Ergastolo ostativo. Davanti alla Consulta l’avvocatura ha fatto un gioco di prestigio di Andrea Pugiotto Il Riformista, 4 aprile 2021 1. È una decisione che si fa attendere, quella sulla costituzionalità dell’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. Svolta l’udienza pubblica il 23 marzo scorso, la Consulta ha poi informato che proseguirà “nella prossima settimana di lavori” la discussione iniziata in camera di consiglio. Decisione molto tesa, dunque, se tale rinvio - in ipotesi - fosse dovuta a una spaccatura interna al collegio. Su questo punta la contraerea preventiva di un dream team di procuratori della Repubblica che, contrario all’incostituzionalità, ha ripreso non a caso il suo crepitio, dedicando alla quaestio una livida attenzione del tutto assente nei mesi precedenti. La saggia regola del “conclave”, che avrebbe voluto i giudici costituzionali uscire dalla camera di consiglio con il dispositivo della sentenza, depositata poi nelle settimane successive, a questo serve: assicurare loro il massimo di serenità possibile, ponendoli al riparo da improprie (e certamente inutili) pressioni esterne. Nel processo costituzionale, infatti, c’è un prima e un dopo in cui è legittimo discutere di ciò che la Corte decide. È chiamata a farlo la dottrina giuridica, riflettendo preventivamente sulla questione di legittimità e annotando poi la relativa sentenza. Lo fanno le parti costituite in giudizio a Corte. Possono farlo ora anche soggetti qualificati della società civile, attraverso l’istituto dell’amicus curiae introdotto nelle norme integrative del processo costituzionale. La stampa, veicolando notizie e commenti, rende fruibile all’opinione pubblica tutto questo. Dentro e fuori il Palazzo della Consulta, si assicura così una dialettica che - come insegna Platone nel Sofista - “è la scienza degli uomini liberi”. Una dialettica tanto più necessaria quando, come in questo caso, è in gioco la sorte di una pena estrema perché fino alla morte. Ma durante la camera di consiglio, la regola generale dovrebbe essere quella del silenzio, rispettoso del compito impegnativo cui sono chiamati 15 giudici che già hanno ascoltato tutto e tutti. È così che si coopera lealmente al sindacato di costituzionalità delle leggi, e non trasformandolo in un derby tra tifosi di schieramenti avversi: in questo caso, gli alfieri senza macchia dell’antimafia contrapposti alle “anime belle” (Gian Carlo Caselli su Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2021). 2. Può essere, invece, che il rinvio sia dovuto a un supplemento istruttorio legato all’inattesa soluzione prospettata, in udienza, dall’Avvocatura dello Stato. La sua tesi è di sciogliere in via interpretativa il nodo costituzionale del regime ostativo penitenziario: “far decantare ogni forma di automatismo” consentendo al tribunale di sorveglianza di verificare, caso per caso, le motivazioni per cui il reo non collabora con la giustizia. Si tratterebbe - dice l’Avvocatura - di “un’esegesi più corrispondente alla ratio delle norme”, capace di bilanciare il dovere ineludibile dello Stato di assicurare ordine e sicurezza, e i principi della Costituzione e della Cedu contrari ad una pena perpetua non riducibile. A sostegno, sono state indicate tre pronunce della Cassazione penale, successive all’ordinanza con cui la sua Prima Sezione ha sollevato la questione di legittimità. L’invito alla Corte costituzionale è di pronunciare una sentenza interpretativa di rigetto che, salvando le norme impugnate, non avrebbe però effetti vincolanti generali. Si è data ampia eco a questa tesi, e nei giorni a seguire le critiche in merito si sono divise tra il troppo e il non abbastanza. A mio avviso, è un’attenzione immeritata e largamente ingiustificata. Il coniglio estratto dal cilindro è solo un gioco di prestigio, e i giudici costituzionali se ne accorgeranno presto. 3. Per smascherarlo, basta conoscere l’abc dell’interpretazione, leggere le sentenze richiamate e avere dimestichezza con il processo costituzionale. Interpretare la legge in modo con- forme a Costituzione è un obbligo per i giudici. Obbligo che però cede il passo all’incidente di costituzionalità, se quella lettura è incompatibile con il tenore letterale della legge. Diversamente non sarebbe più interpretazione, ma creazione normativa: mestiere del legislatore, non del giudice. Lungo questi binari si è mosso, correttamente, il giudice che ha impugnato il regime dell’ostatività penitenziaria, il quale prevede la concessione della liberazione condizionale “solo nei casi in cui” gli ergastolani “collaborino con la giustizia” (artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter). La strada del ricorso alla Corte costituzionale si raccomanda soprattutto quando in materia si è formato un “diritto vivente”, cioè una consolidata applicazione giurisprudenziale che esclude, in concreto, altre soluzioni interpretative. Se in simili casi il giudice seguisse un’esegesi alternativa, la sua pronuncia avrebbe vita breve, destinata a revisione in sede d’impugnazione. Ora, che il diritto vivente in tema di reati ostativi sia nel senso di ritenere preclusa ogni misura extramurale al reo non collaborante, è fuori discussione: la stessa Consulta, per superarlo in riferimento ai permessi premio, ha ritenuto necessario manipolare il testo illegittimo della legge, non invece interpretarlo diversamente (sent. n. 253/2019). 4. Quanto alle tre recenti pronunce della Cassazione evocate in udienza (ma non citate per esteso) dall’Avvocatura, parlano d’altro. Riguardano il collaterale problema di verificare l’esigibilità o meno della mancata collaborazione con la giustizia. Già oggi e per legge, infatti, se la collaborazione è irrilevante (perché il reo nulla o poco sa, in ragione della sua limitata partecipazione al reato) o impossibile (perché già si sa tutto, in ragione dell’integrale accertamento dei fatti) non è escluso l’accesso ai benefici penitenziari (art. 4-bis, comma 1-bis). Ma non è di questo che si discute davanti alla Corte costituzionale. In gioco è un’ipotesi diversa e vietata dalla legge: un ergastolano non collaborante, cui è stata respinta l’istanza volta ad accertarne la collaborazione inesigibile, che chiede egualmente la liberazione condizionale, dopo oltre 26 anni di galera. Il dubbio di costituzionalità nasce dalla contestata equazione legislativa secondo cui collaborazione equivale a ravvedimento (e non collaborazione equivale a pericolosità sociale). Della conseguente preclusione assoluta si evidenziano le principali criticità costituzionali e convenzionali, in linea con gli approdi più recenti delle Corti dei diritti (cfr. Il Riformista, 9 luglio 2020). Di più. Una delle tre sentenze è categorica nel negare che si possa far leva sulla nota sentenza Viola c. Italia della Corte EDU per riconoscere, già ora, l’apertura ai benefici penitenziari per chi non collabora con la giustizia, previo vaglio giurisdizionale: sono “argomenti che esulano dallo stato attuale della legislazione”, espressione di “dinamiche riformatrici in atto”, ma “non ancora positivamente normati” (n. 3521 del 6 novembre 2020). Per l’Avvocatura, averla invocata, più che un assist è un autogol. 5. La verità è che in udienza è andato in scena un mal riuscito cambio di strategia. La memoria scritta dell’Avvocatura puntava ad altro: all’infondatezza della quaestio, “posto che le disposizioni censurate sono pienamente giustificate” per la “particolare oggettiva gravità delle personalità criminali dei soggetti interessati”. O alla sua inammissibilità, perché le censure dell’ordinanza di rimessione “si risolvono in una non condivisibile contestazione di scelte legislative di politica criminale”. In ambo i casi, è come calciare la palla oltre le tribune, invece di impegnarsi in partita. Giocando una tripla (inammissibilità, infondatezza, rigetto interpretativo), l’Avvocatura rivela imbarazzo nel replicare a tono ai dubbi di costituzionalità sul tappeto. Eppure il Governo non è necessariamente il defensor legis a tutti i costi. Inerte il Parlamento, il giudizio di costituzionalità può essere anzi l’occasione per rimediare ad una persistente illegittimità costituzionale e convenzionale. Come in questo caso. Ergastolo ostativo, uno Stato di diritto può tollerare il “fine pena mai”? di Davide Varì Il Dubbio, 4 aprile 2021 L’associazione il Carcere Possibile Onlus interviene a pochi giorni dalla decisione della Consulta sulla liberazione condizione per chi è all’ergastolo ostativo. A pochi giorni dalla decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, in particolare sulla norma che preclude la liberazione condizionale per i detenuti non collaboranti, l’associazione Il Carcere Possibile Onlus torna a condividere con noi una riflessione con un articolo a firma dell’avvocato Sabina Coppola, membro del Consiglio direttivo. Tra pochi giorni la Consulta, tra numerose pressioni emotive e giustizialiste, dovrà pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo e, in particolare, sulla costituzionalità degli artt. 4 bis, comma 1, e 58 ter O.P. e dell’art. 2 D.L. 152/91 nella parte in cui impedisce agli ergastolani per reati commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. di beneficiare della liberazione condizionale senza una utile collaborazione con la giustizia. Vale la pena rileggere oggi ciò che Musumeci (primo ‘ergastolano ostativo’ che ha beneficiato della liberazione condizionale per ritenuta inesigibilità della collaborazione) ha dichiarato nell’ottobre del 2019, all’indomani del convegno fortemente voluto da Il Carcere Possibile Onlus su “il Processo penale infinito” in quanto ancora profondamente attuale: “Sono convinto che la decisione della Consulta possa essere decisiva per sconfiggere i fenomeni criminali. La speranza è l’arma più efficace per cambiare. Prima sapevi di stare dentro per sempre, perché cambiare? Ora non è più la legge a dirti che sei irrecuperabile, ma sarà un magistrato a stabilire se lo sei o meno, mentre in precedenza aveva le mani legate anche se vedeva un cambiamento meritevole di un premio. Il mio sogno è che venga abolito l’ergastolo ostativo e che tutti nel certificato di detenzione abbiano scritta una data di inizio e una di fine e che al mattino sul calendario possano contare quanti giorni mancano”. Il quesito da dirimere è ancora lo stesso: se uno Stato di Diritto, che definisce la pena non come strumento di punizione e di vendetta ma di risocializzazione, possa tollerare ancora l’esistenza di un ‘fine pena mai’. Questo è il tema. Non certo, come qualcuno cerca di far credere, se i ‘mafiosi’ possano tornare liberi ed indisturbati nelle proprie case, ma se sia legittimo presumere che essi restino ‘mafiosi’ per tutta la loro vita, che per loro non esista alcuno spazio di riabilitazione e risocializzazione, nessun percorso che possa consentire una rivalutazione del loro vissuto, nessuna forma di premialità, se non subordinata ad una collaborazione con la giustizia. Non è corretto affermare, come se si trattasse di un teorema scientifico, che un ‘mafioso’ si è dissociato per il solo fatto che abbia collaborato con la giustizia (perché, magari, la ragione della collaborazione è solo il desiderio di riacquistare la libertà e di beneficiare del programma di protezione) e non è possibile sostenere che sia ancora legato ad ambienti criminali chi, magari, si sia davvero dissociato ma non collabori per il timore di ritorsioni sulla famiglia. È arrivato il momento di affermare ciò che la Corte Costituzionale, seppur con timidi passi, sostiene da anni (dalla sentenza 313 del 2 luglio 1990 all’ultima n. 253 del 2019 sui permessi premio), ovvero che l’automatismo secondo il quale l’assenza di una condotta collaborativa equivarrebbe, sempre e comunque, alla perduranza delle esigenze di ordine penale che precludono l’accesso ai benefici penitenziari è incostituzionale. La collaborazione con la giustizia non è (e non può essere) l’unico strumento attraverso il quale il reo può dimostrare l’intervenuta rottura dei legami criminali poiché ve ne sono altri forse ancora più autentici e, dunque, indicativi di un cambiamento reale e strutturale: si tratta dei percorsi di reinserimento sociale seguiti in carcere e dei programmi trattamentali ai quali mostrerà adesione se saprà che esiste per lui anche una sola possibilità di ottenere un beneficio. Se lo Stato accetterà ancora di privare un detenuto del diritto alla speranza, condannandolo ad un fine pena mai, legittimerà, per alcune categorie di soggetti, quel trattamento che la Corte Europea ha chiaramente definito inumano e degradante e, di fatto, disapplicherà l’art. 27 della Costituzione. Il Garante dei detenuti: “Le carceri siano bolle covid-free, con vaccinazioni in massa” di Roberta Lanzara adnkronos.com, 4 aprile 2021 “Aumentano casi positivi, ma quasi tutti asintomatici. Contagi fra agenti polizia penitenziaria conformi ad andamento regione di appartenenza”. La situazione contagi nelle carceri italiane evolve. “È preoccupante ma non allarmante, perché nonostante la consistente crescita di casi positivi nelle ultime settimane, sono quasi tutti asintomatici. Il numero dei sintomatici invece è stabile e basso”. Lo dice all’Adnkronos il Garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma, rilevando che “la necessità di isolamento fa emergere con evidenza il problema degli spazi disponibili. E le bolle anziché sgonfiarsi vanno crescendo” mentre “le carceri devono diventare bolle covid free, con vaccinazioni in massa nessuno escluso”. “Occorre mettere in atto una strategia di controllo che riduca il numero di detenuti ed acceleri sulla vaccinazione in funzione preventiva, non in rincorsa all’insorgere di focolai, che così anziché sgonfiarsi vanno crescendo. Lo sostiene il governatore Cirio, ma queste sono dichiarazioni perdenti - commenta - Bisogna essere strategicamente consapevoli. L’Amministrazione centrale lo è, ma non sempre mi convince l’operato delle regioni che necessitano di una politica più coordinata”. “Abbiamo regioni più avanti, come Abruzzo e Lombardia. Altre come Lazio, Toscana e Molise molto indietro - riferisce - Ma alcune, seppur indietro, sono pronte. Il Lazio ad esempio attende l’arrivo del Johnson e Johnson intorno al 20 aprile, dunque probabilmente trattandosi di un’unica dose recupererà e andrà in testa con le vaccinazioni. In Piemonte invece la strategia non è chiara, per questo è insorta la polemica con Cirio. Vorrei anche capire l’Emilia Romagna”. E i contagi tra gli agenti della polizia penitenziaria? “Si evolvono in sintonia alle curve delle regioni di appartenenza - risponde il Garante nazionale - Ma anche per loro vanno accelerate le vaccinazioni: svolgono un lavoro essenziale e sono fortemente esposti”. Dopo l’ergastolo ostativo, toccherà al 416 bis. Così si smobilita la legislazione antimafia di Davide Mattiello Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2021 Diverse ed autorevoli voci si sono già fatte sentire per avvertire del rischio cui si espone l’Italia a smobilitare il 4 bis dell’ordinamento penitenziario, in particolare facendo saltare il collegamento tra presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato per mafia e collaborazione con la giustizia. Avvertire questo rischio significa non tenere in conto il dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena? Significa non tenere nel debito conto il principio di individualizzazione della pena? Significa non sapere che esistono mafiosi che collaborano pur restando mafiosi e mafiosi che pur non collaborando smettono di avere rapporti con l’organizzazione? Significa non avere fiducia nella magistratura di sorveglianza? Per quanto mi riguarda no, quattro volte no. Significa piuttosto fare i conti con tre questioni e decidere che sulla bilancia debbano pesare di più queste, anzi che no. La prima: lo Stato non è Dio (e meno male!), non può e non deve esplorare la coscienza delle persone per giudicarla, deve semmai conoscere e valutare condotte oggettive che possano rappresentare una certa scelta individuale. Seconda: le organizzazioni criminali di stampo mafioso sono sodalizi segreti basati sul vincolo associativo, un vincolo a tal punto saldato dalla violenza, che è prima di tutto violenza interna al medesimo sodalizio, da essere percepito come ineludibile ed inarrestabile tanto da generare omertà ed assoggettamento. La terza: lo Stato ha un fondamentale dovere nel tutelare i propri stessi funzionari, per esempio non sovra esponendoli al rischio di subire violenza nell’esercizio dei propri compiti. Il “mix” di queste tre questioni dovrebbe continuare a far pesare la bilancia dalla parte fin qui ritenuta coerente ed opportuna: anche il mafioso ha diritto ad un percorso di riscatto personale e sociale, a condizione che collabori con lo Stato, punto. Ciò posto sulla questione puntuale che ormai da oltre due anni anima il dibattito dentro e fuori le aule di Giustizia, la preoccupazione per me più grande è questa: anziché convincere l’Unione Europea della necessità di norme europee particolarmente severe per prevenire e contrastare il modo mafioso di organizzare il crimine sulla scorta delle norme elaborate in Italia, è l’Italia che si sta facendo convincere che non esista (più) la necessità di queste norme. Perché quello che sta succedendo relativamente al 4 bis o al 41 bis dell’ordinamento penitenziario, sembra simile a quanto sta capitando, pure in modi differenti, ad altri caposaldi della legislazione italiana in materia di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Qualche esempio, soltanto per titoli: c’è chi spinge per il superamento della centralizzazione e specializzazione degli apparati investigativi e giudiziari, principi che hanno ispirato la creazione di Dia e Dna; c’è chi tifa per la vendita dei beni confiscati ai mafiosi ed intanto gufa sull’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati, scommettendo sul tanto peggio, tanto meglio; c’è chi organizza fior di convegni per minare alle fondamenta tutto l’impianto delle misure di prevenzione tanto amministrative (interdittive antimafia, scioglimento dei comuni per infiltrazione mafiosa) quanto giudiziarie (sequestri e confische patrimoniali); c’è chi non ha mai smesso di sminuire il ruolo dei collaboratori di giustizia o di rendere estremamente faticosa la strada ai testimoni di giustizia. Nessuno si è ancora azzardato a riaprire la discussione sul 416 bis, ma è soltanto questione di tempo. Perché, di questo sono convinto, è proprio il 416 bis il target da abbattere per riportare la storia italiana indietro di quarant’anni e inibire l’evoluzione di quella europea. Il Parlamento italiano, è noto, approvò di malavoglia e tra le polemiche il 416 bis nel 1982, e lo fece soltanto perché lo impose il sangue versato prima da Pio La Torre, ispiratore della norma, e poi da Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il 416 bis stabilisce in buona sostanza che provata l’appartenenza di un soggetto ad un certo tipo di sodalizio criminale, non si ha più bisogno di dimostrare che egli abbia in concreto realizzato una specifica condotta delinquenziale (in gergo si dirette: reato fine), perché si ritiene criminale, cioè gravemente pericolosa per l’ordine pubblico, la mera appartenenza a questo tipo di sodalizio. E quale sarebbe questo “tipo” di sodalizio così pericoloso da giustificare una simile reazione da parte dello Stato? Quello basato appunto sulla segretezza e sulla violenza del vincolo associativo capace di terrorizzare tanto da ottenere ubbidienza. E questo modo di fare crimine è assai pericoloso perché potenzialmente eversivo dell’ordine democratico. Chi non lo capisce non conosce la storia italiana o fa finta di dimenticarla. Finisco con una proposta: anziché continuare lavorare per “modificare” le norme antimafia, perché non lavoriamo con altrettanto entusiasmo a modificare la legge 17 del 1982, rendendola finalmente capace, come avrebbe voluto la compianta Tina Anselmi, di contrastare le organizzazioni segrete-punto? Che sono vietate dalla Costituzione, a-ri-punto. Foggia. Suicidio Gerardo Tarantino in carcere. L’avv. Sodrio: “Vogliamo sapere la verità” foggiatoday.it, 4 aprile 2021 “Vogliamo sapere se si è trattato di un suicidio o se Gerardo Tarantino è stato “suicidato” da qualcuno”. Il commento del legale di Gerardo Tarantino, l’avv. Michele Sodrio, a poche ore dalla notizia del ritrovamento del corpo senza vita del suo assistito nel bagno della cella del carcere di Foggia: “Vogliamo conoscere la verità”. Gerardo Tarantino, l’unico indiziato dell’omicidio di Tiziana Gentile avvenuto il 26 gennaio a Orta Nova, è stato trovato senza vita nel bagno della cella del carcere in cui era ristretto dal giorno successivo al fermo avvenuto nei pressi dell’abitazione della vittima. L’avvocato Michele Sodrio si dice “indignato” per l’epilogo: “Avevo segnalato in ogni modo che Gerardo Tarantino era una persona gravemente disturbata e quindi ad alto rischio di suicidio. Ho chiesto espressamente alla direzione del carcere che fosse sottoposto a stretta sorveglianza, ma è chiaro che non siamo stati presi sul serio”. Sodrio fa sapere che presenterà formale denuncia alla Procura “affinché si tenti di fare piena luce sull’accaduto, anche perché”, aggiunge “nei giorni precedenti il mio cliente mi aveva parlato e scritto ripetutamente di minacce di morte. Purtroppo non era riuscito a indicarmi dei nomi, ma metterò tutto a disposizione degli inquirenti”. E ancora, aggiunge il legale di Tarantino, “l’ultima volta che l’ho sentito è stato ieri pomeriggio per la solita telefonata settimanale ed era in uno stato di fortissima agitazione, urlava la sua innocenza, piangeva e diceva di essere stato riportato in un reparto dove non voleva assolutamente stare, per di più collocato in una cella da solo. Ho cercato di calmarlo e rassicurarlo, ma poi la chiamata si è bruscamente interrotta per lo scadere dei 10 minuti di durata prevista” Sodrio prosegue: “Ero molto preoccupato, tant’è che avevo in programma di tornare a trovarlo di persona martedì mattina. Purtroppo non ho fatto in tempo. Mi sento anch’io in colpa, forse avrei dovuto fare di più per gli accertamenti medico-psichiatrici, anche se avevo già interessato uno dei miei consulenti per procedere con una valutazione subito dopo Pasqua”. L’avvocato di Orta Nova conclude: “A nome di tutti i familiari di Gerardo Tarantino chiediamo alla Procura di svolgere delle indagini rigorose, per accertare cosa sia davvero accaduto. È inaccettabile che un cittadino nelle mani dello Stato sia ritrovato morto da un momento all’altro. Si tratta di un suicidio o Gerardo Tarantino è stato “suicidato” da qualcuno? Vogliamo sapere la verità”. Catanzaro. Situazione critica in carcere: 70 detenuti positivi al Covid nuovosud.it, 4 aprile 2021 “Non si arresta il focolaio di Covid-19 nella Casa circondariale di Catanzaro e la situazione è diventata esplosiva. Da quanto appreso dagli ultimi dati forniti dall’Amministrazione è salito a quota settanta il numero dei detenuti contagiati, per due dei quali si è dovuti ricorrere al ricovero ospedaliero, mentre i poliziotti penitenziari positivi sono diciassette”. A darne notizia è Aldo Di Giacomo segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria S.PP.. “La parola d’ordine è vaccinare - afferma Di Giacomo - e la campagna vaccinale va assolutamente velocizzata cosicché, al pari di quanto accaduto nelle Rsa, possa essere ridotto e arginato il pericolo di ulteriori focolai. Siamo ad aprile, ma soffermandoci sulla popolazione ristretta sono stati vaccinati solamente 5.886 detenuti su 54.000, mentre il totale dei poliziotti penitenziari avviati alla vaccinazione è di 14.916. Al fine di minimizzare i tempi e provare a recupere il notevole ritardo, sarebbe opportuno somministrare Johnson & Johnson di cui per l’immunità è prevista una sola somministrazione rispetto ad AstraZeneca che prevede due iniezioni”. In relazione a quanto accade nella Casa Circondariale di Catanzaro, prosegue Di Giacomo “è necessario monitorare costantemente l’andamento dei contagi mediante esecuzione di tamponi molecolari, ripetuti a distanza di tempo, sia per il personale che per la popolazione ristretta e dotare il personale di ogni Dpi. Vista l’esplosività del focolaio potrebbero iniziare a mancare i posti in isolamento sanitario dunque pare opportuno, così come è avvenuto ed avviene in altri istituti penitenziari, valutare la possibilità di uno sfollamento al fine di contenere i contagi e salvaguardare sia coloro che non sono stati contagiati e sia la comunità esterna alle mura del carcere. Ad ogni modo se il piano vaccinale non viene portato avanti in modo più rapido nelle carceri, il rischio contagi potrebbe sfociare in ulteriori e gravissimi pregiudizi all’incolumità dei detenuti, dei Poliziotti e di quanti vengono in contatto con chi a qualsivoglia titolo vi faccia ingresso”. Padova. Nuovo focolaio al Due Palazzi. Il direttore Mazzeo: “Errore non vaccinare i detenuti” di Ivan Grozny Compasso padovaoggi.it, 4 aprile 2021 Nuovo focolaio al Due Palazzi. Il direttore Mazzeo: “Un errore non vaccinare i detenuti”. Sono sessantanove i positivi tra i detenuti della casa circondariale, una quindicina gli agenti. “Una comunità chiusa come il carcere avrebbe dovuto essere trattata come una Rsa. Si avrebbe dovuto vaccinare i detenuti, coloro che operano nel terzo settore e tutti coloro che qui lavorano”. “Una comunità chiusa come il carcere avrebbe dovuto essere trattata come una Rsa. Si avrebbe dovuto vaccinare i detenuti, coloro che operano nel terzo settore e tutti coloro che qui lavorano. Questo non è stato fatto e non so in che tempi si farà. Io questo l’ho chiesto da tanto tempo, soprattutto per quelli più fragili. Anche la garante regionale si è interessata alla questione”. Il direttore del carcere Due Palazzi, Claudio Mazzeo si trova di nuovo a dover fronteggiare un focolaio all’interno della casa di reclusione. Lui e tutti coloro che ci vivono e ci lavorano. Focolaio - Sono sessantanove i positivi tra i detenuti, una quindicina gli agenti. “Già da un anno come tutti stiamo vivendo questa situazione, con le difficoltà che però ha una situazione come questa. Abbiamo dovuto fermare tutte le attività e prendere tutte le iniziative possibili per contenere il propagarsi del virus. Devo dire che i detenuti hanno compreso bene la situazione e si sono comportati in maniera molto responsabile. È chiaro che il personale è molto sotto pressione e nonostante la stanchezza sta garantendo i servizi e tutti gli spostamenti dei detenuti. Grandissimo lo sforzo del personale medico che sta lavorando da mesi senza sosta. Questi aspetti mi fanno sentire ottimista”. Vaccini - Sul fronte vaccini, il direttore ci fa sapere che il 60% del personale ha aderito alla campagna, il che fa sottintendere che il 40% non lo ha fatto. “Ripeto, fermo restando che è giusto ci sia la libertà di scelta, è altresì vero che a maggior ragione per questo si doveva puntare subito sul vaccinare i detenuti perché se si contagia chi a casa ci può andare è un conto, se si ammala un detenuto è un problema più grande che coinvolge inevitabilmente tante altre persone”. Il direttore ci fa notare che la seconda ondata ha avuto il suo picco a Natale e che i contagi di questi giorni sono dovuti alla cosiddetta variante inglese. “Siamo comunque in attesa di avere l’esito di altri tamponi, ma sembrerebbe che questi contagi siano dovuti a questa variante”. Politica - Che ci voglia un cambio di rotta pare indispensabile, soprattutto a fronte di quanto accaduto quest’anno: “La politica deve fare un salto di qualità per quando riguarda il carcere. Il carcere ha una funzione sociale, rappresenta una fase della vita di una persona, non può essere considerato il rimedio assoluto. Il carcere è un percorso, non può essere una soluzione a vita”. È un passaggio, quello che si richiede, anche culturale: “A Padova devo dire che per fortuna la situazione è migliore, il carcere è abbastanza integrato con la società. L’inserimento dei detenuti nei lavori di manutenzione in squadra con gli operai del comune e della provincia, ad esempio, è un pratico esempio di inserimento nella società. Ma sono tantissimi i progetti, preziosi, ai quali non si può e non si deve rinunciare. Ma c’è ancora una parte della società che pensa ancora che il carcere sia un luogo dove rinchiudere chi delinque ed è vissuto come qualcosa di completamente staccato dalla società. Su questo c’è ancora tanto lavoro da fare, bisogna impegnarsi tutti”. Napoli. Giustizia celere, i penalisti contro l’Anm: subito confronto Corriere del Mezzogiorno, 4 aprile 2021 Il Foro di Napoli si schiera decisamente dalla parte delle Camere penali del distretto della Corte d’Appello che, in un documento, ha denunciato le gravi disfunzioni del Tribunale di Sorveglianza invocando “una significativa azione politica congiunta tra avvocati, magistrati e personale amministrativo affinché il Governo disponga con immediatezza tutti i provvedimenti necessari per il ripristino della legalità costituzionale della pena”. Di fatto, tale nota ha provocato le dichiarazioni del presidente della giunta partenopea dell’Associazione magistrati che ha sottolineato che “i toni utilizzati dagli avvocati non rispondono alla necessità di un confronto sereno e proficuo. Non possiamo essere additati come i soggetti che violano la Costituzione, non ci aspettavamo queste parole da parte delle Camere penali e ci auguriamo che questa ferita venga presto risanata”. Il punto di vista del Foro partenopeo è stato spiegato dal suo presidente, Antonio Tafuri. “Abbiamo letto con animo sereno e costruttivo il documento delle Camere penali e l’invito ad un’azione congiunta tra magistrati, avvocati e personale amministrativo: risulta chiaramente volto a valicare i confini locali per raggiungere il Governo nazionale per ripristinare il buon andamento del Tribunale di Sorveglianza. Pertanto aderiamo pienamente ai contenuti, alla forma e ai toni del documento di Camere penali. Non comprendiamo la reazione dei vertici di Anm e nemmeno si comprende come il documento in questione possa determinare una frattura tra avvocati e magistrati. Piuttosto che spendere una parola su come risolvere le molteplici problematiche evidenziate, Anm punta il dito sul documento di (legittima) denuncia delle Camere penali. Auspichiamo la continuazione di ogni forma di confronto e dialogo tra avvocati e magistrati affinché venga portata ai massimi livelli l’azione e la protesta per una Giustizia più celere e umana. Ricordando che se oggi la Giustizia va avanti è anche per l’encomiabile abnegazione e lo spirito di sacrificio degli avvocati del distretto di Napoli che, in uno dei momenti più difficili della loro storia professionale, continuano a districarsi tra incredibili inefficienze e lungaggini amministrative”. Forlì. Lo si progetta da 18 anni, slitta ancora la data per il nuovo carcere di Fabio Campanella forlitoday.it, 4 aprile 2021 È una storia tutta italiana che vede un’opera pubblica quanto mai necessaria per la città impiegare 20-25 anni per vedere la luce. L’ultima data spesa per il completamento del nuovo carcere è stata, due anni fa, quella della fine del 2022. Precedenti date di conclusione dei lavori erano state fissate, nel tempo, nel 2019 e 2012. E pensare che la prima pratica relativa al maxi-progetto del carcere del Quattro negli archivi del Comune risale al 2003. Ora invece arriva la conferma di un nuovo slittamento e, nella migliore delle ipotesi, il nuovo carcere di Forlì lo si potrà vedere completato nel 2024 o più probabilmente nel 2025. È una storia tutta italiana che vede un’opera pubblica quanto mai necessaria per la città impiegare 20-25 anni per vedere la luce. Necessaria perché il carcere della Rocca, risalente all’Ottocento, è una struttura vetusta per la sua funzione penitenziaria e perché l’area della Rocca di Ravaldino e la sua relativa cittadella, incastonata nel centro storico e nel campus universitario, meriterebbe una valorizzazione culturale ora impossibile. Per cui ogni progetto successivo relativo ad usi alternativi della Rocca dovrà essere rinviato di almeno 3-4 anni. Il progetto del nuovo carcere, situato nella frazione Quattro, in un fazzoletto di campagna tra la Cava, i Romiti e San Varano, è stato permesso da una variante urbanistica del 2003 con una conferenza dei servizi ‘lampo’ (durò appena un paio di mesi l’iter di localizzazione), presieduta dall’allora Procuratore della Repubblica. Trovata la localizzazione nell’ambito del piano regolatore, il Comune non è più parte della partita. Anzi, essendo un’opera pubblica coperta di fatto dal segreto, per via della sua destinazione a carcere, è di fatto un’isola fuori dal controllo degli enti locali e in mano completamente al Ministero della Giustizia e al Provveditorato alle Opere Pubbliche. Neanche la ditta appaltatrice dei lavori può condividere i progetti con gli uffici comunali dell’urbanistica. “Quello che si sa è che il progetto è in due lotti, il primo è relativo alla palazzina destinata a servizi e uffici e ci comunicano che il cantiere qui è in corso e questo plesso potrebbe essere pronto nel 2022. Ma quello che manca è l’avanzamento del blocco destinato alla detenzione, il cui appalto affidato ad una ditta vincitrice di un bando è stato impugnato al Tar da un’altra ditta e attualmente pende il giudizio al Consiglio di Stato”, spiegano gli assessori comunali alle Opere pubbliche Vittorio Cicognani e alla viabilità Giuseppe Petetta. Il dato emerge da aggiornamenti informali che arrivano anche per armonizzare i tempi delle opere di competenza comunale, in particolare la viabilità per raggiungere il futuro carcere, che ora grava solo su piccole strade di campagna, come via Celletta dei Passeri. Il bando di gara, risalente alla fine del 2018, per il blocco penitenziario, infatti, ammontava a 34 milioni di euro di valore, ed è stato aggiudicato alla Devi Impianti di Busto Arsizio (Varese) con un ribasso del 23%, quindi 26 milioni di euro di lavori stimati, ma con una sentenza del gennaio 2019 del Tar dell’Emilia-Romagna il provvedimento di aggiudicazione è stato annullato. A seguire la vicenda del bando, criticato anche a livello politico per alcuni requisiti tecnici, era stato il deputato forlivese Marco Di Maio. Dal nuovo stop, l’ultimo di una serie di intoppi burocratici, la palla è interamente in mano alla giustizia amministrativa. La struttura nel 2016 fu anche oggetto di una visita del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, ma senza alcun esito apprezzabile. Dagli archivi spunta anche una data di apertura, prevista dall’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano nel dicembre 2012. “Il Comune, da parte sua ha messo nel piano triennale degli investimenti 4 milioni di euro per la viabilità di accesso, una cifra anche eccessiva, ma che ci permette di far fronte ad eventuali emergenze”, spiegano Petetta e Cicognani. Si tratta di fondi per una strada di 300 metri e relative rotonde che dovrebbe unire l’ingresso del nuovo carcere al futuro tratto di tangenziale da San Varano a Villanova, la cosiddetta Tangenziale Ovest. “La bretella stradale è un’opera che non realizziamo con priorità, dati i tempi incerti sul carcere e della tangenziale, perché vorrebbe dire fare una strada che finisce in un campo”, sempre i due assessori. Nella partita, oltre al Ministero della Giustizia e, per la sua parte esterna il Comune, c’è infine anche l’Anas. “Quando si è insediata questa amministrazione - concludono Petetta e Cicognani - hanno dovuto iniziare l’iter, dato che di fatto non c’era ancora niente, per la ‘Tangenziale Ovest’, il tratto tra la fine del terzo lotto, all’attuale semaforo di San Varano, tra via del Guado e via Firenze, e viale Bologna verso la rotonda di Villanova”. Il progetto, che deve essere realizzato dall’Anas, ha un valore di circa 22-23 milioni di euro, per una strada a raso, un’unica carreggiata con corsia di emergenza e pista ciclabile (una strada di categoria C), simile alla parte ri-ammodernata dalle Bidentina tra Carpena e Meldola. La strada, non ancora finanziata, chiuderà l’anello del Sistema Tangenziale di Forlì e passerà tra il nuovo carcere e la zona artigianale del Quattro, eliminando il carico di traffico che ora grava su via Cava e via Ossi. “Abbiamo già ricevuto un finanziamento di 530mila euro per la progettazione dell’opera, che è in corso grazie a Forlì Mobilità Integrata - concludono Petetta e Cicognani. Di quest’opera vedremo però presto una rotonda che sorgerà all’attuale incrocio semaforico di San Varano”. Una rotonda che ‘lancerà’ una strada di scorrimento veloce verso un carcere che, però, non si sa quando sarà completato. Voghera. Banco Alimentare, anche il personale e i detenuti del carcere hanno donato beni vogheranews.it, 4 aprile 2021 Ancora una volta il personale e i detenuti della Casa Circondariale di Voghera hanno aiutato le persone in difficoltà. Per la terza volta in un anno, infatti, l’Istituto vogherese ha raccolto generi alimentari in collaborazione con l’associazione “Banco Alimentare Onlus”, a beneficio dei 2.000.000 di famiglie che versano in gravi difficoltà economiche. “La Direzione e tutto il personale penitenziario - spiega la direttrice Stefania Mussio - con sensibilità hanno partecipato alla donazione di generi alimentari che saranno destinati alle strutture caritative locali. Individuato il punto di raccolta presso il bar del personale, tutti gli operatori e in particolare la Polizia Penitenziaria hanno risposto immediatamente e con generosità, con il prezioso coordinamento di Fortunata Di Tullio, capo area giuridico-pedagogica, e del vice ispettore Michele Tempesta.” Alla fine sono stati consegnati ben 21 scatoloni pieni di beni di prima necessità. “Sappiamo che l’emergenza Covid-19 ha incrementato le necessità in tutto il territorio nazionale e in questo luogo di confine, tra le province di Pavia e Alessandria, le richieste di supporto risultano notevoli - prosegue la direzione. Un ringraziamento speciale va, perciò, all’associazione “Banco Alimentare Onlus” e specificatamente al signor Maurizio Barbieri, sensibile e solerte, che si è occupato del ritiro degli scatoloni, per l’opportunità di condividere un momento di solidarietà concreta verso chi è più debole e solo”. “Altrettanto disponibili - conclude l’Istituto - si sono dimostrate le persone detenute che hanno colto lo spirito dell’iniziativa e hanno contribuito significativamente, elargendo parte della propria spesa settimanale a chi ha più bisogno”. Andria (Bat). “Senza Sbarre”, domani mattina su Rai 1 di Riccardo Di Pietro andriaviva.it, 4 aprile 2021 Il programma “Storie Italiane” in collegamento con la Masseria San Vittore. Lunedi mattina su RAI 1 dalle ore 9,55 alle 11,00 andrà in onda il programma “Storie Italiane” condotto dalla giornalista Eleonora Daniele. Durante la trasmissione in diretta ci sarà un collegamento tv con la Masseria San Vittore di Andria. Da questo luogo dove oggi sorge una prospettiva molto ambiziosa riguardante le misure alternative al carcere, sarà raccontato il percorso compiuto nel corso di questi anni; dalla pubblicazione del libro “Dono di un dono” di don Riccardo Agresti e Claudio Baglioni sino ad arrivare alla nascita del progetto diocesano “Senza Sbarre”. Don Riccardo Agresti spiega che il Progetto dovrebbe essere visto come l’unica alternativa al carcere e che bisognerebbe diffondere l’idea che è possibile progredire dallo status di detenuto. Dopo 250 anni di evoluzione del carcere, tuttavia continua a persistere un deficit dell’attenzione verso la funzione rieducativa della detenzione giudiziaria; questo progetto “Senza Sbarre” è sicuramente innovativo, coraggioso e soprattutto è visto dalla Chiesa con grande slancio perché accoglie l’uomo nella sua fragilità, una fragilità che non è considerata un suo errore ma è tutt’altro, è proiezione verso la redenzione per il perdono. Il Progetto Diocesano “Senza Sbarre” è un sogno condiviso e realizzato dal Vescovo di Andria Mons. Luigi Mansi, di Don Riccardo Agresti e Don Vincenzo Giannelli, mosso dal desiderio di occuparsi di eseguire la misura alternativa al carcere in comunità attraverso l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti. Dietro le sbarre c’è sempre la persona che va rieducata. Possiamo imparare molto incontrandolo. Senza reddito, la lunga fila in Italia per il pasto di Pasqua di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 4 aprile 2021 Pandemia sociale. Un milione di indigenti in più nell’anno del Covid: Viaggio in Italia da Nord a Sud, nelle mense per i poveri, con le scuole chiuse, mentre aumenta il lavoro in nero per necessità, la povertà alimentare ed educativa dei bambini e la disoccupazione femminile A Milano una coda da mezzo chilometro davanti a una mensa. Da Genova a Vicenza e Cosenza si teme il momento in cui saranno sbloccati i licenziamenti e gli sfratti: “L’onda crescerà”. È l’esito del fallimento di un Welfare emergenziale e del rifiuto di estendere il “reddito di cittadinanza” con misure incondizionate e universali. A Roma i movimenti per la casa e le associazioni protestano contro il piano “Lupi-Renzi” che colpisce gli occupanti per necessità in situazioni drammatiche nella pandemia. La fila lunga mezzo chilometro vista anche ieri a Milano alla vigilia di Pasqua in attesa di ricevere un pasto con uova di cioccolata e colombe è la concretizzazione del dato sconvolgente comunicato dall’Istat il 4 marzo scorso: le famiglie in povertà assoluta sono oltre 2 milioni, 335 mila in più. In totale gli individui censiti in questa condizione sono 5,6 milioni, oltre un milione in più rispetto al 2019. Dopo il primo anno della pandemia ci sono in Italia un milione di individui poveri assoluti in più che non riescono a sostenere le spese per la casa, per la salute e il vestiario, i pasti e quelle per i figli. Questa situazione è, da mesi, visibile in viale Toscana a Milano, una delle sedi di Pane Quotidiano, l’associazione laica di volontariato milanese (dal 1898), a pochi passi dalla nuova sede dell’università Bocconi dove sorgono torri avveniristiche e circolari, mentre le file arrivano al semaforo dell’incrocio con via Castelbarco. Qui, ogni giorno, raccontano i volontari, ci sono circa 3500 persone che ritirano un pasto, la fila può durare anche un’ora. Al sabato si mettono in fila anche oltre 4 mila persone. Il profilo sociale del povero è quello del lavoratore impoverito, non solo straniero ma sempre di più anche di cittadinanza italiana, disoccupato e precario. Comunque di una persona che, prima della pandemia, si manteneva in equilibrio sul bordo della povertà e, negli ultimi mesi, è stato preso in pieno e, più, è stato escluso dai bonus simbolici, temporanei e occasionali erogati dal governo “Conte 2” e oggi prorogati solo in una piccola parte residuale dall’esecutivo Draghi. I volontari milanesi raccontano di incontrare liberi professionisti, persone con lavori precari, non regolari e anche in nero, che non hanno potuto accedere al Welfare dell’emergenza e oggi sono ancora più esclusi. Una percentuale rende l’idea: il 65 per cento di chi ricorre sono stranieri, ma nell’ultimo anno si sono moltiplicati gli italiani. Il menu cambia, di solito sono previsti 300-350 grammi di pane, un litro di latte, un pacco pasta, yogurt, formaggi e talvolta anche salumi, frutta e verdura e dolciumi. Alla mensa di Santa Sabina della Comunità di Sant’Egidio di Genova hanno calcolato un aumento dei pasti serviti ogni giorno dall’inizio della pandemia da 450 a 850. La composizione sociale si avvicina molto a quella vista a Milano. Anziani, madri sole, padri separati, colf, ma anche giovani che non riescono a sopravvivere con lavori precari. E poi professionisti ultracinquantenni, spesso lavoratori autonomi per i quali è impossibile accedere al modesto, e simbolico, bonus con il nome impronunciabile “Iscro”. Il reddito massimo da dimostrare per accedere a questa misura è 8.350 euro annui, mentre la media di chi è iscritto alla gestione separata Inps è 15 mila euro. I responsabili della mensa sostengono che era dall’ultima guerra che non si vedeva in città una richiesta così massiccia di aiuti primari. A Genova la sensazione è che siamo solo all’inizio. L’onda della crisi sociale è lunga e sta montando. La povertà non dilaga solo a Nord, ma anche a Sud. Alla Fondazione Casa San Francesco D’assisi-Onlus di Cosenza è stato descritto un profilo sociale preciso delle nuove povertà che riguardano “anche nuclei familiari che fino a prima della pandemia avevano un equilibrio anche non precario e che ora accedono ai nostri servizi dall’esterno. Chi, invece, aveva un equilibrio precario, è stato completamente sconvolto. Penso a tutti quelli che lavoravano in nero, o alla giornata, ma anche alle famiglie monoreddito”. Uno spaccato sociale di questa situazione è emerso ieri in un rapporto della Cgia di Mestre. Camerieri in attesa di tornare a lavorare che si improvvisano edili, dipintori, idraulici, giardinieri o addetti alle pulizie. Eseguono piccoli lavori pagati poco e in nero che permettono a molte famiglie di mettere assieme il pranzo con la cena. Addetti del settore alberghiero e della ristorazione, parrucchiere ed estetiste che si recano nelle case degli italiani ed esercitano irregolarmente i servizi e i lavori più disparati. In una crisi che ha già bruciato 450 mila posti soprattutto precari, sta facendo crescere il lavoro in nero. Prima della pandemia erano 3,2 milioni di persone. Tuttavia il numero di questi invisibili è difficilmente quantificabile, così come lo sarà quello di chi lavorerà in nero nelle campagne durante le raccolte stagionali. L’assenza di un reddito di base non favorisce solo la crescita del lavoro nero e senza diritti, ma anche della povertà dei bambini. In settimana Save The Children ha reso nota la stima: sono 160 mila i bambini che non hanno accesso a un pasto garantito dalle mense scolastiche. Questo è un aspetto drammatico della chiusura delle scuole decisa in Italia, un paese che ha uno dei record europei negativi di didattica in presenza. La mensa era uno dei modi usati dai genitori per assicurare ai figli un pasto quotidiano. Questo, in realtà, non avviene in maniera uniforme sul territorio nazionale. Su 40.160 edifici scolastici, solo 10.598 hanno una mensa. A Nord ce ne sono di più, a Sud molto meno. Questo è un altro aspetto sostanziale della povertà educativa, aumentata a causa delle carenze tecnologiche che in Italia non assicurano un diritto all’accesso alla rete uguale per tutti e per le condizioni abitative dove le famiglie sono state costrette a convivere in spazi angusti durante la pandemia. Strettamente collegata a questa situazione è la condizione sempre più precaria delle donne. L’Istat ha fatto un primo bilancio parziale degli effetti del ‘lockdown’ dell’ultimo anno. Tra il secondo trimestre del 2019 e quello del 2020 sono saltati 470.000 posti per le donne. E, su 100 impieghi persi al tempo del Coronavirus sono il 55,9%. Commentando con Il Manifesto questi dati Chiara Saraceno ha detto: “Si sono persi molti redditi principali nelle famiglie, ma anche molti secondi redditi, quelli che di solito permettono di mantenere il nucleo sopra la soglia della povertà. Sono le donne ad avere il secondo reddito, sono loro a fare da cuscinetto di riserva. La crisi le colpisce molto duramente”. In questa situazione il timore è che alla fine del blocco dei licenziamenti a fine giugno per chi lavora nelle Pmi e nelle grandi imprese, e in autunno, per gli occupati nelle micro e piccolissime aziende, la fine delle proroghe dei cosiddetti “sostegni” (ex “ristori”) si aggiungeranno molti altri a questi esclusi dal Welfare sia dal cosiddetto “reddito di cittadinanza” che dal “reddito di emergenza”. Misure che non hanno impedito tale aumento della povertà perché pensate per segmentare la povertà e governare l’esclusione dei poveri. Non avere pensato l’anno scorso come più volte scritto anche su Il Manifesto ad allargare, in maniera incondizionata e senza vincoli, il “reddito di cittadinanza” inteso come misura unica e universalistica sta comportando queste conseguenze. Già nell’ottobre scorso il rapporto Caritas 2020 aveva descritto gli effetti delle politiche sociali estemporanee adottate in Italia nei primi mesi del lockdown duro. Con l’introduzione del reddito di emergenza è stato il “paradosso di misure emergenziali che generano esclusione e favoriscono gli “affiliati” al sistema di protezione e assistenza sociale, invece di coinvolgere nella maniera più ampia e inclusiva i destinatari dei sostegni”. Un simile paradosso è stato l’effetto della moltiplicazione dei sussidi (i bonus per le partite Iva iscritte all’Inps e ad altre categorie di lavoratori indipendenti e intermittenti) e dei sussidi (il “reddito di emergenza” che ha duplicato temporaneamente il cosiddetto “reddito di cittadinanza”). Insieme, questi elementi, hanno rafforzato una politica tradizionale in Italia, quella della segmentazione della povertà in categorie create per governare i poveri e respingere nell’invisibilità milioni di altri che ora riappaiono nelle file in molte città. Mentre la politica si industria a sdoppiare il reddito di cittadinanza in una politica dell’assistenza e in una delle “politiche attive del lavoro”, già prevista dalla legge che lo ha istituito nel 2019, continua l’inesorabile frammentazione della misura a livello regionale. Ad esempio in Puglia dove nel primo mandato del presidente Emiliano è stato varato un “reddito” locale, chiamato “reddito di dignità” (Red). Questo modello risponde alla consueta idea “workfarista” per cui i poveri devono lavorare in cambio di un sussidio a tempo da 500 euro mensili in media. E questo anche quando non esiste un lavoro e mancano gli strumenti amministrativi per la formazione obbligatoria. In più mancano anche i fondi. “Purtroppo - ha detto l’assessora regionale al Welfare, Rosa Barone - viste le tante domande arrivate l’assessorato è stato costretto a sospendere la presentazione delle domande il 30 dicembre 2020 e tante sono state quelle ammissibili ma non finanziabili”. In ogni caso la Puglia investirà altri 22 milioni di euro e sostiene che arriveranno a 3.600 famiglie. A Vicenza la Caritas Diocesana racconta che, oltre alle richieste di cibo alle mense, ci sono anche quelle per i posti letto. Prima della pandemia riguardavano una media di due italiani, oggi è salita a sette persone che non hanno un tetto e chiedono ospitalità. Sono persone più che adulte che hanno perso il lavoro e non riescono a pagare l’affitto. Questa situazione potrebbe peggiorare quando scadrà la proroga del blocco degli affitti dopo il prossimo 30 giugno. Nessuno, in un anno di pandemia, ha pensato a rilanciare una politica pubblica del diritto all’abitare. L’Unione inquilini ha chiesto un vero piano pluriennale e strutturale di edilizia residenziale con le risorse del “Recovery plan”. Venerdì 9 aprile i movimenti per la casa di Roma, insieme a associazioni come a Buon Diritto, Asgi e altri hanno lanciato una mobilitazione all’anagrafe della Capitale contro il “Piano casa” Renzi-Lupi ancora in vigore dal 2014 che, di fatto, i poveri che vivono in occupazione per necessità vengono espulsi dallo stato di diritto e privati dei diritti fondamentali. Anche nella pandemia la guerra ai poveri continua. “Liberare i brevetti dei vaccini è possibile. Lo consentono gli accordi internazionali” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 4 aprile 2021 Intervista a Vittorio Agnoletto, medico e promotore della “Campagna europea diritto alla cura”: “Nessuno vuole colpire le aziende, ma serve equilibrio tra interesse privato e vite umane”. “Nessuno vuole colpire le aziende farmaceutiche, chiediamo di trovare un equilibrio tra l’interesse privato e le vite umane”. Vittorio Agnoletto, medico e docente di “Globalizzazione e politiche della salute” all’Università degli Studi di Milano, spiega così il senso della “Campagna europea diritto alla cura”, lanciata per convincere la Ue a modificare gli accordi commerciali con le aziende farmaceutiche, con una sospensione, almeno temporanea, dei brevetti dei vaccini. “Non possiamo permettere che la salute dell’umanità sia nelle mani di una manciata di consigli d’amministrazione”, dice. Il comitato promotore italiano, che Agnoletto coordina e rappresenta in Europa, è composto 94 organizzazioni - dai sindacati al vasto mondo dell’associazionismo - e ha un obiettivo preciso: raccogliere un milione di firme (sulla piattaforma noprofitonpandemic.eu) in tutta l’Unione per presentare un’Ice (Iniziativa dei cittadini europei), una proposta di atto giuridico, da sottoporre alla Commissione. Professore, partiamo dall’inizio. Perché i vaccini non possono essere liberalizzati? Nel 1994 vengono approvati gli accordi Trips, cioè gli accordi commerciali sulla proprietà intellettuale all’interno del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Questi accordi stabiliscono che quando un’azienda mette su mercato un farmaco può produrlo in regime di monopolio per 20 anni e di conseguenza ha un forte potere nel determinarne il costo. Quindi per 20 anni nessuno potrà mettere in discussione il diritto delle aziende farmaceutiche a produrre in proprio il vaccino? Non è così, perché proprio quegli accordi prevedevano anche delle clausole di salvaguardia. Due in particolare: la licenza obbligatoria e l’importazione parallela. La prima clausola comporta che se un Paese in difficoltà economica e con un’epidemia in corso non riesce a trovare un accordo con le aziende farmaceutiche, sul costo o sulla quantità di farmaci, può autorizzare le industrie nazionali a produrre direttamente il farmaco. Fatto salvo un risarcimento dell’azienda da determinare in un secondo momento. La seconda clausola prevede invece che se un Paese in difficoltà economica e in pandemia non ha nemmeno la capacità tecnologica per produrre quel vaccino può acquistarlo dagli Stati che hanno attivato la licenza e lo mettono a disposizione a prezzo di costo. È mai accaduto nella storia che un Paese attivasse la clausola sulla licenza obbligatoria? Sì, ma dobbiamo fare un passo indietro. È il 1997, Nelson Mandela è il presidente del Sudafrica, un Paese in cui il 30-35 per cento delle donne tra i 14 e i 40 anni è sieropositivo al virus dell’Hiv. I farmaci antiretrovirali sono già in commercio, ma il prezzo è troppo alto. Mandela tenta di chiudere un accordo con le case farmaceutiche ma il tentativo non va a buon fine. A quel punto il congresso sudafricano approva il ricorso alla licenza obbligatoria. E 39 multinazionali, sotto la leadership della Glaxo Wellcome, ricorrono al Wto e minacciano sanzioni. Mandela è costretto a fermarsi. Ma nel 2001 le aziende rinunciano al ricorso e si siedono a un tavolo col governo. Quindi Mandela dovette cedere sull’attivazione della clausola… Sì, ma in quello stesso anno, nel 2001, il Wto si riunisce a Doha e proprio sulla base dell’esperienza sudafricana e approva una dichiarazione nella quale si stabilisce che la tutela dei brevetti non può mai diventare un impedimento ai governi nella tutela della salute ai propri cittadini. C’è chi sostiene però che violare la proprietà intellettuale disincentivi le case farmaceutiche a investire nella ricerca. Perché secondo lei hanno torto? Prima di tutto questi vaccini anti Covid sono stati prodotti in gran parte grazie a finanziamenti pubblici, europei e nord americani, e non si capisce perché il brevetto debba rimanere in mano solo all’azienda farmaceutica. In secondo luogo, nessuno parla di espropriazione di brevetti, diciamo solo che queste aziende stanno guadagnando cifre astronomiche - Bloomberg stima un ricavo di 10 miliardi di dollari l’anno per i prossimi quatto o cinque anni - in grado di ripagare abbondantemente ogni sforzo legato alla ricerca. Noi ci associamo alla richiesta di India e Sudafrica a Wto: una moratoria transitoria dei brevetti per permettere alle aziende dotate di tecnologie adeguate di produrre i vaccini in tutto il mondo. Chiediamo di trovare un equilibrio tra l’interesse privato e le vite umane. Non possiamo permettere che la salute dell’umanità sia nelle mani di una manciata di consigli d’amministrazione. E cosa impedisce l’individuazione di un accordo in tal senso, in seno al Wto? Le aziende farmaceutiche, sia a Wall Street che alla City, sono seconde solo all’industria militare per la distribuzione dei dividendi ai propri azionisti. E sono tra i maggiori finanziatori dei due principali concorrenti alla Casa Bianca ormai da diversi turni. E figurano anche tra i gruppi meglio organizzati e più presenti sul registro pubblico dei lobbisti della Ue. È evidente che hanno un potere di condizionamento molto forte sui governi. Basti pensare agli accordi firmati dalla Ue con le aziende farmaceutiche: hanno trattato al buio con chi ha prodotto il vaccino con i nostri soldi e hanno secretato i contratti. Qual è l’obiettivo della vostra petizione? Costringere l’Europa a discutere e pronunciarsi pubblicamente sul tema. Chiediamo sostanzialmente tre cose: stop alla secretazione e ridiscussione dei contratti lì dove l’Europa ha finanziato significativamente la ricerca; appoggio europeo della proposta di moratoria avanzata da India e Sudafrica; impegno dell’Unione a non bloccare eventuali ricorsi alla licenza obbligatoria dei singoli Stati. Se la campagna vaccinale proseguisse a singhiozzo, Mario Draghi avrebbe la forza politica di forzare la mano in tal senso? La forza politica senz’altro, la volontà politica ne dubito. Ma se, è solo un’ipotesi di fantasia, l’Italia, la Spagna e il Portogallo ricorressero alla licenza obbligatoria cosa accadrebbe? Si riunirebbe immediatamente il consiglio del Wto per capire cosa fare. Perché se tre Paesi di questa portata economica, tecnologica e politica consumassero uno strappo del genere sarebbero seguiti a ruota da almeno altri 100 Stati. Sarebbe un gesto di portata storica enorme. Stati Uniti e Gran Bretagna, i Paesi di provenienza dei vaccini, non avrebbero nulla da ridire? Io non escludo invece che un segnale in direzione di questa discussione potrebbe arrivare paradossalmente dall’amministrazione americana. Perché al Congresso il tema è stato sollevato, si è aperto un confronto pubblico. Pfizer ha reagito malissimo. Ma lo scontro è sintomo di vitalità. In Italia, invece, secondo un sondaggio Oxfam, l’82 per cento della popolazione ritiene che vada superata almeno momentaneamente l’attuale legislazione sui brevetti, ma la politica non ne discute. Beppe Grillo ha chiesto all’Ocse di acquistare i brevetti per donarli all’umanità. È una strada molto diversa dalla vostra? È una strada diversa ma l’obiettivo è lo stesso. Grillo chiede all’Ocse, gli stessi Paesi che l’11 marzo hanno bloccato la richiesta di moratoria di India e Sudafrica, di farsi della situazione che hanno contribuito a determinare acquistando i brevetti e mettendoli a disposizione di tutti. “Vaccini senza brevetti? Così si rischia di fermare l’innovazione scientifica” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 aprile 2021 Intervista al professore e avvocato Aristide Police, ordinario di diritto amministrativo alla Luiss: “Nel medio periodo, misure straordinarie sui brevetti determinerebbero un grave disincentivo per le imprese farmaceutiche nell’investire in ricerca, laboratori e personale”. Togliere temporaneamente i brevetti ai vaccini anti-covid: è ciò che chiedono al premier, Mario Draghi, Medici Senza Frontiere, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (Fnomceo), Silvio Garattini, Presidente Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri e molti altri. Sul fronte internazionale anche il Premio Nobel per la pace Mohammad Yunus ha lanciato un appello all’Organizzazione mondiale del commercio a favore della liberalizzazione dei brevetti. L’obiettivo? Non lasciare indietro i Paesi in via di sviluppo o in estrema povertà. La proposta è stata al momento respinta dai Paesi ricchi perché i brevetti rappresentano importanti incentivi all’innovazione. Ne parliamo con il professore e avvocato Aristide Police, ordinario di diritto amministrativo presso la Luiss “Guido Carli”, che ci dice: “Nel medio periodo, misure straordinarie sui brevetti determinerebbero un grave disincentivo per le imprese farmaceutiche nell’investire in ricerca, laboratori e personale e, alla lunga, si renderebbe necessaria una nazionalizzazione dell’industria farmaceutica con la spesa a carico della fiscalità generale”. Professore da più parti stanno chiedendo di togliere i brevetti ai vaccini anti-covid. Qual è il suo pensiero in merito? Ci sono due questioni preliminari da evidenziare. Bisogna innanzitutto ricordare che ci sono varie tipologie di vaccini contro il Covid. Alcuni sono prodotti nei Paesi occidentali, altri in Cina e in Russia. Pertanto, la richiesta di sospensione dell’esclusiva derivante dalla titolarità del brevetto pone un interrogativo preliminare relativo al tipo di vaccini di cui stiamo parlando. Lo scenario ideale che si dovrebbe verificare è quello nel quale la sospensione dovrebbe essere garantita su base volontaria da tutte le imprese che li hanno prodotti, non soltanto da una o alcune fra esse. Tuttavia, questa prospettiva è del tutto irrealistica perché presupporrebbe un accordo fra tutti i diversi produttori e soprattutto fra diversi Paesi. E la seconda questione? A mio parere sospendere l’esclusiva propria del brevetto determina - quantomeno temporaneamente - un vero e proprio esproprio in danno di chi legittimamente ne ha la titolarità. Pertanto, si pone un tema che riguarda la compensazione del costo sostenuto dalle imprese che hanno sviluppato il vaccino. Ciò senza dire che la sospensione dell’esclusiva derivante dal brevetto - anche ove in qualche modo compensata o indennizzata - determinerebbe la perdita di margini di profitto che sono non solo leciti ma anche funzionali allo sviluppo dell’attività futura di investimento e ricerca della produzione industriale. Chi ha la titolarità per decidere l’esproprio? L’Unione Europa o il singolo Stato? Ricordiamo che beneficiari di tale “esproprio” dovrebbero essere i Paesi che non hanno le risorse economiche per acquistare i vaccini. L’Unione Europea non ha una competenza di questo genere. Invece i singoli Stati potrebbero esercitare poteri ablatori (di esproprio) sui brevetti ma le Costituzioni di molti Stati - soprattutto di quelli occidentali - prevedono che in caso di esercizio di potestà ablatoria sia prevista appunto la corresponsione di un equo indennizzo. Ciò significa che lo Stato che espropria deve corrispondere un indennizzo a carico dell’erario pubblico in favore delle imprese che detengono il brevetto. Anche per le finanze di Stati più ricchi questa operazione sarebbe molto onerosa in quanto anche nei Paesi economicamente più sviluppati si pone un significativo tema di finanziamento pubblico per sostenere degli straordinari impegni economici per fronteggiare la pandemia. E, del resto, a livello europeo gli strumenti del Recovery Fund e del MES ne sono una riprova. Esiste anche un problema geopolitico? Certo. E questo è il terzo elemento che complica la discussione. Alcuni Paesi come la Cina e la Russia utilizzano la diffusione e la distribuzione sostanzialmente gratuita dei propri brevetti in altri Stati per aumentare il proprio peso geopolitico e la loro influenza sui medesimi. Chi chiede di rendere pubblici i brevetti lo fa in nome della eccezionalità del momento. Addirittura il Premio Nobel per la pace Mohammad Yunus ha parlato di “apartheid vaccinale”. A suo parere quali sono i termini giusti per affrontare la questione? C’è un tema di giustizia sociale e quindi nessuno dubita che sia doveroso sussidiare Paesi in via di sviluppo, come India, Brasile, Sudafrica, o ancor di più Paesi gravemente sottosviluppati, che non possono reperire in maniera autonoma i vaccini. Il vero problema è che non sempre ciò che è giusto è sempre concretamente praticabile. Si tratta quindi di una aspirazione molto nobile ma che si può intraprendere soltanto secondo le regole della cooperazione internazionale e avvalendosi delle istituzioni sovranazionali, a cominciare dalle nazioni Unite e dall’organizzazione Mondiale della Sanità. Ci dovrebbe essere un concorso di una pluralità di Stati che volontariamente si assumono gli oneri economici per assicurare la diffusione del vaccino anche a questi Paesi. Lei intende comprare lotti di dosi, tenendo il brevetto segreto? Non c’è dubbio. Non è sostenibile - né in realtà utile - la misura della sospensione della esclusiva dei brevetti se poi non si provvede a produrre i vaccini e a curarne la distribuzione fra le popolazioni. La soluzione, come dicevo, potrebbe essere quella della cooperazione tra Stati che si impegnano ad acquistare dosi per il Paesi non autosufficienti. Ma anche in questo caso la questione è complessa perché al momento non si riesce a far fronte neanche ai bisogni dei proprio cittadini. Ed in ogni caso socializzare questi sforzi, ossia imporne il costo agli Stati nazionali e quindi a tutti coloro che pagano le tasse, è insostenibile. È molto difficile nei Paesi democratici che un Governo eletto possa conservare la propria base elettorale chiedendo ai propri elettori di destinare parte delle tasse - magari incrementandole - a vantaggio di politiche di vaccinazione delle popolazioni degli Stati in via di sviluppo. Alcuni sostengono che anche pubblicando il brevetto ci sarebbero sempre problemi di approvvigionamento. L’offerta non sarebbe mai in grado di rispondere alla domanda... Ed infatti le difficoltà attuali nei maggiori Paesi più sviluppati riguardano l’approvvigionamento dei vaccini e non il costo degli stessi. A prescindere dai diritti (e dai profitti) derivanti dall’utilizzazione dei brevetti, è chiaro che bisogna aumentare il numero degli stabilimenti produttivi e la produttività di quelli già esistenti. Probabilmente la questione è stata affrontata in termini troppo semplici, con quel retaggio culturale che ci vuole sempre in opposizione ai Big Pharma? Direi semplicistici, frutto di una valutazione quantomeno superficiale della complessità dei problemi. Il tema vero è che la generazione del profitto è la ragione stessa del fatto che noi per fortuna adesso abbiamo i vaccini. Se non ci fosse il profitto, non ci sarebbe impresa, se non ci fosse impresa ci troveremmo ancora nei secoli bui. Nel medio periodo, misure straordinarie sui brevetti determinerebbero un grave disincentivo per le imprese farmaceutiche nell’investire in ricerca, laboratori e personale e, alla lunga, si renderebbe necessaria una nazionalizzazione dell’industria farmaceutica con la spesa a carico della fiscalità generale. Rossomando (Pd): “Avanti con le riforme e la legge Zan” di Liana Milella La Repubblica, 4 aprile 2021 Non ha dubbi Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, appena scelta dal segretario del Pd Enrico Letta come responsabile della giustizia e dei diritti del partito. Avvocato penalista, parlamentare dal 2008, Rossomando rilascia a Repubblica la sua prima intervista e dice: “Forse Salvini frequenta poco il Parlamento. Faremo le riforme sulla giustizia e anche la legge Zan”. Per Salvini “la giustizia italiana è alla Palamara”. Le sembra una definizione accettabile o una provocazione quella rilasciata al Corriere? “Non so cosa intenda Salvini, probabilmente lui è più vicino alla giustizia alla Orban e alla polacca”. E cioè? “Stiamo parlando di Paesi che teorizzano il superamento delle democrazie liberali. Quindi di sistemi lontanissimi dalla cultura delle garanzie che invece è il fondamento della nostra Costituzione”. Una giustizia “alla Palamara”, immagino, dovrebbe essere dominata dalle correnti in cui anche i procedimenti penali sono politicamente orientati. Le sembra che questa immagine corrisponda alla verità? “Assolutamente no. Distinguiamo: il tema delle degenerazioni delle correnti lo abbiamo ben presente e deve essere affrontato. Io mi riconosco pienamente nella posizione della ministra Cartabia quando dice che bisogna distinguere tra il pluralismo delle idee e la degenerazione del correntismo, un fenomeno che riguarda il sistema delle nomine ai vertici degli uffici e non certo la presunta politicizzazione dei processi di cui parla Salvini”. Certo, questa degenerazione c’è stata ed è documentata dalle chat dell’ex pm e segretario dell’Anm sotto processo a Perugia. Ma lei pensa che tutta la magistratura italiana possa essere etichettata come la magistratura di Palamara? “Decisamente no. Si tratta di casi isolati. E sui quali si pronuncerà il Csm. Alla politica invece spetta intervenire per dettare nuove regole che scoraggino gli accordi di potere. Forse a Salvini, frequentando poco il Parlamento, è sfuggito che su questo punto, come su altri, ci sono progetti di legge in avanzata fase di discussione. Come la riforma del Csm, da noi fortemente voluta, che certo da sola non risolverà il problema, perché come sostengono molti magistrati, occorre comunque uno scatto etico forte e di grande slancio culturale. Ma già nella nostra riforma i rimedi contro lo strapotere delle correnti ci sono”. E quali sarebbero? “Cambiare il meccanismo elettorale, ma non solo. Bisogna intervenire sui criteri delle nomine eliminando quelle a pacchetto, intervenire sui tempi rendendo obbligatorio il rispetto dell’ordine cronologico. Infine va garantita la necessaria trasparenza nel processo decisionale, ad esempio rendendo pubblica la discussione sui criteri”. Sì certo, questo vale per le nomine, ma sicuramente Salvini sfrutta ancora quell’episodio in cui un magistrato, il procuratore Auriemma parlando con Palamara, esprime dissenso sull’inchiesta Diciotti del collega Patronaggio. L’idea di Salvini, peraltro espressa tante volte, è che la magistratura faccia politica con le inchieste. Lei che ne pensa? “Quella era una conversazione privata sulla quale eventualmente comunque farà luce il Csm che ha tutti gli strumenti per farlo. Le vicende giudiziarie su Salvini sono all’esame della magistratura con tutte le garanzie che il processo stesso prevede. È Salvini che cerca in tutti i modi di politicizzare la giustizia, utilizzando anche le sue vicende”. Beh... ovviamente da imputato contesta le inchieste stesse contro di lui.. “Se esiste un reato lo decideranno i tribunali in base al codice. Ma Salvini ha voluto sostenere che chi ricopre un incarico politico ha pieni poteri per il fatto stesso di perseguire un fine politico, ovvero che il fine giustifica i mezzi. Quindi senza alcun controllo, legibus soluto. E questo, in uno Stato di diritto, non è ammissibile proprio a garanzia delle libertà dei singoli cittadini. Se poi esiste, oppure no, un reato questo lo stabiliranno i tribunali. E non certo la politica. Se c’è uno che politicizza la giustizia quello è lui. Altra questione è affrontare, nell’era moderna, la piena attuazione della separazione tra i poteri dello Stato. E quindi dell’autonomia della politica al pari dell’indipendenza della magistratura”. Però Salvini, che ricordiamolo fa parte della maggioranza, è scettico anche sulle future riforme della giustizia. “Forse non sa, o non ricorda, che la Camera e il Senato stanno parallelamente affrontando la riforma del processo penale e di quello civile. Due urgenze collegate, soprattutto il civile, al Recovery plan. Sia Montecitorio che palazzo Madama stanno lavorando su entrambe le riforme, con alcune priorità: i tempi, l’efficienza e la qualità del servizio giustizia. Entro la fine di aprile Governo e Parlamento si confronteranno sulle proposte concrete. Su queste riforme e sui fondi del Recovery è legata la ripartenza della giustizia e quindi dell’economia del Paese. La pandemia ha accentuato le diseguaglianze e quindi battersi per una giustizia che sia accessibile a tutti, è ancora più importante e prioritario”. Forse, come dice lei, Salvini non segue le riforme in Parlamento. E quando lo fa le ostacola come nel caso della legge Zan. “Questa legge è già stata approvata di recente dalla Camera ed è inaccettabile che si pensi di impedire al Parlamento di discuterla e farla votare. Su questo il Pd è deciso ad andare avanti. E vorrei rassicurare tutti che siamo in grado di trattare più di una questione importante contemporaneamente. Come del resto il Parlamento ha sempre fatto”. Salvini sostiene che la legge Zan impedirà di esprimere un giudizio anche su una legge. Questo è vero? “No, è falso. Perché la legge Zan prevede un’aggravante per i crimini di odio, quindi non punisce affatto le singole opinioni, che potranno tranquillamente essere espresse, ma prevede un’aggravante contro gli atti di violenza caratterizzati da un atteggiamento di odio verso le persone Lgbt, le donne e i disabili”. E sulla legge Zan il Pd andrà avanti nonostante Salvini? “Il Parlamento è il luogo dove si discutono le leggi. La Zan è una legge di iniziativa parlamentare e soprattutto di grande civiltà. Basta seguire i tanti episodi di odio raccontati dalle cronache per rendersene conto. E quindi sì, certo, andremo avanti”. Certo è che con Salvini di argomenti di scontro ce ne sono molti. Il carcere per esempio. Lei conferma l’intenzione di riprendere il progetto Orlando che disegnava una detenzione umana e dava spazio alle pene alternative? “Sì, certo. Vorrei sottolineare anche che un modo umano di scontare la pena contribuisce alla sicurezza dei cittadini. Come ha sottolineato la ministra Cartabia la Costituzione parla della funzione rieducativa della pena. E non dobbiamo mai dimenticarlo”. La giustizia, in questa settimana che si chiude, ha dominato alla Camera. Con l’ordine del giorno Costa sulla presunzione d’innocenza e con quello sul futuro obbligo per i pm di ottenere il via libera del gip sui tabulati. Andiamo verso leggi tutte all’insegna del garantismo? “L’ordine del giorno è stato sottoscritto da tutte le forze politiche e segue una importante pronuncia della Corte di Giustizia europea. Il garantismo è nel dna della sinistra, a differenza di altri per noi vale sempre e non solo per alcuni”. Droghe. “Delega antiproibizionista”, le destre contro Dadone di Giuliano Santoro Il Manifesto, 4 aprile 2021 La ministra alle politiche giovanili del M5S sotto accusa per le posizioni sulla cannabis. Nei giorni in cui si apprende che New York è il quattordicesimo stato degli Usa a legalizzare la cannabis a uso ricreativo, la destra solleva un polverone sulla ministra delle politiche giovanili Fabiana Dadone, per le sue prese di posizione antiproibizioniste sulle droghe leggere. A Dadone, con decreto del consiglio dei ministri pubblicato dalla Gazzetta ufficiale giovedì scorso, è stata assegnata la delega per le politiche antidroga. La scelta va di traverso al centrodestra. La prima a suonare la grancassa proibizionista è la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: “È grave e deludente che per un compito così delicato come la lotta alle dipendenze sia stato scelto un esponente politico firmatario di proposte per legalizzare la cannabis - esclama Meloni - Non è questa la discontinuità che ci aspettavamo da Draghi. Rinnovo il mio appello ai partiti di centrodestra che sostengono il governo affinché si facciano sentire con decisione”. Meloni alza la palla, e il capogruppo alla camera di Forza Italia Roberto Occhiuto schiaccia: “Davvero tra i membri del governo Draghi non c’era una personalità con un curriculum un tantino meno discutibile? - dice Occhiuto - Ci aspettiamo che la Dadone chiarisca presto e in modo inequivocabile le linee guida attraverso le quali intenderà portare avanti il suo mandato”. A questo punto, dunque, la polemica su Dadone entra ufficialmente all’interno della maggioranza che sostiene il governo Draghi. Eppure, la nomina della ministra del Movimento 5 Stelle sembrava poter sbloccare meccanismi inceppati da anni. Marco Perduca dell’Associazione Luca Coscioni e Leonardo Fiorentini di Forum Droghe le avevano chiesto, tra le altre cose, l’avvio della preparazione della convocazione della Conferenza nazionale sulle droghe, momento di condivisione e riflessione sugli effetti dell’attuale legislazione. La Conferenza viene prevista dal testo ancora in vigore ma non viene convocata dal 2009. La ministra Dadone aveva tenuto a sottolineare che, compatibilmente con l’emergenza sanitaria, il processo che avrebbe condotto all’indizione della Conferenza sarebbe cominciato quanto prima. Per il presidente della Commissione giustizia della camera Mario Perantoni, del M5S, le critiche a Dadone “sono palesemente aprioristiche e strumentali: confondere le azioni di prevenzione e gestione del complesso fenomeno delle droghe con un generico ‘liberi tutti’ è frutto di prese di posizione antistoriche che speravamo superate. In Italia esiste un grave problema legato al consumo delle droghe e soprattutto allo strapotere della criminalità organizzata ma anche per questo è arrivato il momento di cominciare a dettare regole civili”. Sullo sfondo, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema. A proposito di cannabis, sempre il grillino Perantoni rilancia una proposta di legge a prima firma Riccardo Magi di +Europa che ha raccolto le adesioni di alcuni deputati del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle e che recepisce le indicazioni della sentenza a sezioni unite della Cassazione sul margine entro il quale la coltivazione di piantine di marijuana è ritenuta consentita per uso personale o a maggior ragione, terapeutico. Modificando l’articolo 73 della legge sulle droghe, il testo attualmente interviene su due punti fondamentali. Innanzitutto depenalizza completamente la coltivazione domestica a uso personale. In secondo luogo, introduce interviene in maniera sostanziale nella repressione di fatti considerati di lieve entità, quelli per i quali ancora oggi in maniera inspiegabile sette volte su dieci si finisce in carcere: riducendo le pene e distinguendo molto tra sostanza. C’è una proposta abbinata a questa della Lega che va in direzione opposta, chiede esattamente più carcere e più repressione per i consumatori di sostanze. Ma è stata demolita in commissione giustizia in fase di audizione, anche dai magistrati antimafia. Probabilmente è dovuto anche a questo, alla sensazione che l’ideologia ultra-proibizionista non regge in relazione all’evidenza dei fatti, il nervosismo della destra di fronte alla delega alla ministra Fabiana Dadone. Libia. Intercettazioni giornalisti a doppio taglio, tra illegalità e legalità ingiusta di Paolo Borgna Avvenire, 4 aprile 2021 Inconcepibile e intollerabile. Ha ragione Danilo Paolini: le intercettazioni (disposte dalla procura di Trapani nel 2016) che hanno coinvolto alcuni giornalisti di varie testate - soprattutto Nancy Porsia e, tra gli altri, Nello Scavo di “Avvenire” - che contattavano loro fonti per avere notizie sul traffico di esseri umani in Libia e sui soccorsi umanitari, sono semplicemente intollerabili. Ma, purtroppo, non stupiscono. Soprattutto: quelle intercettazioni sono state disposte rispettando la legge. Questa è la cosa più grave. Intendiamoci. Alcune cose, tra quelle riportate dai giornali, sarebbero illegali. Ad esempio, se fosse confermato che sono rimaste agli atti e sono state trascritte e depositate le telefonate captate tra la giornalista freelance Porsia e il suo avvocato Alessandra Ballerini, ciò sarebbe illegale (articolo 271 del Codice di procedura penale). La Procura di Trapani, oggi, ha assicurato che non sarebbe così. Ma, per il resto, ciò che ha fatto il pubblico ministero di Trapani non è censurabile. E non è così inusuale. Egli ha intercettato persone non indagate, che erano in contatto con indagati, al fine di raccogliere notizie penalmente rilevanti su questi ultimi. Il codice lo consente. Sennonché. Come sempre: non basta invocare di aver fatto una cosa rispettando la legge per poter dimostrare di aver fatto una cosa giusta. A nessuno verrebbe in mente di contestare il fatto che si intercetti il telefono dei parenti o amici di famiglia di una vittima di un sequestro di persona, che potrebbero essere contattati dai sequestratori. O che si controlli il telefono di un imprenditore, vittima di estorsione e indotto alla reticenza dalla forza di intimidazione dei criminali. Quindi, sarebbe impensabile invocare una legge che consenta di intercettare soltanto persone indagate. Ma la legge andrebbe applicata con buon senso. E ai magistrati, che ogni giorno invocano il diritto-dovere di applicare la legge in modo “costituzionalmente orientato”, andrebbe ricordato che esiste un articolo 15 della Costituzione che consacra come “inviolabile” la libertà e segretezza di ogni forma di comunicazione. Certo, dice il capoverso di quell’articolo, anche quel diritto di libertà può essere limitato con un atto motivato dell’autorità giudiziaria. Ma chi è chiamato ad esercitare questo terribile potere dovrebbe farlo soltanto dopo un ponderato bilanciamento dei princìpi in gioco: da un lato il dovere di esercitare l’azione penale di fronte ad un reato; dall’altro, la libertà di comunicare. E non farebbe male a meditare quanto sia costato, in passato, nella storia italiana, il sacrificio di questa libertà. E quanto sia costato, ai nostri padri, riconquistarla. Orbene: leggo che Nello Scavo sarebbe stato intercettato per scoprire la fonte da cui lui e un altro collega di “Avvenire” ricevevano un video che documentava le torture subite dai migranti in Libia. Il lettore si fermi un attimo su questa circostanza e si chieda: a questo punto siamo arrivati? È questo il prezzo che si deve pagare per avere una magistratura libera di condurre come vuole le indagini? Io penso di no. Quando, una quarantina d’anni fa, entrai in magistratura ero stato sorpreso dalle parole di un anziano collega che - commentando i successi di un giudice istruttore che aveva sgominato i sequestri di persona in Piemonte - aveva detto: “Sì, certo; però lo ha fatto intercettando i telefoni di mezza Torino”. Penso che quel magistrato avesse torto e riflettesse un antico e troppo rigido pregiudizio ideologico verso gli inquirenti. Ma il suo commento era l’espressione di una discussione profonda con i colleghi che la pensavano diversamente, che però aveva, alla base, una comune consapevolezza: l’importanza del bilanciamento fra diversi diritti. Si trattava di comprendere fino a che punto le indagini potevano spingersi nel limitare la segretezza delle comunicazioni di altre persone, probabilmente non coinvolte nei reati. Si trattava di trovare il punto di equilibrio. La posta in gioco era chiara a tutti. Di questo si discuteva e magari si litigava. Se penso alla facilità con cui oggi vengono chieste, autorizzate e lungamente prorogate intercettazioni per reati infinitamente meno gravi del sequestro di persona a scopo di estorsione, a volte provo nostalgia per le accese discussioni ideologiche di quarant’anni fa. Sento spesso dire: ma l’uso estensivo delle intercettazioni è utile. Ma ci vogliamo ogni tanto ricordare che nella vita, e tanto più nel processo, non tutto quello che è utile è anche giusto? La risposta “è utile alle indagini” non può soddisfarci. Perché ciò che secondo la nostra Costituzione costituisce l’eccezione non può diventare la regola. C’è un limite oltre il quale - ci ha ricordato Giovanni Verde - “la nostra Repubblica (pensata come) democratica liberale” si trasforma in uno “Stato etico”. Questa è la strada, lastricata di buone intenzioni, a cui porta l’uso smodato delle intercettazioni; in particolare quelle col mezzo informatico del “trojan” che la riforma di due anni fa ha reso possibile per una gamma molto ampia di delitti, consentendone l’utilizzabilità anche per provare reati diversi da quelli per cui il giudice le ha autorizzate ed emersi nel corso degli ascolti (il cosiddetto utilizzo “a strascico”). La stampa - come ha ricordato Paolini - ha le sue gravi responsabilità: per troppi anni ha solleticato il palato dei lettori con la pubblicazione di intercettazioni piene di pettegolezzi e particolari piccanti assolutamente irrilevanti per le indagini. Possiamo ben scriverlo dalle colonne di “Avvenire” che non ha mai voluto indulgere a questo andazzo. Ora anche i giornalisti cominciano a pagare il prezzo di questa deriva culturale. È ora di reagire. Se non ora, quando? Caccia al migrante e bambini sempre più spesso vittime della tratta verso gli Usa di Andrea Cegna Il Manifesto, 4 aprile 2021 Aumenta il flusso dal Centro America. Retate in Messico e Guatemala pronto a usare la forza contro la nuova carovana in arrivo. Ma agli Stati Uniti, che solo a febbraio hanno arrestato oltre 100 mila persone sul confine, non basta. Continua senza sosta il flusso migratorio, anche di minori non accompagnati, attraverso il confine sud degli Stati uniti. Nel solo ultimo sabato di marzo 402 migranti sono stati trattenuti dagli agenti di frontiera, 70 dei quali minori non accompagnati. Le autorità Usa continuano a mandare messaggi in Centro America per invitare le persone a non partire, ma le parole di inizio mandato di Biden hanno acceso una dinamica che “nonostante la presenza di oltre 8.200 elementi della Guardia nazionale messicana, dell’Esercito e uomini e donne dell’Istituto nazionale per le migrazioni il flusso migratorio al confine tra Guatemala e Messico è continua e senza sosta”, rivela l’avvocato Fernando Castro Molina, consulente migratorio. Gli agenti della Customs and Border Protection (CBP) hanno arrestato, nel solo mese di febbraio, 100.441 migranti al confine meridionale con il Messico. 78.442 a gennaio. Per questo il governo Usa sta accusando Messico e Guatemala di incapacità nel contenere i migranti. In risposta alle pressioni il Messico ha recentemente inviato centinaia di uomini dell’Istituto nazionale per le migrazioni (Inm), della Guardia nazionale e delle Forze armate nella città di confine del Chiapas, Tapachula, con l’obiettivo di intimorire la popolazione migrante e supportare le autorità cittadine in caso di problemi di ordine pubblico. Il Messico ha arrestato 34.993 migranti tra il primo gennaio e il 25 marzo, il che rappresenta un aumento del 28% (7.643 persone in più) rispetto allo scorso anno. Secondo quando riportato dall’INM 4.440 sono stati migranti minori. Il 56,21% dei migranti fermati proviene dall’Honduras il resto da Guatemala poi da El Salvador e a seguire altre nazionalità. Sempre la scorsa settimana sono state pubblicate alcune immagini di bambini nelle mani delle forze di sicurezza messicane rinchiusi in gabbia. In Guatemala, invece, Il governo ha approvato lo “stato di prevenzione” che autorizza le forze armate a usare la forza per impedire l’ingresso di una nuova carovana migrante, partita il 30 marzo dall’Honduras, con il sogno di raggiungere gli Stati uniti in sicurezza. Le attuali politiche migratorie che governano l’asse Guatemala-Messico-Usa, inasprite da Donald Trump e non alleggerite dal nuovo governo Biden, diventano terreno di conquista per gli speculatori sulle vite umane: Il governo dell’Ecuador ha denunciato un episodio di tratta di esseri umani riguardante due minori al confine con il Rio Bravo. Alcuni video a raggi infrarossi pubblicati anche sui social media mostrano due sorelle di tre e cinque anni che vengono lanciate da un “coyote”, un trafficante di esseri umani, oltre il muro di quattro metri che divide il Messico dal New Mexico. Il ministero messicano degli Affari esteri e della Mobilità chiede, attraverso l’ufficio consolare in Texas di garantire l’assistenza necessaria a tutelare il benessere delle due bambine, che al momento sono state dichiarate fuori pericolo. Per Joffrey Pinzón, presidente dell’associazione Movimento famiglie e migranti (Mfam) “in Ecuador è in corso l’azione della criminalità organizzata nel traffico di umani. L’insuccesso scolastico cresce ei giovani non hanno futuro”. Così, “se sono un migrante negli Stati uniti, anche senza documenti, e trovo il modo per guadagnarmi da vivere, finirò per decidere di contattare un “coyote” e pagarlo per portare i miei famigliari negli Stati uniti, scegliendo in questo modo di giocare con la vita dei miei figli alla lotteria della migrazione”. C’era una volta il Venezuela. Tra i migranti alla frontiera con la Colombia di Giovanni Porzio La Repubblica, 4 aprile 2021 Il Paese sudamericano non è più sotto i riflettori, ma il più grande esodo della storia del continente non si è fermato. Mentre il regime di Maduro è ancora in piedi. Reportage. Cucuta (Colombia, al confine con il Venezuela). Sulla ruta de los migrantes, la strada dei migranti che dal confine venezuelano sale fino ai 3.500 metri del Paramo de Berlín e poi, per centinaia di chilometri, attraversa le foreste e le sierras colombiane, un intero popolo è in cammino. Donne con i neonati al collo. Bambini che si tengono per mano. Uomini che spingono carrelli con il cibo di sussistenza, acqua, latte in polvere, scatole di sardine, e nello zaino quel che resta delle loro vite: una foto di famiglia, l’indirizzo di un parente a Lima o a Buenos Aires, un maglione, un paio di scarpe. Sono contadini, operai, infermieri, disoccupati, musicisti, studenti, insegnanti, avvocati, ex militari, bottegai, autisti, ingegneri, imprenditori, manovali: in sette anni sei milioni di venezuelani hanno abbandonato il loro Paese e quasi due milioni si sono riversati in Colombia. È un flusso infinito, il più grande esodo nella storia recente dell’America Latina. “Ho 25 anni” dice Eduardo “facevo il parrucchiere. Ma a Caracas non c’è più lavoro, ci hanno portato via tutto. Vado in cerca del mio futuro”. “Io vado in Perù” spiega Manuel “all’ospedale di Maracaibo mi pagavano meno di due dollari al mese. Al mese! Non riuscivo a dar da mangiare ai miei figli”. A Pamplona la strada si fa ripida e a piedi ci vuole una settimana per raggiungere Bogotá. Eylyn e Marta Duque hanno trasformato la loro casa in un rifugio: cucinano riso e lenticchie, regalano bibite e vestiti usati. “Su al Paramo si muore di freddo, piove spesso e non ci sono ricoveri” dice Eylyn. “Non so come faranno”. Accucciati sotto un ponte i caminantes si preparano a passare la notte avvolti in coperte e fogli di plastica. Una donna, per scaldarsi, sta bruciando fasci di banconote venezuelane. “Sono carta straccia. Con i bolivares è impossibile mandare i bambini a scuola, comprare le medicine, trovare da mangiare. Tutto ormai si paga in dollari da noi”. Viva i dollari - È il paradosso del Venezuela di Nicolás Maduro. A più di vent’anni dalla Rivoluzione che avrebbe dovuto liberare il Paese dai tentacoli dell’Occidente e dalla schiavitù del mercato, la valuta americana si è presa una clamorosa rivincita. Le minacce di Donald Trump, la rivolta capeggiata da Juan Guaidó, i tentativi di golpe, le dure sanzioni imposte dalla Casa Bianca non sono riuscite a piegare il regime. Ma di fronte a un’iperinflazione che ha ridotto la popolazione alla fame e a una contrazione del Pil di oltre l’80 per cento, il successore di Hugo Chávez ha dovuto arrendersi al biglietto verde promulgando una serie di norme che sanciscono la dollarizzazione dell’economia: un capitalismo selvaggio sembra avere rimpiazzato l’agonizzante socialismo bolivariano. Due terzi di tutte le transazioni finanziarie sono ormai contabilizzate in valute estere e quasi tutte in dollari, la “moneta criminale” che la propaganda chavista incolpava del naufragio economico del Paese e che ora viene ritenuta una necessaria “valvola di sfogo” per stimolare il commercio e attirare capitali stranieri. “Non c’è contraddizione tra dollarizzazione e rivoluzione” sostiene Maduro. I tempi sono decisamente cambiati dall’epoca d’oro di Chávez, quando la manna petrolifera consentiva allo Stato di espandere la spesa pubblica mantenendo il controllo dei prezzi e regolando il tasso di cambio del bolivar, allora una delle monete più forti del continente. Dopo il 2013 le quotazioni del barile di greggio sono scese fino a dimezzarsi, innescando una crisi irreversibile. Oggi, nel Paese con le più grandi riserve d’idrocarburi al mondo, molti beni di largo consumo sono spariti dagli scaffali, i generi di prima necessità sono spesso reperibili solo alla borsa nera e a costi esorbitanti, le scorte valutarie sono ridotte al lumicino e la rovinosa svalutazione del bolivar ha azzerato il potere d’acquisto dei lavoratori. Solo nell’ultimo anno l’inflazione accumulata ha toccato il 6.640 per cento: un dollaro vale 1.889.000 bolivares, poco più di un caffè al bar, e il salario minimo non supera i 2.400.000 bolivares, un dollaro e 27 centesimi, di cui la metà in buoni alimentari. I dollari, che molte famiglie venezuelane nascondevano sotto il materasso per gli imprevisti o per procurarsi medicinali sottobanco, sono diventati d’uso corrente quando i numerosi blackout provocati dal collasso delle forniture elettriche hanno reso impossibili i pagamenti con carte di credito. Negozi, imprese private e persino i venditori ambulanti hanno cominciato ad accettare le banconote illegali, costringendo il governo a correre ai ripari. Dopo avere legittimato la circolazione della valuta americana e l’apertura di conti correnti in dollari, Maduro ha poi annunciato un ambizioso piano di digitalizzazione: tutti i pagamenti, compresi i trasporti pubblici, dovranno essere effettuati con sistemi elettronici. Ma il passo più significativo è stato un altro. A novembre il governo ha per la prima volta autorizzato un’impresa privata a emettere obbligazioni in dollari sul mercato. Santa Teresa, la principale industria produttrice di rum, potrà in questo modo raccogliere i capitali per realizzare nuove distillerie al di fuori del controllo dello Stato ed evitando la scure dell’inflazione galoppante. In assenza di una politica economica coerente e condivisa, tuttavia, le misure di Maduro rischiano di alimentare un capitalismo anarchico e clientelare che finisce per favorire gli speculatori e i fiancheggiatori del regime, mentre il 96 per cento dei venezuelani è condannato a vivere al di sotto della soglia di povertà: di sicuro, i caminantes che attraversano illegalmente le frontiere del Paese non dispongono di dollari da investire. Lo spettro dell’Helicoide - Al valico di La Parada la polizia colombiana mi accompagna nelle trochas, i tortuosi sentieri del contrabbando che i profughi devono percorrere da quando, all’inizio della pandemia di Covid, il confine è stato sigillato. In questa terra di nessuno sono in agguato gruppi armati e bande criminali che impongono il pedaggio, derubano i migranti e stuprano le donne. Chi non ha l’energia e i mezzi per proseguire si riduce a elemosinare o si rifugia nella droga: bastano pochi pesos per una pipa di bazuco, un micidiale miscuglio di pasta di coca, solventi, metanolo, acido solforico e benzina. Per sopravvivere, migliaia di giovani venezuelani sono costretti a vendere sesso sui marciapiedi e nei bordelli delle città di frontiera. Mariangel, arrivata nel 2019 da Maracay, un’ora d’auto da Caracas, si prostituisce per 30 mila pesos (8 dollari) in una calle di Cúcuta. “Io ho 26 anni, ma ci sono anche ragazzine di 12-13 anni. È un brutto mestiere, ci sono clienti ubriachi, sudici, violenti, però è l’unico che possa fare. Devo crescere le mie due bambine e mandare un po’ di soldi a casa”. Le rimesse degli emigranti sono un’ancora di salvezza per chi ha molte bocche da sfamare. E sono soprattutto le donne a sopportare il peso dell’indigenza. Il disastrato servizio sanitario, che ha già perso la metà dei suoi 30 mila medici, non è più in grado di distribuire gratuitamente i contraccettivi, reperibili al mercato nero a prezzi proibitivi: un profilattico costa quanto il salario minimo, le pillole anticoncezionali tre volte tanto. Milioni di donne devono così affrontare gravidanze indesiderate e aborti clandestini ad alto rischio. “È un Paese distrutto, ostaggio di una dittatura corrotta. L’opposizione è divisa. La gente è stanca, disperata: pensa solo a scappare”. Non si fa illusioni Omar Lares, ex sindaco di Ejido, nello Stato di Mérida, da quattro anni esiliato a Cúcuta. Mi mostra i segni dei proiettili sul petto e sulle gambe: “Nel 2006 hanno cercato di uccidermi. Nel 2010 i colectivos, le bande chaviste, hanno saccheggiato e incendiato la mia casa. Nel 2017 sono sfuggito all’arresto ma per rappresaglia i militari hanno rinchiuso per 11 mesi mio figlio Juan Pedro in una cella dell’Helicoide”. Costruito negli anni 50 sull’onda del boom petrolifero, l’edificio elicoidale su una collina nel centro di Caracas era destinato a centro commerciale di lusso, con avveniristiche spirali di rampe per accedere in auto alle boutique. Ma non è mai stato finito: oggi la sinistra struttura di cemento è la sede dei servizi segreti e prigione per detenuti politici dove gli oppositori, denuncia Amnesty International, patiscono violenze e sistematiche torture. Le Faes, le Forze speciali d’intervento della polizia bolivariana create nel 2016 per combattere la dilagante criminalità, soffocano con durezza ogni forma di dissenso. Secondo il governo, un terzo dei 12 mila venezuelani assassinati nel 2020 è morto perché “resisteva all’autorità”, un eufemismo per giustificare le esecuzioni sommarie e le palesi violazioni dei diritti umani. Il fallimento di Guaidó - La repressione, la crisi economica e la pandemia hanno fiaccato l’impeto delle manifestazioni che negli anni scorsi avevano paralizzato le città del Venezuela. Le forze armate sono rimaste fedeli a Maduro, che controlla tutte le leve del potere, compresa la Corte suprema, e in dicembre si è aggiudicato le elezioni parlamentari boicottate dall’opposizione. La strategia di Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente ad interim nel gennaio 2019 al culmine delle proteste popolari, non ha sortito i risultati sperati. Anche per una serie di cantonate, come l’appoggio al goffo tentativo di spodestare Maduro con un colpo di mano stile Baia dei Porci organizzato lo scorso maggio da un manipolo di mercenari ed ex membri delle Special Forces degli Stati Uniti, subito arrestati e condannati a vent’anni di galera. Tomás Guanipa, ex deputato all’Assemblea nazionale, ora ambasciatore di Guaidó a Bogotá, riconosce che la prova di forza non ha funzionato: “Dobbiamo puntare su una soluzione diplomatica. Ci vorrà tempo, Maduro non sembra disposto a negoziare. Ma forse con la nuova amministrazione Biden potremo iniziare un nuovo ciclo. Lavoriamo per unificare il fronte democratico e mantenere la pressione all’interno del Paese, anche se la popolazione è impaurita e sfiduciata”. Intanto i profughi si accalcano alla frontiera. “Quando tra qualche mese riaprirà il confine ci aspettiamo un nuovo esodo” spiega Roberto Mignone, che coordina i programmi d’emergenza dell’Unhcr nella regione. “Stiamo approntando un piano per l’assistenza e il trasporto umanitario, in particolare per i gruppi più vulnerabili e i richiedenti asilo”. Il presidente colombiano Iván Duque ha concesso ai migranti uno statuto di protezione valido 10 anni: potranno richiedere il permesso di soggiorno e cercarsi un impiego. Ma non è facile, con la disoccupazione in aumento a causa del Covid e le periferie urbane che si riempiono di catapecchie di lamiera.