Cartabia: “Ho chiamato Figliuolo, nelle carceri vaccinare senza sosta” di Angela Stella Il Riformista, 3 aprile 2021 La Guardasigilli dichiara al Riformista di aver contattato il generale “per assicurarmi che il piano vaccinale prosegua alacremente”. E ci dice: “I contagi sono una preoccupazione. Con il Dap e il Garante monitoriamo costantemente la situazione”. Positivi 750 detenuti e 716 operatori. I contagi in carcere sono una preoccupazione sempre presente. Insieme al capo Dap Bernardo Petralia e al Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma, monitoriamo costantemente la situazione e facciamo tutto il possibile per seguire l’andamento delle vaccinazioni nelle comunità detentive nella loro unitarietà. E soprattutto nelle regioni dove si procede con più lentezza”: con questa dichiarazione al Riformista la Ministra della Giustizia Marta Cartabia vuole rassicurare l’intera comunità penitenziaria, in primis i detenuti, circa l’attenzione del Governo verso l’emergenza sanitaria in carcere. Il carcere come luogo di comunità - detenuti e detenenti amava dire Marco Pannella - è un concetto che è sempre stato a cuore alla Ministra e lo dimostrano nuovamente queste parole importantissime in tali giorni difficili negli istituti di pena, dove la paura del contagio cresce. Secondo infatti quanto riportato in un comunicato diramato ieri dal sindacato Uil-pa “sono 750 i detenuti e 716 gli operatori positivi alle ore 21.00 di ieri sera”. Bisogna comunque dire che la maggior parte dei detenuti contagiati sono asintomatici. Da tutta Italia arrivano segnalazioni di focolai: a Reggio Emilia sono 74 i detenuti positivi, 48 invece le donne positive al Covidl9 nel carcere di Rebibbia femminile, come ha segnalato il garante regionale Stefano Anastasia: “Nessuna grave, per fortuna. Tra loro anche una mamma con il figlio. Non li hanno potuto separare, mamma positiva e figlio da verificare, perché il piccolo ha solo un mese di vita. Un mese! Ed è in carcere con la mamma, e con il Covid. Punto”. Nessuno nega il momento complicato: la preoccupazione soprattutto in una comunità chiusa come quella del carcere è più forte di quella che possiamo percepire noi uomini liberi. Ma la Guardasigilli si è adoperata in prima persona per imprimere una accelerazione delle vaccinazioni, pur non essendo di competenza del Ministero ma delle Asl regionali. Lo conferma questa sua ulteriore dichiarazione al nostro giornale: “Nei giorni scorsi, io ho chiamato il commissario Francesco Figliuolo, per assicurarmi che il piano vaccinale prosegua alacremente. Spero davvero che al più presto l’intera comunità del carcere, come tutto il Paese, possa ritrovare la sua serenità”. Secondo i dati ministeriali aggiornati al 30 marzo sono rispettivamente 4.540 e 13.592 i reclusi e gli agenti di polizia penitenziaria vaccinati. Ma la macchina della vaccinazione si sta velocizzando, anche se a macchia di leopardo. Lo conferma anche il fatto che il Garante Palma abbia bacchettato il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio per i ritardi e la strategia seguita nelle vaccinazioni nelle carceri. I due hanno avuto uno scambio epistolare che ha lasciato insoddisfatto Palma. “Non è assolutamente condivisibile - scrive Palma - una strategia che si basi sugli interventi laddove focolai di contagio si sono già sviluppati”, come nei casi delle carceri di Asti, Cuneo e Saluzzo. “Ma anche perché tra le sue parole non riesco a intravedere - prosegue Palma - date certe di avvio della fase di diffusa e capillare vaccinazione delle persone ristrette e di coloro che in carcere operano”. a ribadire l’importanza del senso di comunità. Il garante Palma ricorda che in base al Piano Nazionale “polizia penitenziaria, personale carcerario, detenuti costituiscono categorie e setting prioritari a prescindere dall’età e dalle condizioni patologiche. Posizione del resto opportunamente riportata dalla stessa Ministra della Giustizia, proprio per chiarire la direzione della strategia adottata”. Un segnale di cauta positività arriva anche dai vertici del Dap Petralia e Tartaglia in un messaggio di auguri rivolto all’amministrazione “La pandemia è diventata un flagello esistenziale, che ha modificato tanto, troppo. Un flagello però per il quale, meglio di prima, si intravede una via d’uscita che vogliamo credere definitiva e risolutoria”. La pandemia in cella. Per fermare il virus smettete di mettere le persone in prigione di Guido Neppi Modona Il Riformista, 3 aprile 2021 Il distanziamento è la prima essenziale misura per difendere se stessi dal contagio ma il carcere è per definizione un luogo affollatissimo. Una situazione assolutamente paradossale. Troppo timide le misure varate nel decreto legge di ottobre per ridurre il sovraffollamento. Servono provvedimenti più efficaci, come il blocco dell’esecuzione delle sentenze definitive di condanna a pena detentiva fino alla fine dell’emergenza. Era d’accordo anche il Pg della Cassazione Salvi. In questi tempi di crescente diffusione di focolai da coronavirus in numerosi istituti penitenziari le carceri stanno vivendo una situazione assolutamente paradossale. È noto che il distanziamento è la prima essenziale misura per difendere sé stessi dal contagio e per evitare che i contagiati asintomatici inconsapevolmente lo diffondano, ma il carcere è per definizione un luogo affollatissimo, ove detenuti e agenti di custodia trascorrono, gli uni vicini o vicinissimi agli altri, i primi l’intera giornata, i secondi le ore del turno di lavoro. In particolare, le carceri italiane sono affollatissime, al punto che in più occasioni il Consiglio d’Europa ha condannato l’Italia per l’eccessivo superaffollamento, e tuttora i detenuti sono più di 52.500, numero che continua ad essere di gran lunga superiore alla capienza ordinaria di 47.000 unità. Secondo gli ultimi dati sul sito del ministero della giustizia, risalenti al 29 marzo, i detenuti positivi al contagio erano 683 e gli agenti di custodia 797, per fortuna diminuiti rispetto ai contagiati al 30 novembre 2020 (882 detenuti e 1042 agenti di custodia), ma sempre proporzionalmente assai più numerosi rispetto alla percentuale della popolazione libera. Diciotto sono stati i detenuti stroncati dal coronavirus dalla primavera del 2020 al marzo 2021. È dunque prioritaria l’esigenza di diminuire sensibilmente il numero dei detenuti, onde evitare che le carceri continuino ad essere, come sono attualmente, un perfetto focolaio patogeno di trasmissione del contagio sia all’interno del carcere stesso che all’esterno, attraverso i detenuti dimessi, nonché gli agenti di custodia e i detenuti in semilibertà che entrano ed escono ogni giorno. Alla fine di ottobre 2020 era intervenuto un decreto legge contenente alcune misure volte a diminuire la popolazione carceraria, con l’obiettivo di contenere la diffusione del contagio. Sono state aumentate sino al massimo di 45 giorni all’anno sia le licenze premio ai detenuti in semilibertà, sia i premessi premio per regolare condotta. L’ammissione alla detenzione domiciliare è stata estesa ai condannati a pena non superiore a 18 mesi di reclusione, anche se costituente residuo di maggior pena Si tratta in realtà di misure molto timide, inidonee a cagionare sensibili riduzioni della popolazione carceraria. Al fine di ottenere un’effettiva riduzione del sovraffollamento alcune personalità di rilievo insieme a circa 700 detenuti e centinaia di cittadini si erano impegnati a partire dal mese di novembre 2020 in un’azione non violenta di protesta mediante uno sciopero della fame “a staffetta”. Gli obiettivi di questa inedita forma di protesta sono tuttora pienamente condivisibili. In particolare si segnala il blocco dell’esecuzione delle sentenze definitive di condanna a pena detentiva sino alla fine dell’emergenza da coronavirus, per evitare l’ingresso in carcere di nuovi detenuti. La proposta era stata condivisa da un magistrato illuminato quale è il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, “a meno che il condannato possa mettere in pericolo la vita propria o altrui”. La drammatica situazione carceraria era stata affrontata anche dall’associazione Medici senza frontiere (Msf), ben consapevole che la pandemia stava trasformando gli istituti di pena in un mortifero e incontrollabile serbatoio di contagio. Esperti dell’Associazione avevano elaborato un articolato progetto per contenere la propagazione del virus e proteggere i detenuti e tutte le categorie di operatori penitenziari. Msf ha cosa organizzato in quattro istituti penitenziari della Lombardia corsi di formazione rivolti ai rappresentanti dei detenuti e agli agenti di custodia, ai quali è riservata particolare attenzione in base al rilievo che “entrano ed escono continuamente dal carcere e quindi possono essere un facile veicolo di contagio”. È motivo di consolazione che vi siano stati e vi sono volontari che si stanno efficacemente impegnando per rendere meno drammatica la situazione delle carceri, con modalità che si propongono di coinvolgere e di responsabilizzare direttamente le due categorie più esposte. Ma soprattutto è un buon segnale che le funzioni di ministro della giustizia siano ora affidate a Marta Cartabia, personalità che ha sempre dimostrato particolare sensibilità per la tutela dei diritti dei detenuti e per le difficili condizioni di lavoro degli agenti di custodia. Sin da quando, in qualità di vice-presidente della Corte costituzionale aveva promosso insieme al Presidente della Corte Giorgio Lattanzi un percorso di visite a numerosi istituti penitenziari. Non a caso da ministra della giustizia pochi giorni orsono Marta Cartabia ha avvertito l’esigenza di incontrare i vertici dell’amministrazione penitenziaria e degli agenti di custodia e ha avuto occasione di definire “il carcere come luogo di comunità, nel quale la situazione complessiva e il benessere di ciascuno alimenta quello di tutti”. Ben consapevole che anche il carcere è una “formazione sociale” e che l’articolo 2 della Costituzione “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. A partire dal diritto alla vaccinazione. Quei bimbi che passeranno la Pasqua in carcere con le madri detenute di Eleonora Camilli redattoresociale.it, 3 aprile 2021 L’ultimo caso è stato segnalato all’istituto romano di Rebibbia, dove negli ultimi giorni è esploso un focolaio di Covid-19. Il numero delle detenute positive è salito in poche ore a 55, tra loro c’è anche una mamma con il figlio, nato da appena un mese. Ma quanto è esteso il fenomeno? E perché non si trovano soluzioni alternative? Sono piccoli, a volte piccolissimi. La loro culla è sistemata in una stanza con le sbarre alla finestra. Le madri hanno commesso un reato e scontano la pena insieme a loro, nei giorni ordinari e in quelli di festa, oggi come a Pasqua. Sono i bambini in carcere: l’ultimo caso è stato segnalato all’istituto romano di Rebibbia, dove negli ultimi giorni è esploso un focolaio di Covid-19. Il numero delle detenute positive è salito in poche ore a 55, tra loro c’è anche una mamma con il figlio, nato da appena un mese, detenuto con lei. Ma quanto è esteso il fenomeno? E perché non si trovano soluzioni alternative? In tutto in Italia le donne che scontano la loro pena insieme ai figli sono circa 30. Un dato, quasi dimezzato in pochi mesi, dopo lo scoppio della pandemia di Covid-19, ma ancora decisamente troppo alto. “È sempre un dolore vedere i bambini in carcere - sottolinea Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone. Con l’emergenza sanitaria, però, molte donne sono uscite dal carcere. Vuol dire che c’erano già gli strumenti legislativi per tirarle fuori di lì. La pandemia è servita solo da acceleratore per risolvere alcune situazioni. Ecco, di questo dovremmo far tesoro anche in futuro”. Secondo i dati dell’ultimo rapporto Antigone, in due mesi, da febbraio ad aprile del 2020 le detenute con figli minori di 3 anni presenti nel circuito penitenziario in Italia sono passate da 54 (con 59 figli a carico) a 34 (con 40 i figli a carico). Sono recluse nell’Icam di Lauro, a Salerno, Bologna, Roma Rebibbia Femminile, Bollate, Milano San Vittore, Torino Le Vallette, Firenze “Sollicciano” e Venezia “Giudecca”. “Non c’è una soluzione universale per le mamme con bambini, bisogna lavorare sui casi individuali e trovare una soluzione ad hoc per ciascuna - spiega ancora Marietti -. Sicuramente quello che si dovrebbe fare è potenziare le case famiglia, c’è un emendamento della legge di Bilancio che va in questa direzione. Poi bisogna lavorare sui singoli fascicoli e le singole storie”. La possibilità di portare i figli in carcere con la madre è prevista dalla legge 354 del 1975. Ed è una misura pensata per evitare il distacco madre-bambino. Negli anni, però, visti gli effetti negativi della permanenza e della crescita in carcere nei primi anni di vita, sono stati pensati degli istituti alternativi. In particolare con la legge n. 62/2011, meglio nota come legge sulla riforma dell’Ordinamento Penitenziario, sono state introdotte nuove disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, nel corso del processo penale e durante l’esecuzione della pena, come le case famiglia protette e istituti di custodia attenuata. Gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) sono comunque delle strutture detentive, pensate per le detenute madri che non possono beneficiare di alternative al carcere. La detenzione è più leggera e l’architettura è a misura di bambino, il personale non è in divisa, ma resta un carcere a tutti gli effetti. Alcuni istituti penitenziari hanno poi creato al loro interno delle sezioni nido, per i bimbi piccoli. Tra questi c’è appunto il carcere di Rebibbia. Infine ci sono le case famiglia protette, appartamenti veri e propri, senza sbarre o celle. “Non c’è differenza tra sezioni nido in un carcere e gli Icam, la vera alternativa sono le case famiglia protette o la detenzione domiciliare speciale, ma molte donne hanno domicili instabili e non riesco ad ottenerla, per esempio le donne rom - continua Marietti -. Nelle casa famiglia protette, inoltre, ci sono pochi posti. Il legislatore nell’istituirle non ha previsto una copertura finanziaria, delegando all’ente locale. Nell’ultima legge di Bilancio qualche passo avanti è stato fatto e dei fondi aggiuntivi sono stati stanziati”. Malata e in cella con il neonato, la giustizia secondo Gratteri di Iuri Maria Prado Il Riformista, 3 aprile 2021 Non sappiamo se il carcere, come dichiarò il procuratore capo di Catanzaro, Sua Eccellenza Nicola Gratteri, è davvero un posto tanto protetto dal rischio di contagio. Ci si sta più sicuri che al supermercato, spiegò, e amen se al supermercato ci vai se vuoi e se hai bisogno di fare la spesa, mentre il carcere non lo scegli ed è lui che ti ci manda. Nel carcere accade poi che stia non troppo al sicuro, tra i tanti, una madre col proprio bambino: una contagiata inseparabile dal figlio poiché, si apprende, la creatura ha un mese di vita. Un dettaglio informativo a dir poco raccapricciante, perché suppone che solo a causa di quella tenerissima età non abbia avuto corso il bello spettacolo del minore sottratto alle grinfie della criminale che ha avuto l’impudenza di risultare positiva nel posto più sicuro del mondo. Si può essere certi che fosse imperativo tenere in galera una donna che ha partorito da un mese, e chi rimanesse soprappensiero dovrebbe capire che c’è da assicurare la “certezza della pena”, capire che la società deve essere protetta dall’assedio criminale e capire che, notoriamente, “se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi” (è ancora un apoftegma del dottore Nicola Gratteri): e in effetti quel bambino, cresciuto, capirà che era giusto andare svezzato in una cella, perché la mamma aveva sicuramente qualcosa da temere. Ed è bene che sia chiaro che cosa deve temere una donna che si abbandona alla commissione di un reato: deve temere che la sbattano in una cella, dove deve restare, malata, tenendosi il figlio purtroppo temporaneamente da lei inseparabile nell’attesa del momento in cui finalmente potranno strapparglielo. Civilissimo sistema, con i bambini destinatari dell’ottima cura in due dosi: dietro le sbarre con la mamma finché non si può fare altrimenti e, poi, quando si fanno grossi, finalmente liberi di vivere un’adolescenza senza madre. L’idea che altrimenti si potrebbe fare eccome, e cioè mettendo in legge che una mamma con figli non va in carcere e non ci sta, punto e basta, costituirebbe un attentato così grave al nostro sistema securitario che non è nemmeno il caso di pensarci. Lo Stato che si appunta sul petto il merito di far morire in carcere “i mafiosi” è lo stesso che lì dentro fa nascere e crescere i bambini. “Mio marito era sano, il 41bis lo sta divorando”, il dramma di Pasquale Condello di Antonella Ricciardi Il Riformista, 3 aprile 2021 Un mese fa ho raccolto l’appello accorato di Maria Morabito per il diritto alla salute di suo marito, il presunto boss della ‘ndrangheta Pasquale Condello, detenuto al 41bis. Entrato in carcere nel febbraio del 2008, Condello più volte si è definito vittima di abusi. Non sempre è chiaro quanto ciò sia reale e quanto sia frutto di patologie psichiatriche subentrategli in prigione. “Quando vi è entrato godeva di ottima salute”, dice Maria. È stato per nove anni nel carcere di Parma, dove ha iniziato a sentire scosse elettromagnetiche, qualunque cosa toccasse. Si trovava nell’area riservata del 41bis di Parma: il più duro” Un giorno del 2012, lo trovarono in cella incosciente e lo trasferirono immediatamente in ospedale. Una volta dimesso, iniziò a non mangiare e non bere, perché diceva che gli mettevano cose nel cibo e nell’acqua che lo facevano stare molto male. “Era dimagrito tantissimo, era irriconoscibile”, hanno detto la moglie e i figli dopo avergli fatto visita. Poi è stato trasferito in un centro psichiatrico del carcere di Livorno. È rimasto lì più di un mese, si era ripreso, ma poi è tornato a Parma e ha ricominciato a lamentarsi per le scosse. Non faceva la doccia né si lavava i denti, perché con l’acqua - diceva - soffriva di più. Quattro anni fa è stato trasferito nel carcere di Novara. “Speravamo che le cose sarebbero migliorate… ma abbiamo avuto una dolorosa sorpresa: mio marito diceva cose senza senso, sentiva voci fuori dalla sua stanza, delirava”. Uno psichiatra di Reggio inviato dalla famiglia lo ha visitato per quattro ore, l’ha sottoposto a dei test e ha confermato che aveva deliri, era un malato psichiatrico e aveva bisogno di cura. “Quando andiamo a fare il colloquio, lo troviamo con una fascia in testa perché dice che ha dolori”, racconta la moglie. “Non so come hanno fatto in tutti questi anni a trattare così mio marito. Nessuna tortura di nessun genere deve essere fatta a qualunque uomo, chiunque egli sia e qualunque cosa abbia fatto”. Sullo sfondo di questo caso, ci sono le vicende passate che avevano coinvolto da una parte la cosca Imerti-Condello-Fontana, dall’altra il potente clan dei De Stefano. Nelle parole di Maria Morabito, ho colto anche un appello contro la violenza delle faide. “Quella è stata una guerra cruenta piena di vittime innocenti. In ogni guerra di cui si parla non ci saranno mai dei vincitori: siamo tutti vinti; ancora oggi ci sono madri, mogli, figli, che piangono i loro morti”. Attualmente, Pasquale Condello, condannato all’ergastolo, pur non essendosi sentito di percorrere la strada del pentito giudiziario, non vuole avere più - dice la moglie - contatti con il crimine. Alcuni giorni fa, Carmelo Musumeci, un tempo ergastolano senza scampo, ora volontario - dopo la sospensione del suo ergastolo - in una comunità in cui aiuta i disabili, sulla vicenda di Pasquale Condello ha scritto: “In carcere tanti ergastolani, vecchi e malati, stanno morendo e quelli entrati giovani stanno invecchiando. Alcune persone pensano che questo sia un deterrente, o un modo per sconfiggere la criminalità organizzata. Personalmente non lo credo, diciamo piuttosto che penso che accada il contrario, perché una società vendicativa nell’applicare la giustizia non potrà che produrre criminali ancora più cattivi. Penso che sia sbagliato cedere parte della nostra umanità per vivere in una società più sicura. Credo anche che non si debba mai rispondere al crimine con una giustizia vendicativa, che porta dritta all’arretramento culturale. E in tutti i casi, se è solo una questione di sicurezza e non di vendetta sociale, credo sia più sicura per la collettività la pena di morte che il regime di tortura del 41bis. A lungo andare, penso che il regime di tortura del 41bis e la pena dell’ergastolo abbiano rafforzato la cultura mafiosa, perché hanno generato odio, rancore e devianza anche nei familiari e amici dei detenuti. La pena, lo dice la nostra Costituzione, dovrebbe essere rieducativa, ma è difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami, neppure per quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni, i tuoi stessi familiari cominciano a vedere lo Stato e le istituzioni come nemici da odiare e c’è il rischio che i tuoi stessi figli diventino mafiosi in futuro. Spesso durante le mie testimonianze mi fanno questa domanda: “Ma se qualcuno facesse del male ai tuoi figli che pena daresti?”. D’istinto rispondo spesso che li condannerei a diventare buoni, per fargli uscire il senso di colpa per il male che hanno fatto. E poi in maniera provocatoria aggiungo che sarebbe meglio la pena di morte, non la tortura del regime del 41bis e neppure la pena di morte al rallentatore dell’ergastolo. Forse non riuscirei a perdonare chi facesse del male ai miei figli, ma neppure riuscirei a torturarli nel regime di tortura del 41bis o a murandoli vivi per il resto dei loro giorni”. Nello Rossi: “I processi vanno fatti in presenza, io magistrato sto coi penalisti” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 aprile 2021 “Se nella fase della pandemia è stato necessario ricorrere alle udienze a distanza, tale eventualità rimanga una parentesi resasi necessaria nei mesi della pandemia ma, terminata l’emergenza, rappresenti solo un ricordo”. A parlare così al Dubbio è il dottor Nello Rossi, già magistrato, direttore della rivista Questione giustizia. “Nell’ambito della giurisdizione prosegue - c’è bisogno di digitalizzare tutto ciò che è possibile e legittimo informatizzare: mi riferisco alle attività a valle e a monte dei procedimenti. Tuttavia, quello che va preservato intatto è il nucleo centrale del processo, che deve continuare ad avere le caratteristiche dell’oralità, dell’immediatezza, deve lasciare spazio alle repliche, al contraddittorio”. Una piena convergenza dunque con quanto da sempre ribadisce l’avvocatura. Diverso è per il processo civile: “Anche in quest’ambito vi sono esigenze di oralità: penso ad esempio al processo del lavoro oppure ai giudizi sulla posizione dei migranti. È però evidente che nei processi più sofisticati e tecnici uno scambio di memorie può essere molto utile e quasi esaustivo”. Tuttavia quello dell’informatizzazione resta un problema ma su questo Rossi è ottimista: “Nel Recovery Plan, per quanto concerne il settore della giustizia, non solo vengono garantiti nuovi investimenti e nuove assunzioni ma c’è anche la promessa di assumere nuove professionalità per immettere informatici, tecnici, ingegneri, figure diverse da quelle tradizionali che daranno un impulso alla digitalizzazione e alla complessiva innovazione del sistema giustizia”. Un altro tema di attualità che interessa il mondo dell’avvocatura è senza dubbio quello della presenza degli avvocati nei Consigli giudiziari. L’analisi di Rossi prende in considerazione tre elementi: “Partiamo dal fatto che a mio parere, come detto più volte, le valutazioni di professionalità possono essere rese migliori e più fedeli a due condizioni. La prima: responsabilizzando maggiormente i dirigenti degli uffici che scrivono il primo rapporto sul magistrato. La seconda: rendendo effettivo il diritto di Tribuna degli avvocati nei Consigli giudiziari. Si badi bene che tale diritto deve essere considerato come “diritto di parlare alla Tribuna”, cioè di partecipare attivamente alla discussione, non un semplice “diritto di stare in Tribuna”, presenziando silenziosamente ai lavori”. La questione si fa più complessa per quanto concerne il voto: “La questione non è all’ordine del giorno e una scelta di questo genere susciterebbe molte preoccupazioni. Ne indico due: i pubblici ministeri potrebbero trovarsi a dover essere giudicati da loro contraddittori; oppure un avvocato potrebbe, quale captatio benevolentiae, assumere un atteggiamento di piaggeria nei confronti di un magistrato. Al di là di questo ritengo importante valorizzare l’apporto di conoscenza degli avvocati”. A proposito di avvocati, c’è stato apprezzamento per l’ordine del giorno accolto dal governo in merito alla necessità dell’autorizzazione del gip per l’acquisizione dei tabulati telefonici. Su questo punto Rossi mostra delle perplessità: “Mi auguro che se introdotta, questa modalità procedurale non si traduca in un appesantimento della fase delle indagini. Spesso si può avere la necessità di acquisire un tabulato ad horas per lo sviluppo stesso delle indagini. Le faccio un esempio: immagini un’inchiesta su un traffico di stupefacenti durante la quale emerge il cellulare di un soggetto indagato. In quel caso avere immediatamente il tabulato di quella persona può aiutare a individuare la rete dei suoi contatti. Quindi auspico che rimanga l’opportunità di acquisire con la massima tempestività possibile i tabulati su iniziativa del solo pubblico ministero, prevedendo semmai una convalida da parte del gip”. Rossi invece accoglie positivamente il recepimento della direttiva europea che rafforza il rispetto della presunzione di innocenza: “Giusto ribadire il concetto”, ci dice ancora il direttore di Questione giustizia, che ci partecipa la sua personale esperienza come procuratore aggiunto a Roma per 8 anni: “Io, come tanti altri colleghi, ho partecipato a conferenze stampa, che ritengo siano fondamentali in presenza di misure cautelari, per spiegare le ragioni di tali provvedimenti. Gli arresti segreti e immotivati si fanno solo nelle dittature. Naturalmente io, al pari di altri colleghi, non ho mai presentato i risultati raggiunti come una verità assoluta. Innanzitutto rappresentano risultati di una indagine di parte e, anche quando i fatti fossero evidenti, la loro lettura giuridica da parte del giudice potrebbe essere completamente diversa”. Sul ruolo del pm, la cui comunicazione dovrà seguire nuove regole data la direttiva Ue, ci precisa: “È evidente che il pm alla fine delle indagini abbia una storia da narrare, mentre il processo, che verrà dopo, è oggi molto frammentario. Questo complica anche l’operato della stampa che spesso si trova a raccontare solo le indagini e non gli sviluppi del processo. Probabilmente processi più rapidi e scadenzati potrebbero offrire la possibilità di una narrazione altrettanto compiuta”. Spesso però il racconto è chiaramente colpevolista da parte dei magistrati requirenti: “È sempre importante fare un richiamo alla presunzione di non colpevolezza e dare ragione della parzialità dei risultati raggiunti che sono elementi di prova da sottoporre al vaglio del dibattimento. Chi, tra i pubblici ministeri, non lo fa, e c’è qualcuno che non lo fa, sbaglia. Però mi lasci dire che la stragrande maggioranza dei magistrati rispetta questa regola aurea, senza rappresentare il proprio lavoro come una verità assoluta o parte di una crociata diretta a debellare fenomeni criminali. Abbiamo un sistema penale improntato al rispetto delle garanzie: osserviamo le regole per lavorare al meglio nell’interesse della giustizia”. Ultimo punto che affrontiamo è quello delle correnti: la ministra Cartabia ha detto che bisogna combattere le degenerazioni, preservando il pluralismo: “Condivido il pensiero della signora Ministro. Le correnti non sono state né sono solo brutali macchine di potere descritte nell’attuale vulgata. Pensi al vasto panorama delle riviste della magistratura: rappresentano un mondo di pensieri e di proposte che sono un riflesso del pluralismo culturale del mondo dei giudici. Perché dovremmo perdere questa enorme ricchezza? Che ci siano state delle degenerazioni, che si debba andare a fondo è innegabile ma non si può rinunciare alla fertilità delle idee e del confronto. I laudatores temporis acti che credono che ci sia stata un’età dell’oro dovrebbero ricordare che anche nel passato i conflitti tra le correnti erano molto aspri e le critiche nei loro confronti non meno dure di quelle attuali”. Il protagonismo dei Pm e la deriva della giustizia di Giorgio Spangher Il Riformista, 3 aprile 2021 Il compito dell’interprete dei fenomeni giuridici è anche quello di prescindere dai singoli episodi, pur significativi, per vedere se essi si ricolleghino in un ordine suscettibile di costituire un elemento di sistema così da collocarli come elementi di continuità o di discontinuità con quanto emerge dall’analisi degli elementi assimilabili. La recentissima vicenda del contrasto tra la procura di Milano e i giudici del processo Eni-Nigeria si presta a considerazioni di più ampio respiro ove si cerchi di collocarla, appunto, come significativo elemento dell’evoluzione dei rapporti tra pm e giudici, ma soprattutto degli sviluppi che sta evidenziando il ruolo del pm. Può subito anticiparsi come da queste riflessioni emergerà sicuramente la ragione del forte impatto che la posizione della procura assume nel contesto dell’ordinamento giudiziario e delle conseguenti ragioni per le quali le contrapposizioni delle correnti si incentrino soprattutto su queste nomine. Premessa e conclusione di questo fatto, sono da tempo i contrasti all’interno degli uffici di Procura. Solo per citare alcuni, fra i tanti, si può fare riferimento al caso Cordova, al contrasto Robledo - Bruti Liberati dentro la procura di Milano, al caso Cisterna, al conflitto tra caselliani e non nella procura di Palermo, la guerra dello stretto, il caso Lombardini. Sarebbe agevole continuare nell’elencazione. Il ruolo “forte” delle procure, si è evidenziato pure nei confronti delle altre istituzioni dello Stato. Anche in questo caso, solo per riandare ad alcuni episodi, si potrà ricordare il pronunciamento della procura di Milano ai tempi di Mani pulite, il rifiuto opposto agli ispettori del Ministero dell’accesso a un fascicolo. Per venire a episodi più recenti sarà sufficiente ricordare la presa di posizione di alcune procure in tema di intercettazioni, la sottoscrizione di un’intesa con l’Ucpi in materia di procedimento a distanza, nonché non ultimo i messaggi in tema di possibili modifiche al regime dell’art. 41bis ord. penit. In altri termini, le procure tracciano i limiti delle iniziative legislative anche durante la fase di elaborazione delle riforme da parte delle Camere (vedi ancora la modifica dell’art. 270 c.p.p. in tema di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi). L’atteggiamento delle procure è stato significativo anche in relazione alla disciplina dei suoi poteri di indagini nelle dinamiche processuali. Anche a prescindere dall’atteggiamento di rifiuto del modello processuale del 1988 (procuratore Maddalena), sicuramente l’opinione delle procure (Vigna, in testa) sulla non dispersione delle conoscenze del pm, complice il terrorismo e la criminalità organizzata, è stato alla luce delle sentenze costituzionali del 1992 e del 1994. Il dato si è inserito nel contesto d’una scelta, allora coerente, che ridimensionava i poteri di controllo del giudice per le indagini preliminari. Questa espansione del valore probatorio dell’attività del pm si è riverberata lungo tutto il processo, anche nella fase dibattimentale, solo parzialmente ridimensionata dalla riforma dell’art. 111 Cost. Sono evidenti i riferimenti qui solo enunciati: del giudice sulle richieste del pm, elefantiasi della fase investigativa e riflusso delle indagini nel dibattimento con valore probatorio. Si tratta di elementi troppo noti e scandagliati da non richiedere ulteriori indicazioni. Ciononostante non sono mancati, soprattutto a seguito dei dibattimenti decisioni assolutorie (il caso Andreotti, è emblematico) di fronte alle quali inizialmente gli organi dell’accusa, alla luce di quanto dispone l’art. 125 disp. att. c.p.p., si limitavano a dire che vi era stata la prescrizione (e quindi la colpevolezza) ovvero l’applicazione dell’art. 530, comma 2, c.p.p. e che comunque l’impianto dell’accusa non era stato smentito. Ovvero ancora che comunque l’imputato era stato “sfregiato”. Così, non sono mancate progressivamente anche iniziative tese a delegittimare gli uffici giudicanti attraverso segnalazioni al Consiglio Superiore e iniziative para-disciplinari tese a rimuovere i magistrati non allineati. Ultimamente sono aumentati i proscioglimenti e gli annullamenti delle misure cautelari. Sono, parallelamente aumentate le prese di posizioni di censura nei confronti di chi aveva pronunciato sentenze non in linea con le tesi della procura oppure aveva disposto scarcerazioni cautelari. Emblematico il caso del gip di Catania, nonché alcune affermazioni negli sviluppi di Mafia Capitale. Anche in questo caso ulteriori esempi non mancano, confluiti sugli organi di informazione. Non vanno poi sottaciute le prese di posizione nelle varie mailing-list e nelle chat. La vicenda milanese che si segnala per la “ruvidità” dei toni, per la reciproca devastante delegittimazione tra accusa e giudici, per la velenosa contrapposizione tra procura della repubblica e procura generale e che è destinata verosimilmente a perpetuarsi nei successivi sviluppi processuali, come emerge dagli ulteriori veleni che intorbidano la vicenda, era stata preceduta dalle esternazioni del procuratore della repubblica di Reggio Calabria, che ha profondamente diviso l’Associazione Nazionale Magistrati, incapace di prendere posizione in materia, nella quale si faceva leva sull’obbligatorietà dell’azione penale, sulla bontà delle posizioni dell’accusa e si adombravano incapacità - sotto vari profili - degli organi giudicanti. A Milano, si sono prospettate anche non poche questioni sul rapporto tra obbligatorietà dell’azione penale e costi delle indagini non sufficientemente fondate, a sottolineare che l’obbligatorietà non può diventare lo schermo per coprire ogni attività investigativa e deresponsabilizzare l’iniziativa investigativa. Il quadro così sommariamente delineato permette di sviluppare una considerazione di sintesi: il problema del pubblico ministero, del suo ruolo, dei suoi poteri (non escluso quello disciplinare della procura generale), non è più ormai soltanto un problema processuale: è un problema fondamentale di ordinamento giudiziario e di garanzie per la giurisdizione. Il punto è stato colto con chiarezza in un recente articolo di Mariarosaria Guglielmi (apparso su Questione giustizia) sullo stato della magistratura e della funzione giurisdizionale che richiede “una riflessione che oggi non può eludere la tenuta di questo modello non solo rispetto a progetti di riforma ma anche rispetto al diritto vivente. Mi riferisco in particolare ai rischi di un pericoloso scivolamento del ruolo del pm verso forme sempre più evidenti di personalizzazione, da protagonista mediatico incontrastato e agli effetti di serio squilibrio che una dimensione mediatica sempre più incentrata sui risultati delle indagini rischia di produrre rispetto al processo. E mi riferisco agli interrogativi che questo diverso modello ci pone rispetto alle ricadute sulla comune cultura della giurisdizione da noi sempre rivendicata a fondamento e a difesa dell’assetto forte e unitario di indipendenza di tutta la magistratura”. Affermazioni da condividere, parola per parola. 41bis e i diritti negati ai minori: la Consulta non entra nel merito di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 aprile 2021 Chi è al 41bis, a causa della pandemia, a differenza dei detenuti “ordinari” non può effettuare i video colloqui con i figli minori. Il caso è stato sollevato alla Consulta, ma quest’ultima ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma. Il motivo? Riguarda l’incompetenza del giudice remittente in materia di autorizzazione ai colloqui. A sollevare il caso è stato il Tribunale minorenni di Reggio Calabria che si occupa dei minori i cui genitori sono stati dichiarati decaduti dalla potestà genitoriale anche quando questi ultimi chiedono al Tribunale di autorizzare i colloqui con i figli tramite strumenti informatici. Però, secondo l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, fino a sentenza di primo grado spetta solo al giudice procedente. Dopo la sentenza di primo grado, si chiede l’autorizzazione al direttore e in caso di diniego, va fatto reclamo alla magistratura di sorveglianza. Il diritto all’affettività, causa pandemia, è di fatto negato ai figli minorenni dei detenuti al 41bis. La Corte costituzionale ha semplicemente dichiarato l’inammissibilità per un discorso di competenza, non entrando, quindi, nel merito delle possibili questioni che fondano dubbi di incostituzionalità. La Consulta osserva che l’eventuale idea di una competenza diversa di due autorità (e cioè il Tribunale minorenni da un lato e le autorità individuate dall’ordinamento penitenziario) in rapporto al medesimo provvedimento di autorizzazione ai colloqui, provocando l’eventuale e conseguente rischio di decisioni contrastanti, si presenterebbe confliggente con la “logica di sistema”. La questione, quindi, rimane aperta. La legislazione vede il colloquio solo come una richiesta del detenuto e non come diritto del minore a tutelare la sua affettività. Eppure, al di là della “logica di sistema”, chi meglio del Tribunale dei minorenni che conosce il bambino, potrebbe giudicare l’essenzialità del colloquio anche e soprattutto del suo benessere psicofisico? Pensiamo proprio al caso specifico sollevato dal Tribunale dei minorenni. In particolare c’è il figlio di appena 14 anni che necessita di parlare con il padre recluso al 41bis. Dalla relazione psicologica emerge la grave sofferenza del ragazzino recante “segni di trauma dovuti alla separazione dal padre e tratti di rigidità, collegati a difese emotive, con la conseguenza che il medesimo adolescente vive uno stato di lutto non completamente elaborato sia per l’assenza del genitore che per le situazioni esistenziali che si trova a vivere”. Non solo. Il ragazzino è anche affetto da una importante patologia cronica (diabete) che, durante l’emergenza epidemiologica, sconsigliava (e sconsiglia) assolutamente i suoi spostamenti, oltretutto molto complessi per le restrizioni governative in atto. Ma niente da fare. Non gli è permesso fare una videochiamata tramite skype. Ma tanti sono i casi simili. Il Dubbio ha raccolto la testimonianza della moglie di E. Romeo, un detenuto recluso al 41bis di Tolmezzo. “Da più di un anno che i miei figli non fanno un colloquio con il padre - ci racconta Caterina Di Pietro - nemmeno tramite skype. Il magistrato di sorveglianza di Udine aveva dato il via libera, ma il Dap si è opposto. Non ho parole. I miei figli non leggono neanche più le lettere del padre. Soffrono tanto e non ho più parole di conforto”. Perché punire anche i figli piccoli? Ricordiamo la proposta avanzata dall’Osservatorio Lucio Bertè, nata sulla scorta di un’esperienza già fatta dall’avvocata e componente dell’Osservatorio Simona Giannetti, per la minore figlia di un suo assistito detenuto. Si tratta di un protocollo esteso a tutti i detenuti, non solo quelli “ordinari”, per attivare una serie di colloqui telefonici quotidiani, fra i minori e i genitori detenuti, ai quali è impedita - in questo periodo - qualsiasi visita. L’obiettivo è la tutela del minore, della sua salute, del diritto di affettività col genitore, della non discriminazione rispetto ai coetanei. Il diritto allo studio deve essere tutelato anche al 41bis di Laura Biarella orizzontescuola.it, 3 aprile 2021 La Corte di Cassazione (Sezione VII Penale, Ordinanza n. 12199 del 31.03.2021) ha precisato che, nonostante i contemperamenti con le caratteristiche imposte dal particolare regime carcerario dell’art. 41bis Ord. Pen., il diritto allo studio resta comunque garantito e tutelato. Le limitazioni sono giustificate dal peculiare regime del 41bis, ed attengono esclusivamente a determinate modalità di esercizio del diritto stesso. Cos’è il 41bis Ord. Pen. - I detenuti sottoposti al regime 41bis, applicabile per i delitti più gravi (commessi per finalità di terrorismo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’associazione mafiosa, di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, e via dicendo) sono ristretti in carceri a ciò dedicate, o in reparti separati dal resto dell’istituto penitenziario. La custodia avviene in sezioni specializzate della polizia penitenziaria. L’applicazione del cd. “carcere duro” comporta limitazioni ulteriori rispetto ai carcerati in regime ordinario, tra cui: vengono adottate misure di elevatissima sicurezza interna ed esterna; è previsto un solo colloquio al mese, in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti, e solo con familiari e conviventi; somme ed oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno sono limitati; è previsto un visto di censura della corrispondenza (ad eccezione di quella coi membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali che hanno competenza in materia di giustizia); la permanenza all’aperto non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone e la durata massima è di due ore al giorno; sono adottate le misure necessarie per impedire la comunicazione tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e scambiare oggetti. La vicenda - Il Tribunale di sorveglianza aveva respinto il reclamo proposto da un detenuto contro il provvedimento col quale il Magistrato di sorveglianza aveva rigettato il reclamo formulato dallo stesso detenuto, mirante ad ottenere: l’autorizzazione ad iscriversi presso un istituto scolastico superiore di Ragioneria; che l’Amministrazione penitenziaria provvedesse alla fornitura dei libri di testo necessari; che l’Amministrazione consentisse l’accesso al carcere di un insegnante almeno due volte alla settimana per assisterlo nel percorso di studio; o, in subordine, che gli venisse consentito per due volte alla settimana di collegarsi attraverso la rete internet con un insegnante; che le ore di sostegno scolastico non gli venissero decurtate dalle ore di socialità o di aria. Il Tribunale escludeva che potesse ravvisarsi, in danno del reclamante, un pregiudizio grave e attuale all’esercizio del diritto allo studio ed alla formazione, osservando: che al detenuto non era preclusa dalla normativa di riferimento la possibilità di iscriversi ad un corso di scuola media superiore, che poteva aver luogo con l’unica limitazione dell’obbligo d’iscrizione nell’istituto scolastico più vicino al luogo di detenzione; che, ai sensi della circolare D.A.P. del 02.10.2017, il detenuto poteva anche fruire degli strumenti informatici necessari per lo studio e per la preparazione degli esami a conclusione del percorso; che il diritto allo studio non poteva dirsi violato dal diniego opposto dall’Amministrazione alla richiesta della fornitura gratuita dei libri di testo, atteso che la legge penitenziaria non prevedeva tale possibilità, ma contemplava dei sussidi e dei premi che potevano essere erogati ai detenuti in presenza di determinati presupposti, in particolare, nel caso in cui essi versassero in condizioni di indigenza; che, per quanto concerneva l’ingresso in maniera costante nell’istituto di pena di un insegnante o, comunque, l’utilizzo del sistema Skype per il sostegno scolastico, trattavasi di modalità non previste dalla normativa penitenziaria, anche per intuibili esigenze di sicurezza, atteso che concretizzavano un elevato rischio di veicolazione di messaggi da o verso l’esterno. In conclusione, il Tribunale condivideva il tenore del provvedimento reclamato, affermando che il diritto allo studio del detenuto, garantito da norme di legge nazionali e sovranazionali, doveva essere necessariamente contemperato con le esigenze di ordine e di sicurezza sottese al regime differenziato ex art. 41bis Ord. Pen., con la conseguenza che non era individuabile alcuna lesione grave ed attuale del diritto allo studio e alla formazione, laddove questo fosse garantito e assicurato, come nel caso di specie, seppure con alcune limitazioni rese indispensabili dall’interesse pubblico al mantenimento della sicurezza. Permane il diritto allo studio, nonostante la sottoposizione al regime 41bis - Il detenuto si è rivolto alla Cassazione, che tuttavia, al pari dei precedenti giudici, ha escluso la ricorrenza del pregiudizio grave ed attuale all’esercizio del diritto allo studio in danno del detenuto, posto che tale diritto che resta, in ogni caso, tutelato, seppure con le inevitabili limitazioni giustificate dal particolare regime del 41bis cui egli è sottoposto, e che attengono esclusivamente a determinate modalità di esercizio del diritto stesso. Campania. Recidivi ai domiciliari, c’è speranza per 100 detenuti anziani di Viviana Lanza Il Riformista, 3 aprile 2021 Cade un altro paletto del giustizialismo dopo la decisione della Corte Costituzionale di consentire ai detenuti ultrasettantenni di ottenere gli arresti domiciliari anche se condannati con l’aggravante della recidiva. La sentenza depositata l’altro giorno, di cui è relatore il giudice Francesco Viganò, ha infatti dichiarato incostituzionale la norma dell’ordinamento penitenziario che di fatto lo impediva. È una svolta che in Campania, secondo i dati diffusi dal garante regionale Samuele Ciambriello, potrebbe potenzialmente far aprire le porte del carcere per un centinaio di detenuti, mentre in tutta Italia se ne contano 851. Il condizionale è d’obbligo perché sarà comunque la magistratura di Sorveglianza a valutare ogni singolo caso e stabilire di volta in volta se il condannato sia o meno meritevole di accedere alla misura alternativa, tenuto conto anche della sua eventuale residua pericolosità sociale. La sentenza della Consulta è comunque destinata a segnare un percorso. “Più che un grande elemento di novità, questa sentenza va nella linea seguita dalla Corte costituzionale di ritenere illegittimi meccanismi di esclusione automatica di misure alterative, come quella della possibilità della detenzione domiciliare per ultrasettanetenni condannati con recidiva”, spiega Francesco Marone, docente di Diritto costituzionale all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli. La norma dell’ordinamento penitenziario che la Consulta ha annullato era troppo punitiva perché faceva riferimento alla recidiva semplice e neanche legata alla sentenza in esecuzione. Ha dunque prevalso la tesi per cui la recidiva è determinante ai fini della quantificazione della condanna da infliggere, ma non anche rispetto alle ragioni che potrebbero giustificare l’espiazione della pena in detenzione domiciliare. “Un elemento da sottolineare - aggiunge il professor Marone - è che la sentenza della Corte Costituzionale ripristina la discrezionalità del giudice. Vuol dire che non c’è un automatico diritto degli ultrasettantenni a scontare la pena ai domiciliari, ma c’è il potere discrezionale del magistrato di Sorveglianza di valutare se ricorrono o meno le circostanze per decidere se concedere al condannato anziano il beneficio della misura alternativa. In altre parole la sentenza della Corte Costituzionale non crea alcun automatismo, semplicemente rimuove un automatismo contrario”. Restano tuttavia esclusi i casi di reati che generano maggiore allarme sociale: “La parte dell’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario che viene annullata è solo quella che fa riferimento alla recidiva - spiega Marone - ma tutta la parte che fa riferimento ai condannati per reati di mafia o contro la libertà sessuale, ai delinquenti abituali o per tendenza, non viene toccata”. A ogni modo è un nuovo passo verso il rispetto del valore costituzionale della pena. “Questa sentenza va infatti nella direzione giusta - commenta il docente di Diritto costituzionale - Il tema dello sviluppo delle misure alternative alla detenzione è la strada sensata da seguire, che poi era quella individuata dal ministro Andrea Orlando all’epoca del governo Gentiloni: quella riforma aveva bisogno solo dei decreti attuativi ma fu abbandonata dal governo successivo. Sicuramente la soluzione per rendere le pene più umane e più aderenti al fine rieducativo non è quella di tenere gli ottantenni in carcere”. L’obiettivo da raggiungere è la garanzia di una pena umana e finalizzata alla riabilitazione sociale. “La previsione per un condannato anziano di poter scontare la pena in detenzione domiciliare risponde a una duplice esigenza che fa riferimento alla duplice caratteristica della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione: umanità e fine rieducativo. Da un lato - conclude Marone - si presume che ci sia una minore pericolosità sociale del condannato anziano e, dall’altro, che l’avanzare dell’età renda sempre più faticoso il suo soggiorno in carcere. Per i condannati anziani, quindi, il fine rieducativo passa in secondo piano rispetto al fatto che la pena non sia contraria al senso di umanità”. Piemonte. Covid, il Garante bacchetta Cirio: “Incerte le vaccinazioni nelle carceri” La Stampa, 3 aprile 2021 Per Mauro Palma non si può intervenire laddove i focolai di contagio si sono già sviluppati e serve un calendario certo. La strategia del Piemonte sulla vaccinazione dei detenuti non funziona. Lo denuncia il garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, che ha bacchettato il presidente Alberto Cirio per i ritardi e la strategia seguita nelle vaccinazioni. I due hanno avuto uno scambio epistolare che evidentemente non è piaciuto al garante che ha rilevato alcune perplessità. Innanzitutto - dice Palma - “perché non è assolutamente condivisibile una strategia che si basi sugli interventi laddove i focolai di contagio si sono già sviluppati”. Come successo per esempio nelle carceri di Asti, Cuneo e Saluzzo citati dal governatore. “Ma anche perché tra le sue parole (di Cirio, ndr) non riesco a intravvedere date certe di avvio della fase di diffusa e capillare vaccinazione delle persone ristrette e di coloro che in carcere operano”. Il garante ha ricordato che in base al Piano Nazionale “polizia penitenziaria, personale carcerario e detenuti rappresentano categorie e setting prioritari “a prescindere dall’età e dalle condizioni patologiche”. Posizione del resto opportunamente riportata dalla stessa ministra della Giustizia, proprio per chiarire la direzione della strategia adottata”. Il garante ha avvertito che ha intenzione di mantenere sotto controllo l’evolversi della situazione. “Evoluzione che sono certo sarà positiva e riporterà la Regione Piemonte in linea con quanto sta avvenendo nelle altre parti del territorio nazionale”. Reggio Emilia. Covid nel carcere: altri due detenuti ricoverati, uno molto grave di Giulia Beneventi Il Resto del Carlino, 3 aprile 2021 L’Ausl fa il punto sulla situazione dopo il nostro servizio: tre dei trasferiti in ospedale si sono stabilizzati, uno invece preoccupa Il virus continua a colpire duramente il carcere reggiano. Dopo il nostro scoop sui 74 detenuti risultati positivi e 2 ricoverati, ieri è emerso che altri due carcerati sono stati ricoverati in ospedale. In tutto quindi i casi che si sono aggravati sono quattro. Due sono stati ricoverati in pneumologia, altri due nel reparto infettivi del Santa Maria Nuova. “Per tre di queste persone le condizioni di salute si sono stabilizzate - ha dichiarato ieri il direttore del presidio provinciale, Giorgio Mazzi. Un caso invece resta abbastanza grave”. Quella della Pulce è una circostanza che rimanda a situazioni purtroppo note, contesti comunitari in cui il virus si espande rapidamente, in maniera implacabile. Su circa 350 detenuti 90 sono stati contagiati, mentre su 120 dipendenti della Polizia penitenziaria una cinquantina, tra isolamenti e quarantene, sono fuori servizio. Tra l’altro, in questa fase della campagna il personale del carcere ha diritto al vaccino: stando a quanto dichiarato dalla dirigenza Ausl, le somministrazioni di AstraZeneca alle forze dell’ordine sono quasi al completo. Tranne, appunto, la polizia penitenziaria, che conta solo 35 vaccinati e su cui si sta registrando un consistente ritardo proprio in conseguenza al focolaio Covid. Bisognerà aspettare che i non-contagiati concludano il periodo di isolamento precauzionale e valutare la vaccinazione posticipata per chi ha contratto il virus e, quindi, sarà per diversi mesi naturalmente immune. La vicenda che sta travolgendo il carcere in questo periodo ha però anche aperto un capitolo spinoso. Le familiari di due detenuti, ora ricoverati, hanno raccontato di essere rimaste all’oscuro di cosa stesse succedendo. Già da una decina di giorni non avevano notizie, rispettivamente del padre e del marito, e hanno scoperto del ricovero solo diverse ore dopo. Hanno poi descritto la struttura come “fatiscente, con topi ovunque, infiltrazioni e cure inesistenti”, in cui i detenuti sono tenuti “in isolamento assieme ad altri potenziali positivi al Covid, quasi ammassati”. Accuse prontamente smentite da Giovanni Battista Durante, segretario generale della Sappe (sindacato della polizia penitenziaria). Ieri tuttavia i rappresentanti di Fp Cgil, Fns Cisl e Uil Pa hanno incontrato il sindaco Luca Vecchi e il prefetto, Iolanda Rolli, per riferire “la gravissima situazione dei contagi esplosa all’interno del carcere” scrivono in una nota, dove si parla però di sei ricoverati tra i detenuti. I sindacati hanno messo l’accento sulle “problematiche a livello organizzativo”, come l’assenza di protocolli chiari e i ritardi nella fornitura di dispositivi di protezione. La mancanza più significativa, segnalata nel corso dell’incontro, riguarda “un’adeguata organizzazione della presenza sanitaria in carcere, col presidio di dirigenti sanitari che possano efficacemente mettere in pratica i protocolli e le disposizioni che l’Ausl ha predisposto per contenere i focolai”. I numeri dei casi positivi e dei ricoverati forniti dai sindacati non coincidono poi con quelli dell’Ausl: 6 in ospedale e cento contagiati. Parma. Covid, peggiora il quadro nel carcere: 66 positivi La Repubblica, 3 aprile 2021 Il Garante dei detenuti e la Camera penale: “Provvedere alla vaccinazione nel più breve tempo possibile”. Il Garante dei detenuti del Comune di Parma, Roberto Cavalieri, e la Camera Penale di Parma con il suo Osservatorio carcere, in persona della responsabile avvocato Monica Moschioni, dopo essersi incontrati per un confronto circa le recenti notizie provenienti dal penitenziario, dal quale provengono dati che evidenziano un peggioramento della situazione sanitaria dovuta al focolaio Covid-19 attivato la scorsa settimana, hanno deciso di rendere pubblica l’informazione condivisa a tutela di coloro che accedono alla struttura e a sostegno delle iniziative per la prevenzione dell’ulteriore diffusione del contagio. “Ad oggi i dati sul contagio da Covid-19 di detenuti e personale della Polizia penitenziaria manifestano un incremento tale da destare preoccupazione. Il numero dei detenuti ristretti al regime differenziato 41bis positivi è passato da 11 a 18, di cui uno risulta essere ricoverato nel padiglione Covid presso l’Ospedale maggiore. Anche in altri reparti detentivi risultano essere stati rilevati casi positivi, al momento 1 in Media sicurezza e 2 in Alta sicurezza. Quarantacinque sono, invece, gli agenti della Polizia penitenziaria ad oggi positivi. Il quadro del focolaio oggi conta complessivamente 66 persone coinvolte e, considerate le caratteristiche della popolazione detenuta (240 persone detenute assegnate a Parma per motivi sanitari, persone anziane e spesso portatori di gravi patologie), il dato non può che elevare il livello di allarme. Il Garante dei detenuti del Comune di Parma e l’Osservatorio carcere della Camera penale di Parma danno atto che il Direttore Valerio Pappalardo e la Direzione Sanitaria degli Istituti Penali, in persona del Dott. Faissal Choroma, hanno attivato tutte le necessarie misure per il contenimento del contagio, operando in coordinamento con il comandante Domenico Gorla, e nei confronti degli stessi si esprime sincero apprezzamento e solidarietà, soprattutto perché operano in condizioni decisamente critiche, dato l’elevato numero della popolazione detenuta. Tuttavia è necessario che il processo di vaccinazione dei detenuti, che ad oggi ha riguardato solo 12 reclusi ultraottantenni, venga sostenuto dalla Sanità Regionale con maggiore determinazione, accelerando la somministrazione dei vaccini. La comunità penitenziaria conta circa mille persone tra detenuti e personale della polizia penitenziaria e, considerata la fragilità di larga parte dei detenuti, è atteso un segnale forte e deciso da parte della Sanità. Infine, i firmatari esprimono la propria vicinanza ai detenuti e alle loro famiglie, rendendosi disponibili per le eventuali necessità di informazioni, cooperando in tal senso con l’Amministrazione Penitenziaria”. Parma. Ha gravi problemi psichici e da 5 mesi è in isolamento totale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 aprile 2021 Per i medici questa condizione acuisce le sue patologie con il rischio di autolesionismo. Al carcere di Parma c’è un detenuto con problemi psichici - tanto da commettere atti autolesionistici come cucirsi la bocca - che da cinque mesi è in isolamento totale. Nonostante l’indicazione dei medici, è perennemente chiuso in cella, senza l’ora d’aria e attività trattamentali. Il caso è stato sollevato da Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus. Si chiama Carmelo Latino e risulta preso in carico dai servizi psichiatrici già dal 2009 con tali scompensi emotivi da rendere necessarie frequenti visite psichiatriche. Dalle relazioni mediche che l’associazione Yairaiha ha allegato nella segnalazione al ministero e Dap, si evince che il principale motivo di ansia e scompenso, da sempre ma acuitosi negli ultimi mesi, è l’ipotesi di dover condividere la cella con altra persona al punto che tutti gli specialisti che lo hanno visitato hanno sempre raccomandato la collocazione in cella singola. Latino si trova in isolamento, continuatamente, dall’ 11 novembre 2020. Inizialmente l’isolamento è stato volontario in relazione alla comunicazione da parte degli agenti preposti che avrebbe dovuto “lasciare la sua cella e cercarsi un compagno”, onde evitare discussioni che avrebbero potuto compromettere il precario equilibrio psichico, oltre che prendere un rapporto disciplinare. Il 17 novembre gli viene comunicata una sanzione disciplinare con l’esclusione dalle attività in comune per 15 giorni. A questa ne sono seguite altre fino a determinare l’isolamento totale con l’esclusione dalle attività e dall’ora d’aria. “Uno stato di isolamento che ha esasperato oltremodo la fragilità psichica del sig. Latino che in data 3 febbraio è arrivato a cucirsi la bocca per riuscire ad essere ascoltato”, osserva l’associazione Yairaiha. Il 18 febbraio, il detenuto, durante un video collegamento, avrebbe avuto modo di far presente al direttore e a due funzionari dell’istituto i motivi del suo gesto estremo, ribadendo la necessità di stare in cella da solo, dato il conclamato disagio psicologico e chiedendo, contestualmente, di poter effettuare le ore d’aria anche da solo, sebbene non dovrebbe esserci nessun divieto di incontro con la restante popolazione detenuta. La questione è seria. Dalle numerose relazioni mediche si evince che l’isolamento forzato sta determinando un acuirsi delle patologie psichiatriche pregresse con elevati rischi autolesivi. Tutti i medici che lo hanno visitato raccomandano “l’allocazione in cella singola (anche in sezione Iride) e la garanzia del mantenimento di tutti i diritti e possibilità (attività, ora d’aria e socialità) che il paziente aveva nella sezione ordinaria”, e ancora: “Si ribadisce la necessità di allocazione in cella singola in sezione ordinaria al fine di ridurre l’irritabilità e gli elementi stressanti in paziente con fragilità di adattabilità, al fine di garantire il miglior adattamento possibile alla vita detentiva residua (fine pena 2025 con detraibilità)”. Stabat Mater, in scena detenuti e attori di Maria Vittoria Corrado gnewsonline.it, 3 aprile 2021 Nel giorno della vigilia di Pasqua, è stato presentato il trailer del cortometraggio cinematografico Stabat Mater. Il dramma poetico, liberamente tratto dalla raccolta Madri di Grazia Frisina, regia di Giuseppe Tesi, è interpretato da attori professionisti, tra i quali Melania Giglio e Giuseppe Sartori, e da dodici detenuti di diversa nazionalità, lingua e cultura della casa circondariale di Santa Caterina in Brana di Pistoia. La scelta del testo, ispirato alla preghiera tradizionalmente attribuita a Jacopone da Todi, al teatro medievale e alla tragedia greca, intende dare voce a tutti coloro che solitamente non hanno la possibilità di esprimersi, simbolicamente rappresentati dal pianto della Vergine Maria. In tal senso, hanno potuto manifestare il proprio disagio un gran numero di attori detenuti, grazie alla presenza del Coro e della Corifea, suggeriti dall’opera quali controcanto all’azione. “Il teatro in carcere - ha dichiarato la guardasigilli Marta Cartabia nel giorno della Giornata mondiale del teatro, celebrata lo scorso 27 marzo - non è mero intrattenimento, riempitivo di un tempo vuoto, ma un’occasione significativa in un percorso di acquisizione di consapevolezza”. Le riprese dello Stabat Mater, partite prima dell’inizio della pandemia, hanno avuto come scenario l’interno del carcere toscano e alcuni luoghi caratteristici della provincia: la saletta anatomica dell’Ospedale del Ceppo, di architettura settecentesca, la fontana di Daniel Buren a Villa La Magia e la spiaggia della Lecciona in Versilia. Il progetto, promosso dall’associazione culturale Electra Teatro, punta a valorizzare la persona e lo sviluppo della sua autonomia, attraverso un percorso formativo che potenzi capacità creative e culturali dei singoli, con un’attenzione particolare al miglioramento del lessico linguistico dei detenuti stranieri, essenziale alla loro integrazione sociale e al necessario reinserimento nella cittadinanza attiva. Il canto delle carceri sarde di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 3 aprile 2021 Il viaggio etno-musicale di Joe Perrino dentro gli istituti penitenziari della Sardegna. E il libro di Sergio Abis, “Chi sbaglia paga”, con le lettere dei detenuti a don Ettore Cannavera, fondatore della comunità La Collina. Le prigioni dell’isola sono ormai utilizzate come un confino: per esempio ad Arbus Is Arenas e Onanì gli stranieri sono circa il 78%, rispetto a una media nazionale del 32%. Please Governor Neff mi lasci libero. E il Governatore del Texas Pat Morris Neff, effettivamente lo lascio liberò e lo graziò. Eravamo negli anni Trenta del secolo scorso. Senza i blues di Leadbelly non ci sarebbe stata buona parte della musica folk e rock dei decenni successivi. E senza il viaggio etnomusicale di John Lomax e di suo figlio Alan nessuno avrebbe avuto modo di assaporare quei blues di Leadbelly che parlano all’anima. La Library of Congress aveva incaricato i Lomax di registrare la musica degli Stati Uniti del Sud, che fino ad allora si tramandava oralmente e rischiava di andare perduta. John Lomax capì che le prigioni negli anni Trenta americani erano posti preziosi dove si potevano incontrare biografie musicali meravigliose, proprio come quella di Leadbelly. Altrettanto straordinario è il viaggio etno-musicale di Joe Perrino in Sardegna in giro per le dieci carceri dell’isola. Un viaggio che per ora è un disco - “Canzoni di malavita n. 3. Per grazia non ricevuta” - ma che diverrà a breve anche un film girato insieme a Giovanna Maria Boscani, artista musicale sassarese. Joe Perrino, rocker cagliaritano, diciotto dischi sulle spalle, ha dato vita a un eccezionale progetto di recupero di una tradizione musicale che nasce dietro le sbarre, così raccogliendo e tramandando racconti di vita, gelosie, lamentele, sogni, frustrazioni. In alcuni casi ha fatto proprio la stessa cosa dei Lomax, ossia è andato a recuperare una tradizione musicale galeotta che fino ad allora non aveva mai avuto occasione di diventare testo scritto e cantato da non detenuti. Joe Perrino ha sia tradotto in canzoni scritti, disegni, dipinti e piccole sculture di detenuti dai quali ha estrapolato il cuore pulsante, ha sia restituito vita a brani tradizionali, come nel caso della traccia Milano-Livorno-Binario 21. “Annuncio ritardo: sono quasi due ore, il treno non parte, chiedo a un passante cosa è successo, un drogato è morto nel cesso”. Una canzone che racconta di un ragazzo che dalla Sardegna finisce a Milano. A lui gli è andata male a causa dell’eroina. Quell’eroina che ti portava a dire che la prima volta era bello. “Gli è andata male con la fortuna. Rubava non per quattrini. Gli spacciatori bastardi e assassini”. Una canzone che nel cuore degli anni Settanta era cantata dai gruppi anarchici milanesi. In Ricominciare da capo c’è invece un riassunto di emozioni di vita carceraria: la paura del dopo, il dolore, la non rassegnazione, la naturale ricerca della felicità di chi ora sta dentro, ma poi starà fuori. Non c’è auto-commiserazione né esaltazione di violenza, ma solo vita vera, fatta di sentimenti di vendetta non sopiti. Si percepisce lo scorrere inesorabile, lento, tragico, ripetitivo, ossessionante del tempo. “Sono rinchiuso in una cella dimenticato. Viene l’inverno. Il freddo che morde. Tristi pensieri… Arriva l’estate, affaticato stanco e sudato mentre il borghese si gode la vita”. Tempo e spazio sono categorie classiche che definiscono la pena moderna. Il tempo e lo spazio della prigione si ritrovano in questa raccolta musicale, terzo capitolo di un progetto che meriterebbe di diventare patrimonio bibliotecario pubblico così come avvenne per il lavoro di ricerca di padre e figlio Lomax nelle prigioni degli Stati Uniti del Sud. Joe Perrino ha lavorato dal basso a una tradizione musicale che solo in parte è assimilabile alla musica neo-melodica napoletana o barese. Quest’ultima riesce meno a scavare nella zona grigia dei sentimenti, che non è fatta solo da espressioni dalle tinte forti, come quando il mio omonimo Patrizio, cantante morto per overdose a 24 anni a Napoli, scrive a canta che non vuole “l’attenuante minorenne, perché je l’aggio acciso comme a n’ommo gruosso”. Nelle storie cantate da Joe Perrino, al pari di quelle di Tom Waits in “Orphans: Brawlers, Bawlers and Bastards”, c’è l’intensità della vita trascorsa in prigione; non c’è dunque solo l’affresco di un mondo criminale sublimato a mondo perfetto, fondato sulla cultura machista della violenza. C’è anche lo sguardo antropologico alla vita di galera. Per questo il progetto musicale di Joe Perrino è anche una via attraverso cui conoscere le dieci carceri sarde con i suoi due mila detenuti. Finire in carcere in Sardegna non è come stare in continente. C’è l’isolamento forzato determinato dalla lontananza, dalla difficoltà di tenere in piedi legami affettivi, visto che non sempre sono lì reclusi i sardi di origine. La Sardegna, un tempo perché ci si mandava i terroristi e i mafiosi, ora perché è luogo privilegiato di trasferimento degli stranieri provenienti dalla terraferma, tende ad assomigliare a un confino. Vi sono istituti con una presenza percentuale di detenuti stranieri elevatissima; si pensi che ad Arbus Is Arenas e Onanì gli stranieri sono intorno al 78%, rispetto a una media nazionale pari al 32% circa. Per capire cosa accade nelle carceri sarde e per conoscere un’alternativa possibile alla prigione quale pena, ci si può affidare oltre che a un disco, anche a un libro scritto da Sergio Abis, Chi sbaglia paga (Ed. Chiarelettere). Abis raccoglie le lettere scritte in un ampio arco di tempo dai detenuti a un sacerdote, don Ettore Cannavera, fondatore della Comunità “la Collina”, a Cagliari. Le lettere dei detenuti a don Ettore costituiscono uno spaccato sociologico attraverso cui conoscere il carcere vero, che purtroppo tende a non coincidere con quello descritto nelle norme dell’ordinamento penitenziario. Il carcere reale è fatto di sofferenze, isolamento relazionale ed affettivo, disagio, paura, preoccupazioni stratificate, abbandono emotivo e sociale. Don Ettore gestisce nelle bellissime colline cagliaritane una comunità dove ragazzi, giovani adulti e non solo scontano parte della loro pena in misura alternativa alla detenzione. Ho avuto la fortuna di trascorrervi alcune giornate insieme a don Ettore, ai suoi educatori e a i suoi ospiti. Si respira un’aria non di afflizione, sofferenza, abbandono, solitudine. La pena recupera così quel suo senso costituzionale che invece sembra tragicamente perso leggendo le lettere dei detenuti che ha così mirabilmente raccolto Sergio Abis. È un libro duro che tocca le corde anche di chi tante ne ha lette e tante ne ha viste. Don Ettore non è il classico sacerdote che raccoglie la confessione dei peccatori; lui è la speranza di uscita dal buio, verso quella che dovrebbe essere una riconversione ecologica della pena. Un disco e un libro ci portano dentro le prigioni di quella bellissima terra che è la Sardegna. L’arte e la letteratura costituiscono una forma di conoscenza non scontata del reale, in quanto libere da schemi precostituiti e da stereotipi interpretativi. Joe Perrino e don Ettore Cannavera (la cui opera traspare dal lavoro di scrittura e di archivio di Sergio Abis) sono due volti bellissimi di una Sardegna che - va ricordato - è la terra di Zirichiltaggia, ossia di quella poesia in dialetto grazie alla quale Fabrizio De André ci ha condotto per mano nell’isola, facendoci scoprire l’umanità di luoghi che possono essere raccontati solo se intensamente vissuti. Noi e il virus. La libertà di obbedire di Luigi Manconi La Repubblica, 3 aprile 2021 Vaccinarsi per Mario Draghi? Inocularsi il siero per i valenti Massimo Galli e Alberto Zangrillo? Ovvero, in ragione di un rito sociale e di una procedura sanitaria di affidamento all’autorità dello Stato e della scienza. Certo, nel profondo dell’individuo, la motivazione più forte poggia sulla valutazione del proprio personale interesse: se, dunque, il vaccino o qualsiasi altra terapia, faccia il mio bene oppure mi arrechi un danno. È intorno a questi processi emotivi e mentali che si forma il consenso, o si manifesta il dissenso, a proposito delle strategie pubbliche contro il coronavirus. Natalino Irti, maestro di diritto civile, ha pubblicato un libro molto bello, “Viaggio tra gli obbedienti” (edito da La Nave di Teseo). È una sorta di diario dell’anno della pandemia dove l’autore, analizzando i rapporti interpersonali e le regole monastiche, le prescrizioni sanitarie e gli ordini militari, suggerisce argomenti per rispondere alla domanda: “perché obbedire?”. Irti, non dà una risposta netta, perché, così scrive “la domanda, nasce e rimane, all’interno della coscienza individuale”, ma indica un percorso. Ciascuno di noi - di fronte all’inimmaginabile e all’inconoscibile del virus - si trova preso tra la tentazione di abbandonarsi a chi più sa e più può e quella di rompere le righe, saltare la fila, violare il coprifuoco. In termini di psicologia sociale, tutto ciò si è manifestato attraverso una serie di comportamenti considerati come espressione dell’eterno e irriformabile carattere nazionale: sempre oscillante tra capacità di abnegazione e trasgressione individualistica, tra senso di responsabilità e moto anarcoide, tra coscienza civile e dileggio anti - istituzionale. Nelle diverse forme di disubbidienza si avverte o una irriducibile renitenza umorale o - quando motivate da considerazioni giuridiche o filosofiche - l’affermazione dell’assoluta e irrinunciabile necessità del dubbio, come fondamento del pensiero critico. Opzioni degne del massimo rispetto quando non lesive dei diritti altrui e del bene pubblico, ma che sembrano sottovalutare le dimensioni della pandemia e i suoi tragici effetti per la collettività. Eppure nella stragrande maggioranza gli italiani hanno osservato le regole, anche quando risultavano contraddittorie o cervellotiche. C’è una ragione di fondo, raramente dichiarata, eppure intensamente avvertita. Tutti gli Stati, in qualunque tempo e qualunque forma assumano, si basano su un vincolo primario: lo scambio tra protezione e ubbidienza. Lo Stato garantisce la tutela dell’incolumità fisica e psichica dei cittadini e questi promettono l’osservanza delle regole. Su questo scambio si fonda la legittimazione giuridica e morale dell’autorità statale, la vita delle istituzioni e la stabilità dell’organizzazione sociale. Non è necessario compulsare Thomas Hobbes: basta un manualetto di scienza politica e l’esperienza quotidiana di ognuno. La possibilità di riconoscerci in una comunità, nelle sue leggi e nei suoi istituti, dipende direttamente dalla consapevolezza di essere protetti. L’aver delegato il monopolio legittimo della forza agli apparati dello Stato giustifica l’affidamento a un’autorità in grado di difenderci dai nemici interni ed esterni. In altre parole, di fronte a una minaccia, chiediamo allo Stato di proteggerci da essa. È quanto accade, ancor più, in presenza della più insidiosa e inquietante delle minacce: il morbo. Questo perché, la posta in gioco è costituita - e per tutti - da una questione di vita o di morte. È qui che, come scrive Irti, l’ubbidienza richiama una “regola che calando dal di fuori e dal di sopra, assume la vita dentro di sé e conferisce la forma del diritto”. È allora che l’ubbidienza chiama in causa “scelte tragiche” vaccinarsi o meno è, in realtà, la più semplice - che interpellano ciascuno di noi: ed è sempre allora che lavarsi coscienziosamente le mani diventa un atto di coscienza e, allo stesso tempo, un atto politico. La scelta di ubbidire, tuttavia, esige una precondizione: il riconoscimento e il rispetto rigoroso di quel diritto alla conoscenza, cui dedicò la sua ultima battaglia Marco Pannella. Decreti della Presidenza del Consiglio dei ministri e prescrizioni sanitarie, divieti e obblighi, interdizioni e limiti, blocchi e chiusure, acquistano un senso - almeno un minimo senso - e producono ubbidienza, solo se accompagnati da un’adeguata informazione. E Dio solo sa quanto essa sia stata assente o carente in questi lunghi mesi. L’informazione potrà essere contestata e contraddetta, e messa radicalmente in discussione, ma deve essere sempre offerta al cittadino cui si chiede responsabilità e lealtà. Solo in tal caso “l’individuo potrebbe riacquistare la libertà di obbedire, la libertà dell’ascolto e della personale decisione”. (Ancora Irti). Alessandro Zan: “Nessun bavaglio nella mia legge sull’omotransfobia” di Daniela Preziosi Il Domani, 3 aprile 2021 Alessandro Zan è il papà della legge sull’omotransfobia approvata a novembre alla Camera e ora ferma al Senato per i veti di Lega e FdI. “Salvini e Meloni dicono che una legge contro l’omotransfobia non serva. Eppure, quando abbiamo introdotto l’aggravante per l’istigazione all’odio contro i disabili, l’hanno votata. Per l’”abilismo” sì, per l’omotransfobia no? Che vuol dire?”. Alessandro Zan, 45 anni, già presidente di Arcigay veneto oggi deputato Pd, è il primo firmatario della legge ferma al Senato per l’opposizione di Lega e FdI. Onorevole Zan, lei sostiene che la Lega e FdI sono contrari solo all’aggravante per omotransfobia, e non a quella per l’odio contro i disabili contenuta nella stessa legge? È evidente da come hanno votato. Nella legge l’abilismo segue gli stessi criteri dell’omotransfobia. Ma hanno votato a favore dell’aggravante per abilismo e contro quella per l’omotransfobia. Si contraddicono di nuovo quando parlano di “legge bavaglio”: la libertà di espressione vale solo sui gay, o anche su tutto il resto? Si spieghi... La destra ha fatto ostruzionismo alla Camera, in commissione Giustizia, sostenendo che il testo limitasse la libertà di espressione. Poi, su sollecitazione di Lisa Noia di Italia viva, abbiamo inserito l’abilismo. Ed era giusto: per l’Unione europea i disabili sono uno dei gruppi sociali vittima dei crimini d’odio, assieme alle donne e alle persone Lgbt. Invece il razzismo e l’antisemitismo sono già coperti dalla legge Reale-Mancino. Sull’abilismo, dunque, hanno votato tutti. Quindi sui disabili va bene introdurre un’aggravante per il crimine d’odio nel codice penale, invece sull’omofobia no? Vuol dire che sono d’accordo sul principio, che è lo stesso, ma che non vogliono che le persone Lgbt abbiano una protezione. Prendiamo sul serio le obiezioni della destra. Siete sicuri di non introdurre un reato di opinione? Sicuri. È ribadito nell’art. 4 della legge: la libertà di espressione è garantita dall’Art. 21 della Costituzione. La cosa che viene punita è l’istigazione all’odio. C’è chi sostiene che il sacerdote che dice che essere omosessuali è peccato potrà essere perseguito... Non è vero. O che la persona che dichiara di essere contraria alla gestazione per altri, che loro chiamano “utero in affitto”, è perseguibile. Vero? Ma no. Le opinioni sulla famiglia, né su qualsiasi altra cosa, non saranno mai un reato. Il tema è l’istigazione all’odio. Di fronte alle controversie sulla libertà di opinione, a partire dalla legge Mancino, la giurisprudenza, sia costituzionale che ordinaria, è intervenuta per chiarire la differenza: istigazione all’odio è quando un’espressione determina un concreto pericolo di discriminazione e di violenza nei confronti di un gruppo sociale. Se dico “sono contrario alla gravidanza per altri” non determino nessun pericolo. Se dico “i gay devono morire” è un’istigazione all’odio. La giurisprudenza ha fatto sentenze su sentenze, noi abbiamo solo esteso quella legge. Del resto c’è anche la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che stabilisce, su casi singoli, che agire anche verbalmente mettendo in pericolo una persona o un gruppo sociale non è più libertà di espressione. Se fosse stata già approvata, la sua legge sarebbe stata utile alla coppia di ragazzi presa a calci e pugni a Valle Aurelia qualche settimana fa? Sì. Nella denuncia avrebbero avuto a disposizione un reato con un nome. Jean Pierre e Alfredo hanno raccontato che sono andati alla polizia e hanno denunciato che sono stati aggrediti perché si stavano dando un bacio. La risposta è stata: “Eeh? Cosa?”. Insomma, lì per lì, hanno ricevuto una reazione un po’ incredula. Ma il punto è che se al posto di questi ragazzi ce ne fossero stati altri, l’uomo che li ha pestati avrebbe reagito nello stesso modo. Perché il problema è che sono una coppia gay che si sta baciando. Diamo un nome alle cose, si chiama omofobia, sono stati aggrediti perché sono gay. E dunque, come per il razzismo e l’antisemitismo, serve un reato che dia un nome a quell’odio. Dice Isabella Rauti che volete introdurre “l’ideologia gender”. Cos’è? Una loro ossessione, richiederebbe un approfondimento con competenze che non sono le mie. Cosa sia questa ideologia non lo sa nessuno, abbiamo capito solo che mistificano la realtà con le loro paure. Giorgia Meloni al Maurizio Costanzo Show ha detto che noi vogliamo far scambiare i vestiti ai bambini di sette anni per insegnare loro cosa sia l’omosessualità. Non so da dove le sia venuta questa fantasia. Ma è un pensiero volgare e inaccettabile nei confronti del lavoro di maestre e maestri per decostruire gli stereotipi che sono una delle cause delle discriminazioni e del bullismo. La mamma stira e il papà va a lavoro è uno stereotipo di genere. Decostruirlo non è mettere in discussione una persona o il suo orientamento sessuale. Perché un bambino che gioca con le bambole rischia di essere bullizzato? Riguarda anche i disabili: perché circola il pregiudizio che una persona diversa debba essere una persona da colpire. Gli stereotipi sono l’anticamera della violenza. Migranti. Nell’inchiesta sulle ong intercettati anche giornalisti mai indagati di Andrea Palladino Il Domani, 3 aprile 2021 Ascoltati e monitorati negli spostamenti di cronisti esperti di immigrazione come Nancy Porsia e Nello Scavo. Gli investigatori hanno così scoperto anche le fonti coperte da segreto professionale. Sono centinaia le pagine di intercettazioni, trascritte e depositate nell’inchiesta sulle Ong della procura di Trapani, che riguardano i giornalisti. Nomi di fonti, contatti, rapporti personali, dati che il codice di procedura penale tutela come segreto professionale. Nelle carte dell’indagine contro la Jugend Rettet, Save The Children e Medici senza frontiere non c’è solo la caccia alle Ong. A finire nel mirino della polizia giudiziaria - lo SCO, la squadra mobile di Trapani e il comando generale della Guardia costiera - è anche l’informazione che dal 2016 racconta lo scenario delle morti per affollamento nel Mediterraneo centrale. Il caso più eclatante riguarda Nancy Porsia, giornalista esperta di Libia. In una informativa del 24 luglio 2017, gli investigatori la definiscono “specializzata sulla migrazione” evidenziando che ha collaborato con molte testate italiane e straniere, tra le quali “Rai, Skytg24, La Repubblica, Arte, Ard, The Guardian”. È stata intercettata a lungo, almeno per un mese e mezzo, anche durante le telefonate con il proprio legale Alessandra Ballerini nelle quali riferiva la preoccupazione per le minacce ricevute dalle milizie libiche guidate da al-Bija. Alla sua attività di reporter è stato riservato un lungo dossier. Nel documento di 22 pagine - firmato SCO, squadra mobile e comando generale della Guardia costiera - ci sono fotografie, contatti sui social, rapporti personali e nomi di fonti in un’area considerata tra le più pericolose dell’africa del nord. Nell’informativa i funzionari di polizia riportano i contatti di Porsia con altri giornalisti internazionali, i suoi movimenti e anche alcuni dati personali. L’intercettazione è stata richiesta ed autorizzata con la funzione di “positioning”, ovvero con il tracciamento degli spostamenti dell’utente. In altre parole la giornalista è stata di fatto seguita telematicamente per lungo tempo. Sono state poi trascritte anche le telefonate di Porsia con altri giornalisti italiani, dove si parla della situazione libica e di come muoversi in quel contesto. Tutti dati assolutamente irrilevanti per le indagini in corso. Nancy Porsia non risulta mai indagata. Nella telefonata con il legale - che la legge vieta di trascrivere e divulgare, a tutela dei diritti della difesa - viene dichiarato apertamente il rapporto fiduciario. Nella sintesi della telefonata vengono anche riportati spostamenti al Cairo dell’avvocato Ballerini, attiva anche sul caso di Giulio Regeni. Nancy Porsia - mentre era intercettata - è stata ascoltata a sommarie informazioni dagli investigatori. L’obiettivo era quello di raccogliere informazioni sulla Ong Jugend Rettet. Lei, nelle risposte, spiega di non avere informazioni particolari sull’organizzazione di Berlino e racconta la situazione dei migranti a Tripoli. Riferisce anche di aver partecipato alla missione marittima di Medici senza Frontiere, specificando che la nave era sempre rimasta a ridosso delle 24 miglia dalle coste libiche, in acque internazionali. Porsia nel corso dell’interrogatorio ha spiegato agli investigatori di essere stata minacciata di morte da reti di smugglers per le sue inchieste. Ma su questo punto la polizia non approfondisce il tema nel corso dell’interrogatorio. Porsia al momento delle intercettazioni non era indagata. L’ascolto delle telefonate di testimoni è consentito, ma solo in casi eccezionali e per un tempo limitato. Molti altri giornalisti sono stati intercettati indirettamente, mentre parlavano con rappresentanti delle Ong. Si trattava di un normale rapporto - spesso fiduciario - dei giornalisti che seguivano i flussi migratori provenienti dalla Libia con le proprie fonti. In molti casi nel corso delle telefonate viene fatto riferimento a testimoni o circostanze sensibili. L’inviato di Avvenire Nello Scavo, ad esempio, viene intercettato mentre parla con una sua fonte sulle modalità per ricevere un video che dimostra le violenze subite dai migranti in Libia. Nelle carte sono riportati anche i contenuti delle conversazioni della giornalista Francesca Mannocchi con esponenti delle Ong, dove si fa riferimento ai viaggi in Libia. Era il 2017, l’anno più difficile e complesso nel paese del nord Africa e i pochi reporter che si recavano a Tripoli correvano alti rischi. È stato intercettato anche il cronista di Radio Radicale Sergio Scandurra, mentre chiedeva informazioni ad alcuni esponenti di organizzazioni umanitarie, impegnate in quei mesi nei salvataggi dei migranti. Negli atti sono poi finite diverse telefonate del giornalista del Fatto quotidiano Antonio Massari che raccontò nell’agosto del 2018 i rapporti tra gli operatori della Imi e Matteo Salvini. Anche in questo caso il cronista stava parlando con alcune fonti. Intercettati, infine, anche Fausto Biloslavo, del Giornale, e Claudia Di Pasquale, di Report. La giornalista della Rai è stata ascoltata mentre parlava con Nancy Porsia. L’ex ministro dell’Interno Marco Minniti, responsabile del Viminale all’epoca delle indagini e delle intercettazioni, interpellato da Domani, non ha voluto commentare. Draghi punta alla svolta sulle droghe, la delega alla ministra antiproibizionista Dadone di Carmine Di Niro Il Riformista, 3 aprile 2021 Non solo sulla giustizia, il governo Draghi potrebbe segnare una svolta anche su un altro tema che da anni è lasciato nel dimenticatoio o, peggio, bloccato dall’ostruzionismo della destra italiana. Un decreto del presidente del Consiglio dei Ministri pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di ieri ha assegnato al ministro per le Politiche giovanili Fabiana Dadone la delega delle politiche antidroga. Alla ministra del Movimento 5 Stelle sono “delegate le funzioni del Presidente del Consiglio dei ministri in materia di politiche giovanili e servizio civile universale, politiche antidroga, nonché in materia di anniversari nazionali”, spiega il Dpcm. Senza dubbio la decisione di Draghi di affidare le politiche antidroga alla Dadone rappresenta un punto di svolta evidente. Lo dimostra il passato dell’esponente grillino, che da diversi anni ormai si è schierata apertamente per la legalizzazione delle droghe leggere, tanto da arrivare a scontrarsi anche col Partito Democratico alleato di governo, sia nel Conte II che con Draghi. Ne 2017, discutendo della legge sulla legalizzazione della cannabis, arrivavano dalla Dadone dure critiche al Pd, accumunato a Carlo Giovanardi, ex deputato di Forza Italia e Nuovo Centrodestra noto per le sue posizioni ‘proibizioniste” sulle droghe leggere. La Dadone il 27 luglio 2017 scriveva, dopo lo “svuotamento” della norma sulla legalizzazione della cannabis, che il Pd “ha gettato tutto alle ortiche, tirandosi indietro e votando contro la proposta del primo firmatario Giachetti”. La scelta di Draghi di puntare sulla Dadone, già filtrata nelle scorse settimane ma ufficializzata solamente nelle scorse ore, era stata subito oggetto di critiche da parte di Giorgia Meloni. Secondo la leader di Fratelli d’Italia infatti “sarebbe molto grave venire a sapere che il compito di combattere l’emergenza droga e dipendenze, che anche a causa del Covid sta assumendo contorni preoccupanti, sia stato affidato ad un parlamentare e ministro grillino che su questo tema si è distinto unicamente per aver sottoscritto le proposte di legalizzazione della cannabis”, aveva sottolineato la Meloni. La possibilità di nuove norme sull’uso della cannabis e sulla legalizzazione delle droghe leggere dovrà ovviamente fare i conti con la maggioranza eterogenea di cui è composto il governo Draghi. Un tema così divisivo infatti potrebbe portare alla ‘guerra’ tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico da una parte e Lega e Forza Italia dall’altra. Magi: “Legalizzazione, in Italia il 30% dei detenuti finisce in carcere per reati di droga” di Giacomo Capriotti inews24.it, 3 aprile 2021 Il deputato di +Europa, Riccardo Magi, fa il punto della situazione sul dibattito relativo alla legalizzazione della Cannabis in Italia: “Nel nostro Paese un approccio moralista e bigotto che non valuta in base ai risultati delle politiche perpetrate”. Presentato anche un disegno di legge, ora in discussione in Commissione giustizia: “Chiediamo la depenalizzazione dei fatti di lieve entità e della coltivazione domestica per uso personale”. Con lo stato di New York siamo a sedici stati negli Usa che hanno legalizzato la marijuana anche a scopo ricreativo… e in Italia? “In Italia abbiamo un grosso ritardo da questo punto di vista, si fatica a prendere consapevolezza da parte del legislatore, ma anche da parte delle forze politiche, di quanto questa riforma sarebbe importante. Non è un approccio ideologico il nostro, ma un ragionamento che parte da dati reali. Negli ultimi trent’anni abbiamo avuto una legislazione tra le più repressive in Europa, basti pensare che più del 30% delle persone che entrano in carcere, lo fa per violazione del Testo unico sugli stupefacenti e ciononostante la quantità di sostanze in circolazione non è affatto diminuita. Mi pare evidente che qualcosa non abbia funzionato in questo approccio cosi repressivo” Perché secondo lei questa differenza con altri Paesi? “Nel mondo c’è una maggiore consapevolezza, non solo negli Usa, ma anche in Canada e in altri paesi europei. È di ieri la notizia che anche Malta sta andando nella stessa direzione. Il motivo è semplice, il proibizionismo non funziona e un approccio diverso avrebbe benefici su molteplici livelli”. Per esempio? Quello della giustizia innanzitutto. Negli altri stati europei la media di detenuti per reati di droga raggiunge al massimo il 20%, nel nostro Paese invece supera il 30%. Potremmo dire anche che il sovraffollamento carcerario è dovuto a questo problema per certi versi. Ci sono cittadini consumatori, anche giovanissimi, che hanno la vita rovinata perché la giustizia si abbatte su di loro, distruggendo legami sociali, familiari, percorsi lavorativi e prospettive future. In Italia manca la volontà di confrontarsi con questo grande tema sociale, ma dobbiamo renderci conto che le politiche portate avanti fino adesso si sono rivelate persino controproducenti” Si parla spesso anche dei risvolti economici della legalizzazione... “Innanzitutto sarebbe un colpo pesantissimo a tutte quelle organizzazioni che, attraverso i proventi del narcotraffico, finanziano altre tipi di attività criminose. Secondo poi sancirebbe l’emersione di tutto un mercato, ora illegale, che avrebbe un impatto molto positivo sia dal punto di vista della creazione di nuovi posti di lavoro sia per quel che riguarda le entrate economiche per lo Stato. Senza considerare che si tratterebbe di un approccio più liberale del rapporto tra Stato e cittadino” Eppure è una battaglia politica che in Italia si limita al centrosinistra, e forse nemmeno tutto... “Negli Stati Uniti c’è una parte di repubblicani, ma anche di radicali di destra che invece hanno molto a cuore la liberta del cittadino rispetto allo Stato, fa un po’ parte della cultura e dell’impostazione americana. In Italia invece c’è una tendenza allo stigma verso chi ha un determinato stile di vita, che deve essere necessariamente punito. Si tratta di un approccio più moralista, più bigotto e che soprattutto non valuta in base ai risultati ottenuti delle politiche perpetrate” State portando avanti questa discussione anche in parlamento? “Proprio ora c’è un dibattito aperto anche a livello istituzionale In Commissione giustizia, dove sono in discussione due proposte di legge di riforma dell’art. 73 del Testo unico sulle droghe (produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope- ndr). Una è a mia firma, ma sottoscritta da una trentina di deputati, che va verso la depenalizzazione dei fatti di lievi entità, evitando il carcere e l’arresto anche in flagranza di reato e distinguendo tra le cosiddette droghe pesanti e leggere. Chiediamo anche la decriminalizzazione totale della coltivazione domestica per uso personale, in altre parole il cittadino che coltiva a casa sua per uso personale deve essere lasciato in pace dallo stato” E l’altra proposta? “È a firma del capogruppo della Lega (Molinari- ndr) e va nella direzione esattamente opposta. Cioè verso un inasprimento della pena anche per i fatti di lieve entità. L’idea è che chiunque adotti una condotta anche solo di piccolo spaccio debba comunque finire in carcere. Io sono di parte è vero, ma posso garantire che si tratta di una proposta che è stata molto criticata da tutti i giuristi che sono intervenuti”. Gran Bretagna. “Kill the Bill”, giovani in piazza in tutto il Paese di Leonardo Clausi Il Manifesto, 3 aprile 2021 Crescono le proteste contro la violenza della polizia e la nuova legge anti-assembramento. Con la scusa del disturbo della quiete pubblica mano libera alle forze dell’ordine. Kill (the) bill. In un hashtag che strizza debitamente l’occhio a Tarantino si raccolgono le manifestazioni di questo weekend pasquale in Gran Bretagna. Dove “bill” non è il programma di una sera al cinema, bensì il “Police, Crime, Sentencing and Courts Bill”, fetentissima legge che tra le molte misure permette alla polizia di calare con più serenità il suo già robusto, e spesso ultimamente violento, braccio su chi protesta. Molti i cortei e assembramenti in varie città tra cui Leeds, Manchester, Brighton e naturalmente Londra. Oggi a Hyde Park parlerà “the real Corbyn”, Jeremy, nel suo primo intervento pubblico di rilievo dall’epurazione recentemente subita. Attualmente in discussione in parlamento, la legge aumenta (in Inghilterra e Galles) il potere poliziesco di criminalizzazione delle proteste, permettendo agli agenti di sgombrare assembramenti anche non violenti che si ritengano “disturbatori” della quiete pubblica arrivando ad affibbiare pene detentive fino a dieci anni. Con l’occasione dà anche una bella raddrizzata alle improduttive comunità di nomadi e traveller: contiene infatti misure anti-intrusione che impediscono di dormire in un veicolo contro la volontà del proprietario della terra su cui questo si trova, tanto per non fare misteri inutili su chi avevano in mente i legiferatori. Le duecento novantasei pagine sono nella fase parlamentare di seconda lettura (“second reading”) dopo essere passate per 359 contro 263 - i laburisti si sono astenuti -, ma continueranno ad essere avversate con decisione per le strade. Con le restrizioni anti-coronavirus agli assembramenti appena ritirate (lunedì), queste manifestazioni sono legali ma arrivano in una fase di forte tensione con la polizia. Tre giornate di scontri violenti gli scorsi 21, 23 e 26 marzo si erano conclusi con ventinove arresti e sedici fermi. Un’altra manifestazione il 30 marzo si era volta senza incidenti: e incidenti di rilievo finora non ce ne sono. Questa è una mobilitazione prevalentemente giovanile ma non solo, che lotta contro provvedimenti restrittivi dei diritti inalienabili dell’individuo come quello di protesta, provvedimenti fatti passare in tutta fretta dalla porta di servizio dall’esecutivo più a destra degli ultimi decenni. Approfittando del giro di vite biopolitico transnazionale in atto “imposto” dalla pandemia, il governo Johnson - e nello specifico la torva figura di Priti Patel agli Interni - sono in piena sbandata coercitiva. In contraddizione solo parziale con il loro Dna ideologico - repressivo nel sociale e nel penale e uber - liberoscambista nell’economico - questo pare un singulto autoritario della solita ricetta di “law & order” della destra conservatrice e della sinistra neoliberale anglosassoni sulla scia di proteste come quelle di Extinction Rebellion due anni fa e di Black Lives Matter l’anno scorso, in cui la polizia era stata accusata dai tabloid di esser stata troppo morbida e perfino in sintonia (nel caso di XR) con le proteste, perlomeno all’inizio. Ma sono due i casi che hanno infiammato di più l’opposizione a quest’elargizione sfacciata di potere alla polizia - di cui quest’ultima nemmeno sarebbe troppo soddisfatta, perlomeno non unanimemente: in particolare, il fatto che pare una risposta ai disordini dell’anno scorso a Bristol con l’ammaraggio della statua del mercante di schiavi Colston, episodio tra i tanti assalti “alla statua bianca” di vari assassini filantropi. Anche in quell’occasione la polizia fu bersaglio di rimproveri per aver agito con circospezione nel reprimere l’oltraggio, un comportamento dettato dal buon senso di non voler guastare il tormentato rapporto con la comunità caraibica della città, scatenando la bile dei commentatori di destra. E poi il recente assassinio e stupro della giovane Sarah Everard nel quartiere di Clapham Common, a sud della capitale, ad opera di un agente di polizia. Alla veglia di protesta, il 13 marzo, la polizia aveva sgomberato violentemente i manifestanti raccoltisi nonostante il divieto sanitario ancora in vigore. Protestavano anche contro una legge per cui i vandali dei monumenti schiavistici rischiano di beccarsi dieci anni, ma che parte ancora da un minimo di cinque per chi stupra. Etiopia. 150 massacri per un Nobel: le vittime e l’orgoglio di Monna Lisa di Michele Farina Corriere della Sera, 3 aprile 2021 Almeno duemila morti nei massacri in Tigray, una macchia indelebile sulla “fedina di pace” del premier. Uomini gettati in un burrone, la storia di una ragazza “leonardesca” che ha perso un braccio ma non la dignità. “Le immagini che più mi hanno colpito - racconta Giancarlo Fiorella al Corriere - sono quelle degli uomini che camminano verso la morte, verso il dirupo dove i soldati etiopici getteranno i loro cadaveri, e il profilo delle montagne intorno. Se ci sono le montagne, è più facile risalire al luogo di un massacro”. Venezuelano, il papà Raffaele nato vicino a Frosinone, Fiorella è il ricercatore di Bellingcat che dall’università di Toronto, smanettando con Google Earth Pro e PeakVisor, ha contribuito ad “autenticare” i video dell’ultimo massacro che affiora dal Tigray, uno dei 150 compiuti negli ultimi quattro mesi in quella parte martoriata di Etiopia. I corpi lasciati alle iene - Il 4 novembre 2020 Abiy Ahmed, premio Nobel 2019 per la pace firmata con l’Eritrea, dava inizio all’offensiva contro la provincia ribelle abitata da 6 milioni di persone. Il 28 novembre il premier annunciava la fine della guerra con la presa di Macallè e dichiarava: “Nessun civile è stato ucciso”. Nelle stesse ore ad Axum, culla del cristianesimo etiope, centinaia di civili disarmati venivano massacrati nelle strade e casa per casa dalle forze eritree del dittatore Isaias Afewerki alleate di Addis Abeba, “i loro corpi lasciati in pasto alle iene”, ha raccontato un sacerdote della Chiesa di Santa Maria di Sion: nessuno poteva seppellirli, perché chi si avvicinava veniva colpito. L’Atlante umanitario - Quella di Axum è solo una delle 150 stragi (con più di 5 vittime) di un elenco che si è andato ingrossando giorno per giorno, anche se “in differita”, perché l’Etiopia ha spento Internet e tenuto fuori i media dal Tigray. Un elenco “cucito” insieme da un gruppo di lavoro dell’università di Gand, in Belgio, guidato dal geografo Jan Nyssen che ha vissuto per decenni in quella regione. L’”Atlante umanitario del Tigray” (frutto di oltre 500 interviste e di una impressionante raccolta dati) esce con un’appendice su Twitter dove vengono nominate, una per una, le oltre 1.900 vittime finora identificate. Ogni età è rappresentata, dai bambini ai novantenni. Migliaia di morti non hanno ancora un nome. Per la strage di fine novembre ad Axum, Amnesty International ha raccolto e testimonianze di 41 sopravvissuti. I quindici uomini gettati ancora caldi da una scarpata forse non avranno mai sepoltura: i ricercatori di Belling Cat e Bbc Africa Eye hanno impiegato meno di due settimane per trovare i riscontri topografici che confermano le prime voci arrivate dalle famiglie di Mahbere Dego, tra il capoluogo Macallè e Adua, dove 73 uomini erano stati portati via a gennaio dalle forze di sicurezza. Una strage in cinque video, tutti girati “orgogliosamente” dai soldati stessi. Lo sottolinea Giancarlo Fiorella, ricordando che a un certo punto uno degli aguzzini invita chi sta riprendendo le immagini ad “andare più vicino”: “Come possiamo non registrare il modo in cui muoiono?”. La “finta” pace - Come possiamo noi dimenticarlo? I quindici giovani uomini hanno camminato per un chilometro verso il luogo dell’esecuzione, con il sole basso all’orizzonte che disegnava sul terreno le loro lunghe ombre. Vite brevi: i soldati sparano a bruciapelo, parlando in amarico (non in tigrino) si fanno i complimenti a vicenda prima di gettare i corpi dal dirupo nella macchia sottostante. Così muoiono i “woyane”, termine dispregiativo che sta per ribelli. Erano sospettati di appartenere al Tplf, Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, il gruppo che ha governato la regione e fino al 2018 - spesso con il pugno di ferro - l’intera Etiopia. Fino all’avvento di Abiy, che per disfarsi dei nemici (il nerbo dell’esercito) è ricorso all’ex arci-nemico Afewerki. Sembra ormai chiaro, dice al Corriere Uoldelul Chelati Dirar, docente di storia dell’Africa all’università di Macerata, che la pace fatta in corsa con l’Eritrea avesse come vero obiettivo quello di trovarsi un alleato per la resa dei conti in Tigray. Monna Lisa - Domani sono 4 mesi dall’inizio del conflitto. Gli eritrei controllano il Nord, gli etiopici le città, il Tplf è forte nelle zone rurali, sulle montagne. Una situazione “afghana”, dice Chelati Dirar, che sul piano militare potrebbe durare anni. A rimetterci è la popolazione civile. Vittime, distruzioni, saccheggi. Almeno un milione di sfollati. Ci sono cittadini italiani che hanno famiglia in Tigray. Alcuni si trovavano là quando scuole, ospedali, monasteri venivano bombardati. Al Corriere fanno sapere che non possono parlarne, perché temono rappresaglie sui loro parenti. Nell’Ovest intanto, tra i campi di sesamo e cotone che nessuno ha seminato, si consuma un nuovo esodo: migliaia di tigrini cacciati dalle loro case dalle milizie Amhara. “Pulizia etnica”, denuncia Washington. Addis Abeba nega e promette: chi si è macchiato di crimini sarà processato. Ma il premier Abiy Ahmed ha perso la sua credibilità. Un giorno gli strapperanno il Nobel per la pace, così come un chirurgo di Macallè ha strappato il braccio destro in cancrena a una ragazza diciottenne. Monna Lisa si chiama: un omaggio all’Italia di Leonardo, che fabbrica armi per il governo etiopico. Un soldato un giorno è entrato nella sua casa. Ha intimato al nonno della ragazza di fare sesso con lei. Il rifiuto, la resistenza, gli spari. Monna Lisa è rimasta con sette ferite e un braccio maciullato. È convalescente all’ospedale di Macallè, è il volto di un popolo che chiede giustizia e memoria. Un funzionario dell’Onu l’altro giorno ha detto al Consiglio di Sicurezza che almeno 500 donne in Tigray sono state violentate. Monna Lisa ha perso il braccio. C’è chi, se non ancora il Nobel, ha perso la dignità. Myanmar. La persecuzione Rohingya da un regime all’altro di Jacopo Agostini Il Manifesto, 3 aprile 2021 Intervista. Il professore Arnab Roy Chowdhury approfondisce il tema del genocidio dei Rohingya. Con la testimonianza di una famiglia musulmana costretta a fuggire dai militari. Negli ultimi decenni lo stato del Myanmar ha intenzionalmente formulato e perseguito piani a livello nazionale e statale volti ad annientare il popolo Rohingya e ad escludere i musulmani dalle posizioni di governo e dell’esercito. Una persecuzione e discriminazione sistematica avviata nel 1962 col coup d’état e ripresa dai successivi governi. Uno degli episodi più violenti è avvenuto nel maggio del 2001 a Taungoo (città a 200 chilometri a nord di Yangon), con vari focolai di violenza tra comunità buddiste e musulmane. Secondo Human Rights Watch più di mille persone guidate da monaci buddisti (tra cui membri della Usda, Union Solidarity and Development Association e personale della MI, Military Intelligence) hanno attaccato, distrutto e incendiato negozi, abitazioni e moschee provocando la morte di circa 200 musulmani. Alcune famiglie sono state costrette a fuggire e ad abbandonare la città, altre a chiedere ospitalità ai loro parenti. A tutt’oggi i danni e gli effetti delle tensioni del 2001 sono ancora chiaramente visibili: moschee chiuse, abitazioni vuote e abbandonate, molestie nei confronti della popolazione mussulmana. A testimonianza di tutto ciò un padre di famiglia ci racconta quello che ha vissuto durante le violenze di due decenni fa. Ad approfondire l’argomento una intervista al ricercatore Arnab Roy Chowdhury, docente alla Scuola di sociologia alla Higher School of Economics di Mosca. Specializzato in sociologia delle migrazioni, studi post-coloniali, sociologia comparata e storica ha di recente pubblicato un articolo a carattere scientifico sulla crisi dei rifugiati Rohingya e il nazionalismo in Myanmar. Arnab sostiene che l’emergere dell’identità Rohingya è costitutivamente legata alla trasformazione dello Stato e ai cambi di potere durante l’epoca precoloniale, coloniale e postcoloniale. Il nazionalismo religioso ed esclusivista ha trovato nell’immagine dei “musulmani Rohingya” il nemico, l’altro, e tutto ciò si è verificato in uno Stato all’apparenza democratico. Sotto la transizione neoliberale, facendo leva su paure, disincanto, insicurezza e rabbia di una popolazione a maggioranza birmana, la dittatura del governo fascista ha utilizzato il richiamo anticoloniale, xenofobo e populista sposandolo col fanatismo religioso buddista. Una grande parte dei musulmani ha di conseguenza interiorizzato lo stigma e ha incominciato utilizzare questo victimhood (come lo descrive Arnab, l’essere e sentirsi vittime) come simbolo della loro lotta e resistenza. Professore, ci racconti com’è nata la marginalizzazione (tramutata in una vera e propria persecuzione) dei musulmani in Myanmar... La persecuzione dei musulmani è il risultato di un lungo processo che trova le sue radici nell’epoca coloniale, il culmine è avvenuto nel 1962 col coup d’état. Per capirla però dobbiamo partire dal periodo precoloniale. Nel 1430 il regno di Arakan (l’attuale stato di Rakhine e la divisione di Chittagong in Bangladesh) dove attualmente vivono i Rohingya, era governato da un re buddista conosciuto anche con il titolo musulmano di Suleiman Shah. In quel regno buddisti e musulmani convivevano pacificamente assieme, esso era un punto d’incontro tra il sud-est asiatico e il sud dell’Asia per commercianti e altre etnie come indiani, persiani, bengalesi, arabi. Molti di essi si sposarono anche con le donne locali. In questo contesto tra i portoghesi e i pirati Mugh era frequente la vendita di schiavi, a prevalenza musulmana- bengalese, costretti a coltivare i campi di riso. Schiavi che ben presto si stabilirono nel regno tanto che i bengalesi a metà del XVIII sec. rappresentavano la maggioranza della popolazione dello Stato del Rakhine. Nel 1784 il Myanmar conquistò il regno di Arakan. Questa annessione produsse nuovi confini culturali, religiosi (buddisti e musulmani), oltreché geografici. Chi abitava il nuovo Stato promosse il buddismo e introdusse la religione nella letteratura di corte. In quanto ai confini, da ricordare che una catena montuosa e un fiume dividevano e isolavano geograficamente la minoranza musulmana dalla società buddista dell’Irrawady. Quando nel 1824 arrivarono, gli inglesi cercarono di annettere lo Stato del Rakhine e di mappare le diverse etnie e popoli indigeni rifiutando la cultura musulmana e promuovendo, al contempo, quella buddista. I musulmani vennero considerati degli stranieri e i Rohingya non vennero nemmeno ritenuti una etnia. Arrivarono inoltre molti migranti dall’India, dal Bangladesh e dal sud-est asiatico, portati come forza lavoro a basso prezzo dagli inglesi per lavorare nei campi. Alcuni di loro facevano anche i commercianti ed avevano una istruzione media. Nel corso dei decenni si venne così a formare una gerarchia dove all’apice c’erano gli inglesi stessi, più sotto gli indiani (tra cui Sikh facenti parte dell’armata inglese) e i cinesi, alla base i birmani. In risposta a questa situazione in Myanmar nacque il movimento nazionalista, razzista e xenofobo contro i sud-est asiatici, sud asiatici e bengalesi, considerati collaboratori degli inglesi e traditori del paese, coloro che inquinavano la razza birmana dando alla luce bambini chiamati Kapya. Avevano la pelle scura, rubavano il lavoro, i loro diritti e le loro mogli. Dopo la decolonizzazione del ‘48 i mercanti indiani decisero di abbandonare il Myanmar ma la maggioranza dei musulmani che lavoravano nei campi rimase a vivere nello stato dell’Arakan. Pur non essendo coloro che un tempo avevano sfruttato i birmani, diventarono ben presto il capro espiatorio del razzismo ripreso nel 1962. Una breve parentesi per la verità vi fu quando al potere salì il primo ministro U Nu, padre di Aung San Suu Kyi, che portò al governo anche i musulmani scegliendo così una politica di riconciliazione e di riconoscimento della minoranza Rohingya. Nel ‘62 però intervennero i militari con il primo colpo di stato, essi indicarono come nemico pubblico ancora una volta i musulmani e iniziarono a governare con la violenza. Nel 1978 fu perpetrato il genocidio che si ripeté nel 1992 e 1996 ed è proseguito di recente nel 2012 e nel 2015. Quale identità viene attribuita oggi al musulmano nell’immaginario collettivo? A causa del ruolo significativo che i musulmani, come ho già spiegato, avevano giocato nell’amministrazione del Myanmar durante il dominio britannico, il gruppo divenne un paria per i birmani nazionalisti che negavano la loro lunga storia nella regione e sostenevano il loro arrivo illegale durante l’occupazione britannica. I nazionalisti, soprattutto nello Stato di Rakhine, oggi non vedono alcuna differenza tra le comunità musulmane bengalesi residenti da lunga data nella regione e gli immigrati del Bangladesh, tanto che quando si riferiscono ai musulmani Rohingya li chiamano “bengalesi”. Un termine che usano anche per delegittimare la loro presenza nel paese, e forse peggio, negare la loro stessa esistenza. Per loro non hanno mai avuto uno status ufficiale in Myanmar. L’immaginario collettivo attualmente è alimentato dalla politica della paura creata dal governo militare: i musulmani sono indicati come pericolosi terroristi, opposti ai buddisti non violenti, accusati di voler fare una guerra contro lo Stato per creare una “nazione musulmana” e indipendente. La legge dei militari è fondata sulla nozione popolare di “razze indigene” o “figli originari del suolo” (Tayintha in birmano), contrapposti ai Kalar (sud asiatici). Derivato dalla parola Kala, che significa nero, Kalar è il termine locale e razzista per indicare le persone dalla pelle scura. Questi termini hanno la capacità di attingere a una memoria sociale condivisa dell’ingiustizia passata che può essere rettificata solo da un’azione, di solito estrema e definitiva, contro il gruppo colpevole. L’odio è fomentato da un senso di profonda ingiustizia storica, e il potere attinge risorse ed energia alimentando la violenza. Che peso e che ruolo ha la religione in questo contesto, e in che misura viene riutilizzata dalla società civile e dalla maggioranza di governo di matrice buddista? Con la salita al potere del governo autocratico e fascista è avvenuto in Myanmar una buddizzazione di massa. I militari sostengono che solo loro possono salvare il paese. Facendo leva sulla religione hanno diviso e polarizzato le masse. Come vede l’evolversi della situazione nei confronti della minoranza musulmana dopo il colpo di stato del primo febbraio? Sarà una tragedia per tutti, non solo per i musulmani ma anche per le altre minoranze (Shan, Mon, Karen, Chin, Kachin, ecc…) che vivono nel paese e che compongono il puzzle etnico del Myanmar. In quanto al milione di rifugiati Rohingya nei campi del Bangladesh, considerati rifugiati permanenti, credo che nel prossimo futuro una soluzione possibile sia l’intervento dell’Onu con la creazione di un corridoio di salvezza che permetta loro di tornare in Myanmar. I paesi come l’India, Singapore e Cina dovrebbero attivarsi per condannare pubblicamente il colpo di stato e il genocidio tagliando ogni relazione commerciale. La testimonianza Karim (nome di fantasia per salvaguardare la sua sicurezza), padre di famiglia, ci racconta quello che ha vissuto negli attacchi del 2001. Karim, spiegaci cos’è successo durante le violenze del 2001 a Taungoo... Nel 2001 avevo 5 anni e vivevo con i miei genitori, mio fratello e mia sorella in una casa costruita dal nonno. Il giorno in cui sono scoppiate le violenze ero davanti il negozio di famiglia a giocare con mia sorella quando un vociare in lontananza preannunciò l’arrivo di qualcosa di inaspettato. I vicini arrivarono di corsa parlando di buddisti birmani che avevano attaccato negozi e ristoranti di proprietà di musulmani nel centro di Taungoo. Noi a quel tempo abitavamo nei pressi del fiume Kha Phaung, a svariati chilometri dal centro dei tumulti. Mio padre ci ordinò di rifugiarci in casa e chiudere la porta mentre andava a trovare la nonna. Mia madre era quella che aveva più paura, mentre io e i miei fratelli non ci rendevamo conto della situazione. Mio padre ritornò dopo mezz’ora dicendo che una moschea era stata attaccata e che doveva lasciarci per adempiere alla jihad. Nei giorni a venire le violenze scoppiarono regolarmente in diverse parti del paese e alcune moschee a Taungoo vennero bruciate. Mi ricordo che io e la mia famiglia siamo andati a vivere per dieci giorni in un hotel gestito dall’amico di famiglia, Shivam. Ci avevano dato una camera singola, quando eravamo in cinque. In quei giorni non potevamo pregare nelle moschee perché era stato dichiarato il coprifuoco e quindi eravamo costretti a fare la Salat in albergo. Nei giorni successivi i morti aumentavano e anche alcuni bambini più piccoli di noi e donne incinte perirono per mano dell’esercito. Alcuni furono picchiati a morte, ad altri spararono. Spesso li prelevavano dalle loro case, dai treni e dagli autobus per giustiziarli. In questo bagno di sangue ci eravamo noi, terrorizzati e spaventati. Ora dove vivi? Vivo assieme a mia moglie e a due miei figli. Faccio il meccanico e abito in una delle “case di reinsediamento” costruite nel 2005. Sto cercando di guadagnare abbastanza soldi per poterci permettere un appartamento a Yangon e fare il bidello di una scuola elementare. Com’è la tua vita da musulmano in Myanmar e quali ostacoli dovete affrontare? La comunità mussulmana rimane essenzialmente segregata e la situazione umanitaria è difficile. Viviamo costantemente in un clima di terrore e continuamente abbiamo paura di rappresaglie, insulti e denigrazioni. Per qualsiasi genere di lavoro veniamo sottopagati e spesso non ci prendono in considerazione. Non sono mai stato nello stato del Rakhine ma sappiamo che i Rohingya sono stati uccisi in massa dall’esercito militare e dalle forze di sicurezza. I risentimenti tra buddisti e musulmani sono profondamente radicati e derivano da entrambe le comunità che si sentono assediate una dall’altra. Io non ho mai provato odio nei confronti di altre religioni e il rispetto è stato alla base della mia vita da bravo musulmano. Però ti dico che ho paura. Io temo di trovare un giorno mia moglie stuprata e mio figlio con la testa mozzata, come è successo in altre parti del paese. Hai mai pensato di lasciare Taungoo e fuggire dal Myanmar? Sì certo. Già nel 2001 alcuni miei amici sono fuggiti nelle città limitrofe. Qualcuno è andato a Taekaw, altri a Dathwegyauk, altri ancora in alcuni piccoli villaggi a casa di parenti. Un mio caro amico ha provato a ritornare a Taungoo ma ha ritrovato la casa di suo padre rasa al suolo. Quello fu l’ultimo giorno in cui lo vidi e ne sentii parlare. Vorrei andarmene in Malesia, dove l’Islam è considerata la religione ufficiale del paese. Mio padre mi avevo parlato di alcuni lontani parenti dalle parti di Kuala Lumpur. Ciò che però mi spaventa è la traversata e i trafficanti d’uomini. Nel 2015 sono morti innumerevoli musulmani al largo del mare delle Andamane. La paura però ci tiene fermi dove siamo e sembra non ci sia via di scampo. Da piccolo avrei voluto giocare a calcio in una squadra italiana, mi piacerebbe essere un calciatore famoso.