Covid in carcere, prorogate le misure urgenti per l’emergenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2021 Via libera al decreto legge con la proroga delle misure urgenti anti-Covid per le carceri fino al 31 luglio, termine attuale della fine dello stato di emergenza. Proroga non scontata, nata soprattutto con l’interessamento del sottosegretario alla giustizia Francesco Paolo Sisto e al deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. Misura prorogata in extremis (sarebbe scaduta oggi) grazie anche all’interlocuzione tra il sottosegretario Sisto e Rita Bernardini del Partito Radicale. Purtroppo parliamo del minimo sindacale, visto che non si tratta altro di prorogare le misure deflattive ideate dal guardasigilli precedente. La liberazione anticipata speciale non è stata inserita anche questa volta - Le misure attuali, di fatto, non risultano sufficienti visto che non ha inciso molto sul sovraffollamento penitenziario che ancora è presente. Ricordiamo quali sono. L’art. 28 del d.l. n. 137/2020 dispone che al condannato ammesso al regime di semilibertà possono essere concesse licenze premio straordinarie con durata superiore a quella prevista dal comma 1 dell’articolo 52 dell’Ordinamento Penitenziario (ossia 45 giorni all’anno). Restano ferme le ulteriori disposizioni di cui all’articolo 52 O.P. in materia di revoca e sospensione della misura in caso di trasgressione degli obblighi da parte del beneficiario. La misura non può essere concessa qualora il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi. L’art. 29 disciplina la durata straordinaria dei permessi premio. Ne possono usufruire i condannati cui siano stati già concessi i permessi premio di cui all’art. 30-ter O.P. e che siano stati già assegnati al lavoro esterno ai sensi dell’articolo 21 O.P. o ammessi all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno ai sensi dell’articolo 18 del D.lgs. 2 ottobre 2018, n. 12. Quando ne ricorrono i presupposti, a questi soggetti i permessi premio possono essere concessi anche in deroga ai limiti temporali indicati dai commi 1 e 2 dell’articolo 30-ter O.P. Questo significa che possono essere concessi permessi premio di durata superiore a quindici giorni che, cumulati complessivamente, possono essere anche superiori a quarantacinque giorni per ciascun anno di espiazione. Mentre, per i condannati minori di età, possono essere concessi permessi premio di durata superiore a trenta giorni che possono essere complessivamente superiori a cento giorni nell’arco di ciascun anno di espiazione. Sono, tuttavia, previste alcune preclusioni. La disposizione, infatti, non si applica ai soggetti condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis O.P. (c.d. reati ostativi) e dagli articoli 572 (maltrattamenti contro familiari o conviventi) e 612-bis (atti persecutori o “stalking”) del codice penale, delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, nonché per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso. L’art. 30, infine, disciplina la detenzione domiciliare. In deroga a quanto disposto dalla legge 26 novembre 2010, n. 199, la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena. È la stessa misura introdotta con il “Decreto cura Italia” - Questa misura ricalca, in molti aspetti, quella introdotta con l’art. 123 de D. L. 17 marzo 2020, n. 18 (c.d. “Decreto cura Italia”) e, come questa, prevede una serie di preclusioni. In particolare, sono esclusi dalla sua applicazione: i soggetti condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis O.P. e dagli articoli 572 e 612- bis del codice penale, delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, nonché per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso; delinquenti abituali, professionali o per tendenza; detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’articolo 14-bis O.P., salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’articolo 14-ter della medesima legge; - detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per le infrazioni disciplinari di cui all’articolo 77, comma 1, numeri 18 (partecipazione a disordini o a sommosse), 19 (promozione di disordini o di sommosse), 20 (evasione) e 21 (fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari o di visitatori) del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230; detenuti nei cui confronti, in data successiva all’entrata in vigore del presente decreto, sia redatto rapporto disciplinare in relazione alla partecipazione a disordini o sommosse o alla loro promozione; detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato. Ma la liberazione anticipata speciale non rientra neanche nel nuovo decreto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2021 La misura deflattiva potrebbe essere efficace contro il sovraffollamento. La liberazione anticipata speciale non viene contemplata nemmeno nell’occasione della proroga delle misure deflattive anti- Covid. Quella “classica” consiste in uno sconto di pena a favore del detenuto che dà prova di buona condotta durante l’esecuzione della pena. Per la precisione, al condannato a pena detentiva che abbia dato prove di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa una riduzione della pena. Secondo la legge, al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. Al fine del computo del semestre che dà diritto alla riduzione si tiene conto anche del periodo trascorso in stato di custodia cautelare (ad esempio, agli arresti domiciliari) o di detenzione domiciliare. In sintesi: per ogni 6 mesi di pena scontata, spettano 45 giorni di detrazione dalla pena totale, purché si sia data prova di buona condotta. La funzione della liberazione anticipata è duplice: da un lato, premia il detenuto che abbia dimostrato buona condotta, invogliandolo a comportarsi bene per ottenere uno sconto della pena; dall’altro, si tratta di misura volta a combattere il sovraffollamento. Mentre la liberazione anticipata speciale, già varata a suo tempo nel 2013 dopo la sentenza Torreggiani che condannò l’Italia per il sovraffollamento, si tratta di una detrazione di 75 giorni (anziché 45) per ogni singolo semestre di pena scontata interamente in carcere. La liberazione anticipata speciale ha avuto effetti solamente dal primo gennaio 2010 al 23 dicembre 2015, periodo di tempo durante il quale il detenuto che ha mostrato di mantenere una buona condotta ha potuto ottenere uno sconto di 75 giorni ogni semestre anziché 45 giorni. Il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, ricordiamo, ha depositato un ordine del giorno proprio su tale misura. Impegna il governo ad introdurre, in via temporanea e per un periodo di due anni, dell’istituto della liberazione anticipata pari a 75 giorni per ogni semestre di pena, non applicabile ai condannati ammessi all’affidamento in prova, alla detenzione domiciliare o a quelli che siano stati ammessi all’esecuzione della pena presso il proprio domicilio. Ovvero - si legge nell’ordine del giorno - “per quanto riguarda i condannati che, a decorrere da dicembre 2015, abbiano già usufruito della liberazione anticipata, del riconoscimento per ogni singolo semestre della maggiore detrazione di trenta giorni, sempre che nel corso dell’esecuzione successivamente alla concezione del beneficio abbiano continuato a dare prova di partecipazione all’opera di rieducazione”. Covid, violati i diritti dei detenuti. Class action contro via Arenula di Luigi Paccione Il Riformista, 30 aprile 2021 Dinanzi al virus il governo ha imposto distanziamento e divieto di assembramento per tutti i cittadini, ma i detenuti sono stati esclusi. Il ministero della Giustizia non ha mai risposto ai solleciti degli avvocati. La pandemia da Covid-19 ripropone in modo ineludibile le contraddizioni che da sempre si agitano nel difficile rapporto tra le condizioni reali di vita nelle carceri italiane e i principi fondamentali dell’ordinamento sui quali fonda il nostro Stato di diritto. Penso ai seguenti principi: (i) “Ogni individuo ha diritto alla vita ed alla sicurezza della propria persona” [art. 3 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo]; (ii) “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti” [art. 4 stessa Carta]; (iii) “Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione” [art. 7 stessa Carta]; (iv) “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge.” [art. 1 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali]; (v) “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali” [art. 3 Carta Costituzionale italiana]; (vi) “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” [art. 32 stessa Carta]. Sappiamo tutti che dinanzi al rischio di contagio da coronavirus il Governo ha dettato norme cogenti sull’intero territorio nazionale che impongono tassativo divieto di assembramento di persone in luoghi pubblici e ha imposto l’obbligo della distanza di sicurezza interpersonale. Questa normativa non trova paradossalmente applicazione nei luoghi chiusi a più alto rischio contagio, come sono le sovraffollate carceri italiane, e ciò genera un’oggettiva discriminazione contraria ai principi fondamentali sopra riportati, preludio di un potenziale torto di massa ai danni della moltitudine di detenuti, costretta a vivere in promiscuità eterodiretta, oltre che alla platea degli operatori penitenziari. Nell’aprile 2020 l’avvocato Alessio Carlucci ed io, applicando il modulo già sperimentato di partecipazione attiva della “Class Action Procedimentale”, abbiamo chiesto al ministro della Giustizia di porre in essere tutte le misure idonee ad assicurare nella Casa Circondariale di Bari l’applicazione concreta delle prescrizioni governative in tema di distanziamento interpersonale e di divieto di assembramento. È trascorso ormai un anno dalla nostra richiesta, ma il ministro non ha mai risposto! In ragione di tanto, e forti della funzione sociale riconosciuta all’avvocatura, abbiamo dato seguito alla nostra azione di cittadinanza attiva citando in giudizio il Ministero della Giustizia dinanzi al Tar Puglia perché sia dichiarata l’illegittimità del “silenzio significativo” che vulnera un preciso obbligo di legge e che minaccia l’effettività del diritto alla salute sia nel carcere di Bari che nel territorio metropolitano circostante. Abbiamo altresì segnalato al governo, sempre con l’azione giudiziaria, l’urgente necessità che la popolazione carceraria rientri tra le categorie prioritarie del piano vaccinale nazionale. Questa “Class Action Procedimentale” è una forma originale di democrazia diretta, uno strumento giuridico di contrasto ai “torti di massa” cui noi abbiamo dato vita nel 2009 con l’azione popolare volta alla declaratoria della proprietà pubblica del Teatro Petruzzelli ricostruito esclusivamente con fondi pubblici a seguito di cm criminale incendio doloso. In anni più recenti abbiamo promosso distinta “Class Action Procedimentale” sfociata nell’azione giudiziaria popolare contro il Ministero dell’Interno per la tutela del diritto all’immagine pubblica della città di Bari in seguito alle violazioni dei diritti umani consumate nel locale Centro di Identificazione ed Espulsione. L’ultima iniziativa a tutela del diritto alla salute dei detenuti e degli operatori penitenziari nel carcere di Bari in tempo di pandemia, come la precedente sul Cie, muove dal convincimento che l’applicazione concreta degli inviolabili diritti umani definiti dalle carte internazionali e dalla Costituzione repubblicana vada costantemente difesa contro ogni tentativo di farne arretrare i confini espellendo i più deboli e i reietti. La questione che poniamo è centrale perché involge il cuore del principio di legalità. La capacità dello Stato italiano di osservare le proprie leggi e di garantire a ogni essere umano, anche al più debole detenuto nelle carceri, la fruizione dei diritti inalienabili è un termometro della salute della nostra democrazia costituzionale. Nuovo rinvio sul ddl penale, lo scontro è solo rimandato di Giulia Merlo Il Domani, 30 aprile 2021 Slitta ancora una volta il termine per la presentazione in commissione Giustizia alla Camera degli emendamenti al ddl penale, il disegno di legge che dovrebbe riformare il processo e ridurne i tempi. È solo l’ennesimo rinvio: dopo la nascita del nuovo governo, la scadenza era stata fissata per il 29 marzo. Di settimana in settimana, il nuovo termine è stato fissato per il 4 maggio. Il Pnrr fissa la data di approvazione definitiva del ddl per fine 2021. In appena sei mesi, dunque, bisognerebbe approvare il testo definitivo sia alla Camera che al Senato, accogliendo anche i rilievi della commissione di esperti del ministero della Giustizia. Questa volta il rinvio è maturato dentro la maggioranza di governo e la richiesta è stata presentata da Italia viva, che l’ha giustificata con ragioni tecniche. Il termine è stato aggiornato, ma ormai gli schieramenti sono delineati. A giocare d’anticipo sul tema è stato il Partito democratico, che in settimana ha presentato i suoi emendamenti. Punti centrali: riforma dei riti alternativi con una maggiore premialità fino al 50 per cento della pena in caso di scelta di patteggiamento e abbreviato; salvataggio della legge Bonafede sulla prescrizione, corretta però dalla prescrizione processuale per fasi (se l’appello dura più di due anni, scatta l’improcedibilità per gli assolti in primo grado e la riduzione di pena di un terzo per i condannati). “Eravamo pronti già dalle scadenze precedentemente fissate”, ha commentato la responsabile Giustizia del partito, Anna Rossomando, secondo cui la richiesta di rinvio “è la dimostrazione che le nostre proposte hanno spiazzato chi in queste settimane ha usato la questione giustizia più per piantare bandierine e avere visibilità che per risolvere i problemi”. Il riferimento è tutt’altro che velato e, non a caso, Lucia Annibali di Italia viva risponde indirettamente, scansando le polemiche politiche: “La richiesta di rinvio nasce dalla necessità di approfondire meglio tutta la legge delega, che è molto ampia e su cui noi ci siamo astenuti in consiglio dei ministri nel Conte II”. Tuttavia questo diventa la conferma di come la maggioranza sia polarizzata. Da un lato ci sono Leu e Pd, che puntano a salvare la riforma Bonafede che sospende la prescrizione dopo il primo grado, correggendola. Il Pd con la prescrizione per fasi e Leu sia con le fasi che con il lodo Conte bis, condiviso dalla precedente maggioranza, che prevede di differenziare la posizione di assolti e condannati. L’obiettivo è mantenere saldo l’asse con il Movimento 5 stelle evitando di smantellare completamente una norma bandiera per i grillini, che ancora non hanno formalizzato i loro emendamenti e sentono l’accerchiamento. Dall’altro lato si muovono Forza Italia, Azione e Italia viva. Tutti e tre presenteranno emendamenti che abroghino del tutto la legge Bonafede e anche il lodo Conte bis, in modo da ripristinare il decorso della prescrizione. Non solo, i renziani puntano a modificare sostanzialmente anche la parte di legge che riguarda l’appello, cancellando in particolare gli articoli sull’appello monocratico (con il giudizio di un solo giudice e non più di un collegio). Del resto “noi abbiamo le mani e il cervello liberi e non sentiamo l’esigenza di tutelare le riforme dei Cinque stelle, ma di tutelare i cittadini tutti”, dice Annibali, dato che “questa maggioranza più ampia rispetto al Conte II permette di arrivare a soluzioni migliori e costituzionalmente orientate”. Sulla prescrizione Azione, con Enrico Costa, è ancora più drastica: “Estinzione del processo se la durata del primo grado supera i 3 anni, se quella del giudizio di appello è superiore a 2 anni e se quella del giudizio in Cassazione è superiore a un anno”, con un aumento di un quarto del tempo solo in casi tassativi. Non sarà facile, quindi, per la guardasigilli Marta Cartabia fare sintesi tra posizioni tanto opposte, trovando un punto di caduta che accontenti tutte le anime della maggioranza. Giustizia oltre gli arresti di Pier Ferdinando Casini* Il Foglio, 30 aprile 2021 L’impraticabilità di una “riforma della giustizia”, di cui si parla in modo inversamente proporzionale a quanto si fa, sembrava dover ricevere una decisa smentita dal cosiddetto “caso Palamara”. Lo scorso 26 maggio proprio sul Foglio uno di noi scriveva, citando il Vangelo, oportet ut scandala eveniant, intendendo che dallo scandalo possono derivare effetti positivi in termini di reazione ed auspicando un soprassalto della politica che, approfittando di un mutato rapporto di forza nell’atavico braccio di ferro con i magistrati, intervenisse finalmente a raddrizzare le storture del sistema giudiziario, troppo lamentate e mai curate. Sono passati ben undici mesi e non è stato fatto niente! Palamara è diventato la star delle librerie e della tv; il Csm si trascina in condizioni di assoluta delegittimazione; i processi civili e penali, complice il Covid, continuano a mantenere i non invidiati primati europei di lunghezza; il corto circuito mediatico-giudiziario continua a consegnare all’opinione pubblica condannati in anticipo che, al termine di un calvario personale, spesso vengono assolti con la sentenza definitiva; la curiosità pruriginosa dei lettori continua ad essere alimentata da intercettazioni sempre più sofisticate che per lo più parlano di questioni penalmente irrilevanti e di terzi estranei all’indagine. Verrebbe da dire che se neanche il disvelamento del “Sistema”, con il suo strascico di indignazioni, prese di distanza, promesse di abbandonare quelle logiche, ha prodotto risultati, l’irredimibilità della nostra giustizia può dirsi ormai acclarata. Eppure, da convinti sostenitori della “politique d’abord” (motto coniato da Maurras ma adottato da Nenni!), non riusciamo a rassegnarci a registrare una sconfitta, ma pensiamo che questo Governo di larghissima coalizione non possa abdicare alle sue responsabilità, non solo in campo economico ma anche sul fronte giudiziario, perché il funzionamento della giustizia concorre in maniera determinante alla competitività del sistema paese. Purtroppo, le cose da fare sono sempre le stesse, dal momento che non sono mai state messe in opera riforme che ovviassero a mali antichi, conosciuti e curabili con rimedi ampiamente condivisi. Fior fiore di commissioni ministeriali, di convegni, di pubblicistica, di dibattiti parlamentari e universitari hanno sviscerato le criticità e individuato le soluzioni. Non è più il tempo dello studio ma dell’azione. Proviamo a rassegnare una breve lista degli interventi più urgenti, a promemoria per i pubblici decisori e a scarico della nostra coscienza. Partiamo dal Csm perché è il cuore del sistema e, se non funziona quello, non funziona nulla. Il Csm, per recuperare il suo ruolo di governo autonomo della magistratura, deve essere eletto per la componente togata con una legge che preveda circoscrizioni elettorali più piccole e consenta un panachage di preferenze tra liste diverse, per limitare il potere di condizionamento correntizio. La sezione disciplinare dovrebbe essere composta da eletti destinati a quella sola funzione, evitando commistioni tra ruolo giudiziario e amministrativo. I togati uscenti non dovrebbero poter subito concorrere a posti direttivi o chiedere il collocamento fuori ruolo. I poteri del Capo dello Stato di sciogliere il Consiglio andrebbero rafforzati. La consigliatura dovrebbe durare di più e la scadenza andrebbe scaglionata, per assicurare continuità e aggiustamenti in corsa. Gli uffici direttivi andrebbero coperti secondo un rigido criterio cronologico stabilito per legge, che dovrebbe pure fissare, una volta per tutte, i parametri di selezione, non più affidati alla cavillosa normativa consigliare che rappresenta un invito a nozze per le impugnazioni al Tar (la cui competenza andrebbe sostituita da quella di una sezione del Consiglio di Stato). La progressione in carriera dovrebbe essere vagliata con molto rigore alla luce non di autorelazioni encomiastiche, ma dei risultati sul lavoro, che per un giudice sono le conferme del grado superiore e per un pubblico ministero l’esito delle azioni penali esercitate. Per il processo civile è maturo il tempo di una scelta strategica: o si opta in via generalizzata per il rito del lavoro (e allora il principio di oralità sancito dall’art. 180 del Codice di procedura civile riprende ad avere un senso), oppure vanno soppresse tutte le udienze di mero richiamo alle difese scritte (decisione sulle istanze istruttorie, precisazione delle conclusioni…) e svolte da remoto tutte quelle in cui è indispensabile il confronto tra Giudice e difensori (anche quelle di assunzione testi). La sostituzione della citazione col ricorso consentirebbe di fissare da subito un calendario del singolo processo, che ne preveda lo svolgimento nel rispetto della “ragionevole durata”. Nel Recovery plan, anche per la giustizia penale, si punta sulla digitalizzazione del processo. Speriamo che non faccia la fine della digitalizzazione del processo civile in Cassazione, appena entrata in vigore: la “scrivania del magistrato” gira su un sistema vetusto, che si blocca in continuazione e che ha errori sistemici di tale gravità che dopo quindici giorni di sperimentazione ha indotto il Ministero a confessare di dover far quasi tutto daccapo (per fortuna che il sistema è stato provvidenzialmente previsto come opzionale rispetto a quello tradizionale cartaceo). Il dibattito ruota intorno al ddl delega di Bonafede che prevede, in sostanza, la rimodulazione della durata delle indagini preliminari in funzione della gravità dei reati per cui si procede. La sola previsione della responsabilità disciplinare dei magistrati che eccedano i tempi di conclusione delle indagini, in assenza di qualsivoglia sanzione processuale di inutilizzabilità degli atti compiuti fuori termine, rischia di essere una grida manzoniana. Forse, per rendere efficace la misura, occorrerebbe ipotizzare che se il pm non fa le indagini nei tempi massimi di durata, non si può rimediare con un incidente probatorio davanti al gup o con la cooperazione istruttoria in dibattimento ex art. 507 del Codice di procedura penale, altrimenti la previsione è del tutto inutile. Per rendere più difficilmente eludibile il termine di durata massima delle indagini si vorrebbe istituire un meccanismo di verifica giudiziale, della tempestività nell’iscrizione delle notizie di reato da parte del pubblico ministero. La verifica giudiziale, a parte che interverrebbe ad indagini preliminari già concluse, rischia di essere un altro appesantimento alla velocizzazione, che pure si dice sempre di voler perseguire (più sub-fasi si introducono, più il processo rallenta). Si vorrebbe introdurre l’obbligo per il pm di depositare gli atti delle indagini al decorso dei termini massimi di durata, con l’ulteriore obbligo di presentare richiesta di archiviazione o esercitare l’azione penale entro il termine di trenta giorni dalla presentazione della relativa richiesta da parte del difensore dell’indagato o della persona offesa. Termini ordinatori (o canzonatori?) non saranno sufficienti ad ottenere il risultato auspicato. La discovery coatta non prescinde dalle lungaggini dell’art. 415 bis che consente lo svolgimento di nuove indagini. Si vorrebbe modificare la disciplina dei riti alternativi in modo da favorirne l’adozione. A 32 anni dall’introduzione dei riti alternativi, parlare di come promuoverne l’adozione sembra una ennesima diversione. Peraltro ampliare l’accesso al patteggiamento, accompagnandolo con una lunga serie di motivi ostativi e di esclusioni, finisce per togliere con una mano ciò che si offre con l’altra. Si vorrebbe introdurre l’obbligo per il giudice di stabilire e comunicare alle parti, all’inizio del dibattimento, il calendario del processo. A cavallo tra il 2010 e il 2015 si tentò di imporre il calendario del processo civile, provocando il rigetto della previsione da parte dei magistrati, che l’hanno confinata tra le norme disapplicate. All’ufficio commissioni dell’ufficio legislativo della Giustizia giacciono progetti di legge di riforma del processo penale pronti ad essere portati in Parlamento, per abbandonare questo Giano bifronte, che doveva nascere come accusatorio e, complice la nostra resistenza ai cambiamenti e i quaranta e più interventi additivi della Consulta, è tornato a essere sostanzialmente inquisitorio. In tema di prescrizione si rischia di creare incostituzionali disparità di trattamento fra condannati ed assolti in primo grado. Mentre la prescrizione si sospende in caso di sentenza di condanna in primo grado, continua a decorrere in caso di sentenza di assoluzione; nel caso in cui la sentenza di assoluzione in primo grado venga poi riformata in appello, potrebbe comunque maturare la prescrizione in favore dell’imputato, creando disparità tra un condannato in primo grado ed un condannato in secondo grado. La prescrizione non sarà l’unico rimedio alla lunghezza del processo penale ma o si trova un’alternativa efficace per garantire la ragionevole durata, oppure “il detenuto in attesa giudizio” di Sordi non è più tollerabile. Conclusivamente, le circostanze sembrerebbero propizie per fare finalmente qualcosa. Se così non sarà non ci sarà amnistia che possa far assolvere la politica da un ennesimo reato di omissione. *Già presidente della Camera dei Deputati I corvi in azione al Csm. Indagine sui verbali che accusano le toghe di Giuliano Foschini e Conchita Sannino La Repubblica, 30 aprile 2021 Le deposizioni dell’avvocato Amara veicolate da più mani all’interno del Consiglio e fuori. Le presunte rivelazioni chiamavano in causa l’allora premier Conte e vertici di uffici giudiziari. La stagione dei corvi si abbatte, ancora una volta, sulla magistratura italiana. Per un anno - da aprile del 2020 fino a qualche settimana fa - in un momento cruciale per la storia del nostro Paese (la pandemia, la crisi del governo Conte e l’arrivo dell’esecutivo Draghi), mentre il Consiglio superiore della magistratura rischiava il collasso per la vicenda Palamara, mani diverse veicolavano all’interno dello stesso Csm, e anche alle redazioni dei giornali, atti riservati di indagine (coperti da segreto istruttorio) in grado di esercitare una forza di intimidazione e ricatto sugli organi istituzionali: l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, i vertici di alcuni uffici giudiziari e dei più importanti apparati istituzionali del Paese. Quel materiale sono le confessioni, si fa per dire, di uno degli uomini neri dello scandalo che nell’estate del 2019 ha travolto pezzi di potere giudiziario e politico italiano: l’avvocato siciliano Piero Amara. È lui che ha riempito almeno sette verbali, a fine del 2019, davanti ai pm di Milano raccontando fatti - alcuni veri, altri verosimili ma anche vicende incredibili - al momento assolutamente non riscontrati. Decine di pagine nelle quali fa nomi di altissimi magistrati, politici, organi istituzionali riuniti in una loggia segreta: Ungheria. E accusa l’allora premier Conte di aver avuto consulenze d’oro e vantaggi, dal gruppo, quando era soltanto un autorevole avvocato civilista. “Solo calunnie, di cui chiederò conto in ogni sede” ha risposto l’ex presidente. I verbali al Csm - I primi a conoscere i segreti di Amara sono due espertissimi pubblici ministeri di Milano, titolari dell’indagine: Paolo Storari e Laura Pedio. Siamo a dicembre 2019 e l’avvocato siciliano mette a verbale fatti e circostanze tutte da verificare. Poco dopo, secondo la ricostruzione che fanno oggi le procure, uno dei pm, Paolo Storari, decide di portare quel materiale a Roma, nel cuore del Csm, affidandolo nelle mani dell’allora consigliere Piercamillo Davigo, che conosce da sempre. È la primavera del 2020, tra marzo e aprile, quando il sostituto di Milano incontra a Palazzo dei Marescialli l’ex leader di Autonomia e Indipendenza: Storari lascia a Davigo i verbali in cui si parla di vari magistrati e anche del Consiglio superiore. Una mossa del tutto irrituale. Ma - per quello che risulta a “Repubblica” - il magistrato milanese ha raccontato di aver compiuto quel gesto non come illecito, ma come un atto quasi dovuto per il buon esito dell’indagine. Un tentativo di autotutela. Ha infatti spiegato, persino dinanzi al suo capo Francesco Greco, di aver compiuto quella scelta perché preoccupato dall’”immobilismo” che registrava intorno a quelle accuse. Storari avrebbe temuto che quelle dichiarazioni dell’avvocato Amara, seppur ancora da approfondire, fossero finite in un nulla di fatto. “Quando mi chiameranno, io dirò quello che devo dire”, sono le uniche parole che il pm ha riferito in queste ore alle persone a lui più vicine. Ciò che sorprende, tuttavia, è un’altra, del tutto inedita, conseguenza: il silenzio (almeno in apparenza) di Davigo, dopo aver ricevuto quel plico. E le confidenze di un collega stimato come Storari. La reazione di Davigo - Da aprile a ottobre 2020, mese in cui Davigo lascia il Csm per raggiunti limiti di età (con relativa aspra diatriba), l’ex consigliere non rivelerebbe a nessuno della visita di Storari. Parla, però, sembra in maniera assolutamente generica e vaga, con il vicepresidente David Ermini di una indagine a Milano che potrebbe coinvolgere nomi importanti. E che, dunque, potrebbe fare molto rumore. Perché Davigo non fa una relazione? A chi ha raccontato di essere stato il destinatario di quei documenti? Agli atti c’è soltanto la rottura con il collega di Csm Sebastiano Ardita, con cui nel 2015 aveva contribuito a fondare la corrente Autonomia & Indipendenza. Il nome di Ardita è nei verbali che Davigo riceve. Si muove il corvo - La procura di Milano, siamo alla fine del 2020, decide di inviare per competenza a una serie di procure le confessioni dell’avvocato Amara affinché vengano effettuati i riscontri del caso. A Roma, però, negli uffici del Consiglio superiore della magistratura c’è chi teme che quelle parole rimangano lettera morta. Secondo la ricostruzione che ne fa la procura di Roma, una su tutte: Marcella Contrafatto, funzionaria storica del Consiglio superiore della magistratura, compagna di un importante magistrato romano e fino a qualche giorno prima nella segreteria del consigliere Davigo. Secondo le indagini dei pm di Roma, è la Contrafatto ha far recapitare al “Fatto Quotidiano” un plico con i verbali di Amara. Lo stesso plico che qualche settimana dopo verrà consegnato anche al consigliere del Csm, l’ex pm antimafia Nino Di Matteo. E, infine, siamo a inizio 2021, le stesse carte arrivano anche alla redazione di “Repubblica”. Le indagini non hanno accertato come la Contrafatto sia venuta in possesso del plico consegnato da Storari a Davigo. Né perché si sarebbe preoccupata di fare da “postina” con i giornali. Certo è che la donna ha ottimi rapporti personali con Fabrizio Centofanti, faccendiere accusato di essere uno dei corruttori di Luca Palamara. Uno di quelli, insomma, che aveva interesse a far crollare il sistema. Le denunce dei giornalisti - I giornalisti che ricevono il plico non mangiano, però, la foglia. Si accorgono che i verbali non sono firmati. E si rendono conto che è in corso, da parte di ignoti, un’azione di dossieraggio assai poco chiara. Al “Fatto Quotidiano” il fascicolo finisce sul tavolo di Antonio Massari che li consegna alla procura di Milano per gli accertamenti del caso. A “Repubblica”, mesi dopo, arriva un plico simile (con due verbali in meno, però, rispetto all’altro quotidiano) a Liana Milella che denuncia i fatti alla procura di Roma. Dopo le denunce la Guardia di Finanza si muove e identifica quella che ritengono essere il corvo: la funzionaria Contrafatto, appunto. Il dossier non è stato inviato soltanto ai giornalisti. È anche sul tavolo di alcuni consiglieri del Csm. Di uno certamente: Nino Di Matteo. Il corvo indagato - Quando Di Matteo lo riceve - accompagnato da una lunga lettera anonima nella quale si denuncia il presunto immobilismo della magistratura sull’argomento - l’ex pm di Palermo lo mostra per primo a un collega, Sebastiano Ardita. E lo fa perché, come si è detto, in un verbale Amara cita espressamente Ardita. La cosa sembrerebbe restare, per lo meno fino a quel momento, negli uffici del Csm. Fin quando, nel marzo scorso, lo stesso Di Matteo informa il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, di aver ricevuto quello strano plico. Glielo dice in occasione dell’audizione di Cantone al Consiglio, quando è chiamato a parlare della vicenda Palamara. Ricevuta l’informazione, Cantone immediatamente si mette in contatto con il vertice della procura romana Michele Prestipino. E l’indagine - che si muove sull’asse Milano-Perugia-Roma - ha un’accelerazione. La Finanza individua la Contraffatto. La interroga. E arriviamo così a mercoledì 28 aprile. Il Consiglio si riunisce in mattinata. Il primo a prendere la parola è proprio Di Matteo: “Ritengo doveroso rendere edotto il Consiglio di una vicenda che ritengo importante. Nei mesi scorsi ho ricevuto un plico anonimo recapitatomi tramite spedizione postale contenente una copia informale e priva di sottoscrizioni di interrogatorio di un indagato risalente al dicembre del 2019 innanzi a un’autorità giudiziaria. Nella lettera anonima che accompagnava il documento quel verbale veniva ripetutamente indicato come segreto. Nel contesto dell’interrogatorio l’indagato menzionava in forma evidentemente diffamatoria se non un consigliere di questo organo. Auspico pertanto che le indagini in corso possano far luce sugli autori e sulle reali motivazioni della diffusione di atti giudiziari in forma anonima all’interno di questo Consiglio superiore”. L’inchiesta di Perugia - Le dichiarazioni di Amara non sono rimaste lettera morta. La Procura di Perugia “eredita” tutto il materiale che, a Milano, l’avvocato siciliano (che ha patteggiato una condanna a due anni e 8 mesi per corruzione in atti giudiziari) ha riversato nelle sue confessioni e che riguardano l’esistenza di quella presunta loggia “Ungheria”. Oltre che al presunto coinvolgimento in vari affari di magistrati romani per cui è competente Perugia. I pm del capoluogo umbro avviano una serie di verifiche. Dunque, scatta l’inchiesta. Il procuratore Cantone è a lavoro. E alcune toghe sarebbero, anche a loro tutela, già indagate. Verbali segreti consegnati a Davigo: il corvo e la nuova faida nella magistratura di Luigi Ferrarella e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 30 aprile 2021 Il pm milanese Storari “per tutelarsi” portò al Csm le rivelazioni dell’avvocato Amara. Atti giudiziari coperti da segreto, lettere anonime, calunnie: c’è un nuovo scandalo che rischia di investire il Consiglio superiore della magistratura. E di avvelenare ulteriormente il clima già rovente in alcune Procure, prima fra tutte Milano. Perché è stato proprio un pm di questo ufficio, Paolo Storari, a consegnare i verbali ancora segreti all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Un anno fa. Senza informare i propri capi, a cominciare dal procuratore Francesco Greco, e anzi allo scopo di tutelarsi da essi. La segretaria indagata - I verbali, tuttora segretati, sono quelli resi in cinque occasioni nel 2019 da Piero Amara, l’avvocato siciliano arrestato nel 2018, indagato per i depistaggi dell’inchiesta Eni e per vari episodi di corruzione di giudici, 2 anni e 8 mesi di patteggiamento, e coinvolto anche nelle vicende dell’ex pm romano Luca Palamara, radiato dalla magistratura e accusato d’aver pilotato nomine in cambio di regali e favori. Pochi mesi dopo che i verbali erano stati consegnati da Storari a Davigo, e mentre le indagini erano in corso, alcuni giornali iniziarono a riceverli con una missiva anonima che ne sollecitava la pubblicazione. A spedirli - scopre ora la Procura di Roma - fu Marcella Contrafatto, impiegata del Csm nella segreteria dell’allora consigliere Davigo, ora indagata per calunnia, perquisita a casa e in ufficio due settimane fa dai pm che nel computer hanno trovato copie degli atti spediti. Per conto di chi si è mossa? Qual era il suo reale obiettivo? Le rivelazioni - Tutto comincia nel dicembre 2019 quando Amara viene interrogato a Milano sui suoi rapporti con giudici, funzionari di Stato, politici, alti prelati, alti ufficiali delle forze dell’ordine, imprenditori. L’avvocato fa i nomi di magistrati che gli avrebbero chiesto aiuto per ottenere promozioni. Poi sostiene di aver “raccomandato” l’avvocato Giuseppe Conte per fargli ottenere nel 2012 e 2013 consulenze dal Gruppo Acqua Marcia Spa per 400mila euro. E soprattutto racconta di essere membro di una fantomatica loggia “Ungheria” di cui farebbero parte numerose toghe, tra cui l’ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita. Amara è un teste controverso, i pm procedono con circospezione, anche se storicamente nelle stesse settimane i vertici ne utilizzano un de-relato (su vaghi commenti di legali Eni circa il presidente del processo Eni-Nigeria poi conclusosi con assoluzione) e lo trasmettono alla Procura di Brescia (che archivia a ignoti), mentre i pm del processo Nigeria provano (senza esito) a chiedere Amara come teste in extremis. La lettera anonima - Nell’ottobre 2020 nelle redazioni di alcuni giornali arriva un plico con la copia dei verbali e una lettera: “Milano fa finta di niente”. La ricevono anche i giornalisti de Il Fatto quotidiano che, convinti di essere finiti al centro di ricatti incrociati, decidono di informare proprio la Procura milanese. Non sanno che già dall’aprile del 2020 quei verbali “segretati”, cioè non depositati dai pm milanesi in alcun procedimento, sono al Csm nell’ufficio di Davigo. La consegna di Storari - Cosa era accaduto? Secondo quanto il Corriereha potuto ricostruire ieri tra più fonti, Davigo nell’aprile 2020 ha ricevuto i verbali segretati di Amara proprio da uno dei pm milanesi, Paolo Storari, che con il procuratore aggiunto Laura Pedio (una dei vice di Greco con l’allora dirigente del pool di cui faceva parte Storari, Fabio De Pasquale) avevano interrogato Amara tra dicembre 2019 e gennaio 2020. E Storari glieli ha portati proprio per tutelarsi da possibili conseguenze disciplinari di comportamenti che, nel trattamento di quei verbali, riteneva non corretti nei vertici della Procura. Il punto di frizione sembra essere stata, nei primi mesi del 2020, la necessità o meno di avviare accertamenti formali sulle gravi accuse che Amara rivolgeva ai componenti di quel gruppo di formidabile pressione denominato “Ungheria”. Storari premeva perché si procedesse a iscrizioni formali, ravvisando che gravissimi potessero essere i fatti se veri, e gravissima la calunnia se si fossero rivelati falsi; Greco, De Pasquale e Pedio ritenevano invece più opportuno attendere o non procedere ad iscrizioni formali. E per questo, passati alcuni mesi, Storari (che in seguito avrà dai capi l’ok all’avvio di accertamenti, poi trasmessi per competenza a Perugia e Roma), avrebbe scelto di confidarsi con una figura istituzionale come il consigliere Csm Davigo. Il Corriereha chiesto a Davigo se dunque sia vero che Storari gli abbia confidato le divergenze in Procura e portato i verbali con la motivazione di volersi tutelare dai colleghi: “Sì, è vero”, risponde asciutto Davigo. Ma non è una violazione del segreto su quei verbali? “Il segreto non è opponibile ai componenti il Csm. E io ho subito informato chi di dovere”. Cioè il vicepresidente Ermini o l’ufficio di presidenza del Csm? “Ho ho informato chi di dovere”. Greco, interpellato, non commenta. Inchiesta sul Csm, una rifondazione necessaria di Carlo Bonini La Repubblica, 30 aprile 2021 La crisi di legittimazione della magistratura rischia di conoscere un avvitamento senza ritorno. L’Italia non può permettersi la giustizia dei corvi. Chi pensava che le convulsioni della magistratura italiana e la compromissione del suo organo di autogoverno, degli interna corporis delle sue correnti, avessero conosciuto il loro acme con il caso Palamara, si sbagliava. Perché ora, in una formidabile nemesi, una nuova inchiesta, che coinvolge tre Procure (Milano, Perugia e Roma), torna a illuminare il demone che se ne è impadronita e la guerra per bande che la percorre. E questa volta il profilo del Cavaliere Nero è quello di chi, nel tempo, si è proposto come vestale della sua integrità. Piercamillo Davigo, già simbolo di Mani Pulite, già magistrato di Cassazione, già presidente dell’Anm, già consigliere del Csm e leader della corrente “Autonomia e Indipendenza”. Soprattutto, interprete e custode di una cultura inquisitoria del processo penale e dei suoi istituti che ne hanno fatto il campione di un giustizialismo declinato nella sua forma più ideologica. Come raccontiamo nelle nostre pagine, Piercamillo Davigo, nella primavera del 2020, raccoglie irritualmente un plico di verbali segretati della Procura di Milano dalle mani del magistrato che quei verbali aveva redatto, il sostituto procuratore Paolo Storari. In quelle carte, che vorrebbero essere il compendio della confessione di Piero Amara, opacissimo e potentissimo “facilitatore” a gettone per piegare la giustizia agli interessi di altrettanti oscuri centri di potere, è, a ben vedere, un cocktail velenoso, dove il confine tra il vero e il falso si fa evanescente. Ma certamente in grado di disassare o comunque mettere politicamente sotto scacco l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, fulminare esponenti della magistratura e delle istituzioni, il vertice della Guardia di Finanza, iscrivendole in una fantomatica loggia massonica dal nome “Ungheria” che avrebbe allungato i suoi tentacoli nella giustizia amministrativa, penale, nello stesso Csm. Il pm Storari è convinto che il Procuratore capo di Milano, Francesco Greco, stia illegittimamente ritardando le iscrizioni nel registro degli indagati di quanti Amara ha chiamato in causa. Se ne lamenta con Davigo. E, irritualmente, Davigo - stando al racconto di Storari - investe (non è dato sapere in che misura) di quel conflitto tra magistrati l’ufficio di presidenza del Csm. D’incanto, quei verbali, di cui Davigo ha copia, che dovrebbero essere segreti e la cui sottrazione la Procura di Milano ignora, cominciano una loro circolazione “extracorporea”. Quelle informazioni messe a verbale, che devono ancora essere valutate nella loro consistenza (e che, quando lo saranno, non reggeranno alla prova dei fatti), diventano carburante per un commercio clandestino di informazioni riservate all’interno del Csm. E, nell’autunno del 2020, in curiosa coincidenza con l’uscita di Davigo dal Consiglio per limiti d’età, dalla sua segreteria, in buste anonime, prendono la strada delle redazioni dei quotidiani. Che, tranne un caso, non pubblicheranno. Non fosse altro perché quelle carte hanno l’odore e la provenienza proprie della polpetta avvelenata. Tra l’autunno del 2020 e il gennaio scorso, per quasi cinque mesi, in un passaggio cruciale della vita politica del Paese - la crisi del Conte2 e la formazione del governo Draghi - il Csm è diventato dunque il cuore di un’operazione, insieme, di intossicazione e resa dei conti. Che doveva evidentemente orientare le scelte del Procuratore di Milano, mettendolo sotto pressione, e magari condizionare la corsa alla sua successione, spaventare i vertici della Finanza, mettere sull’avviso il sistema di relazione di cui l’avvocato Amara è il fulcro. Uno spettacolo in cui nessuno dei magistrati protagonisti, in nessun passaggio, sembra fare la sola cosa giusta, limpida. Disinnescare cioè quella bomba a orologeria che, prima ancora che un’inchiesta abbia messo un punto, il pm Storari e il consigliere Davigo hanno depositato nel cuore dell’organo di autogoverno della magistratura. Si annunciano giorni orribili. Per il Csm, per la magistratura italiana, la cui crisi di legittimazione rischia di conoscere un avvitamento senza ritorno. Perché un Paese che promette all’Europa una riforma del suo sistema giudiziario in grado di sostenere lo sforzo del Recovery non può permettersi la giustizia dei corvi. Il dovere di indagare sul potere anomalo della magistratura di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 30 aprile 2021 L’argomento di maggior interesse pubblico oggi in Italia è senza dubbio quello della giustizia, e della magistratura nel rapporto con le altre istituzioni, per cui una commissione di inchiesta parlamentare sarebbe legittima ed utile se si vogliono superare le polemiche e i contrasti che durano da oltre trent’anni. Si tratta di trovare “un punto di sintesi per migliorare il servizio giustizia” come ha riconosciuto il Ministro della Giustizia, il quale ritiene indispensabile ricomporre la “frattura” tra le istituzioni che si è accentuata negli ultimi anni. Il riconoscimento da parte della Cartabia della frattura che dura dagli anni 90 è importante e nessuno ha dato finora spiegazioni adeguate del “fenomeno” Tangentopoli, da tutti riconosciuto appunto come “fenomeno” anomalo perché nelle inchieste giudiziarie fu utilizzato un metodo di indagine da parte dei pubblici ministeri non conforme al codice e alle regole a cui un magistrato si deve attenere. Ho auspicato negli anni passati un’autocritica da parte dei partiti della sinistra che sollecitavano l’azione della magistratura per scardinare il sistema politico e da parte di una magistratura che attraverso una valutazione più serena dei fatti dovrebbe difendere maggiormente la sua indipendenza e la giurisdizione. Con il “fenomeno” Tangentopoli la magistratura e in particolare le procure sono state impegnate a processare il “sistema” politico nel suo complesso più che indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili; e il giudice nonostante le innumerevoli sentenze di assoluzione, che pur vi sono state, ha assunto la caratteristica del giudice “etico” che vuole condannare il male per far vincere il bene. La funzione del magistrato è cambiata profondamente da allora perché la norma contenuta nel codice che attribuisce al pubblico ministero il compito di “ricercare il reato” al di là della nostra notizia criminis, ha consentito di contestare il sistema, un qualunque sistema e quello politico in particolare dove il sospetto è maggiore, per… ricercare al suo interno il reato. Questo metodo ha caratterizzato il “sistema Tangentopoli” che si è sviluppato con “mani pulite” della procura di Milano e ha orientato tutta la magistratura in questi anni. La conseguenza è stata, ed è tuttora, l’alterazione del ruolo proprio del giudice in uno stato democratico, una confusione molto pericolosa, che viviamo in questi anni, tra la questione morale la questione penale che porta al giustizialismo e al populismo. Il populismo giudiziario, che coltiva la concezione di una giustizia “esemplare2 per soddisfare l’emotività dei cittadini, e il populismo politico che disprezza le istituzioni e snatura il rapporto tra il cittadino e lo Stato e il valore stesso della comunità civile. È prevalso il tal modo il potere giudiziario e soprattutto dei pubblici ministeri che ha alimentato lo scontro con la politica accentuando uno squilibrio istituzionale. Si tratta di problemi complessi che incidono sulla vita delle istituzioni, di qui la urgente necessità di ricercare un raccordo tra le istituzioni democratiche e l’”ordine” giudiziario che solo il Parlamento nella sua sovranità può determinare. Non si tratta dunque di “ridiscutere i fatti accertati da sentenze passate in giudicato” come dice il Presidente dell’ANM Santalucia, dimostrando ancora una volta la chiusura della corporazione; né di un potere che vuole indagare su un altro potere, ma di un potere democratico che ha il dovere di indagare su un “ordine” giudiziario che è diventato potere anomalo incrinando l’assetto costituzionale del paese. È dunque necessario che il Parlamento indaghi sulle tante anomalie che hanno caratterizzato e caratterizzano l’azione della magistratura ormai note a tutti e per ultimo messe in evidenza da Palamara e tenga ben conto che la politicizzazione della magistratura non è la premessa ma è la conseguenza delle deviazioni dei compiti propri della magistratura di cui si è detto. Non è possibile consentire ulteriormente questa anomalia costituzionale che non è presente in nessun paese del mondo. Si è detto che in America Biden può istituire una commissione di inchiesta sulla Corte Suprema e quindi, anche se con ordinamenti diversi, in Italia si può ben indagare su un “ordine autonomo” che, proprio perché autonomo, non può sfuggire ad una valutazione del Parlamento: il problema della giustizia è il problema fondamentale per la democrazia. Se dunque il potere giudiziario in concreto prevale sul potere legislativo, il Parlamento deve interrogarsi sulle ragioni per cui oggi la politicizzazione della magistratura è una anomalia che rende instabile l’equilibrio democratico ma al tempo stesso è un’ipocrisia perché anche all’interno la magistratura si patiscono le conseguenze negative di questa sovraesposizione. Ma il Parlamento al tempo stesso fare un esame di coscienza sulle leggi, sulle decisioni che hanno consentito queste deviazioni. Una serie di leggi hanno accentuato l’autonomia della magistratura anche nella sua organizzazione interna a scapito della indipendenza, che è il valore primario sul piano costituzionale, prezioso per l’equilibrio dei poteri, e hanno accentuato la sua separatezza. L’esempio più vistoso, sempre ricordato, tra tutte le decisioni del Parlamento, è la legge che consente la progressione automatica in Cassazione da parte del magistrato, stabilita per legge negli anni 70, che segue quella di eguale contenuto per la Corte d’Appello, e che ha eliminato la verifica del merito, della professionalità perché si è ritenuto niente di meno! che i “meccanismi” per determinarli avrebbero “intaccato” l’indipendenza! Si è enfatizzata in tal modo la “autonomia” come separatezza e irresponsabilità e oggi egualmente si ritiene che una commissione parlamentare possa “intaccare” l’indipendenza. Queste storture rendono dunque urgente una inchiesta del Parlamento anche se non al massimo della sua efficienza, in un periodo in cui il governo si appresta a presentare a Bruxelles il Recovery Plan nel quale si precisa che “nell’ambito dell’intervento integrato volto a consentire un recupero di appartenenza dell’intero comparto della giustizia, assumono rilievo gli interventi di riforma dell’ordinamento giudiziario… per garantire l’esercizio del governo autonomo della magistratura libero da condizionamenti esterni e da logiche non improntate al solo interesse del buon andamento dell’amministrazione della giustizia”. Per realizzare questo programma proposto del governo e approvato dal Parlamento, è necessaria una valutazione serena delle disfunzioni che hanno determinato la crisi nei rapporti istituzionali e in definitiva la crisi di fiducia dei cittadini. Gli ex terroristi arrestati in Francia sono già in libertà vigilata. E adesso cosa succede? di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 30 aprile 2021 Per sette di loro c’era già stato uno stop alle richieste italiane. Dopo il vaglio politico, che un tempo frenava alcune estradizioni, ora tocca alle scelte dei giudici. Dunque è durata una notte, la detenzione degli ex terroristi (Qui tutti i ritratti) degli anni Settanta arrestati all’alba di mercoledì in Francia. Ma nella strategia italiana la decisione dei magistrati francesi non rappresenta una sorpresa e tantomeno un intoppo. Il blitz e gli arresti erano necessari per interrompere il decorso della prescrizione, evitando così che per sei dei dieci rifugiati Oltralpe - i non ergastolani - di qui a poco tempo l’Italia non potesse nemmeno più chiedere la riconsegna. Compiuto questo atto, e considerando che i tempi per le procedure in tutti i loro passaggi saranno piuttosto lunghi (si prevedono un paio d’anni, anche se la prima udienza davanti alla Chambre d’accusation è stata fissata per mercoledì prossimo) era prevedibile che gli estradandi non restassero in prigione. Anche perché il vaglio preventivo effettuato dal Bureau del ministero della Giustizia francese ha riguardato solo l’ammissibilità delle istanze giunte da Roma, non il merito. Domande accettate, ma risposte non scontate. Dei dieci condannati che l’Italia reclama, solo su tre la giustizia francese non s’è mai pronunciata in precedenza; si tratta dell’ex brigatista Enzo Calvitti, di Narciso Manenti (ergastolano per un delitto firmato Guerriglia proletaria) e dell’ex dirigente di Lotta continua Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio Calabresi. Per loro è la prima volta che si apre una procedura di estradizione, mentre per gli altri sette si era sempre bloccata, per un motivo o per l’altro. Proprio esaminando il fascicolo di Pietrostefani, il rappresentante della Procura che ha firmato il provvedimento d’arresto aveva già anticipato che in sede di convalida avrebbe chiesto la scarcerazione, a causa delle sue precarie condizioni di salute. Ancora alla salute è legato il precedente che riguarda Marina Petrella, l’ex br condannata all’ergastolo che nel 2007 fu arrestata per essere rimpatriata, ma dopo un anno di carcere ottenne dall’ex presidente Nicolas Sarkozy la concessione dell’asilo per motivi umanitari. Stava male, la prigionia aveva peggiorato la situazione, e dall’Eliseo venne applicata la norma che consente di negare l’estradizione se questa mette a rischio la salute fisica e mentale del condannato. Ora il presidente è cambiato, ma quel provvedimento è ancora valido? Nell’istanza ripresentata dall’Italia si sostiene che dopo 13 anni sarebbe opportuno riverificare se le condizioni della donna, oggi sessantacinquenne, siano ancora incompatibili con la detezione. Ma è possibile che prima ancora di affrontare la validità dell’atto di clemenza, il giudice francese debba rivalutare il suo dossier dall’inizio, e dunque pronunciarsi nuovamente sulla richiesta di riconsegna. Stessa cosa per gli altri (Roberta Cappelli, Giovanni Alimonti, Luigi Bergamin), che avevano avuto il parere favorevole della Chambre d’accusation, ma per i quali non era mai arrivato il “via libera” politico da parte del capo del governo. Sergio Tornaghi invece, già brigatista della colonna milanese che dovrebbe scontare l’ergastolo per l’omicidio del dirigente d’azienda Renato Briano, è già comparso due volte davanti alla Chambre, e per due volte la domanda italiana è stata respinta. Ora bisogna stabilire se è possibile tornare su quelle decisioni oppure no. E un caso ancora diverso è quello di Raffele Ventura, ex militante delle Formazioni comuniste combattenti, al quale in passato fu notificato un mandato di arresto europeo poi annullato perché inapplicabile per i reati commessi prima della sua istituzione. Altra complicazione è che Ventura nel frattempo ha ottenuto la cittadinanza francese. “Lui rifiuta la domanda di estradizione e vuole rimanere qui, dove vive da quarant’anni”, ha spiegato ieri il suo avvocato Jean-Pierre Mignard. La Divisione antiterrorismo parigina, in collegamento con la polizia italiana, aveva verificato già da qualche giorno prima del blitz che Ventura, come Bergamin e Maurizio Di Marzio, non tornavano più a dormire nelle loro abitazioni. S’erano allontanati, probabilmente subodorando la retata, ma poi gli avvocati hanno convinto Ventura e Bergamin a presentarsi la mattina dopo, anche per non compromettere la scarcerazione degli altri. Che nelle aspettative del governo italiano non pregiudica l’esito della nuova offensiva. Ora si tratta di superare l’ostacolo giudiziario, perché il vaglio politico che in passato ha frenato alcune estradizioni, stavolta è stato affrontato prima. E Macron, dopo la promessa fatta a Draghi, s’è persino preoccupato di non ritardare troppo i tempi del blitz, rallentati dall’attentato jihadista avvenuto a Rambouillet il 23 aprile. Così gli arresti sono scattati subito. La pena e l’umanità di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 30 aprile 2021 Il fine di questa giustizia sta nel tentativo di rammendare un tessuto lacerato dal delitto. Un tentativo che presuppone non l’oblio ma, al contrario, l’assunzione delle proprie responsabilità. Teniamo distinti i piani, per quanto è possibile. Sono quattro: storico, politico, giuridico ed emotivo. Le ragioni sono diverse e, se i piani si mescolano, la ragione si confonde e si finisce per litigare proprio quando si dovrebbe cercare la chiarezza nella quale - per quanto possibile, ripeto - sta il tanto o il poco di verità di cui siamo capaci. Nel piano storico stanno tutte le possibili riflessioni su che cosa è stata la crisi del capitalismo (diciamo così) di antico regime e quali forze intellettuali, sociali e materiali tale crisi ha innescato negli anni 70 del secolo scorso. La storiografia ha qui da lavorare, formulando le sue ipotesi interpretative per cercare di comprendere che cosa è stato. Ma comprendere non è giustificare. Questo è un punto molto importante, a meno che le responsabilità si pensi di annegarle in una disumana “legge della storia”. La comprensione storica non condanna, né assolve. Al massimo, prende atto delle ragioni che determinano i successi e i fallimenti. Quando i terroristi ai quali si chiede di rinnegare le proprie azioni criminose, cioè di assumere una responsabilità morale, rispondono che si trattò di “errori” perché i tempi non erano maturi, si comportano da storici che non avevano compreso i tempi e perciò andarono incontro alla sconfitta. L’errore non è una colpa e, dunque, quel tipo di ammissione non ha niente a che vedere con la morale. La distanza che si prende o non si prende dai delitti è “relativa”. Le circostanze storiche e gli obbiettivi raggiunti o falliti distribuiscono le ragioni e i torti. Alla fine, ciò che conta sono gli esiti. Poiché gli esiti non sono stati quelli rivoluzionari desiderati, che si ritenevano possibili, la violenza e gli assassinii di questi nostri criminali politici, quando essi li condannano, sono detti “sbagli” o “errori”. Sul piano politico (qualunque cosa “politico” significhi), c’è solo da dire che la democrazia non può essere deturpata da violenza, delitto, uccisioni. Il delitto “politico” non è meno grave del delitto “comune”. Anzi: è più grave. La vita democratica è, per definizione, tollerante, ma la tolleranza è una di quelle virtù che si dicono reciproche: non si può, anzi non si deve essere tolleranti con gli intolleranti. Solo nell’ampio spazio della comune tolleranza nascono le virtù della democrazia. Talora si sente dire: ma quello degli Anni di piombo era il tempo in cui anche gli assassinii erano politici e che, quindi, occorre una risposta anch’essa “politica”. Per l’appunto: la risposta adeguata al contesto democratico non è il declassamento del delitto a evento collaterale, secondario e in certo senso inevitabile (come forse si potrebbe dire nei regimi totalitari, quando si lotta contro l’oppressore). Naturalmente, ciò presuppone d’essere sicuri di sé quando si parla di democrazia e questa parola non sia usata come scusa per coprire forme più o meno nascoste di esercizio oppressivo del potere politico. La “dottrina Mitterrand” è perfettamente comprensibile e giustificata quando serve a proteggere i perseguitati politici da regimi antidemocratici (in questo significato essa è perfettamente in linea con l’articolo 10 della Costituzione italiana). Ma la protezione che, finora, la Francia aveva concesso ai terroristi di cui stiamo parlando stava a significare una certa arroganza: noi siamo la patria della libertà e della democrazia e, da questo pulpito, diciamo all’Italia ch’essa non lo è o non lo è abbastanza. Oggi, se ci sarà l’estradizione, questa offesa sarà lavata. Sul piano giuridico, se e quando le procedure per l’estradizione giungeranno a conclusione, non ci sarà ragione per ritenere che questi criminali, che tali sono in forza di sentenze definitive, debbano essere sottoposti a condizioni penitenziarie particolari. Si dovrà applicare il diritto comune. Ovviamente, si dovrà tenere conto del tempo trascorso e delle tracce ch’esso ha lasciato su di loro, come accade per tutti i viventi. Perciò, si dovrà e potrà valutare se a ciascuno di essi possano applicarsi i benefici previsti dalla legge penitenziaria. Esclusi quelli che presuppongono un periodo di detenzione in cui sia stata tenuta una condotta meritevole di attenuazioni, resta la detenzione domiciliare che, a meno di cause particolari ostative (come la condanna all’ergastolo), riguarda in generale i detenuti ultrasettantenni. Nella sfera delle emozioni troviamo risentimenti e desideri di vendetta, soprattutto nei sopravvissuti che sono stati colpiti direttamente e ferocemente in sé o nei propri cari. Tutti coloro che si sono espressi hanno però precisato che quello che li muove è il sentimento di giustizia, non il desiderio di ritorsione (occhio per occhio, ecc.). Non c’è motivo di dubitarne, ma anche se non fosse sempre e completamente così non ci sarebbero motivi per obiettare. Ognuno è padrone dei propri sentimenti. D’altro canto, qualcuno potrebbe negare che sia tormentoso il pensiero che assassini o aggressori di persone care e innocenti siano lasciati tranquilli, come se si trattasse di qualche accidente trascurabile, facile da dimenticare. Questo pensiero che rode le vittime che considererebbero un tradimento l’oblio, che cosa è: desiderio di giustizia o di vendetta? Difficile dirlo. Forse è una cosa e l’altra. D’altro canto, pretendere che chi ha commesso gravi delitti non se ne possa andare come se niente fosse e, invece, si ponga davanti alle sue proprie responsabilità è perfino un omaggio alla sua umanità, un riconoscimento del valore delle sue azioni: un valore negativo, certo, ma pur sempre un valore. È come dirgli: tu sei qualcosa per me, non un trascurabile fuscello che se ne va via dimenticato. Da questo punto di vista, si è parlato da parte di grandi filosofi non di “dovere”, ma di “diritto di subire la pena”, come elemento della dignità umana. Sembra un paradosso, una contraddizione. Ma non lo è. È, anzi, il presupposto e la condizione perché possa aprirsi una prospettiva nuova della giustizia penale, la prospettiva della riconciliazione, della ricomposizione. Proprio nella nostra materia sono state avviate iniziative, pare con successo, di confronto tra terroristi e vittime del terrorismo. Il fine di questa giustizia non sta nei buoni sentimenti o nel perdono a basso costo. Sta, invece, nel tentativo di rammendare un tessuto lacerato dal delitto, un tentativo che presuppone non l’oblio ma, al contrario, l’assunzione delle proprie responsabilità. Questo, però, è solo uno spunto che merita d’essere coltivato. Alberto Torregiani: “Solo la verità può portare alla riconciliazione tra vittime e colpevoli” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 30 aprile 2021 Il figlio del gioielliere ucciso nel 1979 dai Pac, a sua volta finito sulla sedia a rotelle per un proiettile: “Gli arresti in Francia un passo avanti: la prova che in questi anni è mancata la volontà politica”. “Una vittoria, no. Ma un passo avanti sicuramente sì. È la prova che in questi anni è mancata la volontà politica per un passo del genere”. Alberto Torregiani, figlio di Pierluigi, il gioielliere ucciso il 16 febbraio 1979 a Milano da un commando dei Pac di Cesare Battisti, e rimasto paralizzato alle gambe nell’agguato, spera che finalmente sia arrivato il momento di chiudere i conti con i reduci degli “Anni di piombo”. Torregiani, ha rivissuto le emozioni dell’arresto di Battisti? “Ho pensato al rischio che si possano ripetere le difficoltà che abbiamo avuto con la sua estradizione. Nel 2004 eravamo a un passo e poi... Bisogna vigilare, i cavilli burocratici sono infiniti”. Una volta tornati i terroristi dovranno andare in carcere? “Chi ha sbagliato deve pagare, chi non ha pagato nei termini corretti deve farlo oggi. Vale per Battisti e per tutti i terroristi che si sono macchiati di reati di sangue. È una forma di giustizia, perché dà alla vittima un senso di riparazione. Nella lista originaria erano 270, ma non tutti hanno ucciso o compiuto stragi. È importante prendere chi ha fatto davvero del male”. Ha senso scontare la pena a distanza di tanti anni? “Nell’ordinamento giuridico c’è la prescrizione, ma c’è anche scritto che per chi è colpevole di omicidio non c’è prescrizione. Non chiediamo che uno vada in carcere e si butti la chiave, o resti a pane e acqua fino alla fine dei giorni. Se hai vent’anni di condanna, ti fai vent’anni. Nelle condizioni più dignitose, ma in carcere. Se vuoi fare i lavori socialmente utili puoi farli da detenuto, come fa a Opera chi produce mascherine”. C’è chi vede sete di vendetta... “Sono loro a confondere la vendetta con la giustizia perché conoscono solo la vendetta. Il nostro è il diritto di vedere almeno ripagato il torto che abbiamo subito”. Cesare Battisti non dovrebbe più uscire? “Per chi ha un ergastolo è difficile poter uscire. Battisti ne ha due. Vogliamo togliergliene uno? Gli diamo trenta anni. Però poi non possiamo dare altri sconti di pena. Non dipende da me dire se può o non può uscire. Battisti non ha le condizioni giuridiche per uscire”. Non può avere alcuna possibilità quindi... “Dovrebbe fare un esame di coscienza e raccontare la verità. Non a me, ma alla società. Abbiamo bisogno di chiarezza storica. Non per puntare il dito contro qualcuno o per fare la caccia alle streghe, ma per fare chiarezza su quello che è successo”. Vede in questo una sorta di riconciliazione tra colpevoli e vittime? “Se c’è la volontà si può fare, ma ci dev’essere da entrambe le parti. Se invece si continua a portare addosso la veste dell’odio diventa difficile. Io sono disponibile a farlo e ho chiesto più volte un tavolo di confronto”. Pensa che si riuscirà a farlo? “È la strada da percorrere, io mi offro come mediatore. Non mi dispiacerebbe farlo anche nei prossimi percorsi di estradizione. Un modo perché tutte e due le parti possano trovare sollievo. Gli estradati dovranno stare sulla gogna per due anni, anche quello è un dolore”. Marco Boato: “Macron cerca voti. Non credo ci sia ancora un bisogno di giustizia” di Concetto Vecchio La Repubblica, 30 aprile 2021 Parla l’ex dirigente di Lotta Continua e parlamentare per sei legislature: “Gli arrestati in Francia sono già stati tutti giudicati e condannati. Adriano Sofri ha ragione”. Marco Boato, cosa ha pensato quando ha appreso degli arresti dei terroristi? “Ho combattuto per decenni il terrorismo in tutte le sue forme, anche con qualche rischio personale e con nessuna simpatia per coloro che ne sono stati protagonisti. Ma sono stato anche il primo promotore della legge sulla dissociazione, per cercare di uscire da quella stagione buia. Dopo gli arresti di Parigi, ho pensato che Mitterrand, Chirac, Sarkozy e Hollande, presidenti di sinistra e di destra, erano stati più saggi nel contribuire a porre fine alla stagione del terrorismo”. Macron invece? “Forse lui guarda alle prossime elezioni presidenziali e alla concorrenza di Marine Le Pen, riconquistando consenso in quell’elettorato di estrema destra, tentazione a cui Chirac e Sarkozy si erano sottratti”. Quindi anche lei, come Adriano Sofri pensa: “E adesso che ve ne fate, sono vecchi e malati”? “Sofri su Foglio ha fatto riflessioni ragionevoli e pacate, che ho condiviso pienamente, tanto più che lui ha trascorso molti anni in carcere e poi in detenzione domiciliare”. L’età avanzata di un condannato malato supera il bisogno di giustizia? “Giorgio Pietrostefani era già stato alcuni anni in carcere e ha tentato in ogni modo di ottenere giustizia, proclamandosi sempre innocente. Ha lasciato l’Italia per Parigi solo dopo che anche il processo di revisione, seguito a precedenti condanne e assoluzioni, anche in Cassazione a sezioni riunite, si era chiuso negativamente. A Parigi ha subito un trapianto di fegato e decine di interventi successivi. Non vedo quale bisogno di giustizia ci sia ancora”. Priebke venne condannato cinquant’anni dopo i fatti, a 84 anni. “Non c’entra nulla. Priebke non era mai stato processato prima, e la strage delle Fosse Ardeatine non era certo prescritta. Gli arrestati, e per ora rilasciati, di Parigi erano già stati tutti giudicati e condannati”. Sofri dice anche: “Pietrostefani non è un terrorista”. Ma è stato condannato per l’omicidio del commissario Calabresi, ed ha goduto della dottrina Mitterrand. “Non lo dice Sofri soltanto, lo dice il capo di imputazione e la sentenza di condanna, dove non compare alcuna aggravante di terrorismo o di banda armata, cosa che quasi tutti in questi giorni hanno dimenticato. Del resto, l’aggravante di terrorismo fu introdotta solo nel 1980”. È ancora convinto che non sia stata Lotta continua a uccidere Calabresi? “Ne sono sempre stato convinto, avendo seguito di persona tutti gli otto processi e avendo letto tutte le carte processuali. Nella prima fase avevano cercato di coinvolgere anche me e Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia pochi mesi dopo”. E chi l’ha assassinato allora? “Questo andrebbe chiesto ai magistrati competenti. Anche il colonnello dei carabinieri Nicolò Bozzo espresse le sue perplessità, quando venne ascoltato in Parlamento”. Ha mantenuto i contatti con Pietrostefani? “Abbiamo avuto una comune militanza in Lotta continua e poi l’ho visitato molte volte in carcere e frequentato durante tutti i processi. Altri amici hanno mantenuto con lui rapporti anche dopo a Parigi, dove io non sono mai stato per questo”. La dottrina Mitterrand nel tempo è stata interpretata dalla Francia come se l’Italia fosse un Paese sudamericano. Non è ridicolo? “Che io sappia, Mitterrand non ha mai sostenuto tesi del genere, ma ha solo cercato di contribuire a disinnescare la spirale del terrorismo. E ci è riuscito”. Ha letto l’intervista a Gemma Calabresi? “Ho assoluto rispetto per Gemma Calabresi, anche se lei e i suoi familiari sono stati sempre “colpevolisti”, ancor prima della sentenza definitiva di condanna. Ma il loro avvocato ha cercato in Corte d’assise di attribuire agli ex di Lotta continua l’omicidio di Mauro Rostagno, un sospetto ignobile e inescusabile”. Gemma Calabresi prega per i terroristi, ma molti terroristi, quando parlano di quegli anni, dimenticano le vittime. “Gemma Calabresi è cristiana, come lo sono io, e si comporta di conseguenza. Chi si dimentica delle vittime fa un grave errore. Ma altri ex terroristi hanno saputo instaurare un dialogo di riconciliazione con i familiari delle vittime, in nome di una giustizia riparativa”. L’ex terrorista Paolo Persichetti dice: “Anche l’esilio è una pena”. Non è uno schiaffo alle famiglie delle vittime? “Non so nulla di quanto dica o abbia detto Persichetti, che non conosco. L’esilio è sicuramente anche una pena, ma il rispetto per le vittime è doveroso per tutti” Come spiegherebbe a un ragazzo di oggi gli anni di piombo? “Dalla strage di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, ma anche prima con altri attentati, si è sviluppata la strategia della tensione, con stragi e ripetuti tentativi golpisti. Al terrorismo di destra, con complicità istituzionali negli apparati dello Stato, si è poi contrapposto anche un terrorismo di sinistra. Da una parte c’era il disegno di fermare i movimenti studenteschi e operai del ‘68-’69, dall’altra la folle idea di sostituirsi ai movimenti collettivi con la lotta armata, fino al tragico caso Moro”. Che Italia era? “C’era un sistema politico bloccato, senza ricambio e senza democrazia dell’alternanza, con molti apparati dello Stato ancora eredi del periodo fascista e occupati da uomini della loggia massonica P2, come si scoprì dopo. Ma fu anche un’Italia di grandi conquiste civili, divorzio, consultori, servizio sanitario nazionale e molte altre. Ridurre tutto agli anni di piombo sarebbe un grave errore storico e politico”. Perché adesso Draghi è riuscito laddove hanno fallito tutti gli altri? “Non sono convinto che l’iniziativa del governo e della ministra Cartabia, che pure stimo per altri aspetti, sia un contributo positivo per una pacificazione. Vedremo ora cosa deciderà la magistratura francese”. Qual allora il modo più giusto per chiudere nella verità quella stagione? “La verità sul periodo delle stragi e del terrorismo, di destra e di sinistra, è già stata quasi totalmente acquisita. Quando non sul piano giudiziario, come per Piazza Fontana, sicuramente comunque sul piano storico-politico. Resta aperto solo il processo per la strage di Bologna. Quando ero parlamentare, ho promosso la costituzione della Commissione stragi e terrorismo e ho fatto proposte per una soluzione politica, che solo in parte sono state accolte. Ora quella stagione, fortunatamente, è conclusa per sempre”. “Le leggi speciali non erano ingiuste, ma la loro applicazione fu sommaria” di Simona Musco Il Dubbio, 30 aprile 2021 Intervista ad Alessandro Gamberini, difensore di Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri: “La giustizia entra in campo per evitare la vendetta. Questi arresti sono la celebrazione di una vendetta tardiva”. “La giustizia entra in campo per evitare la vendetta. Ma con questa scelta ci troviamo davanti alla celebrazione di una vendetta tardiva”. A parlare è Alessandro Gamberini, difensore di Giorgio Pietrostefani, uno dei sette ex terroristi arrestati mercoledì a Parigi. Convinto della sua innocenza per il delitto Calabresi, il legale contesta oggi l’applicazione di quelle leggi che portarono alla sua condanna. “I meccanismi applicativi - spiega al Dubbio - hanno valutato la responsabilità penale a volte in modo sommario”. Avvocato, cosa ne pensa di questi arresti? Mi fa una cattiva impressione quando assisto a retate di settantenni. C’è un rapporto che lega la memoria alla giustizia e alla storia: quando sono passati tanti anni da avvenimenti che hanno portato a delle condanne l’intervento della giustizia non si rapporta più ad un fatto, ma ad una valutazione storica. E la storia richiede un altro approccio rispetto a quello dell’applicazione meccanica della pena. A distanza di 50 anni la condanna storica non vale nulla dal punto di vista del significato della giustizia. Mi appare come la celebrazione di una vendetta tardiva. Tanto più questa cosa mi meraviglia rispetto alla Francia. Perché? La Francia ha deciso decenni fa, non da poco, di dare asilo a queste persone. Sono decenni che queste persone vivono alla luce del sole, hanno un lavoro, hanno riformato una famiglia. La Francia poteva decidere, legittimamente, di non dare asilo. Ma una volta che è stato dato, revocarlo, trattando le persone come pacchi postali, viola l’articolo 8 della Cedu. Il tema non si pone solo rispetto alle condanne, ma anche rispetto al fatto che sono state radicate aspettative di vita che vanno tutelate. E lo dico perché la Corte europea lo ha affermato più volte rispetto alle espulsioni: non sono possibili se determinano una violenza assoluta nei confronti delle relazioni familiari. L’Italia ha perseguito a fasi alterne queste persone ed è normale che esprima soddisfazione, perché l’ordinamento italiano che ha espresso quelle condanne ha trovato conforto. Ma è un conforto che ha dei limiti: queste vicende non appartengono più alla giustizia. Tornando a quegli anni, secondo lei si poteva combattere il terrorismo senza creare leggi speciali? Ho vissuto quel periodo come avvocato e come docente di diritto penale. Dando un giudizio in chiave storica, con la freddezza che oggi ci consente di fare una valutazione, non penso che ci siano state norme palesemente incostituzionali che abbiano sospeso lo Stato di diritto in Italia. Quelle norme poi sono state aggravate da tutte quelle successive in maniera di terrorismo o di mafia, con una serie di enunciazioni che hanno coperto tutto il possibile scenario di queste vicende. In questi casi il problema è un’applicazione che è al limite dello Stato di diritto. I meccanismi applicativi - e succede anche ora nei processi per mafia - hanno valutato la responsabilità penale a volte in modo sommario. La valutazione della prova è stata non sempre individualizzata e spesso volta a fornire rassicurazioni all’opinione pubblica attraverso condanne, anche esemplari, e attraverso valutazioni sommarie. Credo che non sia stata la normazione, ma l’applicazione di quelle norme, in una situazione drammaticamente conflittuale, a portare la Francia alla dottrina Mitterrand. Una dottrina che emerse - con riferimento ai condannati non per delitti di sangue - sul presupposto che questo conflitto andasse riparato in sede politica e non in sede giudiziaria. Fu un tentativo anche di giocare a ridosso di un Paese amico, l’Italia, per aiutarlo a risolvere queste vicende. E in sede politica si sarebbe potuto risolvere con amnistia e indulto. Non per i delitti di sangue, ovviamente, ma buona parte di quelle persone poteva essere ricondotta nell’alveo della vita civile senza bisogno di passare sotto le forche caudine della galera, perché sotto il punto di vista della pericolosità, finito quel fenomeno, tutti sono tornati alla civiltà. Il concorso morale è una categoria sostenibile? Nel nostro ordinamento è una categoria conosciuta e applicata. Ovviamente è una questione delicatissima: quando non c’è la prova della partecipazione diretta non c’è alcun riscontro e quindi si è senza difesa. Questo strumento va usato con assoluta prudenza, tant’è che in materia di concorso esterno in associazione mafiosa le stesse sezioni Unite nella sentenza Mannino dissero che non poteva essere usata la categoria del concorso morale. In un contesto in cui tutto viene utilizzato in maniera forzata è ovvio che questa è la categoria che, più di altre, può rappresentare un passe-partout per avere delle condanne ingiustificate. Gemma Capra, moglie di Luigi Calabresi, ieri ha affermato che non si tratta più delle stesse persone e che non si sente di gioire... Ho apprezzato anche la dichiarazione del figlio Mario, rispetto a Pietrostefani, di cui sono difensore, che ha affermato che a distanza di tanto tempo non avverte questa cosa come un successo. Apprezzo sempre quando persone che hanno subito un dolore tanto atroce riescono a dire cose del genere. Non ho capito, però, cosa intenda quando dice che sarebbe il momento giusto per restituire un po’ di verità. C’è stato un processo e la famiglia Calabresi ha sempre ritenuto che quella fosse la verità e che i mandanti fossero Pietrostefani e Sofri. A meno che la famiglia Calabresi non ritenga che la verità sia un’altra. Io che li ho difesi continuo a dire che sono innocenti, ma le sentenze dicono un’altra cosa. Se si ritiene giusta la sentenza questa è la verità che chiude il cerchio. Oggi l’Italia chiude i conti con il passato? Non ci riesce. Capisco che non sia semplice, ma 50 anni dopo, un capitolo chiuso sotto ogni punto di vista, nonostante le ferite, potrebbe diventare storia. La soluzione politica poteva essere invocata da tempo, ma farlo in questo Paese è complicato. Qualcuno ha evocato la soluzione adottata da Togliatti nel dopoguerra, aspramente criticata da molti perché consentì a molti repubblichini che si erano macchiati di delitti di cavarsela dal punto di vista giudiziario. Ma volle dire anche chiudere un capitolo e impedire che questo meccanismo di giustizia si infiltrasse in vicende storico-politiche chiuse. È ovvio che questa cosa possa provocare dolore per le vittime. Ma la giustizia entra in campo per evitare le vendette. L’aspetto fondante della scelta sarebbe stato quello di collocare nella storia e non rivangare la memoria di questioni ormai cristallizzate negli albi delle cronache. Caselli: “Raschiato il fondo del barile dei precetti costituzionali ma mai andati oltre” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 aprile 2021 L’ex procuratore antiterrorismo e antimafia: “L’Italia uno Stato democratico che rispetta i diritti anche di coloro che lo volevano abbattere”. Non si spengono le polemiche sugli arresti degli ex terroristi italiani fuggiti negli anni 80 a Parigi. Oggi ne parliamo con il dottor Gian Carlo Caselli, già giudice istruttore a Torino che a lungo si è occupato di inchieste sul terrorismo (Brigate rosse e Prima linea): “per gli esiliati in Francia la giustizia italiana non ha mai meritato neppure un gesto di accettazione. Ed ecco gli arresti di questi giorni. Certo, oltre agli arresti servirebbero altre risposte. Per esempio sui misteri che tuttora avvolgono i casi Calabresi e Cirillo”. Dottor Caselli, qual è il suo parere su questi arresti in Francia? L’arresto di alcuni terroristi, sia pure con un ritardo di anni e anni, e con la “parentesi” dello scandalo della “facile” fuga di Battisti, cancella un retro-pensiero della Dottrina Mitterand. Ufficialmente si parlava di rottura col passato e nel contempo di una seconda vita nella società francese. In realtà c’era anche una arrogante discriminazione verso il nostro Paese. La grande Francia non accettava di venire a patti con la povera Italia. Disprezzava la nostra amministrazione della giustizia. Un giudizio fondato su una radicale - spesso ipocrita - deformazione della realtà. Il terrorismo di sinistra non è un fenomeno esclusivamente italiano. Ha colpito altre democrazie industriali. Caratteristica esclusiva del nostro Paese è l’aver dovuto registrare un terrorismo che ha raggiunto capacità offensive di entità e ferocia decisamente maggiori e assai più persistenti nel tempo (le “prime” Br durarono per circa 15 anni). A colpi di omicidi, gambizzazioni e sequestri di persona, i terroristi volevano dimostrare che il vero volto del nostro Stato non era democratico ma spietatamente repressivo, fascista. Non siamo caduti nella trappola, perché la risposta al terrorismo dal punto di vista legislativo ha raschiato - lo ha detto più volte la Corte Costituzionale - il fondo del barile della corrispondenza ai principi e precetti costituzionali, ma non è mai andata oltre. Lei è d’accordo con l’idea di Guido Salvini, espressa ieri su questo giornale, per cui le estradizioni sono “giuste” ma al fine di determinare l’esecuzione penale “valutiamo anche se gli ex terroristi sono cambiati e se sono ancora pericolosi”? Non si può che esser d’accordo. Se mai i terroristi arrestati in Francia saranno estradati in Italia, potranno constatare che il nostro, con tutti i suoi innegabili limiti e difetti, è uno Stato democratico che rispetta i diritti anche di coloro che lo volevano abbattere, colpendo persone innocenti, scelte dalle catacombe della clandestinità come simboli da eliminare per soddisfare la propria impazienza avventuristica. L’avvocato di Cesare Battisti ma anche Oreste Scalzone, ex leader di Potere Operaio, hanno parlato di “vendetta di Stato”. Come replica? Lo stato ha il diritto-dovere di applicare la legge se in giro per il mondo ci sono assassini impuniti, che non hanno mai fatto nulla per riparare i danni causati, in particolare risarcendo in qualche modo le vittime. Non si tratta di mostrare i muscoli sempre e comunque, rifiutando ogni altra via. È giusto, per quanto difficile sia, cercare forme di risposta capaci di ricomporre una comunità lacerata da violenze profonde. Ma senza sminuire o peggio cancellare il male con un tratto di penna. Il male resta male, quindi nessun buonismo, perdonismo, giustificazionismo. Sarebbe vanificare la giustizia, come in fondo fanno coloro che riconducono gli arresti alla categoria della “vendetta”. A distanza di più di 40 anni secondo Lei è giusto fare i conti con quel passato solo affidandoci a nuovi arresti? In Italia tutti i terroristi, salvo quelli assolutamente irriducibili, sono ormai liberi o godono di semilibertà. Si tratta in alcuni casi di “pentiti”, nella stragrande maggioranza di detenuti che hanno fruito della legge del 1987 sulla dissociazione. Una legge assai generosa - di fatto una sorta di amnistia - che sulla base di una semplice dichiarazione di abbandono della lotta armata con generica ammissione dei fatti commessi concedeva robusti benefici di commutazione (per es. dall’ergastolo alla reclusione) e riduzioni di pena. Un’opportunità di reinserimento per chi, condannato o sotto processo per fatti di terrorismo, volesse coglierla. Gli esiliati in Francia non ne han voluto sapere. Per loro la giustizia italiana non ha mai meritato neppure un gesto di accettazione. Ed ecco gli arresti di questi giorni. Certo, oltre agli arresti servirebbero altre risposte. Per esempio sui misteri che tuttora avvolgono i casi Calabresi e Cirillo (due degli arrestati in Francia ne sono stati protagonisti). Inoltre bisognerebbe una buona volta fare chiarezza sulle contiguità - a volte coperture - che un certo mondo ha riservato a chi praticava la violenza politica. Vorrei ricollegarmi ad una frase del cardinale Martini, pronunciata in un discorso tenuto a Milano alla vigilia della festa di Sant’Ambrogio del 2001: “Chi di noi ha l’età per ricordare i primi tempi della contestazione (fine anni 60- inizio anni 70) sa che la noncuranza e la leggerezza ostentata anche da chi avrebbe avuto la responsabilità di giudicare e di punire, rispetto ad atti minori di vandalismo e disprezzo del bene pubblico, ha aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi. Chi getta oggi il sasso e si sente impunito, domani potrà buttare la bomba o impugnare la pistola”. Secondo Lei è possibile salvaguardare, negli stati di emergenza, la sicurezza senza ledere i diritti? Qualcuno sostiene che in quegli anni ci siano stati tribunali e processi speciali. L’accusa di tribunali e processi speciali non regge in generale, ma in ogni caso è contraddetta dai processi che meglio conosco e sui quali posso interloquire con obiettive certezze: quelli celebrati dalla Corte d’assise di Torino prima ai capi storici delle Br (anni 1976/78) e poi alla colonna Br disarticolata dal “pentimento” di Patrizio Peci (anni Ottanta). Questi processi si sono svolti con piena osservanza delle garanzie processuali e della stessa identità politica dei detenuti, ai quali è stato consentito, ad esempio, di “controinterrogare” le vittime dei loro atti criminali (ovviamente quelle rimaste vive). E questo nonostante che le Br avessero concentrato sui processi di Torino un volume di fuoco spaventoso, uccidendo magistrati, avvocati e poliziotti, fino alla rappresaglia di stampo nazista sul fratello di Peci, sequestrato e ucciso solo perché fratello del primo brigatista “pentito”. Fu proprio il rispetto delle regole a vanificare l’assunto brigatista che “la lotta armata non si processa”, se non gettando la maschera ipocrita di una falsa democrazia. La caduta di questo assunto, grazie anche al sacrifico dell’avvocato Fulvio Croce e all’impegno coraggioso degli avvocati torinesi che dopo la sua morte hanno accettato il ruolo di difensori d’ufficio, determinò nelle Br una profonda crisi politica, che si combinò con il progressivo isolamento dell’organizzazione. Di qui l’inizio della loro fine. Fiammetta Borsellino: sulla strage di via d’Amelio nient’altro che la verità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 aprile 2021 Fiammetta Borsellino, nella trasmissione di Enrico Mentana su la7 ha parlato del dossier “mafia-appalti”, contestualizzando fatti e testimonianze. Dovevano essere le rivelazioni, dichiarate però inattendibili dalla procura di Caltanissetta, del pentito Maurizio Avola a essere l’oggetto principale dello “Speciale mafia” di la 7, condotto da Enrico Mentana, ma a rubare la scena e spostare l’attenzione sulle cause della strage di via D’Amelio che hanno portato all’uccisione di Paolo Borsellino, è stata la figlia Fiammetta Borsellino. Per la prima volta, in prima serata, si è parlato del dossier mafia-appalti e della sua gestione da un punto di vista totalmente inedito. A farlo, appunto, non sono stati i giornalisti presenti, Michele Santoro (autore del libro “Nient’altro che la verità”, uscito ieri) e Andrea Purgatori che sposa in toto il teorema trattativa e la caccia alle “entità” non meglio definite, ma una donna che ha deciso di andare controcorrente, non adeguarsi alla narrazione unica di una certa antimafia, ma semplicemente attenendosi ai fatti riscontrati nel tempo. L’unica a sostenerla, visto che ne è stato testimone, è stato l’ex giudice di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Ed è lui che ha ricordato il fatto che Paolo Borsellino gli chiese di fare presto per collegare le indagini siciliane con quelle di tangentopoli. Parliamo di grossi gruppi imprenditoriali del nord che erano collegati nella gestione mafiosa degli appalti. Ribadendo che in più occasioni il capitano dei Ros De Donno si rivolse a lui perché si interessasse del dossier mafia-appalti, dal momento che la procura di Palermo lo ignorava. Non solo. Contestualizzate le testimonianze di Agnese Borsellino - Per la prima volta, grazie al suo accorato e coraggioso intervento, Fiammetta Borsellino ha contestualizzato le testimonianze della madre, Agnese, su ciò che le disse Paolo Borsellino. Testimonianze che nel tempo sono state forzate, adattate al teorema giudiziario, manipolando anche taluni passaggi. Una su tutte quella che riguarda i magistrati: ma diversi giornalisti e taluni pm dimenticano di riportarla nella sua interezza. Ci ha pensato Fiammetta Borsellino a ricordarlo, creando un palpabile imbarazzo in studio. Ricordiamo la vicenda. A ventiquattr’ore dai fatti di via d’Amelio, Borsellino passeggiava senza scorta sul lungomare di Carini. Con lui, soltanto Agnese, sua moglie. “Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”. Queste parole esatte di Agnese furono messe a verbale in sede giudiziaria il 18 agosto 2009, preceduta da una frase: “ricordo perfettamente”. In un Paese normale dovrebbe essere compito dei giornalisti d’inchiesta a riportare i fatti, ma a farlo ci ha dovuto pensare la figlia di Paolo Borsellino. Borsellino quando era a Marsala già conosceva il dossier mafia-appalti - Altro scoop televisivo, ma sempre di Fiammetta Borsellino e non dei giornalisti presenti. Spiega che c’è un passaggio della sentenza trattativa che riporta il falso. Quale? Ecco cosa scrisse la Corte nella sentenza: i giudici spiegano come non vi è la “certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafia-appalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio”. Ebbene, Fiammetta Borsellino contesta aspramente questo passaggio, e lo fa con dati oggettivi. Ricorda che suo padre, quando era ancora alla procura di Marsala, ha subito voluto copia del dossier tanto da trovare spunto per sviluppare un filone di indagine sugli appalti di Pantelleria. Oltre a ciò, Borsellino stesso ha inviato il suo filone di indagine alla procura di Palermo pregando che confluisse nel dossier principale. Uno degli imprenditori citati in mafia-appalti aveva i verbali di interrogatorio di Leonardo Messina - A quanto pare sarebbe rimasta lettera morta, tanto che Borsellino lo ha ribadito nuovamente durante la sua ultima riunione del 14 luglio. Senza parlare del suo interrogatorio al pentito Leonardo Messina nel quale ha riscontrato ciò che era già scritto nel dossier mafia-appalti: il presunto rapporto del gruppo Ferruzzi - Gardini con la mafia di Totò Riina, tramite i fratelli Buscemi. Ed ecco che Fiammetta Borsellino, durante lo speciale di Enrico Mentana, lancia un altro scoop. Un fatto singolare mai riportato da alcun giornale, né tantomeno negli innumerevoli servizi giornalistici d’inchiesta. È accaduto che uno degli imprenditori che compaiono nel dossier mafia-appalti, è stato fermato dai Ros e gli hanno rinvenuto nello zaino i verbali di Leonardo Messina che erano riservati. Chi gliel’ha dati? Di certo non Paolo Borsellino. Ma com’è detto gli animi, durante la trasmissione tv, si sono surriscaldati e Purgatori ha mosso delle obiezioni a Fiammetta Borsellino sul fatto che i Ros avrebbero inviato i nomi dei politici in un secondo momento. Ed ecco cheviene rispolverata la teoria della doppia informativa. A questo punto per decostruire questa storia, trita e ritrita, basterebbe citare ciò che scrisse la Corte d’appello che ha assolto Calogero Mannino relativamente al processo stralcio sulla presunta trattativa Stato-mafia. Vale la pena riportarne qualche passaggio, perché è relativa proprio alla tesi dell’accusa per far credere che i Ros volessero proteggere i politici, in funzione della trattativa. “Non può tacersi il fatto che - scrive la Corte in merito a mafia appalti - un riverbero della grande rilevanza dell’indagine si ha in numerosi atti presenti nel processo (…) E deve inoltre osservarsi che la ricostruzione dell’organo dell’accusa appare in contrasto logico irrimediabile col fatto che i magistrati che dirigevano l’indagine dovevano tenere il controllo e la direzione, appunto, degli atti degli investigatori da loro delegati, ivi comprese quelle intercettazioni che si afferma non essere state inserite nell’informativa presentata alla Procura, e che in ogni caso avrebbero dovuto gestire e garantire anche successivamente il più adeguato sviluppo di una così significativa investigazione, che coinvolgeva il sistema corruttivo delle spartizione degli appalti pubblici in Sicilia”. La procura di Caltanissetta: non trovati riscontri sulle dichiarazioni di Avola - Poi va sul punto rispolverato da Purgatori: “È noto altresì che il Gip di Caltanissetta, investito della questione della gestione di quella indagine, arrivò alla conclusione di escludere l’ipotesi della doppia informativa”. Tutto scritto nero su bianco. Nel frattempo, a proposito dello scoop di Michele Santoro, la procura di Caltanissetta conferma che l’anno scorso, Avola, sentito in un interrogatorio, ha riferito della sua presenza in via D’Amelio, “a distanza di oltre 25 anni dall’inizio della collaborazione con l’autorità giudiziaria”. Il pool coordinato dal procuratore aggiunto Gabriele Paci ha subito iniziato l’indagine, alla ricerca di riscontri: “I conseguenti accertamenti - scrive ieri la procura nissena - finalizzati a vagliare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, riguardanti una vicenda ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie, non hanno trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità. Sono per contro emersi - precisano i pm - rilevanti elementi di segno opposto, che inducono a dubitare”. Quindi Santoro ha preso probabilmente un abbaglio, ma gli va dato atto che - al di là di Avola - ha riportato la mafia nella sua reale dimensione. Non eterodiretta, nessun terzo livello, ma autonoma e indipendente da qualsiasi altro potere. In fondo, è quello che Giovanni Falcone cercava di spiegare nei libri e nei suoi innumerevoli interventi. Stupefacenti, l’attenuante della lieve entità è applicabile anche allo spacciatore abituale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2021 La Corte di cassazione estende la medesima conclusione già affermata per lo spacciatore seriale. Lo spacciatore abituale va imputato per l’ipotesi attenuata del reato se le singole condotte sono di lieve entità. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n. 16478/2021 precisando - all’indirizzo del giudice del rinvio - che il giudizio per il riconoscimento o meno dell’attenuante va operato sui singoli episodi per cui si procede. Un metro di giudizio che va applicato anche in sede di applicazione e riesame delle misure cautelari personali. Contesta la Cassazione il ragionamento del giudice del riesame che ha invece escluso in radice la lieve entità a fronte della reiterazione della medesima condotta in un arco prolungato di tempo. Il reato va ritenuto “tenue” anche se si inserisce in una serie di episodi simili realizzati in un arco di tempo prolungato. L’accertata ripetizione del reato ha invece determinato il giudice della cautela non solo a ravvisare l’abitualità ma anche la gravità dello stesso. Ma è ragionamento che la Cassazione smentisce. Al contrario è compito del giudice attribuire il giusto peso alle singole condotte per cui si procede contro l’imputato per spaccio di stupefacenti. Infine, conclude la Corte di cassazione, la valutazione dell’entità del reato, come grave o lieve, va operata dal giudice a prescindere se vi sia esplicita richiesta della difesa sul punto. Non opera cioè alcuna presunzione che il reato di spaccio rientri nell’ipotesi più grave del comma 1 dell’articolo 73 del Dpr 309/1990, a meno di prova contraria. Il giudice di merito è perciò sempre tenuto a valutare se si rientri nell’ipotesi attenuata della lieve entità quale prevista dal comma 5 dello stesso articolo del testo unico. Torino. L’appello di 200 detenuti: “Condizioni insostenibili per la pandemia” di Irene Famà La Stampa, 30 aprile 2021 “Il carcere, così come è strutturato, non è proficuo né per i rei né per le vittime”. Oltre duecento detenuti della casa circondariale Lorusso e Cutugno lanciano un appello e chiedono l’ampliamento della liberazione anticipata a 75 giorni estesa a tutta la popolazione detenuta per fronteggiare l’emergenza Covid e il sovraffollamento delle carceri. “Il carcere, così come è strutturato, non è proficuo né per i rei né per le vittime” scrivono in una lettera indirizzata al ministro alla Giustizia, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al garante dei detenuti e a diverse associazioni. “Una bolla” - “Rieducazione e reinserimento sociale, annoverati dalla Costituzione, non sono la realtà” spiegano. Denunciando un sistema che “disattende principi fondamentali. Così ci troviamo in una “bolla” intrisa di contraddizioni oltre che di ingiustizie accentuate ancor più dalla pandemia”. Già a novembre, i detenuti e le loro famiglie avevano denunciato gli effetti della pandemia all’interno delle mura della casa circondariale del quartiere Vallette, lamentando la difficoltà di rispettare il distanziamento e di effettuare il tracciamento, la sospensione degli incontri con i familiari e il mancato rispetto degli orari delle videochiamate. Con le carceri sovraffollate, scrivono, “è fisicamente impossibile attuare ogni misura di tutela per la salute”. Torino. Il fratello di Riina resta in cella, niente differimento pena ansa.it, 30 aprile 2021 Ha 87 anni ed è malato. Legale: siamo molto delusi. Niente detenzione domiciliare o differimento della pena causa “infermità” per Gaetano Riina, fratello del boss Totò: lo ha deciso il tribunale di sorveglianza di Torino, che ha respinto un’istanza del suo legale. Gaetano Riina, che ha 87 anni, è detenuto nel carcere delle Vallette, alle porte del capoluogo piemontese, con un fine pena che secondo quanto si apprende è fissato per il 2023. Gaetano Riina è detenuto nel carcere delle Vallette in regime di alta sorveglianza. La pena che sta scontando gli è stata inflitta dalla Corte d’appello di Napoli per avere partecipato a un’associazione di stampo mafioso. Ha dei problemi di salute (è stato anche ricoverato per un mese nel reparto detenuti dell’ospedale Molinette) che, secondo una prima interpretazione della pronuncia del tribunale, sono state giudicate compatibili con la reclusione nella struttura torinese. “Siamo molto delusi. Ci aspettavamo un esito differente. Stiamo parlando di un uomo di 87 anni con dei seri problemi di salute”, dichiara l’avvocato Vincenzo Coluccio, che insieme al collega Giuseppe La Barbera ha assistito Gaetano Riina. Reggio Calabria. Morte del detenuto Roberto Jerinò, si indaga per omissione di atti d’ufficio di Rocco Muscari Gazzetta del Sud, 30 aprile 2021 Fissata l’udienza preliminare per decidere su due rinvii a giudizio. Per il decesso di Domenico Roberto Jerinò, di Gioiosa Jonica, avvenuta nel dicembre del 2014 all’Ospedale Bianco-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria, il Gup reggino ha fissato al 25 maggio la prima udienza preliminare a carico di due indagati. La Procura di Reggio Calabria, nella persona del Pm Giulia Maria Scavello ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per entrambi gli indagati, a vario titolo e con modalità differenti, per il reato di omissione d’atti d’ufficio. In particolare un medico in servizio nel carcere reggino di “Arghillà”, e il direttore facente funzione dell’Unità operativa di Neuroradiologia dell’azienda ospedaliera Bianco-Melacrino-Morelli avrebbero “omesso di adottare un atto dovuto” dei rispettivi uffici “che doveva essere compiuto senza ritardo” non prestando la necessaria assistenza sanitaria al detenuto Roberto Domenico Jerinò”. Ferrara. Detenuto si cucì la bocca per protestare contro le violenze subite in carcere estense.com, 30 aprile 2021 Dall’indagine su un “evento critico” avvenuto all’Arginone nasce il processo a carico di un sovrintendente e un ispettore della Penitenziaria. Un’indagine partita da un “evento critico” avvenuto nel carcere di Ferrara nel giugno del 2017: un detenuto si era cucito le labbra con del filo per protestare contro le vessazioni subite da parte di due agenti della Polizia penitenziaria. Quei due agenti, l’ispettore Roberto Tronca e il sovrintendente Geremia Casullo, sono oggi a processo accusati a vario titolo per una serie di reati che vanno dalla tentata violenza privata all’abuso di autorità contro detenuti nel carcere di Ferrara, con l’aggravante dell’odio razziale, fino all’istigazione e al concorso morale in danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Entrambi hanno già avuto a che fare con la giustizia: Tronca è stato condannato in abbreviato a un anno per tentata violenza privata nei confronti di un detenuto, mentre Casullo è attualmente tra gli imputati nel processo per tortura. Nell’udienza di ieri, giovedì 29 aprile, sono stati sentiti alcuni testimoni della pubblica accusa (pm Isabella Cavallari), tra i quali Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti, Stefania Carnevale che è la garante locale e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Enrico Sbriglia. Tutti e tre hanno riportato quanto appreso nella loro attività ascoltando i detenuti e di essere a conoscenza, ovviamente de relato, di precedenti comportamenti forse fuori dalle righe da parte dell’ispettore. Più nel dettaglio delle imputazioni è invece sceso il maggiore Gabriele Port, del Nucleo investigativo dei carabinieri, incaricato proprio di approfondire l’episodio della bocca cucita, su segnalazione proveniente dal carcere. Da uno che era, gli episodi da approfondire si moltiplicarono fino a tre e poi cinque. Quei “casi critici”, come si chiamano le manifestazioni di protesta o autolesionismo in carcere, pare che fossero collegati. “Altri due detenuti - ha spiegato Porta - volevano essere trasferiti: uno per attività lavorativa e un altro perché subiva vessazioni”. I carabinieri fecero degli “approfondimenti su percosse e istigazione agli atti di protesta per farsi trasferire”. Quelli che per l’accusa sono casi di (presunte) violenze e istigazioni da parte di Tronca e Casullo, per la difesa sono invece quasi una tecnica usata dai detenuti: “Sono episodi frequenti fra la popolazione carceraria - osserva l’avvocato Denis Lovison che difende entrambi gli imputati - perché consentono, in base alle circolari e alle disposizioni interne dell’amministrazione penitenziaria, di essere trasferiti rapidamente quando accusano qualcuno. Chi non è soddisfatto di un carcere e magari ha fatto tante volte richiesta per andare da un’altra parte e non viene accontentato basta che denunci un agente e, tempo zero, viene trasferito nemmeno troppo lontano”. L’uomo che si era cucito la bocca era Medhi Mejri, oggi irreperibile perché espulso dall’Italia a fine pena perché irregolare. In carcere, ha raccontato ai giudici la comandante della Penitenziaria di Ferrara, Annalisa Gadaleta, “era integrato, aveva partecipato a un flash mob, faceva l’arbitro di calcio e il barbiere. Voleva la semi-libertà. Non era riottoso e non era pericoloso”. Gli mancava ancora poco da scontare, sarebbe uscito a febbraio 2018, quando, il 7 giugno del 2017, si cucì la bocca e iniziò uno sciopero della fame. “Lo convocai in ufficio che aveva la bocca ancora cucita - ha detto Gadaleta -, lui diceva che voleva lavorare di più e che era stato picchiato da Tronca e Casullo. Dopo il colloquio si scucì la bocca”. Mejri raccontò la stessa cosa anche al direttore del carcere, Paolo Malato, ma non denunciò mai le percosse ricevute, né ci sono agli atti referti medici che dimostrino eventuali lesioni, anche perché non sembra chiaro l’arco di tempo in cui sarebbero avvenute le violenze, se mai sono avvenute. Pochi giorno dopo, il 17 giugno, un sabato, si apprende sempre dal racconto della comandante, accadde qualcosa di molto inusuale. Un detenuto, Zied Baghouri (incarcerato per omicidio e deceduto suicida nel carcere di Reggio Emilia), con problemi psicofisici e che già aveva manifestato insofferenza per la detenzione nel carcere estense, diede vita a “episodi di autolesionismo e danneggiamento della cella perché voleva essere trasferito”. La cosa strana è che “in quella serata diversi detenuti avevano posto in essere eventi critici”, cinque in tutto, tra i quali anche Mejri. “La cosa mi stupì un po’ - ha osservato Gadaleta - informai il direttore che parlò con tutti i detenuti e la cosa rientrò verso le 22. L’indomani il direttore mi disse che i detenuti gli avevano detto che Tronca e Casullo gli avevano suggerito di fare così per essere trasferiti”. Alla comandante “sembrava molto strano che non ci fosse una motivazione per quegli atti, è raro che non dicano il motivo, ma Tronca mi disse che non c’era, tranne che per Baghouri che non credeva alle parole del direttore Malato”. Il lunedì successivo venne coinvolto il magistrato di sorveglianza “che rimase dall’ora di pranzo fino alle 18-19”. Poi nel giro di poche ore vennero effettivamente trasferiti tutti e cinque. L’udienza è stata aggiornata al prossimo 19 maggio. Roma. Detenuta uccise i figli a Rebibbia, psichiatra del carcere a processo di Alessia Rabbai fanpage.it, 30 aprile 2021 La psichiatra del carcere di Rebibbia, che aveva in cura Alice Sebesta e che avrebbe dovuto vigilare sul suo stato di salute, è stata rinviata dal giudice dell’udienza preliminare a processo per il reato di omicidio colposo. Non visitò la detenuta che uccise i suoi due figli piccoli nel settembre del 2018. Processo per omicidio colposo. A finire davanti ai giudici la psichiatra del carcere che avrebbe dovuto vigilare sullo stato di salute mentale di Alice Sebesta, la trentaquattrenne tedesca detenuta per reati di droga, che ha ucciso i suoi due figli di sei mesi e due anni, lanciandoli dalle scale del Reparto Nido del carcere di Rebibbia il 18 settembre del 2018. Il giudice dell’udienza preliminare ha rinviato la psichiatra a giudizio, con un processo la cui celebrazione inizierà il 13 aprile del 2022, il prossimo anno. l giudice ha accolto l’accusa formulata dalla procura e cioè che la dottoressa che l’aveva in cura avrebbe omesso “per colpa, determinata da imprudenza, negligenza ed inosservanza di legge”, “di sottoporre a visita psichiatrica la detenuta e somministrarle le cure conseguenti anche farmacologiche, sebbene avesse ricevuto ripetute richieste di intervento, conseguenti a comportamenti evidenti di scompenso psichico” sono le parole messe nero su bianco dal pm e riportate da La Repubblica. Una condizione quella in cui verteva lo stato di Alice, talmente grave, di “totale infermità di mente”, che l’ha spinta ad uccidere i suoi due bambini. Alice Sebesta è stata assolta - Il dramma che si è consumato tre anni fa nel settore femminile del carcere di Rebibbia ha scosso la città. Alice è stata assolta nel dicembre del 2019 dal gup Anna Maria Gavoni dall’accusa di omicidio volontario per vizio totale di mente al termine del processo che si è celebrato con il rito abbreviato. Secondo i giudici date le sue condizioni di salute doveva essere tutelata e non trovarsi in carcere, bensì in una Rems, una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. La donna ora è all’interno di una struttura di di Castiglione delle Stiviere, perché affetta da disturbi mentali e ritenuta socialmente pericolosa, dove resterà per quindici anni e riceverà le cure necessarie. L’omicidio di Faith e Divine - Alice, secondo quanto appreso in sede d’indagine, aveva già manifestato un’insofferenza verso i figli, prima di arrivare a compiere il delitto. Dopo averli uccisi, in uno stato delirante, ha affermato: “Li ho liberati, ora stanno bene”. I due bambini Faith e Divine sono stati lanciati dalla tromba delle scale, la bimba, di sei mesi, è morta sul colpo, mentre il maschietto di due anni è deceduto qualche giorno dopo all’ospedale pediatrico Bambino Gesù, dov’è arrivato in condizioni disperate per il grave trauma cranico e dove i medici, trascorse alcune ore ne hanno dichiarato la morte cerebrale. Livorno. Sughere e Gorgona, la denuncia del Garante: “Gravi carenze di personale” livornotoday.it, 30 aprile 2021 Marco Solimano chiede l’intervento delle autorità: “Situazioni intollerabili. Nel carcere isolano manca da marzo la figura dell’educatore”. Giovanni De Peppo aveva denunciato le condizioni di precarietà di alcuni reparti, ora il nuovo garante dei detenuti del Comune di Livorno, Marco Solimano, pone l’attenzione sulla carenza di personale riguardante le carceri delle Sughere e della sezione staccata dell’isola di Gorgona. Una situazione definita “inaccettabile” e che non consente “un corretto espletamento dei servizi e delle funzioni all’interno delle due strutture”. Particolarmente grave, secondo Solimano, è quanto sta accadendo in Gorgona dove manca un educatore visto che l’ultimo presente è andato in pensione a febbraio e ancora non sarebbe stato rimpiazzato. Il garante ha fatto presente tutto questo al prefetto che ha assicurato la massima collaborazione. Solimano descrive senza troppi giri di parole quanto sta accadendo nei due penitenziari: “Da oltre un mese è in corso uno stato di agitazione del comparto funzioni centrali che vede coinvolti impiegati, educatori, funzionari. Si denuncia una grave carenza di personale, oramai segnalata da anni, che non consente un sollecito espletamento dei servizi e delle funzioni e che mina profondamente la qualità del lavoro stesso. Situazione che viene ad aggravarsi con l’accorpamento, avvenuto nel 2013, del comparto amministrativo fra Livorno e Gorgona. Accorpamento che non viene accompagnato da un aumento del personale, già di per se carente per almeno il 30% dell’organico e che crea difficoltà importanti sull’Istituto livornese”. “Oramai la situazione - continua Solimano - ha raggiunto livelli di criticità molto preoccupanti, soprattutto nell’ufficio contabilità e conti correnti che ha una ricaduta pesantissima sulla vita quotidiana dei detenuti. Si pensi a tutta la movimentazione del denaro dei reclusi, alla possibilità di acquistare generi di prima necessità in tempi certi, al ritardo pesantissimo dei vaglia in entrata ed in uscita”. “Gorgona senza educatore, inaccettabile” - Il garante dei detenuti poi analizza più nel dettaglio i problemi del carcere isolano: “A febbraio è andato in pensione l’unico educatore e non è stato ancora sostituito, ma si preferisce supplire con missioni di personale da Livorno una o due volte la settimana, senza garanzia di continuità. La sua figura assume un ruolo centrale e strategico nell’osservazione e nella definizione di possibili scenari futuri, nella costruzione di percorsi di graduale fuoriuscita dalla realtà penitenziaria, nell’accesso a misure alternative o permessi. Tutto questo è inaccettabile”. “Il prefetto ha assicurato la massima attenzione” - Solimano chiede che le autorità si prendano carico di questi problemi: “Le legittime motivazioni alla base dello stato di agitazione devono trovare una risposta urgente e rassicurante da parte del Provveditorato regionale ripetutamente sollecitato. Inoltre rappresentanze del personale sono state ricevute anche dal prefetto di Livorno che ha assicurato la sua massima attenzione. Restituire dignità ed efficienza agli uffici amministrativi che erogano anche servizi fondamentali per la vita dei detenuti è oramai improcrastinabile, alla luce anche di una condizione particolarmente complessa e difficile imposta dalla epidemia Covid fatta di isolamento, impossibilità di accesso a percorsi socio-riabilitativi, impossibilità di abbracciare i propri familiari”. Il virus ci ha fatto scoprire che non esiste soltanto la prigione di Francesca Ghirardelli Avvenire, 30 aprile 2021 L’allarme dell’Onu: oltre mezzo milione i detenuti infettatati nel mondo. Molte strutture hanno applicato misure alternative. “La vera opportunità ora è quella di osservare il loro impatto sul tasso di criminalità”. Fino ad ora il Covid-19 li ha colpiti “in maniera sproporzionata” e per avere un’idea di quale sia questa sproporzione basta dare uno sguardo alle cifre. Le fornisce Philipp Meissner, esperto di riforme carcerarie per Unodc, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine: “Fra gli oltre 11 milioni di detenuti negli istituti penitenziari a livello globale, si stima che siano più di 527.000 quelli che sono stati contagiati dal virus”. Luoghi chiusi per definizione, spesso sovrappopolati alle più diverse latitudini, le carceri sembrano ambienti perfetti per la propagazione del Covid-19: “La maggior parte degli Stati membri dell’Onu continua ad affrontare problemi acuti di sovraffollamento, con oltre 50 Paesi che gestiscono carceri a più del 150% della capienza effettiva”, ha riferito Ghada Waly, direttrice esecutiva di Unodc, all’apertura dei lavori della sessione speciale dedicata a questo tema durante l’ultimo congresso dell’agenzia in Giappone, il mese scorso. Tenere tutti sigillati, tra panico, quarantene e sospensione delle attività di gruppo e delle visite dei familiari, ha alimentato conflitti, violenze e rivolte in una cinquantina di Paesi. Così, per ridurre rischi e tensioni, molti Paesi hanno cercato di diminuire la propria popolazione carceraria, facendo ricorso a rilasci anticipati e libertà condizionata: “Quasi 700.000 detenuti sono stati rilasciati in tutto il mondo durante la pandemia, con un’attenzione particolare a chi era a rischio in caso di contagio, a chi vedeva avvicinarsi la fine della pena o a coloro il cui rilascio non avrebbe messo a repentaglio la sicurezza pubblica”, prosegue la direttrice di Unodc. Su questo particolare aspetto, che potrebbe offrire l’occasione per trarre qualcosa di positivo dalla terribile esperienza, si è espresso Peter Severin, presidente dell’Associazione internazionale degli istituti di correzione e prigioni Icpa di Bruxelles, rete globale non profit: “In generale quest’esperienza ha messo in luce la possibilità di utilizzo di misure alternative alla reclusione: le abbiamo applicate come risposta alla pandemia, ma ora la vera opportunità è quella di osservare il loro impatto sul tasso complessivo di criminalità. Se l’impatto di libertà condizionata e rilasci anticipati non c’è stato (cioè se non è stato negativo), allora quest’esperienza potrebbe servire da ispirazione per le future leggi e nuove politiche che vadano proprio in questa direzione”. Locale e globale insieme: le lezioni della pandemia di Alberto Mingardi Corriere della Sera, 30 aprile 2021 Viviamo in un mondo complesso e avremo sempre davanti problemi nuovi e diversi. Ci piacerebbe avere certezze che vadano bene per tutti, ma non è possibile. Dove è meglio decidere? Il Covid-19 ci ha insegnato che locale e globale sono forse più complementari di quanto ci piaccia pensare. Da una parte, per affrontare la pandemia serve attivare conoscenze diffuse sul territorio. Più importante di sapere quanti letti di terapia intensiva sono pieni, in un certo giorno, in Italia, è monitorare quanti lo sono in una certa regione, in una certa città, in un certo ospedale. Per quanto imperfetto possa essere il regionalismo italiano, è difficile immaginare che si potesse tenere il polso del contagio senza passare dai governi locali. Dall’altra, se abbiamo qualche speranza di lasciarci alle spalle il Covid e tornare alla vita di sempre è grazie a imprese multinazionali, a laboratori di ricerca che operano in stretto contatto a prescindere dalle frontiere, a una comunità scientifica che è autenticamente mondiale e che grazie alle tecnologie riesce a condividere informazioni in presa diretta. Un evento drammatico come la pandemia crea non solo una domanda di intervento politico, di aiuti e sostegni, ma anche di novità risolutive, permanenti. Dobbiamo costruire una “nuova normalità”. Ne “usciremo migliori”, si dice. Proprio la sofferenza e le difficoltà ci inducono a immaginare cambiamenti rivoluzionari e in qualche modo definitivi. Questo anima, nel nostro Paese, due partiti. Da una parte quelli che confidano che l’Unione Europea cresca attraverso le crisi, che meccanismi come il quantitative easing della Banca centrale europea e lo stesso Recovery Fund siano ormai permanenti, rinsaldando Bruxelles a spese delle vecchie capitali. Dall’altra coloro che ritengono che gli Stati nazionali, che hanno dosato la carota dei ristori e il bastone delle serrate obbligatorie, abbiano ripreso centralità e siano sempre meno inclini ad accettare compromessi con gli altri Stati membri o la comunità internazionale quando c’è in ballo il loro interesse nazionale, comunque definito. In pratica le posizioni degli uni e quelle degli altri sono più vicine di quanto appaia. La classe politica può soffrire il “vincolo esterno” ma oggi quel vincolo non esiste più: l’Ue rappresenta un fattore di accelerazione, non di freno, della spesa pubblica. Il massimo della rivolta contro la globalizzazione passa per l’eliminazione di uno dei pochi spazi di concorrenza fiscale disponibili, quello sulla tassazione dei profitti d’impresa. Seguendo il progetto di Janet Yellen, gli Stati sembrano ben felici di rinunciare a un po’ di sovranità, per tutelare la propria base imponibile. In realtà dalla pandemia dovremmo forse trarre le lezioni opposte a quelle che ci sembrano intuitivamente più plausibili. Il commercio internazionale ha retto sorprendentemente bene, in un anno segnato da profonde limitazioni alla libertà di movimento. In molti hanno biasimato la complessità delle filiere produttive, che spesso attraversano non solo Paesi ma continenti diversi: eppure le imprese, quando hanno potuto, si sono dimostrate straordinariamente flessibili. I banchi dei supermercati sono rimasti affollati dei prodotti più vari; nell’incertezza e nella crisi, non abbiamo sperimentato la scarsità dei beni da comprare. Merito unicamente dell’iniziativa privata, o anche del pragmatismo di Stati e organizzazioni internazionali che hanno saputo non solo introdurre vincoli ma anche, per una volta, rilassarli per evitare contrazioni del commercio internazionale? Il regime di tutela dei diritti di proprietà intellettuale sarà senz’altro discutibile, ma è un po’ curioso che lo si trascini sul banco degli imputati dopo che ha consentito nel corso di un anno lo sviluppo di 78 vaccini Covid, alcuni dei quali ci stanno liberando dall’incubo pandemico. Mossi dalla più politica delle passioni, la paura, abbiamo quasi tutti desiderato che i mezzi coercitivi dello Stato guadagnassero terreno sui mezzi economici del mercato: è difficile però sostenere che abbiano funzionato meglio. Come spesso accade le intenzioni dei nostri governanti erano impeccabili, i loro risultati un po’ meno. Non è nemmeno detto che decisioni concertate fra gli Stati siano di per sé sempre auspicabili. Nella lotta al Covid ci siamo accorti di navigare in acque inesplorate. Quando non conosciamo abbastanza per deliberare, non è che faremo le scelte giuste soltanto perché le stiamo facendo assieme. Che Paesi diversi abbiano contrastato il virus in modi diversi è stata una straordinaria occasione di apprendimento. Dalla campagna vaccinale israeliana e inglese - e dai problemi di quella cilena con il vaccino cinese - abbiamo tratto informazioni che ci verranno utili. Sarebbe stato meglio se tutti avessimo seguito la stessa strada? Proprio perché viviamo in un mondo complesso dobbiamo sapere che abbiamo, e avremo sempre davanti, problemi nuovi e diversi. Ci piacerebbe avere delle certezze, che vanno bene ovunque e per tutti, ma la verità è che il massimo che possiamo fare è cercare di procedere, faticosamente, per tentativi ed errori. Al pluralismo dei problemi difficilmente può corrispondere un monopolio delle soluzioni. Così l’Europa aiuta la Libia a respingere i migranti di Sara Creta Il Domani, 30 aprile 2021 Viaggio a bordo della motovedetta della Guardia costiera libica che intercetta e riporta nel paese chi fugge dalle guerre, dalla fame e dai centri di detenzione. “Here Libyan Coast Guard, plane in the air, can you read me? (“Qui Guardia costiera libica, aereo in volo, mi ricevi?”)” È il 28 marzo del 2021, una comunicazione radio registrata a bordo della motovedetta libica Fezzan svela le modalità attraverso cui la Guardia costiera libica viene coordinata, con il supporto dei mezzi aerei europei, per riportare i migranti verso la Libia. Quel 28 marzo, alle 14:18, la motovedetta libica Fezzan, classe Corrubia, un tempo di proprietà della nostra Guardia di finanza, si trova a una cinquantina di miglia dalla costa di Zwara, città di partenza delle barche dirette in Italia. Una comunicazione via radio ripete le coordinate “34d23N, 13d12E”. Serviranno sei tentativi per riuscire a trascrivere la posizione sul foglio di carta spiegazzato. Le comunicazioni sono disturbate, una conferma delle notizie pubblicate da Domani nelle settimane scorse: spesso comunicare con i libici è impossibile, si perdono ore cruciali per salvare vite, che il più delle volte finiscono inghiottite dal Mediterraneo. Siamo a bordo della motovedetta e con una telecamera riprendiamo dall’inizio alla fine il respingimento in Libia che viene portato a termine con la complicità dell’Europa. “Radio Sabratha, ho ricevuto una posizione via radio. Puoi confermare chi me l’ha inviata? È una richiesta di aiuto?”, comunica l’ufficiale libico via radio. Segue una risposta incomprensibile. Riprende la navigazione a 14 nodi. Siamo nel cuore del Mediterraneo centrale, nell’area di competenza maltese, un gommone di colore grigio con 11 persone a bordo è in difficoltà. A 9 miglia di distanza c’è la petroliera Saint George. Il centro di coordinamento di Malta assume il comando, l’aereo coordina l’operazione dall’alto ma chiede di non essere identificato. A bordo della motovedetta Fezzan prende sempre più forma il respingimento di chi fugge dell’inferno. “Aereo europeo nell’area”, mi dispiace ma al momento non posso dare altre informazioni, ripete il pilota durante una comunicazione radio con la nave Saint George. La stessa voce, sempre sul canale 16 chiede alla piattaforma Bouri: “Habibi, puoi aiutarmi a contattare Fezzan?” La posizione è trasmessa mentre il velivolo Osprey 1 di Frontex - l’Agenzia per la sicurezza delle frontiere esterne all’Unione europea - si trova in prossimità della barca dei migranti da salvare. Nella zona c’è anche il beechcraft King Air delle Forze armate maltesi. Il capitano della Fezzan, un uomo scarno e silenzioso, scarabocchia le coordinate delle barche di migranti che saranno intercettate. Teoricamente la Fezzan può viaggiare a una velocità di 24 nodi. “Ma poi usiamo troppo carburante”, dice il capitano, “e il motore potrebbe esplodere”. In poche ore l’equipaggio ha già tirato fuori dall’acqua circa 200 migranti, ma ha dovuto lasciare in balìa delle onde una barca di legno con oltre 150 persone. La Fezzan è già troppo piena. Le persone recuperate si accalcano sul ponte, gli occhi sono pieni di paura. “State seduti”, ripetono i libici a più riprese. Sheik è un giovane del Gambia, ha solo 16 anni. È al suo quinto tentativo di fuga, sopravvissuto a un naufragio in cui ha visto morire i suoi compagni di viaggio. “Sono terrorizzato, non so dove mi porteranno”, sussurra. Riprendono le comunicazioni via radio e nella piccola sala a bordo della Fezzan fa eco la voce di un pilota con accento maltese “posizione ponente”. Il pilota in volo ripete la posizione, prima in arabo e poi in inglese: il capitano della vedetta libica 658 Fezzan annota le coordinate sul foglio spiegazzato che ha tenuto in mano tutta la giornata. Un ufficiale inserisce le coordinate nel computer di bordo. Mani libere ai libici di operare. “ Rubber boat, rubber “, ripete il pilota, per specificare che si tratta di un gommone. Sono passate 3 ore circa dalla prima comunicazione via radio. Continua la navigazione. Sul ponte della Fezzan ci sono almeno 200 persone. Puntini di luce isolati a metà tra la notte e il buio del mare riflettono tra le onde. Sono i fari della petroliera Saint George partita da Zuwara in direzione del porto di Milazzo. I libici cercano un gommone grigio nel buio della notte. La posizione dell’imbarcazione: 34d21N, 13d10E Zona di ricerca e soccorso (Sar) Maltese. Sono le 21.41: “Operazione completata”, comunica Mahmoud con la sala operativa a Tripoli. Undici persone salgono a bordo della Fezzan. La Fezzan alle 01:21 raggiunge il porto di Tripoli, Sheik e gli altri sono ammanettati e costretti a salire sugli autobus - forniti dall’Europa - del Dipartimento per il controllo dell’immigrazione del ministero dell’Interno libico. I respinti da Malta e dall’Europa non hanno alternativa. Per loro c’è solo il pavimento del centro di detenzione di Tripoli Al-Mabani, dove sono rinchiuse tre persone per metro quadrato. Qualche settimana più tardi, nello stesso centro, un morto e due feriti: il bilancio di una sparatoria avvenuta durante un tentativo di fuga. Due adolescenti di 17 e 18 anni con ferite da arma da fuoco saranno trasferiti per cure mediche urgenti da un team di Medici senza frontiere in una clinica di Tripoli. Ai libici il lavoro sporco - Il 25 marzo, tre giorni prima del respingimento documentato da Domani a bordo della Fezzan, a Tripoli si è appena conclusa una missione congiunta dei tre ministri degli Esteri di Italia, Francia e Germania. L’Unione europea vuole recuperare terreno, ma soprattutto credibilità e rimandare a Tripoli il proprio ambasciatore. Ma la partita non è semplice. La Turchia è diventato il principale alleato militare di Tripoli e le promesse non mantenute dell’Europa lasciano spazio ancora una volta a scetticismo. Sono passati quattro anni dalla promessa - a oggi non mantenuta - di creare una centrale operativa di coordinamento marittimo a Tripoli. Un fitto intreccio di rapporti bilaterali, guidati dall’Italia e finanziati dall’Ue per legittimare respingimenti collettivi. “Avrebbe dovuto esserci una sessione di studio, una simulazione del processo di ricerca e soccorso, lo sviluppo delle capacità del team, un centro di ricerca e soccorso da istituire, laboratori per lavori di manutenzione... Niente di tutto ciò è stato eseguito”, racconta il capitano della Guardia costiera libica Abugella. Resta solo sulla carta il progetto del Centro marittimo per la ricerca e il soccorso in Libia, in gergo Lmrcc (Libyan marittime rescue coordination centre project). “La guerra e il Covid hanno ritardato la creazione del Lmrcc”, è la risposta della Commissione europea, che aggiunge “il piano è stato riadattato”. Come? La nuova “soluzione” prevede un Mrcc-container e corsi di formazione per un totale di 2,7 milioni di euro. Seguiranno altre consegne previste per i prossimi mesi: sei gommoni rigidi per la Guardia costiera libica e l’Amministrazione generale per la sicurezza costiera, ufficialmente sotto il ministero degli Interni. E ancora, “tre nuove navi di ricerca e soccorso per la Guardia costiera libica, un piano di manutenzione di accompagnamento e lo sviluppo di un ulteriore centro mobile di coordinamento marittimo”. La nuova unità mobile Mrcc sarà operativa solo nel 2022 e prevede un costo di 1,7 milioni di euro. L’istituzione dell’area di ricerca e soccorso (Sar) libica e la sua fattibilità si devono al governo italiano “con la notifica formale dell’area Sar Libia all’Organizzazione marittima internazionale e con la conduzione di uno studio per l’istituzione di un centro di coordinamento del salvataggio marittimo libico”. L’Europa ha pagato e l’Italia ha progettato. Le navi dell’operazione Nauras nell’ambito delle attività di Mare sicuro della Marina militare italiana, presenti a rotazione nel porto di Tripoli dalla fine del 2017, forniscono supporto tecnico ma anche coordinamento tra le forze navali libiche e quelle italiane ed europee per la ricerca e soccorso. C’è anche un finanziamento di 46 milioni di euro (42 provenienti dal Fondo fiduciario d’emergenza per l’Africa) per attività attuate dal ministero dell’Interno italiano e destinate ad addestrare i libici, istituire la zona Sar libica, rafforzare le capacità operative, fornire mezzi ed equipaggiamento per il controllo delle frontiere marittime e terrestri. Secondo la deputata europea Özlem Demire il budget originario di 46 milioni di euro è stato abbassato a 15, ma la Commissione non è in grado di specificare con esattezza la posizione della sala operativa libica per la ricerca e soccorso (Sar). Nei registri dell’organizzazione marittima internazionale la sede del centro coordinamento marittimo è l’aeroporto - ormai in disuso - situato nella città di Ben Ghashir, a circa 34 chilometri a sud di Tripoli. Una delle zone dove i combattimenti degli ultimi anni sono stati i più intensi. Fonti istituzionali (come il sito della polizia di stato e quello di Invitalia) permettono di rintracciare le fasi del progetto europeo di esternalizzazione della frontiera europea e scoprire che a fronte dei 46 milioni di euro previsti nel 2017, a settembre 2020 ne risultano spesi meno di 6 milioni. Il ministero dell’Interno italiano prima e il Tribunale amministrativo del Lazio hanno prontamente e genericamente rigettato le richieste di accesso ai documenti e alle informazioni relative all’utilizzo delle risorse finanziarie dei programmi europei in Libia. Motivazione: “Un’eventuale pubblicazione di informazioni attinenti a strutture, equipaggiamenti e servizi delle istituzioni di stati esteri, ottenute attraverso rapporti operativi, infatti, sarebbe anche contraria ai principi di correttezza che usano caratterizzare le relazioni internazionali”. Diverse associazioni europee, tra cui anche gli avvocati italiani di Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) avevano già sottolineato la difficile compatibilità del Fondo fiduciario per l’Africa con i requisiti previsti da Bruxelles per la gestione dei fondi dell’Unione. “Manca una chiara e coerente definizione degli obiettivi”, è la denuncia, ma ci si interroga soprattutto sul tema dell’impatto di alcune di queste attività sui diritti fondamentali di migranti. Nei documenti riservati dell’Unione europea, le autorità di Bruxelles ribadiscono le preoccupazioni per la sorte dei migranti che nel paese “continuano a essere oggetto di detenzione arbitraria e tortura, sia nelle carceri ufficiali che non ufficiali”. Le attività finanziate dall’Unione comprendono la fornitura di imbarcazioni all’amministrazione generale per la sicurezza costiera (Gacs) - un nuovo sceriffato di milizie integrato al ministero degli Interni - e quella di trenta Land Cruiser Toyota e dieci Minibus Iveco, al dipartimento per il controllo dell’Immigrazione del ministero dell’Interno, nonché l’appalto per la fornitura di 14 ambulanze per il pronto soccorso. Si aggiungono anche altri servizi di “assistenza tecnica e consulenza specialistica, appaltati a società di consulenza esterne e formazione”. I beneficiari - Tra gli uomini della Guardia costiera gli ufficiali di carriera sono pochi. Stabilire una struttura lineare per gestire il Centro marittimo per la ricerca e il soccorso libico è una missione intricata. Marina militare e Guardia costiera sono un unico corpo e rispondono al ministero della Difesa, le cui deleghe ancora oggi rimangono nelle mani del premier Dbeibah. Se gli incarichi politici sembrano essere più noti - in cima, c’è il capo di stato maggiore, il generale Mohammed el-Haddad - quelli più operativi sembrano affidati a tutti e a nessuno. Gli unici rappresentanti veri sono appunto il colonnello Reda Eissa, capo della Guardia costiera libica, e il capo della Marina libica, il maggiore Noureddin Elboni. Salem Elkabir, dipendente della Libyan civil aviation authority, è l’unico nome che si legge tra i responsabili delle comunicazioni a terra. E tra gli indirizzi mail ufficiali compaiono due indirizzi gmail. Il documento riservato - L’evoluzione delle relazioni con la Guardia costiera libica è parafrasata in un inedito report interno del 2 febbraio 2021, intitolato Monitoring mechanism libyan coast and navy, redatto da EunavForMed-Operazione Irini, la missione navale europea guidata dall’ammiraglio Fabio Agostini. Nel documento di monitoraggio si rileva “la situazione critica nei centri di detenzione, la scarsa attrezzatura, i salari inadeguati, la mancanza di carburante per le imbarcazioni”. In una recente inchiesta Domani, in collaborazione con il Guardian e Rai News, aveva documentato l’inerzia della polizia marittima libica: in un giorno di naufragi con centinaia di morti erano state effettuate oltre 50 chiamate senza risposta verso la centrale di Tripoli. Nessuna risposta, mentre bambini, donne e uomini affogavano. Nel report si accenna a una ripresa delle attività di monitoraggio e formazione della Guardia costiera libica, legata però alla fornitura delle attrezzature, in particolare “imbarcazioni idonee all’attività Sar e aerei”. Vite a rischio - Negli ultimi anni Frontex ha notevolmente rafforzato le sue capacità di sorveglianza. L’Agenzia dell’Unione europea ha appena pubblicato una gara di appalto per voli di sorveglianza del valore di 101,5 milioni di euro. E in base al nuovo regolamento, sarà in grado di acquistare la propria flotta. I funzionari di Frontex sono consapevoli del fatto che stanno principalmente aiutando a tenere i rifugiati lontani dalle coste dell’Europa. “Sappiamo che il centro di coordinamento di Tripoli non funziona, informiamo gli italiani e tutti gli Mrcc dei paesi vicini”, racconta un funzionario di Frontex. Il parlamento europeo è preoccupato. In una lettera all’attuale commissario Ylva Johansson e al direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, i deputati europei democratici e socialisti della commissione per le Libertà civili e gli affari interni hanno chiesto chiarimenti sulle modalità operative incluse nel nuovo accordo tra Frontex e l’operazione Irini. “Scambio di informazioni, operazioni di sorveglianza e ricognizione con Frontex e la missione Irini”, racconta un capitano libico che dice di ricevere le foto delle imbarcazioni di migranti direttamente sul suo telefono personale. Dopo mesi di ricerche, Domani, in collaborazione con Lighthouse Reports, Der Spiegel, Liberation e la televisione tedesca ARD Monitor, grazie a dati open source, interviste con i sopravvissuti, dipendenti di Frontex, membri della Guardia costiera libica, oltre alla visualizzazione di documenti, foto e video esclusivi, ha ricostruito l’andamento di 94 tentativi di traversata, avvenuti tra gennaio e novembre 2020 nel Mediterraneo centrale, in cui oltre 3.000 persone sono state intercettate dalla Guardia costiera e riportate in Libia. 91 persone sono morte durante le operazioni o sono considerate disperse, probabilmente in parte perché il sistema istituito dagli europei comporta notevoli ritardi. Più volte i funzionari dell’Agenzia hanno dovuto fare i conti con i naufragi. In almeno 20 casi, gli aerei di Frontex hanno volato in prossimità delle imbarcazioni di migranti da salvare, ma nella stragrande maggioranza, alla fine sono intervenuti i libici. L’ultima volta è capitato il 21 aprile al largo della Libia, 130 i morti. “Li hanno lasciati annegare”, hanno denunciato gli attivisti di Alarm Phone (un servizio umanitario di soccorso, ndr). “La nostra priorità è salvare vite umane”, ha risposto alla richiesta di commento Frontex, aggiungendo che “quando sono in gioco vite umane facciamo il possibile per fornire informazioni alle autorità coinvolte nelle operazioni di soccorso, con email, ma anche telefonate e messaggi. In casi estremi mayday e chiamate radio, come la scorsa settimana con la nave Ocean Viking che abbiamo guidato verso una barca in pericolo”. Una mail ricevuta dal capitano Emil Przybylski della nave portacontainer ALK il 21 aprile parla chiaro. Alle 17:20 un messaggio di soccorso è stato inviato dal Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma, a nome della Guardia costiera e della Marina libica. “Richiesta di prestare assistenza a un gommone in pericolo con circa 120 persone in posizione 33d26N, 13d57E”. Segue una mail il 22 aprile 2021 alle 00:24 inviata dal centro operativo di Roma. Oggetto: Schemi Ricerca per evento 371 / 2021. Roma scrive “per conto della Guardia costiera e della Marina libica”. Egitto. “La storia di Regeni”, video-trash come ultimo depistaggio di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 aprile 2021 Compare in rete un filmato egiziano che ripropone vecchie tesi, con interviste all’ex ministra Trenta, al generale Tricarico e a Gasparri. Rinviata al 25 maggio l’udienza preliminare per i quattro 007 egiziani per i quali la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio. Chi ha ordinato, programmato e sceneggiato il video fatto circolare in rete da mercoledì sera, come ultima azione di depistaggio sull’omicidio di Giulio Regeni, forse non è del tutto consapevole che agli occhi degli italiani, ormai disabituati ai regimi totalitari da parecchi anni e ad una certa propaganda naive, quella “ricostruzione” dei fatti mostra soltanto l’interesse da parte egiziana a insabbiare sotto una coltre di ricatti, più o meno velati, la verità e la ricerca della giustizia. E soprattutto a tentare di spacciare il regime di Al-Sisi come una moderna democrazia. The story of Regeni, che su YouTube ieri sera conteggiava circa 100 mila visualizzazioni, arriva proprio alla vigilia dell’udienza preliminare per i quattro agenti dei servizi segreti egiziani (il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) per i quali la procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio con differenti capi d’imputazione. Udienza che però ieri è stata rinviata al 25 maggio per impedimento (Covid) di uno dei difensori d’ufficio degli indagati. Il video - in arabo con i sottotitoli in inglese e in un italiano pessimo e sgrammaticato, martellante colonna sonora da thriller anni ‘80, attore molto somigliante a Giulio Regeni - ripropone vecchie tesi, già avanzate molte volte dall’omicidio del 2016 ad oggi, e già ampiamente smascherate. La principale è che il ricercatore non fosse tale (“le sue presunte ricerche”) ma piuttosto una spia dei Fratelli Musulmani, “abituato a scomparire in modo misterioso” come “nell’ottobre 2015 in Turchia”. E che chi lo ha ucciso (“ignoti”) avesse tra gli altri scopi quello di incrinare i buoni rapporti tra Italia ed Egitto, e magari boicottare progetti “importanti” come quelli dell’Eni e altri interessi economici che i due Paesi hanno in comune. Nel filmato vengono intervistati l’avvocato Ismail, il capo sindacalista degli ambulanti che ha denunciato Regeni, Adballah, il generale Elmakzahy, ex assistente del ministro dell’Interno egiziano, l’ex ambasciatore del Cairo a Roma Rashid e, da parte italiana, l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta, il senatore di Fi Maurizio Gasparri, l’ex capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare Leonardo Tricarico e il giornalista Fulvio Grimaldi. È quest’ultimo, quello di sicuro meno “mal interpretato”: gli altri intervistati italiani si sono difesi parlando di “strumentalizzazioni”, o da parte degli autori del video o da parte di chi ieri ha alzato la voce contro l’”ignobile operazione”. Fin dai primi minuti del “documentario” Grimaldi infatti spiega che l’Università di Cambridge, per la quale Regeni stava svolgendo la ricerca, è stata “fondata da un ebreo tedesco, Kurt Hahn” che l’ha forgiata “un po’ sul tipo gioventù nazista”, come “ha fatto con altre scuole che ha chiamato del “Mondo unito”, tutte indirizzate a formare agenti dei servizi segreti”. E così via di questo tenore. Tricarico e Gasparri supportano invece gli “infiniti punti interrogativi” che ci sarebbero nel rapporto tra i Fratelli Musulmani e la tutor di Regeni a Cambridge, Maha Abdel Rahman. “Non si è indagato abbastanza” su quel fronte, sostiene il generale italiano che chiosa: “Se fosse confermata la relazione con i Fratelli musulmani, c’è da giustificare la reazione di Al-Sisi”. Mentre Gasparri si schiera direttamente contro i magistrati italiani (proprio lui), annunciando la richiesta di “un’indagine parlamentare sulla Procura di Roma”. Nel video infatti il generale Elmakrahy insinua che il modo di lavorare dei pm italiani non sia all’altezza della situazione, e spiega che mentre la procura egiziana “conduce direttamente le indagini”, quella italiana “delega la polizia”. Secondo il funzionario egiziano, la procura cairota ha inviato 28 richieste di documentazione a Roma e se ne è viste rifiutare 12, mentre il pm Colaiocco, titolare del fascicolo, “ha inviato 60 richieste di documentazione e il Cairo ha risposto a 44 di esse”. Soprattutto - sottolinea - quello che l’Egitto vorrebbe sapere e che l’Italia non gli concede di sapere sono i nomi dei testimoni oculari che hanno riferito di aver visto Regeni mentre veniva torturato. Dal canto suo, la ministra Trenta si spinge un po’ troppo in là quando dice: “Noi abbiamo fiducia che l’Egitto sia un Paese che rispetta i diritti umani e che stia lavorando per assicurare verità e giustizia”. “Sono stata contattata dal sig. Mahmoud Abd Hamid che si è presentato come rappresentante dell’emittente araba Al Arabiya in Italia - ha spiegato ieri su Fb Trenta - per un film documentario sui rapporti diplomatici ed economici fra Italia ed Egitto. Se avessi saputo che la mia intervista sarebbe finita in un documentario che considero vergognoso e inaccettabile, naturalmente non avrei mai dato il mio consenso”. Anche Tricarico prende le distanze dal video: “Le mie parole, che sottoscrivo punto per punto, sono state rese funzionali alle tesi del filmato che io non condivido”. L’aviatore ha riferito di essere stato “intervistato per circa un’ora, un mese fa, da un giornalista egiziano che si è presentato come Khalifa Mohamed e ha detto di lavorare per Al Jazeera e Al Arabiya. Ho sostenuto che la politica estera di un Paese deve essere la sintesi degli interessi nazionali e non essere ostaggio di un singolo caso, per quanto doloroso”. Gasparri invece arriva a minacciare querela contro Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione d’inchiesta sulla morte di Regeni, che ha bollato il filmato come “l’ennesimo inaccettabile tentativo di depistaggio” e ha giudicato “molto grave che esponenti italiani, politici e militari, si siano prestati a questa operazione ignobile”. Egitto. Arrestata l’intera famiglia, aveva denunciato lo stupro del figlio in carcere di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 aprile 2021 Arrestati per aver denunciato pubblicamente la violenza sessuale subita da un loro familiare, prigioniero politico egiziano. È successo alla famiglia al-Shweikh, al padre, la madre e la sorella di 18 anni di Abdelrahman lo scorso lunedì. Sono stati portati via dalla polizia egiziana e condotti nella sede dei servizi di sicurezza della città di Minya. A denunciarlo è stato Omar al-Shweikh, fratello del detenuto, su Facebook. La vicenda è iniziata il 6 aprile scorso: la madre di Abdelrahman riceve una lettera dal figlio, fatta uscire clandestinamente dal carcere in cui è detenuto per aver preso parte a delle manifestazioni. Nelle righe che legge trova torture e abusi: “Madre mia, ho esitato a lungo prima di scriverti queste parole perché la cosa peggiore che poteva accadermi in carcere è successa il 6 aprile. Non è stata semplicemente tortura, è stata una violenza sessuale che mi ha distrutto mentalmente e mi ha fatto odiare me stesso”. Nella lettera il giovane racconta di aver litigato con un altro detenuto, di essere stato preso dalle guardie carcerarie, bendato, spogliato e stuprato “in ogni modo possibile”: “Non mangerà né berrò fino a morire”, conclude il giovane. La donna ha subito denunciato l’accaduto: prima alla prigione, poi alla procura di Stato di Minya, infine in un video pubblicato sui social. La risposta delle autorità è arrivata a stretto giro ed è stata la repressione: il padre, la madre e la sorella di Abdelrahman sono stati arrestati tre giorni fa, a ulteriore prova del meccanismo di omertà e mancata punizione dei responsabili istituzionali di violenze e abusi, sistema piramidale di protezione di ogni singolo ingranaggio del regime. Gli arresti hanno provocato la reazione degli utenti dei social network che hanno lanciato appelli per il loro rilascio. La dinamica ricorda da vicino quella di tante famiglie punite per aver chiesto giustizia. Il caso più celebre, per i suoi stessi protagonisti, noti attivisti egiziani, è quello della famiglia del blogger Alaa Abdelfattah: a marzo dello scorso anno la madre e matematica Laila Soueif, la sorella biologa e attivista Mona Seif e la zia e scrittrice Ahdaf Soueif furono arrestate per aver manifestato di fronte al carcere dove è detenuto Alaa per le precarie e pericolose condizioni in cella a seguito dello scoppio dell’epidemia di Covid-19. L’Egitto resta il luogo che raccontiamo ormai da anni, una macchina istituzionalizzata di oppressione che travolge un’intera popolazione. Nelle carceri i prigionieri politici non si contano più, per lungo tempo se ne sono stimati 60mila, ma ora c’è chi dà un bilancio quasi doppio. Tra loro anche lo studente Patrick Zaki. Per lui in questi giorni c’è stata una nuova mobilitazione in Italia, stavolta “locale”: tanti comuni, da Lecce a Udine, da Procida a Pisa, da Cinquefrondi a Gagliano Aterno, gli hanno conferito la cittadinanza onoraria, in attesa che lo Stato gli riconosca quella italiana. Russia. Navalny irriconoscibile in tribunale: “Senza vestiti sembro uno scheletro” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 30 aprile 2021 Il leader dell’opposizione al governo Putin aveva iniziato uno sciopero della fame il 31 marzo che è stato sospeso il 23 aprile. Per ordine della procura di Mosca sospese le attività del suo network di attivisti. È un Alexsej Navalny irriconoscibile quello che appare in un breve collegamento video dal carcere di Pokrov durante il processo al tribunale distrettuale Babushkinsky di Mosca che lo vede accusato di diffamazione di un veterano: “Ieri mi hanno portato in sauna per farmi avere un buon aspetto. Se mi tolgo i vestiti ho un pessimo aspetto, come uno scheletro”, ha detto il leader dell’opposizione russa secondo Radio Eco di Mosca. L’attivista aveva iniziato lo sciopero della fame in carcere il 31 marzo per chiedere cure mediche adeguate per il dolore alle gambe e alla schiena. Il 23 aprile, però, aveva annunciato la fine graduale dello sciopero dopo che era stato permesso a medici indipendenti di esaminarlo. L’annuncio - Intanto l’opposizione è costretta a fare un passo indietro. Leonid Volkov, uno dei principali alleati di Navalny, ha annunciato su internet lo scioglimento della rete degli uffici dell’oppositore russo in carcere. La notizia arriva dopo che la procura di Mosca ha ordinato di sospendere le attività degli uffici: un network di attivisti che copre praticamente tutta la Russia. “Purtroppo lavorare in tali condizioni è impossibile. Stiamo ufficialmente sciogliendo la rete degli uffici di Navalny”, ha detto Volkov alla testata Meduza. Gli uffici regionali di Navalny e il Fondo Anticorruzione dell’oppositore sono sotto processo per “estremismo” ma sono in tanti a ritenere queste imputazioni di matrice politica. Malawi. La Corte suprema abolisce la pena di morte Avvenire, 30 aprile 2021 La Corte suprema del Malawi ha dichiarato la pena di morte “incostituzionale” e ha ordinato una revisione delle sentenze per tutti coloro che rischiano di essere condannati alla pena capitale. La legislazione del Paese prevede questo tipo di condanna per reati di omicidio o alto tradimento, ma può anche essere applicata, insieme all’ergastolo, in casi molto gravi di stupro, rapine “violente” o violazione di domicilio. I giudici della Corte hanno accolto l’appello di un condannato per omicidio dichiarando la pena di morte “incostituzionale” e, di fatto, abolendola. Ora si attende la ratifica da parte del Parlamento. Nessuna esecuzione è stata effettuata in Malawi dal 1994, ovvero da quando il primo presidente democraticamente eletto, Bakili Muluzi, fortemente contrario alla misura, è entrato in carica. Secondo Amnesty International, l’ultima esecuzione di circa 20 prigionieri è stata messa in atto nel 1992. La Comunità di Sant’Egidio ha salutato con grande soddisfazione il pronunciamento della Corte Costituzionale del Malawi che il 28 aprile ha dichiarato incostituzionale la pena di morte. “Si tratta infatti di un atto determinante nel processo verso la sua abolizione in questo Paese dell’Africa australe”, afferma un comunicato di Sant’Egidio. Nei mesi scorsi, ricorda un comunicato, era stato consegnato al governo del Malawi un “documento di raccomandazioni”, redatto con il contributo decisivo di Sant’Egidio nella persona dell’avvocato Alexious Kamangila, in sinergia con i rappresentanti dell’associazione Reprieve e della World Coalition Against the Death Penalty. Il documento, sostenuto anche dall’”African commission on human and peoples right”, è risultato decisivo. “Questa azione di Sant’Egidio, in un Paese dove è presente da anni con numerose iniziative a favore della popolazione, si colloca all’interno del più ampio impegno della Comunità per la moratoria e l’abolizione della pena capitale, portato avanti dal 2005, insieme a quello per l’umanizzazione delle carceri. Un’attività che comprende una significativa sensibilizzazione della società civile anche sul tema della giustizia riabilitativa”, prosegue il comunicato. Sant’Egidio ricorda l’attivista Vera Chirwa, che in diverse occasioni prese parte ai convegni internazionali dei Ministri della Giustizia, promossi dalla Comunità sul tema dell’abolizione della pena di morte. “Lungo questi anni sono state portate avanti anche numerose azioni a favore di una riforma del sistema carcerario mentre è cresciuta una consapevolezza su questi temi attraverso la celebrazione annuale delle Città per la vita - città contro la pena di morte, movimento a cui aderiscono oltre 2.300 città nel mondo”, afferma il comunicato di Sant’Egidio.