con le loro fonti (nel caso di Porsia addirittura vengono intercettate anche telefonate con l’avvocata Ballerini, la stessa che si occupa della vicenda Regeni) significa che il potere giudiziario (su mandato politico, poi ci arriviamo) scavalca le regole per controllare coloro che per mestiere controllano i poteri per una sana democrazia. È un fatto enorme. E non funziona la difesa di Guido Crosetto (il destrorso “potabile” che è il braccio destro di Giorgia Meloni) quando dice che anche i politici vengono intercettati: si intercetta qualcuno dopo averlo iscritto nel registro degli indagati e soprattutto in uno Stato di diritto si proteggono le fonti dei giornalisti, con buona pace di Crosetto e compagnia cantante. C’è un altro aspetto, tutto politico: in quel 2017 gli agenti di sicurezza presenti a bordo della nave Vos Hestia dell’Ong Save the Children portano foto e prove (che poi si sono rivelate più che fallaci visto che tutto si è concluso in una bolla) prima a Matteo Salvini, prima ancora che alle autorità giudiziarie. È scritto nero su bianco che proprio Salvini su quelle informazioni ci ha costruito tutta la sua campagna elettorale. Un giornalista, Antonio Massari, racconta la vicenda su Il Fatto Quotidiano e costringe Salvini ad ammettere di avere avuto contatti, prima delle forze dell’ordine, proprio con i due vigilantes che puntavano a ottenere in cambio qualche collocazione, magari politica. Salvini, conviene ricordarlo diventerà ministro all’Interno. Rimaniamo sulla politica: l’ordine di indagare sulle Ong parte dal ministero dell’Interno dell’epoca di cui era responsabile Marco Minniti. Ci si continua a volere dimenticare (perché è fin troppo comodo farlo) che proprio da Minniti parte la campagna di colpevolizzazione delle Ong che verrà poi usata così spregiudicatamente da Salvini e compagnia. Ad indagare sull’immigrazione clandestina viene applicato il Servizio centrale operativo (Sco) della polizia di Stato, il servizio di eccellenza degli investigatori solitamente impegnato in indagini che riguardano le mafie. Anche questa è una precisa scelta politica. Rimane il sospetto insomma che politica e magistratura si siano terribilmente impegnate per legittimare una tesi precostituita. Di solito (giustamente) ci si indigna tutti di fronte a una situazione del genere e invece questa volta poco quasi niente. Anzi, a pensarci bene la narrazione comunque è passata. È gravissimo e incredibile eppure accade qui, ora. Cari giornalisti, basta ipocrisie: ci indigniamo solo quando gli intercettati siamo noi di Errico Novi Il Dubbio, 6 aprile 2021 Il caso Trapani è gravissimo. Ma non si può invocare la libertà di stampa sia per denunciare abusi di cui siamo vittima sia per ritenerci liberi di pubblicare (illegalmente) i brogliacci in cui compaiono altri. Brutta storia. Dolorosa pagina nella storia italiana dell’equilibrio fra poteri e attori della democrazia. L’indagine della Procura di Trapani sulle presunte irregolarità delle Ong è viziata da quella che sembra una pesante violazione della libertà di informare, cioè dell’articolo 21. Si deve chiamare in causa la Costituzione: di rado noi cronisti eravamo divenuti oggetto di intercettazioni. Almeno in un caso, si tratta della collega freelance Nancy Porsia, che scrive anche per il Fatto quotidiano, il bersaglio è stato scelto dagli investigatori in modo deliberato. Esistono una richiesta della Procura di Trapani e l’autorizzazione di un gip del Tribunale siciliano, datate 2017. Giusta la reazione dell’Ordine dei giornalisti, che per voce del suo presidente Carlo Verna ha parlato di “sfregio al segreto professionale” e si è appellato al presidente Sergio Mattarella (anche in quanto massimo vertice del Csm). Opportuna l’iniziativa della guardasigilli Marta Cartabia, che ha avviato accertamenti, vale a dire acquisizione di informazioni sull’attività giudiziaria trapanese. Tutto giusto. Se non fosse per un interrogativo: perché non si leva una così corale indignazione (arrivata pure in Parlamento) quando le indebite intrusioni dei pm colpiscono, per esempio, gli avvocati? Non è una provocazione. Anzi: la vicenda di Trapani può innescare sviluppi positivi. La stampa italiana (ed europea, si è inalberato persino il Guardian) potrebbe scoprirsi un filo più prudente, di fronte a future occasioni di sbattere in prima pagina parole captate da presunti mostri nell’ambito di indagini mai sottoposte a giudizio. Può darsi finisca così, c’è da augurarselo. Ma la levata di scudi di noi giornalisti lascia un retrogusto sgradevole. Il fastidio per l’ipocrisia dell’indignazione a singhiozzo. Viene violato il segreto professionale di noi giornalisti e ci arrabbiamo: giusto. Ma perché siamo silenti se viene violato il segreto del difensore, troppo spesso intercettato in colloqui con il proprio assistito? I colleghi del Fatto quotidiano, attraverso il loro comitato di redazione, si sono soffermati sul caso di Porsia: seppure “mai sospettata di alcun reato”, si è arrivati a intercettare Nancy “anche mentre parlava con il suo avvocato, Alessandra Ballerini”. Rilievo giustissimo. Il Cdr del Fatto rimanda implicitamente alle norme che disciplinano le intercettazioni. Nelle quali non esiste una specifica tutela per i giornalisti. È prevista invece per gli avvocati. In particolare all’articolo 103 quinto comma del codice di procedura penale: “Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori”. Nella recente riforma delle intercettazioni, è stata parzialmente estesa: i colloqui fra avvocato e assistito sono fra quelli che non possono essere trascritti. Ora, se noi giornalisti ci consideriamo giustamente sentinelle della democrazia, non possiamo svegliarci solo quando il siluro è puntato nei nostri confronti. I sacri principi della riservatezza e del segreto professionale vanno difesi sempre. E non è proprio accettabile lo spettacolo tristissimo a cui noi operatori dell’informazione abbiamo dato vita per anni, di fronte ai tentativi di riformare le intercettazioni, bollati come “bavaglio”, o alle proteste di politici messi alla gogna dai brogliacci dei pm fotocopiati nei nostri articoli. In quei casi abbiamo invocato a nostro baluardo la libertà di stampa. Appunto la stessa libertà di stampa che chiamiamo ora in causa per lo “sfregio” di cui parla giustamente Verna a proposito dell’inchiesta trapanese. Ambiguità e ipocrisia non sono accettabili. La Costituzione non può essere tirata in ballo sia per protestare quando altri vìolano la nostra autonomia sia per giustificare le violazioni da noi stessi compiute in danno di altri. È ridicolo, ci squalifica e al limite delegittima persino la nostra attuale sacrosanta indignazione. Da ultimo, è fastidioso, sì, che pochi giornali si siano inalberati di recente per l’intercettazione di diversi penalisti (basti citare i casi di Nicola Canestrini, del Foro di Rovereto, o di Giorgio Manca a Roma). Ma devono dare altrettanto fastidio le centinaia di casi in cui, per anni, sono state pubblicate illegittimamente intercettazioni in cui comparivano esponenti politici. Sarebbe ipocrita, da parte di questo giornale, difendere solo gli avvocati e non anche i parlamentari. Allo stato d’eccezione populista non si deve concedere un millimetro. Anche perché l’indifferenza, e persino il sospetto, che spingono a considerare normale spiare un difensore, vengono probabilmente proprio dal pregiudizio anticasta coltivato nei confronti dei politici. Giacché l’avvocato difende chiunque (anche il politico) viene assimilato ai reati dei propri assistiti, e merita perciò a propria volta di subire l’intrusione abusiva. E no: la deriva dev’essere stroncata. Ci riferiamo sia all’abuso delle intercettazioni che all’ipocrisia alimentata dal populismo. Mai come stavolta noi giornalisti dobbiamo sentirci con le spalle al muro: o diciamo una parola definitiva contro l’abuso delle intercettazioni, ivi comprese le tante che noi stessi abbiamo illegalmente pubblicato, o non siamo legittimati a protestare per il fatto che, stavolta, le vittime dell’abuso siamo proprio noi. Intercettazioni, anche quattro avvocati tra le persone “spiate” dalla procura di Trapani di Simona Musco Il Dubbio, 6 aprile 2021 Polemiche dopo le intercettazioni a carico dei giornalisti nell’ambito dell’inchiesta sulle Ong che operano nel Mediterraneo. Ora la ministra Cartabia vuole vederci chiaro. Non solo i giornalisti, ma anche quattro avvocati, ascoltati dalle spie della procura di Trapani nello svolgimento della propria attività professionale. È quanto emerge dagli atti dell’inchiesta sulle ong, finita nella bufera a seguito dello scoop del quotidiano Domani sulle conversazioni di diversi giornalisti spiati dagli inquirenti mentre discutevano con le proprie fonti sui flussi migratori sulla rotta Libia-Italia. Intercettazioni effettuate e trascritte nonostante giornalisti ed avvocati coinvolti non risultassero iscritti nel registro degli indagati. Le conversazioni sono state registrate nell’ambito di un’indagine avviata dalla procura siciliana nel 2016, con lo scopo di fare luce sull’attività delle ong attive in mare per soccorrere i naufraghi che cercavano di raggiungere le coste europee. Un’inchiesta, hanno evidenziato Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista e Stefano Galieni, responsabile immigrazione Prc-S.E, “partita su Servizio Centrale Operativo”, alle dipendenze del ministero dell’Interno, allora guidato da Marco Minniti. Si tratta di circa 30mila pagine - 100 cd contenenti intercettazioni telefoni, 300 di ambientali - depositate con l’avviso di conclusione delle indagini che portarono al sequestro della nave Iuventa, della Ong tedesca Jugend Rettet, accusata di concordare i soccorsi con i trafficanti. I cronisti, come la giornalista di inchiesta Nancy Porsia, ascoltata anche al telefono con la propria avvocata, Alessandra Ballerini, sarebbero stati ascoltati per mesi e agli atti dell’inchiesta risulta anche la trascrizione di brani di colloqui relativi alle indagini su Giulio Regeni, la cui famiglia è rappresentata sempre dall’avvocata Ballerini. Ma tra le persone intercettate dalla polizia giudiziaria ci sono anche quattro avvocati - oltre Ballerini si tratta di Michele Calantropo, Fulvio Vassallo Paleologo e Serena Romano - ascoltati dagli uomini in divisa mentre discutevano con i propri clienti di strategie difensive. E ciò nonostante quanto previsto dall’articolo 103 del codice di procedura penale, che al comma 5 vieta l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori. Secondo la norma, tali conversazioni sono inutilizzabili e il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente. Ciononostante, però, in quelle 30mila pagine compare anche l’attività degli avvocati, spiata senza che alcuno dei professionisti risultasse indagato. Sul punto il procuratore reggente di Trapani Maurizio Agnello ha garantito che le telefonate non verranno utilizzate. “Sia io che le colleghe (le sostitute Brunella Sardoni e Giulia Mucaria, ndr) - siamo arrivati a Trapani due anni dopo che quelle intercettazioni erano state effettuate. Posso solo dire che non fanno parte dell’informativa sulla base della quale chiederemo il processo e che dunque non possono essere oggetto di alcun approfondimento giudiziario. Non conosco quelle intercettazioni che naturalmente abbiamo dovuto depositare ma che non useremo”. Il bubbone è però ormai scoppiato. E la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ora vuole vederci chiaro. È per questo motivo, dunque, che ha deciso di avviare accertamenti sulla procura di Trapani, scelta che potrebbe portare, in futuro, anche all’invio degli ispettori. Attualmente, però, si tratta di una verifica preliminare, successiva alle richieste avanzate dai parlamentari Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana e Erasmo Palazzotto di Leu, che avevano annunciato la presentazione di interrogazioni sulla vicenda. E lo stesso aveva fatto il Pd, che ha chiesto chiarimenti attraverso un’interrogazione a firma di Stefano Ceccanti e altri 23 deputati dem, con la quale hanno chiesto un’ispezione alla procura di Trapani per verificare “lo scrupoloso rispetto di importanti principi costituzionali”. Bazzecole, per Fratelli d’Italia, secondo cui l’inchiesta avvalorerebbe la tesi delle destre su accordi criminali tra volontari e trafficanti, tutti d’accordo per far arrivare in Italia migliaia di migranti. “Gli inquirenti siano lasciati liberi di svolgere il loro dovere senza alcun genere di intromissione e pressione eversiva”, ha commentato il Questore della Camera e membro della commissione Affari Esteri Edmondo Cirielli, di Fratelli d’Italia. Che punta il dito contro Cartabia e il suo “attivismo”: “Invece di tutelare il lavoro investigativo dei magistrati e di condannare il modus operandi delle Ong, ha disposto accertamenti proprio sulle investigazioni della Procura di Trapani nel silenzio assordante del Csm”, ha affermato. È invece “gravissimo quanto accaduto sulle intercettazioni dei giornalisti che si occupavano delle Ong”, secondo il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, di Più Europa. “L’inchiesta interna disposta dal ministro Cartabia è doverosa per una ragione molto precisa: abbiamo un sistema di garanzie e di diritti che non può essere messo in discussione. La libertà di stampa e l’uso delle fonti non possono essere messi in discussione”. Mentre Riccardo Magi, deputato di +Europa Radicali, ha chiesto l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’attuazione degli accordi Italia-Libia. Secondo la ong umanitaria Mediterranea Saving Humans, “uno degli obiettivi delle diverse iniziative giudiziarie partite contro le attività umanitarie sembra essere quello di colpire chiunque sia impegnato, a vario titolo, nella ricerca della verità e nella pratica della solidarietà sulle violazioni dei diritti fondamentali in Libia e nel mar Mediterraneo”. Un fatto non nuovo, dal momento che “anche negli atti dell’accusa, promossa dalla Procura della Repubblica di Ragusa, contro l’intervento di soccorso effettuato dalla nave Mare Jonio nel caso Maersk Etienne, vengono trascritte e utilizzate indebitamente intercettazioni telefoniche su utenze degli indagati di conversazioni telefoniche, professionali e confidenziali, con giornalisti e avvocati di fiducia”, ha fatto sapere l’ong. “Il linciaggio morale ed economico di Ottaviano Del Turco è insopportabile” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 6 aprile 2021 Intervista a Bobo Craxi. Il “caso Del Turco” e quel “fine pena mai” che sembra una condanna politica, e in molti casi anche persecuzione giudiziaria, per chi, come l’ex segretario della Cgil, è stato socialista. Socialista italiano. Quello che Bobo Craxi, già sottosegretario di Stato agli affari esteri con delega ai rapporti con l’Onu nel secondo governo Prodi, consegna a Il Riformista è un appassionato j’accuse tra riflessione politica e testimonianza personale. “La Casellati ha deciso: Del Turco muoia in povertà”. È il titolo-denuncia del Riformista che racconta l’ultima vigliaccata nei confronti di un uomo gravemente malato. Qual è il segno storico-politico di una vicenda che va oltre una dimensione umanitaria? È il segno evidente di una lunga ed ostinata persecuzione nei confronti degli esponenti socialisti. A mia memoria non esiste in Europa nessun gruppo dirigente di partito democratico che abbia subito un ostracismo ed una persecuzione di questa natura in modo così prolungato nel tempo. Vicende giudiziarie hanno spazzato via il PSI ed i suoi dirigenti, perseguitati ora persino per l’ottenimento di un vitalizio come è accaduto nel caso di Ottaviano. Ad esso si aggiunge un isolamento politico prolungato nel tempo e l’imbarazzante occupazione dello spazio socialista da parte di forze politiche e di uomini politici che non hanno nulla a che vedere con la storia del movimento socialista passato e moderno. Io, a questo proposito, ritengo che sia stato un errore aver concesso il glorioso simbolo del PSI per consentire un gruppo parlamentare ai renziani. La gloriosa storia del nostro partito non può essere un mezzo per dare un ruolo ed uno stipendio ai professorini rottamatori della Leopolda. Per non parlare di personalità politiche di limpidissima tradizione democristiana o addirittura extraparlamentare che occupano in Europa posizioni apicali per nome e per conto del Partito Socialista. Va detto una volta per tutte: la Storia della DC ed anche quella del PCI sono state storie alternative e financo antagoniste della socialdemocrazia italiana ed europea. Non mi pare ci sia stato grande revisionismo ideologico in quei settori tranne il vezzo di esemplificare con il termine riformismo tutto ciò che appare compatibile con la sinistra di Governo; francamente veramente poco. Nel suo articolo di commento, il direttore di questo giornale ha posto una domanda che le giro: “Possibile? Il partito erede di Gramsci e don Sturzo in mano a dei piccoli Pol Pot” pentastellati? Questo è un problema che riguarda il PD. La vocazione a restare sempre e comunque nell’ambito governativo ha piegato il Partito ad accettare un rapporto subalterno con i populisti. Errore grammaticale serio perché anche in Spagna il Psoe governa con i populisti ma con un rapporto di forza svantaggiato per questi ultimi. Nel caso italiano inoltre abbiamo l’anomalia di un movimento che è divenuto l’architrave del sistema e che è riuscito a perdere più di 100 parlamentari nel corso della legislatura. E nonostante questo ha messo sotto scacco alternativamente la destra e la sinistra; la scelta di perpetuare rendendola “organica” l’alleanza con i populisti è un errore perché l’anomalia della popolocrazia va contrastata ricostruendo il tessuto politico e sociale dei partiti. Galleggiando sull’onda d’urto delle forze anti-sistema il quadro politico non riuscirà a curare le proprie ferite ed apre le strade a nuove avventure. Non si tratta di un fenomeno stagionale ma di un vero e proprio virus inoculato nel tessuto democratico occidentale contro il quale, in questo caso sì, non é stato scoperto alcun vaccino. Solo una riforma istituzionale in senso presidenziale può mettere un freno allo strapotere delle forze anti-sistema che sono maggioritarie nel paese. L’unico vero contrappeso democratico è il rilancio della più alta carica dello Stato. Perché nell’Italia alla perenne ricerca di un “salvatore” della patria e che innalza l’avvocato Conte a leader del centrosinistra, la parola “socialista” è diventata impronunciabile anche nel “nuovo PD” di Enrico Letta? Perché la “damnatio memoriae” ha generato il peggiore dei luoghi comuni che neanche una storiografia più oggettiva ha saputo modificare. C’è peraltro una sorta di invidia sotterranea verso la nostra storia, e verso i nostri possibili collegamenti internazionali che rimangono intonsi. Tutti i compagni socialisti in Europa e nel mondo sanno che si sono presentati al loro cospetto degli impostori e che la Storia del socialismo italiano è una storia drammatica perché narrata dai vincitori. Fino a che noi rimarremo in vita ci batteremo per rovesciare questo stato di cose ed eviteremo che il Movimento di Conte apolide e populista chieda asilo al socialismo europeo di cui noialtri siamo membri fondatori. I conti con la storia non si fanno in un’aula di tribunale. Eppure per molti dirigenti socialisti non è stato così. È una ferita destinata a restare perennemente tale? Si, fino al momento nel quale i rapporti di forza non cambieranno. Se nel Senato della Repubblica avessimo potuto contare su un consistente gruppo politico e sufficientemente agguerrito, le assicuro che al vecchio segretario della CGIL non avrebbero tolto la pensione. Io avrei occupato fisicamente l’ufficio della sig.ra Casellati che nella sua vita politica non potrà mai vantare del prestigio politico di nessuno di noi sopravvissuto della storia socialista in Italia. Il Tribunale dei fatti assegna sempre il torto o la ragione; é difficile non analizzare quanto sia attuale e rispettato nel mondo il movimento socialista. Per questo io ritengo che anche dalla vicenda di Del Turco dobbiamo trarne una lezione ed una ragione di lotta politica. Per protestare vorrei recarmi al Quirinale con il segretario del partito. Questa vicenda non è un’offesa solo alla persona, al compagno, al sindacalista ma è un affronto alla Storia collettiva che ha riguardato milioni di persone in questo paese che va rispettata e maneggiata con il rispetto che merita. La pandemia ha incrociato due anniversari storicamente e politicamente assai significativi: il centenario della nascita del Pci e il ventennale della morte di Bettino Craxi. Guardandoli dal suo osservatorio, politico e personale, cosa l’ha colpita di più? Il carattere emergenziale del nostro tempo ha impedito di enfatizzare due passaggi significativi della Storia della Sinistra Italiana. Il tempo della riflessione e della revisione é maturo, ma la politica e la società hanno, legittimamente, uno sguardo rivolto altrove. L’anno dell’anniversario della scomparsa di mio padre tuttavia esordì sorprendentemente bene, il film di Amelio e la stessa interpretazione di Favino hanno suscitato un interesse che definirei nazional-popolare facendo uscire dall’angusta antinomia furfante-statista in cui avevano confinato la figura di Bettino Craxi. Mi ha fatto molta impressione la curiosità delle giovani generazioni, quelle scevre dal rapporto diretto con la prima repubblica che non hanno fatto in tempo a conoscere e con la democrazia fondata sulla centralità dei partiti ideologici. É stata una scoperta. Ciascuno ha catturato un suo brandello di vita politica per ergerlo ad icona, ora della socialdemocrazia europea, ora della difesa della sovranità nazionale (pensando a Sigonella) e del pensiero euro-critico da non confonderle con quello Anti-europeista. Questo rincuora coloro che ritengono che la stagione del riformismo socialista mantenga una sua vitalità trattandosi di un pensiero “lungo” adattabile ai nostri tempi. Io penso che sia così. Il presente politico dell’Italia è sotto il segno di Mario Draghi. Al momento della formazione dell’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce, si sono sprecati, soprattutto sulla stampa mainstream, le definizioni: “Un governo di alto profilo”, “il governo dei migliori” e via celebrando. Cosa rappresenta per lei non tanto la figura di Draghi quanto l’operazione politica che sottende l’attuale governo? E a proposito di definizioni, qual è la sua? Il governo è di emergenza nazionale ed ha sottratto alla polemica politica quotidiana la gestione di questa situazione catastrofica. Indubbiamente si è riposta una vasta speranza su Draghi pensando che egli potesse suscitare nuove passioni. È un governo a tempo che deve limitarsi a completare il piano dei vaccini e ad allocare le risorse a disposizione. Draghi ha guidato organi di controllo bancario, non ha mai presieduto istituzioni politiche. Nonostante il prestigio di cui egli gode il salto di qualità auspicato per il momento non c’è stato. Ma non ci sarà. In Europa viene misurata l’Italia, e l’Italia denuncia ritardi e distanze antiche che non possono essere ridotte dalla sola presenza di Mario Draghi che peraltro non appartiene a nessuna delle famiglie politiche riconosciute in Europa. Il resto purtroppo lo sta facendo lui non senza evidenziare la sua approssimazione politica; mi ha abbastanza stupito la sua partecipazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Vaticano. Credo uno dei sistemi giudiziari più arretrati del Mondo ordinati dal potere assoluto del Papa. Più che una gaffe l’ho considerata un’ingenuità che però denuncia una certa fragilità di consistenza politica. Dopodiché questa fase passerà e bisogna prepararsi per tempo per dare al paese un assetto politico convincente e soprattutto duraturo. Cassazione: diritto allo studio al 41bis garantito ma giustificate le limitazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 aprile 2021 Dichiarato inammissibile il reclamo di un detenuto al carcere duro. Anche chi è al 41bis il diritto allo studio va in ogni caso tutelato, ma è giusto che ci siano le limitazioni giustificate dal particolare regime cui il detenuto è sottoposto. È questa la conclusione alla quale è giunta la sentenza numero 12199 della Corte di Cassazione. È accaduto che il Tribunale di sorveglianza di L’Aquila ha respinto il reclamo proposto dal detenuto Natale Dantese in opposizione al provvedimento dell’ 8 maggio del 2019 con il quale il Magistrato di sorveglianza della sede aveva rigettato il reclamo formulato dal detenuto al 41bis mirante ad ottenere cinque autorizzazioni: quella di iscriversi presso un istituto scolastico superiore di Ragioneria; che l’Amministrazione penitenziaria provvedesse alla fornitura dei libri di testo necessari; che l’Amministrazione consentisse l’accesso al carcere di un insegnante almeno due volte alla settimana per assisterlo nel percorso di studio; in subordine, che gli venisse consentito per due volte alla settimana di collegarsi attraverso la rete internet con un insegnante e che le ore di sostegno scolastico non gli venissero decurtate dalle ore di socialità o di aria. Il Tribunale di sorveglianza ha però escluso che potesse ravvisarsi, in danno del reclamante, un pregiudizio grave e attuale all’esercizio del diritto allo studio e alla formazione. In particolare ha desunto che al detenuto non era preclusa la possibilità di iscriversi a un corso di scuola media superiore, che poteva aver luogo con l’unica limitazione dell’obbligo d’iscrizione nell’istituto scolastico più vicino al luogo di detenzione. Inoltre ha osservato che il detenuto poteva anche fruire degli strumenti informatici necessari per lo studio e per la preparazione degli esami a conclusione del percorso. Non solo. Che il diritto allo studio non poteva dirsi violato dal diniego opposto dall’Amministrazione alla richiesta della fornitura gratuita dei libri di testo, atteso che la legge penitenziaria non prevedeva tale possibilità, ma contemplava dei sussidi e dei premi che potevano essere erogati ai detenuti in presenza di determinati presupposti, in particolare, nel caso in cui essi versassero in condizioni di indigenza. Come se non bastasse, il giudice ha sottolineato che, per quanto concerneva l’ingresso in maniera costante nell’istituto di pena di un insegnante o, comunque, l’utilizzo del sistema Skype per il sostegno scolastico, trattavasi di modalità non previste dalla normativa penitenziaria, anche per intuibili esigenze di sicurezza, atteso che concretizzavano un elevato rischio di veicolazione di messaggi da o verso l’esterno. In conclusione, il Tribunale condivideva il tenore del provvedimento reclamato, affermando che il diritto allo studio del detenuto, garantito da norme di legge nazionali e sovranazionali, doveva essere necessariamente contemperato con le esigenze di ordine e di sicurezza sottese al del 41bis, con la conseguenza che non era individuabile alcuna lesione grave ed attuale del diritto allo studio e alla formazione. Il detenuto ha fatto quindi ricorso in Cassazione. Ad avviso della difesa ricorrente, i giudici di merito non avevano risposto alla prospettata circostanza di essersi la Caritas di Pescara resa disponibile a fornire al detenuto l’aiuto economico necessario all’acquisto dei libri di testo. Non solo. Secondo la difesa, considerate le rigide modalità dei colloqui visivi con vetro divisorio e registrazione audio-video e tenuto conto dell’utilizzo consolidato di video conferenza anche a mezzo Skype per le udienze con la partecipazione dei detenuti sottoposti al 41bis, vietare al Dantese di incontrarsi con un insegnante-tutor appariva una misura ingiustificata e lesiva del suo diritto allo studio e alla formazione. a Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso. Sottolineando, nello stesso tempo, che il diritto allo studio resta, in ogni caso, tutelato, seppure con le inevitabili limitazioni giustificate dal particolare regime del 41bis cui egli è sottoposto, e che attengono esclusivamente a determinate modalità di esercizio del diritto stesso. Tenuità del fatto possibile pure con tasso alcolico alto di Guidi Camera Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2021 È un discrimine sottile quello che distingue la rilevanza penale della guida in stato di ebbrezza dalla sua non punibilità per lieve entità del fatto (articolo 131-bis del Codice penale). Ciò emerge in modo quasi automatico leggendo due sentenze della Cassazione del 29 marzo, che paiono in contraddizione l’una con l’altra. Ma, a ben vedere, non è proprio così. La n. 11655/2021 ha escluso la punibilità per il conducente di un’auto che, dopo avere causato un tamponamento senza feriti, era stato sottoposto all’alcoltest riportando valori rientranti nella fascia c) dell’articolo 186 del Codice della strada, la più alta. Giunto a un semaforo, aveva urtato l’automobile davanti che, a sua volta, ne aveva tamponata un’altra. Il valore rilevato nel sangue era stato di 1,67 g/1 alla prima prova e di 1,58 alla seconda, rasentando così la soglia minima della categoria più grave (1,5 g/1). La Cassazione ha ribaltato i precedenti verdetti di condanna, sviluppando un ragionamento sulla sentenza 13681/2016 delle Sezioni unite, per cui la particolare tenuità del fatto è configurabile anche nella guida in stato di ebbrezza, non essendo in astratto incompatibile la presenza di soglie di punibilità rapportate ai tassi alcolemici accertati. Il giudizio previsto dall’articolo 131-bis, premette la sentenza11655, va individuato su parametri riconducibili a tre categorie di indicatori: modalità della condotta, esiguità del danno o del pericolo e grado di colpevolezza. Anche la presenza di precedenti non è di per sé causa ostativa: il giudizio di tenuità è precluso solo in presenza di “abitualità” della condotta, cioè “presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione”. Non contano solo le condanne irrevocabili, ma anche gli illeciti non coperti da giudicato, antecedenti o successivi a quello in esame, dei quali il giudice sia in grado di valutare l’esistenza. In base a queste premesse, la Corte ha ritenuto che il fatto contestato all’imputato fosse non punibile, dato che egli aveva solo un precedente di modesta entità e risalente nel tempo, il tamponamento non aveva provocato danni alle persone e il tasso alcolemico era prossimo alla fascia intermedia di gravità (0,8-1,5 g/1). Con la sentenza 11699/2021, la Cassazione ha invece dichiarato inammissibile il ricorso del conducente di un’auto trovato con 1,90 g/1 alla prima prova e 1,97 alla seconda, comminandogli una sanzione economica di 3.00o euro. Anche il ricorso ruotava intorno alla sentenza 13681 delle Sezioni unite, valorizzando i seguenti elementi: l’imputato non aveva causato alcun danno a cose o persone, non si era sottratto al controllo dei carabinieri e non aveva precedenti analoghi. La Corte ha invece ritenuto che fossero ostativi alla non punibilità l’elevato tasso alcolemico, l’orario notturno, con fuoriuscita del mezzo dalla sede stradale, e l’entità del pericolo provocato agii utenti della strada. Il punto nodale in questi processi è dunque la dinamica del fatto. Le Sezioni unite hanno chiarito che nessuna conclusione si può trarre in astratto, anche in presenza di valori sensibilmente superiori a 1,5 g/1: a un tasso molto elevato potrebbe infatti corrispondere una condotta priva di alcun pregiudizio (il caso dell’automobilista che sposta l’auto di pochi metri in un parcheggio). È un campo delicato, in cui la discrezionalità del giudice può fare la differenza tra una condanna e un proscioglimento per lieve entità, come dimostrano le sentenze del 29 marzo. Abruzzo. Vaccini nelle carceri, la Regione ai primi posti a livello nazionale chietitoday.it, 6 aprile 2021 Vaccini nelle carceri: l’Abruzzo ai primi posti a livello nazionale. A dirlo è il Garante nazionale per i detenuti Mauro Palma. Sul fronte contagi il numero dei sintomatici è stabile e basso, mentre quasi tutti i nuovi casi sono asintomatici. L’Abruzzo è ai primi posti per percentuale di detenuti vaccinati. A dirlo è il garante nazionale per i detenuti Mauro Palma, che rileva però una situazione non omogenea, a livello nazionale, sul fronte delle vaccinazioni mentre è preoccupante, ma non allarmante, la situazione sul fronte dei contagi nelle carceri italiane. Il numero di sintomatici è stabile e basso, mentre quasi tutti i nuovi casi sono asintomatici. Le carceri devono diventare bolle Covid free, con vaccinazioni in massa nessuno escluso. Occorre mettere in atto una strategia di controllo che riduca il numero di detenuti ed acceleri sulla vaccinazione in funzione preventiva, non in rincorsa all’insorgere di focolai, che così anziché sgonfiarsi vanno crescendo. Lo sostiene il governatore Cirio, ma queste sono dichiarazioni perdenti. Bisogna essere strategicamente consapevoli. L’amministrazione centrale lo è, ma non sempre mi convince l’operato delle regioni che necessitano di una politica più coordinata. Non solo l’Abruzzo, fra le regioni più avanti troviamo anche la Lombardia, mentre altre realtà come Lazio, Toscana e Molise sono più indietro, anche se l’arrivo del vaccino Johsnon e Johnson monodose farò compiere probabilmente un balzo in avanti proprio dal Lazio come ha riferito Palma ad Adnkronos. Sul fronte dei contagi fra gli agenti, ha concluso: “Si evolvono in sintonia alle curve delle regioni di appartenenza. Ma anche per loro vanno accelerate le vaccinazioni: svolgono un lavoro essenziale e sono fortemente esposti”. Belluno. Apre lo Sportello-carcere dell’Associazione Jabar bellunopress.it, 6 aprile 2021 Consulenza telefonica per ex detenuti, familiari, marginalizzati. Giovedì 8 aprile alle 18 parte lo Sportello carcere di Belluno, nuovo servizio dell’associazione bellunese Jabar Odv a disposizione gratuita di persone ex detenute, di familiari di persone detenute, oltre che di cittadini in condizione di marginalità con problematiche connesse a situazioni giuridico-penali pendenti. Si tratta di uno sportello telefonico (che con il rientro dell’emergenza pandemica diventerà presidio fisico nella sede dell’associazione al primo piano della Casa del volontariato di Belluno) per fornire: • orientamento e informazione sui servizi del territorio cui rivolgersi per specifiche necessità (quali ricerca lavoro, servizi sociali afferenti, formazione specifica e professionale), • orientamento para-legale su specifiche necessità giuridiche, • supporto nella ricostruzione delle proprie competenze con percorsi specifici di mappatura personale da avviare con i nostri operatori, • informazioni ai familiari delle persone che sono attualmente detenute nella casa circondariale di Belluno, per fungere da ponte comunicativo tra il carcere e la comunità. Lo sportello fa accoglienza ai cittadini con un atteggiamento di ascolto e disponibilità, così come tempi per effettuare un breve colloquio. A gestirlo saranno i volontari dell’associazione che metteranno a disposizione la loro sensibilità e le loro diverse preparazioni sui temi. Lo sportello telefonico risponde al numero 3518377769 e sarà attivo dalle 18 alle 19.30 di ogni giovedì (in caso di diverse necessità, anche il sabato dalle 10 alle 11): per prenotare il proprio colloquio telefonico scrivere una mail ad associazione.jabar@gmail.com specificando nome, cognome e numero di telefono di contatto. In caso di difficoltà, il numero risponde anche come casella vocale per richieste o prenotazioni e via whatsapp. Pontremoli (Ms). Nella Casa per i carcerati: “Qui ritorniamo persone” di Giorgio Paolucci Avvenire, 6 aprile 2021 Dalla criminalità all’arresto fino all’incontro con la Papa Giovanni XXIII: così Franco Di Nucci si è ricostruito una vita nelle Comunità dell’associazione che accolgono i detenuti a fine pena. Gli ospiti della Cec di Guglionesi, in Molise, coltivano i campi, allevano gli animali e imparano l’apicoltura. “La resurrezione? È qualcosa che si può sperimentare nella vita di ogni giorno. Io mi considero un risorto. Il male che ho compiuto mi ha sottomesso, il bene che ho incontrato mi ha fatto rinascere”. Non usa mezzi termini Franco Di Nucci, per definire la sua vita travagliata e costellata di cadute, ma con la quale si è riconciliato. Nasce in una famiglia “modesta ma onesta”, con i genitori costretti a grandi sacrifici per mantenere i tre figli. “Io sono venuto al mondo per sbaglio, undici mesi dopo mia sorella, con un fratello disabile di cui mi vergognavo. Desideravo che morisse, e lui è morto davvero, a 13 anni. Volevo crescere in fretta per dimostrare che sarei stato il migliore, per farlo ho cercato strade dal guadagno facile, sempre alleato con i più forti, e ho avuto successo con i bar e i videopoker”. Si sposa, nascono due figli che “erano lo strumento per colmare i miei vuoti affettivi”, quando diventano grandi e prendono la loro strada il matrimonio va in crisi. Dopo la separazione Franco viene inghiottito in un vortice di scelte sbagliate, dall’uso di sostanze al commercio di armi e auto di grossa cilindrata con l’Albania, fino al giorno in cui - durante l’ennesima consegna di “merce” - si trova davanti a un lenzuolo bianco che copre il cadavere di un tabaccaio a cui avevano sparato. “Non saprò mai se era stato ammazzato con le mie armi, ma fu come se una spina si fosse conficcata nel mio fianco. Non feci la consegna, mi fermai davanti a una chiesa e dal cuore salì una preghiera: ‘Dio, fermami tu perché io non mi fermerò mai’. La mattina dopo venni arrestato per traffico internazionale di armi”. In carcere incontra un volontario della Comunità Papa Giovanni XXIII e inizia un percorso di rivisitazione della sua vita: dopo averla buttata via impara ad amarla, prende coscienza che c’è sempre una “seconda possibilità”. “Ho cominciato a sentirmi libero perché non ero più vittima del mio male. Non posso dire di avere sofferto la carcerazione, ho sempre pensato che fosse giusto essere lì dentro a causa di quello che avevo fatto. L’incontro con gli amici della Comunità Papa Giovanni XXIII è stato l’inizio della mia resurrezione”. Dopo quattro anni entra al Pungiglione di Pontremoli, una delle strutture che realizzano il progetto Cec (Comunità educante con i carcerati), dove i detenuti scontano la parte finale della pena in un percorso che è insieme presa di coscienza del male commesso, riabilitazione personale alla luce della fede cristiana e preparazione al reinserimento nella società attraverso il lavoro. “Lì ho incontrato persone che hanno abbracciato la mia persona con tutto il suo male, mi hanno ascoltato e accompagnato. Ogni mattina leggevamo “Pane quotidiano”, un brano del Vangelo con il commento di don Benzi, grande persona dalla quale ho imparato che l’uomo non è il suo errore”. Da poche settimane Giorgio Pieri, coordinatore nazionale del progetto Cec, ha pubblicato Carcere, l’alternativa è possibile (Sempre editore) che illustra la storia e i successi di questa iniziativa che mette in atto un autentico ribaltamento della logica meramente punitiva praticata nella quasi totalità dei penitenziari italiani. È grazie a questa proposta che Franco ha potuto rileggere la sua storia e intraprendere una nuova vita. “Sono stato in carcere per reati gravi, ma ci sono altre cose che gravano sulla mia coscienza: ai tempi del referendum sull’aborto militavo nel fronte di quelli che volevano la conferma della legge 194. Mi sentivo uno “nato per sbaglio” perché la mamma era rimasta incinta due mesi dopo avere partorito mia sorella e quindi giustificavo la mia scelta. Ma se mio padre e mia madre avessero ragionato come me non sarei venuto al mondo, è stato il loro amore per la vita che mi ha salvato. E grazie alla fede ritrovata in carcere, la possibilità di ricominciare è stata più forte del senso di colpa che mi faceva sentire condannato per sempre”. Oggi Franco è responsabile della Cec Santi Pietro e Paolo di Vasto in Abruzzo dove mette a frutto quello che ha imparato sulla sua pelle. “Quando mi hanno chiesto di assumere la responsabilità di questo luogo temevo di essere inadeguato, strada facendo mi sono reso conto che Dio non sceglie chi ha le capacità, ma dà le capacità a chi ha scelto. E così, uno come me che ha alle spalle una famiglia sfasciata è diventato padre di tante persone uscite dal carcere che hanno scelto di cambiare vita”. Milano. Detenuto-inventore brevetta “Riselda”, il primo cassonetto intelligente di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 6 aprile 2021 Fernando Gomes da Silva, ex elettricista che sta scontando una condanna a 18 anni, ha ideato il “rifiutometro” di condominio, che premia gli inquilini virtuosi. Al via la raccolta fondi sulla piattaforma del Comune. Quando nel 2015 in carcere a Firenze trafficava con ingranaggi meccanici e scatole delle merendine, memore del suo essere stato elettricista prima di incassare una condanna a 18 anni, lo incoraggiavano perché in cella sembrava un buon modo di passare il tempo per un detenuto che di tempo da occupare ne avrebbe avuto tanto. Ma quando il modellino in miniatura di “rifiutometro” messo a punto da Fernando Gomes da Silva è finito (grazie ai volontari dell’associazione Zone) in mano agli ingegneri dell’Università Federico II di Napoli, il prototipo di macchinetta è diventato un vero e proprio brevetto finanziato nel 2015 da Publiambiente spa, l’azienda di gestione del ciclo integrato dei rifiuti solidi urbani della Toscana. Poi, quando Fernando è stato trasferito nel carcere di Bollate, e qui ha formato con altri detenuti l’associazione “Keep the Planet Clean”, ecco che Riselda (cioè l’idea battezzata con il nome della mamma) ha iniziato a promuovere da un lato la raccolta differenziata dei rifiuti in carcere, giunta all’80% con il patrocinio di Amsa e Novamont, e dall’altro il premio di un’ora di colloqui in più e di una telefonata in più per i detenuti partecipanti all’impegno nel progetto. E quando è stato presentato come bando per la “Scuola dei Quartieri” del Comune di Milano, in lizza cioè tra “i progetti e servizi realizzati dai cittadini per migliorare la vita in alcuni quartieri meno centrali della città”, l’idea di “isola ecologica condominiale” Riselda Smartdumpster è sbarcata anche sulla piattaforma digitale di Crowfunding Civico Milano, dove ora e fino al 24 aprile cercherà di raccogliere 8.000 euro, cioè il 40 per cento del budget necessario, perché in questo caso a metterci il restante 60 per cento (12.000 euro) sarà il Comune di Milano. Per fare cosa? Per esportare dal carcere dei ristretti alla città dei liberi, dalla cella del detenuto brasiliano a un condominio ultrameneghino da candidare nel quartiere Giambellino-Lorenteggio, le tre funzioni del progetto Riselda in partnership con l’impresa sociale “BiPart”: e cioè digitalizzazione dei rifiuti nel condominio, sistema di premialità, messa in rete dei cittadini del quartiere. Riselda, infatti, è un tipo di cassonetto “intelligente” che ha la funzione di pesare, tracciare e produrre informazioni personalizzate sui rifiuti prodotti da ogni utente dotato di una card personale, stampando un adesivo con codice a barre per i vari tipi di rifiuto (indifferenziato, plastica, carta, organico). Questo rifiutometro è poi la base per premiare comportamenti virtuosi nella raccolta differenziata dei rifiuti, in prospettiva riconoscendo a chi riduce il tasso di rifiuti indifferenziati un accesso agli sgravi fiscali sulla parte variabile della Tari, e convertendo i “punti” guadagnati dai più virtuosi in sconti o buoni spesa presso una rete di negozi che dovessero essere interessati. Inoltre la macchinetta sarebbe collegata ad un’applicazione per cellulari che permette ai condomini di condividere documentazione sulla vita nel quartiere, annunci di smarrimento oggetti, ricerche e offerte di manodopera locale, informazioni del Comune. Con l’ulteriore effetto di contribuire alla pacificazione tra condòmini attraverso la mediazione di quelle incomprensioni che spesso gorgogliano nei palazzi prima di esplodere in conflitti. Poco a poco, insomma, potrebbe materializzarsi l’idea di Fernando in carcere, e cioè quella di “impiegare i lunghi anni di detenzione per pensare qualcosa che fosse utile a tutta la comunità”, all’insegna di una sorta di “se non sono più nel mondo, almeno sono riuscito a fare qualcosa per il mondo”. Pensiero nel quale, aggiunge l’educatrice Sarah D’Errico, “la progettualità si fa pratica di comunità e di reinserimento nella comunità”, attraverso un progetto nato davvero “dal basso” di una cella di carcere ma adesso capace di sbarcare fuori dal carcere: nei quartieri, dove “separare i rifiuti per unire le persone”. “Carcere: l’alternativa è possibile”, di Giorgio Pieri di Luca Pizzagalli Il Resto del Carlino, 6 aprile 2021 Lo storico membro dell’associazione Papa Giovanni XXIII ha scritto un libro con un titolo che raccoglie quasi 20 anni di esperienze al fianco di detenuti e persone in cerca di una seconda possibilità. Perché questo libro? “Perché vogliamo ribadire che il nostro progetto Cec, comunità educante con i carcerati, funziona - spiega - in quasi 18 anni abbiamo ospitato nelle nostre case oltre 3.000 persone che hanno scontato alcuni mesi di fine pena o in attesa di giudizio con mesi da trascorrere in comunità. E di tutte queste persone nelle nostre 8 case di accoglienza per detenuti (2 all’estero e 6 in Italia) appena il 12% circa è tornato a delinquere dopo aver scontato la pena. La recidiva crolla rispetto a chi resta in carcere per intero. Infatti chi è rimasto in carcere per anni poi torna a delinquere nel 75% dei casi. Invece nelle nostre case il recuperando trascorre circa 1 anno e 2 mesi e durante questo periodo noi cerchiamo di capire, conoscere ed accompagnare la persona nel suo percorso di rinascita e verifica interiore”. Tutto il progetto conferma una celebre frase di Don Oreste Benzi: “L’uomo non è il suo errore”. “Infine va detto che un detenuto costa in carcere circa 70.000 euro all’anno allo Stato Italiano - conclude Pieri - noi con il nostro progetto non superiamo le 12.000 euro circa all’anno e dunque l’intero sistema italiano risparmierebbe milioni di euro di risorse da investire poi in rieducazione e formazione per recuperare definitivamente queste persone alla vita”. I proventi del libro, presente in tutte le librerie locali, saranno destinati all’associazione Papa Giovanni XXIII di Rimini ed alle sue attività. Covid: si riducono i contagi nel mondo. Il picco è alle spalle? di Fabio Di Todaro La Repubblica, 6 aprile 2021 L’andamento della pandemia globale varia da paese a paese in base a vaccini e restrizioni. Le incognite: la durata dell’immunità e le varianti. Il parere degli scienziati. Quasi 1.5 milioni di casi, lo scorso 10 dicembre. Poco meno di 630mila, nel primo giorno di aprile. Complice l’aumento delle vaccinazioni, in alcune nazioni molto più veloce che in Italia, i contagi da Sars-CoV-2 nel mondo viaggiano da tempo sotto la quota del milione di casi giornalieri. Nell’ultimo mese, la curva appare in leggera crescita: il punto più basso del 2021 risale al 21 febbraio, con 314.267 nuove persone infette. Ma si è comunque lontani dai numeri registrati a cavallo tra la fine del 2020 e l’inizio del nuovo anno. Segno che la quota crescente di persone già infettate e l’avvio delle campagne di profilassi sta contribuendo a ridurre sia i contagi - da cui almeno i vaccini a mRna proteggono in larga parte - sia i decessi. Può bastare questo per affermare che il picco, a livello globale, è ormai alle spalle? C’è chi, nei Paesi dell’Est, ha già abbandonato la mascherina. E chi, come gli italiani e i francesi, è invece costretto a rispettare ancora forti limitazioni alla libertà personale. Lo scenario della pandemia nel mondo è profondamente eterogeneo. Ma provando a guardare la situazione dall’esterno, al netto delle differenze territoriali, l’impressione è che il peggio sia alle spalle. Ci sono buone probabilità, ma è ancora presto per abbassare la guardia. È questo il quadro che emerge da un’analisi pubblicata sulla rivista Nature, che ha fatto il punto sull’andamento della pandemia interpellando un pool di esperti a livello globale. “Le evidenze iniziali sono incoraggianti, ma bisogna tenere sotto controllo le varianti: alcune potrebbero essere in grado di eludere l’immunità garantita dai vaccini”, afferma Caitlin Rivers, epidemiologa della Johns Hopkins University. Troppo profonde sono inoltre le differenze tra le diverse aree del pianeta: un cittadino messicano oggi non può sentirsi al sicuro come un coetaneo cinese. “Ci sono delle aree del mondo in cui la quota di persone vaccinate è troppo bassa: questi luoghi sono ancora molto vulnerabili”, aggiunge l’esperta. Nelle aree in cui si registra una drastica caduta dei casi, il risultato è stato raggiunto con un’azione sinergica: rigide misure di restrizione (compresa la chiusura delle scuole) accompagnate da una massiccia campagna vaccinale. In questo modo si è riusciti a ridurre il numero dei contagi e a far crescere allo stesso tempo la quota di persone protette almeno per i prossimi mesi (in attesa di capire quanto duri l’immunità garantita dai vaccini). La situazione però non è identica in tutti i paesi. Se in India 1 persona su 5 ha già gli anticorpi contro Sars-CoV-2, ben più bassa è la quota in Europa (5 per cento) e nei Paesi affacciati sul Pacifico (2 per cento). Di conseguenza, avvertono gli esperti, la riapertura delle frontiere e lo “scambio” tra persone di nazioni diverse rischia di rappresentare una minaccia per quegli Stati finora meno colpiti o più indietro nella campagna di vaccinazione di massa. A ciò occorre aggiungere che da molti Paesi non si hanno informazioni certe. “Se i numeri delle nazioni dell’Africa sub-sahariana fossero analoghi a quelli dell’India, allora sì che potremmo dire di essere oltre il picco”, fa chiarezza Joseph Lewnard, epidemiologo dell’Università della California. Lo scenario africano è il meno nitido. E, di conseguenza, anche quello meno rassicurante, visto l’elevato numero di abitanti e la densità abitativa dei centri più grandi. Ci sono poi due aspetti non ancora definitivamente chiariti: la durata dell’immunità (sia per chi si è ammalato sia per chi è stato solo vaccinato) e la capacità delle varianti di “sfuggire” alle maglie del sistema immunitario. Le informazioni sono in continuo divenire. Al momento, quella che fa più paura è la variante sudafricana, rispetto alla quale i vaccini a mRna sembrano avere una ridotta attività neutralizzante. Poco diffusa in Europa, dove a prevalere è quella inglese, questa forma del virus potrebbe contribuire però a far rialzare i numeri circolando proprio nel continente africano, dove le informazioni circa i tassi di copertura vaccinale sono piuttosto lacunose. Da qui anche il monito lanciato dalla Peoplès Vaccine Alliance. “Senza una campagna di vaccinazione di massa a livello globale, in tempi brevi le varianti del Covid-19 sono destinate a prendere il sopravvento allungando, di molto, i tempi necessari a sconfiggere la pandemia e aumentando a dismisura il numero di contagi e vittime”. Secondo 9 epidemiologi su 10 tra quelli interpellati, se non si aumenterà la copertura vaccinale, in molti Paesi potrebbero sorgere varianti del virus resistenti al vaccino. “Abbiamo un anno di tempo per non vanificare l’efficacia dei vaccini di prima generazione sviluppati e contenere le mutazioni del virus”. Nel nostro Paese, la terza ondata è ancora in atto, ma ha con ogni probabilità già raggiunto il picco. L’ultimo monitoraggio della Fondazione Gimbe evidenzia un rallentamento nei nuovi contagi e nei ricoveri. Come al solito, però, ci vorranno ancora diverse settimane prima di registrare la stessa tendenza nel numero dei decessi. Elevata rimane anche la pressione sugli ospedali. Da qui la decisione del Governo di non allentare le misure di restrizione (almeno) per tutto il mese di aprile. Una scelta che trova d’accordo pressoché tutta la comunità scientifica. Il cui pensiero è riassunto nelle parole di Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell’azienda ospedaliera di Padova, a “Un Giorno da Pecora”. “Usciremo dall’emergenza attraverso diverse fasi. Prima arriverà il calo della letalità, poi vedremo che le ondate ci saranno continuamente ma saranno sempre più basse, con picchi massimo di 3mila contagi. Potrebbe avvenire verso settembre o ottobre la situazione si dovrebbe stabilizzare, a meno che non arrivino varianti”. Le armi, scandalo del Papa, non dei governi di Luca Kocci Il Manifesto, 6 aprile 2021 Le parole di Francesco sul disarmo sono le meno citate dai grandi mezzi di informazione. I temi della pace, della guerra e del disarmo sono fra i più presenti nel magistero sociale di papa Francesco. Non gli ha dedicato un’enciclica - come ha fatto con l’ambiente, nella Laudato sii - ma li affronta ogni volta che può, in molteplici occasioni. E se il “no alla guerra” può apparire in un certo senso ormai “scontato” - anche se alcuni suoi predecessori hanno sempre preferito sottolineare altri “no” - l’appello al disarmo è decisamente più originale. Ne ha parlato ancora una volta nel messaggio di Pasqua, che ha preceduto la tradizionale benedizione Urbi ed Orbi. “La pandemia è ancora in pieno corso, la crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri - ha detto il pontefice -. Malgrado questo, ed è scandaloso, non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo di oggi”. “Condividiamo i sentimenti di papa Francesco”, ha immediatamente acconsentito il presidente Usa Joe Biden, in un video su Twitter. Però non si riferiva alle armi, bensì ai vaccini, come peraltro ha detto il papa, poco dopo, nello stesso messaggio (“I vaccini costituiscono uno strumento essenziale per questa lotta. Nello spirito di un “internazionalismo dei vaccini”, esorto pertanto l’intera comunità internazionale a un impegno condiviso per superare i ritardi nella loro distribuzione e favorirne la condivisione, specialmente con i Paesi più poveri”). Ma Biden non è il solo a selezionare le frasi del pontefice. Le parole di Francesco sul disarmo sono le meno citate dai grandi mezzi di informazione - con qualche eccezione - che solitamente, soprattutto in Italia, danno grande risalto a tutto quello che fa e dice il pontefice. Del resto quella armiera è una delle industrie più fiorenti, e quello militare uno dei capitoli di spesa pubblica più onerosi nel mondo e in Italia, dove addirittura il Parlamento ha chiesto a Draghi di utilizzare una bella fetta dei fondi del Recovery Plan per ampliare e ammodernare gli arsenali (vedi il manifesto del 2 e 3 aprile). E le proprietà editoriali - è così da oltre un secolo, almeno dalla prima guerra mondiale - sono legate a filo doppio con il complesso militare-industriale. Quindi anche stavolta meglio mettere il silenziatore al papa che parla di disarmo. Come del resto fanno anche le Chiese nazionali: quella Usa, ma anche quella italiana, che anzi usa con grande disinvoltura le cosiddette “banche armate” (vedi il manifesto 3 giugno 2020). Anche qui con qualche eccezione, come per esempio Pax Christi. “L’Italia nel 2021 spenderà oltre 27 miliardi di euro per le armi. E dall’Europa, con il Recovery Plan, dovrebbero arrivare ulteriori miliardi all’industria militare. Altro che attenzione ai più deboli e ai più fragili”, dice il coordinatore nazionale, don Renato Sacco. E il presidente del movimento, monsignor Giovanni Ricchiuti: “Il capo della Protezione civile Curcio afferma: “Siamo in guerra, servono norme da guerra.” Il generale Figliuolo dice: “Quando i vaccini arriveranno in massa, si potrà fare fuoco con tutte le polveri”. Sono indignato! Non posso accettare questo linguaggio bellico a cui assistiamo, questa cultura e queste scelte sempre più ispirate alla guerra”. “Oggi è Pasqua - ha detto il Papa domenica. Ma ricorre anche la Giornata mondiale contro le mine antiuomo, subdoli e orribili ordigni che uccidono o mutilano ogni anno molte persone innocenti e impediscono all’umanità di “camminare assieme sui sentieri della vita, senza temere le insidie di distruzione e di morte”. Come sarebbe meglio un mondo senza questi strumenti di morte!”. L’Italia e il G20. “Né carità, né solidarietà, solo giustizia” di Vincenzo Giardina* La Repubblica, 6 aprile 2021 Il fardello del debito sulle spalle dei Paesi poveri oggi pesa di più. Le raccomandazioni sul tavolo della presidenza italiana del G20. Al centro di un colloquio con Oltremare, la rivista dell’Agenzia della Cooperazione italiana. “Tutto si tiene, dal debito ai vaccini”. Un impegno di giustizia, da assolvere subito. Perché rimandare non può essere una soluzione e perché oggi il nodo è ancora più difficile da sciogliere di quanto non fosse 20 anni fa, al tempo della campagna Jubilee 2000, che sulla cancellazione del debito dei Paesi poveri aveva spinto governi e istituzioni internazionali a muoversi. Con scelte nella direzione giusta, alle quali non erano però seguite le riforme di sistema necessarie in un’ottica di sostenibilità. È il filo rosso che attraversa un colloquio organizzato da Oltremare con i rappresentanti del Civil 20, uno degli “engagement group” del G20 a presidenza italiana. Il problema dei creditori privati. Le loro voci sono parte di un coro globale, espressioni di società civili di decine di Paesi, da quelli più industrializzati a quelli più svantaggiati. Il problema del debito, in anni di pandemia, è solo uno dei temi discussi. E però appare subito decisivo, punto di arrivo e partenza di dinamiche controverse o controproducenti, almeno nell’ottica degli Obiettivi di sviluppo sostenibile e dell’Agenda 2030 dell’Onu. “Oggi uno dei problemi è quello dei creditori privati”, premette Riccardo Moro, sherpa del Civil 20, analizzando e rilanciando le richieste di cancellazione sul tavolo della presidenza italiana. Pesano sempre di più banche, fondi di investimento, speculatori. La lettura è che, rispetto agli interventi del 2000, oggi il fardello sulle spalle dei Paesi più vulnerabili si è aggravato a causa di un cambiamento nella sua struttura: pesano sempre di più banche, fondi di investimento e speculatori, realtà private non toccate da quella sospensione dei pagamenti sugli interessi del debito decisa l’anno scorso dal G20 a presidenza saudita. Secondo Moro, la campagna di 20 anni fa portò a risultati importanti e per certi versi fu un successo. “Non fu però risolto tutto” aggiunge lo sherpa, citando appunto il nuovo ruolo dei creditori privati, parlando di impegni “non rispettati appieno” e della mancata creazione di “condizioni di sostenibilità per i Paesi indebitati”. Titoli per 9mila miliardi di dollari. Secondo stime rilanciate dalla testata Bloomberg, solo 25 società, fondi e banche parte dell’Africa Private Creditor Working Group detengono titoli e proprietà nel continente per oltre 9mila miliardi di dollari. Una di queste, l’americana BlackRock, ha nel portafogli bond per un miliardo di dollari in Ghana, Kenya, Nigeria, Senegal e Zambia. Ne parla anche Stefano Prato, sous-sherpa Finanze del Civil 20. “La questione del debito mostra in modo perfetto che i flussi finanziari non vanno da Nord a Sud ma da Sud a Nord” dice. “Il Sud produce spesso ricchezza che poi ritorna al Nord invece di essere investita in quei servizi pubblici e infrastrutturali necessari ad avanzare verso l’Agenda 2030”. Né carità né solidarietà, ma giustizia. Secondo Prato, “al G20 non si chiede né carità né solidarietà ma di fare giustizia”. La tesi è che “le ragioni del debito sono in larga parte non imputabili ai Paesi debitori ma alla ‘suddivisione del lavoro’ in un’economia globale che li costringe a esportare solo commodities, minerali e materie prime non trasformate e a importare invece qualsiasi altra cosa”. E c’è di più. “A seguito della risposta alla crisi del 2008-2011 nei Paesi ricchi si è creato un eccesso di liquidità all’origine di un flusso drammatico di ‘hot money’, con investimenti ad alto tasso di rischio”, dice Prato. Convinto che il rischio, per sua natura, dovrebbe comportare la possibilità di perdite. “Se invece ancora una volta i Paesi ricchi prendono le parti delle loro banche e del loro settore privato immettendo liquidità pubblica nel mercato”, sottolinea il sous-sherpa, “ritorniamo in un circolo vizioso”. Dunque: giustizia, obbligo morale, buonsenso. Tra le parole chiave di Civil 20 ci sono “giustizia” e “obbligo morale”. Le stesse, che insieme a una terza, “buonsenso”, animano il confronto sulla pandemia e gli strumenti necessari a fronteggiarla. Secondo Stefania Burbo, chair del Civil 20, “quello che viene fuori oggi è l’impatto di decenni di indebolimento dei sistemi sanitari pubblici, di limitazioni in termini di personale sanitario formato e stipendiato in modo adeguato e infine di accesso a farmaci e vaccini”. Oggi sarebbero più che mai necessari investimenti nella salute globale e nella condivisione della ricerca scientifica. “Esigenze strettamente collegate al tema del Covid-19”, sottolinea la chair, “con test, terapie e vaccini che devono essere considerati come beni pubblici globali”. Il rischio che prezzi alti blocchino l’accesso ai vaccini. Burbo discute di un articolo dell’economista indiana Jayati Ghosh, dal titolo Vaccine Apartheid, e di un allarme lanciato da Winnie Byanyima, direttrice esecutiva di Unaids, l’ente delle Nazioni Unite specializzato nel contrasto al virus dell’Hiv e alla sindrome da immunodeficienza acquisita. Stime credibili, sempre secondo Byanyima, indicano che nove cittadini su dieci nei Paesi più svantaggiati non avranno un vaccino contro il Covid-19 quest’anno. Un monito chiave, ripreso nelle raccomandazioni del Civil 20 ai capi di Stato e di governo, riguarderà il rischio che prezzi troppo alti blocchino l’accesso ai vaccini e spingano i Paesi più svantaggiati in una crisi del debito ancora più profonda. Secondo Burbo, “è necessario mantenere una visione complessiva della crisi sanitaria, altrimenti non si riuscirà a tenere la pandemia sotto controllo ancora per anni”. La possibile sospensione temporanea dei brevetti sui vaccini. È la cornice di una disputa in primo piano il 10 e 11 marzo, in occasione di una riunione dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc/Wto). Al Consiglio Trips, acronimo di Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights - l’accordo multilaterale sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio - si sono scontrate le posizioni di chi chiede una deroga a questo accordo degli anni Novanta che disciplina la tutela dei diritti di proprietà intellettuale e di chi difende la piena titolarità delle aziende sui brevetti. Secondo Burbo, “con una decisione perfettamente legale, prevista dall’intesa e motivata dall’emergenza sanitaria, rispetto a farmaci, vaccini e altri dispositivi di contrasto al nuovo coronavirus, il Wto può sospendere temporaneamente l’applicazione del Trips”. Una scelta del genere - avanzata mesi fa da India e Sudafrica, Paesi del G20, e sostenuta da oltre cento Paesi nel mondo - potrebbe scongiurare il ripetersi di errori già commessi in passato per la lotta contro l’Aids, sottolinea la chair: “Prezzi elevati e restrizioni legate alla proprietà intellettuale provocarono nell’Africa subsahariana milioni di morti che si sarebbero potuti evitare”. I diritti di donne e ragazze. C’è poi un altro tema evidenziato dalle organizzazioni della società civile a tutte le latitudini. “La presidenza italiana non può prescindere dall’impatto che la pandemia sta avendo sui diritti delle donne e delle ragazze”, dice Valeria Emmi, sous-sherpa del Civil 20. “C’è il rischio di compromettere i progressi pur timidi ottenuti finora, aggravando disuguaglianze e discriminazioni”. Isolamento sociale vuol dire più violenza domestica e meno diritti sul piano della salute, anche di quella riproduttiva, non solo in Paesi a reddito basso. “In Italia nel 2020 è quadruplicato il numero delle chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità per il contrasto e la prevenzione della violenza di genere”, dice Emmi. Che, guardando al cammino da affrontare, parla anche di un altro impegno non rinviabile: “Il G20 deve elaborare una road map per raggiungere l’obiettivo definito a Brisbane nel 2014, vale a dire ridurre del 25 % la disuguaglianza di genere nella partecipazione al mercato del lavoro entro il 2025”. *Vincenzo Giardina scrive per Oltremare, la rivista dell’AICS, l’Agenzia della Cooperazione Internazionale italiana La giustizia climatica alle prese con quella sociale di Alessio Lerda riforma.it, 6 aprile 2021 Dal movimento Blm in poi, le due istanze hanno si sono legate con particolare forza, ma il loro rapporto non è necessariamente armonioso. Nei giorni del processo a Derek Chauvin, il poliziotto di Minneapolis accusato dell’omicidio di George Floyd, tornano alla mente le grandi manifestazioni del movimento Black Lives Matter, che l’anno scorso, in risposta all’ennesima morte di una persona afroamericana durante un incontro con la polizia, portarono migliaia di persone nelle strade statunitensi e in molti altri paesi del mondo a chiedere la fine del razzismo sistemico e istituzionalizzato. Tra i molti motivi per cui quelle proteste hanno segnato il 2020 e, più in generale, la lotta alle discriminazioni, c’era anche la connessione tra la richiesta di giustizia sociale e l’attivismo ambientale; non inedita, di per sé, ma mai posta in primo piano come allora. In particolare, venne individuata una lama a doppio taglio: il razzismo diffuso è visto sempre più come un freno al progredire delle politiche ambientali, mentre dal lato opposto si nota, anche a livello scientifico, come gli effetti del cambiamento climatico colpiscano maggiormente le popolazioni discriminate dal punto di vista sociale, etnico ed economico. L’ultimo segnale in questo senso arriva da una ricerca dell’Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite, che mostra come siano proprio i gruppi marginalizzati ad essere particolarmente soggetti all’inquinamento derivante dalla plastica. Non si tratta soltanto di una distinzione tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo (sebbene quel divario sia profondo anche da questo punto di vista), ma anche di categorizzazioni interne. Le donne, ad esempio, risultato in generale più a rischio degli uomini, a causa di una maggiore esposizione alla plastica in casa e per la presenza di plastiche nei cosmetici; oppure, si nota che nei pressi delle raffinerie americane sul Golfo del Messico vivono soprattutto comunità afro-americane, che restano quindi particolarmente esposte a quell’inquinamento. Proprio da qui scaturiva, in particolare, l’unione del discorso anti-razzista e di quello ambientale lo scorso anno, con il suggerimento che il più alto livello di inquinamento col quale generalmente convivono i neri americani fosse la causa della loro maggiore mortalità durante la pandemia da Covid-19. La ricerca scientifica non ha poi provato con solidità questo nesso, ma la condizione di partenza - le minoranze etniche finiscono per vivere in aree più inquinate - non è stata smentita, al di là dell’eventuale collegamento con il coronavirus. Il discorso si è poi allargato, raggiungendo appunto una dimensione più generale e legando le due istanze a doppio filo. Non si può risolvere il cambiamento climatico se non si risolve la disuguaglianza sociale, e non ci può essere uguaglianza sociale se non si argina il cambiamento climatico. Forse non tutti vedono però l’armonia di questo rapporto come inevitabile. Un recente articolo pubblicato su Scientific American fa notare che ecologia e lotta per i diritti non sono sempre andati di pari passo, anzi: spesso in passato si sono trovati in antitesi. L’autrice dell’articolo, Sarah Jaquette Ray, si chiede se il fenomeno della climate anxiety (l’ansia generata dal cambiamento climatico) non possa talvolta portare a sentimenti razzisti, soprattutto all’interno di popolazioni bianche occidentali, preoccupate di difendere il proprio ambiente magari proprio dall’arrivo di stranieri. Da diversi anni viene indicata la crisi climatica come causa o concausa di vari flussi migratori, al punto da coniare l’espressione di migranti climatici, un fenomeno che è destinato ad acuirsi progressivamente. Non è fantasioso immaginare che, in alcuni casi, la preoccupazione per il clima e quella per la protezione dei confini possano sovrapporsi. Il rischio può anche essere più sottile di così. Ancora Ray mostra come la descrizione più diffusa della crisi climatica la indichi come “la più grande crisi esistenziale dei nostri tempi”; definizione realistica, ma che ignora come, per molte minoranze, questa non sia altro che l’ennesima crisi esistenziale che si sovrappone ad altre già molto presenti. Il rapporto tra giustizia ambientale e giustizia sociale è stato ormai intrecciato strettamente da attivisti e scienziati, ma potrebbe risultare più complesso e sfaccettato di quanto appaia in superficie. Ancora una volta, sta alla popolazione privilegiata il compito di fare un passo indietro e di guardarsi intorno, chiedendosi, come minimo, se non stia monopolizzando un problema che non riguarda soltanto loro. Migranti. Il muro d’Europa di Giovanni Tizian e Gaetano De Monte Il Domani, 6 aprile 2021 Frontex, l’agenzia europea che dovrebbe monitorare le frontiere, gioca di sponda con la Guardia costiera libica per portare chi fugge in un paese “non sicuro”. I documenti mostrano il piano dell’Ue per esternalizzare il lavoro sporco nel Mediterraneo. E i sistemi per comunicare tra le forze europee e i libici per intercettare i gommoni sui quali viaggiano i migranti. Un esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo chiede luce sulla complicità europea nei crimini commessi in Libia. “Tripoli, Osprey 1. Operation complete”. È il 20 gennaio del 2021. Una comunicazione radio intercettata a bordo della motovedetta libica - Fezzan - con il velivolo Osprey dell’Agenzia per la sicurezza delle frontiere esterne all’Unione europea - Frontex - svela le modalità attraverso cui la guardia costiera libica opera, con il supporto dei mezzi navali ed europei, per riportare i migranti verso la Libia. Il paese che già nel dicembre del 2019 le Nazioni unite avevano dichiarato “non sicuro”, soprattutto per i rifugiati e i migranti che “continuano a essere regolarmente sottoposti a violazioni e abusi”. Le prove della complicità dell’Ue nei respingimenti di migranti verso la Libia sono molteplici. C’è un video con le comunicazioni tra Osprey 1 di Frontex e Tripoli che mostra la presenza dell’aereo di Frontex sulla scena di un naufragio, mentre la motovedetta libica si avvicina, ordinando alla nave della Ong Sos Mediterranée, Ocean Viking, di allontanarsi e modificare la propria rotta. E ci sono documenti, sia pubblici sia riservati, nei quali è scritta la linea dell’Europa: formare la guardia costiera libica per delegarle le operazioni di intercettazione dei gommoni in viaggio verso l’Italia. Esternalizzare le frontiere - Tra questi documenti c’è il report sull’addestramento dei libici e sulle modalità con cui questi comunicano con gli aerei di Frontex, con i nostri centri di soccorso e con la marina militare. Sono loro a individuare le barche cariche di donne, bambini e uomini e ad avvertire i centri di soccorso di Italia, Malta e Libia, che naturalmente è la prima a raggiungere il tratto di mare interessato da quando è stata istituita la zona Sar libica, grazie al memorandum firmato dal governo di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno. Da quell’accordo discendono una serie di corollari: il primo è, appunto, la delega ai libici per il controllo delle frontiere europee. Esternalizzazione delle frontiere, si chiama. Fonti vicine a Minniti su questo sono in disaccordo: “Finché ci siamo stati noi al governo la direzione dei soccorsi spettava comunque alla nostra guardia costiera, che era legittimata ad arrivare fino alle acque territoriali libiche per salvare vite umane, dovete indagare su cosa sia successo dopo, con il governo Conte 1, quando alle motovedette italiane è stato impedito di spingersi fino alle acque internazionali”. Abbiamo contattato la guardia costiera italiana, che però riconduce tutto all’entrata in vigore della zona Sar libica, una delle novità scaturite dall’accordo Italia-Libia promosso dal governo Gentiloni. Tra il rimpallo di responsabilità, nel mezzo, c’è un fatto certo: i libici riportano indietro i migranti. Nella pratica funziona così. Torniamo al 20 gennaio scorso, quando la motovedetta Fezzan, regalata dall’Italia alla Libia, arriva sul posto del naufragio. Il comandante libico comunica al comando di Frontex: “Tripoli, Osprey 1. Operation complete”. E poi si dirige con le 32 persone recuperate verso il porto della capitale dello stato che l’Onu considera “non sicuro”, non solo per le guerre intestine tra fazioni, ma anche per i centri di detenzione in cui finiscono i “respinti”. Chi coinvolge i libici nelle operazioni di salvataggio? Alle richieste di commento Frontex ha prima risposto: “Nessun contatto con la guardia costiera libica”. Per poi ammettere: “Ogni volta che un aereo o un’imbarcazione di Frontex individua un’imbarcazione in potenziale necessità di soccorso, l’Agenzia allerta tutti i centri di soccorso nazionali competenti nelle vicinanze, come richiesto dal diritto internazionale, cioè i centri di coordinamento di Italia, Malta, Tunisia e Libia”. La versione di quella mattina la fornisce anche Sos Mediterranée: “Alarm Phone (un servizio umanitario di soccorso, ndr) aveva trasmesso una mail al centro di coordinamento di soccorso maltese e italiano, in cui eravamo in copia anche noi, segnalando la posizione di una barca che era in pericolo ed avvertendo che un aereo bianco con una striscia rossa si era avvicinato a loro. Alle 10.15 la Guardia costiera libica ci ha chiamato per informarci che stavano procedendo al soccorso, ordinandoci di cambiare rotta, nonostante avessimo offerto loro assistenza, specificando che a bordo avevamo un’equipe medica, da quel momento in poi li abbiamo persi dalla nostra visuale”. Frontex fa da palo ai libici - La barca intercettata il 20 gennaio non è l’unico respingimento verso la Libia benedetto dai velivoli di Frontex. “È accaduto due giorni dopo, con la stessa identica dinamica”, riferiscono dall’Ong Sea Watch, “alle ore 5.43 del 22 gennaio Alarm Phone aveva segnalato alle autorità la presenza di una barca di legno che era in pericolo con circa 77 persone a bordo. La posizione dell’imbarcazione era stata localizzata a 33d9N, 12d36E, mentre Osprey 3, un altro degli aerei di cui dispone Frontex, era stato tracciato a partire dalla posizione 33d21N, 12d37E, dunque, in prossimità della barca di migranti da salvare”. Sebbene l’Agenzia sostenga la sua estraneità, i testimoni ricordano che “quella mattina l’aereo di Frontex ha seguito uno strano percorso, dopo essere stato presente da subito sulla scena del naufragio, ha cambiato rotta, prima dirigendosi verso Tripoli, poi è ritornato sulla scena, ricomparendo poi a nord in direzione dell’aeroporto di Malta. Più o meno negli stessi minuti in cui la motovedetta libica Fezzan aveva intercettato la barca in pericolo”. Stessa scena il 7 febbraio scorso: questa volta un secondo aereo, Eagle 1, tracciato in posizione 33d38N, 12d27E, vicino a una barca di legno blu che era in pericolo con 35 persone a bordo. “Eagle 1 dapprima aveva cambiato rotta verso Tripoli, poi, era tornato indietro verso la posizione della barca naufragata, infine, era stato localizzato dal nos verso l’aeroporto di Malta. Negli stessi istanti, la barca di legno blu è andata in fiamme, e i loro passeggeri si trovavano già all’interno della motovedetta Fezzan che li stava riportando in Libia”, riferiscono i testimoni. Sono le prove dei respingimenti appaltati a terzi verso un “paese non sicuro”, pratiche vietate da tutte le convenzioni internazionali, e che avvengono con la complicità politica dell’Unione europea. D’altronde, lo stesso direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, nel corso di una audizione dello scorso aprile alla Commissione Libertà civili e affari interni del Parlamento europeo, non ne aveva fatto un mistero della presenza sulla scena libica degli aerei dell’Agenzia. Quasi a fare da palo in cielo aspettando l’arrivo della guardia costiera libica in mare. Leggeri, infatti, aveva dichiarato: “La pandemia di Covid-19 ha aumentato le difficoltà, in quanto c’è minore capacità da parte della guardia costiera libica di individuare le partenze”. E soprattutto, aveva riferito ai parlamentari europei, “vorrei mettere in risalto che abbiamo dispiegato i mezzi aerei di Frontex e che lavoriamo individuando le imbarcazioni mentre sono ancora nella zona di ricerca e soccorso libica. Il nostro approccio è quello di informare tutti i centri di coordinamento marittimi di entrambe le sponde del Mediterraneo per poter inviare squadre in mare”. Crimini contro l’umanità - Una comunicazione presentata qualche tempo fa dai giuristi Omer Shatz e Juan Branco alla procura della Corte penale internazionale ha sollecitato i giudici ad aprire un’indagine sulle eventuali responsabilità penali dei vertici dell’Unione europea e dei suoi stati membri “per crimini contro l’umanità commessi ai danni di persone migranti nel Mediterraneo e in Libia, dal 2013 fino ad oggi”. Nella comunicazione si ipotizza la responsabilità dei leader europei “nell’attacco esteso e sistematico ai danni delle popolazioni di civili stranieri in fuga dalla Libia”. Perché, si legge, “tale attacco è stato finalizzato a contenere i flussi migratori diretti verso il continente europeo, e sarebbe stato perpetrato attraverso l’ideazione e l’attuazione di politiche attuate in due periodi distinti”. Secondo la denuncia presentata dai giuristi Omer Shatz e Juan Branco, infatti, “a partire dal 2015 l’azione dei leader europei sarebbe stata guidata da una seconda e diversa policy, avente come oggetto la creazione di un sistema volto ad intercettare e trasferire forzatamente in Libia i migranti in fuga dal paese attraverso il Mediterraneo, nella consapevolezza che una volta sbarcati sarebbero stati esposti ad un elevato rischio di divenire vittime di gravissimi reati tra cui omicidi, torture e violenze sessuali”. La politica dell’esternalizzazione dei respingimenti è sotto accusa anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Un ricorso è stato presentato dai legali dall’Associazione giuristi per l’immigrazione (Asgi) contro il governo italiano. I fatti contestati sono avvenuti il 6 novembre 2017. Quel giorno ci fu una operazione di salvataggio di cento persone al largo delle coste libiche: 40 di loro tra i sopravvissuti al naufragio furono portati in Libia da una motovedetta, “strappati” alla nave della Ong Sea Watch che li aveva soccorsi. I giuristi di Asgi ritengono per questo che l’Italia abbia violato la Convenzione europea dei diritti umani. “Le operazioni sono state coordinate a distanza dall’Imrcc (centro di coordinamento e soccorso), con base a Roma, che ha segnalato la presenza dell’imbarcazione in difficoltà sia alla Sea Watch che alla Guardia costiera libica, mentre non è chiaro se quest’ultima abbia poi assunto volontariamente il comando operativo o se l’abbia fatto su indicazione dell’Italia. Sulla scena dell’incidente, inoltre, era presente anche un elicottero della Marina militare italiana”. Secondo i giuristi “è il comportamento spregiudicato della guardia costiera libica, che ha agito senza riguardo alcuno per la vita dei migranti, non ha prestato immediato soccorso ai naufraghi, ma anzi ha attuato manovre azzardate e pericolose per la loro incolumità…ha ostacolato il lavoro dei volontari della Sea Watch, gettando loro oggetti di ogni tipo, ha percosso più volte i migranti a bordo ed è poi ripartita lasciando una persona agganciata alla scala esterna della nave e fermandosi solo dopo ripetuti comandi provenienti dall’elicottero della marina militare italiana”. Questo episodio, però, su cui è tuttora concentrata l’attenzione della Corte di Strasburgo, non è stato un avvenimento isolato. Si è passati dai respingimenti attuati delle autorità italiane verso la Libia durante l’era Gheddafi, all’affidamento di tali pratiche (“pull back”) alla guardia costiera libica (foraggiata con i soldi europei) che intercetta i migranti per ricondurli nei centri di detenzione. Un meccanismo raffinato di respingimento, che usa strategie più sottili. È così che, ad esempio, l’Italia ha aggirato una sentenza del 2012 della Corte europea dei diritti dell’uomo che l’aveva condannata per il respingimento collettivo attuato ai danni di undici cittadini somali e tredici eritrei. La catena di comando - L’evoluzione del meccanismo è spiegato in un inedito report interno, intitolato Monitoring Mechanism Libyan Coast and Navy, redatto da EunavForMed-Operazione Sophia, la missione navale europea contro il traffico di esseri umani che aveva il suo quartiere generale a Roma all’interno dell’aeroporto di Centocelle, e che è stata guidata dall’ammiraglio Enrico Credendino dal 18 maggio del 2015 al 20 febbraio dello scorso anno. Nel documento di monitoraggio rimasto finora riservato, si rileva “un miglioramento delle capacità del personale libico che è stato formato da EunavForMed”. La capacità di pattugliamento è aumentata grazie “al supporto tecnico fornito dalla marina militare italiana in conseguenza del trattato bilaterale firmato dai due paesi (Memoradum Italia-Libia,ndr)”. Nel monitoraggio dei primi mesi dagli accordi stipulati tra Italia e Libia si fa riferimento anche a presenze europee nelle sale operative libiche, utili a “valutare meglio la professionalità della guardia costiera e, si spera, anche di migliorare il rapporto con le Ong”. Sul rapporto tra le navi umanitarie e i libici si legge anche di un incontro che si è tenuto a Tunisi tra l’ammiraglio Enrico Credendino e il comandante della guardia costiera libica, Commodoro Abdalh Toumia, durante il quale quest’ultimo aveva sottolineato “le enormi difficoltà incontrate dalle motovedette quando intervengono nelle operazioni di soccorso e devono agire come “on scene coordinator” alla presenza di navi delle Ong”. E nell’incontro si era parlato proprio dell’evento del 6 novembre del 2017 per cui tuttora pende un ricorso contro il governo italiano davanti alla Cedu, rispetto al quale l’ammiraglio Credendino aveva sottolineato: “In questi casi la sicurezza dell’equipaggio e dei migranti soccorsi potrebbe essere messa a rischio, perché è risaputo che quando entrambi gli attori sono sulla scena, i migranti non vogliono essere salvati dalla guardia costiera libica, perché ovviamente non vogliono tornare in Libia”. Il rapporto svela anche in che modo avvengono una parte delle comunicazioni. Aspetto che chiama in causa direttamente l’Italia: per comunicare con Eunavformed i libici usano il sistema “Smart”: un’infrastruttura sicura realizzata dalla Marina italiana. Tanto che, dopo il memorandum firmato dal governo Gentiloni con Minniti ministro dell’Interno, la formazione per la guardia costiera libica dell’utilizzo di questo sistema di comunicazione è entrato nelle priorità, come si legge nello stesso documento. L’ultimo tassello del mosaico. Eppure tutti negano le complicità nei respingimenti. Non hanno torto. Non si tratta di complicità, ma di un progetto politico chiaro che mette d’accordo i partner europei: “Rispedirli a casa loro” con discrezione e riservatezza. Migranti e diritti umani, missione Ue ad Ankara di Carlo Lania Il Manifesto, 6 aprile 2021 Più che il vertice del disgelo, come è stato presentato con forse un po’ troppa enfasi, quello che faranno oggi il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen in Turchia assomiglia piuttosto a un viaggio della speranza: quella di riuscire a convincere Recep Tayyip Erdogan a stringere un nuovo patto sui migranti simile a quello siglato il 18 marzo del 2016 che permise di bloccare la fuga dei rifugiati siriani verso l’Europa. In mezzo, i due leader europei proveranno anche a parlare di rispetto dei diritti umani in un Paese che ha appena abbandonato la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e dove ieri dieci ex ammiragli sono stati arrestati per aver scritto una lettera critica nei confronti del presidente turco, mentre per domani è prevista la chiusura di uno dei tanti processi per il fallito golpe del 2016 con sentenze che, è facile immaginare, non saranno lievi. Cinque anni dopo l’accordo raggiunto tra Ankara e Bruxelles grazie alla regia della cancelliera Merkel, l’Europa dunque ci riprova. Il viaggio di oggi è stato preceduto da una marcia di avvicinamento cominciata a gennaio dalla Turchia che, nonostante sia allergica alle critiche europee, ha smorzato i toni polemici nei confronti di Bruxelles accompagnando questa nuova disponibilità al dialogo con l’impegno a fermare le perforazioni nel Mediterraneo, a riprendere i colloqui interrotti con la Grecia e a riavviare i negoziati con Cipro. Un atteggiamento giudicato positivamente dall’Ue, anche se non è mancata la prudenza: “La situazione resta delicata”, ha infatti spiegato il rappresentante per la politica estera, Jospeh Borrell, al termine del consiglio europeo del 25 marzo. “Ho individuato un paio di misure con un approccio binario: da un lato misure positive e, dall’altro, misure che possono essere prese se la situazione dovesse ribaltarsi”. Oggi la Turchia ospita più di 4 milioni di rifugiati, 3,6 milioni dei quali sono siriani. In questi cinque anni i rifugiati ricollocati in Europa sono stati 28.621, mentre 2.140 sono quelli riaccolti dopo essere sbarcati illegalmente in Grecia. La situazione è però cambiata a febbraio 2020, con la decisione di Erdogan di mettere fine all’accordo aprendo le frontiere del Paese. Un numero, soprattutto, fa paura a Bruxelles ed è quello che registra il crollo dei migranti fermati dalle autorità turche: nel 2019 furono 454.662, contro i 122.302 del 2020, una flessione dovuta principalmente alla volontà di Erdogan di punire l’Europa perché, a suo dire, non avrebbe mantenuto gli impegni presi versando solo 3,6 miliardi di euro dei 6 promessi nel 2016 (cifra contestata da Bruxelles che parla invece di 4,1 miliardi già impegnati mentre il resto verrà speso in contratti entro il 2023). Michel e von der Leyen non si presentano comunque a mani vuote da Erdogan. I due leader sanno di poter promettere al presidente nuovi finanziamenti visto che i 27 hanno chiesto alla Commissione di presentare una proposta per finanziare l’assistenza ai profughi siriani. Ma non è detto che i soldi saranno sufficienti. Erdogan è già tornato alla carica chiedendo l’ingresso della Turchia nell’Unione europea e la liberalizzazione dei visti per i suoi cittadini, due punti che, più dei soldi, sarebbero preziosi per lui sul fronte politico interno. Una questione delicata, visto che l’Europa è divisa nell’atteggiamento da assumere verso Ankara, con Grecia e Francia che, al contrario di Italia, Germania e Spagna, sono contrarie all’ipotesi di un’apertura. Gli esiti dell’incontro di oggi verranno esaminati nel prossimo vertice Ue di giugno, e c’è da scommettere su quale sarà l’atmosfera. Russia. Navalnyj: “Ho febbre e tossisco, in carcere epidemia di tubercolosi” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 6 aprile 2021 La denuncia dell’attivista anti-corruzione detenuto in sciopero della fame. Il quotidiano “Izvestia”: “È stato ricoverato e sottoposto a test anti-coronavirus”. Dopo che oggi aveva denunciato di avere febbre alta e tosse, l’oppositore russo Aleksej Navalnyj è stato trasferito nel reparto medico della colonia penale Ik-2 di Pokrov, a circa 100 chilometri da Mosca, dove sta scontando una pena detentiva di due anni e mezzo, ed è stato sottoposto a diversi test, tra cui quello per il coronavirus, secondo quanto riportato dal quotidiano Izvestia. La scorsa settimana l’attivista anti-corruzione 44enne aveva iniziato lo sciopero della fame chiedendo la visita di un medico esterno e lamentando dolore acuto alla schiena e alle gambe. In precedenza aveva dichiarato che nel suo reparto carcerario era in corso un’epidemia di tubercolosi scherzando che ammalarsi gli avrebbe potuto offrire sollievo dai suoi disturbi dal momento che almeno tre persone erano state ricoverate in ospedale. “Se ho la tubercolosi, forse scaccerà il dolore alla schiena e l’intorpidimento alle gambe. Sarebbe bello”, ha scritto su Instagram. Benché non abbia accesso a Internet, Navalnyj pubblica regolarmente sui suoi profili social, ma i suoi avvocati si rifiutano di spiegare come riesca. Navalnyj aveva detto che la sua temperatura corporea era di 38,1 gradi Celsius (100,6 gradi Fahrenheit). Ha anche detto che aveva una brutta tosse. Ore dopo, Izvestia, giornale pro-Cremlino, ha citato una dichiarazione del servizio carcerario federale dicendo che Navalnyj era stato trasferito nel reparto malati per essere sottoposto a diversi test, tra cui il coronavirus. Il reparto dov’è ricoverato Navalnyj si troverebbe sempre presso la colonia penale IK-2 a 100 chilometri a Est da Mosca, dove è detenuto, ha riferito uno dei suoi legali a Tv Dozhd. Da quando è in carcere, Navalnyj avrebbe perso otto chili. “Secondo i documenti della colonia penale, quando è arrivato pesava 93 chili, ora 85: ha perso 8 chili prima dello sciopero della fame”, si legge sul suo profilo Telegram. Navalnyj ha anche denunciato le autorità carcerarie di privarlo del sonno svegliandolo otto volte a notte e di rifiutarsi di prestargli cure mediche adeguate. Non solo. Da quando è detenuto, avrebbe ricevuto “sei ammonizioni in due settimane” e rischierebbe perciò di essere rinchiuso in una cella d’isolamento. Vittima lo scorso agosto di un avvelenamento con l’agente nervino Novichok e trasferito in Germania in stato di coma, dopo cinque mesi di convalescenza, è rientrato in Russia lo scorso gennaio ed è stato arrestato subito dopo l’atterraggio. In febbraio è stato condannato a due anni e mezzo di prigione per un caso di frode del 2014 che la Corte europea dei diritti umani ha definito “politicamente motivato”. Egitto. Nuova udienza per Patrick Zaki, il legale: “Non credo lo scarcerino” di Laura Cappon Il Domani, 6 aprile 2021 Oggi si è tenuta una nuova udienza per il rinnovo della custodia cautelare. Domani il verdetto. Il suo avvocato: “Sta male psicologicamente, chiesta la sostituzione dei giudici. Ma a mio avviso non lo rilasceranno”. Se si esclude la mozione presentata dalla difesa, il copione di queste udienze si ripete ancora una volta e senza variazioni da più di un anno. Patrick Zaki è estremamente provato dalla sua detenzione e versa “in un pessimo stato psicologico”. Lo ha detto all’Ansa la sua avvocata, Hoda Nasrallah, al termine dell’udienza per il rinnovo della custodia cautelare tenutasi oggi nell’aula bunker del carcere di Tora al Cairo. L’esito però non è ancora certo e sarà necessario aspettare almeno 24 ore. Ma Nasrallah rimane pessimista circa l’esito finale: “Non credo lo rilasceranno, visti tutti questi rinnovi”, ha proseguito. La difesa, intanto, ha chiesto di sostituire il collegio giudicante ritenendo i rinnovi una sorta di accanimento: per sapere se la richiesta verrà accettata bisognerà attendere domani, se non addirittura mercoledì. Di fronte alla corte (che come di consueto esaminava centinaia di altri casi di detenzione temporanea simili a quello di Patrick) era presente anche una delegazione di diplomatici di Francia, Stati Uniti e Canada, assieme al rappresentante dell’ambasciata italiana al Cairo. Come già avvenuto nelle altre udienze, la delegazione ha depositato delle comunicazioni scritte per esprimere il suo interessamento al caso. Se si esclude la mozione presentata dalla difesa, il copione di queste udienze si ripete ancora una volta e senza variazioni da più di un anno. Dopo i primi cinque mesi di udienze, durante i quali i rinnovi di detenzione erano quindicinali, ora il fascicolo di Patrick è entrato nella fase dei prolungamenti di 45 giorni. A nulla sono servite le richieste avanzate nelle scorse udienze perché a Zaki fosse almeno permesso di visitare il padre, ricoverato a fine febbraio in ospedale e ora in convalescenza nella casa del Cairo. Anche la salute del giovane è sempre più provata dall’asma e dalle allergie che si sono acuite a causa delle recenti tempeste di sabbia che si sono abbattute sulla capitale egiziana. Continua a dormire per terra perché nel carcere di Tora non ci sono letti e ha pochissimi libri a disposizione. Inoltre, come confermato da fonti vicine alla famiglia, nelle scorse settimane, un suo compagno di cella ha avuto sintomi da Covid-19 ma non è stato sottoposto a tampone molecolare. Patrick è nelle mani delle autorità egiziane da ormai 421 giorni. Era il 7 febbraio del 2020 quando fu prelevato da alcuni agenti della National Security Egiziana dall’aeroporto del Cairo mentre tornava da Bologna, la città dove stava frequentando un master in studi di genere. Durante le prime 24 ore di detenzione è stato torturato e tenuto in un edificio della National Security senza che gli fosse permesso di avere contatti con gli avvocati o con i suoi familiari. È riapparso l’8 febbraio nel commissariato di Mansoura e, dopo alcuni trasferimenti, da circa un anno si trova recluso nel carcere di Tora, nell’ala dedicata ai detenuti in attesa di giudizio. Le accuse per il giovane ricercatore - le più gravi sono associazione terroristica e propaganda sovversiva - sono state spiccate sulla base di alcuni post Facebook che la difesa non ha mai potuto visionare. I suoi avvocati hanno sempre puntualizzato che il profilo social citato dalla Procura non è quello del giovane studente ma un fake: quello usato dal ragazzo è Patrick Zaki, mentre le autorità riferiscono di un account a nome di Patrick George Zaki. I post sui social non sono l’unica prova contestata dalla difesa. C’è anche la perquisizione messa a verbale dalla procura e avvenuta a Mansoura nel settembre del 2019. Secondo le poche pagine che i legali hanno a disposizione, la polizia si sarebbe presentata nella casa di famiglia di Patrick, mentre il giovane ricercatore era già a Bologna, e avrebbe setacciato la sua camera alla presenza della madre. Ma la famiglia Zaki vive da diversi anni al Cairo e nel settembre del 2019 era impossibile che nella casa di famiglia ci fosse qualcuno. Qualunque prova a carico presentata dalla procura non è tuttavia contestabile dalla difesa sino a quando non ci sarà un processo. Intanto, in Italia continua la campagna per la sua liberazione. Lo scorso mese, 58 parlamentari della Camera dei deputati hanno firmato una mozione per chiedere al Governo italiano di “adottare le iniziative di competenza per il conferimento della cittadinanza italiana” mentre la petizione online per la concessione a Patrick Zaki della cittadinanza italiana per meriti speciali ha ormai superato le 187 mila firme. Sul caso si è pronunciato anche il segretario del PD Enrico Letta che in un tweet prima dell’udienza ha rinnovato la richiesta di rilascio per il giovane egiziano. Il Brasile di Paulo Freire di Paolo Vittoria Il Manifesto, 6 aprile 2021 Intervista. Parla Frei Betto, il frate domenicano, teologo della liberazione, educatore e militante politico. “A settembre, saranno 100 anni dalla nascita del pedagogista e teorico: l’educazione popolare può ancora rendere gli oppressi protagonisti della scena sociale”. Il frate domenicano che si ribellava alla dittatura militare e fu fatto prigioniero negli anni Settanta oggi è educatore, militante politico, teologo della liberazione, scrittore. Frei Betto, uno dei maggiori intellettuali del Brasile, ci rende testimoni di percorsi storici e della necessità politica dell’educazione popolare ispirata da Paulo Freire, come metodo di superamento dell’ideologia del capitalismo. Le prime esperienze di educazione popolare in Brasile sono sorte dai movimenti di resistenza contro la dittatura militare. Anche il carcere divenne un luogo di sperimentazione. Che memoria ha di quell’epoca? Nel mio caso, ho trascorso quattro anni di prigionia, due con i carcerati politici e due con quelli comuni. Con i detenuti comuni abbiamo fatto esperienze di educazione popolare mediante il teatro, i circoli di lettura, l’artigianato e la pittura. Già al tempo, ci ispiravamo alla metodologia ideata da Paulo Freire. A settembre prossimo, ricorreranno i cento anni dalla sua nascita ed è giusto ricordare come l’educazione popolare, da lui introdotta, abbia ancora intatte le potenzialità di rendere gli oppressi protagonisti sociali e politici. Credo che sia anche merito di Paulo Freire se, in un paese elitario come il Brasile, dove i banchieri sono perfino più ricchi di quelli europei, un sindacalista metallurgico, come Lula, sia diventato presidente della Repubblica, eletto per due mandati. Grazie a Freire, molti leader popolari sono diventati importanti protagonisti politici. Attualmente, continuiamo a lavorare con il suo metodo, più o meno apertamente, ma non tutti si rendono conto della qualità di questo approccio. Quale aspetto, in particolare, della pedagogia di Freire si è rivelato il più utile? Partire dal contesto degli educandi, come faceva Freire nell’alfabetizzazione mediante le cosiddette parole generatrici che emergevano da un processo dialogico basato su situazioni concrete. Si iniziava da lì e dalla narrazione dei carcerati, perfino da quali crimini avevano commesso. Evidentemente, non tutti erano disposti a parlare, ma alcuni descrivevano anche dettagliatamente e funzionava quasi come una terapia di gruppo. Erano impressionanti gli effetti, nei gruppi di teatro, di quella metodologia che contestualizzava la loro vita, stimolando ognuno a riflettere sulle proprie azioni, le conseguenze e le cause. Ho rielaborato le analisi indotte da Paulo Freire anche quando sono uscito dalla prigione e ho iniziato a lavorare coi movimenti popolari. Con i detenuti, le comunità di base, i sindacati, la pastorale operaia, è importante superare la bassa autostima - molti non hanno avuto l’opportunità di studiare - promuovendo la coscienza di avere una cultura che spesso neanche astrofisici, chimici, grandi ingegneri, avvocati possiedono. Esistono culture distinte, ma socialmente complementari. Il dialogo accresce le culture in modo dialettico, reciproco, facendo in modo che ognuno impari dall’altro… Le masse hanno la percezione della vita come mero processo biologico: nasco, faccio parte di una famiglia, studio, mi sposo, ho figli, lavoro per sostenere la famiglia. Il capitalismo si basa su questo ciclo biologico di riproduzione economica che si riduce al produrre e consumare. L’educazione popolare “traghetta” dalla massa al popolo, dalla percezione della vita come ciclo biologico a ciclo biografico: faccio parte di una famiglia, che riguarda una determinata classe, inserita in un contesto, in un congiunto internazionale, che ci pone alcune questioni. Il dialogo è fondamentale per promuovere questa coscienza storico-biografica di un processo politico, sociale ed economico, che è la propria vita. Che valore ha questo processo oggi? Sono stato per due anni nel governo Lula (2003-2004) nel programma “Fame Zero” e oggi direi a malincuore che ci siamo distanziati dalla base popolare. C’è un principio freiriano molto importante per l’epistemologia: la testa pensa dove stanno i piedi, ossia quando cambiamo luogo sociale cambiamo anche quello epistemico. Uscire dal contatto diretto con le basi popolari e iniziare a convivere nei corridoi dei “palazzi”, ha avuto come conseguenza la scarsa coscienza dell’importanza dell’educazione popolare. Penso che uno degli errori della sinistra latinoamericana sia stato quella di aver abbandonato quel lavoro con i settori più poveri. In Brasile si dice che la sinistra si unisce solo in prigione, ed è vero. Quando abbiamo conquistato governi democratico-popolari, abbiamo trascurato periferie, favelas, zone rurali. C’è stato uno scollamento che ha propiziato il fatto che gli spazi popolari fossero occupati da ideologie fondamentaliste, autoritarie, schiave del narcotraffico e di false credenze generate dal populismo. Il fenomeno crescente del populismo ha dato spazio a una violenta persecuzione ideologica contro il pensiero di Freire… Credo che lo strumento più brutale della destra per perseguitare il suo pensiero sia quello delle fake news e del negazionismo che si è diffuso fin da quando Bolsonaro - lo chiamo “Bolso-nero” - ha assunto la presidenza della Repubblica. Il negazionismo non riguarda solo il Covid, ma elementi della nostra storia, come il valore del pensiero di Paulo Freire o perfino l’esistenza della dittatura militare. Chi la nega ignora che Freire trascorse più di 15 anni in esilio o storie come quelle di Frei Tito, morto dopo terribili torture, e Frei Fernando che scrisse un diario dalla prigione su fogli di seta. Il negazionismo è frutto dell’impoverimento culturale e dell’indebolimento di movimenti popolari, ma anche dell’ideologia del consumo, non è così? Certo, questi processi di analisi critica sono fondamentali per comprendere l’essenza del sistema capitalista. Non si può prescindere dalla filosofia di Marx, - a mio avviso distorta da molti, soprattutto negli aspetti religiosi - nell’interpretare criticamente il capitalismo aprendo le finestre per il suo superamento. Ci sono tentativi di umanizzare, migliorare il capitalismo, ma sono intra-sistemici ed è come carezzare i denti dello squalo, illudendosi di eliminarne l’aggressività. Il capitalismo è intrinsecamente disumano perché la priorità, il valore numero uno è l’appropriazione privata della ricchezza che offre la libertà a pochi di possedere molto e impedisce a molti di avere qualcosa. Se vogliamo cambiamenti concreti in America Latina bisogna tornare al lavoro di base dell’educazione popolare. La trasformazione avviene solo se i settori popolari si organizzano e si mobilitano per andare oltre questo sistema che genera povertà, miseria, fame, diseguaglianza, esclusione, con tutte le conseguenze dal punto di vista della distruzione umana e ambientale.