“Fuori i malati psichiatrici dalle carceri” politicamentecorretto.com, 5 aprile 2021 L’appello del Partito Radicale rivolto alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia e al Ministro della Salute Roberto Speranza sta raccogliendo adesioni e tra i primi firmatari compaiono Maria De Filippi, autrice e conduttrice televisiva, e l’avvocato Annamaria Bernardini de Pace. “Il problema della salute mentale in carcere, oggi rilanciato dalla vicenda che riguarda Fabrizio Corona e che coinvolge da ben prima di lui migliaia di altri cittadini, esige una vostra urgente e concreta risposta”, si legge nell’appello cui hanno aderito personalità del mondo della scienza, del giornalismo, della politica e della cultura. “Nei 109 istituti di pena italiani il 78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica”, spiega il Partito Radicale che snocciola alcuni dati. “Non ce ne sono di ufficiali ma grazie al lavoro del terzo settore e dei sindacati di polizia penitenziaria si è a conoscenza che oltre il 50% dei detenuti assumono psicofarmaci. I dati ci dicono che i detenuti con dipendenze da sostanze psicoattive rappresentano il 23,6%, con disturbi nevrotici il 18%, il 6% con disturbi legati all’abuso di alcol e il 2,7% con disturbi affettivi. Dall’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone del 2020 risulta che, nei 98 istituti visitati, il 27% dei detenuti è in terapia psichiatrica (Spoleto il 97%, a Lucca il 90%, a Vercelli l’86%) e il 14% dei detenuti è in trattamento per dipendenze”. “Noi sottoscritti - si legge a conclusione dell’appello - riteniamo che occorre far prevalere l’interesse del malato, noto ed ignoto, che non può essere garantito all’interno delle mura di un carcere e vi chiediamo che vengano messi a disposizione i dati necessari nei portali istituzionali atti a completare la fotografia reale della situazione della patologia psichica in carcere, e che si adottino con la massima urgenza misure per il trasferimento dei malati psichici in strutture e servizi territoriali/residenziali curativi alternativi al regime detentivo”. “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” di Cosimo Rega La Stampa, 5 aprile 2021 Mi chiamo Cosimo Rega, da qualche anno ho superato i sessanta, di cui circa 40 trascorsi nelle carceri italiane condannato a un fine pena mai. Il motivo? Sono un ex camorrista, mi piacerebbe aggiungere “ex assassino”. Ma questo lo sarò per sempre. Convivere con questa consapevolezza è la giusta condanna che mi accompagnerà per il resto dei miei giorni. Avevo da poco superato i 20 anni, quando mio padre alla giovane età di 44 anni, a causa di una malattia ci lasciò per sempre. Io il primo di nove figli, confuso, presuntuoso, privo di qualsiasi istruzione, accompagnato dalle mie fragilità, posseduto dalla voglia di apparire, come un giovane puledro senza redini ho iniziato a correre la grande prateria fino a che ho smarrito la retta via. Il guadagno facile, l’illusione e il desiderio di essere temuto e rispettato da tutti, i beni materiali, mi accecarono al punto di dimenticare uno dei sentimenti della mia rinascita: l’amore. L’amore di mia moglie. E dei miei due figli, allora in tenera età. Il mio carattere impulsivo, ribelle, per oltre 20 anni mi ha portato a valicare le soglie di tutte le carceri della penisola. Ero fiero, il carcere era il mio habitat naturale, e mentre mi cullavo nella vanagloria, non mi accorgevo della sofferenza che erano costretti a vivere mia moglie e i due figli. La loro unica colpa è stata di non aver mai, mai, smesso di amarmi. Avevo ormai raggiunto i 40 anni quando ho affrontato per la prima volta la Corte Di Assise. Dovevo rispondere dall’accusa di due omicidi. Ero preparato alla sentenza. Non avevo mai voluto collaborare. Mi accusava il mio migliore amico. Era lì seduto a pochi metri da me. Cercavo il suo sguardo, lo stesso che mi aveva implorato di uccidere al posto suo. Ma la rabbia e l’odio che avevo covato dentro fino ad allora erano solo un ricordo. Guardai i figli dell’uomo che avevo ucciso. Il loro sguardo era semplice, pulito, non ascoltavano la sentenza. Fissai mia moglie, il suo viso perfetto di marmo, solo le palpebre tradivano la sua paura. Come l’attore che recita un copione aspettavo, consapevole che non sarei sfuggito alla giusta sentenza degli uomini, a testa alta. Nessun dolore, nessun pentimento quando il Presidente della Corte emise la sentenza: ERGASTOLO. Ero preparato. Poi aggiunse: Perdita della potestà genitoriale. Cancellazione dall’albo del Comune di residenza. Perdita dei diritti Civili. L’affissione della sentenza nella bacheca del Comune e sul quotidiano locale. Isolamento diurno per un anno. A questo non ero preparato. Per la prima volta mi piegai sui dorsali. Quel piccolo codicillo non solo aveva cancellato il mio apparire, ma anche il mio essere. Ero un numero. Ritornai al carcere con uno stato d’animo sconosciuto. Durante la notte non chiusi occhio. Quel codicillo, quelle poche frasi mi tormentavano l’animo e il cervello. Decisi di rivedere i miei familiari solo dopo 15 giorni. Avevo il colloquio all’area verde. Un posto lontano da orecchie indiscrete. I loro sguardi erano ancora pieni di speranza quando li incrociai. Avevo già deciso. Raccontare loro tutte le verità. Un velo trasparente scese fra noi. Leggevo nei loro occhi la delusione. Ero smarrito. Mai un colloquio era stato così interminabile. Ci salutammo, ma c’era qualcosa di diverso. Rimanemmo per pochi minuti io e mia moglie. Il suo sguardo mi penetrò l’animo. Come è possibile che tu abbia fatto questo? Mi chiese. Come hai potuto uccidere, tu? Sei libera, le risposi. Fatti una vita. Sei ancora giovane e bella. Ti concedo già da adesso il divorzio. Mi guardò con uno sguardo che non le apparteneva, una luce diversa, decisa forte, disse: “Pensi veramente che un muro di cinta possa dividere la nostra famiglia?”. Quella è stata la sentenza più dura che potessi ricevere. Ho iniziato un lungo viaggio dentro di me. Un viaggio per conoscermi e di conoscenza. Sono passati da allora altri venti anni. Ho studiato, ho scritto, ho tradotto in napoletano Shakespeare e recitato. Ho portato sulle tavole del palcoscenico Eduardo De Filippo, Dante e tanti altri ancora. Ho avuto la fortuna e l’onore di far parte del cast di “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani. Ero Cassio. L’arte la cultura l’amore dei miei, il dialogo con le Istituzioni, hanno completamente cambiato e schiarito i miei orizzonti. Ho la consapevolezza di cosa è il male, e di quello che ho inflitto. Oggi sono nonno di tre nipotini. I miei figli grazie a mia moglie, che ha svolto il ruolo di madre e di padre, hanno saputo reagire con lo studio e il lavoro al pregiudizio di essere i figli dell’ergastolano. Damiano, questo è il nome di mio figlio, è sposato con un avvocato, ha due gemelli, è responsabile del settore Design di Ermenegildo Zegna a Ginevra. Sabrina, mia figlia convive felicemente con un ex calciatore, ha un figlio e vive a Roma. Siamo una famiglia molto unita. Io ho ottenuto la semilibertà. Tutte le mattine esco alle 5,30, alle 7,30 sono al mio posto di lavoro presso l’Università di Roma 3 con la qualifica di portiere fino alle 14,00. Dedico sempre alcune aree del pomeriggio al teatro. Recito con professionisti, studenti e detenuti. Ritorno in Istituto alle 23,30. Il sabato e la domenica tutto per la famiglia. Non lo so cosa mi riserva il futuro, ma ho la certezza di conoscermi. Di accettare e amare, non più vittima dell’apparire. Mi sono reso conto di aver creato orfani e vedove, e tanto dolore. Vorrei chiedere perdono direttamente a loro, può darsi che non me lo concedano. Ma devo almeno tentare. Sono consapevole di essere un ex camorrista. Purtroppo assassino lo resterò per sempre. Ma mi sento un uomo fortunato perché ho avuto la misericordia degli uomini. Quella di Dio, non lo so. Foto, video, contatti: così i trojan sequestrano le vite degli altri di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 5 aprile 2021 Non solo intercettazioni, con il virus anche “perquisizioni digitali” mai autorizzate. Il deputato di Azione Enrico Costa ora chiede norme chiare. Sono moltissime le potenzialità del “trojan”, il software spia nato per trasformare il telefono cellulare in un microfono sempre acceso. L’uso del “captatore” informatico, inizialmente previsto solo per i reati associativi e di terrorismo, è stato esteso dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede anche a quelli contro la Pubblica amministrazione. Le indagini della Procura di Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, indagato appunto per corruzione, rappresentano ad esempio uno dei primi casi in Italia di utilizzo di tale strumento investigativo. Un strumento molto “invasivo” su cui è necessario mettere quanto prima dei paletti. Le potenzialità del trojan, come detto, sono tantissime e non tutte al momento regolamentate in maniera chiara dalle norme. Una di queste potenzialità riguarda la possibilità da parte del trojan, una volta installato nel cellulare, di acquisire tutti i documenti contenuti al suo interno. Quindi dai contatti presenti nella rubrica del telefono, alle foto o ai video conservati nella memoria: i cosiddetti “dati statici”. La loro “apprensione”, oggi, avviene di fatto all’insaputa dell’indagato. Il gip, su richiesta del pm, autorizza l’utilizzo del trojan solo per l’ascolto delle conversazioni e non per il sequestro di dati sopra menzionati. “Serve regolamentare lo strumento con una legge che chiarisca bene questi passaggi”, sottolinea l’avvocato romano Stefano Aterno, fra gli auditi in commissione Giustizia alla Camera sul tema degli “ascolti”, e in particolare sul decreto ministeriale che stabilisce le tariffe delle prestazioni richieste dalle Procure alle società private incaricate di trattare il materiale captato. Il punto è che attualmente lo Stato italiano paga tali compagnie anche per attività, come l’acquisizione di foto e rubrica contatti, di fatto illegittime, perché assimilabili a perquisizioni che nessun gip ha mai autorizzato, come spiega Aterno. In pratica il trojan supera il concetto della normale intercettazione divenendo uno strumento altamente invasivo. Le norme, come detto, disciplinano solo le intercettazioni “ambientali itineranti”. Per l’acquisizione di tutto il resto, servirebbe invece un provvedimento ad hoc del magistrato senza il quale non è possibile acquisire i documenti contenuti nel telefono cellulare. Questo, però, teoricamente. La Cassazione, fino ad oggi, in tali casi ha parlato di “prova atipica” che, non essendo disciplinata dalla legge, è comunque possibile. Un altro argomento molto delicato riguarda le intercettazioni telematiche tramite flusso di dati. È il caso delle conversazioni effettuate mediante gli applicativi WhatsApp, Telegram o Signal. Sono conversazioni “cifrate” che non vengono ascoltate come le normali intercettazioni telefoniche. In soccorso arriva sempre il trojan che, oltre a prendere tutta la messaggistica salvata nella memoria del cellulare, riesce ad intercettare anche la conversazione. Più precisamente ascolta la chiamata effettuata dal soggetto nel cui cellulare è stato installato il captatore. La conversazione viene registrata per intero se si utilizza il vivavoce, e quindi accedendo al microfono del telefono. Ecco quindi l’invito rivolto alla commissione Giustizia da parte dell’avvocato Aterno, e che il deputato di Azione Enrico Costa ha già dichiarato essere pronto a far proprio con emendamenti ad hoc al testo in discussione circa le modifiche al decreto 161 del 2019 la riforma che ha introdotto “modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni”. Nella nuova previsione normativa la questione della captazione da remoto o “perquisizione occulta” di documenti o altri dati che non rientrano nel concetto di “comunicazioni” o “comportamenti comunicativi” dovrà essere ben esplicitata. Essendo possibile con il captatore acquisire da remoto documenti e file, andranno previste le opportune garanzie difensive. Ad esempio, la notifica all’indagato dell’atto di perquisizione classico. Questa attività di perquisizione o ispezione informatica oggi, invece, non è oggetto del ricordato decreto 161 proprio per mancata previsione da parte del legislatore. Servirà, allora, prevedere in futuro tali mezzi di ricerca della prova (con le opportune garanzie difensive come la notifica ritardata del provvedimento) al fine di evitare che la giurisprudenza ricorra ancora al concetto di “prova atipica” per legittimare attività con il captatore molto più simili alle ispezioni e alle perquisizioni piuttosto che alle intercettazioni. Per questo tipo di attività di captazione informatica e per il suo tentativo di regolamentarlo da tempo esiste una proposta che cercò di prevedere un nuovo mezzo di ricerca della prova, attraverso l’introduzione di un articolo 254-ter nel codice di procedura penale in materia di osservazione e acquisizione da remoto. Va infine rilevato che gli strumenti in uso alla criminalità impongono nuove e maggiori tecniche di captazione e di elusione degli apparati di cifratura (ormai con i telefoni Encrochat, cellulari cifrati olandesi BQ Acquaris, per citare solo alcuni, il solo captatore non serve più a nulla essendo necessari nuovi e diversi strumenti di hacking), pertanto è più corretto e, in previsione futura, più efficace parlare di “attività di captazione informatica” al fine di prevedere ed estendere a livello normativo le opportune garanzie menzionate proprio dal Dl 161 anche tutte le altre attività di captazione che la tecnologia rende e renderà possibile nel futuro e che non sono basate solo sul captatore, ma sullo sfruttamento, in generale e in sintesi, delle vulnerabilità di sistema. Ultimo accenno, infine, alle società private che forniscono all’autorità giudiziaria i software spia. Nel loro caso è importante verificare le modalità di gestione del dato acquisito, con un controllo puntuale sui server utilizzati. Oltre che sulle tariffe attualmente previste per servizi non coperti dalla legge. Media e pregiudizi. Così la presunzione d’innocenza viene mortificata di Simona Musco Il Dubbio, 5 aprile 2021 Il Report dell’agenzia dell’Ue per i diritti fondamentali. La presunzione d’innocenza in Italia è fortemente influenzata dai media, dai pregiudizi e dalla presenza delle gabbie nelle aule dei tribunali. È quanto si evince dal report dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (Fra), che ha preso in esame il modo in cui la presunzione di innocenza e i diritti correlati sono applicati all’interno dell’Unione europea. In Italia, si legge nel report, la presunzione d’innocenza è tutelata dalla Costituzione. Ma ciò che manca è l’attuazione pratica di tale principio nei procedimenti giudiziari e sui media. Sono troppe le fughe di notizie e le fonti non ufficiali, che distorcono spesso la verità dei fatti e sviliscono il principio di presunzione d’innocenza. Ma la sfida cruciale, si legge nel report, riguarda la “sproporzionata attenzione” prestata dai media alla fase istruttoria e alla fase iniziale del procedimento, quando i pubblici ministeri “hanno necessità di dimostrare la solidità dell’accusa e di sostenere il coinvolgimento dell’imputato nel caso”. Ma è scarsa l’attenzione riservata allo sviluppo e alla conclusione del procedimento: “Gli imputati, spesso presentati come colpevoli dai media durante la fase delle indagini, non hanno l’opportunità di ripulire la propria reputazione se danneggiata poiché nessuna attenzione viene prestata al risultato del procedimento”, si legge. Per quanto riguarda le indagini, gli avvocati di diversi Stati membri hanno manifestato la convinzione che la polizia si concentri molto di più sulla raccolta di prove a carico che non a discarico. Atteggiamento che, in Italia, gli avvocati attribuiscono anche ai pubblici ministeri. “Le indagini preliminari compromettono il principio della presunzione di innocenza, perché i pubblici ministeri dovrebbero cercare prove a carico dell’imputato ma anche a discarico. Questo è qualcosa che - in 16 anni di esperienza professionale - ho visto molto raramente”, ha sottolineato un avvocato italiano. Per quanto riguarda gli effetti della copertura mediatica sulla presunzione di innocenza, molti avvocati degli Stati membri hanno evidenziato l’importanza della libertà di stampa e il ruolo unico dei media come “cane di guardia” del potere, anche giudiziario, ma la copertura mediatica finisce per incidere sull’equità complessiva dei procedimenti. Se da un lato ciò può risultare vantaggioso, aumentando la trasparenza dei processi, dall’altro i giornali possono esercitare “pressioni” sui tribunali, come ha evidenziato un procuratore portoghese, secondo cui spesso “influenzano l’opinione pubblica senza avere la completa conoscenza di casi penali”. Fenomeno che accade anche in Italia: “Una volta che il sospetto è stato identificato, la presunzione d’innocenza è in qualche modo già violata. Anche se le accuse sono successivamente confutate, è difficile da correggere sui media”, ha testimoniato un giornalista. Il problema principale riguarda gli imputati in custodia cautelare che vengono accompagnati in aula dagli agenti penitenziari e controllati durante l’udienza: alcuni tribunali prevedono percorsi separati, in modo da evitare il contatto con il pubblico e i media. Spesso partecipano in un’area separata dell’aula fornita di sbarre, la cosiddetta “gabbia”. Situazione, questa, che ha un forte impatto sull’immagine pubblica degli imputati e di conseguenza sulla loro presunzione di innocenza. “Il fatto che un imputato sia tenuto in gabbia può generare nella stampa la convinzione della colpevolezza dell’imputato. A volte questa scelta si basa sul pericolo; altre volte l’imputato è trattenuto lì anche un pericolo non c’è”, ha evidenziato un giudice italiano. E la presunzione d’innocenza vale meno quando l’imputato è accusato di reati di mafia. “I processi veloci sono un falso mito”, intervista al professor Orazio Abbamonte di Viviana Lanza Il Riformista, 5 aprile 2021 Avvocato e docente universitario, Orazio Abbamonte è uno storico del diritto e tra i più stimati amministrativisti. Il Tar e il Consiglio di Stato veramente costituiscono un problema per l’efficienza degli appalti pubblici? “Non ho difficoltà a rispondere. Per beneficio del lettore, devo chiarire di farlo da avvocato amministrativista, vale a dire dal lato di chi ha il compito di far valere ragioni di parte davanti ad un giudice. E le ragioni di parte non sono affatto necessariamente ‘partigiane’; anzi, sono spesso quelle più genuine (non incrostate di potere), quelle che vengono da aspirazioni frustrate dall’Amministrazione, che troppo di frequente devia dai suoi fini per i motivi più vari, quasi mai difendibili in un aperto confronto. Quelle dell’Amministrazione sono ragioni che si fanno forti del potere”. Dove si annidano le principali criticità del sistema? “Credo, nella banalizzazione di alcuni seri problemi, in un populistico pregiudizio che ha creato due gravi conseguenze. Anzitutto: è stato introdotto un rito speciale (tutto quanto è speciale è contro la linearità del diritto) a servizio dei contratti pubblici. I processi che li riguardano normalmente s’esauriscono nello spazio di pochi mesi: ‘efficientissimi’. Tutti gli altri giudizi, spesso e volentieri s’esauriscono per stanchezza di chi li ha introdotti dopo lustri. Quando arriva la sentenza - se arriva, e non è detto - non interessa più a nessuno. Insomma, avrebbe detto non sbagliando un vetero-marxista, una giustizia borghese, per privilegiati”. Almeno garantisce l’efficienza degli appalti? “E questo è il secondo effetto della banalizzazione populistica. In un certo senso, si realizza efficienza. Ma bisogna intendersi sul concetto di efficienza. Se efficienza è arrivare - come che sia - a un risultato, non posso negare che la giustizia amministrativa (per i soli appalti) a questo giovi. Se nell’area del concetto di efficienza c’immettiamo anche legalità e trasparenza - due valori per i quali si lottò con sangue asperso per lo Stato di diritto - non mi sentirei di dirlo. Tutto questo sciocco correre solo dietro tempi brevi, si risolve in un dato di comune esperienza per chiunque bazzichi le aule della giustizia amministrativa: quando si difende un’aggiudicazione, si vince facile. Quando si cerca di far valere l’illegalità di un’aggiudicazione, è necessario scalare montagne: in genere si precipita in crepacci. Più che efficienza, la definirei diritto tribale: un diritto che si pone a servizio dello stato di fatto. I disincantati napoletani da sempre dicono: “Articolo quinto, chi tiene in mano ha vinto”. Quali soluzioni bisognerebbe attuare per migliorare la giustizia amministrativa e snellire le procedure che incidono sulla crescita economica del paese? “Anzitutto, dovrebbe prevalere molto più la sostanza sulle forme. La gran parte dei giudizi amministrativi si risolvono sull’interpretazione di parole: vale a dire su verbalismi, cui non corrisponde alcunché di vero rispetto a quel che poi si sperimenta nell’esecuzione degli appalti. Lo sanno tutti, le cose vanno da una parte, il diritto dall’altra. In secondo luogo, si dovrebbe capire che la Civiltà - culturale e giuridica - non può risolversi nella sola celerità: gli animali azzannano la preda; gli uomini, che anelino a distinguersi dalle bestie, danno spazio anche ad altro. Altro è rispetto delle regole, valorizzazione dei meriti, cura dell’interesse generale. Vasto programma, avrebbe detto il generale de Gaulle: ne va, appunto, del processo di civilizzazione”. Giovanna Ollà (Cnf): “Da rifare le norme sul collasso digitale o sarà il caos negli uffici” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 5 aprile 2021 La coordinatrice della Commissione diritto penale del Cnf: “Le misure introdotte con il decreto Covid non rispondono adeguatamente ai malfuzionamenti del portale telematico nel penale”. “L’avvocatura resta vigile sul fondamentale tema dell’esercizio del diritto di difesa e provvederà alla elaborazione di proposte emendative in sede di conversione del decreto legge”. Giovanna Ollà, consigliera del Cnf e coordinatrice della commissione Diritto penale, è chiara nell’indicare la rotta dopo il varo del Dl 44/ 2021. La misura in vigore dal 1° aprile viene incontro ai penalisti? Se da una parte si riscontra positivamente, e di questo va ringraziata la ministra Marta Cartabia, la “presa in carico”, in un atto normativo, delle numerose segnalazioni relative alle criticità del funzionamento del Portale per il processo penale telematico, dall’altra si evidenzia che la soluzione prospettata nell’articolo 6 del Dl non appare in realtà risolutiva del problema. Va però considerata positivamente la precisazione che anche con riferimento agli atti penali per i quali vige l’obbligo di deposito tramite portale, la norma preveda che il deposito si intende tempestivo quando è eseguito entro le ventiquattro ore del giorno di scadenza del termine. Nel decreto si fa riferimento al “malfunzionamento del portale”. La locuzione si presta a diverse interpretazioni? Dall’analisi del provvedimento emergono forti perplessità. Il comma 2 bis in buona sostanza tipizza, nel malfunzionamento del portale accertato dal Dgsia, una causa di forza maggiore rilevante ai fini della rimessione in termini. Il dato è positivo nella misura in cui non lascia spazio a interpretazioni discrezionali in sede di richiesta di rimessione. Del resto va detto che, pur in assenza della specificazione normativa, difficilmente si sarebbe potuta escludere la causa di forza maggiore a fronte dell’accertato malfunzionamento di un sistema previsto dalla legge come obbligatorio per il deposito di una determinata tipologia di atti. Il decreto legge lascia irrisolti alcuni problemi? Non può non rilevarsi come l’integrazione normativa non soddisfi e non risolva le numerose criticità, ancora oggi esistenti e dettagliatamente segnalate dalle componenti istituzionali e associative della avvocatura, e che non riguardano il generale malfunzionamento del portale e accertato in quanto tale dal Dgsia, ma tutte le difficoltà incontrate dagli avvocati al momento del deposito, dal ritardo nella presa in carico al rifiuto spesso senza indicazione dei motivi. L’avvocatura aveva suggerito a via Arenula una sospensione dei depositi telematici... Esatto. È stata richiesta la sospensione per un periodo dell’obbligatorietà del deposito tramite portale, in attesa di un adeguato periodo di sperimentazione che sarebbe servito alla soluzione delle numerose criticità. La Fondazione italiana per l’innovazione forense, attraverso la vicepresidente Carla Secchieri, aveva elaborato una serie di correttivi idonei alla risoluzione di alcuni problemi. Ma il “doppio binario” è correttamente definito? Non nei termini in cui l’avvocatura lo aveva richiesto. La norma, anche nei casi di malfunzionamento del portale accertato dal Dgsia, prevede il deposito analogico ovvero cartaceo, solo previa autorizzazione della autorità giudiziaria. La formulazione della norma sembra smentire la necessità di limitare gli accessi alle cancellerie, che rischiano invece di moltiplicarsi, dovendo verosimilmente il professionista recarsi di persona a depositare l’istanza di autorizzazione al deposito analogico e poi, una volta autorizzato, recarsi per depositare l’atto. La norma suscita perplessità anche in merito alle tempistiche dell’autorizzazione che potrebbe pervenire ad atto scaduto, rendendo così inutile lo sforzo normativo finalizzato a garantire il deposito tempestivo e a evitare la procedura di rimessione in termini. Vi aspettavate qualcosa in più quindi? Sarebbe stato meglio consentire, quantomeno nel caso di malfunzionamento accertato del portale, la generalizzata possibilità di deposito analogico, in modo da evitare l’inutile procedimentalizzazione che si verifica con il passaggio autorizzatorio. È prevista altresì la possibilità di autorizzazione al deposito di singoli atti in formato analogico, per ragioni specifiche ed eccezionali. L’indicazione normativa, evidentemente rivolta alle problematiche diverse dal malfunzionamento del portale accertato dal Dgsia, apre tuttavia la strada a una pericolosa procedimentalizzazione della fase autorizzativa, rimessa alla discrezionalità delle diverse autorità giudiziarie. La conseguenza è un rischio di “giurisprudenze” contrastanti nei diversi uffici giudiziari. Csm, le tensioni su Lanzi legate alle verifiche sui pm di Milano di Simona Musco Il Dubbio, 5 aprile 2021 Luca Palamara verrà audito presto in Commissione Antimafia. E l’Ucpi si schiera con Lanzi e il collega Rampioni, difensore dell’ex pm. Non è chiaro chi, a Piazza dell’Indipendenza, abbia messo sul tavolo della discussione le nomine alla Procura di Milano. Quel che è certo è che la questione ha suscitato non poche tensioni. E il caos che si è scatenato attorno al consigliere laico Alessio Lanzi, passato dalla prima alla quinta commissione dopo il suo “inopportuno” - così è stato definito dal Comitato di presidenza del Csm - incontro con l’avvocato di Luca Palamara, Roberto Rampioni, secondo alcuni, potrebbe nascere proprio dalle differenti posizioni attorno a questo delicatissimo argomento. Che ora si arricchisce di un’ulteriore ipotesi, lanciata ieri dal quotidiano Domani: la possibilità che sul procuratore Francesco Greco sia stato aperto un fascicolo per incompatibilità ambientale. Il nodo centrale riguarda la nomina dei procuratori aggiunti a Milano. Nel corso dell’audizione dello scorso 25 marzo, la presidente della prima commissione, Elisabetta Chinaglia, ha chiesto all’ex presidente dell’Anm Palamara se fosse stato il procuratore Greco a suggerirgli i nomi delle persone da nominare. Domanda alla quale l’ex pm ha risposto negativamente: le nomine, ha ribadito, sono avvenute sulla base degli accordi con le correnti, a Milano come altrove. L’interlocuzione con Greco, dunque, avrebbe riguardato altro. Ma l’insistenza, nel corso dell’audizione, sulla procura di Milano c’è stata ed è stata evidente a tutti. La tensione, nei dintorni del Palazzo di Giustizia meneghino, è alta. E gli strascichi della sentenza Eni, con il botta e risposta tra Procura e Tribunale, poi sedato da una nota congiunta, sono la prova che qualcosa, negli uffici di via Freguglia, non va. E a pochi mesi dal pensionamento di Greco - che lascerà il 12 novembre prossimo e per la cui poltrona sono già in fila, tra gli altri, Nicola Gratteri e Paolo Ielo - la prospettiva di un procedimento per incompatibilità ambientale appare, ai più, inutile. Quel che è certo, allo stato attuale, è che al plenum del Csm non è arrivata alcuna comunicazione da parte della procura generale della Cassazione: improbabile, dunque, che si possa parlare di un procedimento disciplinare a carico del procuratore. Ma in prima commissione, quella deputata alle procedure di incompatibilità, è in corso una fase di pre-istruttoria su tutte le chat di Palamara, ovvero un faldone contenente 60mila conversazioni che riguardano circa cento magistrati. Alcuni orientamenti sono già chiari: per alcuni magistrati si va verso l’archiviazione de plano, per altre pratiche più complesse potrebbe arrivare la richiesta d’archiviazione da sottoporre comunque al plenum, ma senza troppe difficoltà. Altri casi, invece, risultano ben più complicati. I tempi, dunque, sono lunghi. E un possibile fascicolo su Greco - alcune fonti parlano già di “fase istruttoria” - richiederebbe, comunque, una lunga analisi, che potrebbe arrivare a ridosso del pensionamento. Ma dall’audizione del 25 marzo, stando alle informazioni trapelate, nessun elemento fornito da Palamara porterebbe sostegno a tale tesi. L’ex pm, nei prossimi giorni, sarà audito anche dalla commissione parlamentare Antimafia in una data “che verrà stabilita quanto prima”, ha annunciato il presidente della commissione Nicola Morra. Dal canto suo, Palamara ha già annunciato di essere “a disposizione di tutte le istituzioni”. Ma trattandosi di “argomenti delicati”, l’ex capo dell’Anm ha suggerito l’opportunità di avere di fronte “il legittimo contraddittore, per vedere in che modo avere un confronto, per vedere se il racconto che io faccio, ad esempio, su come si sono svolte determinate nomine, sia vero o no”. La vicenda Lanzi ha intanto suscitato la reazione dell’Unione delle Camere penali. Che “censura” l’iniziativa che ha determinato il suo addio alla prima commissione: “Il componente laico del Csm Alessio Lanzi è stato messo all’indice, sulla stampa”, per l’incontro con Rampioni. Un incontro “tutt’altro che inconsueto tra due amici che si frequentano, si stimano e collaborano, professionalmente ed accademicamente, da decenni”, fissato “ben prima che venisse disposta l’improvvisa convocazione”. Pur non entrando nelle dinamiche del Csm, la Giunta dell’Ucpi ha sottolineato come, ancora una volta, “abbia avuto il sopravvento quella odiosa cultura del sospetto che sempre accompagna l’operato dell’avvocato difensore. La gratuità della illazione e la tetragona indifferenza ad ogni spiegazione alternativa offerta dai due illustri e stimati Colleghi confermano come alberghi anche in Piazza dei Marescialli l’idea malsana che l’avvocato difensore sia sempre complice del proprio assistito, e perciò univocamente sospettabile di operare, in ogni occasione ed in ogni luogo, a tutela di oscuri interessi, indifferente ad ogni regola di correttezza e di legalità”. Palamaragate, il Gip chiede ai Pm di Firenze di non insabbiare la fuga di notizie di Paolo Comi Il Riformista, 5 aprile 2021 “Sussiste senza dubbio” il reato di rivelazione del segreto, gli autori sono stati dei “pubblici ufficiali” e la Procura deve compiere gli “opportuni approfondimenti investigativi” per individuare “i responsabili della indebita propalazione”. È quanto scrive Sara Farini, gip del Tribunale di Firenze, a proposito della fuga di notizie relativa all’indagine di Perugia, rispondendo a una nota dei pm della locale Procura. A distanza di quasi due anni dai fatti, dunque, siamo ancora a questo punto: da Erode a Pilato. I fatti sono stranoti. Il 29 maggio 2019, Repubblica, Corriere e Messaggero pubblicarono la notizia dell’indagine della Procura umbra, gestione Luigi De Ficchy, a carico dell’ex zar delle nomine. “Corruzione al Csm: il mercato delle toghe”, scrisse Repubblica; “Una inchiesta per corruzione agita la corsa per la Procura di Roma”, il Corriere; “L’accusa al pm Palamara complica i giochi per la Procura di Roma”, il Messaggero. Gli articoli erano tutti molto dettagliati. Il pezzo di Repubblica, in particolare, riportava alcuni elementi che erano emersi grazie alle intercettazioni effettuate con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. Ad esempio, i colloqui fra quest’ultimo e Cosimo Ferri, deputato allora del Pd ed esponente di spicco della corrente di destra delle toghe, Magistratura indipendente, relativi alla nomina del successore di Giuseppe Pignatone al vertice della Procura di Roma. Il Corriere, invece, non era bene informato come Repubblica, limitandosi a scrivere che la Procura di Perugia aveva notiziato il Consiglio superiore della magistratura dell’indagine nei confronti di Palamara, ricordando poi che l’ex presidente dell’Anm aveva fatto domanda per diventare aggiunto a Roma. Il giorno dopo, il 30 maggio, Palamara venne perquisito all’alba dal Gico della guardia di finanza. Insieme a lui erano indagati anche l’allora togato del Csm Luigi Spina e il pm romano Stefano Rocco Fava. Il Corriere in edicola quella mattina, recuperando il parziale buco del giorno prima, dava la notizia dei motivi della perquisizione, informando i lettori anche che Palamara negli ultimi mesi era stato costantemente “monitorato” duranti i suoi incontri notturni. Da allora Corriere e Repubblica iniziarono una campagna pancia a terra pubblicando per giorni stralci di intercettazioni ambientali che riguardano anche la sfera privata di Palamara, non trascurando i consiglieri del Csm che avevano partecipato al dopo cena all’hotel Champagne e che poi furono costretti alle dimissioni. Un romanzo a puntate. Il risultato fu che la nomina del procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, a procuratore di Roma, votata in Commissione per gli incarichi direttivi del Csm il precedente 23 marzo e pronta per andare in plenum in quei giorni, saltò, per poi essere definitivamente annullata nelle settimane successive. Vale la pena di ricordare che al Csm vennero, fino alla chiusura delle indagini di Perugia avvenuta il 20 aprile 2020, trasmessi pochissimi atti. Nonostante ciò, il 5 luglio 2019 il Corriere riportò alcuni passi degli interrogatori di Palamara avvenuti il 30 e il 31 maggio davanti ai pm di Perugia. E lo stesso fece Repubblica. Un filone investigativo, poi, finì in tempo reale sui giornali, con le dichiarazioni di alcuni imprenditori che avevano effettuati dei lavori edili, frutto di una presunta corruzione, per un’amica di Palamara. Gli imprenditori erano stati interrogati a giugno del 2019 mentre erano sottoposti ad intercettazione telefonica. Uno di loro verrà risentito a luglio, modificando la testimonianza in modo da renderla più aderente a quanto riportato dai giornali. La Procura di Perugia ha sempre sottolineato che gli atti d’indagine non fossero “ostensibili” per il segreto istruttorio. Il 26 luglio 2019 il pm di Perugia Mario Formisano, titolare del fascicolo insieme alla collega Gemma Miliani, come riportato dalla Verità, affermerà che le fughe di notizie avevano “rovinato l’inchiesta”. Palamara, pur essendo la rivelazione del segreto procedibile d’ufficio, ha presentato lo scorso novembre un esposto alla Procura di Firenze, competente per i reati commessi dai magistrati umbri, chiedendo di svolgere accertamenti. Fra le richieste, il sequestro dei telefoni e l’acquisizione dei tabulati telefonici nei confronti dei “soggetti interessati” alla fuga di notizie: “giornalisti, operatori di polizia, ecc.”. Il gip Farini, con una nota del 27 gennaio scorso, ha respinto, come richiesto dalla Procura, le istanze di Palamara, evidenziando però che non risultano essere mai stati compiuti atti d’indagine per i soggetti “che possono essere venuti in contatto con le notizie segrete”. Da qui, dunque, l’invito alla Procura a “circoscrivere” la platea di questi soggetti e ad effettuare gli “opportuni approfondimenti investigativi”. La tempistica gioca, ovviamente, a favore degli autori della fuga di notizie: dopo due anni i tabulati vengono cancellati per legge dai gestori telefonici. Il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, come si ricorderà, è attualmente sotto disciplinare al Csm per presunte molestie nei confronti della pm antimafia Alessia Sinatra. Napoli. Sorveglianza in tilt, il caso arriva in Parlamento di Viviana Lanza Il Riformista, 5 aprile 2021 Il caso del Tribunale di Sorveglianza napoletano, sollevato dalle Camere penali del distretto di Napoli che ne hanno denunciato lungaggini e criticità, finisce ora all’attenzione della guardasigilli Marta Cartabia. Riccardo Magi, deputato di +Europa e già segretario nazionale di Radicali Italiani, ha presentato un’interrogazione a risposta scritta al ministro Marta Cartabia per sapere “quali iniziative, per quanto di competenza, il Ministero interrogato intenda adottare e in quali tempi al fine di risolvere le criticità relative al Tribunale di Sorveglianza di Napoli e garantire così il pieno rispetto dei principi costituzionali in materia di esecuzione della pena”. In premessa ci sono le denunce e i numeri di un settore in grande affanno. Il quadro emerge dalle cifre del bilancio che annualmente elaborano gli uffici giudiziari in occasione del nuovo anno giudiziario e dalle disfunzioni indicate nel documento firmato pochi giorni fa dai presidenti delle Camere penali di Napoli, Benevento, Irpinia, Napoli Nord, Nola, Santa Maria Capua Vetere e Torre Annunziata. Un documento di denuncia e di ferma presa di posizione e che ha segnato lo strappo tra i penalisti e la neopresidente Angelica Di Giovanni, la quale ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela di tutte le toghe della Sorveglianza. “Il 21 marzo - ricostruisce il deputato Magi nell’interrogazione al Ministro - le Camere penali del distretto di Corte d’appello di Napoli hanno divulgato un documento in cui denunciano le gravi criticità in cui versa il Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Vengono lamentati tempi lunghissimi per la registrazione delle istanze provenienti dai detenuti e dai loro difensori, continui rinvii delle udienze dovuti a carenza o assenza di istruttorie, intempestività dei provvedimenti rispetto al fine pena o alle esigenze degli istanti, ritardi nella decisione delle richieste di detenzione domiciliare per motivi di salute e ulteriori criticità e disfunzioni”. In particolare, la denuncia dei penalisti punta l’attenzione sui ritardi delle decisioni sulla libertà anticipata che arrivano quando ormai il detenuto ha terminato di scontare la pena; sulle attese anche di un anno per la fissazione delle udienze per la concessione di misure alternative a cui spesso si aggiunge il rinvio della prima udienza che va avuto perché il fascicolo è incompleto; su fatto che le istanze per il differimento della pena per i detenuti che hanno problemi di salute restano pendenti per mesi mentre, al di là della valutazione di merito, dovrebbero avere priorità poiché riguardano la salute della persona. “Le gravissime e croniche disfunzioni del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, rese ancora più acute dall’attuale contesto emergenziale, ormai non sono più tollerabili - si legge nel documento firmato dai penalisti - La sistematica, atavica e non più tollerabile compressione dei diritti dei detenuti da parte dell’Ufficio di Sorveglianza di Napoli necessita di risposte ferme e tempestive e di un’assunzione di responsabilità da parte di tutti i protagonisti della giurisdizione”. Nell’interrogazione a Cartabia, Magi sottolinea i dati del bilancio annuale del Tribunale di Sorveglianza: un incremento del 21% delle pendenze con oltre 52mila procedimenti arretrati e una sopravvenienza che risulta la più alta in Italia. Il deputato ricorda anche gli sforzi compiuti dalla ex presidente Adriana Pangia, che è in pensione da pochi mesi e negli anni scorsi ha più volte rappresentato alla politica le criticità e le croniche carenze di organico che affliggono il Tribunale di Sorveglianza napoletano, ma “la risposta - evidenzia Magi - è stata assolutamente insufficiente”. Ci sono vuoti di organico sia tra i magistrati sia, e soprattutto, tra il personale amministrativo fino a scoperture che superano il 40%. “Tale situazione - si legge nell’interrogazione - incide come osservato dalle Camere penali sulla legalità costituzionale della pena e sui diritti fondamentali dei detenuti”, “sul sovraffollamento carcerario che nell’attuale situazione di emergenza sanitaria sta già esponendo i detenuti a un elevato rischio di contagio” e “sulla qualità e utilità dell’esecuzione della pena”. Di qui la richiesta “urgente” di provvedimenti, anche di natura emergenziale. Roma. Il focolaio di Covid a Rebibbia non si arresta: “Il carcere va sfollato” romatoday.it, 5 aprile 2021 L’allarme del sindacato Spp: “Positive 54 detenute e sei agenti”. Aumentano i contagi nel carcere di Rebibbia. Salgono a 54 le detenute positive a cui si aggiungerebbero anche 6 agenti. A darne notizia è Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di Polizia Penitenziaria Spp: “Il virus è tornato nel carcere femminile di Rebibbia ed il ritorno è stato più irruente rispetto alle ondate precedenti. Da quanto appreso dagli ultimi dati forniti dall’Amministrazione sembra siano risultate positive al tampone molecolare 54 detenute”. Così il sindacato Spp in una nota. “Sappiamo inoltre della positività di 6 unità di Polizia Penitenziaria. Il numerico evidenziato pare sia in crescita”. “Vista l’entità del numero dei contagi potrebbero seriamente iniziare a mancare i posti in isolamento sanitario. Pare opportuno, così come è avvenuto ed avviene in altri istituti penitenziari, valutare la possibilità di uno sfollamento. L’obiettivo si sostanzierebbe nell’evitare il rischio che in caso di mancato contenimento, per le dimensioni ed il numero di persone che ruotano intorno al carcere di Rebibbia che ricordiamo essere il carcere femminile più grande d’Europa, il focolaio possa diventare un rischio anche per la salute pubblica ed esterna alle mura del carcere, in primis per le famiglie del Personale. Appare inoltre indispensabile monitorare costantemente l’andamento dei contagi mediante esecuzione di tamponi molecolari, ripetuti a distanza di tempo, sia per il personale che per la popolazione ristretta. Va assolutamente velocizzata la somministrazione dei vaccini nelle carceri di tutto il territorio nazionale cosicché, al pari di quanto accaduto nelle RSA, possa essere ridotto e arginato il pericolo di ulteriori focolai”. Seguono a Di Giacomo le dichiarazioni del vice-segretario generale Gina Rescigno e responsabile sindacale nazionale S.PP. del comparto Polizia Penitenziaria femminile: “L’avvento del virus ha visto sin dagli inizi troppe disomogeneità sia tra i diversi Provveditorati che tra i diversi istituti nell’ambito dello stesso Provveditorato e ciò si è rispecchiato anche sulla campagna vaccinale. Sebbene gli sforzi e nonostante la distribuzione dei necessari DPI, la parola d’ordine è ‘vaccinare’ e farlo nel tempo più rapido possibile, dando in tal modo finalmente una risposta alla dedizione e alla professionalità di tutti coloro che continuano a lavorare in prima linea rischiando la vita”. Asti. Covid, l’allarme della Garante dei detenuti: “Temo una insurrezione” ansa.it, 5 aprile 2021 Il focolaio Covid ha riguardato 51 detenuti, positivi anche numerosi agenti. “La situazione dei positivi sta migliorando, ma la forte carenza di personale e l’isolamento forzato in piccole celle, mi preoccupa molto. Temo l’insurrezione”. Così la Garante dei detenuti di Asti, Paola Ferlauto, sulla situazione del carcere di Asti, dove nei giorni scorsi è scoppiato un focolaio di Covid-19. È stato fatto il tampone a tutti i 298 detenuti e, dei 51 detenuti positivi, 44 si sono negativizzati, ma altri 25, che hanno rifiutato la vaccinazione, sono positivi. Ieri è stato inoculato il Pzifer a 18 detenuti che, per loro patologie, non avevano potuto fare AstraZeneca, ne rimangono 13 che devono essere vaccinati in zona protetta. “La tensione è tanta, anche perché - spiega Ferlauto - sono aumentati i positivi tra gli agenti e molti sono in malattia. La forte carenza di personale mi preoccupa molto. I detenuti non possono muoversi dalle loro piccole celle e sono venute meno tutte le loro attività. La situazione è sul punto di esplodere. Temo un’insurrezione”. Nei giorni scorsi c’erano state diverse tensioni, con detenuti che, rifiutandosi di rientrare nelle celle, hanno dormito nei corridoi. Paliano (Fr). I detenuti donano a Papa Francesco un cero pasquale gnewsonline.it, 5 aprile 2021 Un cero artistico, il primo prodotto dai detenuti impegnati nel progetto “La Luce della Libertà”, è stato il dono che i reclusi nel carcere di Paliano hanno voluto recare a Papa Francesco in occasione della Pasqua. È stato l’Ispettore dei Cappellani degli istituti italiani, don Raffaele Grimaldi, a consegnare il dono al Santo Padre al termine dell’udienza papale prima delle festività pasquali. Accompagnato dalla direttrice del carcere, Anna Angeletti, don Grimaldi è stato ricevuto nella Biblioteca privata del Palazzo Apostolico e ha avuto occasione di illustrare il significato di queste creazioni, realizzate dai detenuti nell’ambito di un progetto di rieducazione, sotto la guida di un maestro d’arte. Le opere, una volta completato il programma, saranno collocate nelle cappelle degli istituti penitenziari, su tutto il territorio nazionale. L’incontro con il Santo Padre si è concluso con un messaggio di augurio, a nome dei 250 cappellani che prestano il servizio pastorale nelle carceri italiane. Legge Zan, Ius soli, eutanasia: governo di tutti ma diritti di nessuno di Susanna Turco L’Espresso, 5 aprile 2021 Il ddl contro l’omotransfobia così come le altre normative sono al palo. Perché malgrado impegni e promesse alle camere è tutto bloccato. E la maggioranza in cui convivono posizione opposte rischia di essere un ostacolo insormontabile. La fiammata è ripresa d’improvviso, con la mollezza di un’abitudine a lungo trascurata. E tal quale è pronta a inabissarsi di nuovo. Pillon contro Cirinnà, Cirinnà contro Pillon. Un’accoppiata simbolica, assai più che personale: tanto è vero che l’uno, il senatore leghista, viene chiamato in causa per una riforma fallita, l’altra, la senatrice dem, per una riforma approvata cinque anni fa. I temi etici, i diritti civili: chi si rivede. Feroci polemiche, appena il tempo di un giro di valzer, un incardinamento in Commissione, magari una prima discussione. E poi chissà: è già accaduto altre volte. E, del resto, siamo al terzo tempo di una legislatura bipolare. Cominciata nel 2018 con i furori del ddl Pillon, dal nome del promotore del Family Day di Verona che progettava una specie di riforma distopica del diritto di famiglia, che avrebbe fatto la fortuna dei mediatori familiari. Proseguita nel 2019-20 con una prima approvazione alla Camera della legge contro l’omotransfobia, o ddl Zan, che introduce misure di contrasto a discriminazione e violenza per motivi legati all’identità di genere, alla misoginia, e anche alla disabilità. Siamo adesso a un nuovo orizzonte, con la legislatura entrata da un mese e mezzo, col governo Draghi, in un inimmaginabile futuro, nel quale Monica Cirinnà, la madre della legge sulle unioni civili, si è ritrovata d’improvviso dalla stessa parte del senatore Simone Pillon e degli altri leghisti. Tutti avviticchiati. Nella stessa maggioranza. Una posizione che, dopo un attimo di inquietudine, li ha spinti a darsele simbolicamente di santa ragione, anzi più di prima, essendo incredibilmente sullo stesso piano. Come accade nei “Duellanti”, film di Ridley Scott, racconto di Joseph Conrad, anche se il timore è che siano gli stessi anche i risultati. Cioè zero. Che alla fine, il lato B del “governo di tutti” sia: diritti per nessuno. Non solo per il ddl Zan, ma anche per altri pur invocati provvedimenti, come quello di uno ius soli e quello dell’eutanasia, che intessono tante vite. Ma andiamo con ordine. Sarà in grado un disegno di legge contro le discriminazioni di dividere ciò che Draghi (e Mattarella) hanno unito, cioè Lega e Pd, nella più recente variante del kamasutra politico di questa legislatura? Sarebbe strano provocasse davvero una rottura; sarebbe pure strano all’opposto che si trovasse un accordo. Per il resto, il copione in commissione Giustizia al Senato, guidata dal leghista Andrea Ostellari, è quello noto. Il fascino delle obiezioni è infatti nell’esattezza con la quale rappresentano una sottospecie di un genere nutrito: quello del non c’è bisogno. E che bisogno c’è di specificare omotransfobia, abbiamo già la legge Mancino, funziona tutto alla perfezione, e anzi semmai nascerebbe un problema di “libertà di opinione” (sic). L’argomento è lo stesso, a farci caso, per altri diritti: ma perché volete il matrimonio omosessuale, ormai non si sposa più nessuno; a che serve la cittadinanza, mica nessuno vi caccia; assassini a volere l’eutanasia, si staccano ogni giorno un sacco di spine senza tutto questo rumore, per la Svizzera basta passare il confine. Costante è una specie di paternalista imposizione di un punto di vista, che si sostituisce alle istanze dei soggetti ai quali la legge sarebbe indirizzata, e che ciecamente tende alla presunzione di plasmare la realtà, più che regolamentarla. Sono nel caso del ddl Zan anche paradossali, perché si applicano a un passaggio minimo: l’inizio dell’iter della legge al Senato (non certo la sua conclusione), con argomenti del tipo c’è l’emergenza, non è il tempo non è il momento, siamo seri. Come se i diritti sociali dovessero stare separati dai diritti civili, se il Parlamento fosse un organismo monocellulare di quelli che non riescono a fare due cose insieme, come se la realtà non procedesse a manciate di aggressioni tipo quella davanti alla stazione metro di Valle Aurelia a Roma. Come se la legge 194 che legalizza l’aborto non avesse iniziato il suo iter parlamentare nei giorni del giugno 1977 in cui infuriavano le polemiche sull’uccisione di Giorgiana Masi e non fosse stata approvata proprio durante i i 55 giorni del rapimento Moro, durante un governo di unità nazionale, unito sull’emergenza ma in grado di dividersi sui diritti civili (la Camera l’approvò il 14 aprile 1978 con 300 sì e 275 no, il 18 maggio al Senato, con 167 sì e 148 no). Come se da allora la capacità di respiro del Parlamento si fosse completamente rattrappita: cosa che in effetti è. La fiammata di questi giorni arriva infatti dopo una fase di pressoché totale silenzio. In un Parlamento che da un anno si occupa quasi solo di misure emergenziali da Covid-19, scostamenti di bilanci, ristori, conversione di decreti. Quasi dimentico di quel che accadeva prima, che era comunque già pochissimo, nei Palazzi scarnificati dalla progressiva perdita di peso, cui l’antipolitica, prima da fuori, poi dentro le Aule, sembra aver dato la botta finale. Lo stesso ddl Zan, che ha compiuto il suo iter alla Camera a novembre, è salvo per miracolo. La crisi di governo, cominciata nei fatti a inizio dicembre, ha messo del tutto nel cassetto qualsiasi residua ambizione di fare altro. Sempre che ve ne fosse ancora un briciolo. Già nel contratto di governo giallo-rosso, non v’era afflato sul fronte dei diritti. Figurarsi, si era appena venuti fuori dal periodo salviniano, coi decreti del ministro dell’Interno, con le navi costrette a non sbarcare i migranti, la capitana Carola Rackete indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e appunto il ddl Pillon. Già tanto sembrava aver scansato tutto questo, e il relativo contratto di governo: nel quale il bisillabo “omo” era del tutto bandito (salvo che all’interno della parola “promozione”), “diritti”, “discriminazione” o “minoranza” mai citati. Reddito di cittadinanza sì, nulla sulle nuove cittadinanze ovviamente. Un filo, questo dello Ius soli, che Enrico Letta issandosi alla guida del Pd ha provato a “rilanciare e riproporre” proprio adesso: “Penso che sarebbe una cosa molto importante se il governo Draghi, il governo di tutti insieme, in cui si faranno meno polemiche, fosse il periodo in cui finalmente nascesse” quella normativa, ha detto nel discorso dell’incoronazione. Molto ottimista. Sul punto, il governo Pd-M5S nulla ha fatto: le proposte di legge relative allo Ius soli, infatti, sono rimaste ferme al mero stadio della presentazione del testo, vale a dire che il Parlamento non gli ha dedicato neanche un’ora. Un atteggiamento indicativo, quanto a praticabilità della materia. Lo stesso premier Mario Draghi, che pure nel discorso di fiducia alle Camere ha scansato l’argomento dell’organismo monocellulare, spiegando che il governo è in grado di fare due cose insieme, cioè “farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza”, non pare intenzionato a infilarsi nelle polemiche tra partiti, su argomenti che può serenamente ricordare essere “prerogativa del Parlamento”. Tanto più perché, esiste il vasto mondo detto delle bandierine: “Tutti i partiti sono entrati in questo governo portandosi una eredità di vedute, convinzioni, annunci fatti nel passato. Tutti hanno delle bandiere identitarie: si tratta man mano di chiedersi quali siano di buon senso e quali invece cui si può rinunciare”, ha spiegato il premier. Quanto alle rinunce, in effetti la politica ha fatto tantissimi passi indietro, su questo, anche rispetto al passato recente. Quando le questioni dei diritti civili erano in grado di scuotere anche con forza il Parlamento e anche il governo. Sulla legge per le Unioni civili, tra il 2014 e il 2016, Matteo Renzi ha per dire impostato tutto il lato di sinistra del suo programma di governo, riuscendo laddove era fallito, fra l’altro, il secondo governo Prodi. Prima di lui, sia pure nei pochi mesi del suo governo lo stesso Enrico Letta aveva dato un forte impulso all’intero comparto dei diritti civili, a partire dalla cittadinanza per i nati in Italia da genitori stranieri, e arrivando persino a far fare passi avanti alla legge sulla trasmissione del cognome materno. Quella stagione terminò prima della fine della legislatura: con il naufragio definitivo della legge che avrebbe introdotto uno Ius soli temperato, sotto il governo Gentiloni. Una rinuncia per manifesta impotenza. Si ricorda l’esultanza pre-natalizia del leghista Roberto Calderoli: “Lo Ius soli è definitivamente naufragato. Colpito e affondato. Morto e sepolto. Per me è una grande vittoria, perché sono stato io a bloccare questa assurda e inutile proposta di legge che serviva solo a regalare un milione di nuovi voti al Pd”. Sono in effetti un milione, ormai, gli italiani senza cittadinanza. Ed è questo uno degli argomenti citati anche da Letta: “il nostro Paese è in un disastro demografico”. Matteo Salvini e la Lega ovviamente gli danno torto. I numeri gli danno più che ragione: a dati Istat non definitivi, il 2020 è stato il dodicesimo anno di calo delle nascite (-3,8 per cento sul 2019), e un totale che è quasi la metà dei decessi: 404.104 neonati, contro 746.146 morti. Un precipizio verso il deserto. Ma quante possibilità concrete ha questa legge di vedere la luce? Prima del ddl Zan, che ricordiamo è in mezzo al guado come lo era l’analoga legge della scorsa legislatura, l’ultimo successo sul fronte diritti è quello della legge sul fine vita, approvata peraltro da una maggioranza Pd-M5S. Tuttavia, nei 29 punti del programma del governo giallo-rosa, c’era un generico impegno sui diritti civili e niente sul suicidio assistito. Una assenza particolarmente lampante: proprio i giorni di settembre 2019, in cui si preparava il governo Pd-M5S, scadeva il termine stabilito, per un intervento, dalla Corte costituzionale. A settembre 2018, infatti la Consulta, esaminando il ricorso nel processo a Marco Cappato, per l’aiuto fornito al suicidio di Dj Fabo, aveva chiamato il Parlamento a fare qualcosa, dandogli 12 mesi di tempo, perché “le norme attuali lasciano prive di adeguata tutela determinate situazioni”. Ecco poi alla fine la Corte è dovuta intervenire: per 12 mesi, in commissione Giustizia alla Camera, c’erano infatti state solo audizioni, cioè il niente. E così adesso mentre la cattolica Spagna approva l’eutanasia, noi siamo ancora fermi a Kafka. La Corte costituzionale ha infatti stabilito, con il caso Cappato, la liceità in certi casi a ricorrere al suicidio assistito anche in Italia: mancando tuttavia tutt’ora una legge, è di incerta applicazione il diritto ad accedervi. Siamo a questo paradosso clamoroso, affermato giusto martedì dal tribunale di Ancona, che ha chiarito con sentenza come il quarantaduenne tetraplegico che aveva chiesto all’Asl di ricorrere il suicidio assistito ha sì i “requisiti stabiliti”, ma che la pronuncia della Consulta non gli dà anche “il diritto ad ottenere la collaborazione dei sanitari”. Insomma si immagina la faccenda proceda a colpi di sentenze, per quanto l’Associazione Luca Coscioni prevede di avviare entro aprile una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare. Al fianco dello scarso interesse politico-parlamentare a promuovere nuovi diritti, c’è in effetti in parallelo sempre più spesso questo “vuoto di tutela”, e “inerzia legislativa”. Sono gli stessi termini che ricorrono nelle pronunce recenti della Consulta, riguardanti le tutele ai figli di coppie omosessuali. Rispetto alle quali, come sul fine vita, i giudici procedono seguendo il filo di quella che l’allora presidente della Corte Giorgio Lattanzi chiamò “incostituzionalità prospettata”: sospendono la sentenza in attesa che il legislatore disciplini la materia entro un termine. È accaduto in ultimo in due pronunce il 9 marzo sui figli nati da coppie dello stesso sesso. I giudici hanno criticato la legislazione che considera pienamente genitore soltanto quello biologico e non anche il cosiddetto “intenzionale”: per i giudici a contare è anzitutto lo svantaggio per il minore, che non essendo riconosciuto da entrambi ha meno diritti degli altri bambini (ad esempio per quel che riguarda i legami con la famiglia del genitore intenzionale). Una disparità non di poco conto, tanto che, scrive la Corte “non è più tollerabile il protrarsi dell’inerzia legislativa, tanto è grave il vuoto di tutela del preminente interesse del minore”. Ma l’inerzia resta prevalente. Quell’attrazione irresistibile per il reato “ideologico” di David Romoli Il Riformista, 5 aprile 2021 Stando alle premesse e alle promesse di questo primo ventennio, il XXI secolo sembra essere, per la giustizia italiana, quello delle “aggravanti”, della casistica minuziosa che calibra le pene non sul reato ma sulla maggiore o minore censurabilità delle sue motivazioni, distingue le vittime tarando la pena sulla loro vulnerabilità e sull’allarme sociale che di volta in volta le circonda, si concentra sull’istigazione a delinquere allargando l’area a dismisura, sino a confinare e spesso sconfinare con la lesione delle libertà di pensiero e di espressione. I rami sono fioriti come in una foresta tropicale in questo secolo, ma l’albero era stato piantato alla fine di quello precedente, con la legge Mancino del 1993 che prende il nome dall’allora ministro democristiano degli Interni, poi presidente del Senato. In realtà Nicola Mancino si limitò a proporre una legge, il cui contenuto fu invece messo nero su bianco soprattutto dall’allora deputato del Pri Enrico Modigliani, nipote del premio Nobel per l’Economia, Franco Modigliani. Il clima di allarme sul quale la legge interveniva era dovuto all’intensificazione in quei mesi di manifestazioni neofasciste, soprattutto a opera di un gruppo che esisteva già da una decina d’anni ma che, nel tracollo della prima Repubblica, aveva conquistato maggior visibilità e assunto caratteri più minacciosi, il Movimento Politico Occidentale guidato da Maurizio Boccacci, che infatti fu sciolto subito dopo il varo della legge. La legge si ricollegava alla famosa legge Scelba del 1952 sul divieto di ricostituzione del Partito fascista, molto citata e lodata anch’essa negli ultimi anni dimenticando che Scelba abbaiava contro l’estrema destra solo per mordere la sinistra, contro la quale le sue forze dell’ordine usavano abitualmente non le leggi ma le armi da fuoco. Le novità della Mancino erano essenzialmente nell’articolo 1, che fissava una pena fino all’anno e mezzo di carcere per chiunque propagandasse idee di superiorità razziale o etnica e dai 6 mesi ai 4 anni per chi incitasse a commettere atti di violenza o di “provocazione alla violenza” per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La legge Mancino, a tutt’oggi considerata ed elogiata come “il principale strumento contro i reati d’odio, fu una vera rivoluzione nella concezione del diritto. A essere sanzionati non erano i crimini e neppure l’istigazione a delinquere ma l’espressione di idee che avrebbero potuto portare a quell’istigazione e poi a violenze effettive. Per la prima volta, inoltre, la gravità del reato era misurata non sull’identità dei colpevoli, come nei casi del terrorismo o della criminalità organizzata, ma su quella delle vittime. Il rischio di degenerazione nella criminalizzazione non degli atti ma delle opinioni, la cui libera espressione sarebbe garantita, per quanto esecrabili, dall’art.21 della Costituzione, era evidente e fu segnalato sin dal primo momento. La legge del 2006 sui reati d’opinione intervenne infatti su quel testo modificandone in modo significativo i termini. La “diffusione” di idee razziste penalizzata dalla legge del 1993 fu sostituita con la “propaganda” delle stesse. A costituire fattispecie di reato non fu più l’”incitazione” ma l’”istigazione”. La legge Mancino restò più o meno lettera morta fino a che, nel nuovo secolo, le campagne contro i “discorsi d’odio” partite negli Usa, la diffusione dei social e il dilagare di umori ostili all’immigrazione a volte apertamente segnati e sempre venati dal razzismo, resero quella legge già vecchia lo strumento per intervenire su fenomeni nuovi. Nel 2007 l’allora ministro della Giustizia Mastella propose una legge che punisse il negazionismo, cioè qualsiasi posizione negasse la realtà storica della Shoah. All’epoca ci fu una vera e propria insurrezione degli storici che in massa bocciarono la proposta, impugnando non solo la difesa della libertà d’espressione e di ricerca ma anche l’inopportunità di offrire ai negazionisti l’occasione per “ergersi a paladini” della stessa. Mastella ingranò la retromarcia, ripose nel cassetto la proposta. La riprese nel 2012 il Pd, senza riuscire a convertirla in legge per lo scioglimento delle Camere l’anno successivo e stavolta le critiche degli storici e anche di alcuni esponenti di rilievo della Comunità ebraica furono molto più fievoli della levata di scudi di 5 anni prima e comunque rimasero inascoltate. Riproposta nel 2013, la legge contro il negazionismo è stata approvata nel giugno del 2016. È una “estensione” della Mancino che punisce con la reclusione dai 2 ai 6 anni chiunque neghi “in tutto o in parte” la Shoah e i crimini contro l’umanità e di genocidio. Qui il confine tra sanzione contro il reato commesso o l’istigazione a commetterlo e il divieto di espressione letteralmente scompare. Ma in generale gli anni a ridosso della pandemia sono quelli della grande fioritura delle leggi eccezionali miranti a colpire le parole più che gli atti, le espressioni, per quanto aberranti, più che non le azioni criminali. Nel 2017 l’allora presidente della Camera Laura Boldrini invocò a voce altissima una legge severa contro gli hate speech, i “discorsi d’odio”, in rete. Chiese punizioni severe e per dare l’esempio spedì la polizia a casa di un ragazzo colpevole di aver diffuso in rete fotomontaggi da lei ritenuti offensivi. La richiesta, avanzata più volte e sostenuta da numerosi opinionisti e politici, non è mai diventata effettiva proposta di legge ma si tratta solo di una sospensione dovuta alla pandemia. La prospettiva resta ed è recentissima la rinnovata richiesta di una legge contro i discorsi d’odio in rete avanzata da un gruppo di senatori di LeU e del gruppo Misto dopo le minacce in rete contro il ministro della Salute Speranza. Era invece arrivata all’approvazione della Camera la legge contro l’apologia di fascismo proposta nel 2017 dal deputato del Pd Emanuele Fiano, figlio di un sopravvissuto di Auschwitz. Contava un solo articolo e penalizzava qualsiasi richiamo al fascismo, dall’oggettistica al saluto con il braccio destro teso. Bloccata prima dell’approvazione finale a palazzo Madama dalla fine della legislatura la legge, a differenza di quella sugli hate speech, potrebbe non risorgere, neppure in presenza di una maggioranza parlamentare disposta a votarla. Al momento l’ondata di panico da fascismo alle porte che per qualche anno ha percorso l’intera Europa, con qualche fondamento e molta esagerazione, sembra alle spalle. Certo bisognerà vedere quale sarà il quadro dopo la pandemia. Anche la legge approvata alla Camera e ferma al Senato per l’ostruzionismo in commissione Giustizia della Lega, quella Zan contro la transfobia, ha una lunga gestazione. Riassume infatti diversi ddl, a partire da quello presentato dalla Pd Paola Concia nel 2012. Anche in questo caso si tratta di una estensione della legge Mancino, che sfiora pericolosamente e forse oltrepassa i confini della libertà d’espressione costituzionalmente sancita in due punti chiave. Nel 2018 i contenuti della legge Mancino sono stati assunti dal Codice penale, in due articoli tra cui il 604-bis che penalizza la “propaganda di idee e istigazione a delinquere”. La legge sopprime la seconda parte della formula lasciando solo la propaganda di idee. Il testo assicura poi la piena libertà di esprimere opinioni “purché non idonee” a determinare il pericolo di conseguenti atti violenti. Formula, difficile negarlo, a maglie tanto larghe da rendere arduo determinare una casistica tanto precisa da escludere il reato d’opinione. Del resto la ratio delle leggi moltiplicatesi nell’ultimo decennio è proprio quella di “rieducare” a colpi di divieti e sanzioni, di intervenire sulle mentalità prima e più che non sugli atti. Con una missione non confessata ma neppure troppo nascosta simile: tracciare un confine preciso che metta al riparo dal reato d’opinione è semplicemente impossibile. Mine antiuomo, l’iter legislativo italiano che le mette al bando è fermo da 11 anni di Marta Rizzo La Repubblica, 5 aprile 2021 Giornata contro mine inesplose. Intanto 55 milioni di ordigni sono state comunque smantellate. Ancora vittime in Afghanistan, Mali, Myanmar, Nigeria, Siria e Ucraina. Il 4 aprile si celebra la Giornata indetta dalle Nazioni Unite (secondo la Risoluzione A/RES/60/97) che promuove la conoscenza del problema delle mine e degli ordigni inesplosi. Il Trattato di Ottawa (messa al bando delle mine, 1997) e la Convenzione sulle Munizioni Cluster (o bombe a grappolo, 2008) rappresentano le due cornici legali internazionali di riferimento per impedire uso, produzione, commercio e stoccaggio di queste armi subdole e tuttora attive nel mondo. Eppure di ordigni capaci di uccidere o mutilare irreversibilmente esseri umani in un solo secondo ce ne sono in giro ancora milioni. È bene ricordare, tanto per fare un esempio, che durante la guerra fra Iraq e Iran, dal 1980 l 1988, furono disseminati più di 10 milioni di congegni esplosivi, molti dei quali acquistati in Italia. Le operazioni di bonifica in quelle aree non è ancora finita. E molti continuano ancora a morire. L’iter di una legge italiana ferma da 11 anni. A questo punto vale prima di tutto soffermarsi sul quadro normativo italiano, rispetto alla questione. Diciamo subito che l’iter di una legge del Parlamento italiano che sancisce in modo chiaro e definitivo il bando di questi ordigni è fermo da 11 anni. C’è infatti un disegno di legge, il cui iter è cominciato nel 2010, che recita “Misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni e submunizioni a grappolo”, fermo da qualche parte nelle stanze del nostro Parlamento. Un complesso di norme pensato (ma solo pensato, evidentemente) per impedire che gli operatori finanziari autorizzati possano investire in aziende produttrici di mine anti-persona e bombe a grappolo. Quei “Pappagalli Verdi”. Eppure, fin dal 1999, quando Gino Strada - fondatore di Emergency - pubblico il suo “Pappagalli Verdi. Cronache di un chirurgo di guerra”, riuscì ad agitare le acque stagnanti attorno alla questione del mercato di questi ordigni, tanto micidiali, quanto subdoli. Strada, infatti, scrisse senza metafore della vergogna, tutta italiana, raccontando quello che gli capitò di vedere con i suoi occhi in aree di guerra dove Emergency lavorava: dall’Afghanistan, alla Somalia, dal Ruanda alla Bosnia. Come ricorda Michele Ramadori sul giornale online Voci Globali “L’autore raccontava l’atroce storia e il funzionamento di alcuni di queste bombe utilizzate in tutto il mondo, di cui l’Italia è stata tra i maggiori produttori: i cosiddetti “pappagalli verdi”, così chiamati perché di un colore verde acceso, molto simili a giocattoli dalla forma di uccello”. Ancora vittime in Afghanistan, Mali, Myanmar, Nigeria, Siria e Ucraina. È un fatto comunque che ogni ora almeno una persona muore a causa di un ordigno esplosivo o di una mina. Dagli ultimi dati del 2019, sono circa 7.000 le vittime di questo tipo di armi e residuati bellici: oltre 3.000 i morti e quasi 4.000 i feriti. Circa il 54% dei coinvolti sono bambini. L’alto numero di vittime si registra nei Paesi coinvolti in conflitti armati: in particolare Afghanistan, Mali, Myanmar, Nigeria, Siria e Ucraina. Dalla sua prima edizione nel 1999, il Landmine Monitor Report conta il numero di vittime e identifica, per difetto, più di 130.000 vittime di mine o residuati bellici esplosivi sparse sulla Terra. Il Trattato di Ottawa. Al fine di contrastare armi tanto infide e disumane, il 3 dicembre 1997, viene istituito il Trattato di Ottawa, con la firma di 122 Stati, i quali s’impegnano a osservare diversi obblighi per lo smantellamento delle mine anti persona: innanzi tutto, devono impedire ogni produzione, uso, stoccaggio ed esportazione di ordigni anti persona; quindi, distruggere tutte le mine esistenti nei rispettivi arsenali; ancora, bonificare le aree minate nel proprio territorio; infine, fornire assistenza tecnica e finanziaria per le operazioni di sminamento e l’assistenza alle vittime. Il I marzo 1999, dopo la ratifica del quarantesimo paese firmatario (Burkina Faso), il Trattato di Ottawa entra ufficialmente in vigore. L’Italia ha firmato il Trattato di Messa al Bando delle Mine il 3 dicembre 1997 ed è divenuta stato parte del Trattato il 1° ottobre 1999. La Campagna internazionale per la messa al bando delle Mine. A oggi, le vittime causate dalle mine sono scese da circa 25 persone al giorno nel 1999 a 9 persone al giorno; la condizione di vita di molte vittime delle mine anti persona è migliorata, dall’entrata in vigore del Trattato. Ma il lavoro non è ancora finito e la Campagna internazionale contro le mine, chiede che tutti gli Stati membri si mobilitino per far aderire il più alto numero di Paesi e assicurare il completamento dello smantellamento delle mine dal pianeta, previsto entro il 2025; che si provveda alle lacune nei servizi di assistenza alle vittime; che non si utilizzino più mine in luoghi ad alto rischio. 30 Nazioni libere dalle mine. Il Trattato di messa al bando delle Mine, rappresenta uno dei trattati sul disarmo umanitario con più adesioni: l’80% dei Paesi vi ha aderito (164). Attualmente, sono stati distrutti oltre 55milioni di mine presenti negli arsenali e 30 Paesi si sono dichiarati liberi dalle mine, ultimi in termini di tempo il Cile ed il Regno Unito, lo scorso anno. Restano al mondo 60 paesi inquinati da mine e/o munizioni cluster. Mine antipersona continuano a essere usate dal governo del Myanmar, così come da alcuni gruppi armati non statali presenti in alcuni Paesi. Il 2019 è stato il quinto anno consecutivo con un alto numero di incidenti: ne sono stati registrati oltre 5000, in particolare le mine cosiddette improvvisate, oltre ad altri residuati bellici esplosivi. Sono 34 gli Stati che ancora detengono scorte di mine e 32 quelli che non hanno aderito al Trattato di messa al bando di Ottawa. Munizioni a grappolo: attive dal 2012 in Siria. Le munizioni a grappolo, o cluster bomb, vengono sganciate da aerei miliari in Paesi in guerra e rappresentano una forma di utilizzo di armi subdole tanto quanto le mine antipersona perché mutilano e uccidono gran parte della popolazione civile di Paesi coinvolti in conflitti armati. Le munizioni cluster sono state usate lo scorso anno nel conflitto in Nagorno Karabakh, e sono ancora utilizzate, in maniera continuativa dal 2012, in Siria. Il 99% delle scorte di questi ordigni detenuti dagli Stati Parte alla Convenzione è stato distrutto e sei paesi si sono dichiarati liberi dalle munizioni cluster, tra cui Croazia e Montenegro lo scorso anno. Investimenti da far cadere le braccia. Dati da tenere in considerazione, in questo ambito, sono forniti dal Rapporto Wordwide Investments in Cluster Monitions nel quale viene denunciato che 88 istituti finanziari del mondo hanno investito 9 miliardi di dollari in 7 società coinvolte nella produzione di munizioni a grappolo bandite dalla Convenzione di Oslo, sottoscritta e ratificata dall’Italia. Eppure, dal 2010, l’iter del Pdl per fermare definitivamente questo commercio, è fermo. Brasile, Cina, India, Corea del Sud: 7 aziende e 4 Paesi coinvolti nella produzione di munizioni a grappolo. Contrastare e abolire l’utilizzo di mine e cluster bomb. “In questa giornata celebriamo le vite salvate e le terre restituite libere da ordigni inesplosi alle popolazioni, attraverso il rispetto dei due Trattati di disarmo umanitario che mettono al bando mine e munizioni cluster e alle attività di mine action - spiega Peppe Schiavello, direttore della Campagna italiana contro le mine - Ma vogliamo anche ricordare chi è, ancora, vittima di questi ordigni: chi ha perso la vita o è rimasto gravemente ferito. L’unico modo per garantire che queste armi non vengano usate più, evitando future sofferenze, è fare in modo che i Paesi che non l’hanno fatto, aderiscano al più presto ai due trattati e supportare la piena implementazione degli stessi da parte degli Stati parte. Negare i finanziamenti ad aziende straniere che si ostinano a produrre semi di carneficina è un dovere che non può più essere rinviato. La Campagna italiana contro le mine chiede la rapida e definitiva approvazione la proposta di legge 1813, ‘Misure per contrastare il finanziamento di imprese produttrici di mine, munizioni e submunizioni a grappolo’, confermando l’impegno del nostro Paese in ambito di cooperazione e mine action riconosciuto a livello internazionale”. Legalizzazione della cannabis, la legge arriva alla Camera. Ma la destra annuncia battaglia di Giovanna Casadio La Repubblica, 5 aprile 2021 La delega sulle droghe alla ministra per le Politiche giovanili la grillina Fabiana Dadone. La proposta, assegnata alla Commissione Giustizia, a brevissimo entrerà nel vivo della discussione. Dopo la legge contro l’omofobia bloccata in Senato dalla Lega che non ne consente neppure la discussione, è in arrivo un nuovo scontro parlamentare sulla cannabis e la legalizzazione delle droghe leggere per uso personale e terapeutico. Ma sono i deputati in questo caso chiamati a decidere. Assegnata la delega sulle droghe alla ministra per le Politiche giovanili la grillina Fabiana Dadone e minacciate le barricate dal centrodestra con Meloni e Salvini in testa, già dalla prossima settimana la proposta per liberalizzare la cannabis dovrebbe entrare nel vivo della discussione in commissione Giustizia di Montecitorio. Qui il presidente è il grillino Mario Perantoni che quel progetto - presentato da Riccardo Magi, radicale e di +Europa - ha peraltro firmato insieme a una trentina di deputati del centrosinistra. Magi ne chiarisce i punti. Si tratta di depenalizzare la coltivazione domestica della cannabis per uso personale e terapeutico. Più in generale dovrebbero essere decriminalizzati gli episodi di lieve entità in fatto di droga. Torna inoltre la distinzione tra droghe leggere e pesanti. Si alleggeriscono le pene. Per alcune fattispecie è previsto il “lavoro di pubblica utilità”, invece della reclusione. Spiega Magi: “Un numero sempre maggiore di Paesi, anche da ultimo lo Stato di New York, sta approvando riforme della propria normativa sugli stupefacenti che prevedono la legalizzazione della cannabis. Si tratta di democrazie nelle quali è stato possibile, nella società e nelle istituzioni, un dibattito non basato su contrapposizioni ideologiche ma sui dati e sui risultati disastrosi in termini di costi sociali ed economici delle politiche repressive e proibizioniste messe in atto negli ultimi decenni”. In commissione Giustizia della Camera la proposta di legge di Magi, sottoscritta tra gli altri dai dem Giuditta Pini e Andrea Romano, “decriminalizza totalmente la coltivazione domestica per uso personale della cannabis recependo la sentenza delle Sezioni Unite Cassazione del 2019 e facendo un primo passo avanti in direzione di una normativa più razionale e più umana”. Si tratta in pratica di una modifica dell’articolo 73 del Testo unico in materia di stupefacenti. Il presidente della commissione Perantoni rincara: “‘La delega alle politiche sulle droghe alla ministra Dadone ha aperto una gara a chi è più oscurantista, con punte di prepotenza notevoli. Sono assolutamente solidale con Fabiana e sono convinto che lavorerà benissimo. Le critiche sono palesemente aprioristiche e strumentali: confondere le azioni di prevenzione e gestione del complesso fenomeno delle droghe con un generico “liberi tutti” è frutto di prese di posizione antistoriche che speravamo superate”. Ma basta attenersi ai fatti per constatare che c’è un problema da affrontare: in presenza di norme repressive la circolazione di droghe è aumentata in Italia, lo strapotere della criminalità organizzata resta, oltre ai numeri sulla popolazione carceraria composta per oltre il 30% di tossicodipendenti. Sempre Perantoni osserva: “La Corte di Cassazione ha già stabilito i limiti entro i quali è consentita la coltivazione della cannabis per uso personale e presto io calendarizzerò la proposta di legge per inserire quei principi nel nostro ordinamento, anche per sostenere il diritto dei malati a curarsi con la cannabis”. Nella relazione che accompagna la proposta di legge, è scritto: “Negli ultimi trent’anni abbiamo avuto una legislazione tra le più repressive in Europa, basti pensare che più del 30% delle persone che entrano in carcere, lo fa per violazione del Testo unico sugli stupefacenti e ciononostante la quantità di sostanze in circolazione non è affatto diminuita”. Magi insiste: “Ci sono cittadini consumatori, anche giovanissimi, che hanno la vita rovinata perché la giustizia si abbatte su di loro, distruggendo legami sociali, familiari, percorsi lavorativi e prospettive future. In Italia manca la volontà di confrontarsi con questo grande tema sociale, ma dobbiamo renderci conto che le politiche portate avanti fino adesso si sono rivelate persino controproducenti”. Inchiesta Ong, agli atti le visite riservate al Cairo della famiglia Regeni e del loro avvocato di Marta Rizzo La Repubblica, 5 aprile 2021 La denuncia della Federazione della Stampa. Il segretario Lorusso: “Trascritte le conversazioni tra la giornalista Porsia e il suo avvocato Ballerini: in una la legale informava la reporter del viaggio in Egitto. Fatto inquietanto e grave”. Il presidente Giulietti: “Altri giornalisti intercettati solo per scoprire le loro fonti. Inaccettabile”. Negli atti della procura di Trapani dell’inchiesta sulle ong, accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in Libia, c’è un passaggio inquietante: la trascrizione di una conversazione tra la giornalista Nancy Porsia, e la sua avvocata, Alessandra Ballerini. Una conversazione nella quale la legale - che difende anche la famiglia di Giulio Regeni - le consegna un dettaglio che avrebbe dovuto restare assolutamente riservato: l’imminente visita, segreta, della famiglia Regeni al Cairo. E che invece viene trascritto, nonostante nulla avesse a che fare con l’indagine. E nonostante non potesse essere messo agli atti: è vietato infatti intercettare le comunicazioni con i propri avvocati. A denunciare il fatto è la Federazione nazionale della stampa. “È una vicenda inquietante e molto grave” dice Raffaele Lorusso, segretario generale della Fnsi. “E’ gravissimo che giornalisti vengano intercettati mentre fanno il loro lavoro: non vorrei che questa operazione fosse nata per individuare le fonti di questi colleghi” dice, per poi segnalare la vicenda Regeni: “Trascrivendo la conversazione tra la reporter Nancy Porsia e la sua avvocata, Alessandra Ballerini si è dato conto addirittura degli spostamenti di quest’ultima in relazione a un altro importantissimo caso che segue e che non ha nulla a che vedere con l’oggetto dell’indagine: quello sulla morte di Giulio Regeni”. Nell’intercettazione in questione l’avvocato Ballerini informa la Porsia che “il prossimo 3 ottobre” saranno al Cairo. E “saremo senza scorta”. La Fnsi ha chiesto immediatamente approfondimenti che la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha annunciato ci saranno. “Ci auguriamo - dice Lorusso - che le autorita’ facciano luce e prendono provvedimenti. Intanto siamo al fianco dei colleghi e siamo pronti a sostenerli”. “Ci sono - segnala poi il presidente della Fnsi, Beppe Giulietti - le intercettazioni di altri cronisti, seppur indirette: perché sono state trascritte? Cercavano le fonti dei giornalisti? Se è così sarebbe molto grave perché vietato dalla legge”. Stati Uniti. La Georgia abolisce la legge razzista sugli arresti di strada di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 5 aprile 2021 È il 25 febbraio 2020, una bella giornata di sole a Brunswick, nello stato della Georgia. “Un tempo ottimo per fare jogging” deve aver pensato Ahmaud Arbery, un ragazzo afroamericano di 23 anni. Niente di più sbagliato, almeno se sei nero e per di più vivi in uno stato del sud. Certo non siamo negli anni ‘ 50 ma il colore della pelle conta ancora, eccome. Sulla strada che percorre è parcheggiato un furgoncino bianco, uno di quelli con il pianale scoperto. A bordo ci sono due uomini, padre e figlio, Gregory e Travis McMichael. Il più vecchio ha 64 anni ed è un ex agente di polizia con un passato da investigatore del procuratore distrettuale. Arbery corre nemmeno troppo veloce, raggiunge il veicolo, passa alla sua destra, la portiera è aperta. A questo punto la scena viene coperta dal furgoncino stesso e riappare sul lato opposto. Il ragazzo afroamericano lotta con uno dei due uomini, uno sparo, poi un altro poco dopo, al terzo colpo Arbery percorre pochissimi metri, cade a terra, la faccia sull’asfalto, è morto. Ha inizio così uno dei casi più controversi della recente storia statunitense. I Mc Michael non vengono arrestati immediatamente, nella versione fornita dall’ex poliziotto Arbery veniva sospettato di diversi furti avvenuti nel quartiere dove vivevano, insieme al figlio dunque è iniziata la caccia all’uomo. Secondo Gregory l’aggressione sarebbe partita contro suo figlio da parte del “sospettato”. Ma se addosso porti una 357 Magnum a canna lunga e un fucile, di autodifesa c’è ben poco forse. Tanto è bastato comunque alla polizia per liquidare la faccenda come legittima difesa e lasciare liberi gli omicidi. La verità, su come le cose non fossero andate come dichiarato da padre e figlio, venne a galla solo dopo la pubblicazione di un video, nel maggio successivo, ripreso da una autovettura che seguiva Arbery. Le immagini hanno permesso di ricostruire l’esatta successione degli avvenimenti, si è trattato praticamente di un agguato. Impossibile allora non arrestare Gregory e Travis Mc Michael per omicidio. I due si trovano attualmente in cella senza cauzione attendendo il processo, insieme proprio all’autore del video, rimasto sconosciuto per diverso tempo, William Bryan Jr, accusato dello stesso reato. Le indagini sono state però disseminate da var i ostacoli tanto che l’Fbi ha messo sotto accusa George Barnhill funzionario del distretto giudiziario di Waycross, che ha raccomandato di non arrestare i McMichael, e Jackie Johnson della contea di Glynn, che allo stesso modo non aveva voluto procedere con il fermo. Un comportamento illecito ma probabilmente ispirato dalla stessa legislazione della Georgia riguardo all’arresto di cosiddetti vigilantes. Per questo motivo lo stato del sud sta correndo ai ripari. Il governatore Brian Kemp firmerà un disegno di legge che abroga la possibilità per privati cittadini di fermare qualcuno se sospettato di aver commesso un reato. Ciò verrebbe comunque consentito solo, si fa per dire, agli agenti di sicurezza, agli investigatori privati e ai poliziotti fuori servizio. Per Kemp si tratta di un buon compromesso che dovrebbe eliminare l’impianto razzista della legge precedente. Trattenere presunti sospettati risale ad uno statuto del 1863, all’epoca della guerra civile, per consentire ai cittadini bianchi di catturare gli schiavi in fuga verso nord, in seguito la legge venne utilizzata per giustificare centinaia di linciaggi. Non a caso è stata citata da coloro che inizialmente hanno rifiutato di arrestare gli assalitori di Arbery. Lo schieramento a favore del nuovo provvedimento è apparentemente largo, dai Democratici ai Repubblicani (anche se c’è chi vede in questa posizione della destra un modo per mascherare le recenti mosse dei legislatori per limitare pesantemente l’accesso al voto). Per il governatore si tratta di un “messaggio chiaro che lo stato di Peach non tollererà sinistri atti di vigilantismo nelle nostre comunità”. A festeggiare sono gli attivisti dei diritti civili. Secondo il reverendo James Woodall, presidente della Naacp in Georgia, l’abrogazione è “un momento storico”. Ma il lavoro da fare è ancora lungo e si stanno mettendo in campo iniziative per approvare riforme simili in altri stati. L’obiettivo è non dover più sentire constatazioni, amare, come quelle dell’avvocato Lee Merrit che rappresenta la famiglia Abery: “Questo caso chiarisce che tutti i cittadini neri della Georgia del sud non ricevono la stessa protezione”. Parole attese al banco di prova del processo Floyd in corso a Minneapolis. Turchia. Solo ma non dimenticato, un altro compleanno in carcere per Ocalan di Stefano Galieni Left, 5 aprile 2021 Ancora non bastano? Il 4 aprile ha compiuto 73 anni il presidente kurdo Abdullah (Apo) Ocalan. È detenuto nel carcere di massima sicurezza dell’isola turca di Imrali da quando ne aveva 51, da solo, con scarsa possibilità di leggere, poca di scrivere, e ostacoli in continuazione per incontrare avvocati, parenti, medici. Alcune settimane fa erano girate voci circa un presunto peggioramento delle condizioni di salute, non era la prima volta che capitava e, al di là delle smentite, ad ogni anno che passa, il timore diventa più duro da affrontare. Ma non solo per il popolo kurdo, per le tante e i tanti che con la loro lotta è solidale, che dagli scritti di Ocalan, da quanto messo in pratica, quotidianamente, soprattutto dalle donne, raccoglie un messaggio di pace e di libertà. Bisogna ricordare, ai governi italiani che hanno tradito un richiedente asilo, che, come riconosciuto ormai in ambito internazionale, Abdullah Ocalan è un rifugiato politico in Italia che non ha potuto veder rispettati i propri diritti dopo quanto accaduto nel febbraio 1999. Allora, nel complicato scenario geopolitico, il governo D’Alema scelse di far estradare in Kenya il richiedente asilo che, all’aeroporto, venne prelevato da agenti turchi e portato in carcere prima con una condanna a morte, sospesa, poi con l’attuale assurda condizione di detenzione. Il Consiglio d’Europa appare incapace di seguire le raccomandazioni fatte dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (Cpt). Il Consiglio dei ministri sta fallendo nell’imporre l’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani, e le Nazioni Unite guardano solamente a come la Turchia calpesta ripetutamente tutti gli accordi e convenzioni internazionali. Chi si oppone chiede per ora unicamente che il loro trattamento speciale nell’isola di Imrali, sui diritti finisca. Tutti coloro che sono coinvolti nel mantenere il totale isolamento nel carcere dell’isola di Imrali stanno agendo illegalmente e sono coinvolti nella violazione dei diritti umani. Questo lo chiede, inascoltata, la stessa Ue che ha donato 6 mld di euro al sultano Erdogan, in cambio dell’opportunità di fermare l’afflusso nel continente di richiedenti asilo siriani, anche lì ignorando qualsiasi forma di rispetto dei diritti e, di conseguenza, non intromettendosi negli “affari interni” turchi. Le richieste kurde sono altre ed è a quelle che va prestata attenzione. Non solo i kurdi ma anche la sinistra turca, sottoposta a dura repressione, partono dalla richiesta della libertà per Ocalan, unico atto politico che potrebbe favorire un percorso di pace e di riconciliazione, per approdare ad altro. La situazione in quell’area del pianeta è in fibrillazione, sta sfuggendo al controllo e la comunità internazionale deve agire subito e chiedere la fine di ogni violenza e di spargimento di sangue. Le forze della resistenza kurda lamentano il fatto che, nonostante l’impegno contro l’Isis, nel nord est della Siria e nonostante i loro ripetuti appelli per una soluzione pacifica del conflitto, il mondo è rimasto a guardare. La Turchia ha praticato una “pulizia etnica”. Fra il 2013 e il 2015 a dire il vero un processo di pace era iniziato ma è stato interrotto bruscamente dal presidente turco Erdogan e sono ripartite le violenze. È partita una campagna “Freedom for Ocalan” con cui si invita i politici, la società civile e tutta la comunità internazionale, ad agire ora prima che sia troppo tardi. Le organizzazioni kurde, rappresentate in Italia dall’Uiki (Ufficio Informazioni Kurdistan in Italia) chiedono oltre alla fine dell’isolamento e alla liberazione di Ocalan, la fine delle persecuzioni e il rilascio di tutti i detenuti politici in Turchia, la cessazione delle operazioni militari nel nord est della Siria e in Iraq, un nuovo processo di pace col pieno coinvolgimento della comunità internazionale. In questo quadro il ruolo i Ocalan è semplicemente fondamentale. Il “Mandela del Medio Oriente”, nei 22 anni trascorsi in carcere, ha elaborato un progetto e un percorso i cui valori fondanti sono nella laicità, nella parità di genere, in nuove forme di socialismo e del rifiuto di ogni forma di nazionalismo. Se nel regime di Erdogan, invece di prevalere la paura o il bisogno di vendetta su cui costruire consenso verso un presunto “nemico interno”, ci si rendesse conto che dalla vita e dalla libertà di Ocalan dipende gran parte della possibilità di portare pace nell’area le cose potrebbero cambiare realmente. Non sono questi i segnali che giungono per cui, da uomini e donne europei che dalle esperienze kurde continuano ad imparare possiamo solo dire ad Abdullah Ocalan che non lasceremo le sue speranze isolate e che oltre che un compleanno in salute ci auguriamo che prossimo possa essere un compleanno di pace e libertà. Per lui, per il grande popolo che rappresenta e per chi aspira ad un mondo radicalmente diverso e migliore. Iran. Siamak, in carcere da 2mila giorni: mai così tanti per un cittadino Usa di Gabriella Colarusso La Repubblica, 5 aprile 2021 Namazi è stato arrestato nel 2015 con l’accusa di “collusione con un Paese nemico” e condannato a 10 anni di carcere. L’anno dopo è stato detenuto anche il padre Baquer. Il segretario di Stato americano Blinken: “Tutti gli ostaggi statunitensi e i detenuti illegittimi devono essere rilasciati e riuniti con i loro cari”. Siamak Namazi ha la colpa di essere americano. Baquer Namazi quella di essere suo padre. Da duemila giorni sono in carcere in Iran: Siamak arrestato nel 2015 con l’accusa di “collusione con un Paese nemico”, e condannato a 10 anni di carcere. Baquer in prigione invece dal 2016 dopo essere stato attirato in Iran con la scusa che avrebbe potuto rivedere suo figlio. Nessun americano è stato detenuto tanto a lungo in Iran come Siamak, dicono i suoi legali. Sabato il fratello Babak è tornato a chiedere all’amministrazione Biden che faccia il tutto il possibile per liberare la sua famiglia, visto che i tentativi fatti dalle precedenti amministrazioni finora non hanno prodotto risultati. “Spero e mi aspetto che il presidente Biden adotti approcci immediati, nuovi e audaci per far uscire la mia famiglia di prigione. Allo stesso tempo, imploro le autorità iraniane di agire con umanità e dignità, garantendo loro la libertà. Mio fratello e mio padre sono uomini innocenti e nessuno dei due potrà sopravvivere a questa prova molto più a lungo”. Martedì prossimo a Vienna, alla riunione della commissione congiunta sul nucleare iraniano, ci saranno anche gli americani. La delegazione avrà colloqui con russi, europei e cinesi, non un dialogo diretto con gli iraniani, ma è comunque la prima volta che le due parti si parlano da quando alla Casa Bianca c’è Joe Biden, o anche se in forma mediata. La questioni dei prigionieri però non sarà sul tavolo: l’amministrazione Biden ha già chiarito in passato che intende tenerla separata dai negoziati sul nucleare. Ieri del caso Namazi ha parlato il segretario di Stato, Antony Blinken: “2.000 giorni fa, l’Iran ha arrestato Siamak Namazi perché cittadino statunitense. Quando suo padre, Baquer, è volato in Iran per liberarlo, è stato imprigionato e ora gli è impedito di andarsene. Tutti gli ostaggi statunitensi e i detenuti illegittimi devono essere rilasciati e riuniti con i loro cari. #FreetheNamazis”, ha scritto sul suo profilo Twitter. Venerdì sulla questione era intervenuto anche Robert Malley, l’inviato speciale Usa per l’Iran che probabilmente guiderà la delegazione a Vienna. “Abbiamo detenuti americani ingiustamente detenuti in Iran. Non possiamo dimenticarli. E qualunque cosa accada dal lato nucleare, che ci riesca o meno, il nostro obiettivo sarà riportarli a casa”. In Iran ci sono almeno 12 cittadini con doppia nazionalità in carcere con accuse che vanno dalla propaganda contro lo Stato alla minaccia alla sicurezza nazionale. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano da tempo quella che definiscono la “politica degli ostaggi”, che usa le detenzioni di cittadini dual national per scambiarle come pedine nelle trattative politiche con altri Stati, come sta succedendo nel caso della anglo-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliff, in carcere in Iran dal 2016. Nazanin Zaghari-Ratcliffe è finita in mezzo a una questione intricata che riguarda un debito storico di 400 milioni di sterline del Regno Unito con l’Iran. “È ampiamente chiaro che Zaghari-Ratcliffe e altri cittadini con doppia cittadinanza britannico-iraniana che sono stati incarcerati in Iran sono tenuti in ostaggio fino a quando il Regno Unito non ripaga il debito derivante dalla vendita di armi allo scià dell’Iran a metà degli anni 70”, ha scritto di recente il quotidiano britannico The Guardian. Libano. L’attivista libanese Kinda al-Khatib in attesa di sentenza definitiva di Sharon Nizza La Repubblica, 5 aprile 2021 “Sotto processo per il suo impegno anti-Hezbollah”. Intervista con Joseph Braude, presidente del Center for Peace Communications, in vista dell’udienza che deciderà le sorti della ventiquattrenne: “Oltre a Kinda, 35 cittadini sono stati falsamente accusati di terrorismo, ma il loro unico crimine è stato aver preso parte a manifestazioni antigovernative”. La giovane attivista libanese Kinda al-Khatib, arrestata il 20 giugno scorso e condannata a dicembre dal Tribunale militare di Beirut a tre anni di carcere, è stata rilasciata nei giorni scorsi in vista dell’appello presentato dalla difesa su cui la corte marziale si pronuncerà l’8 aprile. Khatib, 24 anni, attivista apertamente critica di Hezbollah - il “partito di Dio” sciita che di fatto governa il Paese che si trova sull’orlo del default economico e politico - era stata condannata per “collaborazione con il nemico”, Israele. Il suo entourage ha sempre sostenuto che si trattasse di una montatura per metterla a tacere. Nei mesi della detenzione, a perorare la sua causa è stato Joseph Braude, presidente del Center for Peace Communications, una no-profit che riunisce attivisti dal Medioriente e dal Nord Africa. Braude, che ha parlato con Kinda appena rilasciata, risponde alle domande di Repubblica da New York in vista dell’udienza che a breve deciderà la sorte della giovane attivista. Signor Braude, che cosa può dirci della situazione di Kinda? “È stata arrestata da 16 uomini mascherati nel cuore della notte, interrogata per giorni e detenuta in prigione per nove mesi prima del suo rilascio temporaneo su cauzione. Durante il suo interrogatorio, non è stata informata per molti giorni delle accuse contro di lei. Nei mesi di detenzione era denutrita, ha sofferto di intossicazione alimentare e ha contratto il Covid-19 senza ricevere cure adeguate. Secondo Kinda, l’unica ragione per cui non ha subito aggressioni fisiche mentre era in prigione era che il suo caso aveva attirato l’attenzione dei media e l’esercito aveva paura di possibili ripercussioni”. La sua famiglia e i suoi sostenitori affermano che è stata arrestata per via del suo attivismo contro Hezbollah e che le accuse di spionaggio a favore di Israele sono una montatura. Cosa dice in merito? “I sostenitori di Hezbollah e del presidente Michel Aoun considerano Kinda una spina nel fianco da anni: la sua è la voce di una giovane donna di talento con decide di migliaia di follower sui social media, che non ha mai smesso di denunciare pubblicamente le loro campagne di disinformazione. Hezbollah ha maggiore controllo sui tribunali militari rispetto a quelli civili, e per questo era importante per loro portarla di fronte a una corte marziale. In Libano, i civili possono essere processati in un tribunale militare solo per accuse legate al terrorismo o alla “collaborazione con Israele”. Siccome le monitoravano da tempo il cellulare, hanno scoperto che si era scambiata dei messaggi con un giornalista israeliano e questo è stato il pretesto di cui avevano bisogno per usare la “legge anti-normalizzazione” per arrestarla. Poi hanno utilizzato gli organi di stampa pro Hezbollah per diffondere false e assurde affermazioni, senza nessuna prova, secondo cui aveva visitato Israele e si era coordinata con i servizi di intelligence occidentali e del Golfo”. Nei mesi della sua detenzione, il Libano è stato devastato dall’esplosione al porto di Beirut e dall’ulteriore deterioramento della situazione politica ed economica... “Tra i profughi siriani, la pandemia, la stretta delle sanzioni statunitensi contro Hezbollah, il nepotismo e la corruzione dilaganti, l’economia e il sistema politico libanese sono al collasso. Proprio in queste settimane, di fronte allo stallo politico e al continuo aumento dell’inflazione, sta montando una nuova ondata di proteste che chiede un cambiamento nel Paese, mentre la repressione non si placa. Le organizzazioni libanesi per i diritti umani hanno documentato un netto incremento delle aggressioni a giornalisti da parte di organi statali: da 20 nel 2019 a 60 nel 2020. Il 4 febbraio, l’assassinio del giornalista e attivista anti Hezbollah Lokman Slim ha scioccato il Paese. Oltre a Kinda, 35 cittadini libanesi sono stati recentemente processati con false accuse di terrorismo, quando il loro unico crimine è stato aver preso parte a manifestazioni antigovernative”. La vostra organizzazione mira a creare maggiore consapevolezza sulle leggi sul boicottaggio in vari Paesi arabi che vietano qualsiasi interazione con gli israeliani. Ci spiega meglio? “Leggi del genere sono controproducenti e noi sosteniamo gli sforzi per revocarle e per proteggere gli attivisti per la pace che vi si oppongono, mettendo a rischio la propria carriera o nei casi peggiori - come in Libano - la libertà personale. Stiamo promuovendo una proposta di legge, che ha già ottenuto consenso bipartisan in Francia e negli Stati Uniti, volta a istituire un rapporto annuale dei casi in cui cittadini di Paesi arabi siano intimiditi o puniti per aver interagito con israeliani, elevando l’attenzione internazionale su questa problematica. Non va sottovalutato l’effetto sulla diaspora libanese che può avere la condanna di Kinda e Charbel (co-imputato che vive negli Usa, condannato in contumacia a 10 anni, ndr). La comunità libanese nel mondo è vastissima, molti di loro hanno sviluppato amicizie e collaborazioni con cittadini israeliani. Ora che Israele ha firmato accordi di pace con gli Emirati Arabi Uniti e altri Paesi musulmani dove vivono centinaia di migliaia di libanesi, molti temono di fare rientro in patria, isolando ulteriormente il Libano dalla sua ancora di salvezza che sono gli espatriati in tutto il mondo, specie in un momento così difficile per il Paese”. Esiste un attivismo pubblico in Libano contro la legge sul boicottaggio, l’articolo 278 del Codice penale? “Sempre più persone, soprattutto tra i giovani, realizzano i danni che questa legge ha causato all’economia e alla posizione globale del Paese. La gestione fallimentare di Hezbollah e dei suoi alleati, che ha portato alla situazione attuale di crisi acuta, non fa che rafforzare l’opinione secondo cui è necessario tentare un nuovo approccio. Dopo decenni in cui il governo libanese ha rivendicato il monopolio sulle decisioni rispetto all’approccio verso Israele, i giovani si sentono rafforzati dall’idea di poter agire localmente e democraticamente per revocare una legge ingiusta. Per essere chiari, questa non è la causa che Kinda el-Khatib ha fatto propria: la sua corrispondenza con un giornalista israeliano è stata incidentale ed è un aspetto marginale della sua prolifica attività sui social media. Ma il suo caso, e il sostengo che ha ottenuto, sottolineano la natura draconiana di una legge che è stata utilizzata per perseguirla per ragioni politiche, e in questo senso potrebbe rivelarsi un punto di svolta”.